Partito Comunista Internazionale Indice La Teoria marxista della Conoscenza
 

Riassunto del rapporto alla riunione di Piombino 21-22 settembre 1957 [RG20]
Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica nella classica monolitica costruzione teorica del marxismo
La guerra dottrinale tra il marxismo e l’economia borghese
Il Programma Comunista n. 19, 1957
 
Dinamica della forma capitalista

Un punto cruciale antico e moderno della battaglia intorno alle teorie del movimento rivoluzionario proletario è quello se Marx abbia, nelle sue opere e in quella tra esse monumentale, seppur incompiuta alla sua morte, Il Capitale, avuto per obiettivo la sola descrizione delle leggi che governano l’economia capitalistica, o non anche la presentazione alle masse lottanti del chiaro programma dell’organizzazione sociale che uscirà dalla rivoluzione operaia: il socialismo, il comunismo.

La posizione della sinistra marxista radicale, ossia dei soli marxisti che hanno diritto a questo aggettivo (sia proprio o meno il derivare aggettivi da nomi di persone) è stata sempre quella che nell’opera di Marx sta in primo piano – per dirla fuori da tutti gli equivoci in modo crudo – la descrizione dei caratteri della società comunista.

La vecchia obiezione che si richiama all’antitesi tra socialismo utopistico e socialismo scientifico, in cui è una delle corrette espressioni della potenza originale del marxismo è a questo proposito adoperata su di un piano falso.

Utopismo è il "proporre", partendo da una costruzione fatta nella testa dell’autore e dettata da pretesa razionalità, una forma nuova della società che si dovrebbe attuare, attraverso l’adesione degli altri uomini pensanti alla propaganda di quelle avvedute proposte, o nella più deteriore forma, attraverso una decisione dei poteri, dei governi attuali.

Socialismo scientifico non è – se non per gli ex socialisti che sono imborghesiti fino al midollo spinale – disinteressarsi delle caratteristiche della società futura e tacere sulle loro "discriminazioni" da quelle della forma sociale presente, e limitarsi allo studio descrittivo delle leggi di questa forma, dell’attuale economia capitalistica. Socialismo scientifico è il prevedere non secondo piani razionali né preferenze sentimentali o morali, tanto gli svolgimenti dei fenomeni della forma sociale borghese quanto i processi storici attraverso i quali passeranno, e la nuova e diversa dinamica delle forze economiche che ad essi seguirà, non solo, ma si contrapporrà, nella dialettica della ricerca dottrinale e del combattimento rivoluzionario.

Col cadere del condizionamento di questi trapassi al fatto che la loro necessità sia entrata nella testa di tutti, o anche dei più, e colla nozione esatta del problema classe rivoluzionaria, partito rivoluzionario – nozione il cui nome è: dittatura – solo con tanto muore l’utopismo e con esso muore il suo deforme fratellastro: il socialdemocratismo!

Da decenni e decenni la nostra scuola storica, e da vari anni la nostra piccola attuale organizzazione di lavoro, lo ha dimostrato con opera assidua e con citazioni organiche e dialettiche, non libresche o peggio orecchiate, dei testi classici marxisti antichi e recenti, e specialmente dello stesso Capitale che tutti, fino al pauroso "ateorico" Giuseppe Stalin, degradano e trattano di fredda economia descrittiva, laddove dalla prima all’ultima pagina lo percorse il grido rivoluzionario e la michelangiolesca scultura dello scopo della Rivoluzione. Si tratta di leggerlo come va letto, ossia vivendolo e combattendo ad ogni passo le forme borghesi reali ed ideali contro di cui spietato si avventa senza sosta alcuna.

Fare scienza descrittiva vuol dire accettare come statico, eterno e permanente il quadro dei fatti che si considerano: fare dialettica e programma rivoluzionario vuol dire trarre dai fatti la scienza della loro dinamica inesausta.

Sospinti dal fatto che la descrizione marxista del capitalismo è inseparabile dal calcolo dell’orbita che esso descrive nella storia, gli economisti borghesi si sono per un secolo dati a varare descrizioni diverse e opposte, dalle cui leggi "scientifiche" possa emergere la possibilità di lunga ed eterna vita della forma capitale – id est della forma mercato.

L’inferiorità di questi molteplici tentativi sta nel fatto che essi compiono acrobazie spesso notevoli per dare questa lettura dei fenomeni che presenta il capitalismo contemporaneo, ossia il capitalismo bell’e fatto; ma nulla sanno rispondere o potrebbero rispondere a quella parte gigante della costruzione di Marx che dimostra come il capitalismo – ossia il capitale – è nato e si è formato storicamente, e come ha sostituito precedenti forme della organizzazione sociale.

Il solito giochetto sugli "indici" forniti dalla statistica corrente – a cui i russi hanno così presto e così a fondo abboccato – suppone, in tutti i suoi calcoli e formule fasulle, un grande falso: che mercato e capitale siano sempre esistiti, dalla creazione del mondo.

Marx all’opposto in ogni dimostrazione e in ogni capitolo ritorna da par suo sulla storica origine delle forme che tratta: ciò dai primi classici capitoli del completo Libro primo, a tutti quelli delle parti del secondo e del terzo che ci sono state conservate. Ogni volta che egli enuncia come i caratteri della produzione capitalistica non sono originali ("naturali"), ma acquisiti, egli dimostra – decine di volte esplicitamente e centinaia di volte implicitamente – che quei caratteri sono caduchi e che la storia vedrà la scomparsa della forma capitale.
 

I primi studi per Il Capitale

Nella riunione furono largamente utilizzati i materiali che esistono nella postuma opera di Marx, edita a cura dell’Istituto Sovietico, che raccoglie le prime stesure dei suoi testi, anche prima dell’edizione della Critica dell’economia politica, avvenuta in una redazione completa dell’autore nel 1859, e poi trasfusa nei primi capitoli del Primo Libro, apparso nel 1867.

Il gruppo di Parigi ha fornito le traduzioni di passaggi molto importanti dal testo tedesco. Questo, stampato a Berlino nel 1953 dalla edizione di Mosca del 1939-41, col titolo Fondamenti della critica dell’economia politica riproduce fedelmente un manoscritto di pugno di Marx in quaderni del 1857-58 costituente la prima stesura in bozza dell’opera in preparazione, di cui solo una parte prese la forma della pubblicazione legale del 1859. In tutto il rimanente del libro attuale, il cui titolo è stato apposto dagli editori e non dall’autore, vi sono stesure di partenza delle parti più diverse del Capitale e perfino trattazioni che non hanno trovato posto in esso e il cui sviluppo si trova sparso in tutta la letteratura marxista.

A mettere in risalto la stragrande importanza di questo testo giovanile (ma già ben successivo sia al Manifesto dei Comunisti che all’Antiproudhon, ossia corrispondente ad un’epoca in cui la teoria economico-sociale era già in forma definitiva nella mente di Marx – come dei compilatori di questi nostri lavoretti dopo un altro secolo esattamente), valsero alcuni rilievi di carattere organizzativo. Nella bozza Marx scrive senza porsi alcuna limitazione per ragioni editoriali, e quindi non ha alcun motivo di mascherare (nel senso di rimettersi ad una lettura particolarmente avveduta e sagace) parti del suo pensiero. Quando invece pensò alla stesura definitiva per la stampa, egli – che sempre ebbe di mira la pubblicazione in Germania e nella lingua tedesca dell’originale – fu costretto, anche dalle gravi difficoltà economiche che mai gli dettero respiro, a fare i conti colla censura in quei tempi rigorosa. Egli quindi rese meno espliciti, senza mai nulla scientificamente sacrificare, i passaggi politici ed agitatori.

D’altra parte come egli aveva seriamente lavorato sugli economisti ortodossi, così calcolava che la sua opera di scienza giungesse, oltre che agli operai e ai compagni di fede, anche ai contraddittori scientifici, che indubbiamente un secolo fa non erano la gente spregevole arrivista e venduta di oggi. Egli lasciò quindi che in un primo tempo si pensasse che si trattava di uno studio scientifico nel senso neutro – ma decente – del termine; il che non tolse che scrivesse le innumeri pagine di fiamma che è dato leggere a chi ha fatto del libro materiale non per una biblioteca rinchiusa ma per una vita di lotta, e sa adagiare su quelle pagine le tempeste che seguirono di tanti decenni, e seguiranno ancora.

Sono quindi preziose le pagine della bozza, del borro, piene di passi non limati, di parole in tutte le lingue, di note monche e spezzate, perché utili a irrevocabilmente confermare quanto nei testi "ufficiali" abbiamo da mezzo secolo letto e quanto abbiamo, noi e i nostri compagni di partito e scuola, centinaia di volte senza l’ombra del dubbio affermato, in modo da avere materia per ogni esitante, nemico, lontano e forse talvolta vicino, cui infine possiamo farla andare giù con enunciazioni originali – e perfino passate per il vaglio di una organizzazione maneggiata da seguaci di tutte le deformazioni – martellanti, chiare, evidenti "à créver les yeux"!
 

Prime capitolazioni del nemico ideologico

Non tarderemo ad attingere alla miniera che abbiamo presentata. E da essa trarremo ancora quel filone principe, in cui è dato vedere come a tutte le critiche degli scienziati "posteriori" era già stata data un’anticipata risposta, e trarremo conferma all’assunto svolto in altre riunioni (vedi Asti, Milano, ecc.) che le teorie dei superatori di Marx sono rimasticature di vecchissime posizioni su cui Marx stesso era già passato trionfante.

Vogliamo mostrare che nelle versioni di economisti ed istituti di ricerca economica del tutto votati alla difesa ed all’apologia del capitalismo, nella stessa terminologia, nella stessa presentazione dei fenomeni economici dell’attuale società, si vanno sempre più largamente adottando espressioni non solo, ma anche metodi di calcolo che originariamente sono stati stabiliti nell’economia di Marx.

Fu mostrato alla riunione un interessante fascicolo-strenna (per i miliardari lo è) della rivista capitalista americana Fortune. Esso ha il titolo a lettere di scatola: Fortune 500. Cosa sono le 500? Sono le 500 più grandi intraprese capitalistiche degli Stati Uniti, elencate quest’anno, come nei precedenti, nell’ordine dato dalla grandezza del relativo capitale.

Più volte abbiamo faticato a convincere anche vecchi marxisti professi che per noi il capitale non è misurato dalla grandezza dei mezzi di produzione, ossia dal valore delle macchine, degli utensili, delle officine, delle scorte di materie prime semilavorate o di prodotti invenduti (stock, inventari, merci a magazzino). Il capitale è per noi la somma delle merci vendute in un ciclo, e sia pure l’anno solare, la somma dei prodotti nell’anno di lavorazione. E quando cerchiamo il tasso di profitto di questo capitale, mettiamo in rapporto ad esso il guadagno dell’impresa, che nella nostra terminologia è il plusvalore. In rapporto, cioè, non al valore degli impianti di cui l’impresa ha la proprietà, bensì proprio al valore di mercato dei prodotti, ossia al volume delle vendite, quello che in Italia, come tante volte detto, si chiama il "fatturato".

Il quadro dei 500 mostri contiene infatti questi dati: nome e sede della società; "sales", o vendite, o fatturato; "assets" ossia attivo del bilancio patrimoniale, e quindi valore degli stabilimenti e macchine; graduatoria secondo questa cifra, mentre la graduatoria base è secondo le "sales"; profitti netti; capitale azionario (al corso di borsa); numero azionisti; numero dei dipendenti; tasso del profitto in percentuale delle vendite; tasso del profitto in percentuale del capitale azionario.

Non figura nemmeno il tasso di profitto in percentuale degli assets ossia del valore patrimoniale impianti.

Per fissare le idee diremo che la capofila è la General Motors di Detroit, massima industria automobilistica che confrontammo nel Dialogato colla nostra FIAT. Le vendite 1956 sono state 10.796 milioni di dollari, ossia quasi 11 bilioni, pari a circa 6.750 miliardi di lire italiane. Anche per il 1956, venti FIAT!

Il personale è stato di 600.000 unità contro le circa 75.000 della FIAT, ossia otto FIAT. Ripetiamo che la produttività si mantiene, in tempo lavoro se non in spesa salario (non abbiamo tale dato) a due volte e mezzo quella della nostra massima azienda.

Il profitto netto è stato di 847 milioni di dollari, ossia rispetto alla cifra delle vendite del 7,9%. Essendo il capitale azionario solo 4.581 milioni di dollari, il tasso del profitto su questo sale al 18,5%.

Il valore degli impianti, o assets, è 7.400 milioni, ossia più del capitale azionario, ma molto meno delle sales, o vendite.

La mancanza della spesa salari e stipendi ci impedisce di calcolare come nel caso FIAT il capitale variabile e il saggio del plusvalore. Più ce lo impedirebbe la mancanza della cifra di investimenti in nuovo capitale, prelevati prima di distribuire il profitto netto indicato, ma certo notevoli anche per il 1957. Una volta di più vediamo come può benissimo essere alto il saggio di plusvalore e tendere a decrescere quello del profitto.

Ciò che è notevole è come gli stessi organi capitalisti non portano in conto il capitale fisso, ma solo quello che circola e si trasfonde nella massa del prodotto; il che è in strano contrasto con l’assunto delle varie scuole economiche moderne (Keynes, scuole del benessere o welfare) che vogliono introdurre come fattore della produzione di plusvalore (per essi dell’aumento del reddito nazionale) a fianco del fattore umano, lavoro vivente di Marx, quello della ricchezza formata o capitale fisso, o lavoro morto, di Marx. Ed altra capitolazione ideologica si ha quando nel calcolare il reddito nazionale, somma menzognera dei guadagni capitalisti con le remunerazioni del lavoro a tempo, si adopera l’espressione "valore aggiunto nell’anno dal lavoro", col dedurre dal valore della produzione (capitale finale per Marx) quello delle materie prime ed ausiliarie ed i rinnovi di impianti per il logorio annuo (capitale costante di Marx). Quello che in tale caso rimane è la somma del capitale variabile col plusvalore-profitto; ed ammettere che tutto questo è stato "aggiunto dal lavoro", vuol dire ammettere con Marx che la ricchezza morta, personale e nazionale che essa sia, non figlia nessun aumento, incremento, differenziale di valore, ma al più conserva quello che vi era in forma congelata; mentre è solo il lavoro umano dal cui ciclo sorgono gli aumenti di capitale, valore, ricchezza.
 

Chiare posizioni di Marx

Rendiamo chiaro con una sola citazione di Marx il fatto che egli e noi non portiamo in conto e bilancio il capitale impianti, la ricchezza morta, e con ciò già stabiliamo che la stessa deve essere a disposizione della società attiva e non monopolio di classe privilegiata, che se ne avvale per godere di altrui lavoro. In questo passaggio di elementare aritmetica sta già tutta la critica della società borghese e la previsione della sua scomparsa.

Libro primo, Capitolo nono, paragrafo 1. Dopo aver stabilito un esempio in cui 410 sterline di capitale costante si sommano a 90 sterline di salario e 90 di plusvalore, formando in tutto 590 sterline di prodotto, Marx dice:

«Ciò che si confronta col valore del prodotto sono i valori degli elementi che sono stati consumati nelle sua formazione, è il valore degli elementi di produzione consumati nella sua formazione. Noi abbiamo visto che la parte del capitale costante impiegato, che consiste in strumenti di lavoro, non trasmette al prodotto che una parte del proprio valore, mentre l’altra parte permane nella sua antica forma. Siccome questa non adempie nessun compito nella formazione del valore, bisogna farne completa astrazione. La sua entrata in linea di conto non cambierebbe nulla. Poniamo che il capitale costante di 410 sterline si componga di 312 per materie prime, 44 per materie ausiliarie e 54 di usura delle macchine; mentre tutto il valore dell’impianto meccanico adoperato ammonti a 1.054 sterline. Come anticipazione fatta noi non calcoliamo che il valore di 54 sterline perduto dalla macchina nel suo funzionamento e per ciò stesso trasmesso al prodotto. Se noi volessimo contare le 1.000 sterline che continuano ad esistere sotto la loro antica forma di macchina a vapore o altro, ci occorrerebbe computarle due volte, dal lato del valore anticipato come da quello del valore del prodotto ottenuto. Allora l’anticipazione non sarebbe 500, ma 1.500, il ricavo finale 1.590 e non 590, e in tutti e due i casi il plusvalore risulterebbe lo stesso, ossia 90 sterline. Sotto il nome di capitale costante anticipato per la produzione di valore, che è quanto qui ci interessa, noi dunque non comprendiamo mai altro che la parte di valore degli strumenti che si consuma nel corso della produzione».

E qui Marx annota che perfino Malthus ammette questo, colle parole della sua opera Principii di economia politica in cui dice:

«Se calcoliamo il valore del capitale fisso impiegato come facente parte delle anticipazioni, dobbiamo alla fine dell’anno contare il valore persistente di tale capitale come facente parte di ciò che annualmente riviene in entrata».

Importa che un tale punto sia entrato in testa al Fortune Directory e... ai comunisti marxisti, dato che Keynes, Spengler e compagnia hanno la pretesa che anche la proprietà fissa, e anche il capitale moneta "abbiano diritto" a frazioni del reddito attivo della produzione sociale. E per la proprietà terra lo sosteneva anche Malthus. Per 150 anni quasi, tutta la questione è ferma lì.
 

Il legame tra lavoro e valore

A un passo delle edizioni universalmente note ed "ufficiali" aggiungiamone un altro che vale a fare intendere altro punto su cui si equivoca implicitamente e spesso senza accorgersene.

Dato che la conclusione dell’anatomia che Marx fa della produzione borghese è la teoria del plusvalore molti pensano che per aggiustare tutto basti dire: tutto il reddito sociale è plusvalore; se ora lo distribuiamo tra quelli solo che hanno lavorato, tutto il comunismo è bello e costruito.

Una formulazione diversa della stessa svista può essere questa: Marx ha dimostrato valida la legge del valore, ossia il fatto che il valore a cui mediamente una merce viene scambiata dipende dal lavoro sociale che occorre a produrla. Ma ha pure dimostrato che malgrado tutti questi contratti in pareggio il venditore di forza-lavoro, ossia il proletario, riceve molto meno di quanto ha fornito. Ed allora il socialismo arriva quando si paga la forza-lavoro al suo vero valore, e così si "abolisce" l’estorsione di plusvalore dall’operaio.

Marx ha tante volte mostrato che questo non è che sciocco immediatismo, e ultimamente lo abbiamo sviluppato a proposito della critica al programma di Gotha. Quella tesi insulsa equivale ad altra formula, quella di Stalin: nel socialismo vige la legge del valore.

La tesi giusta è che nel socialismo il lavoro non ha valore, e non si paga. Non si deduce il valore dal lavoro, per nessuna merce, e, tanto meno per la forza umana di lavoro. Resta, giusta un apparente paradosso, il plusvalore, ossia il dono del lavoro, e muore il pagamento del lavoro, espressione millenaria di servitù e di abiezione.

Facciamo anche dire questo al testo ufficiale e notorio di Marx.

Libro secondo, Capitolo primo, ”Movimento circolatorio del Capitale-Denaro”.

«Denaro-Lavoro: questo passaggio è generalmente considerato come la caratteristica del modo capitalista di produzione. Ma non per il motivo che la compera della forza di lavoro costituisce un contratto di compra-vendita, in cui si stipuli la consegna di una quantità di lavoro maggiore di quella necessaria per rimpiazzare il prezzo della forza di lavoro, il salario, cioè la fornitura di sopralavoro, condizione fondamentale della capitalizzazione del valore anticipato, o, il che vuol dire lo stesso, della produzione di plusvalore».

No, il motivo non è affatto questo, ma... «risiede nella forma stessa [del contratto], nel fatto che, sotto forma di salario, il lavoro viene comperato con denaro, nel che consiste la forma distintiva della economia monetaria [...] Ciò che è caratteristico non è che la mercanzia forza di lavoro possa comprarsi, ma che la forza di lavoro possa apparire come merce».

Il socialismo non consiste nel sostituire con un contratto giusto l’attuale ingiusto contratto salariale. Il socialismo consiste nell’annullare il rapporto lavoro-denaro. Il salario non va innalzato, ma soppresso. E questo è possibile solo quando la transazione monetaria sia scomparsa non solo tra denaro e forza di lavoro, ma soprattutto – e anche prima (vedi resoconto di Pentecoste sulla critica di Marx a Gotha) – tra merce e merce quali che esse siano.

Quando vige lo scambio tra equivalenti e quando il valore si calcola dal lavoro, si naviga in piena palude capitalista. Il marxismo fa sue queste leggi in quanto spiega e descrive la società borghese; e ad ogni passo avanza il programma della società che seguirà al suo abbattimento e nel quale lo scambio mercantile e monetario, la forma salariale, la legge del valore-lavoro saranno, come Engels disse dello Stato, passati nel museo dei vecchiumi.

La potenza della dialettica rivoluzionaria balza tutta dalla lettura del più vecchio testo di Marx, perché in esso l’"Uomo Sociale", servo sotto il Capitale, si eleva spezzando i limiti della legge del valore; e la ricchezza morta, l’odierno capitale fisso, che nella società di classi non genera valore, ma dà la forza per rubarne, pervaso di nuova vita attinta nelle radici delle passate generazioni e nelle maledizioni stesse degli schiavi e dei servi di allora, si leverà di fronte alla specie umana come fonte inesauribile di benessere e di alta gioia.

Le leggi scientifiche della società nuova si pongono contro quelle della presente in un irriducibile contrasto e le negano formula per formula e parola per parola: noi difendiamo la nozione delle vere e non false leggi della dinamica produttiva capitalistica, non perché tali leggi debbano sopravvivere, ma perché quella chiara nozione è l’arma prima per lo sterminio della infame macchina sociale borghese. Si deve bene studiare la struttura e il moto di una macchina, che si vuole al momento dato della storia saper far saltare, sgombrando il cammino anche dai suoi sinistri rottami.