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Le probabilità della Rivoluzione
(Comunismo - n. 35 del 1993)
 
 
 
 
Seguiva l’esposto sul tema Le probabilità della Rivoluzione, proseguendo il nostro lavoro permanente sui rapporti tra partito e classe, a proposito delle possibilità storiche e concrete della rivoluzione comunista. Dopo il cosiddetto «crollo del socialismo reale», abbiamo considerato che solo noi, contro la miope politica ex-opportunistica di varia gradazione e versione, siamo in grado di antivedere nella attuale crisi generale dei rapporti tra le classi le condizioni che riporteranno il proletariato sul terreno della lotta aperta contro lo Stato della borghesia.

Non rinunciando mai al nostro criterio scientifico di valutare i problemi sociali, abbiamo sostenuto che soltanto mantenendoci fermi sulla nostra dottrina è possibile una lettura attendibile della crisi, che le variegate interpretazioni volgari non riescono a decifrare, preferendo versioni di comodo, quando apertamente nichilistiche, quando superficiali e dettate dall’illusione di uscirne a buon mercato.

Abbiamo sottolineato come lo stesso concetto di probabilità non sia mai stato correttamente fondato e formalizzato, tenuto conto della incertezza intrinseca e della ambiguità del concetto. La probabilità di qualsiasi evento è intesa come il rapporto tra il numero di casi favorevoli alla realizzazione dell’evento stesso e il numero dei casi supposti egualmente probabili. Siamo di fronte ad una definizione che tecnicamente si dice «circolare». Lo stesso matematico Poincaré, contraddetto da Lenin in Materialismo ed Empiriocriticismo, ammetteva di non vedere vie d’uscita: «non è affatto possibile dare una definizione soddisfacente della probabilità. C’è in essa qualcosa di misterioso, di inaccessibile per il matematico».

Questo sta accadendo all’ideologia borghese ed ex-opportunista. Si sta tentando di fare dell’ignoranza un argomento, vecchio modo di confondere le idee e di imboccare la scorciatoia.

La verità è per noi, che, ad ondate, non si fa in tempo a celebrare l’affossamento d’ogni illusione ed utopia comunista che rispunta la famigerata lotta di classe, non solo nell’anomala ed ammalata Italietta, ma nel cuore della stessa corrusca Germania appena unificata.

Per questo noi rimaniamo ancorati ad una visione complessiva dello sviluppo delle contraddizioni tra le moderne classi sociali, respingendo il modello per il quale alle cause non seguirebbero effetti, con la conseguenza della regressione al delirio infantile in cui vige la regola della reversibilità degli effetti stessi, della revoca d’ogni «responsabilità» di forze, partiti, capi ed altre nomenclature.

Così, è stato sottolineato nel rapporto, siamo convinti che la nostra azione, senza le forzature d’ogni genere di volontarismo, è indispensabile perché la classe riprenda il suo cammino e la sua direzione storica. Il marchio dell’azione di classe viene impresso nella realtà dalla lotta, secondo l’intensità ed il ritmo proprio delle fasi, delle aree di sviluppo, delle forze produttive e dei correlati rapporti di produzione

Solo il partito è in grado di tenere il filo; nessun’altra mitica Arianna è in grado di sostituirlo nella sua funzione.

Fuori da questi cardini non ci sono che i sogni dei visionari da strapazzo. Il nostro futuro, il comunismo, è al contrario un «sogno» che ci permette di tenere il contatto col presente e di capire la lezione del passato (Il Partito Comunista, n. 211 del 1993, Sintesi del Rapporto).

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Se stessimo al gioco della «democrazia» e delle mutevoli correnti d’opinione, quante probabilità avrebbe oggi la Rivoluzione proletaria? Diciamo la verità: nessuna. Ma, come nel passato, noi non ci atteniamo agli umori del momento, bensì alla «necessità» storica, alle pressioni della lotta incessante tra le classi sociali, che sono il motore dei grandi eventi e dei grandi cambiamenti.

Molto più semplicemente intendiamo ribadire che, per quanto appaia folle, mai come oggi, dopo i rovesci del «socialismo reale» e la crisi strutturale del capitalismo occidentale, la Rivoluzione proletaria rimane la soluzione e la chiave dell’avvenire.

È vero che nella confusione imperante e nella babele delle lingue l’intellettualismo furbo e becero se ne sta alla larga dall’impiego di termini forti come Scienza, Determinismo, Necessità, e preferisce i più aleatori e leggeri come probabilità, probabilismo, fluidità sociale, pensiero debole e così via.

Noi ci manteniamo fermi alla nostra dottrina, termine che perfino le chiese sembrano ripudiare, tanto appare rigido ed insopportabile. Pure non ci impressiona la possibilità di misurarci con le teorie del probabilismo, sia matematico sia sociale, perché la loro debolezza è pari al fascino discreto che esercita sulle menti fiacche e sulla gran voglia di smobilitazione propria delle epoche come l’attuale di crisi, che aspettiamo e preconizziamo da almeno 70 anni.

Vediamo dunque di chiarire.

Cos’è la probabilità? Per molto tempo, fino ancora all’inizio del nostro secolo si diceva che la probabilità di un evento è il rapporto tra il numero di casi favorevoli alla realizzazione di quell’evento e il numero totale dei casi possibili, supposti tutti egualmente probabili. Purtroppo siamo di fronte ad una definizione che tecnicamente si dice «circolare». Che significa infatti «egualmente probabili»? Che hanno «probabilità uguali».

Come si vede abbiamo qualche ragione a non fidarci della logica puramente formale, anche se ne siamo necessariamente curiosi. Di fronte a questa situazione anche il grande matematico Poincaré non vedeva vie d’uscita: «non è affatto possibile dare una definizione soddisfacente della probabilità: c’è in essa qualcosa di misterioso, di inaccessibile per il matematico».

Eppure i moderni probabilisti spergiurano sulla superiorità della fisica probabilistica, sull’indeterminismo e sulle sue conseguenze filosofico-teoriche contro la «miopia» del determinismo e del connesso inevitabile «dogmatismo».

Nell’ambito della teoria sociale ci risiamo dunque con i misteri, specie dolorosi..., ed imperversa in questo campo ancora una volta la «eterogenesi dei fini» alla Hegel, oppure la favolistica a La Fontaine che recita: «si incontra il destino proprio attraverso i sentieri presi per evitarlo».

È quello che accade all’ideologia borghese nelle sue varie versioni: non fa in tempo a celebrare l’affossamento definitivo d’ogni illusione ed utopia comunista, che si vede rispuntare da ogni parte la famigerata lotta di classe, non solo nella anomala ed ammalata Italietta, ma nel cuore della corrusca Germania appena unificata.

Ma torniamo alla teoria probabilistica ed alle sue «impossibili» previsioni...

È stato D. Hume, nella avanzata Inghilterra del ‘700, che ha concepito la causa e il suo effetto come eventi distinti: A causa di B. Il problema dunque è quello della connessione tra A e B, sia nel senso spaziale sia temporale.

Così si pone il problema: come può un anello della catena produrre quello seguente? Pensiamo – dice C. Salmon – invece che ad una catena, ad un filo di corda. In questo caso un «evento seguente» non esiste. Come dire che ipotizzando una causa originaria l’influenza è trasmessa in modo continuo.

Il concetto della trasmissione d’un segnale fa al nostro caso. Una interazione locale trasmette il segnale: essa comunque ha luogo «nel processo», il segnale trasmesso da P a Q. In questo caso il segnale è trasmesso in virtù del suo esser presente in ogni punto tra P e Q. E siamo di fronte all’antico paradosso della freccia volante di Zenone, col quale si è cimentato anche B. Russell.

L’esperienza ha mostrato che le onde elettromagnetiche e gli oggetti materiali, tanto in movimento quanto in quiete, sono tipi importanti di processi causali. La trasmissione può essere di segnali-informazione, energia e influenza causale. Tali processi possono trasmettere e fornire connessioni causali tra ciò che avviene in un punto spazio-tempo e ciò che avviene altrove. Due sono i tipi di azione causale: produzione e propagazione.

Nell’esperienza storica in generale si pone il problema dei nessi causali: ma quando il groviglio s’ingarbuglia – ed è il caso delle crisi d’epoca – rispuntano come funghi i tentativi di confondere, et pour cause!, il passato col futuro, le coordinate spazio-temporali tendono a recedere, il principio di realtà tende ad essere smentito o contraddetto da fantomatiche filosofie della catastrofe, o da fumose metafisiche. Sull’esempio della corda di Salmon, che a noi può stare benissimo, seguiamo il filo rosso del tempo della storia della lotta di classe, del partito nella sua interazione con essa. La nostra lettura non può accettare i giochi di prestigio della visionarietà borghese, un impasto spesso esoterico ed a volte volgare di magia e di scientismo di stampo positivistico mal digerito.

Noi che rimaniamo ancorati ad una visione complessiva dello sviluppo delle contraddizioni tra le moderne classi sociali, respingiamo l’idea per la quale alle cause non seguirebbero effetti, e che comporterebbe la possibilità d’una poco proponibile reversibilità degli effetti, con la conseguenza della revoca d’ogni «responsabilità» di forze, partiti, capi, ed altre nomenclature.

Siamo convinti che la nostra azione, senza le forzature d’ogni genere di volontarismo, è indispensabile perché la classe riprenda il suo cammino e la sua direzione. Il «segnale» dell’azione di classe viene impresso nella realtà complessiva della lotta secondo l’intensità e il ritmo proprio della fase e delle aree di sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Solo il partito però è in grado di tener il filo, o la corda; nessuna altra mitica Arianna è in grado di sostituirlo.

Eppure è sotto gli occhi di tutti, specie dei proletari spaesati ed abbandonati a se stessi, il tentativo di far passare l’attuale fase di rimescolamento borghese come «ristrutturazione» democratica dello Stato, a cui dovrebbero partecipare gli operai come «cittadini», in ordine atomistico, sparso e senza guida.

Una cosa è comunque certa: noi rimaniamo fautori d’una visione del mondo (...si, noi andiamo ancora al cinematografo, come direbbe ironicamente Max Weber) che non concede un gran ché al caso: il nostro tipo di determinismo, pur essendo dialettico, non concede nulla all’esistenzialismo piccolo-borghese, all’indeterminismo in insalata filosofica a cui si appellano i vari pensieri deboli che imperversano, e che, non osando proporre un loro programma politico o conoscitivo, si illudono di aprirsi il varco seminando dubbi e zizzanie d’ogni genere anche nelle file del proletariato.

La difesa del programma storico non è un generico rifarsi alle gloriose lotte del passato: se così fosse sarebbe una semplice nostalgia di sofferenze o di vittorie, che pure ci sono state, e grandi; al contrario è lotta concreta e attuale, secondo un segnale che si propaga nella storia e vi si imprime non semplicemente come vestigia di cause remote, ma come incessante pressione contro il Capitale che pesa sulle spalle dei lavoratori d’ogni area e d’ogni cultura.

Il Partito, anzi, si propone di diffondere e di propagare il marchio del programma nella classe, di manifestarlo anche nelle fasi più proibitive, perché attribuisce ad esso non soltanto il valore di opinione tra le altre, come pretendono idealisticamente i movimenti politici borghesi ed opportunisti, ma di energia e di forza che penetra nelle organizzazioni operaie, le orienta e le influenza secondo le reali condizioni della lotta, che si sviluppa continuamente a causa delle tensioni inevitabili tra capitale e lavoro.

La negazione dei nessi tra cause ed effetti inaugurata dallo scetticismo borghese, se all’aurora dello sviluppo capitalistico ebbe il merito di battere in breccia le sicumere ed i dogmi della reazione feudale, oggi, dialetticamente, ha solo il senso ed il significato controrivoluzionario volto a negare il «principio di realtà», il solo in grado di costituire una guida per l’azione della classe operaia.

Noi consideriamo «irreversibile» la scelta di campo dell’opportunismo che oggi, dopo la squallida abiura, non merita più nemmeno questa denominazione. Anche in questo caso vale il principio per il quale, contro la facile labilità mentale del metodo democratico, è possibile rimangiarsi «idealmente» le proprie decisioni e passare impunemente al campo nemico. Lo sfacelo in cui versa la «probabilità» della rivoluzione proletaria non è piovuto dal cielo, e se oggi tocca il culmine è anche «probabile» che, bruciate tutte le maschere opportunistiche, il proletariato si trovi a rimettersi sulla strada maestra della lotta rivoluzionaria.

Per il «principio di responsabilità», inoltre, noi siamo della convinzione che i pochi aderenti al Partito non possono illudersi di veder aumentare i compagni di strada attraverso facili annessioni di gruppi o cenacoli: non che in questo momento se ne ravvisi la possibilità, ma diciamo a futura memoria, per ogni eventualità, che il Partito deve prefigurare ogni suo atto politico di qualche consistenza.

Fuori da questi cardini non c’è che il sogno dei visionari. Il nostro tipo di sogno, che la nostra tradizione non solo non ha mai vietato, ma anzi tenuto vivo, comporta di essere capaci di antevedere il futuro senza perdere contatto col presente e col passato. Il nostro futuro, il comunismo, è in grado di permetterci di capire il passato storico e di decifrare il presente più caotico e confuso.

Lasciamo per il momento al voyeurismo borghese la «realtà virtuale» costruita con i marchingegni degli occhiali verdi che fanno apparire fieno ciò che non è altro che ispida paglia, o peggio strame per gli asini.

Ma torniamo finalmente alle probabilità della Rivoluzione proletaria. Quali e quanti sono i casi favorevoli alla realizzazione dell’«evento» che, rapportati al numero totale, o meglio indefinito dei casi dovrebbero appunto permettere di computare la probabilità della rivoluzione? Come è noto Lenin indicò le condizioni fondamentali senza la presenza delle quali è irrealistico e velleitario parlare di rivoluzione, e precisamente: 1) la crisi della classe dominante, incapace di governare la classe dominata; 2) un evidente processo di tensione e di organizzazione della classe dominata in grado di rovesciare la borghesia; 3) una unità di comando delle forze rivoluzionarie, dotate d’un programma politico capace di porsi come forza dirigente che sappia raggiungere il potere e gestirlo per i suoi fini.

Quali di queste condizioni fondamentali si possono considerare sotto i nostri occhi? La classe dirigente borghese, nei vari paesi imperialistici che dominano e si spartiscono il mondo, sta effettivamente passando un brutto quarto d’ora, ma la tensione tra le opposte fazioni del Capitale mondiale non sembra minimamente insidiata da forze proletarie classiste di qualche rilevanza. Gli anni della controrivoluzione non sono passati senza lasciar traccia, ed oggi il proletariato, pur lottando sordamente, è nelle condizioni di doversi dotare innanzi tutto di organismi di difesa immediata veramente efficienti e vitali, mentre il suo organismo dirigente politico è ai minimi storici per consistenza ed influenza generale.

È forse questa una considerazione che dovrebbe indurre al pessimismo ed alla rassegnazione? Non c’è tempo per la «psicologia» ed i ripiegamenti intimistici: al contrario. Consumato un periodo storico nero e reso torbido dalla penetrazione democratoide nell’ambiente operaio, l’acuirsi della crisi economica e sociale non potrà non costringere i lavoratori a riscoprire l’azione diretta, l’organizzazione classista capace di tutelare senza compromessi i propri interessi, l’esigenza dell’organo partito in grado di guidarlo con la sua conoscenza storica contro la classe avversa.

In questo modo l’ultraimperialismo, dato ormai per vincente a livello planetario, dovrà aprire gli occhi ed accorgersi che l’antagonismo di fondo tra proletariato e borghesia non è stato affatto debellato. Altro che «capitalismo come ultimo stadio della vita economica» come sostiene Braudel, il corifeo degli Annales, l’ultima edizione in versione colta ed erudita del kautskismo di sempre. Non sono certo i capitalisti innanzi tutto a fare una vita «poco divertente»: alla nostra ottica sono i proletariati, da Hong-Kong all’Algeria, a fare una vita terribile, né la vittoria del mercato come espressione insuperabile ed eterna della vita umana sarà mai in grado di alleviare la loro dannazione.

La Probabilità della Rivoluzione non dipende dalla soluzione del dilemma se siano gli uomini o l’Uomo a fare la storia: essa invece scorre sotto i nostri occhi, solo che sappiamo vederla e riconoscerla, anche quando cova non vista e non ascoltata dai presunti uomini colti o sensibili. Ciò è chiaro solo all’organo partito, che resiste agli alti e bassi della dialettica storica, che non rinuncia alla scienza della società in nome d’una più agevole realtà virtuale. Né, come ammetteva Poincaré, un rapporto puramente matematico è in grado di stabilire il giorno e l’ora: essi sono inaccessibili ad una vista così corta e così miope, che rispecchia soltanto l’esigenza di sopravvivenza propria della miserevole preistoria che stiamo ancora vivendo.