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"COMUNISMO" n. 72 - giugno 2012
La crisi in Europa, i ciarlatani borghesi e noi comunisti.
LA NEGAZIONE COMUNISTA DELLA DEMOCRAZIA alle origini del movimento operaio in Italia [RG111] (VI - continua dal numero scorso) Lega per la Pace e la Libertà - La sollevazione contro la tassa sul macinato (continua).
IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA [RG112]: (XIII - Continua del numero scorso) La American Federation of organized Trades and Labor Unions: La grande crisi del 1893 - La “Coxey’s Army” - Il sindacato di industria dei ferrovieri - L’American Railway Union - Lo sciopero Pullman - Un compito per lo Stato del Capitale - La lotta di classe e il “sindacalismo prudente” (continua).
IL MARXISMO E LA QUESTIONE MILITARE: [RG107-108]  Parte terza, Il capitalismo (X - continua dal numero scorso) D - La guerra di indipendenza americana: 10. Guerriglia invernale - 11. Difficile marcia da settentrione e presa di Filadelfia - 12. Inglesi nel pantano a nord e sconfitti a Saratoga - 13. La Francia in guerra - 14. Guerra per mare e per terra - 15. Il fronte interno: la guerra fra nativi e coloni - 16. Il fronte Nord e quello Sud - 17. La battaglia di Yorktown e la fine delle ostilità - 18. La guerra sui mari - 19. Conclusioni (continua).
Dall’Archivio della Sinistra:
     Denuncia del patto di pacificazione tentato fra il PSI e i Fasci; rifiuto della disciplina dei comunisti agli Arditi del Popolo; istruzioni per l’inquadramento militare nella stampa del PCd’I del 1921.
- “Il Comunista”, 20 febbraio - L’USO DELLA VIOLENZA
- 2 marzo - [MANIFESTO PER LA MORTE DI SPARTACO LAVAGNINI]
- “Ordine Nuovo”, 26 marzo - CONTRO LA REAZIONE
- “Il Comunista”, 10 luglio - A proposito del trattato di pace social-fascista - GLI INTERPRETI
- “Il Comunista”, 14 luglio - Partito Comunista d’Italia - Sezione dell’Internazionale Comunista - PER L’INQUADRAMENTO DEL PARTITO
- “Il Comunista”, 14 luglio - TORINO
- “Il Comunista”, 21 luglio - Il proletariato non può contare, per la propria emancipazione, che sulla propria forza - Partito Comunista d’Italia - Federazione Giovanile Comunista d’Italia - DISPOSIZIONI PER L’INQUADRAMENTO DELLE FORZE COMUNISTE
- “Il Comunista”, 31 luglio - Mentre si prepara la “spedizione pacificatrice” - ANCORA DUE PAROLE
- “Il Comunista”, 7 agosto - La politica del Partito Comunista mira diritta e precisa al suo scopo: la Rivoluzione - Partito Comunista d’Italia - Federazione Comunista Giovanile d’Italia - PER L’INQUADRAMENTO DELLE FORZE COMUNISTE
- “Il Comunista”, 7 agosto - Partito Comunista d’Italia - Sezione dell’Internazionale Comunista - Comunicato del C.E. - IL PARTITO COMUNISTA E LA “PACIFICAZIONE”
- “Il Comunista”, 14 agosto - L’ASSENTE.

 
 
 
 
 
 


La crisi in Europa, i ciarlatani borghesi e noi comunisti

Ora che, nella fase attuale, la crisi generale del capitalismo pare concentrarsi con maggiore violenza nella zona dell’euro, dopo che soltanto in apparenza ha allentato la presa nella centrale imperialista americana da cui è partita, ci si può divertire a considerare la quantità di ricette salva-nazioni o salva-finanze che di continuo vengono propinate ai piccolo borghesi terrorizzati di perdere i propri beni.

Ogni scuola ha le sue diagnosi e cure, teorici e professori universitari si sono messi di impegno a proporre ipotesi di soluzione, e nel contempo litigare tra loro, ciascuno vantando la bontà ed efficacia delle sue proposte, contrapposte alle altrui, che provocherebbero soltanto nuove difficoltà e sconvolgimenti.

Anche nei mezzi di diffusione si assiste alla medesima altalena. Alle fosche previsioni di tracollo – a scopo anche intimidatorio contro i proletari – segue il moderato ottimismo dei resoconti ufficiali, delle dichiarazioni finali negli incontri ad alto livello, prontamente diffusi dalla stampa di regime che sparge ora ottimismo, ora grave senso di responsabilità. Fa, del resto, il suo mestiere.

Questa crisi profonda, che il mondo intero si ostina a definire finanziaria, si è mostrata con la mendace faccia dell’insostenibile carico degli interessi sulle obbligazioni statali dei famigerati PIGS, Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna, la cui debolezza finanziaria avrebbe innescato, altra oscena bugia, un intollerabile debito pubblico. Di seguito le solite infami teorizzazioni antiproletarie: scarsa produttività del lavoro, Stato spendaccione e burocratizzato, non più tollerabile “vivere al di sopra delle proprie possibilità”.

Per i lavoratori greci – che “lavoravano in media 44,3 ore alla settimana, laddove la media dell’Unione Europea è di 41,7” (rilevazioni Eurostat), che “hanno un livello salariale medio pari al 73% della zona euro mentre un quarto dei lavoratori greci guadagna meno di 750 euro al mese”, che hanno “pensioni d’oro” in una media di 617 euro al mese, il 55% della media della zona euro, e il tutto in costante peggioramento – la beffa di essere additati tra i responsabili della catastrofe.

Tra alterne vicende, serie, drammatiche o di pura facciata, si è avuto il momento più critico – per ora – nel teatrino delle vicende di Grecia, recenti elezioni-farsa incluse, su cui si è alla fine concentrata tutta la schiuma dei fautori di quelle argomentazioni demagogiche e fallaci.

Ma, di volta in volta, le criticità e i fronti di turbolenza si allargano e sui mezzi di informazione i sintomi messi in primo piano cambiano rapidamente. La criticità della Grecia, alla quale, alla fine, era imputabile un debito tutto sommato non enorme, benché lo erano e lo sono gli interessi da pagare in relazione alle possibilità produttive del paese, è in un momento diventata secondaria rispetto al ben più grave e sostanziale problema del sistema bancario spagnolo. Questo è strangolato non dai debiti, come ciancia la vulgata corrente, ma da crediti in quantità enorme e non più esigibili, cartaccia che non solo non produce più interessi, ma neppure può rappresentare un titolo su alcunché.

È un continuo aprirsi di fronti, di cedimenti in una struttura intrinsecamente instabile, politicamente contraddittoria e finanziariamente non più sostenibile, una volta che la pressione della crisi reale, quella nel campo della produzione, si rafforza e si estende.

Tutte le risorse della BCE si spostano su nuove ma ampiamente previste tempeste che scuotono la Unione Monetaria Europea – Spagna, Portogallo, Italia... – con la solita ricetta borghese: spostare sul “pubblico”, sugli Stati e sulla BCE, il debito che nasce essenzialmente “privato”, dalle imprese e dalle banche. Domani chissà quali saranno le “decisioni” della BCE, di fronte ad un sistema bancario “troppo grande per essere salvato, troppo grande per fallire”.

Per i grandi borghesi da tempo è iniziata una salvifica dislocazione degli “asset”, delle disponibilità finanziarie, su piazze ove potranno rendere forse un po’ meno, ma non correranno – almeno sperano – il rischio di svanire nel collasso del sistema finanziario europeo; anche i borghesi piccoli, i piccolo borghesi e molti dei lavoratori già occupati si affannano nella ricerca di una qualche sistemazione ai loro risparmiucci, che ne eviti la perdita nel paventato blocco del sistema bancario.

Debito pubblico, debito privato, monete, svalutazione ed inflazione, tassi, obbligazioni, sono parole martellate di continuo, in tutti gli accenti, in combinazioni differenti e a contorno di differenti analisi, secondo la scuola economica da cui provengono o il carrozzone a cui è legato il commentatore di turno.

Non possiamo entrare in merito a queste ardenti diatribe sul nulla, dei rimedi alla follia del capitalismo, proposte e cure che si sprecano anche da parte di tutti i sedicenti sinistri, servi ignobili della borghesia. Rimedi tutti che poco ci riguardano e, quando proprio avessero della efficacia, ne saremmo avversari assoluti. Quello del disastro del campo finanziario è un tema che dobbiamo affrontare specificamente all’interno delle linee generali del marxismo, e secondo la nostra ottica rivoluzionaria della teoria del crollo. Non vogliamo competere con i professionisti delle teorie del capitalismo-al-meno-peggio, che però, a quanto pare, non trovano di grandi soluzioni!

Su una cosa sola, ma fondamentale, gli economisti sono in totale accordo, uniti in un solo palpito appassionato: il capitalismo non deve sparire. Anche se, come oggi, si dimostra che non può essere migliorato, riformato, “umanizzato” o moralizzato deve mantenersi, sempiterno, insieme all’infernale sodale, il mercato, che tutto vede, regola, definisce e spiega.

Noi stiamo da un’altra parte. Tutte le contorsioni ideologiche, le teorizzazioni su come migliorare, correggere, rendere sopportabile questo stato di cose sono contro la nostra visione del mondo, la nostra scienza.

Di salvare l’euro e la Comunità Europea, di risolvere il problema del debito e, prima di tutto, del destino dei loro Stati e delle loro casse vuote, non ce ne importa nulla. Siamo avversi e ci auguriamo fallisca ogni ricette per salvare il salvabile, ridare ossigeno ai mercati, edificare una “nuova” società fondata non su Stati nazionali contrapposti ma sulla “comunità dei popoli”, pacifici e commercianti, razionalmente controllare i mercati, equi, senza speculazione e ingiustizie, e via di questo passo. Nostra visione unica e totalizzante il Comunismo, la rivolta dei reietti di questa società, che distrugga gli Stati borghesi e sopprima per sempre i rapporti di produzione fondati sul capitale, il salariato ed il mercato.
 
 
 
 
 
 
 


La negazione comunista della democrazia
alle origini del movimento operaio in Italia
Capitolo esposto a Torino nel settembre 2011

(Continua dal numero scorso)
 

Lega per la Pace e la Libertà

Come abbiamo visto, quasi contemporaneamente al secondo congresso dell’Internazionale si tenne a Ginevra il congresso della Lega per la Pace e la Libertà (9 settembre 1867). Questo si proponeva di lanciare al mondo un programma capace di farla finita con le tensioni e i conflitti che andavano tormentando tutta l’Europa del XIX secolo. “Pax”, si leggeva su un enorme manifesto che campeggiava nella sala, accanto alle bandiere dei rappresentanti dei vari paesi europei.

Mazzini, che da poco aveva fondato l’Alleanza Repubblicana Universale, respinse l’invito di aderire alla Lega. Secondo lui non la pace, ma libertà e giustizia erano da conquistare, queste, e soltanto queste, come naturale conseguenza avrebbero portato alla pace universale. Ma ancora si era lontani dal conseguirle ed altre lotte e guerre sarebbero state necessarie per raggiungere lo scopo: invocare dunque la pace ad ogni costo sarebbe stato soltanto reazionario. Inoltre l’esperienza e il buon senso insegnavano che iniziative del genere risultavano sterili di qualunque risultato.

Garibaldi, invece, vi aderì, giungendo a Ginevra accompagnato dal fedele compagno frà Pantaleo. A Garibaldi, accolto con grandi onori, venne riservata la presidenza del congresso. Il suo intervento, forse fu il più infelice di tutta la sua vita, non fu un vero discorso ma la lettura di una serie di punti programmatici: in un miscuglio di radicalismo ed anticlericalismo, proclamò che tutte le nazioni erano sorelle, che tutte le guerre dovevano essere abolite, che tutte le contese sorte tra i vari Stati avrebbero dovuto essere esaminate dal Congresso della Lega e risolte pacificamente. Disse poi che il papato rappresentava la più perniciosa delle sette e quindi doveva essere dichiarato decaduto, ma affermò che il congresso doveva adottare la religione di Dio ed il sacerdozio della Scienza. Tornato poi su argomenti laici, dichiarò che «la repubblica è la sola forma di governo degna di un popolo libero» e che «soltanto lo schiavo ha il diritto di muovere guerra al tiranno».

L’indomani Garibaldi ricevette la visita di alcuni delegati dell’Internazionale, che venivano dal Congresso di Losanna. Questi, richiamandosi a quanto il generale aveva dichiarato, che “il solo schiavo ha diritto di far la guerra ai tiranni”, osservarono che così la pensava anche l’Internazionale, ma in un senso ben più ampio. «In che senso?», chiese Garibaldi. «Voi non parlate che di tirannia politica – gli venne risposto – ma noi non vogliamo neanche la tirannia religiosa» – «Son d’accordo con voi» – «E non vogliamo neppure la tirannia sociale» – «Sono sempre d’accordo. Guerra alle tre tirannie: politica, religiosa e sociale. I vostri principî sono i miei». E, ciò detto, strinse calorosamente la mano a tutti quanti.

Riportiamo le parole di Garibaldi non per dimostrare la sua pochezza teorica, in fondo Garibaldi non si è mai atteggiato né ha avuto la pretesa di essere un teorico; le abbiamo riportate per dimostrare il livello del Congresso della Lega per la Pace e la Libertà. Come abbiamo visto perfino Mazzini aveva una visione più elevata dei signori della Lega.

Garibaldi a parte, che fatto il suo intervento se ne tornò in Italia, il congresso di Ginevra rappresentò una occasione d’oro per Bakunin, per esporre il suo programma politico, religioso e sociale, come lo aveva maturato nel corso del soggiorno napoletano. Soprattutto cercò di mostrare come tutti i problemi, che i democratici della Lega avevano denunciato, non si sarebbero potuti risolvere che con la dissoluzione degli Stati centralizzati. «La pace generale sarà un sogno finché esisteranno gli attuali Stati centralizzati: noi dobbiamo perciò desiderare la loro dissoluzione affinché sulle rovine di queste unità coatte, organizzate dall’alto in basso mediante il dispotismo e la conquista, possano invece svilupparsi delle unità libere, organizzate dal basso all’alto mediante la libera federazione dei comuni in provincia, delle province in nazioni, delle nazioni in Stati Uniti d’Europa». Bakunin adatta qui il suo anarchismo alle esigenze dei democratici borghesi riuniti a congresso, senza imbarazzo di fronte alla incompatibile abolizione dello Stato con la costituzione di una entità super statale: gli Stati Uniti d’Europa.

Il congresso, diviso in due correnti, quella “socialista” (bakuninista) e quella democratica liberale degli iniziatori della Lega, dopo vivacissima discussione si concluse con la dichiarazione, tanto vaga da non impegnare nessuno, della necessità di «far mettere all’ordine del giorno in tutti i paesi la situazione delle classi laboriose e diseredate, allo scopo che il benessere individuale e generale possa consolidare la libertà politica dei cittadini», una patente evirazione borghese di quanto veniva dichiarato nell’Indirizzo dell’Internazionale: «La pace, prima condizione del benessere generale, deve fondarsi su un ordine di cose che non conoscerà più, all’interno della società, l’esistenza di due classi delle quali una sfruttata dall’altra».

A nome dell’Internazionale Dupont aveva fatto il seguente intervento: «Cittadini, è incontestabilmente il lavoratore il più caloroso sostenitore della pace; perché è lui che viene frantumato dal cannone sul campo di battaglia, ed è con il suo lavoro che vengono alimentati i bilanci della guerra. Dunque egli non desidera altro che la pace. Ma la pace non è un principio, essa non può che essere un risultato. Credete, cittadini, di poterla raggiungere nella maniera che è stata proposta ieri, creando una nuova religione? No, non è così. Lungi dal crearne una nuova, la ragione deve distruggere quelle esistenti […] Non sgombrate le caserme per farne delle chiese. Fate tabula rasa di tutte e due! [A questo punto ci fu un fragoroso applauso da parte di Garibaldi, imitato da una parte dell’assemblea] Ora esaminiamo un altro problema; la soppressione degli eserciti permanenti. Credete, o cittadini, che se le armate permanenti venissero sciolte e trasformate in milizie nazionali, potremmo avere la pace perpetua? No, cittadini, la rivoluzione del giugno 1848 è là a dimostrarcelo […] Per fondare una pace perpetua è necessario distruggere le leggi che opprimono il lavoro, tutti i privilegi, e fare di tutti i cittadini una sola classe di lavoratori. In una parola, accettare la rivoluzione sociale con tutte le sue conseguenze».

Bastano queste poche frasi per accorgersi che le posizioni delle due organizzazioni internazionali erano inconciliabili; e non poteva che essere così viste le loro antitetiche finalità.

Gli echi di quelli che anche un Mazzini chiamò “gli stupidissimi discorsi” di Ginevra non si erano ancora spenti, quando a Mentana venne dimostrato come Mazzini avesse avuto ragione a non volersi legare ad una società per la pace ad ogni costo, quand’era evidente la necessità di ricorrere ancora alle armi, per il trionfo della stessa democrazia borghese.

Gambuzzi e Fanelli – i due più intimi e più convinti amici che Bakunin avesse lasciato in Italia – erano corsi ad arruolarsi malgrado li avesse esortati ad abbandonare Garibaldi se questi non avesse finalmente deciso di «spiegare la bandiera della rivoluzione incondizionata, senza sotterfugi e senza fraseologia, cosa di cui non lo ritengo capace». Questo dimostra che fino a quella data, fino a Mentana, Bakunin, per quanto millantasse di essere a capo di inesistenti organizzazioni segrete, ancora non aveva la minima influenza sulle associazioni italiane. Fu il tragico epilogo di Mentana che contribuì a dare uno sviluppo decisivo al bakuninismo in Italia.

Ormai era dimostrato a iosa come il governo costituzionale potesse svolgere un solo ruolo: quello della reazione. Ma allo stesso tempo veniva dimostrata tutta l’impotenza delle agitazioni mazziniane e la fine dell’epoca delle spedizioni garibaldine. I giovani rivoluzionari non tardarono a comprendere, forse più con il sentimento che con la ragione, come i problemi che stavano loro a cuore non avrebbero potuto essere risolti se non superando le vecchie ideologie.

Questo stato d’animo viene ben sintetizzato in un articolo apparso su “La Situazione”, giornale stampato a Ginevra presumibilmente all’inizio del 1868 ed introdotto clandestinamente in Italia. Vi si afferma che il proletariato potrà infrangere il giogo che lo opprime solo con un atto rivoluzionario. Dal garibaldinismo non c’è più niente da sperare, «esso è morto a Mentana e la storia dirà di lui che, nato dal popolo nol comprese né pugnò per lui; visse di vita immensamente gloriosa, ma fatua, e morì consunto dalle tabe dei partiti: l’incapacità e l’utopia». Non c’era, d’altra parte, da sperare neppure sul mazzinianesimo: «noi non siamo mazziniani, che anzi nel trionfo del suo sistema – che riteniamo d’altronde impossibile – vedremmo una sventura della nazione; il programma mazziniano è per noi insufficiente alle esigenze democratiche e scientifiche dell’oggi, un sistema impotente a cangiare in bene le condizioni miserevoli del paese». La soluzione era una sola: “la rivoluzione sociale”.

E a produrre questo salto fu determinante l’azione del movimento operaio.
 

La sollevazione contro la tassa sul macinato

Il 1868 fu anno di miseria nera per le classi lavoratrici italiane. Ad aggravare la crisi economica che travagliava il paese da ormai otto anni era sopraggiunta la guerra del ‘66 e il corso forzoso. Oltre a tutto ciò nel ‘68 si aggiunsero i danni del cattivo raccolto del ‘67, l’industria era in crisi, la svalutazione monetaria portava al ristagno delle importazioni; i generi di prima necessità rincaravano vistosamente, i salari operai si mantenevano ad un livello bassissimo mentre l’imposta di ricchezza mobile stabilita nel ‘66 a un tasso dell’8% decurtava in modo spietato i già miseri salari dei lavoratori.

In tutto il paese, nelle città come nelle campagne, il malcontento sfociò in frequenti e clamorosi atti di protesta.

L’opposizione nei giornali e nel parlamento accusava il governo della grave crisi economica che colpiva le classi più deboli; ma i lavoratori delle città e delle campagne non si accontentarono delle proteste verbali e delle dichiarazioni di solidarietà della sinistra democratica, e violente manifestazioni dilagarono in tutto il paese. Gli operai e gli artigiani dettero seguito al malcontento con la richiesta di aumenti salariali e con pubbliche dimostrazioni; e, soprattutto, intensificando il movimento di resistenza. Infatti gli scioperi del 1868 nelle grandi città industriali, a differenza di quelli degli anni precedenti, rivelarono una nuova caratteristica: abbracciare categorie diverse dello stesso territorio, ossia cominciano gli scioperi generali. Il proletario non si sentiva più appartenente ad una particolare categoria, ma ad una particolare classe sociale.

Così a Torino, ai primi di aprile, lo sciopero degli operai dell’Arsenale contro l’imposta di ricchezza mobile si estese alle ferrovie e alla Manifattura tabacchi. Lo sciopero si risolse rapidamente a seguito della promessa del prefetto di sospendere l’esazione della tassa. “L’Avvenire dell’Operaio” scriveva che lo sciopero altro non era che «la dolorosa espressione di un popolo spinto all’ultima prova di pazienza», ed ammoniva: «Si ricordi il governo che un popolo già troppo angosciato dalla miseria, quando si ferisce ancora nella sua piccola paga, diventa terribile. Basta una scintilla per dar fuoco ad un incendio vastissimo, funestassimo» (4 aprile 1868). Il giornale venne sequestrato per eccitamento alla ribellione e, nel maggio, gli operai che avevano capeggiato lo sciopero vennero licenziati. Venne allora fondata una Cassa di Soccorso per sussidiare i licenziati.

A Bologna, a metà del mese, per lo stesso motivo scoppiò lo sciopero generale che si protrasse per due giorni e terminò con arresti e scioglimento di associazioni politiche e operaie. Gli operai promossero una sottoscrizione per soccorrere gli arrestati.

Altri scioperi, altre agitazioni di particolare intensità si verificarono nel gennaio a Sordevolo, nel biellese, degli operai lanieri contro il ribasso del salario, nel marzo a Pavia, nell’aprile a Livorno, nel giugno a Milano, nel luglio a Pistoia.

Non mancarono altri segni eloquenti dei progressi compiuti sulla via della resistenza operaia: a Bologna l’8 agosto 1868 si riunirono 150 operai sarti per fondare una cassa di resistenza con l’intento di proclamare appena possibile uno sciopero per l’aumento del salario; a Feltre si riunì il primo Congresso dei tipografi, che si incentrò sulla imposizione della tariffa; e a Oggiono, vicino a Lecco, i filatori di seta costituirono una lega di resistenza.

Ai primi dell’anno, oltre alla tassa di ricchezza mobile, si era cominciato a parlare della eventuale istituzione di quella che sarà la più odiata di tutte le tasse e che graverà quasi esclusivamente sulle classi più misere: la tassa sul macinato.

L’adozione della tassa sul macinato era stata proposta per la prima volta alla Camera da Quintino Sella il 13 dicembre 1865. Il Sella, che ne conosceva tutta la gravità, la propose «non senza esitanza e con grande rincrescimento» (dai Rendiconti Parlamentari). Respinta, ripresa da altri ministri, discussa appassionatamente sulla stampa periodica e in pubblicazioni speciali, ripresentata più volte alle due Camere, procurò al Sella non poche amarezze. L’onorevole Asproni, per esempio, nel giugno 1867, lo accusò di essere un accanito nemico dei poveri. Al che ribatté: «Certo è mio triste officio proporre balzelli. Però li ho proposti e credo abbiano fatto molto male coloro che li hanno respinti per l’odio di un nome, prima forse di averli esaminati. Credo amar più la classe povera, la classe che soffre, proponendo imposte che valgano a migliorare le condizioni economiche del paese, di quel che l’amino coloro che contro simili proposte continuamente declamano». Anche Berlusconi affermò di aver fatto la sua manovra economica “con il cuore grondante di sangue” e la Fornero ha addirittura pianto in diretta televisiva, mentre varava l’ennesimo taglio alle pensioni.

Torniamo al ’68. Tra gennaio e marzo in Parlamento si discusse sulla opportunità o meno di introdurre la tassa. I deputati della Sinistra, preoccupati, a parole, delle conseguenze che avrebbe potuto determinare portando le grandi masse alla disperazione, inscenarono una opposizione d’ufficio. Crispi, che all’epoca si presentava come uno dei maggiori difensori dei deboli, nella seduta del 25 gennaio 1868, affermava: «Ci dite che vogliamo offendere l’ordine pubblico. Ma, signori, io condanno l’illegalità nel popolo come la condanno nel governo. Nondimeno io ho un’altra teoria, la quale non può disconoscersi in un paese libero. Quando il governo è uscito dalla legge, io riconosco nel popolo il diritto di resistenza», e il 18 marzo definiva il macinato come «un’imposta progressiva, non in proporzione della ricchezza, ma in proporzione della miseria. Essa colpisce il pane, l’alimento della vita. Ora, chi non sa che il pane entra per nove decimi nell’alimentazione del povero, e per un decimo solo o poco più nella tavola del ricco? [...] Il pane, o signori, è rincarato dopo il 1860 per le condizioni politiche e economiche dell’Italia; rincarato anche di più dopo il 1866 per la carta moneta. Con la vostra legge diverrà una merce preziosa, difficile ad acquistarsi dal povero le cui risorse sono limitate». Peccato che questo difensore degli umili divenuto capo del governo non avrà nessuno scrupolo a reprimere nel sangue il movimento dei Fasci Siciliani.

I giornali democratici e i rappresentanti della Sinistra borghese si limitarono ad una pressione morale sulla Camera perché il progetto non venisse approvato. Anche se avversi (?) al governo monarchico, si preoccupavano non della sorte delle classi lavoratrici, ma del pericolo che eventuali moti di rivolta si risolvessero a danno degli interessi nazionali. E chi più di ogni altro poteva preoccuparsi delle sorti nazionali se non Mazzini? Così scriveva il 28 marzo ad una associazione operaia: «La miseria crescente e le ingiuste tasse aspreggiano le moltitudini e le fanno proclivi ad ascoltare il linguaggio di chi attribuisce quei mali alla tentata unità». Ma solo tre giorni dopo rassicurava l’amico Andrea Giannelli affermando: «La miseria crescente, il macinato se approvato, ecc., aumenteranno il malumore; ma le ragioni materiali hanno fatto sommosse, non mai rivoluzioni». Se lo dice lui...

Nonostante innumeri proteste, prese di posizione, avvertimenti e perfino minacce, la sinistra democratica, proprio come quella che al presente recita nell’odierno talk parlamentar-televisivo italiano, dando “prova di maturità” non portò alle “estreme conseguenze” la sua “opposizione” e la tassa sul macinato il 21 maggio 1868 venne approvata ed entrò in vigore negli ultimi giorni di dicembre. Per il regolamento approvato dalla Camera ogni quintale di grano pagava 2 lire di tassa (circa il 5% del valore; rapportato ai prezzi attuali, sono 0,10 euro al chilo), 1 lira il granturco e la segala, 1,20 lire l’avena e 0,50 lire i legumi secchi e le castagne.

È ridicolo oggi, quando la borghesia torna a chiedere sacrifici “agli italiani”, che i moralisti invochino il ritorno ai “valori” che animavano i padri fondatori della patria. Ecco quali erano i “valori morali” già della borghesia ottocentesca: proprio mentre veniva approvata la legge sul macinato quale unico rimedio per il risanamento delle finanze pubbliche, venne alla luce la sparizione di 20 milioni dal bilancio dello Stato del 1867 (che oggi sarebbero un 100 milioni di euro). L’ammanco, in via ufficiale ed in sede parlamentare venne prima negato, poi ammesso e giustificato come necessità urgente di S.M. il Re, con l’impegno di far rientrare la somma. In più, proprio in quei mesi venivano erogate ingenti somme per l’aumento degli appannaggi reali, per le feste in occasione degli sponsali del principe ereditario Umberto, e per la munifica costituzione della dote a Margherita, sua cugina e sposa. Anche allora le opposizioni rilevarono la “inopportunità” di tali concessioni in aperto contrasto con la conclamata necessità di una “politica della lesina” (come allora si diceva) e della tassa sul macinato in un periodo di così grave crisi del lavoro.

Il ministro dell’Interno, Cantelli, prevedendo ribellioni da parte della popolazione delle campagne, il 24 dicembre aveva trasmesso a tutti i prefetti il seguente telegramma: «Attuazione legge macinato segna momento importantissimo nell’assetto finanziario e politico del regno. Partiti estremi si sforzano di turbarlo, eccitando interessi, passioni, pregiudizi. Spetta ai signori prefetti rendere vana l’opera sovvertitrice col prevenire ogni disordine». Infatti già dal giorno 26 si verificarono i primi tumulti tra i contadini del veronese, che immediatamente si propagarono a Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia.

La stessa “Gazzetta ufficiale” del 1° gennaio 1869, per tranquillizzare i borghesi, rendeva noto che «in dodici province [su un centinaio! – ndr] l’applicazione del macinato non ha dato luogo a inconvenienti. In altre province si manifestarono dei torbidi che fortunatamente non ebbero serie conseguenze». Però il giorno 4 era costretta a segnalare assembramenti e dimostrazioni nelle province di Cuneo, Verona, Pavia, Cremona, Piacenza, Modena, Bologna, Lucca, Arezzo. Ne “La Nazione” del 6 gennaio si legge che i disordini venivano provocati da mestatori politici, i quali facevano credere ai contadini che la nuova tassa fosse una invenzione del governo per affamare la povera gente; infatti dove, come nel Mezzogiorno, l’imposta sul macinato era già conosciuta, poiché in vigore sotto i cessati regimi, i contadini si mantenevano più che tranquilli. Ma nei giorni successivi il giornale fiorentino avrebbe dovuto smentire se stesso riportando lunghi elenchi di paesi, del Sud, come del Nord, in cui i contadini erano scesi in rivolta.

Dovremmo fare un infinito elenco di località se volessimo ricordare tutte le rivolte contadine che nel giro di pochissimi giorni scoppiarono da un capo all’altro della penisola; nelle province di Bologna, Reggio Emilia e Parma le rivolte assunsero l’aspetto di vere e proprie sommosse. Nel libro Il Generale Cadorna nel Risorgimento Italiano si legge: «Negli ultimi giorni di dicembre 1868 e nei primi del gennaio 1869, quasi contemporaneamente nelle tre provincie di Bologna, Reggio e Parma, ma più specialmente nella terza, scoppiarono qua e là disordini che tosto si estesero […] Le truppe che erano scarse, non potevano ovunque far fronte alla molteplicità dei tentativi rivoltosi. Moltitudini armate di bastoni e tridenti, al suono delle campane a stormo, costrinsero le autorità comunali ad ordinare la macinazione senza pagamento di tassa, e vennero così aperti con la violenza i molini che erano stati chiusi dai mugnai».

A Campegine, in provincia di Reggio Emilia, la mattina del 1° gennaio la popolazione si era riunita in piazza per protestare contro la tassa. Il tentativo dell’esercito di far sciogliere la manifestazione ebbe come esito un aumento della tensione, si ebbero i primi scontri con le forze dell’ordine, poi il lancio di sassi contro i soldati che presidiavano il mulino. Messi in fuga i soldati venne sfondata la porta ed imposta la molatura esentasse; a quel punto giunsero altri soldati che sparando sulla folla fecero otto morti, il più giovane dei quali aveva 13 anni.

I fatti di Campegine anziché frenare la rivolta aumentarono la rabbia popolare e furono di sprone per le popolazioni degli altri comuni della zona. Immediatamente dopo si ebbero agitazioni a Parma, Massenzatico, San Polo, Montechiarugolo, solo per citare alcuni comuni dell’Emilia. Masse di contadini, armate dei loro attrezzi agricoli, assieme a reparti della Guardia Nazionale che avevano fatto causa comune con la popolazione, tumultuavano dinanzi ai municipi, penetravano nei mulini, spezzavano i contatori dei giri delle macine in base ai quali veniva calcolato l’importo della tassa. In alcuni comuni le autorità municipali furono costrette ad ordinare la riapertura dei mulini, chiusi per ragioni di ordine pubblico, e la molitura senza tassa. A Parma si ebbe pure qualche barricata ed i contadini che tentavano di penetrare in città furono respinti dall’esercito.

È interessante leggere quello che scriveva il prefetto di Parma nel rapporto del 7 gennaio: «L’occupazione militare tiene ora paralizzata la rivolta, che però non è vinta, levato il freno ripullulerebbe. Mi confermo in tale idea considerando l’accanimento di quelle masse, la disciplina con cui si sono mosse, le intenzioni che hanno lasciato trapelare […] le minacce, le violenze, gli incendi, i saccheggi […] Noto il fatto, nuovo per questi tempi, del levarsi in massa, dell’affratellarsi in bande, del muoversi concertati, del percorrere lungo cammino onde trovarsi a determinata meta; noto questo fatto specialmente perché s’è compiuto con insolita rapidità, e, ciò che più monta, s’è organizzato senza lasciarsi accorgere».

Il governo il 5 gennaio aveva concesso pieni poteri, militari e civili, per l’Italia centrale all’uomo giusto per riportare l’ordine e la legge, colui che già nei moti palermitani del ’66 si era distinto per la sanguinaria repressione e, sul campo, si era guadagnato l’appellativo di macellaio: il generale Raffaele Cadorna.

Nella divisione militare di Bologna si trovavano già 24 battaglioni, 6 squadroni e 3 batterie ed in quella di Parma 14 battaglioni, 6 squadroni e 3 batterie. Alla prima furono inviati a rinforzo 16 battaglioni ed alla seconda 10 battaglioni e 4 squadroni. In totale il generale Cadorna per operare la sua repressione ebbe una disposizione di 64 battaglioni, 16 squadroni e 6 batterie, senza tenere conto delle truppe stanziate in Toscana ed Umbria delle quali Cadorna conservava il comando.

Il Macellaio aveva le idee chiare su quale fosse il suo compito, infatti scriveva: «A sedare prontamente le sommosse si richiede specialmente la prontezza dei rimedi, come negli incendi […] Oltre le altre istruzioni e disposizioni, diedi di procedere colla massima energia nella repressione del primo caso di ribellione che si presentasse dopo il mio arrivo». A proposito di questa disposizione, lui stesso chiariva: «Pare a prima giunta, agli occhi dei volgari, poca umanità l’agire severamente in siffatti frangenti; ma è per contro cosa essenzialmente umanitaria». E se non fosse stato animato da sentimenti umanitari come avrebbe potuto, il generale Cadorna, ricoprire la carica di Presidente della Croce Rossa Italiana?

Continuando nella lettura del rapporto di Cadorna si trova: «Dato quell’ordine, San Giovanni in Persiceto fu il primo luogo dove accaddero veri disordini, nella mattina del 7 gennaio […] L’esempio fu severo e fu dato da un battaglione di bersaglieri sopraggiunto da Bologna; i rivoltosi ebbero sette morti e molti feriti […] Un altro dei mezzi indiretti fu quello di divulgare per incarico da me dato a tutte le stazioni di carabinieri sparse per il contado, che io ero capace di farne fucilare molti, ed ebbe buon gioco tale sistema. Che m’importava di parere terrorista?».

Si affermò allora, ed ancor oggi gli storici continuano a sostenerlo, che il clero avesse preso parte ai moti ed anzi li avesse istigati. Non c’è dubbio che da parte del basso clero vi siano stati casi di connivenza e, forse, anche di istigazione, perché il prete di campagna, in massima, condivideva la sorte economica dei contadini; però il clero che conta, i vescovi, si schierarono dalla parte del governo. È sempre Cadorna che scrive: «Il 12 gennaio pregai il vescovo di Parma di recarsi da me [e] ricevuto coi dovuti onori, lo indussi ad emanare una lettera circolare ai parroci perché diffondessero parole di pace fra le moltitudini, com’era attribuzione del loro ministero; e […] avuto il manoscritto secondo l’intesa, ne feci stampare a migliaia di copie e diffondere largamente. Poscia inculcai agli altri prefetti di fare altrettanto coi vescovi delle provincie».

Nel suo rapporto al Ministro dell’Interno del 18 gennaio Cadorna affermava di avere avuto «tanto scrupolo della legalità, tanta cura di evitare ogni provocazione, fino a prescrivere come d’ordinario le truppe dovessero comparire sul terreno con le armi scariche e senza la baionetta innestata […] All’uso delle armi non si ricorse se non negli estremi casi […] ma anche in questi rarissimi casi il numero dei colpiti è prova che le truppe non agirono che nei ristrettissimi limiti della propria difesa. Infatti – concludeva Cadorna – non si ebbero che 21 morti e 35 feriti fra i borghesi». Tra i militari non vi fu neanche un morto.

Verso la metà di gennaio i tumulti cominciano a diminuire e quasi ovunque l’ordine veniva ristabilito. Gli effetti della sommossa erano stati pesanti: nella sola Emilia erano rimasti uccisi una trentina di contadini; solo nel circondario di Bologna furono eseguiti 1.127 arresti; nella sola Emilia furono istruiti 129 processi per 2.226 imputati. Secondo quanto venne pubblicato in vari giornali, in tutta l’Italia, si contarono 257 morti, 1.099 feriti, 3.788 arrestati: una guerra civile.

Il 5 gennaio a Milano era stato diffuso un manifesto a firma “Comitato Segreto Repubblicano” che concludeva con un appello: «Chiunque senta dignità di cittadino italiano, chiunque senta che l’Italia fu fatta dal popolo e per il popolo, pulisca il suo fucile e tenga asciutta la polvere». Ad Ancona un altro manifesto diceva: «Non pagate le imposte se volete aver la repubblica». Grida “Viva la Repubblica” furono lanciate in varie località. Scritti apparsi su giornali mazziniani; discorsi di alcuni deputati repubblicani alla Camera durante la discussione sul macinato; il fatto che in alcune località i repubblicani si mettessero alla testa dei rivoltosi; la costituzione della Banda Manini a Reggio Emilia, e tanti altri piccoli episodi accaduti in quei giorni potrebbero indurre a pensare ad un piano insurrezionale ordito dal partito repubblicano.

Ma così non fu. Dimostra l’estraneità dei repubblicani dai moti di rivolta l’atteggiamento tenuto da Mazzini. Giuseppe Pomelli, nel libro Patriotti e soldati reggiani del Risorgimento, a proposito degli avvenimenti del 1869 scrisse: «Un momento più favorevole per fare la rivoluzione non poteva esserci; invece non solo i capi mazziniani consigliarono la calma, ma Mazzini stesso scrisse lettere che a me furono fatte leggere, nelle quali addirittura combatteva quel moto e calorosamente raccomandava di non parteciparvi ma anche di cercare di farlo cessare».

La rivolta, scoppiata spontaneamente, assumeva forme e proporzioni non previste né dal governo né dai rivoltosi. Fu a questo punto che alcuni nuclei repubblicani, agendo di propria iniziativa, cercarono di utilizzarla ai propri fini, sperando di convertirla in rivoluzione. Erano soprattutto dei giovani che, dopo Mentana, aspettavano con ansia il segnale di quella rivoluzione che da Mazzini avevano sempre sentito profetizzare. E quando una rivolta di grandissime dimensioni infiammò ogni parte d’Italia sembrò loro che l’atteso momento fosse finalmente giunto.

Ma i dirigenti del partito, che pur da anni predicavano la rivoluzione ed incitavano individui e gruppi a tenersi pronti, subito passarono a combatterla, e non perché si trattava della rivolta di contadini ignoranti e inferociti, infatti il partito repubblicano, se avesse agitato la bandiera della repubblica e soprattutto quella delle riforme sociali, avrebbe avuto la forza per trasformare la rivolta dei contadini in quella, ben più pericolosa, di operai e di artigiani nelle città. Il fatto era che Mazzini si preoccupava soprattutto della unità nazionale, tutto il resto avrebbe dovuto esser rimandato a dopo il suo pieno compimento.

Nello Rosselli, nel libro Mazzini e Bakunin commentava: «Se proprio si guarda alla sostanza delle cose, bisogna riconoscere che, dalla unificazione politica in poi, Mazzini fu un elemento di conservazione assai più che di vero rinnovamento. Parla di rivoluzione, caccia questa parola in tutti i suoi scritti, ma non pensa a organizzarla sul serio; capisce che così bisogna fare per tenere la coesione nella Sinistra e per non lasciarsi sfuggire gli elementi più giovani e attivi: è una parola d’ordine, nulla più. E intanto, fin quando i giovani intellettuali e gli operai staranno stretti intorno alla rivoluzione di Mazzini, l’unità e l’ordine sociale potranno dormire sonni tranquilli».

Ma alcuni fra gli elementi più giovani e dinamici del partito, allo scoppio di un moto di tali proporzioni contro il governo monarchico, non si curarono degli ordini impartiti dai dirigenti e si buttarono nel pieno della rivolta per guidarla a fini repubblicani. Tipico fu il caso della banda Manini. Questa è anche la spiegazione dell’apparire di manifesti a firma di comitati segreti repubblicani, nella realtà inesistenti, ma che dimostravano la volontà dell’ala radicale dei repubblicani di prendere la direzione della rivolta.

Certamente l’inerzia dei dirigenti il partito contribuì a rafforzare in molti giovani quella sfiducia in Mazzini e nella sua rivoluzione di cui Bakunin seppe approfittare portando ad una crisi definitiva il mazzinianesimo.

Per Bakunin la sollevazione contadina rappresentò la conferma della sua vecchia tesi, cioè che la vera classe rivoluzionaria non era rappresentata dal proletariato delle città, ma dai contadini. L’anno successivo in una lettera scriveva: «Il movimento affatto spontaneo dei contadini italiani l’anno passato, movimento provocato dalla legge che ha colpito con un’imposta la macinazione del grano, ha dato la misura del socialismo rivoluzionario naturale dei contadini italiani». La tesi di Bakunin sembrava confermata dal fatto che nelle città non avvenne nessun disordine: gli operai non si erano mossi.

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 


Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America
Capitolo 13, esposto a Sarzana alla riunione di gennaio 2012

(Continua dal numero scorso)
 

La American Federation of organized Trades and Labor Unions
 

La grande crisi del 1893

Il 4 maggio 1893 la National Cordage Company, che solo cinque mesi prima aveva annunciato ai suoi azionisti dividendi del 100%, dichiarò fallimento. Ne seguì un crollo generalizzato in borsa, e presto il paese si trovò nella più grave crisi economica della sua storia, fino a quel momento, con assalti alle banche, fallimenti di aziende, diffusa disoccupazione. Nel corso dell’anno fallirono 642 banche e più di 16.000 imprese, 22.500 miglia di ferrovia furono commissariate, migliaia di negozi, fabbriche e officine chiusero i battenti, altre migliaia ridussero drasticamente l’attività.

A centinaia di migliaia gli operai furono espulsi dal lavoro. Alla fine dell’anno si calcolava fossero circa 3 milioni, senza alcun sostentamento, su 5 di forza lavoro; e per ogni disoccupato vi erano fino a 5 familiari che dipendevano da lui. Tra il 1893 e il 1897 si mantennero sempre tra i 3 e i 4 milioni. Drammatica la condizione del proletario nella “terra dell’uomo libero”, dove la classe dominante non si faceva nessuno scrupolo a condannare alla fame coloro che negli anni precedenti aveva impiegato per arricchirsi a ritmi che non avevano l’eguale in tutto il mondo capitalistico.

Oltre alla immaginabile diffusa miseria, d’ordinaria amministrazione nella società capitalistica, negli Stati Uniti si sviluppò più che altrove il fenomeno di masse di disoccupati che si spostavano anche a grandi distanze in cerca di lavoro; quelli che i borghesi con disprezzo chiamavano “vagabondi” o “hobo” erano in realtà migranti, mediamente molto giovani, che reagivano in questo modo alle crisi che si sarebbero periodicamente ripresentate nei decenni successivi. Non sempre trovavano un lavoro i tanti che si affollavano speranzosi dove si vociferava che vi fosse. Nessun aiuto fu fornito dalle amministrazioni statali e l’unico sollievo nel periodo della depressione 1893-97 venne da organizzazioni di carità, amministrazioni comunali, e soprattutto dai sindacati più forti e previdenti. Ma questo non era sufficiente, e gli aiuti raggiungevano solo una parte minoritaria degli indigenti.

Fu quindi convocata a Chicago una Conferenza Internazionale del Lavoro, con i rappresentanti dei sindacati, cui parteciparono anche dirigenti di sindacali stranieri. Gompers, come presidente, pronunciò l’indirizzo inaugurale. Nonostante si proclamasse ancora socialista si guardò dall’attaccare il sistema capitalistico. Attribuì invece la colpa della crisi a non meglio identificati “ricchi possidenti del nostro Paese”: siccome costoro non lo consideravano un loro problema, toccava al governo “fornire i mezzi affinché gli uomini e donne del nostro Paese possano sopravvivere”. Quindi elencava una serie di misure: lavori pubblici nelle città; negli Stati miglioramento delle grandi vie di comunicazione (strade, canali, ecc.); a livello di governo federale, costruzione di un canale nel Nicaragua e miglioramento della navigabilità del Mississippi. In altri tempi Gompers avrebbe potuto puntare alla Casa Bianca, visto che il suo programma anticipava di 40 anni il New Deal roosveltiano!

La Conferenza produsse tre comitati, che si divisero diversi compiti di agitazione e propaganda, ma fu presto chiaro che niente poteva venire di buono da semplici richieste basate sul buonsenso. Occorreva una prova di forza. Visto che nessuno propose di mobilitare gli operai ancora alla produzione (certamente ricattati e intimoriti, ma sicuramente anche pieni di rabbia: i salari orari erano crollati, per risalire ai valori di inizio 1893 solo nel 1900), si decise di chiamare i disoccupati a dimostrazioni di massa. Questi furono addirittura inquadrati in sindacati specifici, subito riconosciuti dall’A.F.L.

Le dimostrazioni, in genere di grandi numeri, pur se spesso attaccate e disperse a manganellate dalla polizia, ebbero qualche effetto localmente nello spingere le amministrazioni comunali a dare lavoro a disoccupati del luogo, ovviamente saltuario e molto sottopagato. Un affarone, visto che gli scapoli in genere ricevevano solo buoni per mangiare e dormire, i padri di famiglia poco di più: per esempio a San Francisco ai disoccupati più fortunati era concesso di spazzare le strade per due giorni e mezzo la settimana per $1,40, quando la paga oraria media pre-crisi era di 15 centesimi.

Nonostante queste sporadiche e micragnose elargizioni gli strati più ricchi della società ebbero da ridire. A Cincinnati i borghesi costituirono addirittura un Comitato che obiettava sull’opportunità dei lavori pubblici con l’impiego di disoccupati, in quanto erano superflui, e quindi costituivano spreco di denaro dei contribuenti, erano in principio comunistici, e demoralizzavano coloro che ricevevano l’aiuto. Questo non fece che inasprire gli animi, anche del buon Gompers, che a un raduno di una grande massa al Madison Square Garden di New York nel gennaio 1894 si fece sfuggire parole molto rivoluzionarie: “Che la conflagrazione illumini i cieli oltraggiati! Che la Nemesi rossa bruci il clan infernale, e il caos ponga fine alla schiavitù dell’uomo!”. Anche se si pentì subito dopo di quelle parole, il linguaggio rifletteva il sentimento delle masse.

Nonostante queste rodomontate di Gompers il governo federale non sentì il bisogno di accorrere in soccorso degli operai e non un centesimo fu sborsato, mentre non si esitava a investire molti milioni di dollari in armamenti e addestramento militare. D’altronde non si tratta di novità, la borghesia ha le sue priorità, e sono proprio i periodi di crisi che la spingono a dotarsi di potenti armamenti, mentre i proletari sono considerati un fattore della produzione “usa e getta”.
 

La “Coxey’s Army”

Nel frattempo, si stava verificando un fenomeno singolare: masse di disoccupati si stavano muovendo verso Washington, chi in treno, chi per vie d’acqua, chi a piedi, per dimostrare il loro scontento sulle condizioni del paese e chiedere una risposta alle lamentele che sorgevano ovunque. Quello che fu dai suoi artefici battezzato “Army of the Commonweal of Christ”, e che fu meglio conosciuto come “Coxey’s Army” (L’esercito di Coxey), vide più di 10.000 uomini fare un viaggio che per molti, quelli che venivano dall’altro lato del paese, California, Texas, Arizona, fu lungo e duro, senza organizzazione, senza provviste, mendicando per centinaia e migliaia di miglia. Il movimento era nato nell’autunno del 1893 a Massillon, Ohio, su iniziativa di un certo Jacob Sechler Coxey, teosofo in religione e di idee politiche populiste, ricco proprietario di una cava di pietra e di un allevamento di cavalli. Come populista pensava che fosse compito del Congresso e del governo alleviare il disagio sociale. Pubblicò quindi un proclama in cui annunciava la sua intenzione di costringere, se necessario, chi era al potere a fare qualcosa per i poveri. Secondo il suo progetto i disoccupati avrebbero dovuto essere impiegati in lavori pubblici statali, da finanziare con l’emissione di carta moneta (aveva un passato da greenbacker) che gli Stati avrebbero rimborsato senza interessi in 25 anni. Inoltre il governo federale avrebbe emesso ulteriori 500 milioni di dollari per un progetto federale di costruzione di strade. Insomma, un altro precursore di F. D. Roosevelt.

Pur non facendo lottare i proletari ancora al lavoro, la A.F.L. abbracciò la causa di Coxey, e di fatto molti dirigenti del movimento erano anche sindacalisti. La marcia aveva ricevuto sostegno da parte delle comunità che attraversavano, felici di aiutarli a continuare il cammino; all’Est invece l’accoglienza fu più fredda e i “Coxeyites” cominciarono ad avere problemi con la polizia e con la popolazione. Così gli “eserciti” cominciarono ad assottigliarsi via via che i più decidevano di tornarsene a casa.

A raggiungere Washington il 1° maggio 1894 furono meno di mille. Come da programma, il “generale” Coxey guidò i suoi seguaci per le strade della città fino ai piedi del Campidoglio. Da lì arringava la folla, ma fu subito arrestato e messo in cella per venti giorni, oltre a pagare una multa di 5 dollari, per aver calpestato il prato. Così si concluse la marcia sulla capitale.
 

Il sindacato di industria dei ferrovieri

Furono anni duri, con i sindacati che, con il 50-75% dei loro iscritti disoccupati, non riuscivano ad aiutarli, per non parlare della capacità di mobilitazione. Eppure non mancavano le ragioni per lottare contro una borghesia che, non smentendo la sua fama di profittatrice senza scrupoli, coglieva al volo l’occasione per riprendersi quel che aveva concesso, obtorto collo, negli anni precedenti. Per primo l’orario di lavoro: mentre da molte parti, compresi molti giornali borghesi, si invocava l’estensione generalizzata dell’orario di lavoro di otto ore per ridurre il numero dei disoccupati, e conseguentemente ridurre la durezza della crisi sulla classe, i padroni approfittavano della sua debolezza per imporre salari ridotti e orari prolungati.

Ma gli operai americani non si fecero intimidire, e reagirono ogni volta che ne ebbero la possibilità. Un bell’esempio venne in quegli anni dai minatori, seppure con alterne fortune. A Cripple Creek, nel Colorado, i minatori delle miniere d’oro entrarono in sciopero nel febbraio 1894 quando i padroni tentarono di riportare l’orario di lavoro a dieci ore. Come al solito lo scontro fu duro, contro migliaia di mercenari, poliziotti, milizia e crumiri, ma dopo ben cinque mesi rientrarono al lavoro con la conquista delle otto ore conservata.

Meno fortunata fu la lotta dei 180.000 operai delle miniere di bitume di quattro Stati, un numero dieci volte maggiore di quello degli iscritti alla United Mine Workers. La lotta durò otto settimane, e fu sconfitta dalla mancanza di risorse che non consentì di resistere più a lungo. La mazzata che il sindacato ricevette in quell’occasione continuò a far sentire i suoi effetti per molti anni. Non è possibile qui elencare tutte le lotte dei minatori di Illinois, Pennsylvania, West Virginia, durissime, spesso con morti e feriti, soprattutto tra i lavoratori, in cui proletari disperati lottavano anche nella certezza della sconfitta contro polizia, milizia, crumiri, mercenari della Pinkerton, giudici, stampa.

Era chiaro che l’unica possibilità di reagire fosse realizzare un superiore livello di unità, per sopperire alle difficoltà della situazione con la concentrazione delle poche forze ancora valide nella battaglia interminabile contro il capitale. Fu quindi convocata a Philadelphia una conferenza per il 28 aprile 1894. Tutti i sindacati e federazioni sindacali importanti parteciparono, a cominciare dalla A.F.L. e dai Cavalieri del Lavoro. Ne uscì un bel documento, ma nessuna decisione operativa che trasformasse in azione le invocazioni alla lotta e alla unità. Eppure, mentre si discettava sull’importanza dell’unità del mondo del lavoro, i vantaggi della sua realizzazione erano evidenti a tutta la classe. Infatti un nuovo sindacato dei ferrovieri, la American Railway Union, era nato sulla base del principio di unità tra tutti i lavoratori di un dato settore, realizzando il sindacato d’industria, e in breve tempo era riuscito a inanellare vittorie che fino a quel momento i ferrovieri non avevano osato sperare. Era ormai evidente che il modello per un movimento operaio americano unito era il sindacato d’industria, che unisse gli operai specializzati, semispecializzati e non specializzati.

Agli inizi degli anni ’90 i ferrovieri erano inquadrati sindacalmente in cinque Fratellanze (Brotherhoods), delle quali solo quella dei macchinisti aveva un’impronta di lotta rivendicativa, mentre le altre, ognuna di un diverso mestiere, in origine si erano date scopi di mutuo soccorso. Infatti quello del ferroviere era un mestiere molto pericoloso: ogni anno ne morivano oltre duemila, e trentamila erano i feriti di diversa gravità; i salari variavano dai 957 dollari annuali per i macchinisti, dei veri aristocratici, ai 575 per i conduttori, ai 212 per i frenatori, ai 124 per i manovali; i salari della maggioranza erano al di sotto del livello di sussistenza. Le morti sul lavoro erano definite dalle compagnie “atti di Dio”, o il risultato di “disattenzione”, ma in realtà la responsabilità era da attribuire all’avidità delle compagnie, che riducevano continuamente il personale imponendo ai restanti doppi turni, e quindi debiti di sonno e di stanchezza.

Tra le Fratellanze non esisteva alcun coordinamento, ognuna agiva per conto suo, consentendo alle compagnie ferroviarie di neutralizzarle, a volte mettendole l’una contro l’altra. Inoltre rappresentavano solo una piccola minoranza dei ferrovieri, ignorando i semi-specializzati e i non specializzati, e addirittura cercavano di far espellere dal lavoro gli operai negri. Nemmeno tutti gli specializzati aderivano: nel 1893 gli iscritti erano in tutto circa centomila, un decimo della forza lavoro.

Fin dal 1885 una voce si era levata predicando la necessità di unire le forze di tutti i ferrovieri, il periodico "Locomotive Firemen’s Magazine", diretto da Eugene V. Debs. Richiamando il motto del Cavalieri del Lavoro, “Un danno a uno è il problema di tutti”, Debs ripeteva che una singola Union era impotente di fronte a una gigantesca compagnia ferroviaria, e che l’unico modo di avere successo per i ferrovieri era una federazione di macchinisti e fuochisti, scambiatori e frenatori. «Le forze del lavoro si devono unire. Le linee di divisione devono farsi sempre più deboli fino a diventare impercettibili, e allora l’Esercito del lavoro sotto una sola bandiera vittoriosa marcerà insieme, voterà insieme e lotterà insieme, fino al giorno in cui saranno i lavoratori a ricevere e a godere di tutti i frutti delle loro fatiche».

Questa impostazione cominciò a fare presa; non tanto sui dirigenti delle Fratellanze, che temevano una riduzione nel numero dei funzionari sindacali, quanto sulla base, che spingeva per la collaborazione. Così l’azione concertata tra macchinisti e fuochisti determinò nel 1886 alcune vittorie. Un buon inizio, ma insufficiente nei casi più gravi senza la collaborazione delle altre categorie. Fu così che i fuochisti proposero una federazione delle Fratellanze; che fu in effetti fondata nel 1889, con l’altisonante nome di Supreme Council of the United Orders of Railway Employees. Purtroppo, nonostante le buone intenzioni, l’organizzazione non si era ancora liberata di alcune tare tipiche delle Fratellanze, piccole beghe di bottega, e l’esclusione dei negri. Tare che portarono al completo naufragio dell’iniziativa nel 1892.

Poco dopo la dissoluzione del Supreme Council uno sciopero degli scambisti di Buffalo, Stato di New York, dimostrò con chiarezza quanto deboli fossero i proletari in lotta se le Fratellanze continuavano a seguire una politica separata. Dopo che i vicesceriffi di Buffalo, solidali con gli scioperanti, si erano rifiutati di intervenire, il governatore inviò la milizia al comando di un generale che era anche un funzionario delle ferrovie in questione. Gli scambisti del resto dello Stato scioperarono in solidarietà, ma le forze opposte di milizia, polizia e crumiri erano tali che i soli scambisti non potevano farcela e, nonostante una conferenza appositamente convocata, le Fratellanze rifiutarono di scioperare, decretando implicitamente la sconfitta.
 

L’American Railway Union

La sconfitta aveva però lasciato una tangibile eredità: la base aveva capito l’importanza dell’unione delle forze, e questa coscienza ebbe un rapido esito nel processo di formazione di una nuova organizzazione aperta a tutti i ferrovieri. Il processo si concluse il 20 giugno 1893, con la fondazione della American Railway Union. Alla A.R.U. erano ammessi tutti i dipendenti bianchi delle ferrovie, con la sola esclusione dei funzionari di alto grado. Erano compresi tutti i lavoratori in qualche modo collegati alle ferrovie, come minatori, scaricatori, ecc., basta fossero dipendenti delle compagnie ferroviarie. Una proposta di ammissione dei lavoratori negri fu messa ai voti, e rigettata con 113 voti contro 102. Ben diverso fu l’atteggiamento verso le donne: oltre ad essere ammesse, fu dichiarato che «quando una donna svolge un lavoro da uomo, deve ricevere una paga da uomo», affermazione all’epoca per niente scontata e molto avanti sui tempi.

Scopo dichiarato della A.R.U. era di agire in modo unitario ogni volta che i diritti di suoi membri fossero minacciati. Sotto la presidenza di Debs, che iniziò la pubblicazione dell’organo ufficiale "Railway Times", quindicinale che divenne popolare tra i ferrovieri, vi fu una consistente migrazione di lavoratori dalle vecchie Fratellanze verso il nuovo sindacato, anche di specializzati e macchinisti; ma questi costituivano una minoranza dei nuovi membri: la maggioranza furono i lavoratori fino a quel momento non organizzati, o perché non ammessi nelle Fratellanze, o perché tenuti lontano dalle alte quote richieste. Per essere iscritti all’A.R.U. bastava un dollaro l’anno.

Ma il vero decollo delle iscrizioni si ebbe in seguito a una altisonante vittoria nella primavera del 1894, lo sciopero della Great Northern Railroad. Dopo una serie di tagli salariali (ricordiamo che si era nel pieno della crisi economica) i 9.000 dipendenti della compagnia decisero di scioperare compatti, senza eccezioni, nonostante le Fratellanze avessero raccomandato di accettare le decurtazioni. Di fronte alla compattezza dell’astensione la Compagnia non ritenne di utilizzare i crumiri (al cui reclutamento le Fratellanze avevano collaborato), e di fronte anche alla simpatia della popolazione e degli agricoltori, quantunque danneggiati dallo sciopero, in 18 giorni capitolò, cedendo a tutte le richieste. Non ci poteva essere migliore dimostrazione dell’importanza ed efficacia del sindacato d’industria rispetto alle obsolete Unions di mestiere. Nelle settimane successive le iscrizioni all’A.R.U. aumentarono al ritmo di 2.000 nuovi iscritti al giorno. A un anno dalla sua fondazione il sindacato era divenuto il più grande di categoria degli Stati Uniti, forte di 150.000 iscritti, quando l’intera A.F.L. ne aveva 175.000 e i K.L. 70.000, mentre le vecchie Fratellanze combinate non arrivavano a 90.000, con numeri in costante declino.

Sul versante padronale naturalmente tirava ben altra aria. L’A.R.U. costituiva la maggiore minaccia che le compagnie ferroviarie avessero mai incontrato. Queste avevano creato la G.M.A. (General Managers’ Association) per realizzare un programma di graduale riduzione dei salari su tutte le tratte, parificandoli al basso. Ben 58 compagnie si erano incontrate a Chicago nell’agosto 1893 per concertare il loro attacco contro i loro dipendenti, proprio mentre l’A.R.U. stava cominciando ad operare. La G.M.A. rappresentava la proprietà di 410.000 miglia di ferrovie, con 221.000 dipendenti e un capitale complessivo di 2 miliardi di dollari; un avversario dotato di risorse praticamente infinite e inesauribili, oltre naturalmente a influenze sulla politica locale e nazionale che i proletari non avevano. I padroni si erano resi conto che il nuovo sindacato rappresentava un poderoso ostacolo ai loro progetti, e cominciarono a pianificare un attacco per distruggerlo. L’occasione si presentò nella primavera del 1894, ed ebbe origine nella cittadina di Pullman, 12 miglia a sud di Chicago, oggi assorbita dalla metropoli.
 

Lo sciopero Pullman

Forse più di qualsiasi altra lotta sindacale occorsa dalla fine della Guerra Civile, lo sciopero Pullman, o, come lo chiamarono i giornali, la “Ribellione Debs”, scosse la nazione in profondità, mettendo a nudo la durezza della condizione operaia, e mostrando in modo evidente quale fosse il ruolo del governo federale nel sostenere i capitalisti nel tentativo di schiacciare il movimento sindacale.

La Pullman Company si occupava della costruzione di vetture ferroviarie, e gli impianti erano nella “Città Modello” di Pullman, Illinois; tutto nella cittadina era di proprietà di Pullman: case, negozi, strade. I dipendenti vivevano nelle case di Pullman, pagando affitti più cari che nei paesi vicini, facevano la spesa nei suoi negozi, pagavano a lui tutte le forniture, con detrazioni direttamente dallo stipendio.

In seguito alla crisi del 1893 i salari (di chi non era stato licenziato) furono a più riprese decurtati, con riduzioni del 25, 33, 50 e in qualche caso 70%. Nello stesso anno la compagnia non trascurò di pagare dividendi del 9,5% ai suoi azionisti, come aveva fatto negli anni precedenti. Ma gli affitti e gli altri costi della vita dei proletari non vennero ridotti, in modo che ben presto il salario disponibile si ridusse a valori insignificanti. Sotto molti altri aspetti gli operai erano tenuti in condizioni di servitù, anche se Pullman li chiamava “i miei bambini”.

Nei mesi di marzo e aprile gli operai cominciarono a organizzare sezioni della A.R.U.; anche se non erano veri e propri ferrovieri, il fatto che la compagnia possedesse ed operasse su alcune miglia di ferrovia li autorizzava a iscriversi al sindacato. In poche settimane si iscrissero 4.000 dipendenti della compagnia, la quasi totalità.

Ai primi di maggio 1894 fu creata una Commissione interna con l’incarico di presentare alla proprietà una serie di lamentele cui si sarebbe dovuto porre rimedio: riduzioni degli affitti, salari ai valori pre-crisi, eliminazione di abusi vari sul lavoro. Pullman non concesse niente, anzi qualche giorno dopo tre componenti della Commissione interna furono licenziati, nonostante ci fossero stati impegni in senso contrario. Ciò infiammò gli animi già provati dalle ristrettezze, e in una accesa riunione la Commissione votò unanimemente per lo sciopero; questo nonostante fossero presenti funzionari dell’A.R.U. che predicavano la calma, chiedendo tempo per chiarire bene la situazione. Così l’11 maggio 4.000 operai cessarono di lavorare, e le poche centinaia rimasti al lavoro furono mandati via dalla proprietà, che chiuse gli impianti senza scadenza.

Fu formato un comitato di sciopero, e 300 operai furono distaccati a sorvegliare gli impianti per difenderli da eventuali vandalismi. Gli scioperanti erano fiduciosi, in quanto si aspettavano di ricevere il sostegno della ormai potente A.R.U. In realtà il sindacato non aveva né indetto né autorizzato lo sciopero; ma essendo gli scioperanti iscritti all’A.R.U., Debs fece una visita di persona per verificare la situazione, e dopo diversi giorni di incontri con gli operai dovette ammettere che la lotta era pienamente giustificata.

Per un mese gli operai tirarono avanti grazie al sostegno della classe operaia di Chicago. Il 12 giugno si riunì proprio a Chicago la prima convenzione nazionale dell’A.R.U.; sentiti gli operai della Pullman, fu presentata una proposta di boicottaggio delle vetture dell’azienda. Il comportamento di Debs è descritto da un suo biografo: «In quell’occasione usò tutte le forme di controllo che come presidente dell’assemblea aveva in mano. Nell’opporsi a un confronto deciso e ostinato fece ricorso a tutta la sua abilità, alla sua eloquenza, all’influenza che esercitava, ma tutto fu inutile... per gli operai era l’ora di dare una lezione a quella sanguisuga di Pullman... non si doveva toccare un solo vagone letto finché Pullman non fosse arrivato a un accordo con i suoi lavoratori... La direzione del sindacato cercò in tutti i modi di evitare anche lo sciopero di solidarietà, ma quando Pullman con arroganza rifiutò l’arbitrato dicendo che “non c’era nulla da sottoporre ad arbitrato”... fu ripresentata la proposta di boicottaggio; quando i delegati telegrafarono ai luoghi di provenienza per avere istruzioni si resero conto che la stragrande maggioranza era in favore e quindi votarono all’unanimità per farlo».

Il boicottaggio iniziò il 26 giugno 1894, quando gli addetti allo smistamento di parecchie linee che si dipartivano da Chicago rifiutarono di spostare le carrozze Pullman; furono immediatamente licenziati, con il risultato che altri che lavoravano sulle stesse linee sospesero l’attività per protesta. Presto diverse linee di Chicago furono bloccate. Comparivano comitati e gruppi di ferrovieri provenienti da ogni parte ad annunziare che le loro sezioni locali avevano deciso di scioperare in appoggio ai lavoratori Pullman. Presto si fermarono tutte le ventisei ferrovie che si dipartivano da Chicago; così anche le linee continentali, eccetto la Great Northern, che non aveva carrozze letto di Pullman. La lotta si estese a ventisette Stati e territori. Si stima che 260.000 ferrovieri aderissero allo sciopero, quasi metà dei quali non iscritti alla A.R.U. Secondo alcune stime a causa dello sciopero si erano fermati 500.000 lavoratori, altre stime portano la cifra a oltre 660.000.
 

Un compito per lo Stato del Capitale

La padronale General Managers’ Association non si mosse per trovare una soluzione alla vertenza, né per dare una mano a Pullman, ma solo con lo scopo dichiarato di distruggere completamente l’American Railway Union. In nessun momento della vertenza si mostrò pronta a negoziati o alla minima concessione.

La sua prima mossa fu di far sapere che chiunque si fosse rifiutato di svolgere i suoi compiti, o avesse abbandonato il posto di lavoro, su istigazione dell’A.R.U., non avrebbe mai più trovato lavoro in alcuna compagnia ferroviaria rappresentata dalla G.M.A. Chi invece avesse svolto il lavoro degli scioperanti avrebbe potuto contare su protezione e lavoro per sempre. Anche queste misure determinarono l’estendersi dello sciopero, perché quando uno scambiatore era licenziato per l’adesione al boicottaggio tutta la squadra scendeva in sciopero; quindi il boicottaggio presto si trasformò in uno sciopero vero e proprio.

L’Associazione fece venire crumiri da tutte le parti del Paese e dal Canada, ma non poté impedire il blocco della maggior parte del traffico ferroviario. Di fatto era impossibile rimpiazzare più di 250.000 scioperanti praticamente in tutto il Paese, da nord a sud, dall’est alla California. Si trattava del primo vero sciopero nazionale. Sciopero che, essendo le compagnie ferroviarie molto odiate, raccoglieva sostegno e solidarietà da ampi strati della popolazione. Le Fratellanze si schierarono dalla parte dei padroni, organizzando addirittura il crumiraggio, ma furono in genere sconfessate dalla base, e molte loro sezioni passarono in blocco all’A.R.U.

Il 2 luglio la G.M.A. dovette ammettere che le ferrovie erano in ginocchio, e che le compagnie da sole non avrebbero potuto battere gli operai in lotta: «È oramai compito del governo gestire il problema». Due giorni dopo un giulivo comunicato dichiarava: «Per quanto riguarda l’atteggiamento delle compagnie ferroviarie circa questa lotta, esse ne sono fuori. Lo scontro è adesso tra il Governo degli Stati Uniti e l’American Railway Union, e che se la vedano fra di loro».

Poco dopo l’inizio dello sciopero il Ministero delle Poste a Washington fu informato del fatto che all’ovest la posta era bloccata a causa del boicottaggio delle vetture Pullman. Ovviamente avrebbe potuto decretare che fino alla fine dello sciopero la posta doveva viaggiare su treni senza quelle vetture, ma il governo fu sin dall’inizio determinato a rendere un servizio decisivo alle compagnie ferroviarie nel loro tentativo di annichilire il nuovo sindacato dei ferrovieri. Incaricato a gestire la crisi fu il Procuratore Generale degli Stati Uniti, Richard Olney, che prima di entrare a far parte del gabinetto Cleveland era stato per 35 anni legato alle compagnie, ancora direttore di una di esse, e membro della G.M.A., oltre ad avere consistenti investimenti personali nel settore ferroviario. Alla faccia del “conflitto di interessi”!

Olney si mise quindi al lavoro con determinazione, nominando altri personaggi fidati dell’establishment, ovviamente tutti anche sul libro paga delle compagnie, a gestire gli aspetti di polizia e giudiziari della vertenza. Basandosi su cavilli giuridici che non avrebbero retto alla più benevola critica, fu emessa un’ingiunzione per proibire qualsiasi attività che potesse disturbare il libero movimento di treni e merci tra gli Stati, inclusa quindi la propaganda anticrumiraggio. Chi avesse trasgredito all’ingiunzione si sarebbe reso colpevole di “cospirazione criminale”, il che avrebbe comportato lunghe pene detentive. In sostanza era sospeso il diritto di sciopero, come apparve evidente a tutti. Lo stesso "Chicago Times" dovette ammettere che si trattava di «una minaccia alla libertà... un’arma a disposizione dei capitalisti... scopo dell’ingiunzione non è tanto impedire ogni intralcio al movimento dei treni, quanto di dare un pretesto per l’intervento dell’Esercito federale».

Subito dopo l’ingiunzione l’esecutivo dell’A.R.U. si riunì per decidere il da farsi. Da un lato era chiaro che qualsiasi tentativo di inosservanza dell’ingiunzione avrebbe determinato una immediata condanna, e senza il beneficio di un processo con giuria. D’altra parte obbedire avrebbe significato la sconfitta dello sciopero e la distruzione del sindacato, oltre alla disoccupazione per migliaia di operai cui i padroni l’avevano giurata. La decisione finale fu di andare avanti con la lotta.

Il 2 luglio a Olney arrivarono richieste di intervento di truppe per far rispettare l’ingiunzione. Il giorno dopo, grazie a un ordine diretto del Presidente Cleveland, le truppe di Fort Sheridan furono fatte partire per Chicago, dove arrivarono il 4 luglio, in tempo per l’Independence Day. Cleveland e Olney non si preoccuparono minimamente degli aspetti legali della decisione di inviare truppe federali. Secondo la Costituzione il Presidente ha il potere di inviare truppe in uno Stato, per proteggerlo dalla violenza, solo su richiesta del Parlamento statale o del Governatore. Ma Cleveland applicò delle regole della Guerra Civile, mai applicate in tempo di pace. Il Governatore dell’Illinois, Altgeld, non fu neppure informato, sicuramente perché sapevano che secondo lui la situazione non richiedeva misure così drastiche. Intendiamoci, Altgeld era pronto a utilizzare le milizie, che in realtà aveva già utilizzato giorni prima per mantenere l’ordine, ma in molti casi erano state richiamate perché non ve ne era bisogno. Di fronte alle sue proteste nei confronti della Casa Bianca le risposte furono evasive, mentre i giornali scatenavano una campagna denigratoria chiamandolo “anarchico”, “nemico della società”, “minaccia per la Repubblica Americana”.

Così il 4 luglio 12.000 soldati federali entrarono in Chicago, accolti dai fischi della popolazione. Fino all’arrivo delle truppe lo sciopero a Chicago era continuato senza il minimo incidente ma, nonostante appelli alla calma da parte del sindacato, nei quattro giorni successivi vi furono scontri e distruzioni, furono distrutti impianti delle ferrovie, vetture, e si sviluppò un grande incendio. Anche se la rabbia degli scioperanti e dei disoccupati era ben giustificata, pare che le prime violenze fossero innescate da sfaccendati assoldati dalle compagnie e da funzionari di polizia presenti in gran numero tra i dimostranti e che gli operai avessero una minima parte negli scontri, secondo numerose testimonianze. I giornali, nonostante reportages poco allarmanti, riempirono le prime pagine con titoli isterici, sull’incombere della rivoluzione, sull’invasione degli USA da parte di anarchici in arrivo dall’Europa, sulle distruzioni senza quartiere e indiscriminate, per formare un’opinione pubblica terrorizzata e pronta a giustificare qualsiasi misura repressiva. Un ministro di Dio arrivò a dire: «I soldati devono usare i loro fucili. Devono sparare per uccidere». E questo i soldati fecero. 25 operai furono uccisi, e 60 gravemente feriti. Altre decine rimasero uccisi in sei altri Stati.

Ma l’intervento delle truppe federali non fermò lo sciopero. Né riuscì in questo intento il sabotaggio operato dai funzionari delle Fratellanze. Quando gli scontri cessarono quasi del tutto, il 10 luglio, Debs e altri funzionari dell’A.R.U. furono incarcerati per “cospirazione allo scopo di impedire il commercio interstatale”. Furono rilasciati il giorno dopo e arrestati di nuovo dopo una settimana, stavolta per oltraggio alla corte. Le ingiunzioni rendevano di fatto qualsiasi attività sindacale legata allo sciopero un atto di insurrezione, e ciò giustificava arresti, incarcerazioni, uso della forza fino all’uso delle armi da fuoco sulle folle disarmate. Nel frattempo le sedi del sindacato furono devastate dalla polizia, e gli operai si trovarono soli, senza informazioni salvo quelle false della stampa di regime.

Di fronte all’arma delle ingiunzioni maneggiata con disinvoltura dallo Stato si comprese che la partita era perduta, a meno che non intervenisse il sostegno di tutta la classe operaia. In effetti all’ultimo momento sembrò che dai lavoratori di Chicago, che appoggiavano lo sciopero con entusiasmo, arrivasse un estremo aiuto: il 30 giugno la Trades and Labor Assembly, una specie di Camera del Lavoro cittadina, si era offerta di impegnare in favore dello sciopero la forza rappresentata dai suoi 150.000 iscritti. Man mano che il conflitto si radicalizzava continuavano ad aumentare le pressioni in favore di uno sciopero generale in tutto il Paese. Ma si perdeva tempo, e si dava tempo alle truppe e ai giudici di consolidare le posizioni. Ciononostante 25.000 operai di Chicago non ferrovieri scioperarono.

Su richiesta dei sindacati di Chicago arrivò in città il capo dell’A.F.L. Samuel Gompers, per una conferenza con altri dirigenti sindacali nazionali. Un comitato degli operai sigarai di Chicago sostenne la necessità di uno sciopero generale in tutto il Paese, dato che la lotta della A.R.U. riguardava il benessere di tutti i lavoratori.

Debs partecipò, tra un arresto e l’altro, alla conferenza, ma il suo atteggiamento non è chiaro: quella che sembra sia stata la sua posizione fu di chiedere, finalmente, uno sciopero generale di solidarietà, ma solo se le compagnie si fossero rifiutate di riassumere gli scioperanti in cambio della fine del boicottaggio; una scelta rinunciataria e comunque tardiva, fatta da una posizione ormai di estrema debolezza. Fu facile a questo punto per Gompers e gli altri dirigenti sindacali rifiutare questa azione in una situazione di sciopero virtualmente sconfitto. Emisero invece una dichiarazione che intimava un ritorno al lavoro immediato e senza condizioni. Un atteggiamento, a conferma della natura dei dirigenti dell’A.F.L., non incondizionatamente dalla parte della classe lavoratrice, volto a non scontrarsi a fondo con le compagnie e il padronato in genere, a favorire l’ingresso delle Fratellanze nell’A.F.L., e ad allontanare, togliendolo di mezzo, un sindacato che, per le sue caratteristiche d’industria e per il successo che aveva ottenuto, rappresentava una componente non assimilabile.

Lo sciopero ebbe termine il 18 luglio, il giorno successivo alla definitiva incarcerazione della dirigenza dell’A.R.U. Il sindacato non si riprese più dalla sconfitta, con i dirigenti in galera, gli iscritti demoralizzati, disoccupati e sulle liste nere, si disintegrò rapidamente. Alcuni dei suo attivisti avrebbero in seguito formato il Social Democratic Party, precursore del Socialist Party of the United States.
 

La lotta di classe e il “sindacalismo prudente”

Il minimo che si può dire dello sciopero Pullman, che ebbe un’estensione mai vista prima, è che consentì alla massa degli operai americani di toccare con mano il ruolo del governo, che era in tutta evidenza a protezione degli interessi della classe capitalista. Inoltre apparve chiaro che i monopoli potevano essere sconfitti solo grazie al massimo di unità e di organizzazione sindacale; un solo sindacato, per quanto forte, non poteva sconfiggere le forze coalizzate di padroni, Stato e opportunismo sindacale.

Eppure nel movimento sindacale c’era chi traeva dall’esperienza la lezione opposta. I sindacati di mestiere vedevano nella sconfitta una conferma del loro modo di agire e della loro natura. Secondo loro i metodi dell’A.R.U. non potevano che determinare lo scatenamento delle forze coalizzate della società borghese, il che, per altro, è vero. In questa poteva essere tollerato solo un sindacalismo che non costituisse una minaccia per il controllo dei monopoli sul meccanismo economico e politico e per i loro profitti, quello che hanno chiamato “Prudential Unionism”.

L’essenza del sindacalismo di mestiere e della stessa A.F.L. si sintetizzò in pochi precetti: a) l’attività sindacale non deve mai sfidare le grandi compagnie e il governo, e deve evitare lo scontro diretto con essi; b) ci si deve alleare con i capitalisti, con i politici e i partiti favorevoli all’esistenza dei sindacati (di mestiere); c) per garantirsi l’esistenza i sindacati devono esser pronti a fare delle concessioni ai padroni, anche se questo significa accettare di peggiorare le condizioni di vita dei semi-specializzati e non specializzati. Questo modo di vedere l’attività sindacale sarebbe stato istituzionalizzato anni dopo nella National Civic Federation.

L’America, che contava allora circa 65 milioni di abitanti dei quali solo 22 vivevano in aree urbane, si confermò governata da una borghesia insofferente al movimento generale e politico della classe operaia, che credeva nel darwinismo sociale, con l’arroganza del potere che distingue il parvenu; un padronato che aveva rapidamente accumulato fortune immense, pronto a rivolgersi alla forza statale nella guerra ai sindacati. E la forza pubblica e privata, delle comunità locale, degli Stati o federale, non mancava di dare il suo determinante contributo. Qualsiasi lotta, anche solo di categoria e solo per migliori salari, orari, condizioni di vita, diritti, era oggetto di ingiunzioni, intimidazioni, violenze. Questo a sua volta determinava tecniche di lotta che richiedevano la disponibilità ad altrettanta violenza, tanto che sia prima sia dopo Pullman la lotta sindacale richiese adeguate scorte di viveri e risparmi, ma anche armi e munizioni, per garantire un minimo di possibilità di successo. Ne abbiamo avuto esempi nelle dispute che abbiamo passato in rassegna, ne vedremo ancora nel corso della sanguinosa storia del movimento operaio degli Stati Uniti.

In quegli anni di crisi economica e con lo sciopero Pullman si determinò la prima vera situazione oggettivamente rivoluzionaria, con la classe operaia non disposta a ulteriori sofferenze e pronta alla battaglia fino alle estreme conseguenze, unita nella lotta attraverso lo sterminato Paese. Mai come in quel momento però fu tangibile la mancanza della direzione cosciente della classe, pronta a portare la battaglia su un piano superiore, quello politico. I sindacati nella migliore delle ipotesi erano bravi nel loro mestiere, come l’A.R.U., ma timorosi ad andare fino in fondo e, ad un certo punto di maturazione dello scontro, necessariamente incapaci anche di assecondare la sana spontaneità di lotta dei proletari; nella peggiore erano sul fronte avverso, pronti a boicottare il movimento non appena mostrava una qualche debolezza, se non addirittura organizzare il crumiraggio e la delazione per i padroni.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 


Il Marxismo e la Questione Militare
Capitoli esposti alle riunioni di maggio e settembre 2010
 

Parte terza - Il capitalismo
D - La guerra di indipendenza americana

(Continua dal numero scorso)
 

10. Guerriglia invernale

Washington, ritirato in Pennsylvania, riuscì ad organizzare le rimanenti forze e metterle al sicuro per l’inverno, ma la maggior parte dell’esercito che era stato a Long Island non c’era più, molti non avevano rinnovato la ferma o avevano disertato, convinti che la causa dell’indipendenza fosse ormai persa. Il forte esercito assiano, come visto nella battaglia di New York, era molto più organizzato e temibile di quello inglese ma, per fortuna dei coloni, quasi 9.000 tedeschi, provenienti dall’Assia e dall’Hannover, presto disertarono e in gran numero entrarono nelle file dell’Esercito Continentale: il sogno di una vita libera e indipendente nello sconfinato paese aveva spezzato anche i rigidi vincoli degli eserciti germanici.

Per l’inverno 1776-1777 Howe aveva invece disposto il grosso delle forze a New York, 8.000 uomini a Princeton e 2.500 tedeschi negli avamposti di Trenton e Bordentown, vicino al fiume Delaware e agli accampamenti americani, comandati dal colonnello tedesco J. Rall.

Cogliendo di sorpresa questo distaccamento Washington avrebbe calmato il Congresso, risollevato il morale delle truppe e ridotto la pressione nemica. Decise quindi di attaccare il giorno di Natale contando di trovarli i tedeschi ubriachi e dormienti. Una tempesta di neve, inoltre, aveva convinto gli assiani a nemmeno mettere sentinelle. Il piano prevedeva il guado del fiume a monte di Trenton, ma due dei quattro gruppi dell’armata non riuscirono nella traversata, ardua e pericolosa sulla superficie ghiacciata e per le pessime condizioni atmosferiche. Il 25 dicembre 1776 solo 2.400 uomini con 18 cannoni riuscirono a passare il fiume su barche e zattere, per raggiungere Trenton il 26 di prima mattina, dove l’intera guarnigione di 1.400 assiani e 200 inglesi si trovava nel sonno: l’attacco durò un’ora e molti furono catturati ancora nelle brande. Il comandante la guarnigione tentò di organizzare le difese ma fu ucciso e le sue forze si dispersero. 400 riuscirono a riparare a Bordentown che non fu successivamente attaccata, venuto meno l’effetto sorpresa. Per Washington fu un grande successo, aveva subito due morti e quattro feriti mentre le perdite anglo-assiane furono di 20 morti e ben 982 prigionieri, oltre il bottino di guerra. Rientrò nella sua base, oltre il Delaware, con 5.000 uomini, in una posizione poco difendibile per un contrattacco.

Howe, saputa la notizia della sortita americana a Trenton ordinò l’immediato contrattacco al generale Cornwallis; questi, giunto a tappe forzate di fronte allo schieramento americano, decise di dare un giorno di riposo alle truppe rimandando l’attacco al giorno successivo. Ma Washington nella notte diede l’ordine di accendere i fuochi da campo e le lanterne, abbandonare il campo e aggirare le postazioni inglesi. All’alba gli americani giunsero nei pressi di Princeton dove si scontrarono con tre reggimenti di fanteria: fu una breve battaglia con la perdita di 15 americani e 90 inglesi e con le truppe di Sua Maestà che si dettero alla fuga disordinata.

Le truppe di Cornwallis quella stessa mattina andarono all’attacco delle postazioni americane, completamente svuotate. Ritornarono verso Princeton, rallentate dai carriaggi e le vettovaglie e, perso altro tempo a riorganizzare i reggimenti sbandati, non riuscirono ad impedire a Washington di raggiungere Morristown. Washington, entrato nella città il 5 gennaio 1777, pose subito mano a rafforzare le fortificazioni, deciso a stabilirvi il quartier generale. La situazione pareva volgere a suo vantaggio: da lì, distante meno di cinquanta chilometri da New York, controllava il New Jersey. Inoltre, secondo l’uso militare dell’epoca, non c’era pericolo di nuove azioni durante l’inverno, del quale entrambi i fronti approfittavano per riorganizzarsi.
 

11. Difficile marcia da settentrione e presa di Filadelfia

Il generale Burgoyne, rientrato a Londra, convinse il War Office che responsabile di alcuni insuccessi a nord, soprattutto la perdita del forte Ticonderoga, era stata la “colpevole inerzia” del governatore del Canada, manovrò fino a farsi nominare comandante unico di tutte le forze anglo-assiane, concordando un piano per tagliare in due le colonie, e scavalcando nel comando anche il generale Howe. Con nuovi rinforzi, mobilitando anche gli indiani nativi e i lealisti, arrivò ad avere a disposizione 10.000 uomini.

Una prima colonna doveva partire da Montreal, ridiscendere il Lago Champlain, riprendere il forte Ticonderoga e marciare verso sud nella valle dell’Hudson; nel frattempo Howe avrebbe dovuto risalire l’Hudson su barche per congiungersi con Burgoyne; una terza colonna di 3.000 uomini, risalito da Montreal il San Lorenzo fino a Oswego, sul lago Ontario, avrebbe poi preso terra e percorso la valle del Mohawh, chiudendo l’Esercito Continentale fra tre fuochi per riprendere il controllo di tutto il vasto e importante New England.

7.000 anglo-assiani e oltre 3.000 volontari furono pronti a partire alla fine di maggio 1777. Rallentato nell’avanzata, come tutti gli eserciti dell’epoca, dal numeroso seguito di carri con le provviste e le scorte, solo il 30 giugno raggiunse il forte Ticonderoga, che conquistò il 3 luglio; il forte Edward fu conquistato alla fine del mese.

Il piano sembrava riuscire, se non fosse stato per un’iniziativa personale di Howe che tutto risolse in un fallimento. Questi inviò una lettera a Burgoyne, mai giunta a destinazione, in cui lo informava che non poteva risalire l’Hudson. Lasciati 2.000 uomini a difesa di New York, ne imbarcò 18.000 facendo credere di volerli portare verso la Carolina del Sud. Tenne invece le navi in rada fino alla fine di agosto dirigendosi poi a sud verso la baia del Delaware e Filadelfia: intendeva conquistare la città e risolvere la guerra con un importante successo morale per le truppe e suo personale.

Washington, che aveva a disposizione 11.000 effettivi male armati e male addestrati, decise di adottare la medesima tattica della battaglia di New York: combattere solo lo stretto necessario, difendere il morale delle truppe con un po’ di onore senza mai impegnarsi in uno scontro in campo aperto.

Le forze inglesi sbarcarono la prima settimana di settembre. Alcuni giorni dopo l’Esercito Continentale cercò di bloccarne l’avanzata, ma due colonne anglo-assiane sventarono l’operazione: la colonna tedesca si lanciò per spezzare il centro dello schieramento americano, protetta da quella inglese, che usava per la prima volta i fucili a retrocarica Fergusson. Washington, rotto l’accerchiamento, riuscì a ritirarsi, coperto da una piccola retroguardia comandata dal ventenne La Fayette, nominato quel giorno generale. Le perdite americane furono sensibili: 700 tra morti e feriti contro 500 feriti inglesi.

Il 22 settembre Filadelfia cadeva in mano inglese. Washington organizzò un audace contrattacco per il 4 ottobre, ma il piano di farsi inseguire dagli inglesi per poi attaccare la città lasciata sguarnita si risolse in una pesante sconfitta: 670 americani caduti contro 535 inglesi: il vantaggio ottenuto dalle sortite americane a Trenton e Princeton era vanificato.
 

12. Inglesi nel pantano a nord e sconfitti a Saratoga

A sud gli americani erano stati sconfitti, ma sul fronte settentrionale, con il comando affidato ad Arnold, la situazione era migliore, causa anche gli errori tattici del generale inglese Burgoyne. Questi, dopo aver ripreso il forte Edward, si diresse verso la valle dell’Hudson attraverso le wilderness, per lo più acquitrini, senza vie di comunicazione e conosciute solo dalle guide indiane, le quali subito avevano abbandonato gli inglesi. Appesantiti da 42 cannoni e dai carriaggi, le colonne avanzavano a fatica percorrendo solo cinque o sei chilometri al giorno, perdendo molti carri ma soprattutto allontanandosi dalle basi canadesi.

Gli americani, che al contrario conoscevano bene quei territori, decisero di impegnare gli inglesi con la tattica della guerriglia. Arnold incaricò le truppe dei cacciatori di attaccare, da sentieri e piste poco note, le retrovie e i fianchi delle colonne inglesi mentre il grosso dell’Esercito Continentale avrebbe eretto piccoli fortini per impegnarne le avanguardie. Nel frattempo era giunto da West Point il polacco Kosciuzko con il compito di allestire un solido sistema difensivo sulle colline di Bennis Heights, intorno al villaggio di Saratoga, e venivano inviati dal New Jersey 7.000 uomini, sotto il comando di Orazio Gates.

Burgoyne, in questa sua faticosa avanzata, alla metà di agosto aveva già perso circa 1.000 uomini, moltissime le diserzioni. Quando i suoi effettivi arrivarono a ridursi a 7.000 non gli rimasero che due soluzioni: o ritornare indietro verso le basi canadesi per non passare un inverno negli acquitrini, oppure proseguire ad ogni costo sperando di congiungersi con i rinforzi che riteneva stessero risalendo da New York. Decise per questa soluzione. Inviò una colonna di 800 uomini a rastrellare viveri nelle fattorie del Vermont, ma fu attaccata con efficacia presso Bennington sia dai regolari americani sia dalle milizie locali: tornarono solo in 200 e senza viveri!

Le comunicazioni tra le truppe e la base erano ormai interrotte e quindi Burgoyne non sapeva che il suo piano era fallito dall’inizio perché Hove aveva lasciato New York per Filadelfia a sud e non per Saratoga a nord, né sapeva che la colonna di St. Leger era stata sconfitta. Infatti questa, da Oswego sul lago Ontario, era avanzata per un centinaio di chilometri fino al forte Shuyler, difeso da circa 200 americani. Lasciata una parte delle truppe ad assediare il forte, St. Leger con le rimanenti avanzò fino al villaggio Oriskany, sull’omonimo fiume; qui però fu attaccato di sorpresa da due differenti contingenti americani che lo costrinsero alla ritirata. Le truppe lealiste e quelle indiane decisero allora di abbandonarlo, e quando poi ripresero gli attacchi americani, saggiamente ritornò alla base di partenza in Canada.

Burgoyne, nonostante queste difficoltà, il 13 settembre superò Saratoga e diresse verso le Bennis Heights, dove Arnold aveva già concentrato 8.000 uomini. Il 19 settembre gli inglesi attaccarono, costringendo gli americani a ripiegare, senza però infliggere loro un colpo decisivo. Il 7 ottobre, poiché i viveri cominciavano a scarseggiare, Burgoyne decise di attaccare nuovamente le postazioni americane sulle colline. Questa volta però la risposta americana fu ben coordinata ed efficace: mentre due colonne attaccavano i fianchi inglesi, una centrale riuscì a sfondare. Gli inglesi riuscirono a sottrarsi all’accerchiamento ripiegando su Saratoga dove però incontrarono le forze di Gates; le posizioni inglesi caddero una dopo l’altra fino al 17 ottobre quando Burgoyne si arrese con 5.000 uomini; gli americani in questa battaglia avevano raggiunto la ragguardevole cifra di oltre 16.000 uomini.

Tutti gli inglesi che si erano arresi a Saratoga, compreso Burgoyne, furono rilasciati e imbarcati su navi dirette in Inghilterra; nel gennaio 1778 anche Howe lasciò l’America e il comando dell’esercito, ritornando in patria, lui da vincitore.

 
 
 
13. La Francia in guerra

La vittoria ebbe un notevole effetto perché per la prima volta gli americani avevano riunito una forza consistente ed avevano battuto gli inglesi in una serie di battaglie campali e non più con scaramucce e la guerriglia. Questo fece cadere a Parigi le ultime resistenze del re per un’alleanza militare franco-americana, che fu ratificata il 6 febbraio 1778.

Per un’alleanza militare della Francia con le colonie inglesi della costa americana non c’era un appoggio interno unanime: la fazione avversa, ambienti conservatori e finanziari legati alla corte, molto influente presso Luigi XVI, se pur desiderosa di rivincita sull’Inghilterra, temeva un secondo e costoso insuccesso. Erano consci delle difficoltà economiche delle casse nazionali e premevano per il non intervento. Il partito a favore invece era guidato dal ministro degli esteri Gravier, conte di Vergennes. Questi già alcuni anni prima, appena iniziata la guerra nelle colonie, con un finanziamento del principale economista di Francia, il conservatore J. Turgot, aveva fondato la “Compagnia Rodrigo Hortalez & C per l’esportazione di merci varie in America”, da utilizzare come copertura per inviare armi e attrezzature ai rivoltosi. Le spedizioni delle “merci varie” erano legate ai successi ottenuti: più vittorie, più armi. Dopo la caduta di New York furono sospese, poi riprese dopo le vittorie di Trenton e Princetown. La direzione della Compagnia fu affidata al noto drammaturgo Caron de Beaumarchais, inviato dal ministro a Londra in qualità di informatore. Per la sua fama internazionale aveva grandi possibilità e facilità di introdursi nei circoli aristocratici e governativi senza destare sospetti. Riferì che un consistente settore della classe dominante inglese e del personale di Stato era favorevole alla concessione di una qualche autonomia alle colonie americane.

Il lavorio diplomatico per giungere alla firma del trattato fu lungo e complesso. Dopo la vittoria di Saratoga, Vergennes convocò segretamente Franklin per perfezionare gli accordi: prevedevano da parte francese “il pieno appoggio per mare e per terra”; agli americani chiedevano di “non concludere una pace separata con la Gran Bretagna”. L’aspetto economico dell’accordo, messo da parte l’orgoglio nazionale offeso, era consistente: in caso di vittoria la Francia avrebbe sostituito l’Inghilterra negli ingenti scambi commerciali tra i due continenti e nelle trattative sulla questione dell’espansione nei territori indiani.

Gravier, vinte le incertezze del re, che firmò il “Trattato di amicizia e alleanza” nel febbraio 1778, allestì prontamente un corpo di spedizione, aumentò l’invio di rifornimenti all’Esercito Continentale, iniziò i colloqui con il Regno di Spagna e con la Repubblica delle Sette Province, gli attuali Paesi Bassi, per estendere l’alleanza e inviò negli Stati Uniti il primo ambasciatore francese.

Londra immediatamente, come contromossa, varò il “Piano di riconciliazione” con cui le Colonie avrebbero ottenuto la massima possibilità di autogoverno al solo patto di riconoscere il re d’Inghilterra come proprio sovrano. Ma era troppo tardi, gli Stati Uniti, forti dell’appoggio francese, rifiutarono l’offerta certi di poter continuare la guerra senza dover subire pesanti sconfitte o umilianti capitolazioni. Nel frattempo gli inglesi nominarono H. Clinton al comando nelle ex colonie, dopo le dimissioni di W. Howe.

Dal punto di vista militare l’alleanza con la Francia fu importante perché, nonostante le parziali vittorie e la più significativa di Saratoga, quello americano non era ancora un vero esercito con un comando centralizzato e riconosciuto, perduravano ancora improvvisazione, protagonismo di alcuni comandanti, scoordinamento nella catena del comando, oltre ai noti problemi di addestramento, rifornimento e collegamento. In più, se i comandi militari inglesi avevano fino allora ricevuto ordini ambigui, volti a non portare attacchi a fondo per non escludere la possibilità di una soluzione di compromesso, ora questa era tramontata e si doveva prevedere all’inizio della primavera un conflitto più intenso ed esteso. L’esercito americano, allo stremo delle forze, doveva quindi utilizzare la pausa invernale per riorganizzarsi.

Ma ben più gravi erano le contraddizioni sociali di classe all’interno dell’Esercito Continentale, al momento solo sopite. La borghesia ne deteneva il controllo, ma era ostacolata dalla sua frazione lealista, per niente convinta che l’indipendenza dalla madre patria fosse un buon affare. La truppa, tutta volontaria, era formata da coloni vecchi e nuovi; più i disertori assiani in cerca di un buon appezzamento di terra da coltivare, sulla base della piccola proprietà; c’erano poi artigiani europei che contavano in opportunità di lavoro; e salariati che rivendicavano migliori condizioni di ingaggio; questi erano la parte più risoluta. In entrambi gli eserciti, maggiormente in quello inglese, c’erano tribù di indiani nativi che cercavano di rallentare l’occupazione delle loro antiche terre e schiavi negri arruolati con la promessa della libertà o fuggiti dai padroni. Un crogiolo di interessi e di classi diversi, difficilmente contenibili se non con continue ed esaltanti vittorie, mentre fino a quel momento si erano alternati successi e sconfitte.

Dopo la sconfitta patita a Filadelfia, l’Esercito Continentale si era ritirato negli accampamenti invernali in Pennsylvania, in un altopiano facile da difendere ma senza risorse ed esposto alle intemperie. Vi arrivò stremato, con poche armi e munizioni di pessima qualità, con pochi rifornimenti, viveri, vestiti, tende e foraggio. In quelle condizioni von Steuben dovette esprimere il massimo delle sue capacità per formare soldati e ufficiali atti ad un vero esercito. Per primo li dotò di un “Regolamento per l’ordine e la disciplina delle truppe”, scritto, cui fare riferimento e che rimase in vigore per decenni. Per trasformare in soldati quei volontari insegnò loro a rimanere in riga, marciare, eseguire gli ordini, appostarsi, defilarsi, avanzare e retrocedere in ordine, far quadrato, concentrare il fuoco, usare la baionetta. Specialmente addestrò all’esercizio del comando gli ufficiali, molti dei quali si erano arruolati ed auto-proclamati tali. Finito l’inverno Washington disponeva di 11.000 soldati addestrati come gli inglesi, mentre arrivavano i primi rifornimenti francesi. Occorreva però affrontare la prova del fuoco.
 

14. Guerra per mare e per terra

L’intervento della Francia obbligò ovviamente la Gran Bretagna a modificare radicalmente strategia e ad assumere un atteggiamento più deciso: ordinò a Clinton, ora comandante in capo, di abbandonare Filadelfia, ultima conquista di Howe, e ripiegare su New York ed eventualmente su Newport, base di tutte le operazioni inglesi. I nuovi piani di fine maggio prevedevano di sbarcare a sud in Georgia ed in Sud Carolina per tagliare in due gli Stati Uniti, occuparli come aveva già tentato di fare a nord Burgoyne.

A metà giugno durante un pattugliamento nel canale della Manica una fregata francese, “Belle-Poule”, si scontrò con una nave inglese, “Arethusa”, e la disalberò: fu l’occasione attesa per l’inizio della guerra per mare. Entrambe le flotte attaccavano i convogli nemici diretti negli Stati Uniti. Negli stessi giorni, il 18 giugno, nel gran caldo, che fece molte vittime, Clinton si mise in marcia da Filadelfia verso New York: una colonna lunga venti chilometri, l’avanguardia, seguita dai carriaggi e dalla forza principale, protetta in fondo da una retroguardia di 8.000 uomini: quel tipo settecentesco di esercito marciava lento, a 10 chilometri al giorno. Pochi anni più tardi Napoleone, come già esposto, ne avrebbe rivoluzionato l’assetto in funzione di una maggiore rapidità di manovra.

Washington approfittò di quella lentezza e, attraversato a tappe forzate il New Jersey, il 28 di giugno agganciò la retroguardia inglese. Ma queste si rivelarono ben organizzate, respinsero l’attacco degli americani costringendoli ad una ritirata disordinata: sul campo rimasero 360 americani contro 415 inglesi. Clinton poté continuare la marcia verso New York senza altri impedimenti.

Il 7 luglio 1778 arrivò la flotta francese, con uomini, rifornimenti e il piumato ambasciatore; ora una vera forza navale di tutto rispetto poteva contrapporsi a quella inglese. Ma la situazione non migliorò immediatamente: a fine novembre Clinton sbarcò in Georgia 6.000 uomini conquistando subito la città di Savannah da dove le truppe inglesi avanzarono a macchia d’olio. Clinton organizzò subito i lealisti allo scopo di insediare un governo collaborazionista per sostenere il distacco della Georgia dall’Unione.

Washington, conscio della gravità della situazione, rafforzò le difese di Charleston, prossimo obiettivo inglese a nord di Savannah, ma non vi poté inviare rinforzi, sia per le grandi distanze sia per l’esiguità delle sue forze, sufficienti appena a fronteggiare gli inglesi a New York e a Newport, ora posta sotto assedio, e a sorvegliare la frontiera canadese. Decise quindi di ritornare agli accampamenti invernali, aspettando che anche il regno di Spagna firmasse l’alleanza contro la Gran Bretagna.

Ma altri problemi erano in arrivo per il comandante americano.
 

15. Il fronte interno: la guerra fra nativi e coloni

Tra la fine del 1778 e la primavera del 1779 ripresero gli scontri, mai completamente sopiti, tra i nativi dell’Ovest e i coloni, iniziati fin dal primo arrivo degli europei, che man mano si impadronivano delle loro antiche terre, e che tentavano di convertirli forzatamente alle varie chiese cristiane. Molte tribù, alcune stanziali dedite alla pesca e agricoltura, altre di cacciatori nomadi, si spostavano “volontariamente” verso nord e verso ovest, convinti dai fucili dei coloni, dall’alcol o decimati dalle malattie. Dopo la Guerra dei Sette Anni, combattuta per il controllo territoriale del Nord America, l’Inghilterra aveva riservato ai nativi i territori ad ovest degli Allegani. Nonostante questo accordo continuava l’arrivo dei coloni che si spingevano progressivamente verso ovest dando motivo a scontri circoscritti ma molto diffusi. Gli inglesi non tentarono mai di combattere direttamente i nativi, anzi tentarono di inquadrarli nel loro esercito, ed alcuni dei loro capi raggiunsero buone posizioni nella gerarchia: J. Brant ottenne il grado di colonnello. Molti lealisti poi li armavano e addestrarono per combattere i comuni nemici.

Mentre con l’aiuto dei lealisti i coloni dell’Ohio e dell’Illinois furono sconfitti senza problemi, nel Kentucky la situazione era opposta. R. Clark nell’estate del 1778 riuscì a raccogliere e organizzare 175 volontari; con questi conquistò agli inglesi due forti che garantivano il controllo dell’Illinois, strinse alleanze con due tribù indiane e con i coloni di origine francese in nome del patto fra le due nazioni. Tuttavia i lealisti controllavano ancora Detroit, in dicembre ripresero un forte ed ora erano anche in supremazia numerica: 5.000 contro solo 1.000 coloni: una situazione generale quanto mai fluida ed incerta.

Clark tentò di superare questa situazione agendo, come già avevano fatto altrove con successo, con una manovra a sorpresa d’inverno quando gli inglesi non si aspettavano un attacco ed erano nei loro quartieri invernali. Con 127 volontari puntò sul forte di Vincennes, coprì trecento chilometri in tre settimane in una marcia tra paludi e fiumi ghiacciati, sorprese la guarnigione che si arrese; poi per la mancanza di rifornimenti non poté marciare su Detroit dando così tempo ai lealisti di riorganizzarsi e riprendersi la piazzaforte in estate.

Insomma una sequenza di piccoli fatti d’arme di grande valore e audacia, di conquiste di posizioni e ritirate, mai però nulla di risolutivo in questa fase della guerra.
 

16. Il fronte Nord e quello Sud

Dopo la battaglia di Monmouth, Washington aveva schierato le truppe attorno a New York. Nell’autunno del 1778 e la primavera del 1779 non vi furono particolari novità sui fronti.

A sud Clinton iniziò una grande offensiva: il 26 dicembre 1779, con 16.000 anglo-assiani, 500 cannoni e 2.000 carri, partiva da Savannah verso nord su Charleston, dove le avanguardie arrivarono il 10 marzo 1780, 73 giorni dopo la partenza. L’assedio, completato il 20, durerà due mesi. A maggio l’attacco: sotto il fuoco dell’artiglieria il forte Sullivan, chiave delle difese, dopo un giorno dovette capitolare. Le perdite americane furono molto alte: 6.000 uomini, tra cui 7 generali, 8.000 fucili e 300 cannoni.

Questa vittoria apriva agli inglesi la strada verso nord. Se avessero continuato l’avanzata l’esercito americano sarebbe stato schiacciato tra le forze da sud e quelle di New York, ma Clinton lasciò il comando al generale Cornwallis per trasferirsi sul fronte settentrionale.

I fronti iniziarono a equilibrarsi, sia sul piano quantitativo sia qualitativo, il 12 giugno, quando sbarcò alle foci del Delaware un consistente rinforzo francese, comandato dall’esperto conte di Rochambeau, composto di 5.000 soldati regolari ben addestrati pronti per essere impiegati in combattimento. Questi occuparono subito Newport obbligando così Cornwallis, con 2.200 uomini, a riprendere la marcia interrotta verso nord. Washington per intercettarli mandò 4.000 uomini, in parte i nuovi “regolari” preparati da von Steuben ma guidati dal suo luogotenente von Kalb, in parte di miliziani. Le due formazioni si scontrarono il 16 agosto nei pressi di Sanders Creek, von Kalb fu ferito a morte lasciando senza comando la forza principale mentre i miliziani sbandavano senza controllo. Fu ordinata la fuga lasciando sul campo 2.000 fra morti, feriti e prigionieri. Cornwallis riprendeva la marcia verso il nord.

Importante per questa vittoria inglese fu la carica della “Legione Britannica” guidata in campo dal temuto per efficacia e crudeltà tenente colonnello Tarleton, noto per la controversa battaglia delle Waxhaws dove erano stati massacrati a sciabolate tutti i prigionieri americani che si erano arresi. Questa unità fu fondata a New York nel 1778, composta da lealisti della Nuova Caledonia e successivamente utilizzata per razzie in Virginia.

Alla fine del 1780 avvenne un altro fatto negativo per gli americani: il generale Arnold dell’Esercito Continentale passò agli inglesi. Si era arruolato nominandosi colonnello, anche se non aveva alcuna preparazione militare, ma solo doti tattiche, organizzative, di comando e coraggio. Washington aveva capito che era adatto per la guerriglia e lo aveva impiegato al nord, dove contro Burgoyne dette ottima prova. Ma più che per la causa americana si era arruolato in vista di arricchimento personale; Washington per liberarsene nel 1778 lo nominò governatore di Filadelfia, ma l’anno successivo, sospettato di furti, lo trasferì a West Point, un caposaldo dell’accerchiamento di New York. Verso la fine del 1780 fu fermato da una pattuglia statunitense un uomo in borghese che cercava di rientrare nella New York occupata. Interrogato, ammise di essere il maggiore André e di essersi accordato con Arnold per vendere West Point agli inglesi per 20.000 sterline. Condannati entrambi all’impiccagione questa fu eseguita solo per André perché Arnold riuscì a rifugiarsi a New York, dove ottenne addirittura da Clinton la nomina a maggiore generale e il comando di un reparto di lealisti.

Nel 1781 si ribellarono alcuni reparti americani, da mesi senza soldo e rifornimenti, sedati e con la repressione militare e con la promessa dei pagamenti.

All’inizio del 1782 Cornwallis occupava tutta la Carolina del Nord ed iniziava quella della Virginia mentre le risposte statunitensi non furono in grado di fermarlo. Nonostante Cornwallis vantasse ancora una forte supremazia numerica, 8.000 uomini contro i 4.000 americani, chiese rinforzi a Clinton da New York, dove era disposto il grosso delle truppe inglesi. Ulteriori rinforzi giunsero via mare: 4.000 su due formazioni una delle quali comandata dal traditore Arnold, che aveva addestrato 1.600 uomini alla tattica della guerriglia e a lasciare dietro di sé terra bruciata. Ma, nonostante i rinforzi e i successi, Cornwallis, temendo di non poter controllare i territori occupati, decise di ritirarsi in una piazzaforte sulla costa attendendo gli eventi.

Anche nel fronte franco-americano vi erano visioni strategiche diverse: mentre Washington premeva per liberare prima New York e poi concentrarsi a sud su Cornwallis, Rochambeau pensava esattamente l’opposto. Frattanto l’ammiraglio De Grasse era partito per le Antille per imbarcare 3.000 regolari francesi.
 

17. La battaglia di Yorktown e la fine delle ostilità

Preoccupato per le sorti dell’assedio di New York Clinton richiamò delle truppe dal sud e Cornwallis, dopo due piccole vittorie su La Fayette, rimandò a nord 2.800 uomini via mare rimanendo a sud solo con 9.000. Certo di non poter né attaccare né difendersi riunì a fine luglio tutte le sue truppe a Yorktown, un piccolo villaggio fortificato sulla foce dello York, nella Chesapeake Bay.

Ad agosto tornò dalle Antille l’ammiraglio De Grasse con 3.200 effettivi; ora le forze franco-americane erano formate da 26.000 uomini di cui 9.000 francesi e 19.000 americani, di questi 15.000 regolari addestrati da von Steuben.

Adottata la strategia di Rochambeau, rimasero solo 3.000 uomini ad assediare New York, sempre libera via mare per la supremazia navale inglese; segretamente vennero spostate sul teatro meridionale le altre truppe americane mentre nel frattempo de Grasse sconfiggeva il collega inglese, l’ammiraglio Graves, nella Chesapeake Bay assicurandosi il controllo del mare per l’assedio di Yorktown e al tempo stesso tagliando le vie di rifornimento alle forze inglesi in Virginia.

Il 28 settembre si unirono le truppe di Washington con quelle di Rochambeau per un totale di circa 17.000 uomini. Il 9 ottobre iniziavano i cannoneggiamenti sugli inglesi; il 13 cadevano i due fortini esterni; il giorno successivo 6.000 inglesi mandati al contrattacco furono respinti con 120 perdite. Nella notte Cornwallis cercò di rifugiarsi nella fortezza al di là del fiume ma per una tempesta e per la presenza della flotta di De Grasse non vi riuscì. Il 17 Cornwallis si arrese con più di 8.000 uomini.

Anche se ci furono successive battaglie per il controllo del fronte meridionale, quella di Yorktown segnò di fatto la vittoria americana della guerra. A questo punto la situazione vedeva il Sud sotto il controllo franco-americano tranne le due città fortificate di Charleston e Savannah; gli inglesi erano in forze a nord e a ovest; New York ben protetta da 20.000 uomini e 20 navi; la frontiera canadese difesa da 5.000 uomini con un buon sistema di fortificazioni. Il fianco occidentale vedeva gli inglesi e i lealisti occupare l’Illinois tra cui Detroit e Vincennes con 4.000 uomini appoggiati dai nativi. Da un punto di vista militare nulla era quindi perduto e la guerra poteva essere ripresa.

Ma quello che crollò fu il già precario consenso del fronte interno inglese, che sopportava i gravosi riflessi economici della guerra mentre si smentivano le promesse di facili vittorie. Molti politici, visto il crescente appoggio della popolazione americana all’Esercito Continentale, ritennero che sarebbe stato troppo costoso mantenere il controllo degli Stati Uniti con la forza. Inoltre, dopo l’appoggio della Spagna agli americani, gli inglesi temevano di perdere il dominio dei mari, per loro vitale.

All’inizio del 1782 cessarono di fatto le ostilità sul continente, Clinton fu richiamato in patria come gesto distensivo per iniziare subito i colloqui di pace. Questi culminarono a novembre nella pace separata tra Stati Uniti e Regno Unito. Il trattato stabiliva il cessate il fuoco e il riconoscimento inglese degli Stati Uniti, ma rimandava tutte le questioni militari e territoriali alla pace definitiva con gli altri Stati belligeranti, che giunse il 3 settembre 1783 con il trattato di Parigi, che stabiliva la sovranità degli Stati Uniti sui territori ad est del Mississippi ma con la possibilità degli americani di continuare la colonizzazione verso ovest e la libera circolazione di merci e naviglio. La Spagna riprese la Florida, riconquistò Minorca, ma non la rocca di Gibilterra. La Francia conquistò il Senegal, Trinidad e Tobago, alcuni porti in India e alcune basi necessarie per la conquista dell’Indocina; aveva impegnato però troppe risorse economiche aggravando ulteriormente la sua crisi finanziaria, crisi che spianò la strada, 6 anni dopo, alla Grande Rivoluzione.

Per la sconfitta inglese circa 170.000 lealisti americani emigrarono: 45.000 in Canada, 70.000 tornarono in Inghilterra, altri nelle colonie francesi o spagnole o nei territori ad ovest dove ancora non arrivava la giurisdizione americana; ma quelli che meno si erano esposti rimasero senza subire particolari ritorsioni.
 

18. La guerra sui mari

La guerra però continuò sul mare per il controllo delle più importanti vie commerciali marittime ai quattro angoli del mondo.

Il Regno Unito era la più grande potenza marittima militare dell’epoca, non tanto per il numero del naviglio, 150 navi di linea su un totale di 228, ma per l’alto livello dei suoi equipaggi e comandanti. Ma la qualità di molte di queste navi era scadente perché costruite in fretta con legname non di buona qualità: un’intera squadra non poté essere impegnata nella guerra perché ritenuta non idonea a sopportare un cannoneggiamento. Di fatto all’inizio del conflitto solo un terzo delle navi erano utilizzabili, numero non sufficiente per il controllo di tutta la lunga costa americana atlantica; la flotta quindi fu impiegata prevalentemente come appoggio alle operazioni a terra o per bloccare i porti e le navi avversarie.

La marina militare francese disponeva di 80 navi, tutte però di ottima qualità, e la Spagna di 60.

Per i vecchi accordi commerciali con la madrepatria le 13 Colonie americane non potevano disporre di proprio naviglio ma dovevano usare quello inglese. I coloni furono perciò costretti ad usare solo la guerra di corsa per contrastare il traffico mercantile britannico senza però poter intralciare mai quello militare. Con il sistema delle lettere, o patenti, di corsa uno Stato appaltava ad un comandante privato di una nave la possibilità di attaccare il naviglio di uno o più paesi nemici allo scopo di sequestrare il carico e la nave e richiederne il riscatto, ovviamente traendone un guadagno. Continuava così in quei mari, sotto altre forme, la tradizione che fu dei bucanieri nelle Antille, cessata dopo il trattato di Utrecht del 1713. Essi, in origine allevatori o cacciatori di buoi selvatici, erano di origine europea emigrati nelle Antille e rovinati dai conquistatori spagnoli; si dettero alla guerra di corsa o alla pirateria, molto spesso al servizio inglese, sempre contro la Spagna. I pirati invece agivano per conto proprio assumendosi tutti i rischi e i guadagni.

Il congresso americano emanò varie lettere di corsa durante tutto il conflitto e furono così catturati ben 600 mercantili britannici, obbligando la marina inglese a disperdere le sue forze in un continuo pattugliamento dei convogli. Ma i corsari erano difficilmente controllabili e quindi rivendevano al miglior offerente la loro “merce”; così gli inglesi, pagando, potevano recuperare parte del naviglio e del carico.

All’inizio della guerra la prima flotta francese partì nel tentativo di bloccare quella britannica nella baia del Delaware, ma per la lentezza della traversata la cosa non riuscì perché, nel frattempo, le navi inglesi si erano spostate a New York. Già nell’autunno del 1778 la guerra si spostò nei Caraibi dove avvennero alcune importanti battaglie navali per il controllo di quei mari e delle isole, dove arrivavano e da dove ripartivano molti dei convogli per l’Europa. Vi fu un andirivieni costante di naviglio richiamato per sostenere le operazioni di terra, tra cui quella per la vittoria definitiva di Yorktown.

La flotta francese dopo quella vittoria ritornò nella Martinica, dove poi si scontrò con la flotta inglese, lì riunita per l’occorrenza; dopo una battaglia durata un intero giorno l’ammiraglia francese si arrese a quella britannica ristabilendone così il primato sui mari.

Gli alleati franco-spagnoli operarono anche su altri fronti secondo i loro interessi molto spesso divergenti e che generarono incomprensioni ed insuccessi: la Spagna nel Mediterraneo voleva riprendersi la rocca di Gibilterra e l’isola di Minorca, conquistata con un imponente sbarco di 14.000 uomini, mentre i francesi avevano aspirazioni più grandi tra cui anche un’invasione dell’Inghilterra. Tutti gli sforzi per riprendersi la rocca di Gibilterra via mare con blocchi navali furono vani come pure quelli via terra combinati con l’aiuto di una flotta di 50 navi. Per l’ultimo assalto contro l’istmo che collega la rocca alla terraferma furono sparati 6.500 colpi a palla piena e 1.100 granate al giorno per quattro giorni consecutivi; poi entrarono in azione 10 batterie galleggianti con cannoni di grosso calibro che però furono messe fuori uso il giorno stesso da palle infuocate. Il successivo arrivo della flotta di Howe di 34 navi da guerra come scorta ad un convoglio mise fine ad ogni progetto spagnolo di presa della rocca.

Nel frattempo l’Inghilterra aveva imposto il blocco sulle merci provenienti dall’Europa settentrionale destinate alla Francia e agli Stati Uniti, arrogandosi il diritto di catturare i beni nemici a bordo di navi neutrali, provocando la reazione soprattutto di Russia, Svezia, Danimarca e Repubblica delle Sette Province Unite. Questi Stati, Impero russo in testa, formarono una flotta militare combinata di tutto rispetto per difendere i loro navigli, che fu chiamata “neutralità armata” o “lega dei neutri”. Quando la Repubblica delle Sette Province Unite aderì alla lega, l’Inghilterra diede ordine alle sue flotte di occupare le province olandesi in America e in India dichiarando poi guerra alla Repubblica stessa: il conflitto si estendeva, segno di interessi economici sempre più grandi.

Cambiava anche la natura della guerra per mare, che sarà anni più tardi rivoluzionata da Orazio Nelson: non si cattura il naviglio nemico per chiederne un riscatto, secondo l’uso precedente, ora l’ordine è distruggere, affondare quante più navi nemiche, nella furia di affermarsi di giovani capitalismi. Modulo che pochi anni dopo Napoleone applicò alla guerra fra gli eserciti sul campo.

Nello stesso periodo l’Inghilterra era impegnata in India contro il sultano del Mahratta, che le aveva inferto pesanti sconfitte a Bombay e Madras, e la flotta francese veniva ingrandita allo scopo di guadagnare e difendere basi di appoggio per le sue navi, soprattutto dopo la perdita dei porti olandesi. Dopo una serie di scontri tra le flotte europee, e terrestri coi potentati delle colonie, la firma della pace fra Inghilterra e Francia consentì che i due paesi si dedicassero a rafforzare le rispettive basi sulle coste dell’Asia meridionale.
 

19. Conclusioni

Da questa nostra disamina della rivoluzione americana possiamo trarre alcune conclusioni utili allo studio del partito sulla questione militare.

1° Come la nostra scuola insegna, anche in questo caso furono cause economiche a spingere alla guerra, solo celate dalla copertura ideologica: quelle, la borghese libertà di produrre e commerciare senza vincoli, questa, le dottrine dell’illuminismo francese.

2° Entrambi i fronti non impegnarono mai le loro forze al fine di distruggere il nemico, questo perché non puntavano ad affossare definitivamente il potere e l’esistenza stessa di classi nemiche ma ad un compromesso, fondato sulla conciliazione di interessi economici e commerciali fra borghesi. All’Inghilterra, già impegnata su altri fronti del suo immenso Impero, resistevano le 13 Colonie, che non erano ancora uno Stato unitario, alla loro prima esperienza militare e mancavano di tutto quanto serve per una guerra. Ma già indecisioni ed ambiguità dei governi generavano indicazioni contraddittorie agli stati maggiori. Nelle intenzioni dei governi, già reazionari quanto quelli dei regimi pre-borghesi, la guerra era solo “politica”, un appoggio alla trattativa, ed avrebbero dovuto esser sufficienti poche scaramucce, battaglie simboliche per potersi sedere al tavolo e riprendere i traffici.

3° Qui storicamente siamo ad un momento cruciale del passaggio dal mondo e dal modo di produzione feudale a quello borghese a produzione capitalista, già avvenuto nel Regno Unito ma non ancora nell’Europa continentale. Questo si riflette sui fatti d’arme. La guerra feudale con le sue regole e schemi, mirava al massimo contenimento dell’impegno di risorse e delle spese, spesso notevoli per piccole entità statali. La guerra moderna, basata sulla giovane produzione capitalista, getta nei conflitti una quantità prima impensabile di mezzi secondo la necessità capitalista di produrre e riprodurre a scala sempre più ampia ogni tipo di merce per maggiori profitti. La guerra diventa un fatto economico in se stessa, un ramo di industria, oltre che per i suoi effetti immediati e le sue conseguenze.

4° Sul piano militare si scontrano due forze asimmetriche: quella inglese, di gran potenza, formazione ed esperienza, prevalentemente mercenaria, organizzata secondo schemi non più adatti al nuovo tipo di conflitto; quella americana, volontaria, che dovette fare di necessità virtù adottando per i suoi grossi limiti materiali la tattica della guerriglia. Anche per questa asimmetria, che non rendeva possibile il confronto di forze qualitativamente diverse, nessuno dei fronti poté giungere mai ad una vittoria decisiva sull’altro. La tattica della guerriglia ha prevalso all’inizio del conflitto, ostacolando e logorando pesantemente l’avversario, ma non ha potuto determinare l’esito della guerra, come nella maggioranza di casi simili.

5° La guerra può giungere ad un parziale scioglimento solo quando gli alleati franco-spagnoli equilibrano le forze, e armi pari si possono incontrare in campo aperto. Altre cause, fronte sociale interno inglese indebolito in primis, concorsero alla soluzione del conflitto.

6° La guerra da locale si espande coinvolgendo più Stati, su più fronti, per il controllo di colonie e mercati lontani, sbocco per le merci delle metropoli, segno di giovani e ambiziosi capitalismi che devono invadere il mondo affinché si mantenga il ciclo Denaro-Merce-Denaro continuo e forsennato. Fin da allora le guerre sono l’ariete per tutte le porte che il Capitale, nella sua folle corsa, si trova a dover sfondare.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 


La “tecnica moderna” al servizio del Dio Capitale

Nel numero di gennaio del nostro giornale con l’articolo “Dalle piramidi ai NO-TAV” abbiamo ricordato come il giovane capitalismo a cavallo del 19° secolo consentiva che le forze produttive sociali si esprimessero in opere ciclopiche, necessarie al suo sviluppo come modo di produzione, ma che nello stesso tempo tendevano a portare un reale miglioramento delle condizioni di vita di tutte le classi e in tutti i continenti. Oggi invece, nelle aree a capitalismo decadente, quando non già in stato comatoso, le “opere pubbliche” sono quasi sempre socialmente inutili quando non dannose, se non altro per la gigantesca distruzione di risorse che comportano. L’unico vantaggio sono le rendite e i profitti tratti dal settore capitalista immediatamente legato alla loro realizzazione.

La forma dell’appalto-concorso, e delle sue varianti successive alle quali è di moda dare nomi in inglese, consente alle imprese una progettazione volutamente approssimativa se non del tutto errata, incompatibile con la situazione dei luoghi eccetera. Questo impone una lunga serie di “varianti d’opera”, “supplementi” di valutazioni tecniche, ora anche di “impatto ambientale”, modifiche strutturali, adeguamenti a nuove normative ecc. che consentono una disinvolta moltiplicazione dei costi preventivati, allungano la durata dei cantieri e consentono di intascare fondi pubblici senza alcun controllo.

Nelle noticine sulla linea ad alta velocità Torino-Lione abbiamo sommariamente criticato il progetto della costosissima opera, in partenza sovradimensionata o addirittura inutile pure secondo i borghesi parametri costi/benefici. Oggi la cronaca ci permette di confermare le nostre posizioni su un’altrettanto spettacolare opera, seppure di tutt’altro genere e dimensione, da pochi anni ultimata e consegnata all’uso pubblico: il quarto ponte sul Canal Grande a Venezia, detto Della Costituzione ed altresì chiamato ponte Calatrava, dal nome del progettista.

Costruire a Venezia un ponte di luce e altezza tali da consentire sotto la navigazione non è cosa semplice. Il peso proprio e la spinta orizzontale si scaricano sui punti d’appoggio sulle sponde, sulla terra ferma, che tanto ferma però non è mai. Tutti, meno i “geniali architetti” contemporanei, conoscono la nascita e la storia della Venezia edificata, il precario equilibrio geologico del sottosuolo, le falde freatiche che lo attraversano, in continuo impoverimento e abbassamento, i danni provocati dalle acque alte e dal crescente moto ondoso, non ultimo quello provocato dalle enormi navi che portano a pascolare in prossimità delle Calli torme di croceristi per le foto a ricordo della loro miseria.

Il primo attraversamento sul Canal Grande, lungo, nell’attuale sviluppo della città, 3.800 metri con una larghezza compresa tra i 30 e 70 metri e una profondità media di 5, fu un ponte di barche costruito nel 1181. Poi il crescente transito delle merci e degli uomini richiesero la presenza di un ponte stabile. Ma tutti quelli costruiti in legno presto deperivano e rovinavano: Venezia quindi emise un bando per il progetto di un ponte in pietra cui parteciparono i più famosi architetti del tempo. Il Ponte di Rialto, quello che ancora vediamo oggi, fu completato nel 1591 su disegno di Antonio da Ponte, opera all’epoca considerata troppo audace e che sarebbe prima o poi crollato. Invece è ancora lì, a simbolo della città.

Fino al 1850 fu l’unico ponte sul Canal Grande, quando gli austriaci ne costruirono altri due, in ferro. Tra il 1934 e il 1938 furono sostituiti, per il veloce deterioramento del materiale in ambiente marino, con uno in pietra e l’altro in legno, questo poi consolidato con elementi in ferro, su progetto dell’Ufficio Tecnico lagunare. Venezia quindi disponeva di tre ponti sul Canal Grande ottimamente posizionati rispetto al traffico urbano: il Ponte degli Scalzi all’inizio del canale in prossimità della neonata stazione ferroviaria, ora, di Santa Lucia, quello di Rialto, praticamente a metà percorso, e quello dell’Accademia all’uscita dell’attraversamento di Venezia prima che il canale sbocchi nel bacino di San Marco, dove le sponde si allontanano notevolmente e la profondità dell’acqua aumenta.

Nel tempo molti progettisti, più per brama di notorietà che altro, da Le Courbusier a Frank Lloyd Wright per citare i più famosi, si interessarono alla progettazione di un altro ponte sul Canal Grande, senza che si muovesse mai pietra. Nel 1997 l’architetto, scultore e ingegnere Santiago Calatrava, celebre per le sue realizzazioni “avveniristiche”, regalò alla città di Venezia un suo progetto esecutivo per un quarto ponte da situarsi all’altra estremità del piazzale antistante alla stazione ferroviaria, praticamente a poche centinaia di metri dal ponte degli Scalzi, che è ancora ben in grado di consentire i flussi richiesti. Si diceva che il suo scopo fosse snellire il passaggio, prevalentemente di turisti, tra la stazione ferroviaria e quella marittima, verso le grandi navi da crociera. In cambio, però, ne chiedeva la, onerosa, direzione lavori.

Due anni più tardi il Comune di Venezia affidava alla “archistar”, come viene definito Calatrava per il noto esibizionismo, l’incarico di completare i piani necessari per la realizzazione, in collaborazione con una schiera di progettisti e professori universitari nostrani e diverse istituzioni a vario titolo interessate: dai Beni Artistici fino alle Associazioni dei disabili.

La struttura è ambiziosa: lunghezza complessiva 94 metri, luce della campata 81 metri; larghezza al colmo oltre 9 metri. L’arcata è particolarmente ribassata per renderla praticabile al transito pedonale, con bagagli e carretti a mano, ma non tanto da impedire la navigazione, con un franco di 9 metri in asse. Fatti e rifatti i calcoli, per le ovvie obiezioni e le necessarie modifiche per rinforzo delle spalle d’appoggio avanzate dal locale Ufficio Tecnico, che ben conosce i problemi del sito, assegnati gli incarichi alle varie ditte esecutrici, nel 2003 si avviano i lavori con un tempo inizialmente stimato in 456 giorni; occorsero invece quasi 6 anni. Il costo previsto di 6,7 milioni di euro è salito a 11,3.

A questo va aggiunto quello di una ovovia per il trasbordo dei “diversamente abili”, che si affiancherà al nuovo ponte, con un costo, non ancora definito, perché in fase di realizzazione, di oltre 1 milione di euro. L’archistar non conosceva evidentemente i regolamenti edilizi vigenti in Italia sulle “barriere architettoniche”, culmine della nauseante ed idiota ipocrisia borghese: la vera ed unica barriera, anche per i sani, è solo il capitalismo. La teleferica promette, in teoria e quando realmente funzionante, di sbarcare due passeggeri per volta in 5 minuti! I dogi avrebbero assai più efficacemente risolto il problemino con gondola dedicata e gondoliere reperibile a voce.

Non ci addentriamo nella descrizione dell’opera, dei materiali impiegati, delle soluzioni tecniche per il trasporto e il montaggio degli elementi prefabbricati e degli aspetti di stile. Basti accennare a come scivolosi siano i gradini in vetro in una Venezia per gran parte dell’anno umida, piovosa e ventosa.

Il ponte doveva essere inaugurato il 18 settembre 2008 in occasione della visita del Presidente della Repubblica colà giunto per una cerimonia per il sessantesimo anniversario della Costituzione. Invece a causa di annunciate manifestazioni di protesta per il forte incremento dei costi e delle associazioni di disabili, per la violazione delle norme vigenti che prevedono i finanziamenti pubblici soltanto alle opere prive di barriere architettoniche, è stato aperto al pubblico in anticipo, l’11 settembre 2008 (strana scelta del giorno!) con una ridotta e modesta cerimonia presenti le maestranze dei cantieri, alcuni membri della giunta e pochi giornalisti.

Ancor prima dell’apertura la Corte dei Conti, acquisita la documentazione relativa alla gara d’appalto e ai progetti, non rileva reati ma sottolinea come gravissimi errori progettuali e in tutte le fasi dell’opera, abbiano fatto lievitare tempi e costi. Questo non impedisce il collaudo finale favorevole nel settembre 2009. Ma il ponte torna alla ribalta quando lo scorso marzo il procuratore regionale della Corte dei Conti, dopo sette anni di continue indagini, cita in giudizio Calatrava e sei dirigenti pubblici per danno erariale: sono stati necessari costanti interventi di monitoraggio e manutenzione, quantificati in 3,5 milioni di euro, causati da “macroscopica approssimazione, sfociata in un insieme di errori” sia nella fase di progettazione sia di esecuzione dell’opera, unita a “leggerezza nell’uso del denaro pubblico”.

L’Erario regionale è poi di nuovo partito all’attacco: per la beffa del “regalo” di questo Cavallo di Troia, rivelatosi “una onerosa eredità manutentiva per la pubblica amministrazione che non trova riscontro in alcun ponte di Venezia”, o per il timore che possa crollare?

La struttura dell’unica travata funziona ad arco nella parte centrale e a sbalzo nei tratti sulle sponde. Il peso di questi non basta a scaricare la forte spinta dell’arco ribassato, che preme orizzontalmente sulle spalle. Queste, poiché, come ben sappiamo, non poggiano su terreno solido ma sul fondo melmoso e incerto della laguna, sono sottoposte ad un continuo divaricamento. Hanno calcolato che se questo superasse i 4 centimetri la struttura rischierebbe di collassare. A suo tempo fu suggerito di mantenere la distanza fra le spalle con un tirante subacqueo, ma si preferì il costante monitoraggio e il ripristino della posizione, per tutti gli anni e i secoli avvenire, con la continua regolazione di martinetti idraulici. Di qui la crescita delle spese e l’incertezza statica del manufatto, che da solo “non sta su”: quando venisse ad interrompersi l’alimentazione elettrica dell’impianto idraulico la struttura del ponte cederebbe in chiave!

Però, dal punto di vista dell’imprenditore capitalista è un’opera perfetta perché necessita di continui e onerosi lavori che mantengono attivo il ciclo D-M-D’ quindi un flusso di profitti ed estorsione di plusvalore. Lo stesso accadde per lo stadio di Torino, appositamente costruito e inaugurato per i campionati di calcio di “Italia 90”: è stato chiuso nel 2006 e demolito nel 2009 perché i costi per la sua manutenzione superavano quelli della demolizione e ricostruzione. Il vero senso di queste nuove grandi opere lo ha ben espresso un altro grande architetto, Massimiliano Fuksas in un recente convegno: “l’architettura moderna non è fatta per durare”. Noi aggiungiamo, sì, come il capitalismo.

Nelle epoche antiche ed anche nella prima fase del capitalismo si cercava di realizzare opere e manufatti di ogni tipo con l’intento di farli durare il più a lungo possibile, sia per il loro valore simbolico, sia per ammortizzare in un arco temporale più esteso il capitale investito. L’età degli edifici si misurava in secoli e su di sé ne portavano il carattere e i segni, per tutti leggibili come su di un pietrificato grande libro urbano. In questo putrescente capitalismo invece tutte le merci devono durare per un tempo sempre minore per poterle sostituire con altre e rivitalizzare quel ciclo infernale, rimandando così le cicliche crisi di sovrapproduzione. La cosiddetta “obsolescenza tecnologica” e le “mode” servono per mettere fuori uso beni ancora quasi nel pieno della loro efficacia.

Nulla di personale, ma crolli Calatrava, il suo ponte e tutti i capitalisti! Perché, sia chiaro anche ai tanti No-Tav, riformisti, ingenui o falsi ingenui, fuori tempo: un capitalismo senza sprechi, senza ladrocini e senza le sue cosiddette assurdità o irrazionalità è impossibile, perché il capitalismo è lo spreco, la ruberia, l’assurdo e l’irrazionale. Per questo noi comunisti vogliamo eliminare il capitalismo!
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra
 

«La storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei […] oppressori ed oppressi, sono sempre stati in reciproco antagonismo, conducendo una lotta senza fine, a volte nascosta, a volte dichiarata, che portò in ogni caso o ad una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o alla totale rovina delle classi in lotta». Così recita il Manifesto del Partito Comunista.

Secondo la visione marxista nelle società divise in classi non esiste e non può esistere pace civile, e questo non solo quando l’antagonismo e la lotta si manifestano in modo aperto, allo stato “cinetico”, ma anche quando il dominio e lo sfruttamento di una classe sull’altra si ottiene senza la coercizione diretta e manifesta.

Ma noi diciamo ancora di più: la lotta di classe esiste anche nei momenti in cui la classe sottomessa non ne ha coscienza, quando, fatta propria la tesi del dominatore, rifiuta la ribellione considerata come la peggiore delle infamie, che comprometterebbe le regole del vivere civile, l’ordine, costituito allo scopo di proteggere la società nel suo insieme, e le classi inferiori in particolare, nemmeno in tale non infrequente caso si dà pace sociale, rimanendo intatti il dominio e lo sfruttamento e quindi la violenza di una classe sull’altra.

Chiaramente questa è l’interpretazione rivoluzionaria, comunista, contro la quale è schierata tutta l’impalcatura ideologica della classe borghese che nega la possibilità di altro tipo di ordinamento sociale, differente da quello attuale capitalista.

Da molto tempo l’ideologia borghese ha abbandonato l’esaltazione incondizionata della sua società, presentata come la migliore, la più umana tra tutte le possibili, ed è stata costretta ad ammettere che, purtroppo, sussistono forti disparità di condizione, compreso uno sfruttamento economico ai danni delle classi lavoratrici. Ma, nella sua perfettibilità, ulteriori trasformazioni della società avrebbero gradualmente risolto questi inconvenienti, grazie soprattutto al sistema ed alla legislazione democratica. Non si tratterebbe dunque che di continuare a percorrere una via già positivamente intrapresa.

Questa era la tipica posizione dei partiti opportunisti della Seconda Internazionale, i quali ritenevano di poter facilmente avvalorare la attuabilità della loro tesi con un semplice fatto statistico: dal momento che i lavoratori costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione, attraverso l’utilizzo del sistema elettorale democratico, garantito da un potere statale “super partes”, non avrebbero tardato ad trarre nelle loro mani gli organi legislativi ed esecutivi, che avrebbero permesso il passaggio progressivo ed indolore dal capitalismo al socialismo.

Gli stessi partiti dell’opportunismo socialdemocratico, mentre predicavano la possibilità della presa del potere in modo legale ed incruento, allo stesso tempo negavano la possibilità dell’azione rivoluzionaria, affermando che il potere della borghesia si era talmente rafforzato militarmente da escludere ogni prospettiva di vittoriosa insurrezione armata. Era una tesi che si copriva di ridicolo da se stessa: la classe operaia non avrebbe avuto la forza di prendere il potere con le armi, mentre l’avrebbe avuta con la scheda. Intanto i marxisti rivoluzionari venivano accusati di professare un culto della violenza fine a se stessa, divenuta da mezzo a fine, ed invocata anche nei casi in cui si sarebbe potuto raggiungere gli stessi risultati per via pacifica e legale.

Dinanzi alla eloquenza dei fatti storici, la tesi socialdemocratica immancabilmente rivelava il suo vero contenuto, che non era per niente una mistica della non violenza, ma lo schierarsi ad oltranza a difesa dell’ordine borghese, e della violenza borghese, in tempo di pace e nelle sue guerre mondiali.

Al contrario il marxismo rivendica la aperta e dichiarata lotta di classe come unica arma di difesa e di offesa che il proletariato possa impugnare. Il metodo della lotta di classe, che per tanto tempo era stato accettato, ma deformato, da varie scuole e movimenti politici, ebbe da Lenin e dai gruppi della sinistra rivoluzionaria definitiva sistemazione teorica e programmatica per quanto riguarda le questioni di uso della violenza, la conquista del potere, lo Stato e la dittatura proletaria. Lo Stato ritrovò la sua esatta definizione, cioè strumento di cui una classe sociale si serve per opprimerne un’altra. E questo vale non meno per il moderno Stato, democratico e parlamentare. Di conseguenza il proletariato non potrà conquistare lo Stato borghese per utilizzarlo ai propri fini, lo dovrà distruggere per impiantare il proprio Stato, la propria dittatura.

* * *

Oggi nessuno si azzarda più a parlare nemmeno di conquista legale del potere o di progressiva trasformazione delle istituzioni in senso socialista. Anche il mito della concordia tra le classi, tantomeno quello della loro scomparsa, è malinconicamente tramontato. Per altro, per gli effetti della crisi economica, i proletari, illusi di non essere più tali, si stanno svegliando dal sonno narcotico. E si scopre che tutte le “sorpassate”, “ottocentesche” previsioni del marxismo rivoluzionario si sono dimostrate scientificamente esatte: il capitale non è in grado di impegnare e mantenere i suoi schiavi e l’anarchia della sua produzione genera miseria e morte.

Il potere statale è consapevole che la rovina delle mezze classi, la disoccupazione e la miseria del proletariato causati dalla crisi storica del capitalismo porteranno necessariamente ad un risveglio della lotta risoluta di classe, e quindi già si attrezza alla repressione. Continui sono gli allarmi, lanciati dall’alto e dal basso delle istituzioni, sui pericoli per l’ordine pubblico. I proletari devono subire tutte le conseguenze dello sfacelo di questo sistema economico e sociale in silenzio, con rassegnazione, come bestiame condotto al macello. Ogni “diritto” costituzionale e legale può essere sospeso. Lavoratori in sciopero vengono manganellati senza pietà dai tutori dell’ordine borghese. Si tornerà ai morti proletari lasciti sul selciato: i meno giovani non dovrebbero aver dimenticato che per decenni la democratica Repubblica fondata sul Lavoro ha risposto con il piombo alle richieste dei lavoratori in sciopero.

* * *

Quindi, non ha senso essere contro o a favore della violenza. La violenza è un dato di fatto nella società divisa in classi, se non ci fosse violenza non potrebbero coesistere le classi. La violenza è necessaria al fine di perpetuare il potere borghese e il capitalismo; come la violenza sarà necessaria per uscirne, concetti questi storici elementari che oggi sconcertano i proletari, da troppo tempo educati nell’illusione di un benessere sempre progressivo e della irrevocabilità dei diritti acquisiti.

Diversa era la condizione sociale in Italia nell’immediato primo dopoguerra, quando il proletariato sapeva di dover duramente lottare, e per la sua difesa immediata e per la sua emancipazione dal capitalismo. “Il combattimento o la morte”, era la parola d’ordine che il giovane PCd’I lanciava alle masse proletarie.

Certo anche allora aveva peso nella classe l’influenza del riformismo con i suoi errati indirizzi di conciliazione e di tradimento. Tutte cruciali questioni che il partito comunista fin dal suo sorgere dovette affrontare con la necessaria serietà e ponderatezza. Di fronte al montare della reazione borghese, legale democratica e fascista, la Sinistra, allora alla direzione del partito, mantenne coraggiosamente tutto il rigore dottrinario marxista, allo stesso tempo senza dar corso a facili entusiasmi in una situazione storica sempre più avversa alla rivoluzione e difficile per i nostri militanti.

Soprattutto occorreva sgombrare il terreno dalla illusione che il proletariato, nel corso del suo cammino rivoluzionario come nella sua difesa dalle violenze dei fascisti, potesse trovare alleati, seppure solo temporanei, in frange borghesi, anche in quelle che si ostentavano inquadrate militarmente e combattenti. Il Partito Comunista d’Italia proclamò invece la necessità, ed attuò il necessario inquadramento di squadre comuniste su base esclusivamente di partito e ad esso solo rispondenti.

Una delle accuse che ancora oggi vengono rivolte al giovane partito comunista, guidato dai “dottrinari della Sinistra”, è quella di non aver voluto aderire al movimento degli Arditi del Popolo. Rispondemmo allora che, da un lato gli incendi le devastazioni e gli omicidi dei fascisti, da un altro la “pacificazione” con essi prospettata dai socialisti, da un terzo la risposta armata degli Arditi del Popolo, si davano lo stessissimo obiettivo: la conservazione del capitalismo, il mantenimento del proletariato all’interno del regime della dittatura borghese.

Fu invece una grave debolezza che nemmeno l’Internazionale Comunista riuscisse a capire che il fascismo non rappresentava il rigurgito di forze sociali pre-borghesi, e che quindi non si trattava di lottare a fianco degli Arditi del Popolo o, peggio ancora, inglobati nella loro organizzazione militare, per la salvaguardia degli istituti democratici, anche utilizzabili dal proletariato per i propri fini di classe. Il regime della borghesia, in Italia come nel resto dei paesi di occidente, era già putrido e non vi era più nulla per il proletariato da difendervi: esso doveva solo abbatterlo. Il fascismo non rappresentava una minaccia regressiva rispetto al regime borghese, ma la sua conservazione, l’ultima possibilità di salvezza dalla rivoluzione comunista.

Dai documenti che seguono, e da quelli che saranno ripubblicati, si vede chiaramente la coerenza e la serietà di indirizzo comunista del PCd’I, in quegli anni cruciali di guerra civile. Qui raccolti testi riguardanti: la denuncia del patto di pacificazione tentato fra il PSI e i Fasci, a scopo specificatamente anticomunista; i motivi del rifiuto di sottomettere i nostri militanti alla disciplina di un organismo interclassista quale quello degli Arditi del Popolo; le modalità operative e le istruzioni per l’inquadramento militare del partito.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 20 febbraio 1921
L’USO DELLA VIOLENZA

Nei precedenti miei articoli intorno al problema della andata al potere, mi sono proposto, con quella continuità di trattazione compatibile colla periodicità di un giornale, di rimettere nei loro veri termini le differenze di principio che dividono i comunisti dai seguaci delle tradizionali scuole socialistiche. Non è quindi ancora la critica della tattica socialdemocratica e del necessario suo sviluppo fino alla aperta azione antirivoluzionaria, tesi che solo di passaggio ho sfiorato a che merita più ampio esame, ma soltanto per ora la dimostrazione che il metodo comunista ha un contenuto suo proprio, così ben definito che non si può appressarvisi per sfumature, accettarlo parte si e parte no, sottoporlo ad una critica che riveli e dimostri in esso adattabilità che ne diminuiscano la distanza dalle vecchie illusioni socialdemocratiche.

Ho perciò esposta la antitesi tra la tesi socialdemocratica e quella comunista, rilevando coma sia solo apparentemente loro punto di partenza comune il problema del come il proletariato giungerà al potere; ma in realtà esse si dividono sulla questione più importante della necessità o meno di spezzare la macchina dello Stato borghese per creare la possibilità del potere proletario demolitore della economia borghese.

Quando un socialdemocratico mi dice che lo Stato come oggi è congegnato (ossia coi suoi parlamenti e col suo apparato esecutivo) può essere preso e volto ai fini di classe del proletariato, il che è la stessa cosa dalla espressione: si può giungere a questi fini senza l’azione violenta ed armata, quando egli così si esprime, poco mi importa che egli si sia richiamato al marxismo nell’accettare a parole i concetti di lotta di classe, di intransigenza di andata al potere senza partecipazione borghese. Costui nulla intende del sistema marxista, poiché non ha digerito la critica della democrazia e dello Stato nei rapporti tra le classi, non ha imparato da Marx e nemmeno dalla storia posteriore che una speciale struttura statale nasce e muore come strumento del potere di una classe che lo sviluppo dei mezzi produttivi pone alla testa della società; che la classe borghese capitalistica ha questo strumento storico nello Stato parlamentare moderno, quale esiste in tutti i paesi che hanno conquistato le delizie del regime democratico col suo corredo di burocrazia, di esercito, di giustizia di classe.

Colui non vede neanche che la borghesia per assumere, quando la maturazione dei rapporti economici ve la sospinse, la direzione della società, dovette annegare nel sangue e nel terrore i vecchi istituti, le persone, le caste che per essi dominavano; costui accetta una tesi specificatamente e idiotamente borghese, che nel cammino della storia la necessità dell’uso della violenza e della guerra civile a dei trapassi rivoluzionari sia chiusa con la legittima violenza che ci diede la rivoluzione democratica, e avrebbe aperta l’ora delle lotte civili pacifiche, e schedaiole. Tesi borghese, perché non è che la traduzione in linguaggio demagogico del concetto che la violenza fu legittima per portare al potere la classe capitalistica, ma non è legittima per spodestarla; tesi turpemente borghese perché racchiude la conclusione – in cui come sempre la borghesia per la dialettica implacabile che la guida nella storia rimangia disinvolta i filosofemi di cui si è servita – che la violenza difensiva dello Stato attuale contro ogni atto lesivo dei suoi poteri costituzionali è legittima ed è adoperata nell’interesse collettivo consistente nella conservazione del meccanismo democratico.

Chi quindi pone il dito nell’ingranaggio dell’errore socialdemocratico dà partita vinta alla polemica borghese, e si ritrova agli antipodi della verità marxista secondo cui lo Stato esiste e funziona per gli interessi non della collettività sociale ma di una sola classe. Quegli nemmeno vede come può chiudere il ciclo delle rivoluzioni, in cui il potere passa da una classe all’altra, soltanto la funzione storica di uno Stato che operi alla abolizione delle classi, quale solo può essere lo Stato proletario demolitore del principio della proprietà privata; mentre lo Stato borghese apre e svolge il suo ciclo storico nell’ambiente di una società più che mai divisa in classi. Un tale soggetto insomma non è solo un imbecille dinanzi alla genialità del pensiero marxista, ma è altresì, dinanzi alle sue virili e categoriche affermazioni contro ogni filisteismo pacifistico, un povero castrato del gregge di Cristo, di Tolstoj e di Mazzini; che domani però assumerebbe le funzioni di eunuco al servizio della violenza dei sultani del capitale, che non nutrono pregiudiziali umanitarie e quacqueristiche.

* * *

Ricacciati così nel pantano socialdemocratico coloro che pretendono sopranuotarvi a mezzo della vecchia e sconquassata zattera della tattica intransigente di altri tempi – che allora aveva il suo valore storico di logica premessa della attitudine odierna dei comunisti – è d’uopo occuparsi di innumerevoli altri formulatori di programmi che pretendono l’epiteto di comunisti pel fatto solo di essersi spinti un poco più in là, con loro peculiari affermazioni, con loro speciali interpretazioni dei concetti centrali comunisti di uso della violenza e dittatura proletaria.

Costoro pullulano in Italia, tra quelli specialmente che da recenti accesissime dichiarazioni massimaliste sono in rotta verso il più sporco riformismo, ma che per i loro fini hanno bisogno di presentarsi alle masse come aderenti alla dottrina del comunismo, all’azione della Terza Internazionale. Non solo si può provare che il pensiero di costoro si riduce a quello socialdemocratico puro – e mi si passi l’espressione, ritorsione non intenzionale di quella abbastanza cretina di comunisti puri, fabbricata a scopo non di disamina critica, ma di miserevole pettegolezzo – ma la loro azione, nei suoi riflessi sulle masse, è ancora più insidiosa e disfattistica di quella dei primi. Che cosa dicono costoro? Il più sovente non dicono nulla, ma hanno al tempo stesso l’abilità di perdere l’occasione di tacere, dimodoché non scoprono il loro pensiero che attraverso cose tanto piccine e volgari che la sola risposta idonea è il disprezzo. Ma talvolta esprimono un loro punto di vista, se anche sarebbero imbarazzati a dire quale sia tal punto tra... i quattro punti cardinali. Talvolta scrivono, e se non scrivono almeno disegnano tutta la vile inettitudine del loro atteggiamento.

Prendiamo ad esaminare soltanto la loro posizione sul problema della violenza. Dicono qualche cosa di simile: ammettiamo la violenza come momento necessario dell’atto rivoluzionario, ma neghiamo la opportunità di predicarla fin da ora (i coccodrilli arrossiscono sotto le loro cornee squame!) poiché la situazione non è matura, la borghesia è forte, la borghesia se si sente minacciare ci assale prima del tempo.

Ma è proprio questo che fanno costoro. Hanno predicato la necessità della violenza fino a ieri, ma nulla hanno fatto per organizzare in una preparazione della massa quella loro predicazione verbale, appagandosi che questa desse come resultati i 150 seggi parlamentari e i 2500 comuni socialisti, e dinanzi all’attacco borghese, che non sanno ributtare, predicano il disarmo ideale e materiale del proletariato prospettandolo in dichiarazioni ignobili, che assumono anche la forma di vignette disfattiste la cui paternità sarebbe in regime militare – ossia così nel regime della borghesia che in quello del socialismo non evangelico – colpa più che bastevole per il plotone di esecuzione.

Dire: alla violenza si ricorrerà in un momento estremo, quando le stesse condizioni culminanti della crisi la renderanno fatale e logica nel suo svolgimento, confina con un calcolo disfattista della rivoluzione. Infatti la borghesia calcola sul suo apparato difensivo democratico per raggiungere questo effetto: illudere le masse – l’errore socialdemocratico aiutando – che esse ascenderanno per la facile via legalitaria e quando la violenza esploderà, approfittare della propria preparazione e organizzazione armata statale per soffocare lo sforzo di un proletariato che insorga senza nessuna preparazione.

Quindi, chi non è socialdemocratico puro, chi arriva a vedere che, comunque le cose si svolgano, all’urto finale armato si arriverà primo o dopo, deve anche capire che ci si arriverà in condizioni tanto più favorevoli alla rivoluzione quanto più il proletariato sarà preparato a tali frangenti. E il metodo Comunista vuole che anche quando la situazione non è quella dell’imminenza dell’assalto, si dica al proletariato che l’assalto ci dovrà essere e che solo con le armi in pugno lo si potrà condurre. Collo stesso passo con cui si prospetta questa necessità creando nelle masse la coscienza di doverla e saperla affrontare, i comunisti devono andare organizzando la forza proletaria contro quella dello Stato borghese, ed è solo a questo patto che si può anche, ove la situazione lo consigli, sospendere azioni arrischiate e sfavorevoli.

Ma chi dinanzi allo sferrarsi del periodo dei decisivi conflitti, dinanzi alla eloquenza del fatto che la borghesia getta la maschera della democrazia e della legalità, vuol rispondere applicando questa maschera stessa sul viso del proletariato, facendolo il gerente della legittimità del civile regime parlamentare, dicendo alle masse di scartare la prospettiva di una loro azione armata, e di attendere il misterioso divenire di chi sa quali forze inermi ed imponderabili che gli apriranno l’avvenire, non può uscire da questo dilemma: se egli è un seguace della menzogna socialdemocratica che esclude la violenza proletaria dalle vie della storia, basterà per lui il limbo degli imbecilli; se è invece un assertore della necessità sia pure annebbiata di un episodio di lotta violenta, e peggio se fu un declamatore di violenze verbali anche al di là del necessario, deve essere precipitato e sommerso nella bolgia dei traditori.
 
 
 
 
 

[MANIFESTO PER LA MORTE DI SPARTACO LAVAGNINI]

Compagni!

In molte piazze e città d’Italia episodi sanguinosi della lotta tra il proletariato e le forze regolari e irregolari della borghesia si susseguono con un crescendo eloquente. Tra le tante vittime, note od oscure, il partito comunista deve registrare la perdita di uno dei suoi militi più valorosi: Spartaco Lavagnini, caduto a Firenze al suo posto di responsabilità dinnanzi al proletariato e al suo partito. Alla sua memoria, e a quella di tutti i proletari caduti, mandano i comunisti il saluto dei forti, temprandosi nell’azione e nella fede.

Gli eventi che incalzano mostrano che il proletariato rivoluzionario d’Italia non cede sotto i colpi del metodo reazionario inaugurato da alcuni mesi dalla classe borghese e dal suo governo, a mezzo delle bande armate dei bianchi, assalitori prepotenti dei lavoratori anelanti alla propria emancipazione. Dalla rossa Puglia, da Firenze proletaria, da tanti altri centri giungono le notizie che il proletariato, malgrado l’inferiorità dei suoi mezzi e della sua preparazione, ha saputo rispondere agli attacchi, difendersi, offendere gli offensori.

La inferiorità proletaria, che sarebbe inutile dissimulare, dipende dalla mancanza nelle file del generoso nostro proletariato di un inquadramento rivoluzionario quale può darlo solo il metodo comunista, attraverso la lotta contro i vecchi capi e i loro metodi sorpassati di azione pacifista e transigente. I colpi della violenza borghese vengono ad additare alle masse la necessità di abbandonare le pericolose illusioni del riformismo e disfarsi dei predicatori imbelli di una pace sociale che è fuori delle possibilità della storia.

La parola d’ordine del partito comunista è quella di accettare la lotta sullo stesso terreno su cui la borghesia scende, attrattavi irresistibilmente dal divenire della crisi mortale che la dilania; è di rispondere colla preparazione alla preparazione, coll’organizzazione all’organizzazione, coll’inquadramento all’inquadramento, colla disciplina alla disciplina, colla forza alla forza, colle armi alle armi.

Il Partito Comunista d’Italia - 2 marzo 1921
 
 
 
 
 

“Ordine Nuovo”, 26 marzo 1921
CONTRO LA REAZIONE

Le masse proletarie italiane sono vivamente emozionate e percorse da un caldo slancio di solidarietà per le vittime delle persecuzioni politiche, per gli incarcerati in seguito a reati di pensiero e ad accuse di complotti contro lo Stato, o comunque sottratti con un qualsiasi pretesto alla circolazione e alla loro attività dl agitatori politici.

Malatesta, Borghi, Quaglino, detenuti da mesi, con la chiara intenzione di porli nella impossibilita di proseguire l’opera loro di dirigenti del movimento anarchico e sindacalista, hanno iniziato lo sciopero della fame per ottenere che ad essi venga almeno applicata la normale procedura di cui la stessa legalità borghese dovrebbe garantirli. Questa notizia ha giustamente commosso i lavoratori di ogni tendenza e sfumatura politica che spontaneamente tendono ad esercitare un’azione efficace per ottenere la liberazione dei perseguitati. Naturalmente il metodo borghese adottato con parzialità troppo sfacciata di assolvere ad occhi chiusi tutti i bianchi che nella loro azione antirivoluzionaria trovino comodo di oltrepassare i limiti delle leggi e di cogliere ed inventare pretesti inammissibili per mettere dentro i sovversivi, ha causato un vivo fermento che tende ad organizzarsi in una agitazione generale nella quale la solidarietà dei comunisti non può mancare.

Noi d’altra parte siamo in larghissima misura vittime di questi metodi della reazione. Molteplici sintomi lasciano immaginare che questa si prepara a fare del nostro partito il suo preferito bersaglio, che la lotta tra noi ed essa diverrà sempre più serrata. Non faremo qui l’elenco dei nostri compagni arrestati e in mille modi perseguitati. In intere plaghe in intere provincie imperversa una vera orgia di persecuzioni contro i comunisti, le loro Associazioni, le loro Sedi, i Comuni da essi amministrati. In molti posti i capi sono stati direttamente colpiti. Dobbiamo ricordare l’assassinio di Lavagnini? Dobbiamo rinnovare l’espressione della nostra indignazione per quanto si compie ai danni di Tuntar e dei suoi compagni di Trieste, che anche stanno conducendo lo sciopero della fame? Dobbiamo narrare ancora la incredibile odissea di Edmondo Peluso, oggi relegato senza un motivo sullo scoglio di Santo Stefano? Degli episodi di Milano e del diretto attentato alle sedi del nostro Partito e di tutti i nostri organismi centrali diciamo, con serenità di spirito, altrove. I mille episodi di lotta contro il fascismo, dai nostri valorosamente sostenuta, hanno lasciato strascichi di persecuzione. Un’altra figura che i proletari italiani non devono dimenticare è quella di Ersilio Ambrogi di Cecina, uno dei nostri uomini più coraggiosi e coscienti, che è tuttora detenuto per i fatti di Cecina, sotto la gravissima imputazione di omicidio; e al processo del quale si frappongono tutti i mille ostacoli procedurali in cui gli agenti del Governo borghese sono provetti.

Si tratta dunque di manifestazione di un fatto generale, che va anche aldilà della adozione di un particolare indirizzo politico da parte di un Governo. Ed appunto il partito Comunista vuole influire perché questo problema sia affrontato a sangue freddo ed a ragione veduta, con tutto il corredo indispensabile della nostra esperienza critica e sulla traccia sicura dei nostri metodi d’azione, anziché affidarne la soluzione secondo il metodo tradizionale, alle facili influenze del sentimentalismo, e ricadere in vecchissimi e deplorevoli errori.

Agitiamoci, sì; operiamo sì per ottenere l’obiettivo di recare il doveroso aiuto ai compagni nostri che più si sacrificarono, per restituire al movimento delle masse i suoi dirigenti. Ma evitiamo l’errore di considerare l’azione che questo resultato deve conseguire come cosa avulsa da tutto il restante quadro della nostra azione quale essa viene ad intrecciarsi colla attuale situazione e le vaste e profonde cause che l’hanno determinata.

È una illusione quella di credere che si possa indurre la classe dominante ed il suo Governo ad un regime normale, a rispettare quelle garanzie che i suoi istituti giuridici lasciano alla libertà di agire degli individui e delle collettività. Non interpretiamo il problema come quello di riportare l’avversario nella legge, nella SUA legge. Questo vorrebbe dire avvalorare l’illusione controrivoluzionaria che l’ambiente della legalità borghese si presti alla lotta di emancipazione delle masse, e se per poco nella nostra azione noi accettassimo di unirci a quei movimenti che hanno come loro patrimonio di teoria e di tattica quel fondamentale errore, noi rovineremmo tutta la nostra propaganda tra le masse, noi cadremmo nell’equivoco di mostrare di assumere o di lasciare assumere l’impegno che se la borghesia rispetterà i limiti delle sue leggi, noi faremo dal canto nostro altrettanto. Ciò vorrebbe dire che l’imperio dell’attuale sistema costituzionale è per noi una situazione desiderabile, vorrebbe dire dimenticare che, secondo la critica marxista, la libertà che esso ostenta di concedere non è altro che una turlupinatura ed una risorsa conservatrice.

Ora in bocca ai comunisti non devono trovarsi le frasi stereopatiche e ridicole di libertà di opinione, di diritto individuale, e simili giaculatorie, care alla democrazia borghese ed all’opportunismo socialistoide. Noi dobbiamo anche evitare di incoraggiare le tendenze in taluni elementi, prossimi ai nostri cugini sindacalisti ed anarchici, a cadere nell’abuso piccolo-borghese di quelle frasi, credendo di fare con ciò del puro estremismo. I comunisti sono su ben altro terreno. Essi sanno che nei limiti convenzionali della legalità borghese non si ritornerà più. Essi dichiarano che la storia ha universalmente posto questo dilemma: o se ne esce per realizzare la dittatura aperta della controrivoluzione, o per fondare la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Essi non si pongono come obiettivo di riaprire il periodo dei rapporti normali, politici e giuridici – che sarebbe, ove non fosse assurdo, il periodo del ristabilimento pacifico dei poteri e dei privilegi capitalistici – ma di sospingere il trapasso da esso al periodo del potere rivoluzionario del proletariato. I comunisti non dicono alla borghesia: bada che se non rientri nella tua legalità faremo la rivoluzione... per conseguirla. Essi si propongono invece di varcare i limiti del potere borghese con la loro azione rivoluzionaria. Chi, come i socialdemocratici, intende restare sul terreno delle lotte civili, non sarà mai un nostro alleato.

Per lottare contro i sistemi della reazione non c’è dunque altra via che organizzarsi per spezzarli, lottando contro di essi senza esclusione di colpi.

Occorre dare alla nostra azione un andamento che la renda indipendente alle facili sanzioni del potere borghese, che colpisca più addentro e più sicuramente il sistema avversario. E quindi a ciò si ricollega tutto il problema del metodo rivoluzionario, nel quale noi non siamo coi socialdemocratici, che credono di poter fare a meno dell’infrangimento della legalità borghese, non siamo coi libertari, che credono che ad uno sforzo che infranga il vecchio sistema non debba seguire il costituirsi di un nuovo sistema di potere, di organizzazione disciplinata, di militarismo ed anche di polizia, ed anche di reazione contro la classe borghese.

Il problema della vittime politiche e della lotta contro la reazione non è dunque problema incidentale e negativo, ma si riconduce al problema positivo e generale dell’azione contro l’attuale ordine di cose. Chi pensa che si possa affrontarlo a fianco dei socialdemocratici, lo pone in modo controrivoluzionario ed opera con analogo effetto, anche se di quelli dice di essere agli antipodi.

IL PARTITO COMUNISTA lotta contro la reazione perché lotta contro il potere borghese, anche quando questo non ecceda dalle sue funzioni LEGALI. Esso conduce questa lotta organizzando in tali direzioni la coscienza e la forza proletaria; accettando di portarsi sul terreno della illegalità e della violenza, non perché l’abbia scelto la borghesia, ma perché e l’unico che con vantaggio possa scegliere il proletariato, per accelerare il dissolversi della legalità borghese, verso il momento in cui sulla sua disfatta si istituirà formidabile la legalità proletaria, alla quale non occorre legare preventivamente le mani per velleità fraseologiche. Precisamente quindi tutte le ragioni per cui il Partito Comunista è sorto e quelle che lo conducono a fissare i suoi metodi, vengono in campo quando si pone il problema di affrontare la reazione. La reazione è il potere stesso della borghesia; mai ci troveremo di fronte l’avversario con diverse e più vulnerabili armature.

È per questo che i comunisti scendono in lotta contro le prepotenze e le violenze avversarie con tutta la precisa fisionomia della loro organizzazione e della loro tattica di Partito.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 10 luglio 1921
A proposito del trattato di pace social-fascista
GLI INTERPRETI

Abbiano sotto gli occhi il comunicato della Direzione del Partito Socialista riguardante la notizia data dai quotidiani di un patto di pace concluso con i fascisti, e la pubblicazione di tale patto. Dal comunicato emergono due circostanze.
1) «Effettivamente sono corse pratiche, in merito al patto, fra alcuni fascisti e socialisti».
2) «La Direzione del P.S.I. non s’è rifiutata di accordare il chiesto consenso a quei compagni i quali si sono ritenuti in dovere di iniziare quelle pratiche risolutive e di cui sono state date notizie inesatte».

Da queste due circostanze si desume che gli organi centrali del P.S.I. non sono alieni del trattare con gli organismi dirigenti del fascismo.

La Direzione del P.S.I. aggiunge ancora che «intende operare – secondo i principii e le tradizioni del Partito Socialista Italiano – anche in questo momento al ripristino della vita nomale che garantisca il libero svolgimento delle lotte civili».

Che i principi attuali del P.S.I. siano volti al ripristino della vita normale che garantisca il libero svolgimento delle lotte civili è lanciare una bestemmia al marxismo, e che mal cela un profondo mutamento di indirizzo nella mentalità e nella tattica del socialismo italiano; ma dire che le tradizioni del P.S.I. giustificano un tale mutamento equivale a mentire grossolanamente. Le migliori tradizioni del P.S.I. è vero, le abbiano portate con noi staccandoci dal vecchio partito. Noi siamo i continuatori logici della sinistra marxistica che combatté nel Partito socialista, volta a volta, le battaglie per l’intransigenza, contro il bloccardismo, contro la massoneria, e che – prima – vide nella rivoluzione russa non già un episodio isolato nella storia ma l’inizio della Rivoluzione mondiale dei lavoratori. Ma il passato del P.S.I. appartiene in buona parte a noi.

A noi, considerati appunto quali continuatori di un movimento di opposizione al riformismo. Ebbene: noi diciamo che il P.S. non ha mai chiesto il ripristino della vita normale, principio che è antisocialista per eccellenza, giacché presume l’accettazione di un concetto di normalità antisociale, ed antistorico da un punto di vista scientifico e filosofico, inconciliabile con la dialettica di Marx e dei marxisti. Il Turati del ‘98 ed il Serrati del ‘17 non chiedevano il ritorno alla vita normale; la normalità – volgarmente intesa – è ordine sociale; e noi abbiamo ripetuto che la società borghese non può garantire che un ordine apparante, poliziesco, mentre i rapporti economici e morali tra i quali essa vive sono illogici, ingiusti e caotici. Il ritorno alla vita normale, per cui i socialisti oggi danno mano agli assassini del proletariato, è la rinunzia definitiva ai principi rivoluzionari affermati a Zimmerwald e a Bologna, ed apre un nuovo compito politico al partito che fu già interprete della volontà d’emancipazione delle classi lavoratrici. Il P.S.I. intende anche ripristinare il libero svolgimento del le lotte civili. Quanto le parole abilmente usate possono ingannare le masse più arretrate!

Ripristino della vita normale e del libero svolgimento delle lotte civili. Ripristino. Sembra, dunque, che ieri i socialisti godettero una normalità di vita sociale borghese, il libero svolgimento delle lotte civili. Accanto all’eresia marxistica i massimalisti ribadiscono il concetto negatore della rivoluzione proletaria, il concetto bernsteiniano (Kautsky è assai più a sinistra) della gradualità antirivoluzionaria del socialismo, che oggi ha portato Bonomi al governo d’Italia e ieri portò Scheidemann ed Ebert, Adler e Renner, alla direzione degli Stati borghesi del Centro Europa. Lotta civile bisogna intenderla, qui, per lotta legale. Il termine civile, è nel nostro caso, derivato da civiltà, nel senso meno ampio di educazione, e, non già da civis. Tantoché lotta civile non si traduce in guerra civile.

Ed è appunto perché il concetto di lotte civile equivale a competizione legale di partiti nazionali nell’orbita delle istituzioni dello stato borghese che la borghesia non può non accettarlo e farlo suo. Il C.C. dei Fasci di combattimento, infatti, «non respinge in linea di massima il generoso proposito di un ritorno alla normalità della vita politica nazionale, ritorno reso possibile dalla fondamentale modificazione della coscienza pubblica e dal sostanziale cambiamento di tono e di opera del partito socialista ufficiale».

È nel cambiamento di tono e di opera del partito socialista che il fascismo (vogliamo dire la borghesia) vede la possibilità di un ritorno alla normalità della vita politica nazionale. E per la borghesia la normalità ha un preciso e ben chiaro significato.

* * *

Nella formazione del trattato di pace che gli organi dirigenti fascisti e socialisti stanno per stipulare, i capi socialisti si dicono interpreti della volontà delle masse lavoratrici. È bene che noi diffidiamo in tempo i socialisti dinanzi alle masse e dinanzi agli organi del fascismo.

Quei capi socialisti che inizieranno ed – eventualmente – condurranno a termine trattative di pacificazione con il fascismo non rappresentano per nessuna ragione la volontà delle masse. Marxisticamente noi possiamo dimostrare che essi sono nemici della classe proletaria della quale non possono interpretare né i bisogni né le aspirazioni. Ma se anche i più semplici che in questi giorni sentiamo parlare eccessivamente, volessero sostenere che gli eletti socialisti dai suffragi elettorali interpretano il pensiero del proletariato e possono decidere delle sorti del proletariato, noi abbiamo il diritto di ricordare che la campagna elettorale combattuta dai socialisti, nella maggior parte delle circoscrizioni (in qualche circoscrizione si ebbe un ravvicinamento social-fascista) fu combattuta sulla piattaforma dell’antifascismo. Neghiamo, quindi, che i capi socialisti possono interpretare, in questa contingenza specialmente, il desiderio delle masse.

Appena ieri a Grosseto si è scatenata la furia degli irregolari bianchi e i nostri morti sono ancora insepolti. È davvero tragico il destino dei lavoratori, indifesi, invendicati, mercanteggiati, come schiavi. Dalle fosse ove riposano i morti proletari si elevano urla di maledizione contro i pavidi pastori che mercanteggiano insieme agli ideali che furono dei morti, la vita e l’avvenire dei vivi.

Ma i vivi non accederanno all’invito subdolo, alla contrattazione infame. Il comunicato dei Fasci ha dichiarato di ritenere che «al fine di non rendere vano, transitorio ed effimero un tentativo pacificatore esso deve essere concluso e soprattutto applicato in accordo con tutti i dirigenti autorizzati e responsabili anche di quelle organizzazioni politiche d’estrema rivoluzionaria a cui vanno attribuite o a cui artatamente si attribuiscono in questi giorni le responsabilità delle infinite superstiti violenze sporadiche ed individuali antifasciste».

Tal prosa da piccolo ghetto è intonata al pensiero stesso dei socialisti. Daremo di ciò altra volta la prova. Della quale non ci sarebbe bisogno per quanti hanno seguito in questi ultimi mesi la condotta politica dei socialisti e l’opera di delazione che fino a ieri, auspice il pacificatore-spia onorevole Ellero, ha inseguito i comunisti. Scrivevamo il 13 febbraio scorso: «Fin da oggi noi facciamo comprendere al proletariato italiano la necessità di combattere fascisti e socialisti, i difensori di oggi e di domani della classe borghese, gli antilegalitari di oggi ed i legalitari di domani in casacche di guardie gialle».

Il pensiero dei socialisti è, oggi, questo: gettare ponti al fascismo e tentare la pacificazione. Ma poiché i fascisti non sono certo più minchioni dei socialisti; e poiché i comunisti non solo rifiutano il loro concorso alla mercazione, ma iniziamo un attacco a fondo contro i socialisti, i soliti traditori da bassofondo, i fascisti hanno il diritto di rompere le trattative. Ma i socialisti non vogliono perdere al giuoco.

E noi assisteremo alla ratifica da parte dei rappresentanti fascisti e degli interpreti (con questi interpreti dovremo fare lunghi conti) socialisti di un trattato nel quale sarà fermata la clausola poliziesca che impegna i contraenti ad accoppare (e nelle migliori ipotesi ad affidare alla giustizia) i responsabili delle violenze individuali e sporadiche, o – come l’Avanti! li chiama – gli smobilitati affetti da psicosi di guerra.

La guerra al comunismo, da parte della coalizione socialfascista, è virtualmente dichiarata. Attendiamo l’ultimatum? Macché! Noi non abbiamo nulla da attendere. Combattiamo socialisti italiani e borghesia coalizzati da parecchi mesi, e perciò colpiamo gli uni o gli altri indifferentemente.

Il 30 scrivevamo: «Se gli organi del fascismo oggi si mostrano avversi ad una eventualità simile (ad un esperimento socialdemocratico di governo) gli è perché i socialisti debbono ancora meglio chiarire la loro posizione, debbono rinnegare tutto il passato rivoluzionario, debbono scendere al piano comune e civile di competizione politica». Nel luglio 1921 i socialisti – dicono i Fasci – hanno «sostanzialmente cambiato di tono e di opera». E perciò i signori Zaniboni ed Ellero ed i signori Acerbo e Giurati possono firmare il trattato di pace e le condizioni di resa imposte dal fascismo. E Mussolini parafrasava Turati: «O si finisce o si va al disastro nazionale».

Il fascismo, cioè la borghesia, ha vinto.

E noi siamo soli, contro le forze dello Stato, contro l’armamento della classe avversa, contro il socialismo passato al nemico.

Viva il comunismo! Viva la rivoluzione proletaria!
Abbasso i rinnegati, i mercantucci da piccolo ghetto!
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 14 luglio 1921
Partito Comunista d’Italia - Sezione dell’Internazionale Comunista
PER L’INQUADRAMENTO DEL PARTITO

In base al lavoro svolto finora in molte località per l’inquadramento a tipo militare degli iscritti e dei simpatizzanti del Partito Comunista e della Federazione Giovanile Comunista ed alle esperienze che ne sono risultate, la Centrale del Partito e quella della Federazione Giovanile allestiscono un comunicato che conterrà le norme da applicare dovunque in questo indispensabile lavoro di organizzazione e preparazione rivoluzionaria.

Poiché intanto sorgono in diversi centri italiani iniziative di tal genere da parte di elementi non dipendenti dal Partito Comunista e delle quali il Partito Comunista non è ufficialmente partecipe né responsabile, si avvertono tutti i compagni di restare in attesa di tali disposizioni prima di creare fatti compiuti locali che ostino alle direttive generali adottate dal Partito.

Ciò vuol dire che il lavoro di esercitazione delle squadre comuniste deve dovunque continuare, ed iniziarsi dove ancora non lo si è affrontato, ma attenendosi al rigoroso criterio che l’inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base di Partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici del Partito; e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito.

La preparazione e l’azione militare esigono una disciplina almeno pari a quella politica del Partito Comunista. Non si può ubbidire a due distinte discipline. Il comunista dunque, come il simpatizzante che al Partito si sente realmente legato (e non merita la definizione di nostro simpatizzante chi non milita nel Partito per “riserve disciplinari”) non possono né devono accettare di dipendere da altre organizzazioni politiche, e tanto meno poi da organizzazioni di inquadramento a tipo militare.

In attesa di più precise disposizioni, che del resto attraverso la pratica stessa si andranno sempre meglio elaborando, la parola d’ordine del Partito Comunista ai suoi aderenti e ai suoi seguaci è questa: Formazione delle squadre comuniste, dirette dal Partito Comunista, per la preparazione, l’allenamento, l’azione militare rivoluzionaria, difensiva ed offensiva, del proletariato.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 14 luglio 1921
TORINO

A Torino le bande fasciste hanno voluto dar prova della loro capacità combattiva.

Avendo organizzato in un bordello il loro comando, han manovrato come meglio loro pareva per le strade di Torino. Hanno tentato l’assalto ad alcuni Circoli comunisti, han dato la caccia agli operai, ne hanno assassinati due.

Torino, città squisitamente proletaria, ha sofferto ciò. Non sappiamo quali conseguenze questi fatti avranno, ignoriamo fino a qual punto le guardie bianche vorranno giungere.

Noi domandiamo ai proletari: non è forse chiaro l’insegnamento che da questi fatti scaturisce?

«Fuori dalle officine perché la produzione s’arresta. E, nelle strade, revolverate». Questa è la parola d’ordine che guida l’azione della borghesia e delle sue guardie, nei rapporti con gli operai.

Cosa gli operai faranno? Si rassegneranno a morire di fame o di mitraglia, così, passivamente, come mandrie di bestie stanche? Ah, no, perdio! Più che il diritto di vivere, gli uomini hanno il dovere di vivere. Hanno il dovere di difendere la propria vita. Con tutte le armi.

Questo noi ricordiamo al proletariato torinese, questo l’Internazionale Comunista dice al proletariato di tutto il mondo.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 21 luglio 1921
Il proletariato non può contare, per la propria emancipazione, che sulla propria forza
Partito Comunista d’Italia - Federazione Giovanile Comunista d’Italia
DISPOSIZIONI PER L’INQUADRAMENTO DELLE FORZE COMUNISTE

Il partito politico proletario di classe deve assolvere colla sua organizzazione ad un molteplice compito, e deve formarsi gli organi adatti per tutte le sue funzioni.

Un primo compito del partito è di natura ideologica e politica, consistendo nella formazione di una coscienza sociale e storica dell’avanguardia della classe lavoratrice, che critica ed interpreta gli avvenimenti per trarne le esperienze utili ai suoi fini rivoluzionari. Nella funzione di tracciare le conclusioni generali a cui così si perviene, il partito appare come un organo di discussione e di deliberazione (nella sua rete internazionale) ed a questo corrisponde una struttura organizzativa a base di democrazia interna con criterio di prevalenza del parere delle maggioranze che si determinano nelle sezioni e quindi nei congressi provinciali, nazionali e internazionali.

Da questo compito di ordine consultativo e deliberativo si passa per logica concatenazione ai compiti esecutivi, come dalla teoria del partito e dai principi generali che ne reggono la tattica si passa all’esplicazione dell’azione. Qui intervengono criteri organizzativi di disciplina e di gerarchia, che vanno più accentuandosi in quanto, per lo sviluppo generale della lotta proletaria, dall’epoca della critica teorica si passa a quella della propaganda e del proselitismo, ed infine a quella della azione e del combattimento rivoluzionario.

In questo secondo ordine di funzioni e di organi può intervenire ancora una utile distinzione risultante da quanto abbiamo or ora detto. Finché il partito non è in presenza delle necessità immediate di una azione “militare” basterà che esso abbia una rete esecutiva di cariche disciplinari e gerarchiche che curino la propaganda, il proselitismo, la stampa, l’attività sindacale, elettorale e simili. A tale uopo ogni sezione avrà un suo Comitato Esecutivo che dirigerà tutta l’azione sulla base dei deliberati delle assemblee, e dei superiori congressi, ed un Comitato Esecutivo che sarà pure emanazione dei congressi periodici provinciali, nazionali, internazionali. Non è però sufficiente, come è stato finora universalmente ritenuto nei partiti tradizionali, demandare l’esplicazione della attività del partito a questi comitati, e ad altri comitati speciali (redazioni, ecc.), o occasionali (per le elezioni o altre agitazioni). Anche questa prima rete esecutiva normale deve essere completata da un più esteso inquadramento che utilizzi, sotto la dirigenza dei Comitati competenti, l’opera di tutti gli iscritti al partito secondo la loro capacità. Al concetto borghese che il militante di un partito si limiti ad impegnare una propria adesione ideologica ed il proprio voto politico, e a pagare una quota periodica in danaro, si sostituisce quello che chi aderisce al Partito Comunista è tenuto a dare in modo continuo la sua attività pratica secondo le esigenze del partito.

Ciò si realizza con l’inquadramento di tutti gli iscritti al partito e alla federazione giovanile, effettivi o candidati, in gruppi locali anche più ristretti delle sezioni, che nominano un loro capo, salvo conferma da parte del Comitato Esecutivo della sezione. Questi gruppi, composti dai compagni che abitano un villaggio, un rione o un gruppo di case contigue, per mezzo del loro capo sono a continua disposizione del partito per il lavoro di propaganda, distribuzione di giornali e stampati del partito, proselitismo, attività elettorale, informazione, partecipazione a dimostrazioni di partito, ecc.

Tutte le sezioni comuniste, d’intesa con le sezioni giovanili, che già non l’avessero fatto sono tenute a provvedere alla suddivisione dei loro soci, senza distinzione di sesso, età o attitudine fisica in questi gruppi che devono nominare i rispettivi capi. Una convocazione di questi, da parte dell’Esecutivo sezionale deve essere sempre possibile in termine brevissimo, in modo da poter sicuramente in poco tempo chiamare a determinate azioni tutti i soci del partito. Questo deve poter al più presto contare su questa sua rete di inquadramento.

Inquadramento militare – La organizzazione sarà divisa per provincia, zone, compagnie e squadre.

Alla testa della organizzazione militare in ogni provincia sarà un fiduciario, nominato d’intesa tra il Comitato Esecutivo della Federazione adulta e quello della Federazione giovanile, nella persona di un compagno di provata fedeltà al partito e di competenza tecnica adeguata.

Le squadre sorgeranno presso tutte le sezioni del Partito e delle Federazione giovanile. A tal uopo tutte le sezioni (d’intesa tra la giovanile e l’adulta quando in uno stesso luogo vi siano entrambe), nomineranno a mezzo dei loro C.E. un fiduciario locale provvisorio che si occuperà della scelta degli elementi da organizzare nelle squadre. Esse saranno costituite: da tutti i compagni adulti e giovani che non avessero reale impedimento fisico a tale funzione, siano essi effettivi o candidati, e da simpatizzanti non iscritti ad altro partito politico, provatamente fedeli al nostro partito, ed impegnantisi formalmente alla più stretta disciplina.

Sarà compito del fiduciario provinciale dividere la provincia in zone e nominare, con ratifica dei comitati esecutivi provinciali riuniti, i capi-zona. Di intesa con questi il fiduciarie provinciale procederà a raggruppare in compagnie le squadre sorte in ciascuna zona e a nominare i comandanti di compagnia.

Le squadre non possono avere più di dieci componenti. Le compagnie possono comprendere da cinque a dieci squadre. Nel periodo di organizzazione dell’inquadramento sono ammesse composizioni di effettivi diverse, salvo la sistemazione definitiva.

Possono avere i gradi di caposquadra in sopra i soli soci effettivi del partito e della federazione giovanile.

La nomina del fiduciario provinciale deve essere ratificata dai Comitati Esecutivi nazionali del partito e della federazione giovanile.

Le grandi città sono considerate come zone, ed il capo-zona può essere lo stesso fiduciario provinciale.

Più precise disposizioni sull’inquadramento verranno opportunamente comunicate alle federazioni [e] alle sezioni. Fin da ora si stabilisce che esso deve fondarsi sulla disciplina più severa e sullo spirito di sacrificio di quanti vi partecipano. Deve dovunque essere sistematicamente organizzata una vera istruzione tecnica delle squadre con periodiche esercitazioni per completare la loro preparazione ad ogni specie di movimento

Quando la rete si sarà sufficientemente diffusa, tutti gli ordini del partito si trasmetteranno per la stessa via da essa costituita dal centro alla periferia, così per le precise norme regolamentari che per gli obiettivi dell’azione da svolgere. I fiduciari provinciali e i comitati esecutivi riceveranno precise indicazioni sui limiti delle iniziative che sono autorizzati a disporre.

Nessun socio del partito o della federazione giovanile può far parte di altre organizzazioni similari che non siano quella costituita e diretta dal Partito.

Attendiamo che in questo campo tutti indistintamente i compagni si pongano al lavoro col massimo slancio, per dare al partito una forma reale ed una capacità effettiva di azione. Il proletariato non può contare, per la propria emancipazione, che sulla sua forza, sulla organizzazione e il disciplinamento di essa.

*

Sebbene debbano apparire superflue a chiunque conosce anche lontanamente le direttive programmatiche comuniste, pure il Partito Comunista tiene a fare le seguenti brevi ed esaurienti dichiarazioni intorno alle pubblicazioni della stampa circa la cosidetta pacificazione dei partiti.

Né nazionalmente né localmente i comunisti non accedono né accederanno ad iniziative per la “pacificazione” o il “disarmo”, siano esse provenienti dalle autorità governative o da qualunque partito politico.

La comunicazione in tale senso fatta dal partito socialista è stata senz’altro respinta.

L’affermazione di una corrente politica di non voler trattare coi comunisti cade nel ridicolo, perché mai i comunisti hanno espresso l’assurda intenzione di scendere a patti con chicchessia su questo terreno.

Ove ve ne fosse bisogno, serva anche questa comunicazione di norma alle organizzazioni locali del Partito.

Il Comitato Esecutivo
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 31 luglio 1921
Mentre si prepara la “spedizione pacificatrice”
ANCORA DUE PAROLE

Il socialismo rivoluzionario riconosce che, in un determinato momento storico, per ragioni che qui è superfluo ripetere, l’urto fra le due classi sociali assume gli aspetti della guerra civile. Questa, che è guerra combattuta con tutte le armi, si manifesta dapprima episodica, come cozzo di pattuglie; le quali aumentano di numero e moltiplicano la loro attività e la loro asprezza aggressiva. C’è taluni che vogliono dettare norme cavalleresche nella guerra combattuta. Come tali iniziative siano infantili e lontane dalla realtà che si vive angosciosamente sul campo dell’azione l’esperienza bellica dimostra, e lo dimostra anche l’esperienza delle rivoluzioni passate e recenti. Distinguere la violenza collettiva dalla violenza individuale in guerra vuol dire cavillare intorno alla possibilità di un combattimento dal quale possa essere bandita la violenza individuale: e – al più spesso – significa non voler combattere la guerra. Si è apertamente contro la guerra civile, e cioè si nega la lotta di classe (giacché non è socialisticamente ammissibile concepire la lotta di classe che non giunga – per le ragioni stesse che la originano – alla guerra civile) allora si ha il dovere di chiaramente parlare al proletariato, come troppe volte hanno fatto gli uomini della destra socialista. Ma se si accede alla necessità storica della guerra civile si deve accettare questa con tutte le intemperanze che l’accompagnano, pur dominandone, attraverso una disciplina politica, l’indirizzo e prevedendone gli sbocchi.

È difficile stabilire quale sia la “violenza per la rivoluzione” o la “violenza per la violenza”. Soltanto pochi malati possono definirsi esteti della violenza; ma il proletariato, che è – generalmente – sano adopera una violenza cosciente, determinata da alcune situazioni storiche ed economiche che noi sappiamo.

Il proletariato toscano che al fronte aveva fama di pusillanimità e che dette una forte percentuale di diserzione, è oggi quello che meglio combatte contro le bande bianche. Può dirsi, forse, che questo proletariato sia violento per amore della violenza?

Noi comunisti affermammo da qualche anno – e l’affermazione trovò consenso in tutte le tendenze che vivono sotto la bandiera del P.S.I., giacché non era essa una nostra opinione personale – che la situazione internazionale apertasi con lo scoppiare della guerra europea è una situazione chiaramente rivoluzionaria . La rivoluzione russa nacque da tale situazione ed apre l’era delle rivoluzioni proletarie. Tali affermazioni suffragate dalla critica dei fatti che si svolsero e si svolgono nel mondo furono -fino a ieri – patrimonio della polemica del P.S.I. Usciti dal P.S.I. noi ci proponiamo di trarre, dai motivi storici che accelerano la crisi della economia borghese e dall’esperienza delle rivoluzioni proletarie vittoriose e vinte, le conclusioni di ordine tattico le quali ci dicono che il proletariato non può risolvere gli angosciosi problemi del suo presente e del suo divenire se non impossessandosi del potere politico, e che il possesso del potere politico non può che avvenire violentemente. Il concetto della dittatura del proletariato, che oggi è un fatto in una grande nazione, non è che un mezzo per distruggere a poco a poco i residui di capitalismo che il proletario porta seco e permette a questo di iniziare il trasferimento della proprietà individuale alla collettività. Questi concetti sono popolari, ormai, sebbene non siano più ribaditi nella stampa e nella propaganda del P.S.I.

Noi, quindi, abbiamo una linea logica di principio e di tattica, e non ci si può sorprendere in contraddizione.

Siamo perciò vivamente sorpresi allorché leggiamo sull’Avanti! parole come queste:

«Il neonato partito comunista può nascondersi dietro di noi; la sua stessa dappochezza, la stessa sua mancanza d’istituti formati e di organismi in pieno sviluppo, gli permettono di fare la voce grossa e di appiattarsi alle nostre spalle, godendo così il doppio privilegio di indicare noi al bersaglio del nemico comune, e di farsi bello dinanzi alla folla di una opposizione che esso compie soltanto in quanto ha trovato in noi i suoi gerenti responsabili. La sua forza in fin dei conti è come la forza dei fascisti: è fatta di irresponsabilità. Quando non si ha nulla da perdere, quando il babbo ricco pensa alle spese, si può fare anche la voce grossa».
Queste parole sono davvero atroci per la mala fede cui sono ispirate. È troppo facile ai nostri avversari socialdemocratici tacciarci di intemperanza, d’incoerenza, di eccessiva vivacità polemica: ma noi non sappiamo davvero contenerci dinnanzi a manifestazioni sì evidenti d’impudenza.

Noi abbiamo il diritto di chiedere ai nostri perfidi nemici della socialdemocrazia:

a) in quale occasione il P.C.I. si nascose dietro le ampie spalle del P.S.I.? Già dai giorni che precedettero il Congresso di Livorno noi separammo, dinanzi alle masse, le nostre dalle responsabilità controrivoluzionarie del P.S.I.; e molte volte abbiamo assunto le responsabilità che ci spettavano. Non abbiamo mai persa l’occasione per dire il nostro pensiero anche quando non era igienico essere sinceri. E oggi chi è che si mantiene sulla breccia, solo, contro un mondo di nemici tra i quali vediamo i nostri compagni di ieri? Ah, no: non è onesto mentire così spudoratamente. Noi, anzi, preghiamo vivamente i nostri ex compagni di dichiarare pubblicamente che tutte le responsabilità della educazione rivoluzionaria del proletariato spettano a noi comunisti: noi gradiremo dai socialdemocratici questo atto di onestà a di sincerità. Per conto nostro li rassicuriamo che noi ripeteremo sempre che essi nessuna colpa hanno dello stato convulso in cui vivono il proletariato e la borghesia; che essi sono contro ogni violenza, che essi combattono il comunismo come si combatte un avversario, che essi sono disposti alla sincera pacificazione con il fascismo il cui terrore antisocialista fu dovuto ad un equivoco, frutto di ignoranza nei dirigenti del fascismo italiano. Se anche fossimo stati poco chiari fino a ieri – ci sembra di no – ripariamo oggi con questa nostra dichiarazione della quale preghiamo i socialdemocratici di prender atto.

b) Che la nostra forza sia fatta di irresponsabilità, questo lo contestiamo in nome della intelligenza. Modestia a parte, ma i dirigenti socialisti sono indegni di occupare i posti che occupano. Non bastano cinquanta o sessanta anni di età per avere il diritto di dirigersi. Occorre preparazione, lucidità mentale, ed un poco, almeno, di passione. L’idea vuole essere amata perdutamente. Noi abbiamo molto radicato il senso della responsabilità, ed il Serrati varie volte ha dovuto constatare che qualcuno fra noi ha ben piantata la testa sulle spalle.

c) Si, è vero: noi non abbiano nulla da perdere. Ma non c’è contraddizione fra questa affermazione e l’altra che spesso ci accade di sentire, che cioè noi siamo dei volgari arrivisti e magari degli accaparratori di stipendi? Noi sappiamo che quest’ultima accusa schizza incosciente dal furore polemico: lo sappiamo! Se fossimo rimasti nel P.S.I., lo dicano sinceramente i capi socialisti, avremmo potuto sperare qualche facile gloria ed anche... qualche posto. Noi accettiamo, perché rispondente al vero, l’affermazione più recente: noi comunisti non abbiamo nulla da perdere. Potremmo allargare il concetto e ripetere con Marx: «Il proletariato non ha nulla da perdere, con la rivoluzione sua, fuorché le proprie catene». È dunque per il timore di perdere qualcosa che i socialisti (molti di essi) paventano la rivoluzione proletaria. Ciò dice chiaramente che il P.S.I. non è il partito della classe lavoratrice. È vero?

La malignità poi del “babbo ricco che pensa alle spese” è cattiva. Papà si è impoverito per pagare i vizi dei nostri fratellastri scioperati. E dire che papà avrebbe tanto bisogno di un poco di aiuto, di un poco di cuore! Ma questo è un argomento assai spinoso: soltanto chi vive in mezzo a noi può conoscere i sacrifici che si compiono!

C’è un’altra cattiveria nelle parole socialiste: “Noi comunisti facciamo la voce grossa” e... basta.

Rispondano i nostri morti, i nostri esuli, i nostri affamati all’insulto banale e stupido. E se tuttora non chiaramente può delinearsi il sacrificio dei comunisti italiani, per l’equivoco che socialisti e fascisti han generato, domani – per merito di queste due stesse correnti politiche – il nostro piccolo neonato partito si erigerà come una figura sanguinante, sola, eroica, illuminata del sorriso della gioia di aver tenuta alta e forte, in una prova d’amore sublime, la bandiera sbrindellata e sanguinante della Rivoluzione proletaria.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 7 agosto 1921
La politica del Partito Comunista mira diritta e precisa al suo scopo: la Rivoluzione
Partito Comunista d’Italia - Federazione Comunista Giovanile d’Italia
PER L’INQUADRAMENTO DELLE FORZE COMUNISTE

Nonostante le chiare e precise disposizioni diramate per la formazione dell’inquadramento comunista, che non rappresentano una improvvisazione sportiva, ma corrispondono ad un lavoro iniziato da molti mesi, specie nelle file della gioventù comunista, parecchi compagni e alcune organizzazioni del Partito insistono nel proporre e nell’attuare talvolta la partecipazione dei comunisti adulti e giovani ad altre formazioni di iniziativa estranea al nostro partito, come gli “Arditi del popolo”; o addirittura anziché porsi al lavoro nel senso indicato dagli organismi centrali, prendono l’iniziativa di costituire gruppi locali degli “Arditi del popolo”.

Si richiama questi compagni alla disciplina, e si deplora che militanti comunisti, che devono in ogni circostanza dar prova di sangue freddo e fermezza nella stessa misura della loro risolutezza rivoluzionaria, si lascino guidare da considerazioni romantiche e sentimentali, che possono indurre a gravi errori e pericolose conseguenze.

Ad illustrazione del perentorio richiamo alla disciplina ricordiamo a questi compagni le evidenti ragioni comuniste che – indipendentemente da fatti particolari che risultano agli organismi centrali responsabili della linea di condotta da adottare in situazioni aventi valore nazionale – conducono alle direttive da noi adottate.

L’inquadramento militare proletario, essendo l’estrema e più delicata forma di organizzazione della lotta di classe, deve realizzare il massimo della disciplina e deve essere a base di partito. La sua organizzazione deve strettamente dipendere da quella politica del partito di classe. Invece la organizzazione degli Arditi del popolo comporta la dipendenza da comandi la cui costituzione non è bene accertata, e la cui centrale nazionale, esistente malgrado non sia ancora agevole individuarne la origine, in un suo comunicato assumeva di essere al disopra dei partiti, ed invitava i partiti politici a disinteressarsi «dell’inquadramento tecnico militare del popolo lavoratore» il cui controllo e dirigenza resterebbe così affidato a poteri indefinibili e sottratto all’influenza del nostro partito. Il partito comunista è quello che per definizione si propone di inquadrare e dirigere l’azione rivoluzionaria delle masse; di qui una evidente e stridente incompatibilità.

Oltre alla questione della organizzazione e della disciplina vi è quella del programma. Gli “Arditi del popolo” si propongono a quanto sembra (sebbene in quel movimento si tenda a porre la costituzione dell’organizzazione più in evidenza che la definizione degli obiettivi e delle finalità, cosa di cui è facile intendere i pericoli) di realizzare la reazione proletaria agli eccessi del fascismo, coll’obiettivo di ristabilire “l’ordine e la normalità della vita sociale”. L’obiettivo dei comunisti è ben diverso: essi tendono a condurre la lotta proletaria fino alla vittoria rivoluzionaria; essi negano che prima della definizione di questo conflitto, portato nella odierna situazione storica alla estrema e risolutiva sua fase, si possa avere un assetto normale e pacifico della vita sociale; essi si pongono dal punto di vista dell’antitesi implacabile tra dittatura della reazione borghese e dittatura della rivoluzione proletaria. Questo esclude e dimostra insidiosa e disfattista ogni distinzione tra difensiva ed offensiva dei lavoratori, colpiti non solo dalla materiale violenza fascista ma anche da tutte le conseguenze della estrema esasperazione di un regime di sfruttamento e di oppressione, di cui la brutalità delle bande bianche non è che una delle manifestazioni inseparabile dalle altre.

Per queste considerazioni, che non dovrebbe essere necessario ricordare ai comunisti, e che la pratica conferma e confermerà sempre meglio, gli organi centrali del partito comunista hanno posto opera alla costituzione dell’indipendente inquadramento comunista proletario, e non si sono lasciati deviare dalla apparizione di altre iniziative, che, fino a quando agiranno nello stesso senso della nostra, non saranno certo considerate come avversarie, ma la cui maggiore popolarità apparente non ci sposterà dal compito specifico che dobbiamo assolvere contro tutta una serie di nemici e di falsi amici di oggi e di domani.

Non possiamo non deplorare che compagni comunisti si siano messi in comunicazione con gli iniziatori romani degli “Arditi del Popolo” per offrire l’opera loro e chiedere istruzioni. Se ciò dovesse ripetersi i più severi provvedimenti verrebbero adottati.

*

Il Comitato Esecutivo del partito comunista d’Italia e quello della Federazione Giovanile comunista d’Italia avvertono tutti i compagni e le organizzazioni comuniste che deve essere rigorosamente diffidato chiunque di persona o per corrispondenza proponga costituzioni o movimenti di reparti di arditi del popolo, assumendo di averne mandato da organi del partito comunista, o affermando che esistano intese contrastanti colle precise disposizioni già pubblicate. I compagni e le organizzazioni non ricevono disposizioni che per via interna di partito: ogni altro mezzo deve essere scartato e respinto.

I Comitati Esecutivi del Partito e della Federazione Giovanile.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 7 agosto 1921
Partito Comunista d’Italia - Sezione dell’Internazionale Comunista
Comunicato del C.E.
IL PARTITO COMUNISTA E LA “PACIFICAZIONE”

Il C.E. del P.C.I. a chiarire ogni equivoco derivante dalle notizie date negli ultimi giorni dalla stampa intorno alle iniziative per la cosidetta “pacificazione” e a definire bene tutte le responsabilità politiche, rende pubblico il seguente scambio di telegrammi.

     «Direzione Partito Socialista - Roma
«Milano 27 luglio 1921 - Urgente - Per troncare uso arbitrario da parte vostra del nome del nostro partito, diamovi comunicazione ufficiale diretta, chiedendone telegrafica conferma che non parteciperemo ad alcuna riunione partiti avente scopo pacificazione o disarmo. Esecutivo Partito Comunista».
     «Esecutivo Partito Comunista - Milano
     «Roma 28 luglio 1921 - Non siamo abituati a trucchi, nostra proposta non significa uso arbitrario nome vostro partito, né di nessun altro. Prendiamo atto vostra comunicazione ufficiale pervenutaci soltanto oggi che non parteciperete ad alcuna riunione partiti avente scopo pacificazione. Bacci»
Il C.E. del Partito Comunista aggiunge che alla Direzione del Partito Socialista doveva constare che il nostro partito non avrebbe partecipato alle iniziative in parola, sia per i comunicati ufficiali pubblici, sia per la comunicazione fattane molti giorni addietro dal gruppo parlamentare comunista a quello socialista che lo aveva formalmente invitato a pratiche del genere. Ciò astraendo da ogni considerazione sulla rapidità con cui coloro che pochi mesi fa erano nella Internazionale Comunista ne hanno dimenticate le elementari direttive programmatiche e tattiche.

Il Comitato Esecutivo.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 14 agosto 1921
L’ASSENTE

I lavoratori d’Italia già sono a conoscenza del testo dell’accordo socialfascista, che giustamente è stato da varie parti definito un “documento storico”. Esso ha, infatti, un grande significato politico ed apre la via ad una chiarificazione netta nella tattica del socialismo e del fascismo italiani.

V’è taluno il quale pargoleggia intorno alla formula della rivoluzione per “referendum”, o attende dalla conquista della metà più uno dei seggi negli istituti rappresentativi, la possibilità del mutamento di regime. Questo pinzòchero non s’è fatto vivo a gridare il suo sistema ed esigerne l’applicazione, nei giorni in cui i “capi” socialisti marcavano la “pacificazione”. E i “capi” si sono dichiarati interpreti della volontà delle masse. I “capi” del socialismo e del fascismo hanno preso impegno di imporre il rispetto del trattato alle masse. Un impegno simile ha preso la Confederazione Generale del Lavoro, organismo che si spiffera stolidamente apolitico. Mussolini – d’altro canto – ha detto che imporrà al fascismo l’osservanza del patto o stroncherà il fascismo che è creatura “sua”, cosa sua.

Nell’affanno dei “conciliatori” c’è molta presunzione, ma – soprattutto – una infinita ignoranza. Il domani prossimo dirà se la situazione di tormento del proletariato sia stata originata dal pugno di Mussolini; se il “cozzo” fra le classi sia una invenzione artificiosa di Bacci o di Pasella.

*

Intorno al tavolo di De Nicola v’erano degli assenti... presenti in ispirito; ma vi fu un assente lontano. È questo assente che oggi diviene il perno della attività rivoluzionaria del proletariato italiano, ed il bersaglio della legge punitiva dello Stato borghese rafforzata dal richiamo solidale di tutti i partiti politici. Noi siamo l’Assente: il Partito Comunista. Siamo stati isolati, perché volemmo isolarci. E non siamo in istupore.

Perché il Partito Socialista accedette alle trattative per la pacificazione e concluse il trattato? Le ragioni le abbiamo sentite ripetere: bisognava ritornare alla normalità, al rispetto della legge.

Lo strazio dei profughi e dei feriti, dei morti e dei perseguitati esulcerava il cuore femmineo dei direttori del partito socialista. L’attacco in forze del fascismo, per di più appoggiato dallo Stato, minacciava le organizzazioni proletarie, le conquiste del proletariato. Il partito socialista, non attrezzatoattrezzabile per la difesa e l’offesa armate, non poteva perdere il suo patrimonio per la bella faccia degli assoldati bianchi, e vide con primo [vivo] piacere l’inizio di trattative che portarono alla stipulazione di una tregua.

In tali somme ragioni noi vedemmo ancora una volta la disfatta del massimalismo italiano. I sedicenti massimalisti, rabbiosi nell’impotenza, urlino ancora la loro ira contro di noi. I fatti possono non commentarsi: la loro eloquenza è tale che nessuna critica o polemica può vieppiù chiarirla. Non è sufficiente a smontare la nostra “critica” il ripeterci: “Cosa avete fatto voi?”.

Tale domanda ha un contenuto sì scarsamente socialista e marxista, per lo meno quanto le ragioni poste a giustificare il trattato di pacificazione.

Dopo Livorno, dopo la sarabanda delle parole grosse e vuote, è spuntata su una teoria che sembrava sepolta. Si è detto che il socialismo è contro la violenza; ma poiché tale formula tradiva apertamente i postulati del massimalismo, la si corresse serratianamente nella formula insulsa ed insignificante: “Il socialismo è contro la violenza individuale”.

Questa, peraltro, avrebbe dovuto supporre che il socialismo italiano accettava il concetto di una violenza collettiva, di masse, la quale vuole essere preparata ed educata. Il socialismo nostrano si è ben guardato di militarizzare il partito e le masse ad esso aderenti, secondo i principi della Internazionale Comunista che esso dice ogni mattina di accettare.

C’era poi qualcosa... da perdere nella lotta contro i bianchi. C’erano le Cooperative, le mutue e le banche, i Comuni e le Provincie in pericolo. Il socialismo dottrinario italiano, che ci fece tanto ridere a Livorno e dopo allorché rilevava l’eresia della scissione, ripetendoci le parole di Marx: Proletari di tutto il mondo unitevi!, non ha ricordato che lo stesso Marx ha pure scritto che il proletariato nulla ha da perdere, nel cozzo rivoluzionario con la borghesia, fuorché le sue catene. Ma queste son fanfaluche del vecchio Marx per le quali Serrati ha sostenuto una lotta ridicola con i comunisti della Internazionale, allorché affermava che D’Aragona (tutto il tesoro delle conquiste sindacali e cooperativistiche) era necessario per l’indomani della rivoluzione e perciò doveva sin da oggi rimanere nelle file del proletariato... rivoluzionario.

È tutta una mentalità antirivoluzionaria, coerente alle azioni che provoca ed accetta, equivoca per il demagogismo che persegue ed adula, quella dei socialisti italiani, che oggi li ha condotti dinanzi all’arbitro De Nicola, Presidente della Camera dei Deputati. La meraviglia per il fatto che lo Stato appoggiò... il “fascismo”, e quindi mise in posizione di inferiorità il proletariato, dimostra che i socialisti, i “capi”, non hanno preparazione culturale, e pensano che possa concepirsi lo “stato-arbitro”, lo “stato al disopra dei partiti”, lo “stato moderatore” ed altre simili amenità della filosofia democratica.

Eppure, Giovanni Bacci, che tanto si è spaventato del connubio fra lo Stato ed il fascismo (quali non potevano non essere una cosa sola) è stato l’editore di quel magnifico libro di Lenin Stato e Rivoluzione, che non ha letto, o non ha capito, o non ne condivide i concetti marxistici contenuti. In ognuno dei tre casi il segretario massimalista del P.S.I., massimalista, è da deplorarsi.

*

Noi non vogliamo chiosare il testo del trattato. Noi commentiamo superficialmente il fatto: la stipulazione del trattato. Il quale ha un significato nello spirito ben più profondo di quel che non appaia nella forma. Il documento, come atto politico, è l’esecuzione capitale del rivoluzionarismo parolaio di Bologna e di Livorno: e noi confidiamo che esso varrà, assai più efficacemente della nostra critica, a squassare il Barnum.

A noi importa fissare chiaramente il contenuto profondamente anticomunista del documento, quello che è stato rilevato dal Presidente del Consiglio nella nota circolare ai Prefetti. Alla pubblicazione del testo del trattato ha fatto seguito la pubblicazione di tre comunicati ufficiali: uno della Direzione del P.S.I., uno della Confederazione Generale del Lavoro, uno del Presidente del Consiglio on. Bonomi. Mussolini ha scritto vari articoli sull’argomento, chiedendo al suoi seguaci l’osservanza del patto, ma il C.C. dei Fasci non ha ancora detto la sua parola.

Ad ogni modo gli articoli di Mussolini ed i comunicati di cui sopra si integrano e si completano. Il concetto ispiratore degli appelli alle masse o... alle autorità politiche è in ciò: il patto firmato a Roma impegna i partiti alla pacificazione ed al disarmo. Qui... è l’errore. Ce ne duole per il signor Bonomi e per i suoi Prefetti, ma noi abbiamo fatto a meno di recarci a Roma non già per evitare la noia o la spesa di viaggio, bensì perché sappiamo che le classi, né oggi né domani né mai potranno conciliarsi e pacificarsi, e che l’illusione di una tregua nella guerra di classe toglie al partito politico della classe lavoratrice il diritto di condurre il proletariato alla rivoluzione.

Noi siamo rimasti assenti perché i princìpi e la tattica dei comunisti non consentono tregue o temperamenti alla lotta delle classi, perché dobbiamo interpretare storicamente, anche a costo di momentanee impopolarità, la somma di aspirazioni politiche ed economiche delle classi lavoratrici. È naturale che lo Stato veda con simpatia una campagna quale quella condotta dai socialisti per il ripristino della legalità, per il ritorno al rispetto della legge. Ma noi che siamo contro la legge e sappiamo che il concetto di normalità in regime borghese equivale al rassodarsi dell’autorità della classe dominante a danno delle conquiste proletarie e della preparazione rivoluzionaria del proletariato, noi dobbiamo essere banditi dalla società borghese, nemici come le siamo, e dei suoi organi e dei suoi complici.

Il patto di pacificazione, impegnandone i partiti e gli organismi firmatari al rispetto, chiaramente indica i responsabili prossimi o lontani della difesa proletaria contro le multiformi angherie della classe borghese. Non importa se dietro questi “responsabili” andranno ad irreggimentarsi i lavoratori regolarmente muniti della tessera della Confederazione Generale del Lavoro o quei proletari che non seppero staccarsi dal Partito fedifrago. I “capi” hanno salvato la loro posizione personale: se domani il proletariato sfuggisse dalle loro mani essi tenterebbero di dimostrare che l’avversario mancò all’osservazione di uno dei “punti” del concordato, che la tregua fu passeggera, che il nemico tradì la firma data, ecc...

Noi abbiamo anche il dovere di evitare questa “mossa “ futura. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, con la sua recente circolare, ci fa un ottimo servizio. Egli indica appunto in qual modo devesi colpire l’Assente, dopo che i “pacificatori” hanno firmato il documento.

*

Ma l’Assente dice a socialisti ed a fascisti, al Governo ed a tutti i partiti della borghesia quanto segue:
     Il programma comunista, e la tattica dei comunisti tanto nei confronti della classe borghese quanto verso i socialtraditori, restano immutati.
     Il Partito Comunista continua, legalmente ed illegalmente, la sua propaganda intesa alla preparazione rivoluzionaria del proletariato, ed al suo inquadramento.
     L’azione dei partiti comunisti mira al rovesciamento dello Stato borghese, per mezzo della insurrezione della classe lavoratrice.

Non è dimostrato che la soppressione dei capi comunisti nuoccia gravemente all’avvenire della rivoluzione. Socialisti e governo, fascisti e polizia facciano quanto più loro aggrada per toglierci la libertà di propaganda e di azione. Essi ne hanno il diritto, e – dal loro punto di vista – ne hanno il dovere. Sarebbe strano che lasciassero impunemente ad un partito la libertà di attentare alla vita dello Stato borghese. Ma noi chiaramente dichiariamo ai traditori di ieri e di oggi della classe lavoratrice, a Bonomi, a Mussolini ed a Bacci, che noi ci infischiamo in modo superlativo delle loro imbecillità e delle loro sanzioni punitive. Essi si conoscono assai bene scambievolmente. Mussolini espulse nel 1912 Bonomi dal P.S.I., Bacci espulse nel 1914 Mussolini, noi abbiamo cacciato fuori Bacci dall’Internazionale Comunista.

Ciò che Mussolini disse a suo tempo di Bonomi, Bacci disse di Mussolini più tardi. Questi traditori di razza hanno oggi il compito di infierire contro il proletariato rivoluzionario d’Italia.

Noi ce ne infischiamo delle leggi che essi valorizzano e di quelle che essi formulano. Noi siamo contro la loro legge. È per questo che siamo stati assenti dal turpe mercato. È per questo che rimaniamo soli, pochi e forti, fortissimi, invincibili.

Perché non vogliamo la tregua dei vinti, perché noi non imporremo la tregua ai vili. Così parla l’Assente. Il quale aspetta che le spie di via del Seminario lo additino al mercenario ed al poliziotto.
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Signor Baratono, abbiamo letta la mozione da voi stesa in nome dei “massimalisti” unitari al congresso di Roma! Coraggio! La vostra viltà è senza nome!