Partito Comunista Internazionale "Dall’Archivio della Sinistra"
Partito Comunista d’Italia

Piattaforma per la discussione interna del Partito
(estate 1923)
Lettera di trasmissione (2 settembre 1923)

   Questo documento, stilato in carcere nell’estate del 1923, è sempre stato presentato dalla storiografia ufficiale, come il manifesto con il quale la Sinistra avrebbe tentato di staccare il Partito Comunista d’Italia dall’Internazionale. E, data l’ingenuità di Togliatti, Terracini, ecc., che si erano dichiarati pronti a sottoscrivere il documento, avrebbe potuto forse raggiungere il suo scopo se non fosse intervenuto, alcuni mesi dopo, Gramsci che, con il suo rifiuto a firmare il manifesto, sancì la rottura tra la Sinistra ed il gruppo di centro.
    A dimostrazione della superficialità ed imbecillità della storiografia prezzolata basti ricordare come la Sinistra si era spontaneamente dimessa dalla direzione del partito perché questo fosse guidato da uomini convinti della giustezza delle direttive emanate dall’Internazionale.
    Tale manifesto, meglio ancora sarebbe chiamarlo piattaforma di discussione, fu scritto all’indomani del 3° Esecutivo allargato, che aveva affidato la direzione del partito a quello che poi diverrà il gruppo di centro, in collaborazione con la destra di Tasca. Il nuovo gruppo dirigente del partito, guidato da Togliatti e Terracini (Gramsci si trovava all’estero), non se la sentiva di tagliare i ponti con la Sinistra, sia perché l’aveva fino ad allora affiancata nella direzione del partito condividendone tutte le scelte politiche, sia perché temeva una reazione del partito che nella sua totalità si rispecchiava nell’indirizzo che la Sinistra gli aveva impresso fin dal suo sorgere.
    Da qui – altro fatto che smentisce gli opportunisti storici di corte – la richiesta da parte di un gruppo di compagni, tra i quali Togliatti, Terracini, Leonetti, di una piattaforma che avviasse una aperta e chiara discussione all’interno del partito. E, in una lettera del luglio, così scrivevano alla Sinistra: «Gli atti polemici (verso l’Internazionale – n.d.r.) saranno compiuti collettivamente, ma tu dovrai avere gran parte soprattutto nella estensione della dichiarazione fondamentale. Riteniamo che essa debba essere fatta lasciando da parte le questioni contingenti del momento (fusione, esecutivo misto, ecc.) o almeno trattandole solo in relazione e in conseguenza delle posizioni teoriche e tattiche che il nostro gruppo ha preso e mantenuto fin dalle sue origini».
    Senza farsi nessuna illusione sul comportamento dei centristi, il documento tiene conto di tutto ciò, limitandosi quindi a proporre gli argomenti per quella consultazione e discussione che avrebbe dovuto investire tutto il partito, astenendosi dal formulare qualsiasi affermazione che avesse potuto arrecare spaccature all’interno del partito stesso. Se il gruppo di centro era sinceramente convinto, come dichiarava, di avere accettato di condividere con Tasca e soci la direzione del partito per salvarlo dalla degenerazione a cui inevitabilmente una direzione affidata alla sola destra lo avrebbe portato, facesse pure la sua esperienza. Non erano certamente mancati né avvertimenti né fraterni consigli da parte della Sinistra. Stando così le cose solo il tempo ed i fatti avrebbero potuto dimostrare quanto l’atteggiamento dei centristi fosse stato dettato da buona fede e non da opportunismo, o, peggio ancora, da carrierismo. Perciò la Sinistra non interruppe volontariamente il dialogo che i Togliatti e C. affermavano di voler mantenere con essa, lanciando verso il centro “una solida passerella”, come la definì, con l’ultimo dei punti pratici conclusivi.
    La non partecipazione agli organi direttivi – con principio d’omogeneità di questi e necessità che i dirigenti siano convinti di quanto fanno – fu posta, ma stabilendo formalmente la sua attuazione per l’epoca in cui fosse finita la grande discussione nel partito e nel Comintern.
    Ma, a parte ciò, la Sinistra rivendica tutta l’azione svolta dal partito fin dal suo sorgere, mettendo in luce come la crisi che il partito stava attraversando fosse non di carattere interno ma internazionale. Come la crisi si fosse generata e sviluppata grazie ai ripetuti tentativi, sempre falliti, dell’Internazionale di voler attrarre nell’orbita del Partito Comunista il Partito Socialista nel suo insieme o una frazione considerevole di esso. Tali tentativi avevano sortito come unico effetto quello di attribuire una patente di rivoluzionarismo ad un partito chiaramente demagogico e socialdemocratico, creando confusione e scoraggiamento all’interno delle masse proletarie. Ma anche se la tattica della fusione fosse riuscita, come era nei progetti dell’Internazionale, avrebbe sortito un effetto altrettanto disgraziato, dato che avrebbe alterato le basi stesse di costituzione del partito.
    Il testo è qui ricostruito secondo le trascrizioni apparse su Rivista storica del socialismo, n.23, 1964, e Storia contemporanea dell’ottobre 1980 e correggendo un refuso segnalato il 16 ottobre in una lettera della Sinistra al C.E. del partito.
 
 

A tutti i compagni del Partito Comunista d’Italia
 

Riteniamo di compiere con piena coscienza e dopo matura deliberazione il nostro dovere di comunisti rivolgendo ai compagni il presente appello. Il partito attraversa una crisi di tale natura che solo con la partecipazione di tutte le masse dei suoi aderenti può essere risolta.

Non alludiamo alla crisi d’efficienza ed organizzativa che consegue inevitabilmente dalla vittoria delle forze antiproletarie in Italia, crisi che merita anche tutta l’attenzione, ma che potrebbe essere fronteggiata, se altro non vi fosse, con opportune misure dagli organi direttivi fedelmente eseguite.

Si tratta di un’altra crisi, che purtroppo aggrava le conseguenze della prima: crisi interna, di direttive generali, che da singole questioni tattiche ormai si è allargata a tutta la impostazione di principio ed alla tradizione della politica di partito.

Questa crisi non ha avuto origine da dissensi interni, ma da divergenze tra il partito italiano e l’Internazionale Comunista, nella sua attuale maggioranza e nella sua Centrale. Appunto perché la crisi ha preso tale carattere – d’assoluta anormalità – essa condurrebbe alla paralisi della vita del partito ed alla sterilità della sua azione se la questione non fosse posta innanzi al partito tutto, con una completa informazione dei compagni, una discussione a fondo, e la valutazione finale e definitiva di ciò che deve essere la piattaforma di pensiero e d’azione del nostro partito.

Come si presentava la situazione del partito, ed il suo compito, subito dopo Livorno, agli uomini a cui ne era confidata la direzione? La teoria del partito era chiaramente stabilita sulle basi rivoluzionarie e marxiste messe in luce dalla rivoluzione russa e nella costituzione della Terza Internazionale. La nuova organizzazione di lotta del proletariato italiano, distinguendosi per la saldezza del legame internazionale, si dovette sempre più foggiare in modo da evitare i perniciosi e tradizionali difetti di superficialità, di disordini, di personalismi, fatali al vecchio partito; e con nuovi criteri di serietà, di fredda ponderazione ed insieme di dedizione senza limiti di tutti i singoli militanti alla causa comune.

E vi è poi il problema vastissimo dell’azione, della tattica da applicare nella speciale situazione italiana per raggiungere gli scopi comunisti.

Le condizioni della lotta proletaria al principio del ventuno erano ormai compromesse dall’insufficienza del partito socialista, tanto che non apparve possibile un’offensiva rivoluzionaria da parte di un partito, come il nostro, di minoranza. Ma l’azione del partito poteva e doveva prefiggersi di ottenere la maggiore efficienza della resistenza del proletariato alla sferrata offensiva borghese, ed attraverso la resistenza conseguire il concentramento delle forze operaie nella migliore possibile condizione, intorno alla bandiera del partito, il solo che possedesse un metodo capace di garantire la preparazione di una riscossa.

I comunisti videro il problema in questo modo: assicurare il massimo d’unità difensiva proletaria di fronte alla pressione dell’offensiva padronale ed al tempo stesso evitare che le masse ricadessero nell’illusione di quell’unità apparente, miscuglio d’indirizzi contrastanti che già era denunziato come impotente da una dolorosa esperienza acquisita alla massa italiana. Non ripeteremo per ora la storia del tentativo comunista per il fronte unico delle organizzazioni operaie contro la reazione ed il fascismo. I tentativi fallirono per il contegno degli altri partiti che avevano sèguito nel proletariato, ma da questo stesso fallimento, almeno, si tendeva a trarre il vantaggio, con una critica maturata da fatti, che il proletariato militante convergesse attorno al partito comunista.

La nostra propaganda non taceva mai che solo con un indirizzo nettamente comunista il proletariato poteva vincere, anche se, appunto per raggiungere tale scopo, i comunisti si offrivano di lottare insieme con gli operai d’ogni partito politico. Di un tal esperimento, in un periodo di straordinaria importanza storica, è necessario che il partito e l’Internazionale tutta discutano i risultati, vagliandoli esattamente e facendone un bilancio completo.

Ma oggi vi è questo pericolo: una tale questione è liquidata col dire: la tattica del partito era sbagliata ed ha causato la sconfitta proletaria! Non si tratta qui di difendere l’opera di persone, cui nessuno d’altri partiti nega la buona volontà ed anche altre qualità, ma ben altro: il giudizio su una somma d’esperienze di primo ordine, cosa d’importanza vitale, per un partito marxista, aumentata dal significato internazionale dell’attuale fase della storia italiana. E si tratta di dire se il partito, dopo l’esito di un simile esperimento, deve rivedere e modificare le sue basi costitutive. Una tale questione esige l’interessamento di tutto il partito, e un esame molto più maturo di tutta l’Internazionale. E dopo avere detto ciò che per ogni testimone di questo ultimo anno di politica italiana è di evidenza stessa, che il partito comunista non poteva in alcun modo impedire la piega che hanno preso gli avvenimenti per cause troppo profonde e remote per poter invertire, va subito fatto rilevare che quella linea che noi ci tracciammo a Livorno non ha potuto essere seguita che per breve tratto. Qui non facciamo che esporre lo schema della questione, volendo noi per ora persuadere i compagni della necessità di una profonda discussione.

Tre fatti vanno considerati:
    1) Il partito italiano ha avuto opinioni divergenti da quelle dell’Internazionale, circa la tattica “internazionale” comunista.
    2) La divergenza per le cose italiane si è manifestata ancora più grave, uscendo dal limite della “tattica” per toccare le stesse basi di costituzione del partito.
    3) L’Internazionale è andata e va ancora modificando le sue direttive, finora apparentemente in materia di tattica, ma ormai anche in materia di programma e di norme fondamentali organizzative.

Non tratteremo qui il primo punto: esso è noto per la discussione del Congresso di Roma del nostro partito (marzo 1922) ed è precisata nella tesi tattica allora approvata. Maggiore attenzione merita il secondo punto, su cui la massa del partito è poco informata.

Nella questione della tattica da applicare in Italia nel seno del movimento proletario, la divergenza tarda a definirsi. Sebbene già al terzo Congresso la delegazione italiana fosse all’opposizione in materia di tattica dell’Internazionale, pure l’opera concreta del partito fino a quella epoca ed oltre, venne approvata e lodata.

Più tardi, dinanzi alla parola del “fronte unico” e del “governo operaio” – mentre il nostro partito precisava la sua linea nella norma di evitare che i mezzi tattici potessero venire in urto con le necessità della propaganda, non solo in teoria ma con i fatti, in due capisaldi fondamentali: “solo con la politica sostenuta dal Partito comunista e con la direzione di questo il proletariato può battere la borghesia”, e “solo nella dittatura rivoluzionaria può costituirsi il potere proletario”, ed agiva di conseguenza nel “fronte unico sindacale” e coll’aperta campagna contro ogni sfumatura di opportunismo – non si seppe mai con precisione cosa invece volesse che si facesse l’Internazionale.

Questa fece volta a volta critiche particolari, ma anche nel giugno 1922 non esigeva dal partito che di lanciare la parola del “governo operaio”, ma dando di questa una definizione che lo rendeva “pseudonimo della dittatura proletaria”, mentre in epoche ulteriori si disse poi che era una vera partecipazione parlamentare e ministeriale. Nella questione sindacale e del fascismo neppure si chiarì mai che cosa l’Internazionale volesse modificare del metodo da noi seguito.

Ma la divergenza si è approfondita e allargata a un campo di importanza sostanziale con la questione della fusione col partito massimalista.

Mentre noi vedevamo costituito storicamente “il ceppo” del partito nella base di Livorno, e sempre sostenemmo che l’affluire di altri elementi proletari, scopo precipuo del partito, doveva farsi strappandoli al quadro di altri movimenti per rinserrarli nel nostro, e fummo contro ogni idea di fusione in massa con altri partiti ed ogni lavoro di costruzione di frazioni nel seno di questi fra i simpatizzanti, invece di farli venire nelle nostre file (fummo cioè contro il “noyautage”), è oggi chiaro che l’Internazionale consideri la soluzione di Livorno come transitoria ed aspira alla adesione di massa di un’altra “fetta” del partito socialista. Secondo essa i massimalisti erano divisi da noi dal solo fatto che esitavano dal separarsi dai riformisti; secondo noi il massimalismo è una forma di opportunismo tanto pericoloso quanto il riformismo, e nella sua tradizione, nel suo stato maggiore, non sarà mai rivoluzionario, ma eserciterà ancora il compito di sviare le masse col suo linguaggio ciarlatanesco che copre la più perniciosa coltivazione di uno stato d’impotenza e di inerzia.

L’Internazionale vedendo il proletariato italiano perdere terreno e per conseguenza restringersi i ranghi del nostro partito credeva si poter spostare lo sviluppo della situazione e al tempo stesso avere un successo internazionale colla adesione dei massimalisti; noi volevamo apertamente denunziare questo come disfattismo e rafforzare, pur nell’indietreggiare inevitabile del proletariato militante, il predominio del partito comunista colla liquidazione degli altri partiti.

I fatti hanno dimostrato la refrattarietà dei massimalisti come organismo politico a porsi sul terreno rivoluzionario ed accettare lealmente di aderire all’Internazionale: si aveva l’opinione che Serrati impediva il manifestarsi di una generale tendenza comunista, e si è visto lo stesso Serrati liquidato dal partito, ossia alcune decine di capi che fanno tutto in nome dei lavoratori massimalisti, mentre questi possono essere solo guadagnati rompendo la rete in cui ora sono inquadrati. E si dice... che i comunisti hanno impedito la fusione!!!

Quali sono state le conseguenze di quest’attitudine dell’Internazionale in Italia? L’azione tattica del partito nel fronte unico ne fu impacciata, fornendo agli altri partiti un diversivo alla situazione in cui li chiudeva la nostra tattica, nel proporre la coalizione “politica” per celare la loro ripugnanza all’azione secondo le proposte comuniste. I massimalisti poterono far fino all’ultimo il gioco dei riformisti nella Confederazione e nell’Alleanza del Lavoro, ingannando gli operai grazie anche al fatto che Mosca li invitava ad aderire, perpetuando così il vecchio e fatale equivoco. Ricordiamo solo che l’ultima occasione di eliminare i capi confederali e predisporre su ben diverse basi il movimento dell’agosto 1922, si ebbe al convegno confederale del luglio a Genova, ove i riformisti erano in minoranza, ed i massimalisti li fecero rimanere al loro posto, paghi delle loro affermazioni contro il collaborazionismo parlamentare che non è meno pernicioso delle loro formule nulliste: né azione proletaria, né collaborazione.

Evidentemente, oltre alla vecchia ripugnanza alla lotta, è in gioco il piano di Serrati e di altri di barattare a poco a poco la loro posizione ed influenza contro la riammissione nell’Internazionale.

Il formarsi della frazione terzinternazionalista, in cui quegli elementi che potevano venire a noi erano invitati a restare, serviva in fondo a perpetuare l’equivoco; ed in conclusione il partito massimalista, che dopo la divisione dai riformisti doveva sparire, pur beffandosi della Internazionale e dei suoi ripetuti passi e non contraendo alcun impegno, sfruttava la situazione in un comodo opportunismo, e sfrutta purtroppo la tendenza degli operai alla inerzia in questo difficile momento, ad appagarsi di una certa etichetta rossa e di una simulata fedeltà ad alcune frasi rivoluzionarie: forza destinata, anche se la situazione cambiasse, ad esaurirsi nella peggiore impotenza.

E la politica seguita dall’Internazionale, senza ottenere la fusione, ha impedito al partito comunista di utilizzare talune situazioni in cui i lavoratori tendevano ad accorrere ad esso, sia pure in senso “relativo” alla diminuzione di effettivi imposta da cause superiori.

Così è stato dopo lo sciopero d’agosto, quando invece l’Internazionale ha voluto vedere il fatto più notevole nella scissione socialista, e in certo senso anche dopo l’avvento fascista e la stessa reazione scatenatasi sul nostro partito. Invece nel seno di questo, sottoposto ad un regime permanentemente anormale di attesa e di profonda modificazione strutturale, si è formato e venuto accrescendo uno stato di malessere, che contrasta ogni probabilità, che forse non mancherebbe, di fortunata “ripresa”.

E inoltre la divergenza con l’Internazionale ha prodotto il formarsi di una corrente, la cosiddetta “minoranza”, che mentre si atteggia a comunista ortodossa, raccoglie in realtà gli elementi che sin dopo Livorno rimasero attaccati un poco ai vecchi metodi socialisti e mal sopportavano i nuovi rudi sistemi di lavoro e di responsabilità: costoro hanno sostenuto le tesi dell’Internazionale non con elevati e fondati argomenti ma col recalcitrare e talvolta col pettegolare in sordina.

Per tutto questo il partito soffre, ed un rimedio s’impone.

Lo sbocco di quest’indirizzo “fusionista” si delinea nella “liquidazione” del partito quale esso sorse a Livorno e combatté per oltre due anni, non senza onore; e ciò vorrebbe dire ripiombare il proletariato italiano nella morta gora del “centrismo” massimalista vile e bagolone. Sicché neppure un’utile esperienza per il domani trarrebbe dal suo calvario la classe operaia italiana.

Può sembrare che prima un simile allarme dovesse essere lanciato. Ma come abbiamo detto, per la questione tattica, il dissenso, in pratica, fu per qualche tempo inafferrabile: essendo nel metodo dell’Internazionale di non dar che volta per volta le sue parole particolari, mentre noi le vorremmo tracciate e definite con più ampio respiro. Per la stessa fusione vi fu qualche cosa d’analogo, secondo tutte le alternative che si ebbero nei successivi congressi socialisti: ad esempio dopo quello del ’21 parve che non si pensasse più alla fusione; e perfino i rapporti con la frazione terzinternazionalista furono, se non a nostra insaputa, almeno non considerati ufficiali. È alla fine del ’22 che la divergenza si mostra in tutta la sua gravità, e solo i successivi avvenimenti hanno fatto sì che finora essa si trascinasse in modo poco noto al partito. Ed è negli ultimi tempi che si è dovuto perdere la speranza di una soluzione attraverso una vera e vasta discussione nel seno della Internazionale e non con palliativi escogitati in lunghe e penose trattative e con espedienti a carattere più che altro personale.

Accenniamo appena al tipico punto che ci siamo proposti di esaminare.

Alle nuove parole tattiche dell’Internazionale, non ancora ben chiarite nella loro portata, [che] sono apparse dopo il terzo Congresso – ed il quarto non ha avuto tempo di discutere le tesi tattiche – si accompagna un periodo di modifiche del programma e dei principi, che per ora si concretano nel ripetuto rinvio della questione del programma e dello statuto al 1924. Al tempo stesso il grave problema della disciplina organizzativa è risultato un espediente staccato e spesso discontinuo, da cui sono risultati spiacevoli crisi interne in molti partiti e nei rapporti loro col centro.

Il pericolo che così si accenna, può diventare molto grave. Siamo forse alla vigilia di una crisi nel campo internazionale: siamo come partito italiano nel pieno di una crisi.

Queste condizioni anormali spiegano perché la questione deve essere portata all’esame di tutti i militanti, pur non interrompendo per un istante la disciplina di fatto agli organi centrali.

Spinti da tutte queste gravi considerazioni, che ci ripromettiamo maggiormente lumeggiare come ci sarà possibile, ci proponiamo di raccogliere l’adesione dei compagni su questi punti conclusivi:
    a) Provocare nel seno del partito, malgrado gli ostacoli che oppone la situazione, una vasta discussione e consultazione sul valore delle esperienze di lotta acquisite dal partito e sul suo indirizzo programmatico e tattico.
    b) Provocare negli organi competenti dell’Internazionale un’analoga discussione sulle condizioni della lotta proletaria in Italia negli ultimi tempi ed oggi, con ampia portata e al di fuori della sistemazione contingente e transitoria che spesso soffocano l’esame dei più importanti problemi.
    c) Partecipare alla discussione del programma, la organizzazione, l’azione tattica dell’Internazionale, lottando contro ogni revisione verso destra, e soprattutto ottenendo la massima chiarezza nelle determinazioni delle direttive.
    d) Raggiungendosi attraverso dei dibattiti una concorde valutazione dei problemi fondamentali, ottenere che sia tracciato un piano completo e chiaro per l’indirizzo e l’azione del partito, sulla base della quale s’inizierà un attivo lavoro per intensificare l’attività e l’efficienza del partito, su di una linea evidente alla coscienza di tutti i militanti e con la più razionale partecipazione di tutte le energie di essi, avendo così superate le ragioni e cause del precedente grave stato di malessere.
    e) Quando da tale dibattito non risulti il consenso sostanziale di un insieme di decisioni elevate sui comuni principi – pur restando al proprio posto nelle file della milizia comunista guidata secondo il volere della maggioranza dell’Internazionale – non prendere parte agli organi di direzione del partito, affermando che quelli devono essere costituiti in modo omogeneo e da compagni perfettamente convinti delle direttive che sono chiamati ad applicare.
 
 

Importante.

Il compagno che riceve questo documento voglia farne copie e distribuirle agli iscritti al partito copiando anche la presente nota. Ogni compagno è pregato di mandare la sua adesione, o anche la sua opinione comunque dissenziente e qualunque comunicazione in merito a questo documento, per tramite dello stesso compagno che gli avrà dato questo esemplare: la risposta percorrerà tutta la via in senso inverso.

Questo documento è comunicato alla Centrale del partito e dell’Internazionale.

Interessa molto diffonderlo anche all’estero, e a chi lo facesse sotto forma di traduzione saremmo assai grati.
 

Gli iniziatori

 
 
 
 
 


Riportiamo qui appresso la lettera con la quale la Sinistra trasmise la Piattaforma. Questa dimostra:
    1) che Togliatti fu il primo a venirne in possesso, com’era giusto dato che lui, con Terracini ecc., aveva richiesto la stesura del documento.
    2) Che non si trattava di nessuna congiura né ai danni del gruppo dirigente del Partito, né dell’Internazionale visto che si chiede di tenere copia ufficiale per il Partito e per il Comintern. Il “colpo” a cui si riferisce la lettera è un’irruzione della polizia nei “covi” del partito. Abramo è Mario Montagnana, Pippo è Dezza.
 

2 settembre 1923

eel a Palmiro. Ave. Sera due settembre. Siamo rimasti senza notizie dell’”ultimo colpo” dopo la tua lettera avuta dieci giorni fa! Ne chiedo ad Abramo.

Unito riceverai il “documento”. Ecco ciò che secondo me si deve fare:

1) Esame da parte di nom... semi-fenicotteri, e adesione o meno. Siccome una discussione per avviamento ecc., non sarebbe pratica, dichiaro che non accetto modifiche sostanziali, e su quelle non sostanziali non sarebbe il caso di aprire un dibattito, e perdere tempo. Non considero questa una brutale intransigenza, poiché ho già fatto una concessione massima, o almeno lanciato una solida “passerella” per l’unità del “gruppo”. Infatti all’ultimo dei punti pratici conclusivi, ho posto la “non partecipazione” agli organi direttivi, con principio di omogeneità in questi e necessità che i dirigenti siano convinti di quanto fanno – ma stabilendo formalmente per l’epoca in cui sarà finita la grande discussione nel partito e nel Comintern. Resta sotto silenzio il problema di “partecipare ” nel periodo attuale: noi che siamo contrari, per le note ragioni, e voi che restate... per il controllo della discussione, possiamo insieme accettare il contenuto del documento.

2) Questione dei firmatari. Noi vogliamo firmarlo s’intende se vi è un buon numero d’altri firmatari. Secondo la quantità di essi, porrete me e def, oppure anche Pippo.

3) La diffusione si farebbe con sistema molto semplice che si rileva dalla nota in calce al documento. Colla raccolta d’aderenti.

4) Al documento dovrebbe tra non molto seguire un’esposizione più ampia: io potrei farne traccia, e voi svolgerla con i materiali “storici” che io non ho. Si tratterebbe a fondo la tattica passata del partito, i risultati, le conseguenze da trarne per l’avvenire.

5) Se voi non aderite, ti prego passare il documento, dopo averne tenuto copia ufficiale per il partito e il Comintern, a Repossi, insieme a questa lettera. Mettilo al corrente anche in pendenza della vostra decisione. Egli dovrebbe allora risolvere i punti suaccennati per la firma, la diffusione, l’adesione.

Aspetto risposta il più presto possibile.