Partito Comunista Internazionale "Dall’Archivio della Sinistra"

Corrente di Sinistra nel
Partito Comunista d’Italia

 

PER RIFARCI ALL’ABC
LA NATURA DEL PARTITO COMUNISTA
 

Dal Manifesto dei Comunisti:
     «Gli operai cominciano a coalizzarsi contro i borghesi, si uniscono per tutelare le proprie mercedi, fondano associazioni stabili per procurarsi da vivere durante i conflitti (...) Gli operai vincono di tanto in tanto, ma sono vittorie effimere. Il vero risultato della loro lotta non è l’immediato successo, bensì l’organizzazione sempre più estesa dei lavoratori (...)
     «Operai delle diverse località si alleano e basta la loro sola unione perché le molte lotte locali, avendo quasi dappertutto lo stesso carattere, si accentrano in una lotta nazionale (intendi in una lotta estesa a tutto il territorio dello Stato, da cui si passa ad una lotta a campo internazionale. A. B.), in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è lotta politica (...) e i proletari (...) effettuano in pochi anni la loro organizzazione. Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in Partito politico, viene in ogni istante incagliata dalla concorrenza che si fanno i lavoratori stessi, ma rimane sempre più forte, più salda e potente. Vedemmo come intere parti della classe dominante vengono respinte nel proletariato, o perlomeno minacciate nelle loro condizioni dì esistenza (...) e forniscono molti elementi di educazione al proletariato.
     «Finalmente in tempi in cui la lotta di classe si avvicina a soluzione di disgregamento, prende nella classe dominante, nella vecchia società, carattere così crudo e violento che una piccola parte di dominatori diserta e si unisce ai rivoluzionari di quella classe che ha con sé l’avvenire. Come un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e sono quei borghesi ideologi che giunsero alla comprensione del movimento della storia.
     «Di tutte le classi che stanno oggi contro la borghesia, il solo proletariato è classe veramente rivoluzionaria: le altre classi con la grande industria decadono e soccombono. Il proletariato ha invece vita da essa. I ceti medi, piccoli industriali, piccoli mercanti, agricoltori, artigiani, combattono tutti la borghesia per conservare la propria esistenza di ceto medio. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori (...)»


2) Dalle Tesi del II Congresso dell’Internazionale Comunista su i compiti del Partito Comunista nella rivoluzione proletaria:

     «Il Partito Comunista si distingue da tutta quanta la classe operaia inquantochè, abbracciando con lo sguardo tutto il cammino storico della classe operaia nella sua totalità, mira a difendere a tutte le svolte di questo cammino non soltanto gli interessi di singoli mestieri, ma gli interessi della classe operaia nella sua totalità (...)»


3) Dallo Statuto del Partito Comunista d’Italia votato alla unanimità nel Congresso costitutivo di Livorno:

     «L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il Partito politico di classe. Il Partito Comunista unisce in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per interessi di gruppi e per risultati contingenti alla lotta per l’emancipazione rivoluzionaria del proletariato».


Nulla di diverso di questi testi ben conosciuti e fondamentali dicono i Punti di Sinistra, pur nella prima redazione schematica, con le parole: «Il Partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppo provocate dalla lotta di classe. In quanto tale, il tipo di organizzazione di Partito deve essere capace di porsi al di sopra delle particolari categorie e perciò raccogliere in sintesi gli elementi che provengono dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori della classe borghese, ecc...»

Nessuna discussione avrebbe dovuto poter sorgere su questi punti ben noti e ben precisi, bensì sul nostro dubbio che l’organizzazione per cellule di azienda, elevata ad organizzazione fondamentale e perfino esclusiva del Partito, possa rispondere a quella funzione fondamentale del superamento dell’individualismo e particolarismo di categoria. Invece il settarismo ed il partito preso hanno a tal punto compenetrato i nostri contraddittori che vi è da domandarsi se assistiamo ad una discussione tra militanti della stessa causa o ad una mobilitazione ed organizzazione per l’imbottimento dei crani. S’intende che mi guardo bene di alludere alle intenzioni di quei compagni: mi occupo dell’effetto delle posizioni pratiche che essi assumono.

Gli scritti apparsi in merito a questo punto pigliano tutti dal testo premesso nel numero del 7 luglio ai nostri punti e quindi ci fermiamo sostanzialmente su quello, il resto non essendo che ripetizione, metodo sciocco e sapiente insieme. A tutte le deduzioni critiche si è premessa una traduzione della formula dei Punti che equivale a capovolgere le due Tesi in un contrasto. Mentre, infatti, noi teniamo come premessa alla critica del concetto della cellula a ribadire massimamente il concetto classista di Partito, si riesce a farci dire proprio l’opposto, mentre è troppo notorio che siamo sempre stati tra i più accaniti difensori di quel fondamentale criterio marxista. Noi diciamo che il Partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppo provocate dalla lotta di classe, il che significa lotta e vittoria sullo spirito egoista e particolarista che pure si presenta alla nostra analisi materialista come primo effetto e momento della crisi sociale.

E i nostri contraddittori ci fanno dire che è esso stesso una sintesi (parolina che nel comunicato dei giovani diviene poi disinvoltamente somma) di disparati elementi sociali. Noi saremmo quindi contro il concetto che il Partito è una parte della classe operaia, noi saremmo per un’organizzazione interclassista, secondo l’orripilante termine creato per l’occasione, per noi sarebbe cosa essenziale che nel Partito ci siano elementi non proletari, professori, ingegneri, etc..., che questi solo possono essere veri rivoluzionari comunisti e gli operai no, perché non potrebbero uscire dallo spirito angusto della categoria... E chi più ne ha più ne metta.

Siamo ai solitissimi sistemi. Si tratta di esercitare sui compagni operai una influenza demagogica denunziando noi come gli intellettuali che nella loro élite disprezzano i lavoratori. In fatto di demagogia i nostri contraddittori vedono i fuscelli negli occhi altrui, non le travi nei propri. Intanto io rilevo come sintomatico che questo argomento da anni ed anni è adoperato contro la sinistra marxista da tutto l’opportunismo menscevico scioccamente ostentatore di operaismo e di corteggiamento agli operai.

Siccome qualche compagno in buona fede potrebbe credere che, nel respingere le assurde opinioni che i centristi ci prestano per comodo loro e della industrializzazione del confusionismo, io faccio a mia volta della demagogia e della manovra per acchiappare seguaci pericolanti, chiedo di citare un altro documento: un passo delle famigerate Tesi di Roma che varrà a scartare ogni dubbio.

Natura organica del Partito Comunista - Tesi di Roma 1922

1) «Il Partito Comunista, partito politico della classe proletaria si presenta nella sua azione come una collettività operante con indirizzo unitario. I moventi iniziali per i quali gli elementi e i gruppi di questa collettività sono condotti ad inquadrarsi in un organismo ad azione unitaria sono gli interessi immediati di gruppi della classe lavoratrice suscitati dalle loro condizioni economiche. Carattere essenziale della funzione del Partito è l’impegno delle energie così inquadrate per il conseguimento di obiettivi che per essere comuni a tutta la classe lavoratrice e situati al termine di tutta la serie delle sue lotte, superano attraverso la integrazione di essi gli interessi dei singoli gruppi e i postulati immediati e contingenti che la classe lavoratrice si può porre.

2) «La integrazione di tutte le spinte elementari in una azione unitaria si manifesta attraverso due principali fattori: uno di coscienza critica dal quale il Partito trae il suo programma; l’altro di volontà che si esprime nello strumento in cui il Partito agisce, la sua disciplinata e centralizzata organizzazione. Questi due fattori di coscienza e di volontà sarebbe erroneo considerarli come facoltà che si possono ottenere o si debbano pretendere dai singoli poiché si realizzano solo per la integrazione dell’attività di molti individui in un organismo collettivo unitario».


Messe in tal modo le cose a posto, e prima ancora di venire alla questione delle cellule, vediamo di precisare il punto sulla funzione degli intellettuali.

Noi vediamo la possibilità della presenza di elementi non proletari nel Partito della classe operaia come la vede Marx nel citato passo del Manifesto e in tanti altri. Il punto che ci preme di più non è quello del compito degli intellettuali, ma quello del riavvicinamento e fusione completa tra gli elementi operai delle diverse categorie e mestiere. Il carattere fondamentale della organizzazione del Partito deve essere il riavvicinamento tra operai che non hanno di comune solo la conquista del quotidiano soldino, ma la conquista rivoluzionaria di una nuova forma sociale. In questa associazione di operai, che vi intervengono come elementi politici e non più professionali soltanto come nei sindacati, partecipa una ristretta minoranza di intellettuali per ragioni affatto di eccezione, ed il proletariato li utilizza nel senso designato da Marx.

Tutta la posteriore esperienza sta ad ammonire che il proletariato si deve guardare con particolari garanzie organizzative (e tattiche, pensiamo noi) dal pericolo sempre presente che questi elementi intellettuali, e insieme ad essi gli operai elevati a capi del movimento, si trasformino in agenti della borghesia tra le file operaie. Ma il conservare al Partito il carattere dell’adesione di ogni individuo che ne accetta il programma politico sulla base delle sue opinioni, presenta tra tanti svantaggi un vantaggio notevolissimo nel senso che permette quella lotta contro lo spirito particolaristico che è cosa fondamentale "per la concorrenza sempre risorgente tra i lavoratori", facendo presente ad ogni operaio che egli è comunista in quanto lotta per il risultato finale della vittoria della sua classe fondatrice della società senza classi, e non solo per il miglioramento della sua condizione come individuo, e nemmeno solo di quella del proletariato nel quadro della società presente. Tutto ciò, a parte la necessità per il movimento comunista di rifare a meno degli scrittori, propagandisti, teorici, e la contraddizione fondamentale del monopolio della cultura da parte della classe borghese.

I Centristi, nel testo citato, volendo far credere che secondo i loro criteri il Partito può fare a meno di intellettuali, professori, etc. (vedremo che purtroppo ciò non è affatto vero) espongono a modo loro la teoria della partecipazione degli intellettuali al Partito e fanno dire a Marx il contrario proprio di quanto figura nel passo da me citato. Secondo essi gli intellettuali erano necessari in un primo periodo, ma con lo svilupparsi del proletariato escono dal seno di questo i suoi capi. Marx dice al contrario che il processo della direzione degli elementi borghesi avviene proprio quando "la lotta di classe si avvicina a soluzione". La tesi dei Centristi è poi smentita da cento fatti: i capi proletari degli operai stessi si sono rivelati capaci almeno quanto gli altri di opportunismo e tradimento, e in genere più facili ad essere assorbiti dalle influenze borghesi: la Internazionale Comunista ed il Partito Bolscevico non solo nell’ultima fase rivoluzionaria, ma anche dopo la rivoluzione hanno avuto ed hanno alla testa degli intellettuali. Il nostro Partito, per di più, ha una Centrale... fatta di professori ed avvocati, poco indicati a tuonare contro gli stessi. Ricordo che dopo Livorno il nostro Partito presentava una percentuale bassissima d’intellettuali, gli avvocati erano trenta in tutto il Partito (vedi la relazione del C.C. al Congresso di Roma), nell’Esecutivo e nella Centrale non erano pochi gli operai. Le cose sono cambiate con la eliminazione della Sinistra e la fusione dei Terzini che hanno portato più avvocati che lavoratori, mentre nessun operaio è nell’Esecutivo di oggi.

Ora Marx non parla tanto degli intellettuali nel passo in esame, quanto addirittura di disertori della borghesia vera e propria. Se si volesse farsi guidare da un concetto bisognerebbe prendere proprio quello del vedere quali classi e categorie con la grande industria soccombono o sopravvivono. Ora se volessi scherzare e rilevare le allusioni al compito degli intellettuali ingegneri potrei ricordare che con la centralizzazione e quindi collettivizzazione della grande industria spariranno proprio gli avvocati e i professori di filosofia, più o meno idealisticamente borghesi, che quindi sono per definizione reazionari.

Ma veniamo al sodo: nello schema di Partito che ci viene proposto sotto il titolo di bolscevizzazione e di cui si vanta il legame con la classe operaia in quanto alla base vi sono le cellule di officina, non hanno dunque nessuna parte gli intellettuali che si deprecano come presenti nelle assemblee delle sezioni a tipo territoriale? Ahimè, gli intellettuali conservano una funzione, e la più essenziale. Sono essi che collegano, e quindi controllano tutta la rete delle cellule, come funzionari del Partito. Ora a me pare che il punto delicato della funzione dei capi non sta tanto nella loro origine proletaria o non proletaria, quanto nella loro qualità di funzionari del movimento. È questa che li predispone ad addormentarsi prima nella routine burocratica, poi pian piano a dissolidarizzare dagli interessi rivoluzionari degli operai la cui vita è ben altrimenti precaria e minacciata. Nessun dubbio che per questo rapporto la Terza Internazionale abbia segnato la potente reazione alla cancrena che avvelenò la Seconda, ma si tratta ora di vedere quali garanzie racchiude l’uno o l’altro sistema.

La questione dei rivoluzionari professionali si ricollega a quella delle cellule. Dato che funzionari è indispensabile che ve ne siano, si tratta di realizzare l’inquadramento del Partito che ne elimini gli inconvenienti. Ora noi troviamo che per il partito bolscevico russo quella questione si poneva in modo diverso sotto lo zarismo da come si pone per i partiti comunisti nei paesi in cui il regime borghese da tempo ha storicamente trionfato. Le differenze meritano attento esame. Si tratta di rapporti diversi tra la classe dei padroni industriali, lo Stato e la polizia politica di questo, per cui nella Russia zarista la fabbrica era meno pericolosa della via, mentre ad esempio è al contrario nella liberale Inghilterra. Si tratta dell’ambiente che si crea ai funzionari staccati, in fondo, dai veri contatti con gli operai su base di parità organizzativa e che sotto lo zarismo era rivoluzionario per lo stesso pericolo continuo e tremendo.

Che tutta questa analisi non sia illegittima e scandalosa lo prova il fatto suggestivo al II Congresso, in cui vennero stabilite da Lenin le basi dell’Internazionale, pur essendo già in possesso delle esperienze delle cellule in Russia, non si accennò nemmeno a tale criterio organizzativo, oggi presentato come indispensabile e fondamentale, in nessuno di quei classici documenti: Statuto dell’Internazionale, 21 condizioni di ammissione in essa, Tesi sul compito del Partito, Tesi sui compiti dell’Internazionale. Si tratta di una scoperta fatta molto dopo e ci sarà agio di vedere come essa si collochi nel processo di sviluppo dell’Internazionale.

Noi dunque vogliamo discutere il significato dell’esperienza russa nelle cellule nel periodo prima della rivoluzione per giudicare la sua estensione ai partiti odierni dei vari paesi. Parliamo di tutta l’Europa e l’America per cui la successione della borghesia parlamentarista all’assolutismo feudale è un fatto compiuto e quindi non volevamo affatto riferirci all’Italia. Questo lo capiva anche un bambino. Invece i nostri commentatori hanno voluto far credere che noi formulassimo in quel paragrafo un apprezzamento sulla situazione italiana. E con un “si dice” ed una seria di magnifici “evidentemente“ (so di essere scocciante, ma prego il compagno lettore di andare a confrontare il numero dell’Unità del 7 luglio, pag. 3, prima colonna) ci si fa dire che la contrapposizione significa questo: in Russia vi era il terrore, in Italia la libertà. E giù appelli di veramente sconcio sapore demagogico agli operai italiani vittime del fascismo, che noi vorremmo convincere della possibilità di pacifiche conquiste.

Ma chi ha mai parlato dell’Italia e di pacifiche conquiste? Il fatto è che in Russia quel pericolo, sempre sottolineato da Marx, che il proletariato smarrisca la visione del compito politico rivoluzionario assorbendosi negli interessi particolaristi, era eliminato dalla situazione storica che faceva attendere infallibilmente come prossima la messa sul tappeto clamorosa della questione dello Stato e del potere politico, marcio essendo l’apparato statale zarista, con il che tale problema si sarebbe imposto ad ogni lavoratore. Tra tanti svantaggi era questo una specie di vantaggio, che oggi nei paesi occidentali non è, e neppure in Italia, in quanto il fascismo se nega ogni libertà e conquista pacifica (il che ci lega come i cavoli a merenda) non cessa di essere regime tipicamente borghese e della classe dei padroni industriali e non si è sognato di disfare la rivoluzione liberale borghese. Sussiste e si potenzia sotto il governo fascista il fatto che la polizia statale è maneggiata a piacere dal padrone di officina, mentre in Russia vi era fra tradizionale apparato politico zarista e nuova classe industriale borghese un antagonismo storico utilizzabile dal proletariato.

Certo che è caratteristico dei nostri centro-menscevichi il credere che il fascismo sia un regime non borghese e un ritorno al dominio di altre classi che non siano la borghesia capitalistica. Sebbene i fatti distruggono tutti i giorni questo schema, esso ispira purtroppo la politica fatta fare al nostro Partito. Ma la nostra distinzione in ogni modo non verteva su Russia ed Italia, e non qui va cercato il nostro giudizio sulla situazione. Quanto alle conquiste pacifiche, noi non solo non le crediamo possibili, ma, quello che più importa, abbiamo sempre combattuto quelli che le credevano utili e le consideravano punti di arrivo per il proletariato; esse non sono che manovre difensive borghesi equivalenti nel fine alle prepotenze ed offensive fasciste. Ce ne vuole del coraggio a presentare in quel modo le nostre opinioni. Ma tant’è: si vuole ad ogni costo spacciarci per destri e... tutto fa brodo.

Dalla nostra critica al sistema delle cellule noi arriviamo a giudicarlo inficiato di federalismo. Ed i Centristi procurano di contestarlo dando del federalismo una definizione a modo loro. Secondo essi per definire come federalista una organizzazione (è vero che vi è un certo "per esempio") basta che le organizzazioni di base votino non per numero di tesserati, ma ciascuno con un voto di egual peso. Ora a questo si arriverà certo con lo sviluppo logico del sistema delle cellule, in quanto le questioni si dibatteranno in riunioni di delegati di cellule e difficilmente ogni cellula voterà. Ma il carattere distintivo del federalismo è un altro: ogni singolo aderente non è direttamente collegato con il Centro così come qualunque altro, ma dipende da un organismo avente una sua particolare natura ed unità; l’insieme di questi organismi di primo grado è la base della struttura superiore. Nello stesso tempo l’appartenenza a questi organismi classifica e distingue i soci dell’organismo generale. In questo senso sono federalisti il Labour Party ed i sindacati, e non certo perché ci siano a base le cellule: ma perché sono associazioni aventi un carattere distintivo: la professione dei soci od altro.

Si è fatto nell’Internazionale una viva campagna contro il Partito norvegese che accettava adesione di associazioni economiche e sindacali e non dei singoli membri, sostenendo al V Congresso assai giustamente che questo tipo federativo di organizzazione è controrivoluzionario. Ora vi è una analogia tra questa struttura e quella delle cellule. Lo dimostra, se non fosse altro, limpidamente il linguaggio dei nostri Centristi: il tipo del partito norvegese infatti calzerebbe benissimo con la loro sciocca tirata a proposito d’intellettuali nelle assemblee dei lavoratori. Noi affermiamo che l’operaio nella cellula non sarà portato che a discutere questioni particolari e di carattere economico interessante i lavoratori della data officina. L’intellettuale interverrà bensì non con la forza della sua eloquenza, ma sibbene col monopolio dell’autorità della Centrale del Partito a "trancher" ogni e qualsiasi questione: la politica del Partito finirà con l’essere affidata al corpo dei funzionari, squisita caratteristica di organismi federalisti ed opportunisti.

L’Internazionale ha dovuto intervenire recentemente verso il partito tedesco per evitare che statutariamente si dessero poteri politici alle conferenze di funzionari non eletti dal basso: il che si potrà evitare formalmente, ma con la cosiddetta bolscevizzazione minaccia di avvenire di fatto.

A conclusione di tutto questo bisogna ristabilire una fondamentale tesi marxista secondo cui il carattere rivoluzionario del Partito è determinato dai rapporti di forza sociali e da processi politici e non dalla forma, dal tipo di organizzazione. L’errore contrario è quello del sindacalismo e dei molti semisindacalismi pullulanti di cui la dottrina degli "ordinovisti" è un saggio speciale. In origine questi avevano trovato la formula magica organizzativa: i Consigli di fabbrica; e a questa tutto riducevano: Partito proletario, rivoluzione economica, Stato Operaio. In tutte queste manifestazioni è un sopravvivere antimarxista ed antileninista dell’utopismo in quanto questo consiste nell’affrontare i problemi non partendo dall’analisi delle forze storiche reali; ma vergando una magnifica costituzione o piano organizzativo o regolamento. Non dissimile è l’origine della fallace impostazione ideologica del problema frazionistico a cui assistiamo, per cui tutto si riduce a codificare sulla carta la proibizione e lo stroncamento delle frazioni.

Le vie per cui gli organismi proletari agiscono rivoluzionariamente sulle situazioni non si contengono in una disposizione di inquadramenti organizzativi, nella ricetta sindacato, cooperative, consiglio di fabbrica, cellula, comitato operaio e contadino, etc. Queste sono forme, e noi ci dobbiamo occupare del contenuto degli interessi sociali in gioco, delle forze in lotta, della direzione in cui avviene il movimento. Il Partito Comunista si distingue da ogni altro Partito o associazione per la classe da cui emerge e per il programma della sua lotta e per i metodi della sua tattica, non per il tipo formale della sua organizzazione. Una solida e centrale organizzazione del Partito, come noi la vogliamo, si attuerà solo non con processi artificiali, ma con maggiore rispondenza tra principio e tattica e con una politica nettamente originale: in questo sta la originalità della classe rivoluzionaria. Oggi, invece, si tende a fabbricare un’organizzazione sui generis, ma a scimmiottare la metodologia politica borghese. Partendo da questa sensibilità al sempre risorgente errore utopistico sindacalista abbiamo voluto stabilire la tesi che è falso porre la distinzione tra Partito Comunista e Partito Socialdemocratico nella differenza tra organizzazione a base di cellule e organizzazione a base territoriale. E questo è tanto più vero in quanto, come si è visto, la differenza non è che apparente e dà luogo ad una somiglianza proprio agli effetti del rallentamento del centralismo, mentre tanto si è voluto mostrare di essere al centralismo attaccati. Anche questo ricorda le organizzazioni social-democratiche: secondo la critica datane dall’Internazionale Comunista in esse il federalismo si accompagna alla peggiore dittatura dei burocrati che ne stanno a capo.

A. B.
 

(L’Unità, 26 luglio 1925)