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"COMUNISMO" n. 40 - giugno 1996
SECONDA GUERRA MONDIALE CONFLITTO IMPERIALISTA SU ENTRAMBI I FRONTI CONTRO IL PROLETARIATO E CONTRO LA RIVOLUZIONE
(Rapporto esposto alle riunioni di Partito del settembre 1995, gennaio e maggio 1996).
IL PROLETARIATO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE
(Da Battaglia Comunista, nn. 28, 29, 31, 32 / 1947, 2, 5, 11 / 1948).
DOCUMENTI e MANIFESTI della Frazione di sinistra e del Partito Comunista Internazionalista dal novembre 1943 al settembre 1945.

 
 
 



SECONDA GUERRA MONDIALE CONFLITTO IMPERIALISTA SU ENTRAMBI I FRONTI CONTRO IL PROLETARIATOE CONTRO LA RIVOLUZIONE
(Rapporto esposto alle riunioni di Partito del settembre 1995, gennaio e maggio 1996)
 

Indice :


 
 



Dalla fine ufficiale del secondo conflitto mondiale la guerra non è mai venuta meno: Corea, Medio Oriente, India, Vietnam, Iraq... l’elenco sarebbe interminabile. Da cinque anni le armi sparano anche in Europa nello scontro, che vorrebbero far passare come cantonale, della ex Iugoslavia, mentre in realtà si dimostra voluto, condotto e controllato dalle grandi potenze, in un’area ove si apre un vuoto o si sovrappongono le influenze e le pretese contrapposte di Germania, Russia, Usa e minori europei. I grandi e potenti Stati capitalistici non vogliono, né del resto potrebbero, fermare le brigate più o meno regolari che vi si massacrano a vicenda e più che altro massacrano i civili. Sono questi Stati, tutti indistintamente interessati al mantenimento dell’instabilità della regione, a rifornire di armi i contendenti, attenti a mantenere quell’equilibrio delle forze che assicuri che nessuna prevalga. Si spartiscono le quote di controllo della fatta defungere Iugoslavia come usano fare con le quote dei pacchetti azionari delle loro società anonime. Per i borghesi la guerra è un investimento come un altro.

In quest’opuscolo riferiamo la nostra originale lettura della seconda guerra, che per noi non fu nazista e fascista da un lato e antifascista dall’altro bensì imperialista e antiproletaria da entrambi e come tale da entrambi i lati da combattere da parte delle sane forze proletarie e comuniste. Questa nostra condanna è vecchia cinquanta anni, come documentiamo nell’appendice, nulla ha a che fare coi revisionismi inconcludenti o partigiani alla moda. La guerra balcanica di oggi riproduce, in scala ridotta, per il momento, quella stessa criminale falsificazione nei confronti delle classi sottomesse che, dopo una sottaciuta ma coraggiosa e prolungata opposizione, sono state avviate al macello sotto mentite bandiere per l’interesse dei propri aguzzini.

Nella ex Iugoslavia e in tutti i paesi, come prima e durante la seconda guerra, oggi ancora manca al proletariato il proprio partito comunista, l’unico, per determinanti storiche materiali, che possa raccogliere e coerentemente indirizzare l’istintivo rifiuto dei lavoratori alla guerra dei padroni verso la distruzione rivoluzionaria ad un tempo della società e della guerra capitaliste.

Il comunismo rivoluzionario marxista, rintracciato nella sua coerenza di dottrina e di partito fin da metà dell’ottocento al di sopra della serie dei suoi corrompimenti, inserisce il fenomeno delle guerre all’interno della dinamica generale della lotta storica fra le classi. La guerra non è, per Marx e per noi, il prodotto di particolari crudeltà o attitudini di capi, popoli o nazioni che verrebbero colpevolmente a lacerare la continuità di uno sviluppo pacifico e progressivo dell’umanità, ma espressione di forze economiche delle quali è da tener conto per un giudizio delle reali forze storiche che la determinano, il senso delle quali solo la spiega e solo dà fondamento agli atteggiamenti che il partito comunista assume nei suoi confronti.

Vi sono state guerre rivoluzionarie, in epoca recente quelle di indipendenza, inscrivibili nel ciclo di lotte di borghesi e proletari uniti contro le reazionarie autocrazie imperiali. Quella fase si chiude in Europa al 1871 quando, formati e consolidati ormai tutti i maggiori Stati nazionali cioè borghesi, del vecchio continente, la Comune di Parigi, prima espressione di dittatura statale del proletariato contro la già alleata borghesia, vede, nell’espressione di Marx, tutti gli Stati borghesi confederati contro la classe operaia. Da quel momento in Europa non assistiamo più a guerre fra Nazioni, per obiettivi di formazione o consolidamento nazionale, ma a guerre fra Stati per nessun altro scopo che quello di strapparsi a vicenda i mercati e per la sottomissione militare e finanziaria di vaste regioni; il fine non è quello di liberare energie da vincoli ancestrali, al contrario di impedire o ritardare il progresso economico e sociale.

Le borghesie di tutti i paesi non hanno più alcun obiettivo storico, la loro azione politica, in pace e in guerra, è priva ormai, come di qualsiasi principio, di un piano strategico: il capitalismo mondiale non ha più che una strategia, la difesa dello stato di cose presente. Poiché l’unica minaccia alla conservazione della società del profitto e del denaro proviene dallo scendere sul terreno rivoluzionario del proletariato, minaccia oggi solo potenziale ma non per questo meno reale, la strategia di tutti gli Stati si riduce, in pace o in guerra, in una sistematica guerra permanente contro il proletariato.

Le guerre imperialiste, inevitabili per la distruzione dell’accumulo di troppa ricchezza generata dall’anarchico modo di produzione di merci e dalla sua folle crescita esponenziale, viene condotta sì fra opposti fronti di Stati, moderni proprietari di schiavi, per ripartirsi fra di loro, con la forza, il prodotto di quegli schiavi; ma ovvio interesse comune ai contendenti è che gli schiavi non si ribellino, nemmeno quelli del nemico perché il contagio potrebbe facilmente estendersi ai propri. Le guerre contemporanee vengono quindi condotte alfine economico di macellare forza lavoro in soprannumero – che per il capitale è soltanto un costo e che potrebbe portarsi sul terreno del comunismo – sia sui fronti sia facilmente mascherando come azioni militari contro il nemico bombardamenti spietati sui quartieri operai; assicurato è anche il fine, politico di scompaginare le file proletarie, ubriacarle nella propaganda bellicista e patriottarda, spezzare la solidarietà internazionale del proletariato, sottoporre il partito comunista e le organizzazioni dei lavoratori alle leggi eccezionali del tempo di guerra.

Già due guerre hanno dato prova della bestialità borghese nel perseguire il fine della propria conservazione a prezzo del sangue di molte decine di milioni di proletari, una ecatombe effettuata secondo un piano, come in questo opuscolo dimostriamo per la seconda guerra nel teatro italiano, bastando i documenti lentamente sfuggiti in cinquanta anni alla censura di vinti e vincitori: una intesa permanente questa fra le cancellerie di Berlino, Roma, Londra, Washington, Mosca...

L’indirizzo del partito comunista di fronte alle guerre imperialiste è univoco e codificato in memorabili battaglie sia contro il nemico e sia contro i traditori del nostro movimento che nella prima come nella seconda guerra hanno calpestato ogni principio di classe facendosi volontariamente propagandisti della carneficina e coscrittori ideologici degli operai spingendoli alle tradotte, alla disciplina delle trincee e a sparare sui fratelli di classe oltre il fronte. Per il comunismo incorrotto, come affermarono Lenin e le sinistre della Seconda Internazionale contro il social-sciovinismo nella prima guerra e come ripeterono i nostri compagni della Sinistra contro il mito filo-alleato della guerra di liberazione e antifascista nella seconda, le guerre imperialiste sono inevitabili, una necessità economica del capitalismo: chi accetta il capitalismo deve, accettare anche le sue guerre.

Tutte le variopinte componenti della grande e della piccola borghesia più o meno illuminata viene un momento nel quale sono inesorabilmente attratte dalla guerra e la appoggiano ben sapendo che solo gettando nella fornace del conflitto anche qualcuno dei propri figli può sopravvivere la loro classe. E i loro conti in banca. Conferme storiche non mancano. Chi, come il movimento pacifista borghese, invita quindi i lavoratori a unirsi ad una parte dei borghesi «per la pace» li avvia a sicura sconfitta anche limitatamente alfine di evitare l’orrore della guerra moderna. La parola che è troppe volte mancata al proletariato è GUERRA ALLA GUERRA – CONTRO LA GUERRA FRA GLI STATI GUERRA FRA LE CLASSI – CONTRO LA GUERRA RIVOLUZIONE. Il proletariato è l’unica classe che può impedire, o far cessare, la guerra abbattendo il potere degli Stati capitalistici ed iniziando la propria di guerra per la mondiale repubblica dei lavoratori.

Questo indirizzo rivoluzionario, unico emancipatore di una umanità trasformata in oggetto di compravendita da parte delle incontrollabili forze del Capitale, presuppone che il proletariato sfugga all’overdose di droghe che gli vengono propinate dai partiti falsamente operai e comunisti e dai sindacati di regime che del pacifismo interclassista, della democrazia e della fedeltà alla patria hanno fatto loro sacre leggi, e si riorganizzi in veri sindacati combattivi e fedeli alla classe e ritorni al suo originario programma internazionalista e al partito comunista rivoluzionario. Primo passo su questa strada sarà lo smascherare il turpe mito della Resistenza e denunciare la collaborazione che lo stalinismo ha offerto della classe operaia alla trascorsa guerra imperialista.
 
 
 
 
 




La Sinistra comunista contro la Prima
e contro la Seconda Guerra imperialista
 

Le premesse per lo scatenamento della seconda carneficina imperialistica erano poste già dalla fine della prima guerra mondiale. I trattati iugulatori di Versailles e S. Germain, con lo smembramento degli Imperi Centrali e con le condizioni economiche e militari imposte agli sconfitti, dovevano per forza essere rimessi in discussione non appena il capitalismo di questi Stati, in particolar modo il tedesco, avesse ripreso il suo vertiginoso ritmo di accumulazione ed avesse, di conseguenza, avuto la necessità di rompere gli angusti confini entro i quali le potenze vincitrici lo avevano per forza rinchiuso.

La rimessa in discussione di questi trattati però non poteva essere fatta per via pacifica, ma solo tramite un nuovo, più sanguinoso, macello del proletariato.

Mentre il capitalismo, già prima che le bocche da fuoco cessassero di tuonare, organizzava il successivo scontro armato, dall’altro lato della barricata di classe il proletariato tentava di porre fine ad ogni guerra lanciando la parola d’ordine della fraternizzazione proletaria tra i contrapposti eserciti e della trasformazione della guerra fra Stati in guerra di classe.

La rivoluzione vittoriosa in Russia impose agli Stati borghesi la cessazione del conflitto molto tempo prima di quanto avrebbe dovuto durare secondo i loro piani e le loro necessità distruttive. Questo perché il pericolo che essi ora correvano non era quello di vedere gli eserciti nemici che marciavano nelle varie Capitali, cosa che avrebbe potuto danneggiare le Case regnanti, le caste militari, gli apparati politici, ma non certo il modo di produzione capitalistico; il vero pericolo che si affacciava all’orizzonte borghese era la rivoluzione proletaria. Di fronte a questo pericolo immediatamente i borghesi riscoprirono la loro solidarietà di classe e l’aiuto reciproco per soffocare l’insurrezione proletaria ovunque essa avvenisse.

Il capitalismo però, oltre al suo apparato repressivo, oltre all’aiuto che le varie borghesie, «amiche» e «nemiche», erano in grado di concedersi in nome della salvezza comune, oltre a ciò il capitalismo internazionale possedeva una ulteriore arma, la più raffinata e quindi la più micidiale: l’arma del tradimento operato dall’opportunismo socialdemocratico.

L’importanza determinante della socialdemocrazia era stata già sperimentata nel corso del primo massacro imperialistico quando la Seconda Internazionale ribaltò completamente il suo piano politico secondo cui lo scoppio della guerra fra gli Stati avrebbe rappresentato il momento migliore per scatenare in tutti i paesi l’insurrezione di classe e l’assalto al potere borghese, e si accorse, al contrario, che non era vero che il proletariato non avesse nulla da perdere se non le proprie catene, secondo quanto recita il Manifesto, ma molti «patrimoni» da salvare: la libertà e l’indipendenza della patria, il contenuto democratico della rivoluzione borghese, minacciati dal pericolo di un ritorno al Medio Evo dispotico, assolutista, teocratico, feudale.

L’opportunismo della Seconda Internazionale, tuttavia, quando gettò il proletariato nella carneficina del 1914/18, a parole, non sconfessò le finalità socialiste, disse solo che questi obiettivi dovevano essere temporaneamente accantonati perché, al momento, vi erano più urgenti scadenze; alla borghesia sarebbe stata concessa solo una tregua temporanea e, finita la guerra (che Mussolini aveva definita addirittura «rivoluzionaria») la lotta di classe e l’internazionalismo avrebbero ripreso il loro posto per il conseguimento dell’emancipazione proletaria.

Ma questo non poteva avvenire perché non si può passare con la massima indifferenza dal campo di una classe a quello dell’altra, ed infatti non ci sarebbe ragione di aiutare la borghesia a sopravvivere quando poi la si volesse strozzare. È chiaro che gli «intenti socialisti» facevano parte dell’apparato di mistificazione senza il quale non sarebbe stato possibile fare presa all’interno della classe operaia.

Appena finita la guerra il ritorno ai principi dell’«internazionalismo socialista» furono espressi, a seconda dei casi e delle necessità borghesi, o attraverso la feroce repressione del proletariato o nella consegna di questo, disarmato, nelle mani della reazione legale ed illegale dello Stato.

La degenerazione della rivoluzione russa e dell’Internazionale Comunista, avvenuta alla morte di Lenin, rappresenta ancora elemento di disorientamento nelle mani della controrivoluzione.

La Frazione della Sinistra comunista, nell’emigrazione, fin dal suo sorgere nel 1928 pose la massima attenzione al problema della guerra ed alla necessità della ricostruzione dell’organizzazione politica rivoluzionaria del proletariato per contrapporsi a quello che sarebbe stato il secondo confronto armato mondiale. Mobilitazione antimilitarista che avrebbe dovuto procedere di pari passo con la preparazione dell’insurrezione rivoluzionaria per la presa del potere: unico mezzo per prevenire e scongiurare la guerra.

Quindi la Frazione, alla luce della dottrina marxista e della conferma dei fatti, denunciò instancabilmente il vero significato militarista e guerrafondaio di qualsiasi movimento «pacifista»: sia quelli promossi dai socialdemocratici e dagli stalinisti, sia quelli promossi dagli Stati democratici, fascisti e sovietici che, con i loro accordi di pace, con le loro conferenze per il disarmo, con la Società delle Nazioni (alla quale l’Unione Sovietica degenerata si affrettò ad aderire) altro non facevano che preparare gli schieramenti, i termini ed i tempi del nuovo bagno di sangue proletario.

La rivoluzione proletaria che, a dispetto del tradimento socialdemocratico, era tuttavia scoppiata, e che fu rivoluzione internazionale anche se solo in Russia fu possibile mantenere il potere conquistato, aveva dato una così vigorosa spallata a tutta l’impalcatura politica borghese che costrinse quest’ultima ad organizzare forme nuove di dominio e di deviazione del movimento rivoluzionario di classe.

I partiti della Seconda Internazionale erano riusciti a dilazionare il movimento insurrezionale per il tempo necessario alla borghesia di riprendersi dallo sgomento e di rinsaldare il suo potere; però questi partiti avevano fatto il loro tempo come il loro tempo avevano fatto gli ordinamenti politici del liberalismo democratico.

Nei focolai dove più acuta si faceva la lotta sociale, la democrazia parlamentare e socialisteggiante passò all’azione diretta senza badare a quisquilie legali e, sbarazzandosi degli ingombranti ed inutili parlamenti, passò democraticamente (si ricordi questo aspetto caratteristico sia del fascismo sia del nazismo) alla dittatura di classe. Ed il fascismo nei suoi contenuti e nei suoi metodi, anche se in pochi paesi vestì le camicie nere o brune, venne unanimemente adottato da tutte le nazioni civili ed industrializzate: Stati Uniti, Inghilterra, Francia, ecc.

Se gli Stati capitalistici dovevano assumere una veste diversa da quella usuale, anche l’opportunismo dovette adattarsi alle nuove esigenze e lo stalinismo non si limitò a disarmare moralmente e materialmente la classe operaia perché venisse docilmente inquadrata negli eserciti borghesi, lo stalinismo fece qualche cosa di più: organizzò le armate «proletarie» sotto la bandiera rossa perché scannassero altri proletari e fugassero il pericolo della rivoluzione. Il primo esperimento in questo senso venne compiuto in Cina nel 1927 ed anni successivi, per perfezionarsi poi durante la guerra in Spagna.

Il movimento di classe brutalmente represso nei paesi a regime fascista, aggiogato agli interessi borghesi in nome dell’antifascismo in quelli a parvenza democratica, disperso il partito rivoluzionario e sterminati i suoi capi più rappresentativi ad opera dello stalinismo, asservita agli interessi dello Stato russo l’ex Internazionale Comunista, l’imperialismo internazionale aveva ormai via libera per scatenare un nuovo bagno di sangue rigeneratore a seguito del quale tutti quanti, indistintamente, sarebbero risultati vincitori perché l’unico perdente era, ancora una volta, il proletariato mondiale.

Di fronte a questa immane debacle solo la piccola organizzazione della Sinistra tenne alto il vessillo del comunismo rivoluzionario, quello di Marx, di Lenin e di altri innumeri anonimi compagni e, se non poté influire nel corso degli eventi, non si stancò di richiamare il proletariato al suo vero programma di emancipazione e di pace che può essere sintetizzato in: lotta contro la solidarietà nazionale per la solidarietà di classe, contro tutte le guerre per la rivoluzione sociale e l’instaurazione della dittatura del proletariato.

La nostra «schematica» posizione basata sulla lotta di classe, intransigenza rivoluzionaria, rifiuto di ogni tipo di collaborazione, senza lasciarci deviare dalle situazioni contingenti, viene spesso accusata di essere sterile e negativa indifferenza teorica e pratica. Scrivemmo su "Prometeo" del 3 ottobre 1946: «È mai possibile a marxisti, ossia sostenitori dell’analisi scientifica più spregiudicata e libera da dogmi applicata ai fenomeni sociali e storici, asserire che sia proprio indifferente, per tutto lo svolgersi del processo che condurrà dal regime capitalistico a quello socialista, la vittoria o la sconfitta, ieri degli Imperi Centrali, oggi del nazi-fascismo, domani della plutocrazia americana o del totalitarismo pseudo-sovietico? Con questa tesi insinuante l’opportunismo ha sempre iniziate e finora vinte le sue battaglie. Ora non è affatto vero che caratterizza i comunisti della sinistra l’ignoranza voluta di queste alternative e del rifiuto della più sottile analisi di quelle successive e complicate vicende e rapporti della crisi capitalistica (...) Noi affermiamo senz’altro che alle diverse soluzioni non solo delle grandi guerre interessanti tutto il mondo, ma di qualunque guerra, anche più limitata, hanno corrisposto e corrisponderanno diversissimi effetti sui rapporti delle forze sociali in campi limitati e nel mondo intero, e sulle possibilità di sviluppo delle azioni di classe. Di ciò hanno mostrato l’applicazione ai più diversi momenti storici Marx, Engels e Lenin, e nella elaborazione della Piattaforma del nostro movimento se ne deve dare continua applicazione e dimostrazione (...) Quando anche le due soluzioni del conflitto siano apportatrici di diverse possibilità, sicuramente prevedibili e calcolabili per il movimento, la stessa utilizzazione di queste possibilità non può venire assicurata che evitando di compromettere nella politica dell’infeudamento opportunista, le energie principali di classe e le possibilità di azione del Partito (...) In conclusione, ammesso per un momento che «le Carte», i parlamenti, le leggi liberali e simili armamentari, che nella fase modernissima della storia appaiono vuote parole ormai non solo all’accorto marxista ma al più ingenuo osservatore, possano per avventura in dati settori di tempo e di spazio farci comodo, lasceremo dialetticamente che altre forze e altri partiti lottino per esse, e ci dedicheremo incessantemente a svergognare e sabotare quelle finalità ed i loro paladini».

Il testo che viene pubblicato in questo numero della rivista è la continuazione degli studi precedentemente apparsi a puntate e sotto il titolo «Decennio di preparazione della seconda guerra mondiale», ai quali rimandiamo il lettore interessato. Il fatto di avere limitato l’attuale indagine soltanto ad alcuni aspetti della campagna d’Italia è dipeso semplicemente dal non avere, almeno per ora, a disposizione sufficiente materiale di propaganda, agitazione e lavori teorici prodotti dalla Sinistra in altri paesi europei. L’unico documento completo che possediamo e solo di seconda mano, il Manifesto al proletariato di Europa, viene riprodotto in Appendice. Tuttavia possiamo in tutta certezza affermare che quanto scritto e dimostrato per il teatro di guerra italiano può essere esteso a tutto quanto lo sviluppo della guerra, cioè: coalizione interimperialista contro la classe lavoratrice mondiale come sua essenza principale. Conforta questa nostra tesi storica generale la ripubblicazione qui del lavoro di partito che apparve a puntate sull’allora nostro giornale, "Battaglia Comunista", tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948 e che è da considerare parte integrante dell’attuale studio.

La rilettura del testo del 1947 dimostra ancora una volta la coraggiosa posizione della Sinistra che non ha certo atteso gli anni del revisionismo storico, ma nel bel mezzo dell’ubriacatura democratica e resistenziale poneva la questione della guerra in tutta la sua cruda verità di classe senza nulla concedere, nemmeno quel poco che, senza uscire dai limiti dell’ortodossia, avrebbe potuto renderci più accetti e avrebbe forse potuto fare affluire tra le nostre file un numero maggiore di elementi, ma indebolito l’efficacia del già previsto assai lungo nel tempo lavoro del partito.
 
 
 


Le organizzazioni della Sinistra disperse ma non vinte durante la Seconda Guerra
 

Alla fine del 1943, nella fatiscente Repubblica Sociale Italiana, venne istituita una «Segreteria Speciale» che, tra le altre sue funzioni, aveva quella della raccolta, catalogazione e studio di tutta la stampa clandestina. Periodicamente venivano stilati rapporti sull’argomento. Nel primo di questi rapporti, datato 9 marzo 1944, possiamo leggere: «PROMETEO - "Organo del Partito Comunista Internazionalista". Reca sulla testata. "Anno 22, serie III: Sulla Via della Sinistra". Unico giornale indipendente: Ideologicamente il più interessante e preparato. Contro ogni compromesso predica un comunismo puro, indubbiamente trotzkista (...) Combatte la guerra sotto qualsiasi aspetto, democratico, fascista o staliniano (...) Questo atteggiamento è chiaramente esposto nell’articolo di apertura del 1° novembre 1943, `La Nostra Via’, in cui approfondiva, al lume della dottrina leninista la natura del presente conflitto, e definiva la posizione di entrambi i gruppi belligeranti come `facce diverse di una stessa realtà borghese’ (...) Tale atteggiamento di "Prometeo" non poteva mancare di suscitare la violenta reazione del Partito Comunista Italiano e in particolare modo di Ercoli...»

In un successivo rapporto l’anonimo relatore scriveva. «La stampa sovversiva clandestina preferisce limitarsi ad un atteggiamento di bassa invettiva, salvo rare eccezioni (ad esempio "Prometeo"), non essendo troppo di suo gusto la polemica dottrinale». Nel rapporto n.3 del maggio 1944, si legge inoltre. «PROMETEO (...) come già fu detto è il più indipendente dei giornali pervenuti nelle nostre mani, nonostante le accuse dei fogli ispirati da Togliatti (...) Sarebbe interessante conoscere quale seguito effettivo abbia il movimento di "Prometeo". È da ritenere che sia scarso, per la sua posizione intransigente troppo in contrasto col dilagante opportunismo delle masse antifasciste, frutto della viltà morale e fisica di cui gli avvenimenti del luglio e del settembre non furono che le manifestazioni più appariscenti».

A noi i riconoscimenti da parte del nemico non interessano affatto, tuttavia è molto significativo che, nelle sue relazioni segrete, esso riesca a individuare il partito di classe. D’altronde gli stessi carognoni stalinisti, che si accanivano tanto ferocemente contro i compagni della Sinistra, erano dello stesso avviso, e, proprio per l’esatta conoscenza delle nostre posizioni e della nostra pericolosità, anche se non immediata, collaboravano con l’`odiato fascista’ per eliminare sia la nostra influenza, sia i nostri compagni.

Nei numerosi e circostanziati rapporti esposti alle riunioni generali del partito abbiamo dimostrato come la Frazione della Sinistra Italiana avesse immediatamente dichiarato l’inevitabilità della futura guerra interimperialista e, attraverso le analisi economiche, politiche, sociali e storiche, avesse anche con grande precisione previsto quali sarebbero stati i futuri schieramenti bellici.

Non abbiamo mai preteso di attribuire attestati di infallibilità alla Frazione (l’infallibilità non la rivendichiamo nemmeno per il Partito, non siamo papisti). Però riconosciamo continuità di indirizzo rivoluzionario, sia alla Frazione, sia ai vari gruppi, sia a singoli compagni che di fronte alla tragedia della controrivoluzione staliniana, del nazi-fascismo, della ubriacatura democratica, della guerra imperialista seppero tenere come punto di riferimento la Rivoluzione d’Ottobre, Lenin, il partito di Livorno e la Sinistra Comunista italiana. Chi ci viene a parlare delle previsioni errate, delle dispute interne, delle smagliature tattiche, degli errori commessi da alcuni nostri compagni ci fa solo sorridere.

C’è chi ad esempio, ci accusa di esserci di fatto dissolti fin dall’inizio della guerra, mentre avevamo «largamente i mezzi per assicurare la (nostra) continuità politica». Forse questi signori che hanno una concezione molto teatrale della rivoluzione, sognano bandiere rosse sventolanti nei campi di battaglia ed eroici internazionalisti che offrono sprezzantemente il loro petto ai plotoni di esecuzione. No, chi dai compagni di Sinistra si aspettava teatralità personalistica si è sbagliato di grosso, essi avrebbero compromesso il futuro della organizzazione se si fossero abbandonati a simili comportamenti. Tuttavia, non appena le condizioni lo permisero, i nostri compagni riannodarono immediatamente i contatti e, rischiando la pelle, esposero ai proletari in grado di udire la loro voce le posizioni tipiche del comunismo rivoluzionario, dell’avversione alla guerra, della fraternizzazione fra proletari in divisa, della necessità di trasformare in guerra fra le classi la guerra fra gli Stati.

Nel 1942, in Francia, si formò un «Nucleo della Sinistra Comunista» con queste nette caratteristiche: 1) Rifiuto della difesa dell’URSS «Lo Stato sovietico, strumento della borghesia internazionale, esercita una funzione controrivoluzionaria. La difesa dell’URSS in nome di quello che resta delle conquiste di Ottobre, deve dunque essere respinta per fare posto alla lotta senza compromessi contro gli agenti stalinisti della borghesia». 2) Equiparazione dei blocchi democratici e fascista. «La democrazia ed il fascismo sono due aspetti della dittatura della borghesia che corrispondono ai bisogni economici e politici della borghesia in fasi determinate». Ne deriva, quindi, che l’adesione alla guerra imperialista rappresentava «una frontiera di classe che separa ormai nettamente la Frazione da tutti gli altri partiti o gruppi che rappresentano in modo diverso i differenti interessi imperialisti controrivoluzionari».

Quasi contemporaneamente, nel Nord d’Italia, si costituiva il Partito Comunista Internazionalista sulla base di una piccola piattaforma nella quale erano però fissate le seguenti linee caratteristiche: 1) Denuncia della guerra come crociata ideologica; 2) Denuncia della degenerazione dello Stato Operaio e dell’Internazionale, quanto bastava per ricollegarsi alle posizioni del partito di Livorno e della Sinistra. Ed il collegamento con Livorno 1921, e con la Sinistra era riconoscibile anche dal nome scelto per il suo giornale: «PROMETEO». Nel secondo numero del giornale si afferma «Prometeo, che nella sua prima serie era stato il portavoce della Sinistra italiana in seno al giovane Partito Comunista d’Italia quale rivista teorica di educazione marxista sotto la guida della pattuglia di avanguardia che quel partito creò, ne tenne per qualche anno la direzione, e ne difese la purezza ideologica contro l’opportunismo delle frazioni di destra; che nella sua seconda serie è stato l’organo della frazione di sinistra del PCd’I, costituitasi a Pantin (Francia) nel 1928 per continuare dal di fuori l’opera di elaborazione teorica sulla scorta degli errori commessi e delle sconfitte patite dal proletariato di tutto il mondo, esce ora quale organo del Partito Comunista Internazionalista, erede diretto di quella tradizione e rivendicatore di Imola e di Livorno. Il suo compito è d’inserirsi nella spaventosa crisi da cui il mondo capitalista è sconvolto, col preciso intento di portare a termine il compito affidatogli dal proletariato italiano, di essergli guida sicura nelle battaglie sociali che si avvicinano, per la rivoluzione proletaria e comunista in Italia e nel mondo. «PROMETEO», nel cui nome rivive l’eroe mitologico incatenato sulle rocce del Caucaso per aver rubato agli dei e donato agli uomini il fuoco, rappresenta tutta una tradizione e tutto un programma: è l’organo della rivoluzione che si approssima, il giornale che i proletari italiani considereranno il loro» ("Prometeo", n.2, dicembre 1943).
 
 
 


25 luglio 1943
La borghesia licenzia Mussolini
e mitraglia gli operai in sciopero
 

Il 25 luglio 1943 con la seduta del Gran Consiglio Fascista e l’approvazione dell’o.d.g. Grandi, la borghesia italiana, per mezzo dello stesso fascismo, decretava la fine del regime mussoliniano ed il ritorno alla borghese legalità democratica.

Il Partito Comunista Internazionalista intervenne immediatamente per mettere in guardia il proletariato dal pericolo di abbandonarsi a troppi facili entusiasmi ed, in un suo documento, smascherava la manovra borghese del governo Badoglio: «l’esperimento Badoglio può essere definito come un tentativo borghese, poggiante sulla base conservatrice della monarchia, di risolvere il problema del fascismo e di una guerra in sommo grado impopolare, parando nello stesso tempo, col miraggio di un ritorno alle legalità costituzionali, la minaccia di un assalto del proletariato al potere. Si trattava di scindere le responsabilità della borghesia nel suo complesso e nella varietà delle sue istituzioni da quelle di un presunto `governo al di sopra delle classi’, di far lo scandalo intorno a un gruppo ristretto di uomini, affinché lo sdegno delle masse si riconcentrasse su di essi e soltanto su di essi, e non incidesse sulla maestà inviolabile delle istituzioni borghesi. Si gettò in pasto alla folla Mussolini, poi, a piccole dosi, il partito e i gerarchi maggiori, proprio perché, di giorno in giorno, le folle trovassero davanti a sé un nuovo piccolo bersaglio da colpire e non avessero mai a trovarsi faccia a faccia con il nemico fondamentale. Con la stessa astuzia si dosarono a poco per volta le rivendicazioni e le promesse, affinché raggiunto di colpo un regime di libertà costituzionali, il proletariato non fosse tentato a scavalcarlo. La grande borghesia cambiava pelo, ma non perdeva il vizio: ripetendo a rovescio l’esperimento del 1922, essa, che impotente a tenere nel quadro delle istituzioni democratiche l’ondata rivoluzionaria sprigionata dalla crisi dell’altro dopo guerra, aveva creato il fascismo, lo liquidava d’accordo ancora una volta con la monarchia, per le stesse ragioni. La manovra ebbe tanto più l’effetto sperato, in quanto le aveva preparato il terreno fra le masse la degenerazione del massimo partito operaio, il Partito Comunista Italiano, e la sua accesa campagna a favore del fronte nazionale. La borghesia non aveva che da far sue le parole d’ordine di unione antifascista lanciate dal centrismo e ottenere così alla dittatura militare monarchica un consenso di popolo. È vero che la guerra continuava e l’Asse rimaneva intatto, è vero che l’opera di risanamento costituzionale procedeva con estrema lentezza, ma, a giustificazione di questo ritardo nelle decisioni supreme, serviva lo spauracchio della invasione tedesca, alla quale non si poneva d’altronde nessun argine serio».

Manlio Morgani, il presidente dell’agenzia Stefani, venuto a conoscenza dell’arresto di Mussolini, corse a casa e si sparò alla tempia. Il duce, infatti aveva insegnato ai fascisti che «chi non è pronto a morire per la sua fede non è degno di professarla». Non sappiamo se classificare il Morgani come l’unico fascista «degno» o come l’unico fascista fesso, fatto sta che tutti gli altri si accorsero, di colpo, di essere stati, sempre, degli antifascisti viscerali e, a cominciare dal capo dell’OVRA, si misero a disposizione del governo Badoglio. Sintomatico esempio del voltagabbanismo italico fu l’edizione del Popolo d’Italia del 26 luglio. Questo numero di giornale, benché stampato ed impaginato non venne distribuito, rimase nei locali della tipografia. Ebbene, questo giornale che sotto la testata portava scritto «fondatore Benito Mussolini», che era proprietà di Benito Mussolini, che era diretto da Vito Mussolini, questo giornale, il 26 luglio, il giorno successivo all’arresto di Benito Mussolini, portava su tutta pagina il titolo seguente: NELL’ORA SOLENNE CHE INCOMBE SUI DESTINI DELLA PATRIA / BADOGLIO È NOMINATO CAPO DEL GOVERNO / DIMOSTRAZIONI PATRIOTTICHE IN TUTTA ITALIA / VIVA L’ITALIA! È inutile sottolineare che le «dimostrazioni patriottiche» altro non erano che dimostrazioni antifasciste. Nell’articolo si leggeva, tra l’altro: «Oggi più che mai occorre fermezza d’animo, armonia di sentimenti e sempre più tenace volontà di combattere. Nessuna parola, nessun gesto di dissenso, dedizione assoluta, collaborazione completa con le autorità. Questa è la parola d’ordine per tutti noi».

Il colonnello delle SS Dollmann racconta che al comando tedesco si attendevano che qualche fascista si mettesse a capo di una sollevazione filo-mussoliniana. «Fino alle 9 della sera von Mackensen (l’ambasciatore - n.d.r.) ed io aspettammo invano che i fascisti entusiasti convenissero all’ambasciata per consigliarsi e per procedere alla conquista di Roma alla testa della Divisione «M». Non spuntò un solo moschettiere, o un commissario, o agente di polizia: non spuntarono né Vidussoni, né Muti, né Scorza».

Carlo Scorza, segretario del PNF, sulla falsariga di Mussolini aveva proclamato che «chi non è disposto e pronto al sacrificio supremo non ha diritto di cittadinanza spirituale nel partito. Se riesce con ipocrisia e simulazione a permanervi, è un traditore». Appena due mesi prima aveva solennemente giurato: «qualunque cosa accada, in qualunque luogo, noi combatteremo con decisione, con accanimento, con furore (...) Se dovremo cadere, giuriamo di cadere in bellezza, con dignità, con onore». Scorza, già il 26 luglio, per cadere in bellezza, con dignità, con onore, si era messo a disposizione di Badoglio e, con una lettera scritta, aveva chiesto un incarico. «Testa, l’ex prefetto di Fiume e ultimo fiduciario speciale per la Sicilia (...) non si allontanava dall’anticamera di Badoglio e chiedeva urgentemente un posto. Finora Testa era ritenuto (...) un fascista fanatico ed una colonna del partito» (F.K. von Plehwe, Il Patto d’Acciaio).

Alle 22,15 – racconta Dollmann – al cancello dell’ambasciata tedesca si presentò «Farinacci, il personaggio che, secondo le previsioni, avrebbe dovuto opporsi alle decisioni del Re. (Ma) le ansie dell’eroe di Cremona non concernevano il destino del povero Duce (...) Pallido in volto e tremante dalla paura egli non desiderava altro che prendere il primo aereo in partenza per la Germania (...) Non una parola sul Duce, non una parola sulla divisione «M», non un accenno ai tentativi di liberazione». Travestito da aviatore tedesco, Farinacci, venne portato a Frascati da dove prese un aereo per Monaco. Dopo questo i voli di masse di fascisti in fuga si susseguirono a ritmo incessante, Dollmann annota che l’ambasciata tedesca sembrava essere diventata una agenzia di viaggi. La sera del 26 luglio, l’ambasciatore tedesco von Mackensen, alle 23,30, chiudeva il suo rapporto telegrafico a Berlino con la seguente considerazione: «Quanto il decadimento interno del partito fascista fosse veramente avanzato, mi pare dimostrato dal fatto che esso è scomparso dalla scena senza canti e senza suoni, come l’ha confermato il decorso dell’odierna giornata».

Presso Roma era stata organizzata una divisione corazzata della milizia: si fregiava di una «M» rossa (la divisione M alla quale alludeva Dollmann) ed era formata da legionari veterani, provenienti da vari fronti. Era stata dotata, da parte di Himmler, di 36 giganteschi panzer d’assalto «Tigre IV» e di 24 pezzi d’artiglieria; oltre a ciò, in segno di fraternità di armi e di intenti tra le SS naziste e la MVSN fascista, era stato inviato anche un folto numero di istruttori militari. Ma la divisione «M» non si mosse! Scorza, inoltre, aveva costituito una formazione armata, una specie di anticipazione delle future Brigate Nere, con il compito di difendere la rivoluzione ed il partito fascista, in vista di un eventuale pericolo di crisi politica, questa formazione venne denominata «La Guardia ai Labari». Ma nemmeno la Guardia ai Labari si mosse! Infine, a salvaguardia dell’incolumità fisica di Mussolini e della sua famiglia erano stati costituiti speciali reparti di ufficiali della milizia per la difesa di Palazzo Venezia e Villa Torlonia. Il compito di questo corpo speciale era quello di guardare, e, ligio alla consegna ricevuta, rimase a... guardare! Da parte sua il generale Badoglio annunciava al popolo festante che la guerra al fianco della Germania continuava ed il governo militare emanava direttive chiarissime al fine di prevenire e soffocare nel sangue qualsiasi manifestazione popolare. Venne immediatamente emanato un divieto di assembramento di più di tre persone, venne imposta la proibizione per tutti di uscire la sera dopo le ore 21. Ristoranti, teatri, cinema furono chiusi. La divisione Piave entrò in Roma, occupò i centri di traffico della città «I membri dell’ambasciata tedesca ricevettero nel frattempo tessere speciali per potere circolare liberamente durante la notte». (F.K. von Plehwe, Il Patto d’Acciaio).

Quella che è passata alla storia con il nome di Circolare Roatta, ma che di fatto era firmata da Badoglio, ordinava testualmente: «l) Nella situazione attuale, col nemico che preme, qualunque perturbamento dell’ordine pubblico, anche minimo, et di qualsiasi tinta, costituisce tradimento et può condurre, ove non represso at conseguenze gravissime; qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe pertanto delitto. 2) Poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito. Perciò ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine. 3) Siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani, quali i cordoni, gli squilli, le intimidazioni et la persuasione et non sia tollerato che i civili sostino presso le truppe intorno alle armi in posizione. 4) I reparti devono assumere e mantenere grinta dura et atteggiamento estremamente risoluto (...) 5) Muovendo contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche (...) 6) Non est ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire, come in combattimento (...) 7) I caporioni et istigatori dei disordini, riconosciuti come tali, vengano senz’altro fucilati se presi sul fatto, altrimenti siano immediatamente giudicati dal tribunale di guerra sedente in veste di tribunale straordinario. 8) Chiunque, anche isolatamente, compia atti di violenza et ribellione contro le forze armate e di polizia aut insulti le stesse et le istituzioni venga passato immediatamente per le armi (...) Si tratta di imporsi subito con rigore inflessibile».

Così, poche ore dopo la caduta di Mussolini e dopo pochi attimi di false illusioni, i lavoratori vennero massacrati con mitragliatrici e carri armati. Le cifre ufficiali sulle vittime del «governo dei 45 giorni» (dal 25 luglio all’8 settembre), certamente inferiori a quelle reali, parlano di 93 morti, 536 feriti e di 2.276 arresti. Perfino lo storico stalinista Ernesto Ragionieri è costretto ad ammettere che «nel corso del ventennio fascista non era mai stato inviato l’esercito a mitragliare la folla».

Se la circolare Roatta non fosse stata sufficientemente chiara, il nuovo ministro dell’Interno, inviava ai prefetti la seguente ordinanza: «È necessario agire massima energia perché attuale agitazione non degeneri in movimento comunista o sovversivo». I risultati di tali direttive non mancarono: 26 luglio - 11 morti, 83 feriti, 494 arresti; 27 luglio - 11 morti, 42 feriti, 388 arresti; 28 luglio - 43 morti, 144 feriti, 413 arresti; 29 luglio - 12 morti, 38 feriti, 160 arresti; 30 luglio - 6 morti, 1 ferito, 109 arresti; 31 luglio - 9 feriti, 39 arresti; 1 agosto - 3 morti, 12 feriti, 51 arresti...

Questo nei primissimi giorni della «liberazione» dalla dittatura fascista! Ancor meglio del numero dei morti e dei feriti sono le direttive dei capi militari che danno un quadro autentico della ferocia antioperaia del governo Badoglio. Il ministro della guerra Sorice, in un telegramma alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, scriveva «A Torino, presso due reparti Fiat, iniziato sciopero bianco. Arrestati agitatori e deferiti tribunale militare per immediato procedimento. Est in corso intervento con artiglierie contro fabbricato predetto se operai non obbediscono intimazione ripresa di lavoro» (29 luglio).

Lo stesso giorno il generale Adami Rossi, impartisce i seguenti ordini alle sue truppe: «Si intimi la ripresa immediata del lavoro dando cinque minuti di tempo, avvertendo che, se il lavoro non sarà ripreso, sarà imposto con la forza. Se allo scoccare del quinto minuto continuerà l’astensione si faccia fuoco con qualche breve raffica, e non sparando in aria o per terra, ma addosso ai riottosi. Dopo la raffica, ripetere per una volta l’intimazione e, non ottenendo lo scopo, sparare raffiche a breve distanza l’una dall’altra fino ad ottenere lo scopo, ossia l’esecuzione dell’ordine».

Al cantiere S. Marco di Trieste, tredici, tra gli operai scioperanti, vennero arrestati e si minacciò di ucciderne due di essi, presi a caso, e di deferire tutti gli altri al tribunale militare se il lavoro non fosse stato immediatamente ripreso. Nella sua storia del PCI, lo Spriano, commenta. «Ai primi di agosto la calma era tornata. Il pugno di ferro è servito, anche se nessuno voleva spingere ad una azione insurrezionale, né i comunisti, né gli azionisti, o quelli del MUP». È vero, gli zozzoni del PCI si erano ben guardati dall’indicare alla classe operaia la strada dell’azione rivoluzionaria, ma, addirittura, lo vedremo tra poco, si presteranno (o meglio, si proporranno) alla collaborazione con il governo terroristico di Badoglio.
 
 
 


Intesa borghese al di sopra dei fronti
per prevenire la rivolta operaia
 

Badoglio, appena nominato capo del governo militare, si era affrettato ad inviare un telegramma ad Hitler nel quale diceva: «Come già dichiarato nel mio proclama rivolto agli italiani (...) la guerra per noi continua nello spirito dell’alleanza (...) mi è grata l’occasione, Fuehrer, per porgerVi l’espressione dei miei cordiali saluti».

È evidente che le parole melliflue di Badoglio non incantassero i dirigenti di Berlino. La Germania era ben consapevole che il nuovo governo rappresentava una fase di transizione e che aveva l’unico scopo di portare a termine il tradimento dell’alleanza per passare dall’altra parte della barricata. L’ambasciatore von Mackensen, alle 17 del giorno 27, telegrafava al suo governo avvertendolo che la prossima mossa sarebbe stata quella di «disimpegnarsi dalle condizioni che oggi tengono ancora legata l’Italia al suo compagno dell’Asse». Detto questo, suggeriva di «riempire tanto lo Stivale di forze tedesche che noi (i tedeschi - n.d.r.), in un dato momento, potremo passare all’ordine del giorno questo capo di governo e i suoi eventuali intrighi». Hitler, da parte sua, avrebbe voluto risolvere la situazione in modo più radicale e sbrigativo e, immediatamente dopo l’arresto di Mussolini, propose di adottare provvedimenti definitivi che possono essere così riassunti: 1) Fare occupare Roma dalla 3° Panzergranatierdivision; 2) Arrestare il re, il principe ereditario, Badoglio e tutto il suo governo. «Prepareremo tutto per entrare in possesso fulmineamente di questa ciurmaglia, per catturare tutta la gentaglia. Domani manderò un uomo che dia l’ordine al comandante della 3° divisione granatieri corazzati di entrare in Roma con una squadra speciale ed arrestare subito tutto il governo, il re, tutta quella masnada, e innanzi tutto di arrestare subito il principe ereditario e impadronirsi di questi farabutti, di Badoglio e dell’intera ciurmaglia»; 3) Penetrare in Vaticano ed impadronirsi dell’intero corpo diplomatico. «La canaglia è là, portiamo fuori tutta quella banda di maiali (...) Poi ce ne scusiamo (...) Tanto per noi non cambia niente»; 4) Impadronirsi dei documenti comprovanti il tradimento italiano.

Nel pomeriggio del 31 luglio, a Frascati, si tenne una riunione alla quale, oltre a Kesselring, parteciparono il generale di aviazione Student, il capitano di marina Neubauer, il capitano di marina Juege, il primo ufficiale di Stato Maggiore von Plehwe. Durante queste riunione vennero messi a punto i dettagli dell’«operazione Schwarz», che avrebbe dovuto mettere in esecuzione le direttive Hitler.

Cosa fu a far desistere Hitler dai suoi propositi? Il giorno successivo del vertice tedesco di Frascati, Badoglio, avvertito tramite il Vaticano dell’operazione Schwarz, incontra von Rintelen e lo avverte in questi termini: «Se questo governo cade verrà sostituito da uno di ispirazione bolscevica. Questo non è né nel nostro, né nel vostro interesse». La mattina del 2 agosto von Rintelen parti in aereo alla volta di Berlino, e lì fece presente ad Hitler che «solo il governo Badoglio poteva impedire una slittata dell’Italia verso il comunismo. Perciò quel governo andava sostenuto». E l’operazione Schwarz venne congelata.

«Ma vi è di più – scrive Spriano – in un promemoria confidenziale messo in circolazione il 13 agosto dall’ufficio di Ribbentrop, si lodano le misure draconiane già introdotte dal governo» italiano.

Il colonnello Montezemolo avrebbe finito i suoi giorni martire alle Fosse Ardeatine; il dott. Rodosindo Cardente, che fu medico del carcere nazista di via Tasso, ha scritto di lui: «i proletari e l’ufficiale superiore dello Stato Maggiore si ritrovarono come sui campi di battaglia, così nella cella del carcere e nella cava del martirio, uniti per sempre, fratelli». Ma il martire delle Ardeatine, nei colloqui privati con gli ufficiali tedeschi non si stancava di esaltare le misure repressive adottate da Badoglio nei confronti dei «fratelli proletari». «Egli (Montezemolo -n.d.r.) nominò per prima cosa, come segno più esteriore, la dura applicazione dello stato d’assedio. Il governo fascista non aveva mai saputo trovarne la forza. Si era destreggiato solo con mezze misure, con gran rabbia dell’esercito. Ma Badoglio aveva già posto sotto l’amministrazione militare la posta e le ferrovie, messe severe limitazioni al movimento turistico civile, dichiarati zona di guerra i tre quarti del paese e inquadrata nell’esercito la milizia» (F.K. von Plehwe, Il Patto d’Acciaio).

La Germania pur sapendo che l’Italia stava consumando il suo tradimento, decise di appoggiare il nuovo governo di Roma perché solo così avrebbe avuto la garanzia che il contagio della rivolta non si sarebbe propagato all’interno delle sue armate. O, se vogliamo essere più precisi, dobbiamo dire che solo appoggiando il governo Badoglio i tedeschi avrebbero potuto arrestare il bacillo dell’insurrezione che già si era manifestato all’interno dell’esercito.

Il generale von Rintelen scrive che, alla caduta di Mussolini «anche militari tedeschi presero parte alle dimostrazioni di gioia (...). Per fortuna dei partecipanti non vi fu alcun epilogo davanti alla corte marziale». Anche questo è molto interessante: i comandi tedeschi preferiscono riassorbire la protesta piuttosto che prendere provvedimenti secondo le leggi marziali.

Così come Hitler accettava di stare al gioco del traditore Badoglio purché questi continuasse a svolgere il suo ruolo di boia della classe lavoratrice, allo stesso modo Churchill e Roosevelt non mancarono di apprezzare le qualità del generale sabaudo e mettevano tutta la loro potenza militare al servizio della causa comune: il dissanguamento del proletariato italiano che, per la tragica condizione in cui si era venuto a trovare, avrebbe potuto rappresentare la prima scintilla di un’enorme esplosione internazionale.

In una delle sue lettere a Roosevelt, Churchill aveva scritto: «ll mio criterio è che liquidati Mussolini e il fascismo, io sono disposto a trattare con qualsiasi autorità italiana in grado di consegnare la merce». Questo alla fine di luglio. Nei primi giorni di agosto, con una nuova lettera al presidente americano, il primo ministro, di Sua Maestà dichiarerà a quale merce aveva alluso: «Il fascismo in Italia è morto, ogni traccia ne è stata spazzata via. L’Italia è diventata rossa da un momento all’altro. A Torino e Milano dimostrazioni comuniste hanno dovuto essere soffocate dalle forze di polizia. Vent’anni di fascismo hanno cancellato la classe media. Tra il Re e i patrioti schierati attorno a lui e che hanno il completo controllo della situazione, da un lato, e il bolscevismo rampante, dall’altro, non è rimasto nulla».

E fu per coadiuvare le forze di polizia del nemico, sul fronte non di guerra ma di classe, che gli anglo-americani aumentarono in maniera inaudita i loro bombardamenti sui quartieri proletari delle città. La «liberazione» dell’Italia rientrava nei piani militari degli Alleati, ma innanzitutto si trattava di liberarla dal pericolo di un proletariato rivoluzionario. È ancora Churchill che il 4 agosto scrive: «Nell’interesse della massima pressione politica e militare sulla popolazione e sul governo italiano, oltre che per ragioni militari, siamo estremamente restii ad interrompere i bombardamenti degli scali ferroviari e via dicendo». L’aspetto militare viene messo in secondo piano, mentre al primo posto sta la «pressione politica e militare sulla popolazione».

La Storia Ufficiale inglese della Seconda guerra, in merito alla direttiva già del 14 febbraio 1942 al comando bombardieri, afferma: «La campagna di bombardamento doveva essere centrata sul morale della popolazione civile e in particolare degli operai dell’industria, questo doveva essere l’obiettivo primario». Del resto questo camuffamento di azioni di guerra di classe come azioni di guerra fra eserciti è applicato contro i quartieri operai di tutti i paesi vinti: a Dresda nella sola notte fra il 13 e il l4 febbraio l945, 135.000 vittime con assolutamente nessuna giustificazione strategica. Il Cartier riferisce che «alla fine del luglio 1945 le cinque grandi città giapponesi sono distrutte in proporzioni che vanno dal 40 al 65%; le città secondarie sono oggetto di un programma incendiario speciale, dal 17 giugno al l4 agosto sessanta di esse sono state attaccate, molte incendiate al 60, 70, 80%, fino al 99,5%; il numero delle vittime raggiunge il milione».

In questa Santa Alleanza antiproletaria che vedeva accomunati l’Italia post-mussoliniana, la Germania nazista, le Potenze democratiche, poteva restare escluso lo stalinismo? Certamente no! All’inizio del mese di agosto, lo stalinista Giovanni Roveda indirizzava una lettera al generale Ruggero nella quale si avanza la proposta di «investire dei poteri di commissari straordinari due vecchi organizzatori della tradizionale CGL, che propongo nel nome dello scrivente e dell’onorevole Ludovico D’Aragona». Quando Roveda avanzò questa proposta di collaborazione governativa i suoi compagni di partito si trovavano ancora dentro le prigioni e nei luoghi di pena dove erano stati rinchiusi dal fascismo.

Non a caso Carmine Senise (che fino all’aprile era stato capo della polizia fascista, che a luglio aveva fatto parte della congiura della Corona, e che ora era nuovamente a capo della polizia badogliana) aveva diramato la seguente circolare: «Prego disporre subito scarcerazione prevenuti disposizioni autorità P.S. responsabili attività politiche, escluse quelle riferentesi comunismo et anarchia. Contemporaneamente SS.LL. compileranno nella giornata di oggi elenchi tutti condannati aut giudicabili per attività sopraindicate, escludendo sempre comunisti ed anarchici, e li rimetteranno alla Regie Procure competenti con proposta grazia sovrana».

Badoglio, regolarmente iscritto al P.N.F. (con tutta la famiglia, moglie compresa) aveva dato vita ad un governo che venne definito «fascismo senza Mussolini». Il Ragionieri scrive: «Del solo consigliere di Stato Leopoldo Piccardi erano noti i sentimenti antifascisti e non a caso gli venne attribuito il Ministero delle corporazioni». E questo governo fascista senza Mussolini mise in atto la proposta di collaborazione fascio-catto-liberal-stalinista avanzata dal PCI fin dal 1936. L’8 agosto il piccista Roveda, i socialisti Buozzi e Lizzardi, i cattolici, Grandi, Quarello, Vanoni, gli azionisti De Ruggero e Calamandrei, il liberale Storoni, furono nominati commissari degli ex sindacati fascisti. Che lo scopo del governo fosse chiaro e, di conseguenza, che il PCI non possa cercare attenuanti ce lo conferma, ancora una volta, Ernesto Ragionieri (possiamo permetterci il lusso di citare i nostri peggiori nemici!). «I contatti (di Badoglio - n.d.r.) con gli esponenti antifascisti furono condotti alla luce di una necessità fondamentale, quella di alleggerire la pressione delle masse operaie con misure non alternative, ma complementari alla repressione militare, e di non inasprire ulteriormente un terreno di lotta e di scontro, la fabbrica, che minacciava di farsi esplosivo dopo gli scioperi della fine di luglio e le manifestazioni di chiare indicazioni di obiettivi rivendicativi (quali soprattutto le commissioni interne) che sembravano confermare pericolosamente un risveglio della pericolosità della classe operaia».

Confessione più totale e spontanea di questa non potrebbe esserci. Lo stalinismo, anche se i suoi adepti restavano rinchiusi nelle carceri, è comunque sempre disposto alla collaborazione, perfino con il nazismo, quando si rende necessaria la sua opera... controrivoluzionaria.

Fu in questa situazione che Roveda, dietro domanda scritta, venne messo a capo dei sindacati ex-fascisti con la pretesca riserva che ciò non avrebbe comportato alcuna corresponsabilità politica con il governo, «come se il fatto di assumere incarichi ufficiali non comportasse di per sé, al di là di qualunque riserva mentale, una corresponsabilità col suo mandante» (Documento del P.C. Internazionalista del 3 ottobre 1943). Il «caso Roveda» apparve di una tale gravità che perfino i dirigenti del P.C.I. dell’emigrazione francese, informati attraverso la radio, ne rimasero stravolti. Ciò risulta da «Lettere di Spartaco» dell’8 agosto dove si legge: «Qualora la notizia fosse esatta e Roveda e Buozzi collaborassero realmente con gli agenti hitleriani del governo Badoglio, ciò dimostrerebbe che abbiamo a che fare con due militanti che commettono in buonafede un errore gravissimo, e che vorranno correggerlo immediatamente inviando al governo della reazione e della guerra le loro dimissioni, o con due traditori passati al nemico coi quali la classe operaia e i partiti antifascisti rompono ogni relazione». L’errore dei piccisti dell’emigrazione fu quello di prendere la parola spinti dall’emotività, eppure avrebbero dovuto saperlo che lo stalinismo non ammette errori: prima di parlare si debbono attendere le disposizioni di partito! Avvenne così che non fu Roveda a doversi giustificare, ma l’autocritica dovettero farla quei compagni ai quali era pur rimasto un barlume di coscienza di classe. Quegli stessi che avevano avanzato l’ipotesi che Roveda fosse un traditore passato al nemico dovettero chinare la testa e dichiarare che «una volta avuta l’assicurazione che Roveda era d’accordo col partito vi è stato accordo anche fra i compagni» (Spriano, Storia del PCI).

Anche il P.C. Francese aveva preso la parola sulla questione sconfessando la collaborazione con Badoglio «alleato di Hitler e capo di un governo in guerra contro l’Unione Sovietica». Mosca, al contrario, passò la cosa sotto silenzio. Per la centrale dell’internazionale della controrivoluzione cosa avrebbe cambiato, ai fini della campagna militare, la collaborazione o meno del PCI al governo Badoglio? Assolutamente niente! Al contrario, ai fini della collaborazione interimperialista di repressione assumeva un significato della massima importanza. Quindi, luce verde all’esperimento collaborazionista anche se a fianco dei fiancheggiatori di Hitler.

Abbiamo letto i passi delle lettere di Churchill nei quali si diceva che i bombardamenti sulle città proletarie italiane, in particolare Torino e Milano, dovevano continuare ed intensificarsi per fiaccare la resistenza e la volontà di lotta del proletariato.

Questi bombardamenti non tardarono a dare i loro frutti, come i loro frutti li avevano dati le mitragliatrici di Badoglio. Ciò nonostante, nel mese di agosto, le lotte di classe nelle due grandi città industriali ripresero. Il giorno 9, a Milano, alla Pirelli era stato scioperato contro la guerra, il giorno 10 alla Breda di Sesto S. Giovanni. Nei giorni successivi gli scioperi si susseguirono. Il giorno 17 l’agitazione interessò tutta la provincia di Milano. Il tempestivo intervento pompieristico di Roveda permise, il giorno successivo, la ripresa del lavoro.

A Torino le agitazioni furono molto più forti, la scintilla della nuova ondata di scioperi parti dallo stabilimento Fiat Grandi Motori. In un primo momento il generale Adami Rossi esortò i lavoratori a non «intralciare con gli scioperi l’opera del governo (...) Nel frattempo una notevole quantità di operai avevano abbandonato l’officina, prima dell’arrivo dei soldati. I soldati appena giunti hanno puntato le mitraglie contro gli operai rimasti nell’officina, mentre l’ufficiale che li comandava ha ordinato di sparare contro il resto degli operai che volevano uscire dall’officina. I soldati si sono rifiutati di sparare. Allora l’ufficiale ha impugnato la mitraglia e ha sparato contro gli operai» (Rapporto di Remo Scappini al Centro del PCI). Nei giorni successivi gli scioperi di protesta si estesero a tutta la città ed alla provincia, ancora una volta furono Roveda e Buozzi ad intervenire tempestivamente per fare cessare le agitazioni proletarie. Negli stessi giorni altri scioperi, anche se di più modesta entità, si verificarono a Biella, Vercelli, Modena, a Spilamberto, a Reggio, in Toscana ed Umbria. Poi ancora a Varese e La Spezia.

A Torino i soldati si sono rifiutati di sparare sugli operai con i quali si sentono in tutto e per tutto solidali. Spriano scrive: «Molti soldati incoraggiano perfino gli operai a scioperare». I proletari in tuta e quelli in divisa non aspettano altro che il partito dia loro un ordine per organizzare, coordinare, estendere quella lotta che, nata dal bisogno materiale del pane, rivendica ora la fine immediata della guerra e quindi pone all’ordine del giorno il problema del potere. Il PCI ce la mette tutta per gettare acqua sul fuoco della lotta di classe e sguinzagliare i suoi agenti, usciti freschi freschi di galera, ad ammansire il proletariato, a convincerlo che deve tornare al lavoro, a non rivendicare nemmeno la più elementare delle garanzie: il tozzo di pane. Ma malgrado questo impegno di milizia controrivoluzionaria, la situazione diviene di ora in ora più critica.

Nello spirito della migliore tradizione italiana il PCI proponeva la costituzione di un governo di ricostruzione nazionale in funzione anti-tedesca sotto l’egida monarchia. Nelle fabbriche e nelle piazze gli oratori stalinisti esortavano alla calma, invitavano gli operai a non scioperare e a riprendere il lavoro. La politica frontepopolarista allargava di continuo la sue maglie: non si sostenevano più i Blum o i Daladier, si sosteneva Badoglio mentre i corpi dei proletari trucidati giacevano ancora insepolti sulle piazze e nei cortili delle fabbriche. La borghesia aveva ben saputo allevare i suoi servi!

La borghesia non aveva comunque da dormire sonni tranquilli; è vero che le mitragliatrici ed i mortai erano pronti ad aprire nuovamente il fuoco sui proletari, è vero che l’istinto di classe degli operai veniva soffocato dai gas venefici delle parole d’ordine democratiche e collaborazioniste diffuse dagli stalinisti, è vero che i prigionieri politici appena liberati dalle prigioni si precipitavano a fare professione di lealismo e realismo patriottico; ma fino a che punto sarebbe stato possibile contenere la pressione proletaria senza correre il rischio di una dirompente esplosione?
 
 
 


8 Settembre
La classe dominante italiana affida a tedeschi ed alleati la repressione con le armidella rivolta di classe
 

Fu per questa ragione che la vigliacca borghesia italiana decise di tirarsi fuori dal gioco e di lasciare che fossero altri a difendere i suoi privilegi di classe. L’invasione tedesca ed anglosassone rappresentò la soluzione provvidenziale per raggiungere lo scopo di stroncare la rivolta delle masse proletarie. «Ci si meraviglierà ancora che Badoglio, dal 25 luglio all’8 settembre e soprattutto dalla firma della pubblicazione dell’armistizio, abbia permesso l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale e centrale? Occorreva, dopo aver strappato di mano alle masse l’arma della pace facendosene i promotori ed avendole così addormentate, abbandonare il paese recalcitrante in balia dei due belligeranti, consegnarlo loro mani e piedi legati, perché cessasse di essere arena di lotte politiche e diventasse campo di battaglie militari. Il tallone tedesco avrebbe soffocato l’idea risorgente della rivoluzione proletaria nei grandi centri industriali, e agli inglesi sarebbe spettato il compito di riassestare su basi solide il vacillante capitalismo italiano» (Documento del PC Internazionalista - ottobre 1943).

L’armistizio concesso dagli Alleati all’Italia rientrava perfettamente in questo quadro di repressione, contenimento e distorsione delle temute rivolte proletarie. Solo questa può essere la spiegazione, poiché da un punto di vista militare lo sganciamento dell’Italia dall’Asse non sfavoriva i tedeschi ai quali veniva lasciata libertà di azione, non avendo più vincoli nei confronti dell’ex alleata e, dall’altra parte, non avvantaggiava per niente gli anglo-americani. Già nel gennaio del ’43 Eden aveva affermato che «potrebbe ben essere nel nostro interesse che l’Italia, quale componente dell’Asse, risulti un onere tedesco e divenga un peso crescente per il potenziale germanico».

Con l’armistizio, di fatto, la Germania fu alleggerita del peso morto italiano e, da parte sua, il contingente alleato sbarcato in Italia si limitò ad una guerra di posizione dando il tempo ai tedeschi di occupare militarmente il paese, di organizzare l’amministrazione e di stabilizzarsi sulla «linea Gustav» che tagliava in due l’Italia: dal Garigliano al Sangro.

Gli anglo-americani avrebbero potuto effettuare sbarchi a Nord di Roma che avrebbero creato le condizioni per una rapida occupazione di gran parte della penisola; avrebbero potuto inoltre sferrare una potente offensiva sfruttando anche il fattore psicologico a tutto svantaggio dei tedeschi che si vedevano, ancora una volta, traditi dai camerati italiani, e, soprattutto, sfruttando il loro enorme potenziale bellico di gran lunga superiore a quello germanico. A questo proposito basti guardare le forze che erano state messe in campo, agli inizi di agosto, per effettuare lo sbarco in Sicilia: 1.380 navi; 1.850 mezzi da sbarco; 4.000 aerei e 12 divisioni. Uno spiegamento di mezzi e di uomini superiore allo stesso sbarco in Normandia. Churchill in persona aveva dato ad intendere che così si sarebbero svolte le cose. Il 26 agosto scriveva a Stalin: «La guerra nel Mediterraneo deve essere spinta innanzi vigorosamente. In quell’area i nostri obiettivi saranno l’eliminazione dell’Italia dall’alleanza dell’Asse e l’occupazione dell’Italia, come pure della Corsica e della Sardegna, per essere usate come basi di operazioni contro la Germania». Il 3 settembre, in un’altra lettera a Stalin si legge: «Invieremo una divisione aviotrasportata a Roma per (...) tenere lontani i tedeschi che hanno una forza corazzata nelle vicinanze». Il 5 settembre: «L’operazione ‘Avalanche’ e il lancio dei paracadutisti avverranno al più presto (...) Durante l’operazione ‘Avalanche’ sbarcheremo ingenti forze sulla costa».

«Avalanche» era il nome dato, in codice, al grande sbarco che avrebbe dovuto seguire l’annuncio dell’armistizio. Evidentemente gli Alleati non comunicarono ai comandi italiani dove lo sbarco sarebbe avvenuto, e non avvenne tra Civitavecchia e La Spezia come era stato richiesto dagli emissari di Badoglio. Non avvenne nemmeno il promesso lancio su Roma della divisione aviotrasportata. Lo sbarco alleato avvenne il più a Sud possibile, nel luogo dove più indolore poteva essere l’intervento contro le forze nemiche, a Salerno il 9 settembre. Da qui arrivarono il l° ottobre a Napoli, quando la città era già sgombra dai tedeschi ed in mano alla popolazione. Neppure il secondo sbarco effettuato ad Anzio il 22 gennaio ’44 (4 mesi e mezzo più tardi) rappresentò una eccezione a questa strategia. Le forze anglo-americane vennero immediatamente circoscritte dalle truppe tedesche e così la testa di ponte costituitasi rimase ferma fino alla primavera.

Gli storici sono concordi nell’attribuire alla monarchia ed a Badoglio le responsabilità sia della caduta dell’Italia centro-settentrionale in mano ai tedeschi, sia di avere dato per scontato la cattura e l’annientamento delle forze italiane fuori del territorio nazionale. Quello che gli storici borghesi ed opportunisti non dicono è che rientrava in un quadro più generale, nel quadro cioè dell’annientamento delle potenziali rivolte proletarie.

A questo proposito è bene ricordare un fatterello che non si legge in tutti i libri di storia. Il 3 settembre, a Cassibile, il generale Castellano aveva firmato l’armistizio con gli Alleati; subito dopo il governo italiano si rimangiò la firma. Questo nuovo voltafaccia non dovette piacere molto agli Alleati ed il generale Eisenhower minacciò «la distruzione del governo e del paese» se le clausole armistiziali non fossero state osservate in toto. Invece Churchill, il vecchio volpone inglese, non si scompose e, quando tornò più utile agli anglo-americani, annunciò al mondo, ossia ai tedeschi, che l’Italia si era ritirata dalla guerra. Questo si rileva dalla lettera inviata, proprio l’8 settembre, a Stalin: «All’ultimo momento il governo italiano ha respinto l’armistizio asserendo che i tedeschi sarebbero immediatamente entrati a Roma ed avrebbero instaurato un governo fantoccio. Ciò può essere del tutto possibile. Tuttavia, all’ora concordata, e precisamente alle 16,30 ora di Greenwich, noi annunceremo l’armistizio».

Questo fatto, in se stesso, getta ancora più ignominia sulla borghesia italiana che, attraverso i suoi codardi rappresentanti, tenta di tradire sia i tedeschi, sia gli anglo-americani. Questo fatto dimostra però anche un’altra cosa: gli Alleati misero il governo italiano, a sua insaputa e contro la sua volontà di fronte ad un fatto compiuto in modo che la disgregazione ed il caos risultassero totali e, contemporaneamente, raffreddando le operazioni belliche, lasciarono mano libera all’esercito tedesco di occupazione perché potesse compiere il lavoro sporco nei confronti della classe operaia che aveva ripreso la lotta.

La mattina dell’8 settembre Vittorio Emanuele aveva ricevuto il nuovo ambasciatore tedesco, Rahn, e, nel colloquio, aveva riconfermato «la decisione di continuare fino alla fine la lotta a fianco della Germania, con la quale l’Italia era legata per la vita e per la morte». Questo non significa affatto che il re fosse sincero, però, dopo che Radio Londra ebbe dato l’annuncio della capitolazione italiana, il Consiglio della Corona preparò un comunicato di smentita al «preteso armistizio». Questo comunicato non venne trasmesso perché, nel frattempo, Badoglio, dai microfoni dell’EIAR, aveva confermato l’annuncio dato dagli inglesi. Però, anche a questo punto, alcuni ministri chiesero che Badoglio venisse pubblicamente sconfessato «additandolo al paese come responsabile dei contatti presi con gli alleati e di conseguenza della firma della resa» e chiesero di riconfermare «l’intenzione dell’Italia di continuare la guerra a fianco dei tedeschi» (Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III). Tutto questo dimostra a sufficienza che gli inglesi, con l’annuncio improvviso della resa, misero alle strette il governo italiano che tentava di protrarre il gioco di tenere il piede in due staffe.

Si trattava ora di prendere una decisione urgente e definitiva. La decisione fu quella di gettarsi fra le braccia dei futuri vincitori.

Ma il re ed il governo post-mussoliniano non pensarono solo a mettere in salvo le loro persone con la ingloriosa fuga verso Brindisi; oltre alla fuga prepararono qualche cosa d’altro e cioè si assicurarono che l’ordine borghese non venisse turbato e che al proletariato non venisse data né l’occasione, né la possibilità di muoversi.

Quando i comandi tedeschi erano già a conoscenza della resa italiana, mentre Vittorio Emanuele riempiva in fretta le sue valigie, e Badoglio la propria (*), il generale Roatta stava conferendo con i comandanti tedeschi von Rintelen e Touissaint. Durante questo incontro vennero certamente stabilite le modalità di un passaggio indolore dell’amministrazione statale che, abbandonata dal governo italiano, passava sotto la protezione del Reich. Questa, che a prima vista può apparire una affermazione fantasiosa, lo sembrerà un po’ meno quando avremo ricordato alcuni fatti significativi.

Tutti i comandi italiani, dislocati nei vari teatri di guerra erano in possesso della Memoria O.P.44 che prevedeva l’apertura delle ostilità nei confronti dei tedeschi. Dopo il proclama di Badoglio che confermava la firma dell’armistizio con il nemico, avrebbe dovuto scattare l’ordine esecutivo della Memoria O.P.44. Invece Badoglio, dopo avere detto che «deve cessare ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane da parte delle forze italiane», si limitava ad aggiungere: «esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». La Memoria O.P.44 rimaneva congelata. Ma, poiché il proclama di Badoglio poteva essere interpretato come un ordine di resistenza, il generale Ambrosio, alle ore 0,20 del 9 settembre, dava ordine di «lasciar muovere e transitare i tedeschi attraverso le linee italiane, dal Sud verso il Nord (...) purché lo facciano senza atti di violenza».

E perché mai avrebbero dovuto compiere atti di violenza quando nessuno impediva loro di realizzare le loro manovre ed i loro spostamenti? Una successiva comunicazione di Ambrosio era ancora più chiara: «Il previsto piano di interruzione dei collegamenti tedeschi non venga attuato finché non risulti che reparti tedeschi abbiano interrotto i nostri collegamenti, occupato centrali telefoniche e amplificatori e comunque compiuti atti di ostilità». Praticamente si autorizzavano gli «invasori» ad occupare tutti i centri vitali e strategici; dopo di che ogni resistenza, oltre che inutile, sarebbe stata suicida.

Un altro indizio di concordato lo possiamo individuare nella fuga del re. Dall’annuncio della resa alla fuga passarono circa 12 ore. In tutto questo tempo nessun atto, o movimento o segnale ostile da parte tedesca viene percepito, e dire che il piano «Student» che prevedeva l’arresto del re e del governo era già pronto dall’indomani del 25 luglio. Invece, la mattina del 9 settembre la carovana composta di sette automobili (dentro le quali si trovava la famiglia reale con 17 valigie, Badoglio che aveva smarrito la sua, generali e ministri ognuno di loro con poco o molto bagaglio) partì tranquillamente e tranquillamente si diresse verso Sud incrociando le truppe tedesche che risalivano verso Nord, altrettanto tranquillamente oltrepassò i posti di blocco incontrati: cinque in tutto di cui due tedeschi.

Arrestare e deportare la famiglia reale ed i suoi seguaci avrebbe solo provocato problemi ad Hitler, se non altro avrebbe potuto scatenare un conflitto generalizzato con le truppe italiane che, per quanto fossero allo stremo delle forze, almeno in territorio italiano sarebbero state in grado di impedire quella libertà di movimento indispensabile all’esercito tedesco per contrastare e rallentare l’avanzata degli Alleati. Se i tedeschi non arrestarono il re in fuga, tre giorni dopo, al Gran Sasso, i carabinieri si lasciarono portare via Mussolini senza nemmeno fare finta di aver opposto resistenza. Ai custodi del Duce, ai quali era stato dato l’ordine di uccidere Mussolini in caso di tentativo di fuga, l’8 settembre (guarda caso, proprio l’8 settembre) quest’ordine era stato cambiato con un altro che diceva di «usare la massima prudenza», e i carabinieri, per prudenza, lo lasciarono andare.

Un altro fatto che può avere una rilevanza minore, ma che non è del tutto trascurabile, che un parente dei Savoia, il conte Calvi di Bergolo, fu indicato da Kesselring come il primo comandante di «Roma città aperta».

Molto è stato scritto sulla difesa di Roma per impedire che cadesse in mano ai tedeschi; ma questa difesa, oltre al fatto che non fu dovuta agli ordini impartiti né da Badoglio, né da Ambrosio (anzi, contravvenendo a questi ordini) deve essere ridimensionata dalle esagerazioni della storiografia resistenziale. A questo scopo è sufficiente citare Giorgio Bocca, noto partigiano ed arcinoto anticomunista: «la storia sacra della resistenza – scrive Bocca – ha in parte avallato la leggenda di una difesa di Roma compiuta nonostante la fuga del re, dalle divisioni del corpo motocarrozzato e da un gruppo di antifascisti a Porta S. Paolo. Perché conveniva all’immagine del generale Cadorna, comandante del corpo motocarrozzato e poi del corpo volontari della libertà, e perché collocava simbolicamente nella capitale il primo atto della resistenza popolare contro l’occupante. Certamente si combatté con coraggio sia a Porta S.Paolo che nei dintorni della capitale, ma chi scambia questi rapidi scontri con una pattuglia avanzata tedesca e qualche resistenza di posizione per una battaglia difensiva fa violenza alla storia» ("La Repubblica", 8 luglio ’77).

Ancora una volta tra nemici, traditori e traditi, si accordarono perché tutto si svolgesse nel modo più indolore possibile, senza che l’ordine venisse turbato, senza che si creasse un vuoto di potere durante il quale la classe operaia italiana potesse insorgere e trasmettere ai proletari in divisa tedeschi il contagio della ribellione e la loro diserzione in massa su tutti i fronti europei.

I due governi fascista al Nord, quello monarchico al Sud, garantirono la continuità di dominio dello Stato capitalista sulla classe lavoratrice. I soldati italiani allo sbando, che avrebbe potuto rappresentare un grave pericolo per la stabilità dell’ordine, furono fatti rastrellare dall’esercito tedesco e spediti in Germania. Quanti, in Italia, sfuggiranno alle retate, vennero poi ingabbiati nelle organizzazioni partigiane. Il pericolo di insurrezione nel teatro più instabile della guerra era scongiurato.

La spia americana Peter Tompkins, riferendosi a Casa Savoia, ha scritto: «non ha mai terminato una guerra al fianco di colui con il quale l’ha iniziata, a meno che la guerra non durasse abbastanza a lungo per cambiare il fronte due volte». L’ironia di questo signore è fuori luogo: i Savoia avranno sempre tradito i loro alleati, ma non hanno mai tradito la classe che rappresentavano ed anche i tradimenti li hanno consumati non per interesse privato, ma per l’interesse del capitalismo nazionale e della sua borghesia.

Non a puro titolo di cronaca possiamo ricordare che già prima del 25 luglio proposte di pace separata erano state avanzate e tentativi intrapresi, Mussolini consenziente. Il sottosegretario di Stato, Bastianini, ricordava che il generale Castellano ai primi del 1943 gli aveva detto «chiaro e tondo che bisognava sganciarci dall’alleato e chiudere la partita guerra, perché le forze armate non erano in grado di combattere, essendo prive delle armi necessarie». Dopo un tremendo bombardamento su Cagliari, Bottai annotò nel suo diario: «Secondo confidenze fresche, Mussolini sta, ormai, rimuginando possibili manovre di distacco dal socio dell’Asse».

Il 15 maggio, Vittorio Emanuele III compilava tre «appunti». Nell’«appunto n.3 » si legge: «Bisognerebbe pensare molto seriamente alla possibilità di sganciare le sorti dell’Italia da quelle della Germania». Nello stesso mese, il tenente colonnello pilota di complemento Ettore Muti, trovandosi in Portogallo, aveva avvicinato elementi anglo-americani. Non si seppe per conto di chi.

Il 19 giugno si svolse il 452° Consiglio dei Ministri dell’Era Fascista, l’ultimo della serie. In questa occasione il senatore Cini espresse pubblicamente l’opinione che si dovesse fare la pace, e, rivolto a Mussolini, disse: «E se si deve fare la pace (...) per non essere colto di sorpresa come vi ha colto di sorpresa la guerra (...) occorre prepararsi a farla come si conviene, creando i presupposti favorevoli, istituendo dei rapporti indiretti per eventuali soluzioni, non chiudendosi le porte alle spalle, anzi predisponendo le possibili vie d’uscita». A questo scopo il sottosegretario di Stato, Bastianini, il 17 luglio, ebbe un incontro con il cardinale Maglione. Il Vaticano, dopo avere sondato gli Alleati, munì il banchiere romano Fummi di un suo passaporto. Il banchiere, in veste di amministratore dei beni della Santa Sede, arrivò a Lisbona, prima tappa per l’Inghilterra dove avrebbe dovuto svolgere un sondaggio diretto alla possibilità di trattare la desistenza dell’Italia, della Romania e dell’Ungheria. Di questa missioni non ufficiale Mussolini era, naturalmente, al corrente.

I tedeschi si comportavano esattamente alla stessa maniera, anzi avevano cominciato loro per primi. Già nel maggio del 1941 c’era stato il tentativo (anche se ufficialmente e imbarazzatamente sconfessato) condotto personalmente dal n.2 del Reich tedesco: Hess. Ma, affare Hess a parte, Hitler aveva più volte, all’insaputa dell’Italia, condotto sondaggi presso il nemico attraverso agenti qualificati: in Svezia con la Russia, in Spagna e Svizzera con gli inglesi. Il 16 gennaio ’43, Ciano scrive nel suo diario: «Nelle intercettazioni c’è un telegramma nel quale sono riassunti i termini del colloquio tra il generale tedesco von Thoms e Montgomery (...) von Thoms ha detto che i tedeschi sono convinti di avere perso la guerra e che l’esercito è antinazista poiché attribuisce a Hitler tutte le responsabilità».
 
 
 


Lo stalinismo riporta i proletari alla collaborazione patriottica nel C.L.N.
 

In un nostro lavoro di partito del 1946 intitolato «La Classe dominante Italiana e il suo Stato Nazionale», a proposito degli avvenimenti del 1943 scrivevamo: «Come può dirsi che il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l’antifascismo quale oggi lo vediamo, così può dirsi che la stessa caduta del fascismo, il 23 luglio 1943, coprì nel medesimo tempo di vergogna il fascismo stesso, che non trovò nei suoi milioni di moschetti un proiettile pronto ad essere sparato per la difesa del Duce, ed il movimento antifascista nelle sue varie sfumature, che nulla aveva osato dieci minuti prima del crollo, nemmeno quel poco che bastasse per poter tentare la falsificazione storica di averne il merito».

Il 9 settembre 1943 (attenti alla data!), con rappresentanza paritetica, il PCI, il PSUP, il Pd’A, la DC, la DL, il PLI, sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi (il filo-fascista del 1919), davano vita al C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) con il preciso scopo di preparare il terreno psicologico per deviare le rivendicazioni di classe nel campo della partecipazione alla guerra imperialista, in funzione antitedesca. Infatti il proclama del C.L.N. diceva: «Nel momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si sono costituiti in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per conquistare all’Italia il posto che le compete nel Congresso delle libere nazioni». Dopo avere portato la classe operaia sul falso terreno delle libertà democratiche, ora la si imprigionava nelle maglie della guerra imperialista.

Come al solito, le nostre nette affermazioni colpiscono la suscettibilità dei nostri avversari e degli ingenui. L’obiezione più comune, ed anche vera, è quella che molti proletari che combattevano in montagna consideravano la lotta antifascista come una tappa, percorsa la quale, le armi avrebbero continuato a sparare e questa volta contro la borghesia ed i padroni. Non neghiamo questo, come non neghiamo che gli operai, fino a pochi anni fa, credevano che il PCI li avrebbe portati al socialismo. Queste tragiche illusioni non saranno mai del tutto spente e saranno sempre rinverdite ogni volta che si avvicinerà la minaccia proletaria. Non può che essere così, altrimenti l’opportunismo non potrebbe svolgere il suo ruolo di agente della borghesia e la sua funzione sarebbe esaurita. Ma una cosa è quello che la classe operaia crede che sia (specialmente in mancanza di un forte partito rivoluzionario), altra cosa è quello che l’opportunismo in realtà è. Il PCI si manifestò quindi subito ed a chiare lettere tutore della legalità borghese ed imbonitore della classe operaia. Il partito stalinista volle che la classe operaia si mobilitasse, nelle fabbriche e sui monti, e versasse nella battaglia il suo contributo di sangue, ma solo per difendere la patria e la nazione borghese. «Quando noi chiediamo questo agli Alleati – dichiarava Togliatti nel 1944 – noi sappiamo di parlare non un linguaggio di classe, non un linguaggio di partito; noi parliamo un linguaggio di popolo e di nazione, noi parliamo a nome di tutta l’Italia e noi sappiamo di parlare nell’interesse stesso delle grandi nazioni democratiche alleate e in particolare delle nazioni anglosassoni».

La borghesia italiana, che all’inizio della guerra aveva previsto che bastassero «alcune migliaia di morti per potersi sedere al tavolo di pace», ora più che mai aveva necessità di offrire il sangue dei proletari perché, al tavolo di pace, i vincitori si comportassero in maniera più «umana» nei suoi confronti. Quindi Togliatti, capo del partito che aveva raccolto il tricolore dal fango, continuava: «Noi sappiamo di parlare nell’interesse (...) delle nazioni anglosassoni; nel loro interesse militare, perché l’organizzazione del più grande sforzo del nostro Paese significa e significherà inevitabilmente un risparmio di sangue dei soldati inglesi ed americani, il che sarà particolarmente importante quando i soldati inglesi ed americani dovranno battersi nella grande pianura padana (...) Per questo noi diciamo, e questa è la principale parola d’ordine che noi lanciamo, come PCI nell’arena internazionale: date la possibilità al popolo italiano di schierarsi al fianco delle grandi nazioni democratiche alleate, di conquistare col sangue dei propri figli la liberazione del proprio paese:: date al popolo italiano la possibilità di combattere a fondo per la distruzione del regime fascista che ha fatto la rovina del nostro paese».

La borghesia italiana era stata fascista quando aveva dovuto combattere contro lo spettro della rivoluzione proletaria, era stata fascista quando si era trattato di deprimere le condizioni di vita della classe operaia e quando si era trattato di fare l’Italia «grande e rispettata nel mondo» attraverso le imprese coloniali. Ma adesso che la guerra era irrimediabilmente perduta e la borghesia sapeva di avere una sola speranza di ricevere un trattamento meno duro dai futuri vincitori, si schierava dalla loro parte e, gettati alle ortiche camicie nere e gagliardetti, li appoggiava nella guerra contro la Germania, usando il sangue del proletariato come moneta di scambio.

Ma non potevano essere i vecchi partiti borghesi a chiedere questo sacrificio al proletariato, poteva (e doveva) farlo solo un partito al quale le vicende storiche avessero permesso di godere della fiducia della classe lavoratrice. Questo partito era il PCI.

Poiché non di guerra di classe, ma di guerra nazionale si trattava, tutte le componenti borghesi dovevano essere affasciate. Da qui l’insistenza con la quale il PCI lanciava continui appelli a tutte le componenti politiche italiane: ai cattolici, ai socialisti, ai monarchici, ai liberali, ai... fascisti. In realtà non si trattava di una iniziativa per portare sul fronte democratico i partiti borghesi, la borghesia aveva già scelto da che parte stare; si trattava di addormentare la coscienza di classe del proletariato facendogli credere che anche i socialisti, anche i democristiani, i monarchici, e perfino i fascisti, grazie alla sapiente politica di Togliatti, si sarebbero schierati nella lotta per la distruzione del regime fascista. Gli operai, tra le altre beffe, dovettero ingoiare l’amaro boccone di sentirsi dire che cattolici e monarchici (ex collaboratori del fascismo) erano diventati ora dei sinceri compagni di strada, e dovettero assistere ad un vero travaso di filibustieri senza scrupoli che dal fascismo passavano e venivano accolti con tutti gli onori nelle file del PCI.

Quando pochi mesi or sono scoppiò la polemica circa la proposta del sindaco di Roma di intitolare una strada a Bottai, il Corriere della Sera riportò una riflessione personale che Antonello Trombadori aveva scritto, di suo pugno, a margine del «Diario», di Bottai. La riflessione di Trombadori era la seguente: «Ma uno che se la prende col fascismo degenerato come fa Bottai non può rimanere chiuso (nascosto) nel rifugio avrebbe dovuto prendere contatto coraggiosamente con la Resistenza: aprire il suo animo, appunto, al popolo, `proclamare’ le sue riflessioni se pure di ‘fascista tradito’, e non scomparire sempre più dentro se stesso, fino alla fine! Noi, se si fosse rivolto a noi, a Valli Federico, per esempio, e attraverso Valli fino a Guttuso e a Mario A(licata - n.d.r.) lo avremmo respinto? È difficile rispondere, ma, se davvero fosse stato capace di ciò, non so, forse avremmo detto: sì, vieni con noi» ("Corriere della Sera", 10 ottobre ’95). Se Trombadori aveva dei dubbi, noi ne siamo sicuri: il «fascista tradito» Bottai non è entrato nel PCI semplicemente perché non ne ha fatto domanda, ma questo non toglie che tra fascismo e PCI non vi sia stato un copioso flusso di uomini.

Se nel programma della collaborazione di classe e della unità nazionale, il PCI si proponeva quale punto unificante delle varie componenti politiche, ciò non toglie che attraverso i suoi aderenti, quando ne ha avuta l’occasione, non abbia collaborato anche con il «nemico», proprio in nome della collaborazione di classe e della concordia nazionale. Abbiamo ricordato il caso di Roveda messo a capo dei sindacati ex-fascisti durante i 45 giorni badogliani e cioè nella fase filo-nazista e nemico della Russia sovietica; un altro caso di collaborazione diretta, questa volta con la Repubblica di Salò, si ebbe con Concetto Marchesi. Concetto Marchesi era stato nominato Rettore dell’Ateneo di Padova all’indomani del 25 luglio. Dopo avere avuto vari incontri pubblici e privati con il ministro dell’Educazione Nazionale della Repubblica di Salò, venne riconfermato nella carica. Questi, il 9 novembre, in ermellino, inaugurò il 722° anno accademico dell’Università di Padova in nome di «questa Italia dei lavoratori, degli artisti e degli scienziati». Il riferimento allo «Stato del Lavoro» che la Repubblica Sociale andava vaticinando è più che evidente e tutta la stampa fascista esaltò l’orazione dell’«illustre maestro». Questo incidente, di non poco conto non compromise affatto, in futuro, il diritto di cittadinanza di Marchesi nel PCI.

In questa tremenda situazione il proletariato si trovava nell’autunno 1943. Ed è in questa situazione che il Partito Comunista Internazionalista lanciava il suo appello al proletariato: «Contro la parola d’ordine della concordia nazionale, che per noi si traduce nella formula ‘che il proletariato si sveni perché l’ordine sia salvo’, noi lanciamo la parola d’ordine della lotta di classe, preludio e strumento della presa rivoluzionaria del potere» (ottobre ’43).

I nostri compagni si preoccupavano innanzi tutto di chiarire al proletariato la posizione marxista rivoluzionaria, quella di Lenin e della Sinistra comunista italiana, nei confronti della guerra. Così il primo articolo del primo numero del "Prometeo" clandestino portava questo inequivocabile titolo: «Alla Guerra Imperialista il Proletariato Oppone la Ferma Volontà di Raggiungere i Suoi Obiettivi Storici». Infatti, solo dopo avere individuato il vero carattere della guerra in atto ne sarebbero poi derivate tutte le impostazioni tattiche.

La guerra, da entrambi i lati del fronte, aveva caratteristiche ed obiettivi imperialistici: si combatteva per la conquista di nuovi mercati, per il controllo finanziario, per lo sfruttamento delle aree meno evolute ma ricche di possibilità economiche, cioè per una nuova spartizione del mondo. Il Partito negava, di conseguenza, che il conflitto avesse avuto origine da contrasti di natura ideologica: fra libertà e dittatura, civiltà e barbarie, e corbellerie del genere. Il fatto che i paesi aderenti ai diversi schieramenti bellici avessero, grosso modo, la medesima forma di governo (democratico o fascista), era esso stesso il «prodotto di una diversa posizione dei belligeranti nel quadro della politica e dell’economia mondiale (da una parte stavano) i paesi usciti vittoriosi dal conflitto del 1914/18 (dall’altra) i paesi che da quel conflitto erano usciti vinti o meno favoriti; e non è un caso che quei due blocchi abbiano assunto una diversa struttura politica ed una diversa ideologia, democratica i paesi ricchi, fascista ed autoritaria i paesi poveri» ("Prometeo", dicembre ’43).

Oltre all’aspetto economico la guerra ne ha anche uno politico e costituisce la massima espressione della crisi borghese, rappresenta l’impossibilità di comporre in modo pacifico le contraddizioni e gli antagonismi di classe. Allora allo Stato capitalista si pone il dilemma: guerra o rivoluzione. E la guerra scoppia quando non è scoppiata la rivoluzione, oppure serve a spezzare, preventivamente, l’ondata rivoluzionaria ritenuta prossima. «In questo senso tutti i paesi belligeranti hanno un comune interesse l’annientamento del proletariato come classe» ("Prometeo", dicembre ’43). «Nessuno dei due gruppi che oggi sono in guerra fra di loro lotta per la libertà e per le altre fandonie del genere, bensì per la supremazia dell’uno sull’altro, e di tutti sul proletariato» (luglio ’44). Tra proletariato e guerra non poteva quindi esistere nessuna possibilità di compromesso perché entrambi i belligeranti altri non erano che facce diverse della stessa realtà borghese; entrambi da combattere perché «intimamente legati, ad onta delle apparenze, alla stessa ferrea legge della conservazione del privilegio capitalista e quindi di lotta a fondo, mortale, contro il loro comune nemico: il proletariato» (n.1, novembre ’43).
 
 
 


Tutto per impedire la fraternizzazione di classe con i soldati tedeschi
 

Ma, per spezzare il fronte di classe proletario, l’internazionalismo proletario, (con la complicità dei traditori socialstalinisti) era stata inoculata l’ideologia piccolo borghese dell’antifascismo, della difesa nazionale, e soprattutto dell’odiato tedesco. «Le masse attonite e sgomente hanno abboccato all’amo della crociata antitedesca, obbedendo in parte alla voce atavica dell’odio contro l’oppressore tedesco, sedimento lontano ed incosciente formatosi nell’animo di tanti italiani e che i rivoluzionari debbono però saper individuare e vincere, perché è proprio su di esso che tutte le reazioni hanno fatto fin qui leva per le loro guerre di rapina e di sterminio» ("Prometeo", novembre ’43). Nel bel mezzo dell’infame campagna antitedesca, gli internazionalisti, oltre a rarissime eccezioni, furono i soli a salvarsi dalla morbosa psicologia di guerra che poneva il proletariato di Germania su di un piano di corresponsabilità con il nazismo e, come questo, della guerra e delle sue atrocità. Questi slogan, grettamente patriottardi, che erano stati elaborati dagli sciovinisti della precedente guerra mondiale (ironia della sorte, proprio dai fascisti della prima ora), questi slogan venivano ora raccolti e fatti propri dai partiti demo-social-stalinisti per dimostrare che la parola tedesco doveva essere accomunata a nazista, a barbaro, a sanguinario. E da ciò ne discendeva la parola d’ordine, gabellata come rivoluzionaria, di «morte al tedesco».

Anche in questa occasione "Prometeo", ispirandosi alla dottrina del marxismo rivoluzionario, seppe distinguersi da tutto il putridume democratoide e, il 15 agosto 1944, pubblicava un articolo con il titolo nettissimo: «Il Proletariato tedesco Cardine della Strategia rivoluzionaria». L’articolo, dopo avere messo in evidenza i grandissimi meriti rivoluzionari e la combattività dei proletari di Germania, analizzava le cause della loro tremenda sconfitta, che si era ripercossa sull’intero movimento proletario internazionale. Queste cause dovevano essere ricercate nella politica forcaiola della socialdemocrazia prima e, in un secondo tempo, sia nei gravissimi errori dell’internazionale comunista, sia della politica controrivoluzionaria dello stalinismo. «La vittoria di Hitler – si legge nell’articolo – fu il risultato di questa politica miope di compromesso, fu la prima tappa del centrismo trionfante, che consolidava la base del proprio potere sul sangue del proletariato tedesco e sulle rovine dell’internazionale comunista. Questa e non altra è la vera sanguinante tragedia del proletariato tedesco che in realtà era considerato come la spina dorsale dell’organizzazione comunista mondiale» ("Prometeo", agosto ’44).

Con estrema chiarezza e lungimiranza l’articolo prevedeva che, finita la guerra, sarebbero state le baionette degli eserciti alleati a garantire, nella Germania sconfitta, la vittoria della borghesia democratica «non più contro il nazismo, ma contro il ritorno offensivo del proletariato» e, sempre nello stesso articolo si anticipava: «Si assisterà allo smembramento della Germania e del suo proletariato, che in realtà è il pericolo numero uno della futura pace democratica, così come lo è stato della ‘pace’ nazista».

Il nazismo era certamente un fenomeno tedesco, ma non perché fosse radicato nell’«anima germanica» o in qualche oscura maledizione della sua razza, bensì perché il capitalismo nella Germania aveva raggiunto le sue manifestazioni più esasperate. Una volta scisse le responsabilità da quelle della loro classe borghese, "Prometeo" passava ad indicare ai lavoratori italiani la condotta da tenere nei confronti dei loro fratelli inquadrati contro la loro volontà nelle armate del Reich. «Come collaborerà il proletariato italiano alla liberazione dei suoi fratelli tedeschi da questa piovra? In un modo solo portando a fondo la sua battaglia di classe, giacché la battaglia proletaria è una battaglia internazionale, e ogni vittoria ottenuta da un proletariato è una vittoria di tutti i proletariati di tutti i paesi. Per far saltare in aria la macchina di guerra che opprime il proletariato tedesco, non chiamate a soccorso un’altra macchina di guerra (anglosassone o russa), ma spargete tra le file dei soldati germanici il seme della fraternizzazione, dell’antimilitarismo e della lotta di classe, diffondetevi il contagio della vostra volontà rivoluzionaria. Questa, solo questa, operai italiani è la vostra battaglia» ("Prometeo", marzo ’44).

Ma questa fraternizzazione auspicata dai compagni della Sinistra, che per la borghesia rappresentava lo spettro di una futura riscossa rivoluzionaria, questa fraternizzazione veniva sabotata con tutte le sue forze proprio da quel partito che si definiva comunista e che si presentava come il difensore degli interessi dei lavoratori: il PCI. Questo sabotaggio veniva effettuato con tanta maggiore violenza e brutalità quanto più, spontaneamente, episodi di fraternizzazione si verificavano.

A quale livello giungesse l’abominio di questi sedicenti comunisti ce lo dimostrava Togliatti quando, dai microfoni di Radio Mosca, all’inizio del ’43, aveva detto: «Quando la guerra sarà finita, nella steppa che si stende davanti alla grande città del Volga cresceranno più belle le messi. Su ogni metro di terreno un bandito tedesco ha lasciato le sue ossa». Ma gli epigoni del «Migliore» non sono certo da meno del grande capo. Luciano Gruppi, su "Critica Marxista" (n.7-1974), scriveva: «Si parla di tedeschi poiché si esprime un giudizio politico, scientificamente rigoroso: se non si può dimenticare che è il nazismo che ha trascinato la nazione tedesca in questa guerra e che ne guida le azioni atroci, è pur vero che il popolo tedesco – di buono o di malgrado – sta fino a quel momento intorno al nazismo, e che gli italiani hanno da combattere non solo contro le SS o altre formazioni naziste o fasciste, ma contro i soldati tedeschi». Queste disgustose affermazioni venivano scritte su di una rivista che aveva la spudoratezza di richiamarsi al nome di Marx! Quello di Gruppi non è da considerarsi un errore accidentale di valutazione, e, cinque anni dopo, sulle colonne de "L’Unità", Pajetta ricordava l’odio razzista che il PCI predicava ai lavoratori italiani nei confronti del soldato tedesco, indiscriminatamente, sul quale si doveva sparare senza pietà anche se «avrebbe potuto essere un operaio, persino un comunista» ("L’Unità", 29 gennaio ’79).

Già nel ’44 i nostri compagni avevano risposto a queste indegne affermazioni: «Fa parte della mentalità grettamente patriottarda allineare sul piano della corresponsabilità della guerra e delle forze che l’hanno provocata anche il proletariato» ("Prometeo", agosto ’44).

Ritornando agli episodi di fraternizzazione, possiamo ricordare quelli che si ebbero all’indomani del 25 luglio ’43, ne abbiamo già accennato citando il generale von Rintelen. Dopo l’arresto di Mussolini si era sparsa la voce che Hitler si fosse suicidato. Riportiamo quanto ha scritto F.K. von Plehwe che a quell’epoca era a Roma in qualità di primo ufficiale di Stato Maggiore: «Il 28 luglio, verso mezzogiorno, entrò nella mia stanza il tenente colonnello I. G. Jandl (...) Jandl veniva da un giro per la città (Roma - n.d.r.). In Piazza Esedra una folla eccitata aveva fermato la sua macchina e gli aveva fatto ovazioni appassionate ‘Hitler è morto! Viva la Germania! Viva l’Italia! Viva la pace!’. Gli era parso di essere un condottiero festeggiato e non aveva potuto fare altro che sorridere da ogni lato benevolmente. Solo dopo parecchi minuti aveva potuto continuare la sua strada. Vicino alla chiesa di S. Maria Maggiore questa scena si era ripetuta con la stessa insistenza. Ancora vicinissimo all’ambasciata molti passanti gli avevano fatto segni vivaci con la mano ed avevano gridato: ‘Hitler è morto!’(...) Quasi disperato il comandante tedesco della stazione ferroviaria chiedeva istruzioni perché dimostrazioni di gioia irrefrenabili di soldati italiani e tedeschi avevano luogo su un marciapiede della Stazione Termini, dove era appena giunta una tradotta. Gli italiani avevano festeggiato ed abbracciato i soldati tedeschi che scendevano dal treno i tedeschi (...) si univano al coro di gioia per la notizia (...) Avrebbero potuto derivare facilmente conseguenze spiacevoli per quei tedeschi che avevano accolto la notizia con troppa fretta e con evidente soddisfazione. Il comandante italiano della città di Roma dovette far passare attraverso le strade principali alcuni carri da ricognizione corazzati per sciogliere altre dimostrazioni che queste notizie avevano provocato» (F.K. von Plehwe, Il Patto d’Acciaio).

L’esultanza popolare e la fraternizzazione spontanea, il fatto che i soldati tedeschi avessero accolto entusiasticamente la notizia (falsa) della morte di Hitler e l’altro, che i comandi dell’esercito abbiano preferito passare del tutto sotto silenzio fatti di così grave insubordinazione, dimostrano quanto poco fosse radicato nei tedeschi lo spirito nazista e quanto, al contrario, fossero avversi alla guerra. Leggiamo altre notizie ricavate da L’Altra Resistenza di A. Peregalli: «Quando pochi giorni dopo il colpo di Stato (governo Badoglio - n.d.r.) si sparse la notizia che Hitler si era suicidato, vi furono impressionanti manifestazioni di gioia da parte dei militari tedeschi che in diverse città fraternizzarono con i nostri soldati» (Giaime Pintor, Il Colpo di Stato del 25 luglio). In un rapporto periferico del PCI del settembre ’43 si legge: «Da una specie di indagine e di constatazioni, a Torino e nella regione risulta che i soldati tedeschi sono ostili alle SS, ch’essi sono stanchi della guerra (...) Parecchi soldati tedeschi cercano abiti civili per disertare (...) e tentano di avvicinarsi cordialmente alla popolazione; specialmente nelle fabbriche soldati tedeschi si avvicinano agli operai. Tipico è il comportamento dell’aeronautica, questi frequentemente abbandonano il posto di guardia e le armi per andare a parlare con gli operai durante la refezione e il lavoro». In un’altra relazione del PCI si parla di «una sottoscrizione fatta per i partigiani da quattro soldati tedeschi».

Questi sono pochi esempi che servono a dimostrare uno stato d’animo generalizzato e sarebbe bastato veramente poco a fare sì che scoppiasse l’insubordinazione e quindi la rivolta generale. Ma a salvare la disciplina nelle armate di Hitler furono, al contrario, le organizzazioni antifasciste, PCI in testa, che sbarrando la strada al processo di fraternizzazione costrinsero i soldati tedeschi a venire riassorbiti dall’unico organismo che in qualche modo poteva garantire loro una difesa: l’esercito nazista. Così, mentre da parte degli invasori si manifestava questa volontà e questo desiderio di avvicinarsi alla classe operaia e con essa solidarizzare ed amalgamarsi, con i mezzi più sporchi veniva innalzata una muraglia di diffidenza e di odio tra il proletariato in tuta e quello in divisa, a tutto vantaggio dei piani dell’imperialismo.

Se proletari erano i soldati tedeschi, altrettanto proletari erano quelli che avevano dovuto indossare la divisa della RSI; sia che fossero rimasti vittime di rastrellamenti, sia che spontaneamente si fossero presentati ai distretti militari dopo avere conosciuto il tenore dei bandi Graziani. Se l’esercito di Salò fosse stato composto esclusivamente da irriducibili fascisti fanatici le gerarchie della Repubblica Sociale non avrebbero ammesso che i sentimenti della truppa erano preoccupanti, tanto più che oltre alla demoralizzazione ed ai tentativi di fuga, nei soldati fascisti aveva preso largo campo il sentimento della sedizione: il canto dell’internazionale e di altri inni sovversivi era diventato un fenomeno generalizzato. Contro i renitenti alla leva Graziani aveva emesso dei bandi che prevedevano la «fucilazione nel luogo stesso della cattura o nella località della sua abituale dimora», e successivamente venivano annunciate ritorsioni sulle famiglie, sia con la confisca dei beni, sia attraverso altri tipi di rappresaglia.

Questi sono sistemi che usano abitualmente tutti gli eserciti, quindi non citiamo le fucilazioni dei renitenti e disertori per far dello scandalo sulla brutalità fascista, citiamo questi sistemi per dire che i soldati di Salò, come tutti i soldati di tutti gli eserciti di tutto il mondo, indossavano una divisa ed imbracciavano un’arma perché costrettivi dal terrorismo statale.

Poiché l’uso solo delle maniere forti non dava i risultati sperati, i repubblichini annunciarono una amnistia a tutti quei renitenti che non fossero già passati nelle file dei ribelli. A seguito di questa amnistia, 44 mila giovani si presentarono ai distretti militari, anche se successivamente molti di loro e degli altri disertarono di nuovo. Questo fatto è però sintomatico: di decine di migliaia di giovani, certamente non fascisti, già imboscati si presentano ai distretti solo perché coscritti con la forza. Questi giovani non avrebbero costituito un enorme apporto tra i ranghi della Resistenza? Perché se li lasciarono scappare? Anche in questo caso la risposta è quella di sempre: il movimento partigiano era il primo a temere incontrollabili reazioni proletarie. Per il futuro ordine democratico era preferibile che i giovani italiani cantassero l’Internazionale all’interno delle caserme della RSI anziché sui monti non fosse altro perché, in questo modo, sarebbero passati al vaglio di una doppia repressione: di quella fascio-repubblicana, perché sovversivi e di quella monarco-partigiana, perché fascisti.
 
 
 


L’attentato di Via Rasella per dividere proletari con uniforme diverse
 

Una delle operazioni tra le più vergognose (quindi considerata dagli stalinisti come una tra le loro più nobili gesta) tendente a suscitare un giustificato odio, sia dei tedeschi contro gli italiani, sia degli italiani contro i tedeschi, fu l’attentato gappista condotto a Roma, in via Rasella. Non a caso l’ideatore di questo attentato fu il dirigente piccista Giorgio Amendola. La dimostrazione che l’attacco di via Rasella abbia avuto una grande importanza per i piani capitalisti lo dimostra il fatto che la repubblica borghese italiana, demo-papalina, per mezzo della Corte di Cassazione dichiarò che si trattava di legittima «azione di guerra» e proclamò i suoi esecutori «eroi nazionali» che, come tali, furono decorati dall’anticomunista De Gasperi. Vale quindi la pena di spenderci qualche parola.

Precedentemente all’attacco di via Rasella, a Roma, altri attentati erano stati compiuti ai danni di fascisti e tedeschi i più importanti erano stati i seguenti: 1) Attentato con bomba, al cinema di piazza Barberini, dopo lo spettacolo: due morti; 2) Attacco a fuoco contro una motocarrozzetta: tre tedeschi uccisi; 3) Bomba contro un camion militare tedesco: soldati gravemente feriti; 4) Bombe contro l’albergo Bernini; 5) Colpi di pistola contro guardie tedesche a sorveglianza di un ponte del Tevere: due morti; 6) Attacco contro un camion al Colosseo; 7) Attentato contro l’albergo Milano; 8) Attentato al Foro Mussolini; 9) Attentato contro l’autorimessa di piazza Barberini: alcuni feriti e gravi danni materiali; 10) Attentato, in piazza del Gesù contro due ufficiali pagatori tedeschi; 11) Attentato in piazza Cola di Rienzo: morti e feriti; 12) Attentato in piazza Fiume all’autorimessa Tassi & Rivoli: un morto e due feriti; 13) Piazzale Romania: attentato con bombe 4 morti: due tedeschi e due italiani; 14) Attentato all’ufficio del generale Maeltzer, presso l’albergo Flora: ferita una donna e gravi danni. «Oltre a questi attentati non era raro il caso che venissero trovati, nel Tevere, cadaveri di soldati» (dalla deposizione di Kappler).

Il 23 marzo 1944 ricorreva il XXV anniversario della fondazione dei «Fasci di combattimento» avvenuta a Milano, in piazza Sansepolcro. I fascisti avevano organizzato una straordinaria commemorazione che prevedeva una messa solenne in onore dei caduti fascisti, il giuramento dei nuovi aderenti al partito fascista repubblicano, una parata per le strade della città ed una grande manifestazione all’interno del teatro Adriano. Il comando tedesco vietò questa manifestazione ritenendo che «sfilare a suon di musica per la città con i gagliardetti fascisti, non fosse altro che una inutile provocazione».

I Gap avevano organizzato un attentato contro la manifestazione fascista, ma, a seguito del cambiamento di programma, pensarono di mettere in atto un’altra azione clamorosa e, su proposta di Giorgio Amendola, fu scelto di attaccare il 3° battaglione del reggimento Bozen. Questo anche se si sapeva che gli uomini del reggimento Bozen erano stati tutti reclutati nel Sud Tirolo, incorporato alcuni mesi prima nel Reich con il nome di Alpenvorland. Questi militari di età piuttosto avanzata e senza esperienza di armi, non avevano mai partecipato ad azioni di guerra, erano sotto addestramento ed erano adibiti al mantenimento dell’ordine con funzioni di polizia di sicurezza.

L’attentato si svolse nel modo seguente: dentro un carretto da netturbino furono sistemati una cassetta metallica contenente 12 chili di tritolo ed un sacco con altri sei chili di tritolo e pezzi di tubi di ferro riempiti con altre cariche esplosive. Venne accesa la miccia. «Dopo pochi istanti, proprio mentre i 156 soldati tedeschi stanno per raggiungere l’ingresso di Palazzo Tittoni, avviene la gigantesca esplosione che investe in pieno i soldati, stretti in gruppo, e in fila per tre stanno camminando in salita, più lentamente. È come una ventata immane che uccide sul colpo decine di soldati e ne ferisce un centinaio. L’esplosione viene udita in tutta la città (...) Subito dopo gli altri gappisti lanciano, sulla compagnia tedesca, le bombe da mortaio ‘brixia’. In via Rasella all’angolo via Boccaccio, un altro gruppo di gappisti impegna una sparatoria con alcuni tedeschi (...) In alto, davanti a Palazzo Tittoni, decine di feriti gemono a terra, mentre ovunque sono sparse membra, elmetti, cinturoni, vetri, pezzi di muro e di intonaco. C’è sangue ovunque. L’esplosione ha persino spinto, contro un muro, un autobus in transito in via Quattro fontane» (W. Settimelli, Processo Kappler). Questo era il crudele spettacolo della carneficina.

Peter Tompkins, maggiore dell’OSS (Office of Strategic Service) che si trovava in missione segreta a Roma espresse subito il giudizio che il colpo partigiano era del tutto privo di una giustificazione militare e strategica. Non c’era nessun motivo, egli pensava, per uccidere dei poliziotti tedeschi scelti a casaccio: «Perché il responsabile dell’attacco, chiunque fosse, non aveva messo alla prova il suo coraggio contro via Tasso (dove erano rinchiusi prigionieri politici, molti dei quali furono poi trucidati alle Fosse Ardeatine - n.d.r.), oppure rapito Kappler?».

Che gli uomini dilaniati dalle bombe in via Rosella non fossero delle belve assetate di sangue lo prova il fatto stesso che quando al reggimento Bozen fu concesso l’onore di eseguire la rappresaglia alle Fosse Ardeatine per vendicare i commilitoni assassinati, il loro comandante oppose un netto rifiuto. Dopo il rifiuto del maggiore Dobbrick, comandante del reggimento Bozen, l’ordine venne impartito al colonnello Hauser della Wehrmacht, ma anch’egli rifiutò. «Quando Maelzer abbassò il ricevitore, ripeté quanto Hauser aveva detto e rivoltosi all’ufficiale della Gestapo, disse: Tocca a voi, Kappler» (R. Katz, Morte a Roma).

In risposta ai precedenti attacchi partigiani verificatisi a Roma, quelli che abbiamo sommariamente elencato, la polizia tedesca aveva risposto con una opera di dura repressione, ma mai erano state effettuate rappresaglie. Di fronte ad una carneficina come quella di via Rasella, tra l’altro senza nessuna giustificazione da un punto di vista militare, era impensabile che rappresaglie non venissero eseguite. Se la spia americana non riusciva a comprendere le ragioni dell’attacco, questa ragione era ben compresa dai tedeschi. «Dollman e Moelhausen arrivarono (...) alla conclusione che l’attacco di via Rasella aveva avuto lo scopo di provocare i tedeschi a colpire, quanto più spietatamente tanto meglio, la cittadinanza di Roma, per ravvivare l’odio per gli occupanti e aumentare la popolarità della resistenza» (R. Katz). Dello stesso parere era Kappler, che al processo dirà: «Pensavo che l’attentato era stato commesso per provocare rappresaglie, perché ritenevo che in certi ambienti esisteva l’idea di provocare l’odio nelle truppe tedesche».

Questa intenzione, che in seguito è stata confermata anche dagli organizzatori dall’attentato, traspariva apertamente dall’articolo de "L’Unità" del 30 marzo ’44. In questo articolo, riferendosi ai trucidati delle Fosse Ardeatine, si diceva che essi avevano «il diritto di pretendere da noi che nessun sacrificio forse troppo grande, che nessun rischio fosse considerato troppo serio, nessuno sforzo troppo duro perché essi fossero vendicati». In seguito Giorgio Amendola si dichiarò autore di questo scritto ed anche ideatore dell’attentato di via Rasella.

L’azione partigiana venne definita dal C.L.N. come un autentico atto di guerra di liberazione, ma è molto strano che dopo una azione militare condotta a termine in maniera così perfetta, i partigiani si siano completamente dileguati e non abbiano minimamente pensato alle risposte di rappresaglia da parte tedesca. Sarebbe stato logico, e sarebbe stata una vera azione militare, impedire od almeno disturbare l’esecuzione della rappresaglia. Gran parte dei trucidati delle Fosse Ardeatine furono prelevati dal carcere di via Tasso. Via Tasso era certamente tenuta sotto sorveglianza partigiana dal momento che era in programma un attacco per liberare il sottotenente Giglio.

Il 24 marzo, per trasportare i 335 condannati a morte dalle prigioni di via Tasso e Regina Coeli, il transito dei camion militari fu intenso, ma non destò nei partigiani nessun sospetto. Nessuno fece caso all’insolito movimento. Eppure questo movimento inconsueto era stato notato da parte della popolazione, ed alcune persone avevano in qualche modo assistito, anche se indirettamente, all’esecuzione di massa. «Prima delle sette, ora del coprifuoco, i pochi abitanti che vivevano e lavoravano nella zona delle catacombe, scarsamente popolata, cominciarono a capire ciò che stava accadendo fra loro. Una giovane coppia di fidanzati che passeggiava nelle prime ore della calda sera, udì il ripetuto crepitio degli spari soffocati. Mentre si avvicinavano alla via Ardeatina sbarrata, furono messi in guardia da qualcuno dei loro vicini di non procedere oltre: ‘ci sono i tedeschi’, fu loro detto. Alcune delle guide delle catacombe, di S.Callisto, che si trovavano fra la via Appia e la via Ardeatina, cercavano di sapere cosa stava succedendo. I tedeschi li cacciarono via minacciandoli con i fucili puntati. Un giovane di una osteria vicina strisciò lungo un automezzo e rubò un fucile. Fu preso, messo contro un muro e minacciato di fucilazione immediata. Un frate della Slesia di nome Szemik, che era una delle guide tedesche delle catacombe, intervenne e salvò il giovane. Un sacerdote romano, che tornava dalla campagna, venne fermato mentre tentava di rientrare in città lungo la via Ardeatina. Dall’ingresso delle cave giunse a lui la voce di qualche prigioniero che cantava l’inno garibaldino `si scopron le tombe...’ Il sacerdote immediatamente avvertì in quei canti l’eco di un coro di tragedia. Egli recitò la preghiera ‘In manus tuas Domine...’ Non visto dai tedeschi, un guardiano di maiali (...) riuscì ad assistere all’intera operazione» (R. Katz). Certo strano che la Resistenza sia rimasta all’oscuro di tutto.

L’attentato di via Rasella, del tutto inutile da un punto di vista bellico, non soltanto provocò la feroce reazione che sappiamo, ma, dichiarandolo azione di guerra, avallò la teoria anglo-americana secondo la quale Roma era città aperta solo a parole e quindi legittimò i bombardamenti alleati sulla città.

Questo attentato e tutti gli altri compiuti senza una logica militare ebbero l’effetto di rinsaldare la disciplina all’interno dell’esercito tedesco. I proletari tedeschi in divisa, stanchi di continuare la guerra e predisposti allo sciopero militare, trovandosi sbarrata la porta di ogni forma di solidarietà e di aiuto da parte del proletariato italiano, trovarono la loro unica difesa all’interno del loro esercito ed il loro odio si indirizzò contro i traditori italiani.

Qualche parola merita pure di spenderla per le centinaia di vittime della rappresaglia ordinata dal comando tedesco. Ma quando non si voglia speculare sul facile chiché della ferocia tedesca, torna subito in evidenza il dato fondamentale della guerra imperialista: sterminio, sotto qualsiasi forma e sotto qualsiasi pretesto degli operai e degli strati proletari. A tale proposito scrivevamo nel 1948: «Kappler afferma che lui e la sua organizzazione di polizia di sicurezza erano riusciti ad individuare i nomi dei principali responsabili del movimento della resistenza a Roma (...) D’altra parte sappiamo dal Diario Bonomi che questi ed altri esponenti del CLN si riunivano collettivamente in modo ben poco clandestino (La spia americana Peter Tompkins racconta che lui, a Roma, frequentava i ricevimenti frequentati dagli ufficiali tedeschi e che si spupazzavano le medesime ragazze). Come mai avvenne dunque che quando si trattò di compiere una rappresaglia si fucilarono solo uomini senza una responsabilità precisa e semplici proletari, fra cui qualcuno vicino alla sinistra marxista? Evidentemente, la ferocia delle due borghesie in lotta non arrivava al punto di indurle a sterminarsi a vicenda, ma si compiaceva di sterminare i proletari che per disavventura avessero seguito l’una o l’altra delle parti in conflitto. Così avvenne a Roma, così avvenne in genere ovunque operarono le terribili SS. O non abbiamo visto tipici esponenti dell’antifascismo, come Blum, uscire intonsi dai campi di concentramento tedeschi mentre centinaia di migliaia di personalità minori vi erano freddamente macellate? Quanti ‘dirigenti’ hanno conosciuto le grinfie tedesche solo per poterne menar vanto a guerra finita e a spavento passato! Queste delicate attenzioni dei nazisti ai maggiori papaveri della socialdemocrazia hanno del resto ottenuto il meritato riconoscimento. Quando il nazismo ebbe perso la partita e i suoi uomini videro approssimarsi l’ora della resa dei conti, le nuove autorità ricambiarono cortesia per cortesia e accordarono ai capoccia di parte avversa un trattamento di favore. Presero anche loro l’abitudine di organizzare processi e fucilare colpevoli ma processi e fucilazioni avvennero sempre secondo la stessa tattica di colpire in basso e salvare in alto. Salvare in alto fino a riportare in parlamento gli uomini del passato regime, fino a procurare posti di villeggiatura ed editori ai Graziani, ai Mussolini, ecc. Il processo Kappler, semplice boia stipendiato, né un altro esempio. Può darsi che il tribunale lo ritenga colpevole dei delitti che freddamente eseguì ma di cui non è responsabile; ma non c’è giustizia borghese a perseguire i vari Kesselring, come non c’è a perseguire chi ordinò l’attentato di via Rasella» ("Battaglia Comunista", n.21 - giugno 1948).

Chi ordinò la strage di via Rasella viene oggi considerato come un padre della patria, ma nemmeno a Kesselring ed ai suoi camerati andò male: Kesselring, processato a Venezia nel 1947, da un tribunale militare alleato, venne condannato a morte; la pena fu poi tramutata in ergastolo e nel 1953 graziato e liberato. von Mackensen, processato a Roma e condannato a morte; Anch’egli ebbe la pena tramutata in ergastolo e liberato nel 1952. Il generale Wolff, processato ad Amburgo nel 1949 venne assolto. Kappler, condannato all’ergastolo restò in prigione fino a che, nel 1977, molto malato, venne compiacentemente fatto «trafugare» dalla moglie. Come si vede il «semplice boia stipendiato», Kappler, fu quello che maggiormente pagò, mentre i suoi diretti superiori, liberi in Germania, si godevano il meritato riposo.

La nostra affermazione che a soffrire degli orrori della guerra sono innanzi tutto i proletari potrebbe venire confutata con l’argomentazione che i nazisti le loro maggiori vittime le hanno fatte non ai danni di una classe, ma di un popolo, quello ebraico, senza considerare distinzione di classe. Anche alle Ardeatine, su 335 vittime, ben 73 appartenevano al popolo di Sion. Ma non accettiamo la tesi che le persecuzioni contro gli ebrei siano state compiute in modo indiscriminato; anche in questo caso, come nel caso degli antifascisti, furono gli appartenenti al popolo minuto quelli che più di ogni altro ebbero a subire le orrende persecuzioni. Nella retata di Roma, ordinata da Kappler il 16 settembre 1943, durante la quale furono rastrellati e deportati un migliaio di ebrei «esulò completamente il criterio della capacità economica delle vittime come risulta comprovato dalla circostanza che il quartiere di Monte Savello ove fu compiuto il grosso del prelievo era abitato da popolo minuto non iscritto fra i contribuenti (della organizzazione ebraica - n.d.r.), e come resta confermato dal fatto che anche negli altri rioni dell’Urbe vennero ricercate e rapite molte persone non iscritte all’elenco dei contribuenti, mentre non ne furono ricercate altre che in quello invece figuravano» (Ugo Foà, Presidente della comunità ebraica - 15 novembre ’43).
 
 
 


La parola del Partito ai proletari ai comunisti e ai soldati reclutati nelle bande partigiane
 

Il 1° novembre 1943, nel suo primo numero, "Prometeo" scriveva: «Dopo avere tentato di convogliare la marea montante delle masse nel comodo letto della democrazia borghese, le si invita alla concordia nazionale in nome della lotta contro l’invasore, si cerca di offrire ad un popolo che, in tre anni di conflitto, ha dimostrato di non voler far la guerra, un motivo plausibile per dimenticare nell’ubriacatura la via maestra della conquista del potere, per fraternizzare col nemico di classe, per spianare col suo sangue la via ad un risorto regime democratico e alla vittoria di un imperialismo su un altro. E, impotente da sola a convincere l’operaio a combattere per una causa non sua, la borghesia mobilita il servo fedele dell’opportunismo perché rispolverando i vecchi arnesi della retorica nazionalista, chiami a raccolta il proletariato sotto le logore bandiere della `patria’ del ‘nuovo Risorgimento’ dei ‘sacri confini’ e della difesa del patrimonio industriale italiano o in altre parole, lo immetta nel terribile ingranaggio della guerra imperialista».

Contro lo sciovinismo deteriore dei partiti della controrivoluzione, la Sinistra comunista lanciava le proprie consegne di classe: «Operai. Alla parola d’ordine della guerra nazionale, che arma i proletari italiani contro i proletari tedeschi ed inglesi, contrapponente la parola d’ordine della rivoluzione comunista, che unisce al di sopra delle frontiere contro lo stesso nemico – il capitalismo – i lavoratori di tutto il mondo. È necessario, oggi più che mai, che i proletari vedano chiaro. Il dilemma non è di combattere nell’esercito democratico o fascista o di inserirsi nelle bande partigiane: è uno solo - guerra o lotta di classe. Tra i corni di questo dilemma, noi non possiamo scegliere che l’ultimo. La liberazione del proletariato sarà realizzata non da chi l’ha invitato a combattere sotto la bandiera della democrazia, ma dal solo organismo che abbia lanciato al proletariato di tutto il mondo la vera parola d ordine rivoluzionaria: Proletari disertate la guerra, disertatela sotto qualsiasi maschera vi si presenti».

L’analisi delle bande partigiane si trova nel numero 4 del giornale: «Il nostro atteggiamento di fronte al fenomeno del partigianesimo dettato da precise ragioni di classe. Nate dallo sfacelo dell’esercito, obiettivamente e nelle intenzioni dei loro animatori, sono degli strumenti del meccanismo di guerra inglese, e i partiti democratici le sfruttano al doppio intento di ricostituire sul territorio occupato un potenziale di guerra e di sviare dalla lotta di classe una minacciosa massa proletaria, gettandola nella fornace del conflitto. Alla propaganda dei sei partiti che invita i giovani proletari ad abbandonare il loro terreno specifico di lotta – le città e le fabbriche – per raggiungere in montagna le schiere partigiane, dissanguando così l’esercito della rivoluzione, noi non possiamo perciò che opporre il più categorico rifiuto».

Nel numero dell’agosto ’44 vi è un lungo resoconto di un propagandista del partito che, con l’aiuto di un simpatizzante, aveva potuto inoltrarsi in una zona controllata dai partigiani e tra questi aveva portato la parola del comunismo rivoluzionario. Dopo avere analizzato vari aspetti della vita, dell’organizzazione e dei componenti le bande partigiane, il propagandista termina il suo rapporto con queste parole: «Gli elementi comunisti credono sinceramente alla necessità della lotta contro il nazifascismo e ritengono che, abbattuto tale ostacolo, potranno marciare verso la conquista del potere, sconfiggendo il capitalismo». Quello che segue è il commento del nostro compagno: «Questo è l’equivoco spaventoso creato dal centrismo, che toglie al proletariato una parte della sua forza di urto favorendo l’inganno di una soluzione democratica che risponde agli interessi del capitalismo italiano e degli Stati che stanno per risolvere vittoriosamente un conflitto di cui sono corresponsabili». Questo dimostra quanto sia falsa l’accusa rivoltaci di formulare giudizi in tronco senza distinguere e valutare anche le motivazioni personali e le mille situazioni dalle quali gli individui, loro malgrado, sono sopraffatti ed imprigionati.

Giustamente i nostri compagni, dopo avere, senza riserva alcuna, affermato che il movimento partigiano era all’esclusivo servizio di uno dei due imperialismi belligeranti e degli interessi della borghesia nazionale, tuttavia prendevano atto che la componente proletaria era sinceramente rivoluzionaria ed intenzionata a lottare per la conquista del potere. Da questo ne discendeva che il partito comunista internazionalista avrebbe dovuto distinguere tra il movimento partigiano ed i partigiani, o almeno la componente proletaria di essi. I fascisti videro in questo nostro atteggiamento un escamotage opportunista ed il relatore dei «rapporti al Duce», scriveva: «Qui la sinistra comunista fa suo il linguaggio degli altri gruppi sovversivi, senza dubbio con l’intento di crearsi una sua propria massa di manovra». La posizione della Sinistra era invece molto più complessa e semplice allo stesso tempo. Da chi erano composte le bande partigiane? Esse erano composte «sia di operai illusi che credevano di imbracciare il fucile non per cacciare dalla porta un imperialismo per farne entrare dalla finestra un altro, ma per preparare la rivoluzione proletaria (sulle montagne!); sia di giovani e vecchi militanti rivoluzionari che vi cercavano riparo a reali o temute persecuzioni; sia, infine di poveri soldati che semplicemente non avevano più voglia di vendere la pelle ai borghesi. Qui il problema generale si sfaccetta in mille problemi particolari. Che via indicare a questi uomini incalzati dalla tormenta della guerra?»

Ed ecco come il partito rispondeva all’interrogativo: «Per coloro che non si sono troppo direttamente compromessi, invitarli a raggiungere sul fronte della diuturna lotta di classe i loro fratelli operai che combattono la loro battaglia fra pericoli e insidie non meno gravi, per gli altri scindere la loro azione da quella dei difensori della patria dei borghesi e della guerra nazionale e a trasformare i propri nuclei armati in organi di autodifesa operaia, pronti a riprendere domani il loro posto nella lotta, non per il fantasma delle ‘libertà democratiche’, ma per la realtà dura, ma luminosa della rivoluzione proletaria» ("Prometeo", febbraio 1944).
 
 
 


Scioperi operai nel periodo bellico
 

Quando nei libri di storia si parla degli scioperi del 1943, il più delle volte, se ne parla come movimenti di classe, addirittura pre-insurrezionali, che, organizzati e diretti dal PCI, avrebbero determinato, nel luglio, la caduta del fascismo ed aperto la strada al risorgere della democrazia.

Questa interpretazione ufficiale non ha mai avuto smentita da parte degli avversari del PCI, democratici o fascisti che fossero. Anzi, furono proprio i fascisti, volendo negare le motivazioni materiali che costringevano il proletariato a scendere in lotta, a presentare questi episodi dell’incessante scontro di classe come frutto di fomentazione comunista.

Cercheremo ora di vedere quanto c’è di vero in queste affermazioni per dimostrare, al contrario, come la lotta di classe sia nata e si sia sviluppata indipendentemente da interventi esterni, ed in particolar modo del PCI; come il PCI abbia solo tentato di cavalcare un movimento in atto; come non lo abbia mai indirizzato verso finalità di classe, ma lo abbia sempre affogato o degenerato a fini borghesi e cioè al fine della vittoria di un imperialismo su di un altro.

«Dal 1935 al 1943 il costo della vita, calcolato sulla base del 1928, era salito da un indice di 109,22 ad un indice di 164,99, mentre, nello stesso tempo, l’indice del potere di acquisto dei salari era sceso da 90 ad 80. Il mercato nero dilagava, poiché le razioni che erano di 20 grammi di carne e l50 di pane al giorno, oltre altre piccole quantità di altri generi, risultavano del tutto insufficienti. Mentre nel 1938 il pane comune costava L. 1,80 al Kg., nel 1943 esso costava al mercato nero L. 8,50, la pasta che costava nel ’36 L. 3 al Kg., era salita a L. 9; nello stesso periodo il burro da L.15,50 al Kg. era salito (sempre, naturalmente, al mercato nero) a L.122; le uova da L. 6,50 la dozzina, a L. 96; l’olio da L. 7,80 al Kg. a L. 640,50; lo zucchero da L. 7 al Kg. a L. 50; il sapone da bucato da L. 4 al Kg. a L. 337. Di fronte a ciò stava la dura realtà dei salari. Mentre un operaio metallurgico di prima categoria percepiva in media L. 4,60 all’ora e un manovale comune L. 2,95, un’operaia tessile non superava le L. 1,90 all’ora: il che è quanto dire che essa, per comprarsi una bottiglia d’olio al mercato nero, avrebbe dovuto lavorare per più di un mese» (R. Luraghi, Dal 25 luglio all’8 settembre).

Questa era la situazione alimentare nel 1943, ma già nel ’41 i lavoratori, con i loro miseri salari, non erano in grado di assicurarsi il minimo indispensabile per il loro sostentamento e la elargizione delle «120 ore» aveva avuto lo scopo di allentare appena la tensione sociale che rischiava di esplodere, ma non aveva minimamente risolto il problema della alimentazione dei proletari.

Gli stessi fascisti il 30 agosto 1942, riuniti a Milano, al palazzo dei sindacati, ammettevano che i salari operai erano inferiori di L. 5,20 al giorno rispetto al costo ufficiale della vita e che il razionamento dei generi alimentari era insufficiente a coprire il minimo indispensabile dei bisogni della classe operaia. I sindacati fascisti non solo riconoscevano che il salario non copriva i bisogni più elementari dei lavoratori, ma anche i loro giornali erano ormai costretti a pubblicare lettere soprattutto di operaie, che protestavano contro il lavoro sottopagato delle donne.

"L’Unità" n.2, dell’agosto 1942, riporta la notizia che il «continuo lamentarsi dei lavoratori contro il peggioramento delle loro condizioni fisiche, ha suggerito ai gerarchi fascisti l’idea di fare pesare gli operai». Nell’articolo intitolato: «Gli Operai sono pesati come i Bovini», si diceva che nel corso dell’ultimo anno vi erano proletari che avevano perso dai 10 ai 15 chili di peso e che lavoratori alti 1,70 circa pesavano dai 53 ai 55 chili.

Di fronte a questa tragica situazione è interessante vedere quale direttiva il PCI lanciava ad un proletariato dissanguato nel vero significato del termine: «Su ogni officina, in ogni famiglia – scriveva "L’Unità" – gli operai si pesino e facciano il bilancio del loro peso fisico e della salute che hanno perduto negli ultimi anni di guerra...»

"L’Unità" n.3 del settembre 1942 riportava la notizia di manifestazioni di piazza compiute a Grugnasco da circa 150 ed a Melegnano da circa 300 donne: le prime esigendo ed ottenendo una distribuzione supplementare di generi alimentari e, le seconde, convocate con cartolina precetto presso il locale ufficio di collocamento, si rifiutarono di accettare il lavoro che le autorità fasciste volevano loro imporre. Contemporaneamente all’Alfa Romeo di Milano ed alla Tedeschi di Torino gli operai avevano effettuato lo sciopero bianco.

Nel settembre la lotta del proletariato si estese in varie città industriali; le agitazioni che ebbero un eco maggiore (ma non furono assolutamente le uniche) furono quelle della Fiat, dove gli operai entrarono in lotta in risposta ad una diminuzione di salario di circa il 20%; dell’Ilva, per ottenere un aumento delle retribuzioni; e della Caproni, contro le basse paghe ed il supersfruttamento. Questi stabilimenti erano adibiti in tutto od in parte alla produzione bellica, sia per l’Italia che per la Germania.

Commentando gli scioperi del settembre ’42 "L’Unità" non tralasciava di evidenziare il suo sciovinismo controrivoluzionario quando scriveva che i lavoratori avevano «dimostrato con la forza di opporsi acché Hitler tratti gli operai italiani alla stregua degli operai dei paesi occupati» ("L’Unità" n.4, 5 ottobre ’42). Non c’è che dire, un bell’esempio di internazionalismo proletario!

Gli scioperi e le agitazioni operaie durarono ininterrottamente per tutto l’anno 1942 e spesso riuscirono a strappare miglioramenti, sia salariali, sia di condizioni di lavoro, sia anche distribuzioni aggiuntive di generi alimentari e vestiario. Un vero movimento di sciopero, però, scoppiò e si estese fin dai primi giorni del 1943, intensificandosi sempre di più fino a raggiungere, nel marzo, dimensioni davvero preoccupanti per la borghesia.

La lotta, partita il 5 marzo dalla Fiat Mirafiori si estese immediatamente e passò, il 9 marzo, alla Fimet, all’Ambra, alla Manifattura Tabacchi, alla carrozzeria Viberti, alla Lancia, alla Ceat, alla Michelin (dove la direzione, dopo mezz’ora di sciopero bianco accordò agli operai un acconto di 300 lire), alle concerie Florio, alla Fest di Rivoli. Il giorno 10 scioperarono gli operai dello stabilimento Capiamanto, della Frigt, delle Concerie Riunite, della Fatis di Collegno. Il giovedì 11 marzo l’astensione dal lavoro assunse dimensioni ancora maggiori. Nella notte tra il 12 ed il 13 marzo, alla Fiat Mirafiori, circa 2000 operai del turno di notte escono dalla fabbrica. Alla Riv, lo sciopero iniziato giorni prima è ancora in sviluppo con due sospensioni dal lavoro; tre sospensioni vengono effettuate alla Fiat Lingotto, altre allo stabilimento Fornara, alla Sigla, alla Bona, alla Fiat Materiale Ferroviario, alla Farina, alla Allermann di Avigliana, al dinamitificio Nobel, alla Magnoni & Tedeschi, alla Snia viscosa di Venaria, ecc. Lunedì 15 marzo, ancora scioperi alla Fiat Fonderie, alla Gutermann, alla fonderia Passard di Pineorolo, alla Savigliano, alla Talco, al cotonificio Valdisusa, alla Fergat e in molte altre piccole fabbriche torinesi.

Giovedì 18 marzo, la direzione della Fiat emette un comunicato nel quale si informa che «per intanto – a fine settimana – verrà versato un primo anticipo di L. 300 a tutti gli operai di quei reparti che si manterranno disciplinati al lavoro». Tutte le altre aziende di Torino si uniformarono alla condotta Fiat. Gli operai tornarono al lavoro, ma vi tornarono sapendo di avere conseguito una vittoria.

Anche a Porto Marghera, a cominciare dal 14 marzo, erano scoppiate agitazioni e scioperi che, partiti dalla Vetrocoke, erano dilagati coinvolgendo aziende come la Breda, la Fertilizzanti, la Azotati

Il movimento di classe, temporaneamente smorzato a Torino, esplodeva ora a Milano dove, dal 23 al 28 coinvolse un numero di operai non inferiore a quello di Torino. Il giorno 23 alla Falck una squadraccia fascista interveniva con manganelli e pistole per riportare l’ordine e fare riprendere il lavoro, ma gli eroi in camicia nera si trattennero molto poco in fabbrica e, dopo essersi guadagnati una copiosa dose di legnate, pensarono bene di alzare i tacchi ed alla svelta. L’agitazione continuava poi fino al giorno 29. La Pirelli scioperò dal 24 al 27 marzo. Gli interventi della polizia non riuscirono a convincere gli operai a riprendere il lavoro. Alla Ercole Marelli, 4000 operai scioperavano il giorno 24, il 25 è la volta delle officine Borletti, della Brown-Boveri, della Face-Bovisa, della Caproni, della Bianchi. Il 26 marzo scioperava la Cinemeccanica, la Olap, ecc. il 27 marzo la Motomeccanica, la Kardes, ecc. Il 29 marzo la Breda Aeronautica, la Magnaghi-Turro, riprende lo sciopero alla Falck, alla Borletti, alla Brown, ecc. Lo sciopero si estendeva poi nel biellese, in Valsessera.

Il regime fascista si trovò del tutto impreparato ad affrontare questa ondata di scioperi, anche perché la lotta del proletariato, quando esplode, estende la sua azione su tutta quanta la classe sbarazzandosi delle artificiali divisioni ideologiche realizzabili solo fino a che è possibile corrompere degli strati operai. Di conseguenza l’azione repressiva della polizia fascista fu abbastanza blanda e fece attenzione a non provocare l’acuirsi della crisi che avrebbe scatenato ben più massicci movimenti proletari.

Anche le azioni squadristiche, tentate in alcuni luoghi dopo i ridicoli risultati conseguiti furono del tutto abbandonate. Si preferì giocare la carta sentimentale facendo sfilare davanti alle fabbriche in sciopero gruppi di mutilati di guerra. D’altra parte a scioperare non furono soltanto gli operai comunisti, furono gli operai organizzati nei sindacati fascisti, furono gli iscritti al PNF, furono gli appartenenti alla Milizia (anche se avevano ricevuto l’ordine di recarsi al lavoro in camicia nera).

Il consigliere nazionale fascista, Malusardi si permetteva di fare sparate del seguente tenore: «C’è un episodio istruttivo avvenuto presso la nostra grande alleata, la Germania. In una grande fabbrica bellica, gli operai hanno incrociato le braccia, essi sono stati decimati come al fronte; alcuni operai che avevano raccolto denaro per aiutare le famiglie dei fucilati, vennero fucilati a loro volta».

Ma il regime fascista, ben conscio dei pericoli che si sarebbero corsi scatenando una dura repressione antioperaia, tentava di blandire i lavoratori ed il segretario del partito Vidussoni in un dispaccio diramato alle Federazioni dava le seguenti direttive: «Richiamo l’attenzione dei segretari federali sulla necessità di intensificare i contatti con la massa per seguire da vicino gli stati d’animo e orientare le impressioni secondo la necessità del momento Alt. Per ottenere ciò secondo le istruzioni già impartite occorre stare fisicamente et spiritualmente in mezzo al popolo et fargli apprezzare continua affettuosa premura del Partito verso sue necessità Alt. A tale fine occorre snellire ogni procedura et facilitare diretti contatti ricevendo tra l’altro in federazione et presso Gruppi rionali quanti vogliano conferire ascoltandoli con pazienza e specialmente evitando in modo assoluto lunghe attese et sempre odiose anticamere incompatibili con lo stile fascista Alt. Su questa ultima necessità siano date ben chiare istruzioni anche ai minori gerarchi et agli addetti di ogni ufficio dipendenti aut controllati dal Partito Alt».

Il regime fascista non solo non si arrischia a scendere in campo aperto contro gli operai, ma addirittura tenta di mostrarsi come affettuoso e premuroso nei confronti dei desideri e delle necessità dei lavoratori. Lo stesso manifesto con il quale i sindacati fascisti avevano invitato gli operai di Torino a riprendere il lavoro, come ebbe a notare Mussolini, «era stato stampato alla macchia», cioè non portava firma alcuna.

Il governo fascista, sconfitto dalle agitazioni proletarie, si dichiarava disposto ad accettare parte delle richieste operaie ed il 2 aprile annunciava ufficialmente che «le due confederazioni fasciste interessate stanno elaborando i provvedimenti che entreranno in vigore il 2l aprile». I provvedimenti consistevano in una indennità giornaliera di «carovita» che variava dai centri «soggetti ad azione bellica nemica» a tutti gli altri. Questo non era che una piccola parte di quanto gli operai in lotta avevano chiesto, ma rappresentava comunque una vittoria e soprattutto rappresentava l’avvenuta riorganizzazione autonoma della classe operaia. Lo spettro della riorganizzazione del proletariato faceva tremare la borghesia italiana ben più delle bombe alleate (che comunque piovevano sui quartieri proletari) e, di fronte a questo spettro, mise in movimento tutte le sue forze: generali, industriali, gerarchi fascisti, Corona, Vaticano. E decise di eliminare il fascismo.

In questa operazione svolgerà un ruolo di primo piano il partito di Togliatti, ancora in fase di riorganizzazione, ma già pienamente controrivoluzionario. Di fronte ad una così imponente azione proletaria, nata spontaneamente ed impetuosamente divampata e che aveva immediatamente assunto squisiti connotati di classe, il PCI mise subito in azione tutte le sue energie per deviare il movimento nel terreno del peggiore interclassismo. A questo scopo "L’Unità" riempiva le sue pagine con frasi di questo tipo: «Gli italiani onesti che hanno a cuore l’avvenire del nostro paese, hanno il dovere di appoggiare (...) il movimento degli operai». Gli operai «hanno l’appoggio di tutta la nazione che vuol farla finita con la guerra e col brigante di Palazzo Venezia che ha venduto l’Italia a Hitler» «Gli obiettivi che stanno oggi di fronte al popolo italiano sono fissati dal dovere che abbiamo noi tutti di salvare il paese dalla catastrofe totale prima che sia troppo tardi». «La classe operaia sente che è giunto il momento di riprendere (...) la sua importante funzione di avanguardia del popolo italiano nella lotta contro il fascismo e la (...) guerra ingiusta e antinazionale». «Gli operai italiani hanno coscienza di essere sulla buona strada, sulla strada che deve portare tutta la nazione alla rivolta contro il governo della catastrofe, alla salvezza del Paese».

Ed infatti la «rivolta di tutta la nazione contro il governo» ci fu. Venne il 25 luglio: la eliminazione del fascismo decretata dall’organo supremo del regime fascista. Venne l’arresto di Mussolini da parte di colui che lo aveva accolto a braccia aperte come un salvatore. Venne la formazione di un governo a dittatura militare presieduto da quel generale che più di ogni altro aveva beneficiato del regime fascista. Ma "L’Unità" del 27 luglio scriveva trionfalisticamente: «Non siamo, no, davanti ad una semplice rivoluzione di palazzo (...) Chi vive a contatto con le masse sa che il vero protagonista della crisi culminata nella cacciata di Mussolini dal potere è il popolo italiano colla sua resistenza alla politica di guerra e di asservimento».

In un trafiletto, pubblicato nello stesso giorno, si legge: «Siamo in piazza Oberdan, alle 4 del pomeriggio (...) Mentre sta formandosi una immensa colonna che si dirige al centro della città ed alle carceri di S. Vittore, da uno degli sbocchi della piazza avanzano alcuni massicci carri armati. Uno di essi si dirige verso il cuore della piazza, fendendo con lu sua mole, in un fragore assordante, la massa, che straripa sui bordi. Dalla folla si stacca una donna giovanissima, avanza sola verso il carro armato. Presto due, tre uomini la seguono, d’un balzo la donna viene issata sul carro in corsa, d’un balzo cento e cento uomini e donne sono con lei. Il carro si corona di una selva di popolo, che si stringe affettuosamente, familiarmente intorno ai suoi soldati. Viene issato il tricolore. Popolo e soldati fraternizzano e gridano insieme: Viva l’esercito! Viva la pace e la libertà (...) Ovunque i soldati hanno fraternizzato con gli operai». Questo stucchevole racconto, tipico esempio di retorica stalinista e certamente ricopiato da qualche lezioso articoletto della Pravda, ci dimostra tutta la malafede del PCI; se i soldati fraternizzavano con gli operai, non altrettanto faceva il governo post-fascista e l’esercito. L’operazione «ordine pubblico» fu spietata: a Milano, in una settimana si ebbero 23 morti, a Genova 6, a Savona 2, a Reggio Emilia 9 a Bari 17. Ma "L’Unità" non parlava di questi eccidi, tutta impegnata com’era a spegnere l’incendio della lotta di classe, e, mentre le mitragliatrici di Badoglio falciavano gli scioperanti, il giornale di Togliatti scriveva che i «lavoratori italiani (...) hanno bisogno di un rapido ritorno ad una utile attività produttiva» (4 agosto 43).

Venne l’armistizio e l’Italia si ritrovò divisa in due parti, governata da due governi fantoccio, emanazione di due imperialismi rivali. Ma il capitalismo italiano, specialmente nei grandi centri industriali non subì danno dalla nuova situazione, anzi, nello spirito della tradizione patria si ingegnò a trarre il maggior profitto possibile dalla nuova situazione. Leggiamo su Spriano: «Gli industriali trattano direttamente con il personale politico, militare e tecnico degli occupanti tedeschi, cercando di cavarne il maggior vantaggio possibile, scaricando magari su di essi la tensione sociale crescente nelle fabbriche e al tempo stesso – la cosa è assodata per quanto riguarda i grandi monopoli, la Fiat in primo luogo – rivolgendosi già a quello che sarà il loro alleato futuro, il potere anglo-americano. I grandi industriali non trascurano un contatto e neppure qualche forma di aiuto finanziario verso i CLN, attraverso le loro componenti moderate e personalità singole che si ritrovano un po’ in tutti i partiti antifascisti (salvo il PCI). In sostanza, però, non c’è una linea politica della grande industria privata, né un suo intervento deciso in favore della guerra di liberazione, né un aperto collaborazionismo. Complessivamente gli industriali restano intransigenti dinanzi alle rivendicazioni operaie, intendendo difendere profitti e privilegi, garantirsi la continuazione dei rifornimenti energetici e di commesse da parte dei tedeschi, ricattando se mai sia questi ultimi sia i lavoratori e tollerando la scarsa produttività che deve servire loro ad apparire di fronte agli anglo-americani come ‘sabotatori’ occulti dello sforzo bellico germanico» (Spriano, Storia del PCI). A parte la pudica foglia di fico con la quale tenta di coprire le vergogne del PCI affermando che esso non prendeva soldi, lo Spriano ci dà una esatta descrizione della vera natura del capitalismo per il quale solo il profitto è ciò che conta e per il quale un imperialismo vale l’altro, fermo restando, comunque, che al proletariato deve essere succhiata fino all’ultima goccia di plusvalore e di sangue.

Dopo avere letto il brano dello storico piccista possiamo meglio comprendere le motivazioni che spinsero la Fiat a ridare fuoco alla miccia della lotta operaia. L’inizio della nuova ondata di scioperi, infatti, nacque a seguito della comunicazione della direzione Fiat che annunziava che i salari del mese di ottobre non sarebbero stati pagati prima del 27 novembre (di regola venivano pagati il giorno 15 del mese successivo). Il giorno stesso della mancata liquidazione cominciava uno sciopero alla Fiat Mirafiori e da lì, nei giorni successivi, si diffondeva a tutti gli altri reparti del gruppo: Grandi Motori, Lingotto, Ricambi, Aeronautica, S.P.A., Acciaierie, Fonderie. Uscito dalla Fiat, il movimento coinvolse anche la Riv e la Michelin. Le stesse autorità fasciste ammisero il coinvolgimento di circa 50.000 lavoratori. Lo sciopero scoppiato come risposta alle disposizioni Fiat, immediatamente estendeva le sue rivendicazioni richiedendo aumenti salariali, indennità, supplementi di razioni alimentari.

Lunedì 22 novembre i giornali riportarono l’elenco dei miglioramenti che i lavoratori avevano ottenuto: aumento del 30% di salari e stipendi, garanzia di un salario minimo, premio di 500 lire agli operai capofamiglia e 350 a tutti gli altri ed alle operaie. Gli operai, ritenendo tali concessioni insufficienti a soddisfare i loro minimi bisogni vitali, ripresero immediatamente la lotta. A questo punto intervennero direttamente le autorità militari tedesche ed il generale Zimmermann dichiarava estese a tutti i lavoratori torinesi le concessioni già fatte ai dipendenti Fiat ed in più prometteva l’aumento della razione di pane, la concessione di 5 chili di patate, una massiccia distribuzione di olio, sale, vino, scarpe, legna. Passando dalle concessioni alle minacce, Zimmermann ammonì che se le agitazioni fossero continuate sarebbero stati revocati tutti i provvedimenti, gli aumenti salariali sospesi e, disse, «ci saranno conseguenze severissime per voi e per le vostre famiglie (...) Sono deciso ad agire con la prontezza e la durezza che caratterizzano le forze armate germaniche contro chi diserta il lavoro».

Lo sciopero passò poi a Genova dove furono concessi miglioramenti simili a quelli di Torino. A Milano le autorità concessero gli stessi aumenti salariali e provvidenze prima che gli scioperi iniziassero. Alcune di queste concessioni ebbero carattere nazionale e furono estese, in misura variabile, alle categorie del commercio e dell’agricoltura.

Il PCI, tutto preso dalla sua opera di puttaneggiamento con i partiti del CLN e non solo con loro, non aveva dato il minimo peso ai fermenti che maturavano all’interno delle fabbriche e quando il 16 novembre scoppiò lo sciopero della Fiat rimase del tutto sorpreso, a riprova della sua costante azione all’interno delle fabbriche. Non siamo noi ad affermare questo, ma è lo stesso Centro che in una circolare di qualche giorno dopo scriveva: «Ci risulta che le recenti agitazioni hanno ancora una volta sorpreso le nostre organizzazioni che non sono intervenute (...) Questo fatto è grave e dimostra il distacco dall’officina (...) la mancanza di reazione alla notizia di prossime agitazioni» (22 novembre). Il Centro del PCI accusava poi il comitato sindacale torinese di avere stilato un documento inadeguato mentre avrebbe dovuto legare «la situazione generale operaia nell’officina e l’occupazione della nostra patria da parte del nemico» avrebbe dovuto spingere gli operai a «scendere in strada, manifestare contro i tedeschi e i fascisti». Una decina di giorni dopo un altro documento del PCI diceva: «bisogna creare una atmosfera di guerra, scatenare una lotta senza quartiere, che deve sboccare nella insurrezione armata della classe operaia per la liberazione del nostro Paese».
 
 
 


Unire la lotta per le rivendicazioni immediate alla lotta del proletariato contro la guerra
 

Dunque gli stalinisti non avevano fatto assolutamente niente per riorganizzare la classe operaia, né al fine della difesa salariale né, a maggior ragione, per prepararla alla lotta politica rivoluzionaria. Ma quando la lotta sfocia spontaneamente, gli stalinisti sono pronti a gettare il proletariato allo sbaraglio ed al massacro per la finalità borghese della «liberazione del Paese».

Di ben altro tenore era l’indicazione che il P.C. Internazionalista dava agli operai e cioè quella di unire la lotta per le rivendicazioni immediate alla lotta del proletariato contro la guerra: «Le rivendicazioni che voi reclamate sono giuste alla condizione che voi, coscienti del vostro ruolo storico, le colleghiate in linea diretta alla terribile situazione in cui si trova il proletariato mondiale. La vostra lotta potrà prendere una vera fisionomia classista alla sola condizione di legarla all’azione contro la guerra, cioè ad un livello superiore di ciò che può essere una rivendicazione economica».

Malgrado i miglioramenti economici ottenuti, gli operai, in diverse città del triangolo industriale, fino dai primi giorni del dicembre, furono costretti a riprendere la lotta. Il 13 dicembre scioperava la Breda di Milano e subito dopo entravano in lotta la Falck, la Pirelli, la Innocenti, la Magnaghi, la Caproni, la Olap, ecc., ecc. Alla Breda intervenne il generale Zimmermann promettendo aumenti salariali e razioni supplementari di viveri, ma poiché le sue promesse assumevano un carattere molto vago, lo sciopero continua per tutta la settimana fino a che i tedeschi occuparono militarmente la fabbrica e costrinsero gli operai a riprendere il lavoro. Alla Falck, dopo tre giorni di sciopero intervennero i carabinieri arrestando dieci operai, tre dei quali furono consegnati ai tedeschi. Ma il giorno stesso i lavoratori costrinsero le forze dell’ordine a liberare i sette compagni di lavoro che ancora si trovavano nelle loro mani. Il giorno successivo gli operai si impossessarono dell’ingegnere capo, Maino, e lo rilasciarono soltanto dopo che i tedeschi ebbero rimesso in libertà gli altri tre lavoratori. Alla Olap si ripeté la medesima scena: la polizia intervenne arrestando dei lavoratori, ma fu costretta a rilasciarli dato il contegno risoluto dei compagni di lavoro.

Anche in questa occasione il Partito lanciava ai lavoratori un appello nel quale venivano incitati a sviluppare la lotta «per fare della vostra forza di classe una cosciente forza rivoluzionaria. Solo unendovi compatti contro la guerra, contro il capitalismo, contro gli sfruttatori di ogni colore (...) riuscirete a spezzare le catene che ancora vi imprigionano (...) Contro il fascismo, che vuole la continuazione della guerra tedesca, e contro il Fronte Nazionale dei sei partiti, che vuole la continuazione della guerra democratica, voi organizzatevi sul posto di lavoro, cementate in un Fronte Unico Proletario i vostri comuni interessi, il vostro stesso destino di classe» ("Prometeo", n.3 - gennaio 1944).

Il profondo disagio creato dalla guerra poneva il proletariato di fronte a problemi di sopravvivenza che nessun demagogico provvedimento sarebbe stato capace di risolvere e tantomeno la verniciatura «sociale» che il governo fantoccio di Salò tentava di darsi. Com’era inevitabile ogni sciopero, per quanto eroico e per quanto coronato da «successo», si concludeva lasciando gli operai con l’amaro in bocca nell’impossibilità com’erano di garantirsi il pane e costretti a riprendere il lavoro perché il massacro quotidiano loro e dei loro fratelli potesse continuare. In questa tragica situazione il Comitato centrale del partito lanciò agli operai una direttiva che additava non soltanto delle parole d’ordine, ma anche i mezzi pratici per ricondurre le agitazioni sociali su un piano di autentica lotta di classe, senza interferenze patriottarde, e per evitare inutili dispersioni di energie. Il partito proponeva la costituzione di un Fronte Unico Proletario, che non era affasciamento di partiti o forze politiche eterogenee, ma unificazione delle lotte e delle finalità proletarie. Contro i due blocchi guerrafondai del fascismo e della democrazia, tendeva a raggruppare le energie di classe intorno all’unica rivendicazione immediata che avesse reale valore per tutti i lavoratori: la cessazione della guerra e la preparazione del terreno alla rivoluzione sociale. «Chiusasi appena una fase delle vostre agitazioni di fabbrica, già si pone la ripresa della lotta; non vi vien dato quello che solo in parte vi era stato concesso; ed anche se concesso, esso non poteva, come non potrà domani, soddisfare i bisogni vostri e delle vostre famiglie poiché le paghe non consentono il lusso degli acquisti sul mercato nero, e con la tessera ne avete appena a sufficienza per non morire di fame (...) Contro i vostri padroni fascisti che, soddisfacendo in parte alle vostre richieste, tentano di aggiogarvi una volta di più alla loro guerra; contro coloro che, approfittando delle vostre condizioni economiche e del vostro naturale odio verso il fascismo sanguinario, vi sobillano allo sciopero a ripetizione perché ciò rientra a meraviglia nel loro piano di guerraioli che operano oggi come avanguardia dell’esercito alleato, cosiddetto liberatore, e opereranno domani al suo fianco per la continuazione della guerra democratica; contro coloro che tentano di incanalare la vostra lotta nel fronte della liberazione nazionale fingendo di ignorare che la patria del proletariato, quella del lavoro e della solidarietà senza frontiere non ha nulla di comune con la patria dei borghesi (...) Oggi, chiusa in se stessa, la lotta per le rivendicazioni economiche immediate perde significato e valore; a che gioverebbe la parziale soddisfazione delle vostre richieste se l’immane massacro continuasse succhiando il vostro sangue e il vostro sudore? (...) L’ora presente impone la formazione di un fronte unico operaio, l’unione cioè di tutti coloro che non vogliono la guerra, sia essa fascista o democratica. Operai di tutte le formazioni politiche proletarie e operai senza partito! Unitevi ai nostri compagni, discutete insieme i problemi di classe al lume degli avvenimenti della guerra e formate di comune accordo in ogni fabbrica, in ogni centro, comitati di Fronte Unico capaci di riportare la lotta del proletariato sul suo vero terreno di classe (...) La parola d’ordine della insurrezione armata, cara ai guerriglieri della liberazione nazionale, è soltanto verbosità rivoluzionaria che nasconde il tradimento della rivoluzione proletaria e mira a creare ai sei partiti una sufficiente base elettorale per la scalata al potere politico (...) È necessario distinguere tra lo sciopero, espressione organica della lotta operaia e mezzo normale di difesa di classe, e la scioperomania di coloro che portano nella direzione del movimento una mentalità da guerrigliero balcanico e da organizzatore di bande armate. Ciò serve in definitiva a rendere inefficace l’arma dello sciopero e a screditarlo nella coscienza delle masse (...) Il fronte unico operaio raggruppa e cementa le forze destinate a battersi sulle barricate di classe contro la guerra e le sue forze politiche di direzione, tanto fasciste quanto democratiche. Suo compito maggiore e più urgente è di impedire che gli operai siano appestati dalla propaganda guerraiola: di smascherare gli agenti camuffati da rivoluzionari ed evitare che lo spirito di lotta o di sacrificio che anima il proletariato sia comunque sfruttato ai fini della guerra e della sua continuazione, sia pure sotto la bandiera della libertà democratica».

Abbiamo riportato questi brani dell’appello per mettere in evidenza l’antitesi tra le parole d’ordine classiste rivoluzionarie e le indicazioni pratiche indicate dal partito internazionalista al proletariato, e le parole d’ordine collaborazioniste e le direttive forcaiole tendenti al massacro del proletariato lanciate dal partitaccio traditore diretto da Palmiro Togliatti.

Che il PCI trascurasse completamente l’organizzazione del proletariato all’interno delle fabbriche lo dimostra ampiamente il fatto che i poderosi scioperi scoppiati all’inizio del ’44 lo avessero del tutto colto di sorpresa. Però, di fronte alla mobilitazione operaia non esitò un istante a servirsi di questo movimento, nato dai bisogni materiali, per usarlo a scopi di guerra, sfruttando i lavoratori come carne da macello. La direttiva di «scendere in strada e manifestare contro tedeschi e fascisti» non poteva che avere lo scopo di scatenare una cruenta repressione. Sulla stessa linea di condotta vanno viste le esecuzioni di personaggi fascisti, avvenute in varie parti d’Italia, in concomitanza di scioperi. Anche questo atteggiamento dava il pretesto ai fascisti ed alle forze di occupazione tedesche di scatenare la reazione nei confronti della classe operaia. I partiti del CLN ed il PCI, in primo luogo, sapevano ben troppo bene che il terrorismo individuale avrebbe provocato repressioni e deportazioni in massa. Il piano era chiaro: tutti quei proletari che sarebbero stati soppressi o deportati, sarebbero domani mancati alla lotta finale per strappare il potere dalle mani della borghesia. Indebolito, oppresso, tradito il proletariato non avrebbe avuto più la forza di insorgere e la borghesia avrebbe ancora una volta trionfato salvandosi sotto il manto della democrazia, come nel 1922 si era salvata sotto il manto del fascismo.

Allo scopo di annientare il vigore della classe operaia, il PCI fin dal gennaio si era messo a divulgare pubblicamente la preparazione dello sciopero generale insurrezionale. L’organizzazione di questa suprema prova di forza non veniva tessuta attraverso una rete clandestina per farla scoppiare al momento ritenuto più opportuno ed all’insaputa del nemico. Niente affatto, lo sciopero generale insurrezionale veniva sbandierato a grandi titoli da "L’Unità" e da tutti i giornali emananti dal PCI, così la reazione aveva tutto il tempo di prepararsi all’evento. Di fronte a questo ennesimo, palese tradimento la nostra organizzazione stilava un manifesto dal titolo: «Sciopero Generale Rivoluzionario o Avventura Politica al servizio del Capitalismo?». In questo manifesto si avvertivano gli operai che «lo sciopero generale e l’insurrezione armata non sono armi con le quali sia lecito scherzare. Esse si usano quando il nemico è colpito nei suoi gangli vitali, non quando ha ancora forze sufficienti per schiacciare l’avversario: sono il colpo di mazza finale, le armi decisive della battaglia per la presa del potere, non le armi occasionali della guerra e della politica di guerra borghese» (marzo ’44). Sfortunatamente il piano stalinista ebbe buon gioco, il l° marzo gli operai risposero all’appello del PCI e scesero in sciopero trovandosi così «nell’assurda e tragica situazione d’essere nello stesso tempo i veri protagonisti della lotta attiva e la pedina manovrata senza risparmio dalle forze che si muovevano sul piano della guerra» ("Prometeo", aprile ’44). È appena il caso di ricordare che i nostri compagni parteciparono allo sciopero portandovi le loro parole d’ordine classiste.

In risposta all’agitazione le aziende decretarono la serrata, le forze repressive effettuarono arresti indiscriminati, sempre più numerosi con il passare dei giorni, i padroni si rifiutarono di prendere in considerazione le rivendicazioni dei lavoratori.

Lanciati gli operai allo sbaraglio, il movimento partigiano lasciò che la reazione compisse indisturbata la sua opera. In un manifesto del l° marzo il PCI aveva scritto: «Patrioti! Aiutate i proletari in sciopero, attaccate con raddoppiata audacia i fascisti e nazisti, soprattutto immobilizzate tranvie, ferrovie, e ogni sorta di trasporto». Ma i patrioti non risposero all’appello ed i proletari aspettarono invano l’intervento dei partigiani e dei garibaldini. Quello che non mancò fu l’intervento dei padroni, della polizia e dell’esercito tedesco e repubblichino. Il PCI non criticò i patrioti per avere disertato l’appuntamento, le sue critiche furono indirizzate agli operai che a quell’appuntamento avevano creduto. Il 14 marzo la federazione milanese del PCI scriveva: «Lo sciopero iniziato bene e con grande entusiasmo, ebbe subito il suo lato negativo (...) Le masse con lo sciopero dimostrarono che esse avrebbero voluto farla finita con gli hitlero-fascisti (...) ma non avevano ancora coscienza di come questo doveva avvenire e cioè che questo doveva avvenire con la loro lotta e non (...) con l’intervento dei partigiani. Cosicché la mancanza dell’intervento dei partigiani e dei garibaldini determinò immediatamente uno stato d’animo di delusione e di scoraggiamento che si ripercuoterà in seguito sul morale delle masse».

"Il PCI poteva esser fiero del servizio svolto, a beneficio della borghesia italiana: per questa il successo dell’azione non stava nel prevalere della classe operaia, ma nella repressione alla quale era stata soggetta. «Che il proletariato si dissangui – scriveva "Prometeo", e la borghesia benediceva – la scure fascista, se toglie fin d’ora la forza di porre sul tappeto il problema scottante del potere» (aprile ’44)".

Ci si potrebbe tacciare di voler accusare i nostri avversari di un cinismo eccessivo e quindi, ancora una volta, è bene che siano loro ad avere la parola. Vediamo cosa scriveva su "La Nostra Lotta" (nel marzo ’44) Pietro Secchia: «Anche se nessuna delle rivendicazioni economiche che erano alla base dello sciopero rivendicativo-politico è stato raggiunto, anche se gli operai hanno dovuto riprendere il lavoro con le paghe di prima, sarebbe un grave errore ritenere che lo sciopero si sia concluso con la sconfitta». Infatti, gli stalinisti non valutavano il successo o l’insuccesso con il metro del raggiungimento o meno degli obiettivi per i quali lo sciopero era stato indetto, o con il metro del rafforzamento dell’organizzazione e della capacità di lotta; gli stalinisti usavano un altro sistema di valutazione, e precisamente quello militare borghese secondo il quale anche un bagno di sangue delle proprie truppe assume un aspetto positivo purché riesca ad indebolire la resistenza dell’avversario o quando scateni uno sciovinista istinto di odio.
 
 
 


Nostra coraggiosa denuncia del ruolo del PCI pezzo essenziale sulla scacchiera borghese
 

Alla fine di marzo gli anglo-americani concedono a Togliatti l’autorizzazione di sbarcare in Italia. Era «partito da Mosca almeno un mese e mezzo prima, avendo dovuto fare il giro attraverso il Medio Oriente e l’Africa del Nord, chiedendo autorizzazioni, permessi e mezzi di trasporto a ogni sorta di comandi militari e civili» (Togliatti). Senza dubbio la politica forcaiola del suo partito nei confronti della classe operaia fecero sì che, finalmente, gli Alleati acconsentissero a fargli di nuovo mettere piede in patria. Ed il suo arrivo fu acclamato dalla borghesia come l’arrivo di un personaggio mitico; Ivanoe Bonomi annotava nel suo diario: «È giunto miracolosamente da plaghe lontane un cavaliere portentoso, un Lohengrin redivivo» (7 aprile ’44). La borghesia aveva tutte le ragioni per esultare perché il «cavaliere portentoso» si mise subito all’opera per liberare l’Italia dalle insidie del proletariato e accettando di fare parte del governo monarchico chiuse in ghiacciaia tutte le rivendicazioni della classe lavoratrice.

Il partito diffuse immediatamente un volantino: «Operai! il partito comunista italiano, che ancora usurpa l’appellativo di comunista, vi ha dato nei giorni scorsi per bocca del suo capo Palmiro Togliatti (Ercoli) l’ultima più inconfutabile prova del tradimento della vostra causa rivoluzionaria: l’appoggio del centrismo alla monarchia di Savoia. Legati mani e piedi al giogo della reazione borghese, al Badoglio del 25 luglio, che vi massacrarono con le mitragliatrici e i carri armati dopo appena qualche ora di respiro dalla caduta del fascismo, i centristi non si accontentano ora più di essere servi e paladini della democrazia antifascista, si fanno gli iniziatori più sfacciati della repressione e dell’imperialismo».

Nel giugno ’44 "Prometeo" riprendeva l’argomento mettendo in evidenza il fatto che le gigantesche operazioni belliche sul fronte occidentale, avevano avuto luogo solo dopo che in Italia era stato compiuto l’esperimento del salvataggio borghese con il pacifico trapasso dal fascismo alla democrazia senza che questo trapasso venisse accompagnato da violente convulsioni sociali. In altre parole, era stata lasciata intatta la sostanza cambiando solo la forma e diffondendo tra le masse operaie la convinzione che anche la sostanza era stata cambiata. L’esperimento condotto felicemente a termine in Italia, venne poi ripetuto in tutti gli altri paesi d’Europa.

* * *

L’esperimento democratico poté realizzarsi grazie alla collaborazione di due forze antagoniste sul piano politico e militare, ma non su quello di classe: lo sconfitto regime fascista, che nelle sue ultime ore di vita scatenava una spietata reazione antioperaia, ed il vittorioso stalinismo, che aveva creato le condizioni perché questa reazione potesse essere scatenata. In un nostro volantino della fine del 1944 si legge: «Il ruolo del fascismo tedesco e italiano si riduce ormai alla funzione del carceriere zelante che, non potendo far altro, si preoccupa di consegnare in buon ordine ai nuovi padroni la galera europea (...) In altre parole, bisogna dissanguare la massa operaia, dissanguarla per poterla poi dominare».

Nel corso di questo lavoro ci siamo avvalsi molte volte, per dimostrare le nostre tesi, delle confessioni, insospettabili, dei nostri nemici. Randolfo Pacciardi, che oggi potrebbe essere considerato come l’apostolo della Seconda Repubblica, in un articolo del 1949 così sintetizzava il ruolo di Togliatti (e quindi del suo partito) sulla scena politica italiana: «Togliatti ha calmato da par suo questi bollori (della classe operaia e degli iscritti al partito n.d.r.): ha fatto il ministro del re, ha fatto il ministro del luogotenente, ha obbedito docilmente al super governo anglo-americano, è stato nel governo tripartito, finché si è fatto mettere fuori al momento giusto, quando la democrazia, consolidandosi, non aveva più bisogno di lui. Allora ha mobilitato la piazza, ma in un modo così accorto da non costituire un vero pericolo rivoluzionario e da esaurire la capacità offensiva delle masse. Ora è furioso, chiama `buffone’ De Gasperi, `insetto’ il sottoscritto e lancia tre colonne di piombo a Saragat. Tu ci insulti Togliatti. Noi invece ti proclameremo un giorno benemerito della Patria. Sei grande» ("Il Giornale", 27 marzo 1949).

Non solo comunità di intenti esisteva tra fascismo e stalinismo, ma vera e propria intesa. E questo non perché vi fosse un flusso di uomini che, in entrambe le direzioni, passassero e ripassassero da una all’altra organizzazione, e nemmeno perché vi fossero elementi inseriti contemporaneamente in entrambi gli organismi (tant’è vero che è impossibile stabilire se fossero fascisti infiltrati tra le file dello stalinismo o talpe picciste dentro l’organizzazione repubblichina): tipico, ma non certo unico, esempio è quello di Licio Gelli. Si veda la relazione Anselmi del maggio 1984. No, la collaborazione tra stalinismo e fascismo era qualche cosa di diverso, era una vera e propria intelligenza e che durava da molti anni, e non avrebbe potuto che essere così data la loro comune funzione controrivoluzionaria.

È bene ricordare, a questo proposito, l’appunto redatto dal capo della polizia nel 1929 ed inviato a Mussolini. Il capo della polizia fascista era preoccupato dello sviluppo raggiunto dalla Frazione di Sinistra e dalla penetrazione che avrebbe potuto avere o guadagnare all’interno della classe operaia, e, per scongiurare questo pericolo, prospettava al duce la seguente, soluzione: «L’ispiratore – seppure molto indiretto – del movimento di sinistra resta sempre l’ing. Amadeo Bordiga, che ebbe in passato largo seguito tra le masse e che ancor oggi, per l’innegabile ingegno, gode molte simpatie. Il Bordiga, come è noto, è da tempo confinato a Ponza. In previsione di possibili e prevedibili sviluppi che la frazione di sinistra del PCI potrà avere e delle ripercussioni politiche consequenziali non sembrerebbe inutile cercare di svalutare fin d’ora e gettare un’ombra di sospetto sull’uomo più interessante e più pericoloso – Bordiga – commutando il confino in ammonizione e facendo prudentemente circolare, e negli ambienti di sinistra e in quelli centristi del PCI, la voce di un compromesso che sarebbe avvenuto tra Bordiga e il fascismo». Alla fine dell’anno il compagno Amadeo venne rimesso in libertà e gli stalinisti, per oltre 50 anni, hanno ripetuto il ritornello suggeritogli dal capo della polizia mussoliniana, secondo cui Bordiga si era venduto al fascismo.

Perché abbiamo riferito questo fatto? Per dimostrare che l’intesa tra le due componenti della controrivoluzione non era né episodica, né involontaria, bensì continuativa ed intenzionale. È noto che il PCI non potendo controbattere le posizioni della Sinistra da un punto di vista dottrinale si scagliasse contro gli internazionalisti accusandoli di essere al servizio della Gestapo e del fascismo.

Il 1° gennaio 1944, Pietro Secchia, in un articolo apparso su "La Fabbrica" scriveva: «Morte ai crumiri e ai traditori (...) Con l’occupazione teutonica in Italia sono apparsi alcuni fogli dai pomposi titoli proletari come (...) Prometeo i quali con roboante fraseologia massimalista e pseudo-rivoluzionaria dicono di essere sulla via della... sinistra. In realtà sono sulla via della Gestapo (...) Oggi il tradimento più infame è perpetrato da coloro che sotto la maschera di un frasario pseudo-rivoluzionario, massimalista, estremista (...) aiutano i tedeschi ad opprimere il popolo italiano». Puntuale, il 6 febbraio, prende la parola il «Corriere della Sera» che tenta di presentare la nostra organizzazione aderente al programma della «socializzazione» fascista.

A mano a mano che la campagna di denigrazione stalinista si acuiva incitando ad isolare i nostri compagni e ad eliminarli fisicamente come traditori, di pari passo si intensificava l’attenzione che il fascismo agonizzante riservava al nostro partito facendogli una gratuita pubblicità attraverso la stampa e perfino attraverso la radio. Così le redazioni ed i microfoni della Repubblica Sociale davano ampio spazio all’argomento presentando noi come i puri, gli intelligenti, gli onesti, i veri comunisti con tanto di carte in regola per prendere in mano la guida del proletariato, mentre gli stalinisti venivano tacciati per quello che erano prendendo a prestito giudizi e considerazioni espressi sulla nostra stampa. "La Stampa" del 9 giugno 1944, in un articolo intitolato «La Crisi dell’Antifascismo» scriveva: «I comunisti dissidenti contano tra i loro dirigenti intelligenze indubbiamente superiori a quelle dei funzionari che servono la politica imperialistica del Cremlino. Il prof. De Luca, Fortichiari, Onorato Damen, Bruno Maffi, i fratelli Venegoni e molti altri, raccolgono in questo momento adesioni sempre più numerose tra gli iscritti al partito ufficiale, che vede verificarsi nei suoi ranghi uno sbandamento di giorno in giorno più grande».

È del tutto inutile dire che queste affermazioni rappresentavano delle vere e proprie condanne a morte dando alle squadre partigiane l’alibi per giustificare i loro assassinii con il pretesto che i comunisti di sinistra erano dei traditori e dei collaborazionisti. I repubblichini non facevano altro che sdebitarsi di fronte agli stalinisti del servizio reso da questi ultimi, negli anni ’30, quando con lo stesso metodo, a mezzo stampa, denunciavano alle autorità fasciste i nominativi dei «trotzkisti-bordighisti».

L’obiettivo della manovra era evidente: da una parte si cercava di raggiungere lo scopo immediato di staccare il proletariato dalla influenza del partito stalinista, affogato nel compromesso con le forze democratico-borghesi; ma, soprattutto vi era un intento più importante e più a lungo termine che consisteva nell’insinuare diffidenza nei confronti dell’unica organizzazione rimasta fedele ai principi ed alla tattica marxista rivoluzionaria, diffidenza che scaturiva dal sospetto di una intesa con ii fascismo: oltre a ciò, come abbiamo detto, gli stalinisti avrebbero avuto una giustificazione morale alla eliminazione dei nostri compagni e di molti altri che nostri compagni non erano ma che dissentivano dalle direttive togliattiane.

Ed ecco che quel partito che ancora si chiamava «comunista», alla critica aperta e leale dell’avanguardia del proletariato, rispondeva con l’arma caratteristica della reazione borghese: l’assassinio politico. Da anni il PCI sobillava le formazioni armate partigiane contro il partito della Sinistra ed i suoi aderenti. E quei compagni reduci dalle galere di tutto il mondo venivano accusati di essere dei fascisti, degli agenti dell’Ovra, degli scherani della Gestapo e che dovevano essere «uccisi come cani».

Nel febbraio 1945 il VII settore della federazione milanese del PCI, in una lettera aperta ai «cari compagni della Falck» denunciava come emanazione fascista i nostri volantini e concludeva: «È comprensibile che poliziotti più o meno mascherati da rivoluzionari si impegnino a far penetrare nelle fabbriche il sozzo prodotto del loro sporco mestiere. Per il buon nome di tutti noi e nell’interesse nostro, bisogna rompere il grugno a gente così abbietta!». Nel marzo 1945 una circolare della federazione milanese del PCI concludeva nel modo seguente la serie delle medesime accuse: «Comunque sia, lo scopo che i `comunisti internazionalisti’ (...) si propongono, esso è identico a quello che si prefiggono e perseguono i nazifascisti e i loro corifei (...) Tutti i compagni (...) devono essere vigili e solerti nel segnalare, individuare e smascherare l’opera controrivoluzionaria degli agenti del nemico truccati con berretto estremista e dar loro la lezione che si meritano. Le S.A.P. dovrebbero intervenire per la necessaria epurazione». E le Sap intervennero. L’11 marzo a Trebbo, in provincia di Bologna, veniva trucidato il nostro compagno Fausto Atti. Ma la forsennata campagna contro il nostro partito non cessò neppure dopo la fine della guerra.

Il bollettino interno della federazione del PCI di Parma, «La Riscossa» nel giugno ’45 scriveva: «Circola a Parma il giornale "Prometeo" che si fregia del sottotitolo organo del partito comunista internazionale. Mettiamo sull’avviso tutti i compagni e candidati ai quali "Prometeo" capitasse fra le mani che detto giornale nulla ha a che fare con il partito comunista italiano, e nemmeno col partito comunista bolscevico, e con nessun partito comunista del mondo. "Prometeo" è semplicemente il giornale dei trotzkisti italiani. Un giornale sostenuto dai fascisti e dai reazionari nel quale anche la famigerata Gestapo aveva messo lo zampino».

Il 17 giugno, nell’edizione torinese de "L’Unità", a proposito di manifestini del partito, si legge: «È evidente la manovra di carattere reazionario, tendente ad ostacolare la formazione di una democrazia progressiva ed a gettare il discredito sulle forze nuove che debbono far rinascere l’Italia. Durante il periodo della lotta partigiana la stessa manovra si manifestava invitando gli operai all’attesismo e al compromesso coi tedeschi, con la scusa che la guerra antinazista non rientrava negli schemi astratti della pura lotta di classe. Il proletariato di Torino, maturato nell’insurrezione ed educato dal sacrificio dei suoi figli migliori, non può lasciarsi ingannare da simili traditori».

Mario Acquaviva apparteneva alla banda di quei «traditori del proletariato» che, scriveva «Rinascita» erano «più apparentati con la malavita che con la politica e nei quali si fondono vecchi e nuovi trotzkisti, tenitori di tabarins e di bische clandestine, speculatori del mercato nero e del brigantaggio notturno» (aprile 1945). A questo individuo, da sempre accusato di essere una «spia fascista», un «agente provocatore» un «emissario della Gestapo», che più volte era stato minacciato di morte, d questa persona, il PCI si rivolse invitandolo ad entrare nel partito togliattiano in considerazione del fatto che egli era «uno degli elementi più capaci e più onesti». Di fronte al suo netto rifiuto di prestarsi a questo squallido gioco stalinista, «due dirigenti della sezione del PCI di Casale Monferrato Scamuzzi e Navazzotti, gli avevano ricordato che il partito avesse i suoi tribunali segreti e che le loro sentenza sono senza appello» ("Battaglia Comunista", 28 luglio 45). Pochi giorni dopo, il 14 luglio, Mario Acquaviva veniva assassinato da un sicario stalinista.

Gli assassini dei militanti comunisti rivoluzionari non si preoccupavano nemmeno di nascondere le loro gesta eroiche e dopo due settimane (il 28 luglio) "L’Unità" di Torino ritornava alla carica e con retorica velenosa ripeteva tutte le sconce accuse di repertorio contro i compagni della Sinistra. Curiosa coincidenza: colui che per conto dei suoi padroni sputava veleno contro il nostro partito era quel tale Davide Laiolo, ex frequentatore dei GUF, ex redattore della «Sentinella Adriatica» e facente funzione di vice federale del PNF di Ancona.

Nel febbraio 1921, dopo Livorno, Spartaco Lavagnini cadeva assassinato per opera di sicari prezzolati del fascismo. Nel luglio 1945, dopo la fine della guerra e del fascismo, altrettanto vigliaccamente veniva assassinato Mario Acquaviva sotto il piombo dei nuovi transfughi del proletariato. Sotto il piombo di quei transfughi che avevano fatto proprio sia il programma del nazionalismo, sia i metodi della repressione controrivoluzionaria.
 
 
 


Non a nuova pace capitalista ma verso nuove peggiori guerre e verso la rivoluzione
 

Abbiamo ricordato come i traditori socialdemocratici nel partecipare alla guerra imperialistica del 1914/’18, a parole non avessero avuto la faccia di rinnegare le finalità socialiste. Dissero che la tregua di classe concessa alla borghesia era solo una tregua momentanea, per la salvaguardia dei «valori comuni»; poi, passata la bufera, il proletariato avrebbe dovuto riprendere il suo cammino autonomi per la conquista del potere.

L’opportunismo stalinista non si accontentò di questo e fece un ulteriore passo in avanti. Innanzitutto per legare definitivamente le sorti della classe lavoratrice a quelle del proprio capitalismo nazionale era indispensabile cancellare dal cuore del proletariato la coscienza di essere classe sociale non limitabile all’interno di confini statali, etnici o religiosi; per prima cosa venne sciolta la III Internazionale che, per quanto ormai degenerata ed asservita, poteva tuttavia rappresentare un riferimento alla necessità dell’organizzazione mondiale. In secondo luogo il programma del nuovo opportunismo non parlava di tregua, ma pace tra le classi; veniva decretata la morte della lotta di classe e veniva sancita l’adesione ai governi nazionali, qualunque fosse il loro indirizzo politico, ed alle organizzazioni internazionali costituite dall’imperialismo vincitore a scopo puramente repressivo e terroristico.

Eliminato il proletariato come classe rivoluzionaria dalla scena politica, la fine della guerra (tenuta a battesimo dalla bomba atomica) diede libero sfogo, forse ancor più che durante il conflitto, ai programmi ed ai progetti militaristi. L’Italia per bocca del «compagno» Togliatti rivendicava la costituzione di un potente e moderno esercito che non fosse quello caricaturale che aveva saputo mettere in piedi il fascismo. Il 9 novembre 1945 davanti alla commissione militare del senato americano, il generale Doolittle preconizzava una aviazione di difesa di almeno 5 mila aerei con 400 mila addetti permanenti. Il 22 ottobre Churchill aveva esposto un parere analogo sulla RAF: 4 mila aerei di prima linea con 400 mila addetti, in difesa delle pace.

La nuova sistemazione europea, basata sul concetto hitleriano dello spazio vitale, vedeva il suo territorio diviso da una linea di frontiera che, da Stettino a Trieste, tagliava a metà la nazione tedesca. Quella linea, che era stata tracciata a tavolino fin dall’estate del 1943, non corrispondeva a nessun criterio storico, politico o etnico, corrispondeva però perfettamente alla necessità di una ferrea dittatura sulla classe operaia europea.

Appena il nazi-fascismo fu debellato immediatamente cadde la maschera propagandistica delle potenze «democratiche» (diciamo pure degli U.S.A., perché le altre furono ridotte a semplici vassalli) e dell’Urss, e la nuova sistemazione dell’Europa rappresentò «una Versaglia peggiorata; la preparazione fredda, scientifica, storicamente inevitabile della terza guerra mondiale, perché vi si sono create le condizioni per il divampare di un nuovo, più pericoloso e più potente nazionalismo tedesco» ("Battaglia Comunista", 14 agosto 1945).

I borghesi più riflessivi ed accorti non si fecero troppe illusioni sull’efficacia dei trattati di pace, sulla sistemazione del pianeta in base ad arbitrarie sfere di influenza, sul nuovo ordine mondiale e interrogandosi pensosi sull’avvenire parlavano di pericolose incognite insite in quelle stesse decisioni.

Dicemmo subito che la storia aveva risolto per conto suo tali incognite le quali si chiamavano nuove guerre o Rivoluzione Proletaria. Da quegli anni è passato un cinquantennio nel quale generazioni di lavoratori sono state ubriacate con le menzogne ufficiali del regime, a base della Repubblica «fondata sul lavoro», coi miti falsi della Resistenza e della lotta «di liberazione». In tutti i paesi dopo cotanto lungo susseguirsi del ciclo economico capitalistico, fatto di ricostruzioni nazionali, sullo sfruttamento e la miseria operaia, di effimero inconsistente demente e nocivo consumismo, infine di crisi, infinita che affonda inesorabilmente nella disoccupazione e nei bassi salari ogni garanzia e sicurezza operaia; dopo innumeri guerre che stringono sempre più da vicino la stessa «pacifica» e «ricca» Europa, si manifesta nelle stessa classe dominante la crisi del suo paludamento ideologico democratico, elettoralista, socialdemocratico e progressista del quale i suoi stessi filosofi non riescono a rappezzare gli strappi e le evidenti contraddizioni.

È ora che il proletariato aborrisca e rifiuti questa nauseante materia in putrefazione, la denunci come inganno borghese a fine controrivoluzionario e rintracci il suo cristallino programma di classe, quello di sempre e che mai lo ha tradito. Con questa coscienza, con questo partito, potrà affrontare e finalmente vincere, dopo due secoli di guerra sociale, i fantasmi di un passato, armati di ferro e di falsità, ma minati dal cumulo stesso delle loro menzogne e dalla incombente loro impossibilità di nutrire le schiere mondiali crescenti della lavoratrice classe dei senza riserve.
 
 


Nota

( * ) «Alla sera dell’8 settembre, nel rifugiarmi al Ministero della Guerra, io avevo portato con me una valigia contenente oltre mie sostanze personali anche le seguenti somme dello Stato: 10 milioni di lire italiane, 800 mila franchi svizzeri, un vaglia per 200 mila franchi svizzeri. Quei denari prelevati sul fondo della presidenza del Consiglio, avrebbero dovuto servire per i primi bisogni del Governo e della Real Casa, nel caso probabile di dover lasciare Roma. Nel mattino del 9, nel momento di confusione della partenza io ho dimenticato la valigia, che per fortuna fu ritirata da mio figlio, funzionario degli esteri che disgraziatamente rimase a Roma. Sono stato informato (...) che queste somme in gran parte sono state spese in sussidi ai profughi e ai partigiani come io stesso avevo fatto arrivare l’ordine a mio figlio. (...Onde...) poter presentare una documentazione (...) dell’impiego di detto denaro, io chiedo che sia atteso il ritorno di prigionia di mio figlio Mario per avere dati più precisi» (P. Badoglio, Salerno, 12 giugno 1944).
     Mario tornò a casa, riabbracciò sia il padre sia tutti gli altri cari, ma nessuno volle mettere in dubbio la parola del Maresciallo d’Italia e duca di Addis Abeba chiedendo rendiconti.
     Se da un lato ci cruccia il fatto che alla Real Casa ed al Governo vennero a mancare i mezzi per poter far fronte alle prime necessità, d’altro ci conforta il fatto di sapere che quelle somme alleviarono in qualche modo le sofferenze di profughi e partigiani. E se è vero che per fare una lira del 1943 ce ne vogliono circa 4.000 delle attuali, si può anche capire quanto bene sia stato possibile fare con quei soldi. Deve essere stata la PROVVIDENZA che provvide a trattenere a Roma Mario, il figlio di Pietro.