Partito Comunista Internazionale "Dall’Archivio della Sinistra"
Terza Internazionale 
IV Congresso, novembre 1922
Relazione del Partito Comunista d’Italia
(Punti su: Situazione italiana, Attività sindacale, Rapporto col Partito Socialista, Lotta contro la reazione)
 Parte prima
  • I. La situazione italiana: Condizioni generali, economiche e politiche; Le finanze dello Stato e dei Comuni; Condizioni dell’industria e dell’agricoltura; Il precipizio della lira.
  • II. La condizione del proletariato: Lo sviluppo dell’offensiva capitalistica.
  • III. La disoccupazione.
  • Parte seconda - L’opera del P.C. tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale Comunista
  • Attività sindacale - Il Consiglio Nazionale di Verona; L’Alleanza del Lavoro; La propaganda comunista; Contro il collaborazionismo; Per un fronte unico dal basso; Lo sciopero metallurgico di giugno; La proposta comunista in difesa dei Sindacati; La mozione delle sinistre sindacali; Dopo lo sciopero dell’agosto.
  • Rapporti con Partito Socialista.

  • La lotta contro la reazione - La resistenza al fascismo; Gli Arditi del Popolo; L’Alleanza del Lavoro e dei partiti proletari; Lo sciopero dell’agosto 1922; L’ultimatum dei fascisti; Le conseguenze dello sciopero.



    Parte prima

    I. La situazione italiana









    Condizioni generali, economiche e politiche

    Se si volesse indicare in un grafico la linea attuale di sviluppo della società italiana, bisognerebbe marcare con un tratto largo, e senza esitazione, una obliqua discendente a precipizio. L’Italia unisce in sé infatti nella sua crisi faticosa di dissoluzione gli elementi e le cause di rovina che, dal momento dell’armistizio del 1918, hanno separatamente esercitata la loro deleteria influenza nel gruppo degli Stati vincitori ed in quello degli Stati vinti.

    Uscita dalla guerra sotto il peso e con l’aureola della vittoria, che la poneva d’un tratto al terzo posto nella scala delle potenze europee ed al quinto fra le potenze mondiali, essa si vide obbligata al ruolo di regolatrice degli avvenimenti internazionali coll’obbligo di crearsi e di conservarsi un’attrezzatura adatta alla grandiosa bisogna. La pace non segnò quindi per l’Italia la occasione propizia per alleggerire la sua pesante armatura bellica e d’altra parte la irresolubile questione fiumana e l’eterna guerriglia libica hanno imposta una ininterrotta parziale mobilitazione. Ma la gloria guerresca di cui la pace di Versailles donò un lembo anche all’Italia, non servì affatto a soddisfare il sentimento popolare che non aveva mai nutriti soverchi entusiasmi per l’intervento del 1915, né la sciocca incapacità dei governanti e dei diplomatici riuscì ad esaudire sia pure parzialmente le ambizioni dei gruppi nazionalisti e l’avidità dei gruppi bancari ed industriali; cosicché il malcontento e la insoddisfazione generale furono il fermento favorevole ad un sol movimento come di tutte le classi e di tutti i ceti, ad una irrequietezza ognora più grandeggiante, ad un spirito di ribellione che progressivamente andò guadagnando strati sempre più ampi, ad un senso di sfiducia e di scoramento che gettò nell’impotenza ed in una fatalistica attesa il ceto dirigente. Fu in un ambiente generale siffatto che si verificarono gli avvenimenti di carattere rivoluzionario nel periodo 1919-1921, in ordine cronologico: 1. Il movimento per il caro-viveri con la consegna alla Camera del Lavoro, da parte dei proprietari, dell’amministrazione dei negozi e dei magazzini; 2. Il Congresso di Bologna del Partito Socialista con l’adesione alla Terza Internazionale; 3. Le elezioni generali con la riuscita di 156 deputati socialisti e la loro clamorosa dimostrazione antimonarchica, in presenza del re, durante la seduta reale dell’inaugurazione della tornata parlamentare: l’invasione e la presa di possesso indebita delle terre; 4. Lo sciopero generale del Piemonte con il conseguito riconoscimento dei Consigli di fabbrica; 5. la rivolta militare di Ancona con la sospensione immediata della guerra di Albania; 6. L’occupazione delle fabbriche e il contemporaneo primo esperimento di armamento dei lavoratori.

    Un’apparente prosperità economica accompagnò in un primo tempo questo succedersi di avvenimenti cui il proletariato, che aveva raggiunto una meravigliosa potenza di organizzazione, segnava il ritorno e dettava il corso; che dall’una parte lo Stato, nei suoi tentativi di arginare la montante marea rivoluzionaria, conservava artificiosamente in vita con sussidi ed inutili, ingenti ordinazioni, tutto il vasto apparato industriale sorto durante la guerra per le necessità militari; dall’altra parte i datori di lavoro, impreparati ad un resistenza e desiderosi solo di prolungare di qualche tempo la loro esistenza di classe privilegiata, cedevano rapidamente ad ogni richiesta ed imposizione delle masse. Erano i periodi nei quali i sindacati, organizzati saldamente su base nazionale, potevano con la sola tacita minaccia della sospensione del lavoro, ottenere continuamente aumenti di salari e vantaggi d’ordine morale: cosicché, per esempio, le otto ore di lavoro divennero patrimonio di tutta la classe lavoratrice senza che a tale scopo essa abbia dovuto impegnare e vincere una battaglia particolare. Tutte le lotte avvenute in quel volgere di tempo con la grande frequenza delle azioni sindacali, ebbero carattere e sapore schiettamente politico ed il proletariato raggiunse tutte le sue conquiste in dipendenza della potenza politica che egli aveva raggiunto.

    In realtà, sotto l’apparente prosperità, la crisi economica maturava rapidamente: il bilancio dello Stato si stremava sotto i pesi enormi imposti dal continuato artificioso funzionamento delle industrie di guerra; dalla prima creazione e poi dal perfezionamento della guardia regia, vero esercito mercenario di circa 100.000 uomini destinato nell’intenzione dei governanti a costituire l’ultima difesa disperata contro l’attacco rivoluzionario al potere; dal raddoppiarsi degli stipendi all’enorme folla degli impiegati statali e dei pubblici funzionari; dal prezzo politico del pane che costava annualmente oltre 3 miliardi di lire per grano importato. E contemporaneamente l’organismo della produzione si spezzava scompigliando la rete dei suoi rapporti e dei suoi collegamenti per la preoccupazione degli industriali di porre in salvo all’estero la maggior parte possibile delle loro ricchezze, per sottrarle al pericolo di una rivoluzione e al sequestro del fisco che per evitare il proprio sbaraglio ed accontentare la volontà popolare, stabiliva la confisca dei profitti di guerra, la nominatività dei titoli, l’imposta sul reddito e l’imposta sul capitale. Ed è interessante notare che, mentre questi provvedimenti di carattere draconiano non riuscivano per nulla a sanare le finanze dello Stato per l’incertezza della loro applicazione e per l’abilità di elusione dei capitalisti, essi raggiungevano perfettamente lo scopo di affrettare la rovina della economia generale per il panico che diffondevano nei ceti abbienti dei contribuenti. Cosicché mentre l’apparenza pareva testimoniare, per il tenore di vita delle classi più numerose, un rigoglio ed un prosperare di tutto il tessuto economico della collettività, in realtà questo si andava sfacendo in una rapida rovina.

    Il periodo di tempo che abbiamo fin qui descritto resta dunque caratterizzato da una linea discendente rappresentante lo sviluppo progressivo della crisi dell’economia, da una linea ascendente raffigurante la potenza ingrandentesi delle classi lavoratrici, e da una terza linea declinante segnante il graduale cedimento della forza politica della borghesia.

    La fine dell’anno 1920 e l’inizio del 1921 segnano un rapido e quasi inatteso mutamento nella reciproca posizione di alcune di queste forze e precisamente della efficienza e della combattività del proletariato e della classe capitalistica. Ne sono note le ragioni fra cui la incapacità e l’inettitudine del partito socialista che non seppe portare decisamente allo sbocco rivoluzionario il fatto grandioso della occupazione delle fabbriche e delle terre, con il conseguente rilassamento della forza dei lavoratori e la ripresa della capacità e della volontà di lotta della borghesia. Solo da quel momento si è iniziato l’intervento diretto e decisivo del fascismo nella storia italiana come fattore primo e sostanziale della offensiva capitalistica, ed in quel momento si viene precisando nel centro stesso dell’esercito proletario col Partito Socialista, quella contesa e quell’opporsi di frazioni e di tendenze che, sfasciandone completamente l’organismo, mentre rendeva possibile l’opera di ricostruzione di un vero e saldo partito rivoluzionario, gettava nel marasma e nell’impotenza l’organizzazione operaia per l’appunto nell’istante del maggior pericolo e della più grave minaccia. La linea discendente raffigurante nel nostro grafico la progressiva decadenza politica della classe borghese volge a questo punto, con un rapido e decisivo mutamento, verso l’alto riportandola al di sopra della mediana nella posizione di maggior forza, contemporaneamente la linea ascendente della potenza politica dei lavoratori si flette ad un tratto oltrepassando il più basso limite in precedenza toccato dalla linea dell’efficienza della classe borghese; mentre la terza linea, segnante il progressivo sviluppo della crisi economica non volge il suo tracciato che anzi lo inclina più ancora verso gli abissi dello sfacelo. Infatti il quasi miracoloso, provvisorio arrestarsi della rovina politica della borghesia ed il capovolgimento dei rapporti di forza fra le due classi contrastanti non ha affatto influito sul fenomeno generale dell’economia nazionale, ha proseguito il suo corso con un ritmo accelerato dallo squilibrio politico improvvisamente sopraggiunto. Ad un anno e mezzo di distanza dal riconquistato potere da parte del capitalismo e in regime di effettiva dittatura antiproletaria la situazione italiana presenta tutti i sintomi di una malattia profonda ed inguaribile che abbia ormai toccati gli stessi centri vitali dell’organismo.
     

    Le finanze dello Stato e dei Comuni

    Il bilancio dello Stato, dopo quattro anni quasi dalla fine della guerra, si chiude con un deficit, tuttora in aumento, di 5 miliardi di lire; non sono valse a sanarlo, e neppure a migliorarne la condizione, né l’abolizione del prezzo politico del pane che, facendo gravare sulle classi lavoratrici per oltre 3 miliardi di nuova spesa, li ha in massima parte offerti alla speculazione dei grandi produttori agrari nazionali; né l’imposizione di nuove imposte che, cadendo a preferenza sui generi di consumo e di uso non di prima necessità, hanno servito esclusivamente ad abbassare il tenore di vita delle classi medie e povere: tipiche fra le altre le imposte sui bagni, sulle lampadine elettriche, sui medicinali, sui saponi, sui biglietti tranviari, sui generi di lusso sotto il qual titolo generico sono compresi i brillanti e le spazzole, gli automobili e le calze, i dolciumi ed i vestiti. Il capitalismo, forte del riconquistato potere se ne valse immediatamente per fare sospendere ed abolire le imposte di carattere democratico che i governi nel periodo precedente avevano decretato sotto la pressione della volontà popolare: così avvenne nei riguardi dell’imposta sul reddito e sul patrimonio cui venne tolto il carattere di espropriazione di una quota parte del capitale sminuzzandola e graduandola nel tempo, snaturandone completamente lo scopo di porre rapidamente a disposizione dello Stato una somma importante e liquida; così si fece per la nominatività dei titoli mutata da obbligatoria in facoltativa e resa inadatta quindi al suo intento di impedire l’imboscamento dei quel centinaio di miliardi di lire che investite in azioni al portatore sfuggono normalmente e comodamente ad ogni ricerca del fisco.

    Solo nell’anno corrente fu ripresa l’usanza, sancita dalla Costituzione, della discussione parlamentare dei singoli bilanci dello Stato; e fu in questa occasione che dalla bocca stessa del ministro delle Finanze venne resa nota la condizione spaventosa dell’azienda statale. Ai cinque miliardi di deficit occorre ancora aggiungere infatti oltre un miliardo di debiti nuovi accesi nel corso dell’esercizio con l’emissione, non più controllata e libera da ogni limite legale, di buoni del Tesoro che graveranno per il rimborso sul bilancio dei prossimi anni; le somme impiegate per la liquidazione delle pensioni di guerra e per la ricostruzione delle terre liberate che attendono un ipotetico pareggio da conseguire con l’incasso della varie indennità di guerra da versarsi dagli Stati vinti. E non bisogna dimenticare il debito pubblico ammontante ad oltre cento miliardi dei quali 1/4 costituito dai debiti all’estero, spada di Damocle sospesa perennemente su ogni speranza e su ogni tentativo di risollevare la condizione economica generale. Si aggiunge a tutto questo la necessità di un intervento finanziario continuo dello Stato per evitare il fallimento ad ogni ora incombente sulle più importanti aziende bancarie e industriali, che si appoggiano ai gruppi politici interessati a sostenere col denaro pubblico le loro pericolose speculazioni e preoccupati di evitare un urto troppo brusco all’organismo dell’economia nazionale che si sorregge per miracolo.

    Questa forma di attività, assolutamente sconosciuta nel passato ed ancora ignota negli altri paesi europei ha assunto in Italia un carattere quasi di normalità; ciò è dovuto in gran parte al fatto che in questa nazione il governo è diventato veramente più uno strumento ed un servo di alcuni potentissimi trust bancari che se ne contendono il possesso allo scopo di sfruttarlo per le proprie necessità; cosicché in maniera decisa ed inequivocabile ogni uomo politico eminente ed ogni partito politico hanno dietro di sé, nei loro giuochi serrati e nemici, uno dei più importanti istituti finanziari con tutta la rete dei suoi interessi e dei suoi affari. Nitti e la fallita Banca di Sconto oggi risorta nella Banca del Credito; Giolitti e la Banca Commerciale; il Partito Popolare e il Banco di Roma non sono avvicinamenti casuali di nomi, coppie create per esercizio polemico, ma rappresentano, nel potente connubio della politica e della finanza, la forma ultima assunta in Italia dal predominio dittatoriale del capitalismo. Ne discende la conseguenza ineluttabile che lo Stato risente e subisce tutti i contraccolpi degli avvenimenti che si verificano nell’ambiente della speculazione bancaria e, naturalmente, ne deve pagare le spese. È notoria l’azione svolta dal governo italiano per evitare un crack definitivo della Banca di Sconto; è conosciuta l’opera di soccorso a favore dell’Ansaldo sull’orlo dell’abisso; nessuno ignora il salvataggio dell’Ilva e il puntellamento del Banco di Roma: episodi tutti questi che sono per la loro importanza come le pietre miliari nella lunga serie di sovvenzioni, di sussidi, di esenzioni date dallo Stato a spese del suo bilancio fallimentare per sostenere le sue clientele di borsa e di mercato. Queste operazioni camuffate nei bilanci sotto forma di partite di giro che resteranno eternamente aperte, di concessioni di mutui senza speranza di rimborso, di rilevamenti di debiti senza garanzia di rivalsa, non costituiscono altro, tolto l’artifizio contabile, che erogazioni a fondo perduto, veri saccheggi eseguiti dalla classe capitalistica sulla ricchezza dello Stato. Il quale va alla deriva, si sfianca e affonda ripercuotendo dal centro alla periferia l’ondata della rovina. Gli organismi locali pubblici riflettono infatti nel loro più ristretto ambito il quadro finanziario statale; comuni e province riescono a malapena a saldare l’un con l’altro i bilanci d’ogni mese gravandosi di debiti e mutui, e privi della possibilità di servirsi dei cento ripieghi offerti allo Stato dai suoi poteri superiori, lasciano decadere e mancare le funzioni più importanti a loro attribuite. Tutti i grandi municipi hanno un deficit di qualche centinaio di milioni e non una volta sola essi sono stati obbligati a sospendere gli stipendi dei propri funzionari. D’altra parte la guerra civile ferocissima divampante nei 3/5 del territorio fa sentire i suoi contraccolpi in modo rude sui comuni che vivono la loro attività più intimamente mescolata alla popolazione che non lo Stato, che sono quotidianamente e concretamente il palio della lotta cui ambisce il vincitore. Di circa 3000 comuni conquistati nel 1920, nelle ultime elezioni, dai partiti operai, oltre 2000 sono già stati militarmente conquistati dalle milizie fasciste; ed ognuno immagina in quali condizioni si ritrovino dopo le avventure sanguinose.

    La economia pubblica è dunque in completo sfacelo ed il mondo della produzione da cui essa trae nutrimento e vita e cui offre protezione è conseguentemente in preda da un marasma che si potrebbe chiamare mortale.
     

    Condizioni dell’industria e dell’agricoltura

    L’Italia è paese sfornito di materie prime: metalli, legnami, combustibili sono importati si può dire completamente, poiché nessuna importanza hanno, di fronte al consumo interno, i minerali di ferro dell’Isola d’Elba e di Val d’Aosta, la lignite della Toscana ed i boschi del Trentino recentemente annesso. Ogni grande industria italiana è quindi tributaria dell’estero, ed i prodotti nazionali non possono in linea generale battere la concorrenza delle altre nazioni. Ciò spiega il relativamente lento sviluppo dell’industria italiana che era nel passato riuscita ad affermarsi solo in alcune lavorazioni specializzate come, esempio, nell’industria automobilistica. La guerra provocò in Italia un improvviso e meraviglioso risveglio industriale ingigantendo senza limiti gli impianti di produzione e ogni equilibrio di prezzi era scomparso, ogni rischio superato, ogni concorrenza annullata dalla inesauribile necessità di prodotti bellici che lo Stato richiedeva, acquistava, pagava senza freno. Ma la fine della guerra spezzò d’un tratto il ritmo vorticoso del lavoro: scomparso dal mercato il cliente sicuro e docile, lo Stato, riprese in parte vigore le legge della concorrenza; riaperte sia pure parcamente le frontiere coi luoghi di produzione straniera; contratta la domanda di merci per la crisi generale iniziantesi, decuplicato il costo delle materie prime da importarsi per lo svilimento della valuta; impauriti gli imprenditori per la crescente marea rivoluzionaria, il meraviglioso apparato industriale fiorito durante la guerra per l’artificiosa atmosfera di sicurezza commerciale che si era formata intorno ad esso, vide mancarsi l’impulso ed il nutrimento. Ed incominciò, dopo un certo periodo di effimera attività suscitata dallo Stato per placare in un’ingannevole floridezza le passioni della folla tumultuante, il rapido sfacelo, il cui inizio coincise quasi con l’occupazione delle fabbriche nel 1920.

    Fallimenti, serrate; chiusura definitiva delle officine, abbandono puro e semplice dei fabbricati e del macchinario all’opera logoratrice del tempo; vendita a prezzo di rottame degli impianti tecnici segnarono in un crescendo demolitore la rovina di quell’organismo che aveva per qualche anno accecato l’orgoglio egocentrico del nazionalismo italiano. Ed in lunghe teorie di miseria i lavoratori, che il vortice operoso dell’industria di guerra aveva strappati alla campagna e rinserrati, in un fenomeno d’urbanesimo esasperato, fra le mura cittadine, ripresero la via dei campi e dei villaggi. Ma la campagna, come la città, langue e non sfama. L’Italia, che non è un paese industriale per la sua conformazione geologica, non è neppure paese agricolo nonostante la sua antica tradizione di "mater frugum"; tanto dieci secoli di guerre, di rapine, di sfruttamento e di sgoverno ne hanno disertate le terre già fiorenti e ricche. La "mater frugum" è tributaria all’estero di un buon sesto del suo fabbisogno granario ed importa dall’estero il bestiame da macello. L’importazione industriale non è però controbilanciata dall’esportazione agricola, e dalla fine della guerra questo squilibrio della bilancia commerciale si è enormemente aggravato.

    Non impunemente si sono sottratte dalla campagna per 4 anni milioni di braccia.
     

    Il precipizio della Lira

    Dopo la rapida esposizione che abbiamo fatta della situazione economica italiana (finanziaria - industriale - agricola) non vi sarà più alcuno che si meravigli quando osservi il continuo e progressivo peggiorare della valuta italiana: la lira italiana scende verso gli abissi dove il marco e la corona segnano già il tramonto di due capitalismi che furono tra i più potenti del mondo. A fine settembre 1922 in una condizione di completa soggezione del proletariato (negli anni passati si dava la colpa dello svalutamento della lira, mai giunto però al limite attuale, alla agitazione operaia) e di effettiva dittatura capitalistica, 100 franchi valgono 180 lire (alla pari normalmente) una sterlina costa invece di 20 ben 100 lire, un dollaro oppone 24 lire attuali alle 5 anteguerra, e 100 franchi svizzeri devono essere pagati con 443 lire italiane, mentre nel 1914 la valuta italiana e l’elvetica si equivalevano.

    Più che ogni descrizione queste cifre valgono ad indicare il punto rovinoso cui è giunta la progrediente crisi del capitalismo italiano. Ogni stabilità di prezzi è scomparsa dai mercati italiani e, se anche non si è giunti ancora al punto della Germania e dell’Austria nelle quali di minuto in minuto muta nei negozi il cartello delle vendite, però ogni giorno porta con sé una variazione. Le merci aumentano di prezzo per una quantità di cause: la loro scarsità, la mancanza di denaro liquido, l’alto corso della valuta, l’abolizione di ogni limitazione e di ogni controllo dello Stato, la riunione dei produttori e dei venditori in organizzazioni salde e disciplinate con la conseguente abolizione di ogni concorrenza, ecc. All’aumento continuo del prezzo delle merci si accompagna naturalmente la loro rarefazione: e già dai dirigenti stessi del Commissariato degli approvvigionamenti si predice sui giornali la prossima carestia invernale. Questo disordine dei mercati trasforma il commercio nella speculazione ed in questa si affondano e scompaiono sempre più rapidamente imprese ed aziende. Un indice se ne trae dai bollettini dei protesti cambiari e dagli elenchi dei fallimenti. Mentre negli anni passati questi si erano ridotti al minimo ancora di quello degli anni precedenti la guerra, nel 1922 essi si sono quadruplicati nei confronti del 1921 come risulta dai dati esposti, con commenti preoccupanti, dalla Camera di Commercio di Milano.

    In stretta connessione con questo stato del commercio sono le condizioni disastrose delle ferrovie, il cui bilancio presenta un deficit di oltre un miliardo nell’esercizio 1921-22; lo stato di inattività dei porti italiani in gran parte inoperosi, ed il disarmo della flotta mercantile effettuato nella proporzione, ancora aumentante, di oltre il 50%. Si può qui a titolo di curiosità e di esempio, rammentare che il porto di Trieste, già primo emporio commerciale dell’Adriatico, e fra i primi del Mediterraneo, è ridotto dalla sua unione all’Italia, ad una rada semideserta dove rari piroscafi attraccano, carichi di merci destinate quasi solamente ai nuovi stati sorti dallo smembramento dell’Impero Austro-Ungarico.
     
     

    II. La condizione del proletariato









    Lo sviluppo dell’offensiva capitalistica

    Non vi è forse in Europa presentemente una nazione nella quale le masse lavoratrici si trovano nella disperata situazione in cui giace il proletariato italiano. Colpito contemporaneamente dalle conseguenze economiche della crisi generale (disoccupazione, diminuzione dei salari, caro-viveri, mancanza di alloggi) e dalla reazione cosciente ed organizzata della classe borghese e dello Stato, egli sta attraversando il periodo più pauroso della lunga storia della sua emancipazione. E tanto più angosciosa è questa condizione di impotente soggezione in quanto che essa è succeduta immediatamente alla potenza incredibile cui il proletariato era assurto fino al 1920.

    Due ordini di fatti hanno condotto a questo punto: l’offensiva capitalistica e la crisi del Partito Socialista, l’una concatenata all’altra, reciprocamente causa ed effetto, ma diversamente martellanti sulla compagine organizzativa del proletariato.

    L’offensiva capitalistica trovò il suo inizio verso la fine del 1920 e si manifestò dapprima in due distinte forme a seconda del terreno su cui si mosse: e così le regioni agrarie videro sferrarsi i primi attacchi sanguinosi del fascismo (Bologna 21 novembre 1920, Ferrara dicembre 1921) mentre nei centri industriali la tattica dei licenziamenti principiò a scompaginare la forza operaia. Le due forme della offensiva furono suggerite dal modo con cui si era costituita nei due campi della produzione la potenza del proletariato, dai rapporti che si erano formati nel suo interno e fra la massa e gli altri ceti sociali, dagli aspetti della sua organizzazione, dalla psicologia diversa dei lavoratori agricoli e di quelli industriali. L’offensiva capitalistica ha veramente assunto in Italia la sua perfezione, valendosi e sfruttando ogni particolare della situazione, non già affidata allo Stato, cieco organismo pesante e macchinoso ed all’iniziativa dei singoli slegata e confusa, ma diretta e condotta con scientifici criteri dalle organizzazioni della classe borghese riunita nazionalmente in forti sindacati industriali ed agrari. La Confederazione Generale dell’Industria, cui aderisce la quasi totalità degli industriali, divenne il Comando Supremo della guerra antiproletaria, mentre la federazione dei proprietari agrari fu la sostenitrice diretta ed aperta del sorgente esercito fascista; sono noti gli episodi delle due guerre contemporanee ed intrecciantesi: i larghi licenziamenti quotidiani di migliaia di operai, privanti ad un tratto le maestranze dei loro elementi più coscienti e combattivi, indebolenti rapidamente le organizzazioni sindacali cui sfugge il controllo dei disoccupati, provocanti la formazione di eserciti di miserabili pronti a vendere per un boccone di pane la loro forza lavorativa. Contro i licenziamenti le maestranze opposero la difesa dello sciopero al quale gli industriali, decisi a giocare il tutto per tutto, risposero con le serrate degli stabilimenti. Sono noti i particolari di queste lotte condotte dalla massa sotto l’impressione radicata della delittuosa ritirata del 1920, con la sfiducia nei capi e secondo la tattica disfattista di questi miranti a sminuzzare in infiniti piccoli episodi locali l’azione unitaria e generale del proletariato; qui è sufficiente notare che l’attacco capitalistico riuscì vincitore su tutta la linea, e che l’offensiva contro i salari raggiunse ovunque la sua meta: la loro diminuzione, raggiungente in alcuni luoghi il 60 e il 70%, ha toccato per tutte le categorie di lavoratori una media del 25%. Questo risultato disastroso della lotta si è ripercosso terribilmente sull’efficienza dei sindacati i quali hanno visto più che dimezzarsi i loro effettivi; basti dire che la Confederazione Generale del Lavoro è scesa da circa due milioni e mezzo di aderenti nel 1920 a poco più di 800.000 nel corrente anno 1922.

    E mentre nelle regioni industriali si svolgeva in queste forme, nelle regioni agricole la ripresa borghese assumeva gli aspetti ben noti della guerra civile aiutata, favorita, protetta dallo Stato. Il crollo delle forze proletarie fu qui più rapido ancora che nelle regioni industriali; già sul finire del 1920 alcune fra le province dove i lavoratori avevano raggiunto più perfezionate forme di organizzazione, come Bologna, Ferrara, Rovigo, erano state completamente conquistate dal fascismo. E in progressione di tempo tutta l’Emilia, la Toscana, la Puglia, gli Abruzzi, la Romagna, parte del Piemonte e della Lombardia, le terre più ricche d’Italia quelle in cui la rete delle leghe e delle cooperative si era stesa più salda e più fitta, furono sommerse dal fiotto sanguinoso della reazione: la Federazione dei Lavoratori della Terra già forte di un milione di aderenti è oggi ridotta a meno di 200.000. Sconfitto il proletariato e sconvolte le sue file, fu così facile per la borghesia passare direttamente all’offensiva antisindacale: il diritto di organizzazione se non di nome, certo di fatto, venne tolto violentemente ai lavoratori uccidendo i dirigenti dei Sindacati, distruggendone le sedi, rifiutando, ove ancora esistono, di riconoscerli nelle controversie come rappresentanti della massa, creando, in loro concorrenza, altre sedicenti organizzazioni sottoposte agli ordini e alle disposizioni del padronato. E questa opera perseguita con particolare accanimento dalla borghesia è stata in ogni modo facilitata dal pauroso estendersi della disoccupazione, in parte provocata dalla generale rovina dell’economia, in parte perseguita dalla tattica industriale di asservimento del proletariato.
     
     

    III. La disoccupazione









    L’Italia nei tempi precedenti la guerra ha sempre avuto contro la disoccupazione un rimedio eccellente e sovrano: l’emigrazione. Ogni anno circa mezzo milione di proletari abbandonava il paese cercando stabilmente all’estero dimora e lavoro; circa 3/5 di questo immenso fiotto umano si dirigeva verso l’America dove formava grandiose colonie nazionali, specialmente negli Stati Uniti. La guerra arrestò il flusso emigratorio che non riebbe libertà di corso neppure con la pace sopraggiunta, e quando, dopo tre o quattro anni, le vie normali di relazione fra gli stati si riaprivano e lo sfogo tradizionale della esuberante popolazione italiana si presentò possibile, la nuova legislazione americana sull’emigrazione venne d’un tratto e definitivamente a vietarlo ed ostruirlo. Con le disposizioni entrate in vigore nel corrente anno non oltre 50.000 italiani possono ottenere annualmente l’entrata negli Stati Uniti: tali cifre, già insufficienti per gli anni normali di attività economica ordinata e di vasto assorbimento locale di manodopera, si presenta nella attuale situazione di disoccupazione dilagante come affatto risibile e senza efficacia per le necessità italiane.

    All’inizio del 1922 le statistiche ufficiali davano una cifra di mezzo milione di disoccupati in tutto il paese; al 1° maggio essi erano discesi a 432.372 ed al 1° giugno 410.127 (industrie minerarie ed edilizie 190.549, agricole 95.532, metallurgica 38.277, tessili 42.379 ecc.), ma ove si tenga conto dei sistemi di registrazione in vigore, di carattere facoltativo non obbligatorio, si comprenderà come tale cifra rappresenta una parte soltanto dei senza lavoro. Le stesse comunicazioni ufficiali che fornivano i dati su riferiti avvertivano infatti prudentemente che riferendosi essi al periodo nel quale gli intensi lavori agricoli assorbono provvisoriamente grande quantità di mano d’opera non occorreva assumerli con piena credibilità, ma occorreva al contrario portare a circa un milione i disoccupati nell’inizio dell’estate. La condizione dei senza lavoro italiani è spaventosa, esistendo nel paese una forma imperfetta ed inadeguata di assistenza. Se si escludono alcune istituzioni di previdenza mutua di carattere volontario e le casse di disoccupazione organizzate internamente in certi sindacati l’unica forma di aiuto viene alla grande maggioranza offerta dall’assicurazione statale contro la disoccupazione. Hanno diritto a questa, per un periodo massimo di 90 giorni annui, quei lavoratori che hanno in regola l’apposita tessera comprovante il puntuale pagamento delle quote cui devono concorrere, operaio, industriale, Stato. Ma poiché una parte di industriali e di operai, gli uni per speculazione, gli altri per ignoranza, eludono la legge dell’obbligatorietà dell’assicurazione, molti disoccupati restano privi anche di questa limitatissima forma di assistenza. Per comprendere la insufficienza di questa, bisogna porre mente al fatto che la disoccupazione attuale non è saltuaria e contingente, ma ha un carattere di normalità e di continuità dipendente dal rimpicciolimento definitivo dell’apparato industriale e non soltanto da una transitoria contrazione dei mercati e del consumo. Non si presenta quindi come possibile la trasposizione della mano d’opera dall’una all’altra fabbrica, dall’una all’altra regione, dall’una all’altra industria, ma l’espulso dal lavoro è condannato ad un’inerzia che si prolunga per mesi e per anni.

    La miseria da ciò riceve un impulso formidabile: prova ne è il continuo aumento dei depositari ai monti di pietà, il verificarsi frequente dei morti per inedia, ecc.

    Mancano in Italia da qualche anno le statistiche ed i censimenti, ché l’organismo dello Stato in sfacelo non riesce più ad esercitare quest’opera elementare e necessaria di rilievo e di controllo, ma l’osservazione empirica della situazione fornisce ad ognuno queste notizie generali. Riesce impossibile esporre in modo preciso, ad esempio, il continuo alzarsi dei numeri indici dei prezzi dei generi di prima necessità, ma ciononostante, le esperienze personali di ciascuno permettono di constatare il pauroso aumento dei viveri, dei vestiari, delle abitazioni.

    La vita costa in Italia oltre cinque volte più dell’anteguerra; e quando si ponga in rapporto questo fatto con la diminuzione dei salari o con la disoccupazione dilagante si comprenderà che non vi è esagerazione nell’affermare che il proletariato italiano scende in questo tempo negli abissi della disperazione.

    ("Rassegna Comunista" - 31 ottobre 22).
     
     
     
     
     
     
     

    Parte seconda

    L’opera del P.C. tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale Comunista










    ATTIVITÁ SINDACALE
     

    La posizione tattica del Partito Comunista d’Italia nell’attuale situazione del movimento sindacale italiano, si definisce in rapporto a tre principali punti: l’unità sindacale, i rapporti internazionali, l’azione di resistenza e di riscossa contro l’offensiva capitalistica e contro il fascismo.

    Il 15 agosto 1921, di fronte allo sviluppo dell’offensiva capitalistica ed alla manifesta impotenza della tattica seguita dai riformisti dirigenti la C.G.L. a difendere i lavoratori dall’attacco padronale, il Comitato Sindacale Comunista, con una lettera diretta alla C.G.L., al Sindacato Ferrovieri e alla U.S.I., proponeva la costituzione del fronte unico proletario sul terreno sindacale, e lo sciopero generale nazionale in difesa della classe lavoratrice. La risposta pervenuta dalla C.G.L. riflette chiaramente fino a qual punto i riformisti italiani, come i loro compagni degli altri paesi, abbiano rinnegata la causa proletaria e si siano posti al servizio della borghesia: essi tacciarono di demagogia e di incoscienza la proposta comunista.

    Il Sindacato Ferrovieri e l’U.S.I. pur dichiarandosi favorevoli al fronte unico non hanno però neppure essi presa in seria considerazione il nostro invito. La questione fu portata dai comunisti direttamente fra la massa, nella quale trovò le maggiori simpatie. Contemporaneamente si chiedeva alla C.G.L. di discutere le nostre proposte in un Congresso nazionale. Numerose organizzazioni sindacali, pur non essendo dirette da comunisti, accettarono la proposta comunista.
     

    Il Consiglio Nazionale di Verona

    Frattanto, nei giorni 7 e 8 settembre si teneva a Milano un convegno nazionale delle organizzazioni su direttiva comunista. Un centinaio di delegati rappresentanti oltre 500.000 organizzati nella C.G.L. e nel Sindacato Ferrovieri, convennero da ogni parte d’Italia. Vennero ampiamente discusse questioni di organizzazione e fissate le direttive dell’azione dei comunisti in seno alle organizzazioni proletarie.

    La campagna per il fronte unico proseguiva. Dietro richiesta di numerose organizzazioni aderenti, il Consiglio Direttivo della C.G.L. fu costretto a convocare il Consiglio Nazionale, che si tenne a Verona nei primi giorni di novembre del 1921. Questione centrale intorno alla quale si svolse la discussione, fu quella del fronte unico e dello sciopero generale nazionale, come più valida forma di lotta contro la offensiva capitalistica. Contro tale proposta si schierarono quasi tutti i burocrati sindacali della C.G.L. Il risultato delle votazioni fu il seguente:
    – Camere del Lavoro: Mozione comunista: voti 246.402; Mozione socialista: voti 612.653;
    – Frazioni di mestiere: Mozione comunista: voti 169.310; Mozione socialista: voti 813.868.

    Devesi rilevare che la votazione avvenne in base al numero degli organizzati esistenti alla fine del 1920. Ciò ha avuto la seguente conseguenza: che mentre molte organizzazioni ebbero modo di pesare nelle votazioni a favore della mozione confederale, votando per un numero di soci molto maggiore del reale, numerose organizzazioni sorte nel 1921 ed aderenti alla proposta comunista non poterono far valere la loro forza nel voto. Tipico l’esempio della Federazione dei Lavoratori della terra che votò per 850.000 iscritti, tanti quanti erano nel 1920, mentre all’epoca del Consiglio Nazionale Confederale non ne contava che 200.000.
     

    L’Alleanza del Lavoro

    Ma nonostante tutti gli ostacoli e tutti gli impedimenti, la pressione delle masse spinge inesorabilmente verso il fronte unico. La costituzione della Alleanza del Lavoro fra le cinque maggiori organizzazioni sindacali nelle quali è diviso il proletariato italiano, fu un passo notevole verso la costituzione del fronte unico.

    La posizione del nostro Partito di fronte alla Alleanza del Lavoro, definita in pubbliche dichiarazioni, fu la seguente: denunziando anzitutto il pericolo che gli opportunisti se ne facessero un mezzo per coprire con una maschera di popolarità la politica di collaborazione borghese, accettare però, e riconoscere il centro direttivo della Alleanza, impegnando l’azione di tutte le forze sindacali comuniste alla disciplina verso le disposizioni che quel centro emanasse. Condurre, però, contemporaneamente, nel seno delle masse e servendosi della rete sindacale del Partito, ed anche invitando a porsi sullo stesso terreno gli elementi sindacalisti ed anarchici, una campagna per questi punti fondamentali:
        a) - Il fronte unico deve essere organizzato su di una vasta rappresentanza delle masse, con comitati locali eletti in tutti i sindacati, e attraverso l’iniziativa di un grande convegno nazionale sindacale, eleggendo un organismo direttivo a cui partecipino tutte le frazioni sindacali proletarie, su di una chiara piattaforma comune;
        b) - Più che una semplice intesa fra gli uffici delle grandi centrali sindacali, il fronte unico deve essere una alleanza di tutte le categorie proletarie e di tutte le Camere del lavoro locali, che reciprocamente si impegnino alla fusione in una sola battaglia di tutte le vertenze parziali che l’offensiva padronale solleva;
        c) - Devono essere stabiliti i postulati da difendere con questa azione solidale di tutto il proletariato, fra i quali deve primeggiare la difesa della esistenza e della funzione dei sindacati e il mantenimento del livello del salario e il tenore di vita proletario;
        d) - I mezzi di azione da adoperarsi in comune non devono avere come piattaforma la politica parlamentare statale, ma restare sul terreno della azione diretta sindacale di pressione sulla borghesia e sullo Stato, usando come mezzo centrale e decisivo lo sciopero generale nazionale.

    I capisaldi da stabilire a base di una dichiarazione di alleanza, dovevano dunque corrispondere a quelli avanzati più volte dai comunisti nella nota lettera aperta del Comitato sindacale e nella mozione di Verona.

    Il grave problema della disoccupazione, considerato in prima linea fra questi postulati, fu oggetto di agitazioni di massa dirette dai comunisti, i quali dimostrarono di poterlo e saperlo impostare rivoluzionariamente, nel campo dei problemi immediati che interessano i lavoratori.
     

    La propaganda comunista

    Non è necessario soffermarci in modo particolare sull’attività svolta dai comunisti in ciascuno dei congressi nazionali professionali, per il fatto che il carattere centralizzato della lotta contro i socialdemocratici determina un unico piano d’azione per tutti i comunisti, qualunque sia l’organismo sindacale nelle cui file essi militano.

    Il nostro Partito ha intrapreso dal primo momento della sua costituzione un intenso lavoro sindacale. Ma il problema di raggiungere con la nostra propaganda le masse controllate dai socialisti e dagli anarchici si presentò subito a noi e fu praticamente risolto, prima ancora di possedere i dati del III Congresso mondiale e del Congresso dei Sindacati Rossi. Lo studio della situazione italiana ci dettò il nostro piano tattico, che non seguimmo incoscientemente, ma tracciammo e lanciammo tra le masse tenendo conto, naturalmente, delle disposizioni e tendenze di queste.

    La storia della accoglienza data alla nostra proposta dell’agosto 1921 si riassume in poche parole: ostruzionismo dei capi sindacali, simpatia sempre crescente delle masse. Con questa proposta noi divenivamo gli iniziatori del fronte unico proletario, e nello stesso tempo non interrompevamo ma intensificavamo il nostro lavoro per strappare posizioni ai socialisti e agli anarchici.

    Lo spirito della proposta comunista fu pienamente compreso fra le masse: esse capirono che l’azione parziale di gruppi non avrebbe riportato successo contro l’offensiva borghese, che si imponeva l’affasciamento di tutte le vertenze che l’offensiva della borghesia solleva.

    Fu lo sviluppo della nostra campagna che portò alla formazione dell’Alleanza del Lavoro. L’iniziativa ne fu presa nel febbraio dal Sindacato Ferrovieri che, prima di convocare i sindacati, volle convocare i partiti al solo scopo di informazione sulla proposta di alleanza dei Sindacati. Tanto è vero che non furono i partiti presenti a detta adunata che ebbero diritto a una rappresentanza del C.C. dell’Alleanza. Noi non partecipammo alla riunione. Il nostro intervento avrebbe portato ad un contrasto di opinioni insanabili, senza gravissime concessioni di principio da parte nostra, e l’Alleanza non sarebbe sorta. Noi infatti non avremmo potuto sottoscrivere il comunicato equivoco e pacifista uscito dalla riunione dei partiti. Ci limitammo a mandare ai ferrovieri una lettera dicendo che eravamo stati noi gli iniziatori dell’Alleanza sindacale, e che questa avrebbe potuto contare sulla disciplina dei comunisti.
     

    Contro il collaborazionismo

    La iniziativa dei ferrovieri coincideva con la crisi ministeriale tra il Gabinetto Bonomi e quello Facta. Fu evidente che i socialisti volevano allora formare un blocco proletario per servirsene allo scopo di premere per un ministero "di sinistra". La posizione indipendente del partito come tale aveva l’obiettivo di permetterci di lottare contro questo piano attaccando anche il C.C. dell’Alleanza del Lavoro se avesse deviato dagli scopi dell’Alleanza stessa, senza per altro romperne le compagine della disciplina come coalizione di organizzazioni di masse. Il piano del "governo migliore" in Italia si esplicò con una propaganda disfattista in mezzo alle masse, poiché lo si presentò come un mezzo per eliminare il fascismo e la reazione, invitando il proletariato a desistere da ogni resistenza attiva. La tattica che ci si impose fu quella della nostra indipendenza e della nostra costante opposizione rispetto a questo piano. La costituzione dell’Alleanza era una concessione allo spirito dell’unità di azione che aveva guadagnato le grandi masse, concessione che dagli elementi di destra era stata fatta appunto per diminuire la pressione di queste e dilazionare il momento in cui l’azione si sarebbe imposta. Dovevamo lottare contro il pericolo che l’Alleanza addormentasse le masse nella inazione. Quindi nel fronte unico ci occorreva non una posizione di compromesso reciproco che vincolasse la nostra azione ad una formula comune, ma una assoluta libertà di azione e di propaganda, senza poter essere ricattati ogni giorno da una minaccia di rottura.

    Condotti socialisti ed anarchici a compiere il passo irrevocabile dell’Alleanza sindacale, che si esplica in convocazioni di comitati e comizi di masse, abbiamo dettato le direttive per una propaganda sistematica, tendente ad agitare il contenuto effettivo d’azione che secondo i comunisti doveva essere dato alla Alleanza. In un manifesto del marzo ne riassumemmo i capisaldi. Per gli scopi ponemmo avanti una serie di rivendicazioni concrete contro le manifestazioni sia economiche che politiche dell’offensiva, tra cui in prima linea quello che i socialisti non accettano: rifiuto delle riduzioni salariali. Per i mezzi: lo sciopero generale nazionale. Per l’organizzazione dell’Alleanza chiedemmo che essa venisse allargata sulla base della rappresentanza diretta delle masse, con vasti comitati locali nei quali fossero rappresentati tutti i sindacati, e con la convocazione di un congresso nazionale dell’Alleanza del Lavoro.
     

    Per un fronte unico dal basso

    Nel comitato nazionale dell’Alleanza chiedemmo anche direttamente a mezzo del comitato sindacale comunista, che le delegazioni di ciascun organismo sindacale non fossero composte di soli funzionari della centrale, ma nominate con criterio proporzionale alle frazioni in cui ciascun sindacato è diviso. Se tale proposta fosse stata accettata, sarebbero entrati nel comitato i comunisti in rappresentanza dell’U.S.I., delle minoranze confederali e del Sindacato Ferrovieri, i sindacalisti favorevoli all’Internazionale dei Sindacati Rossi. Si sarebbe così avuta una maggioranza contro i socialisti nell’Alleanza del Lavoro, composta da comunisti, sindacalisti e anarchici. Il rifiuto di tale proposta ci ha permesso di fare una campagna contro il settarismo degli altri e la loro opera di siluramento dell’unità. Un rapporto dettagliato dell’attività sindacale del nostro Partito viene presentato dalla delegazione italiana al II Congresso del Profintern.

    L’attività sindacale del Partito è di duplice aspetto: organizzativa, nel senso che essa ha mirato a rafforzare ed a estendere i gruppi comunisti nei sindacati, ed a portare il pensiero del partito attraverso questi dinnanzi alle masse; diretta, per quanto gli organismi sindacali nelle mani del Partito hanno fatto nelle varie occasioni in cui le masse organizzate furono in agitazione. In occasione del Congresso dell’Internazionale di Amsterdam a Roma, il nostro Partito, attraverso di suo comitato sindacale, aveva preparato una serie di sessanta comizi pubblici, nei quali oratori comunisti avrebbero dovuto spiegare il programma della I.S.R., ed accusare i traditori gialli. Migliaia di manifesti, edizioni straordinarie dei giornali, avrebbero dovuto completare la nostra campagna. In occasione della gita a Tivoli dei congressisti, offerta dalla C.G.L. d’Italia, migliaia e migliaia di manifesti erano stati affissi a Tivoli (allora quel comune era in nostre mani) nei quali erano scritte severe espressioni di disprezzo agli ospiti. In tale occasione era stato predisposto che il redattore capo de "Il Comunista" compagno Palmiro Togliatti, tenesse una conferenza a Tivoli. Tutta questa nostra preparazione fu annullata, non appena il compagno Bordiga ci fece conoscere da Berlino che la riunione delle tre Internazionali imponeva la necessità di attutire in un primo tempo l’attacco comunista alle altre due Internazionali.
     

    Lo sciopero metallurgico di giugno

    Notevole la posizione predominante assunta dai comunisti nell’importante sciopero metallurgico del giugno 1922. Nel convegno metallurgico che seguì dopo 17 giorni di sciopero e che si tenne a Genova, i comunisti riportarono 39.000 voti (contro 44.000 avuti da tutte le altre frazioni socialiste – meno la terzinternazionalista – assieme a 17.000 astenuti) sulla proposta di estendere a tutte le categorie lo sciopero. Le grandi agitazioni operaie che continuamente scoppiarono nella primavera e nell’estate 1922 diffondevano nella massa il concetto dello sciopero generale. La reazione sempre maggiormente intensa, e il dissidio verificatosi in seno al Partito Socialista a proposito del collaborazionismo, indussero il Consiglio Direttivo Confederale a convocare il Consiglio Nazionale nei giorni 3-4-5-6 luglio.

    La nostra posizione sindacale, in tale occasione emersa, non può essere considerata sulla sola base delle cifre dei voti. Questi sono i risultati di imbrogli abominevoli. In una nostra relazione del 23 luglio, noi esaminavamo la portata del voto. Nella preparazione del C.N. noi avevamo guadagnato parecchi sindacati, e le Camere del lavoro di Trento, Roma, Ravenna, Como, Vercelli, Aquila, ed altre minori.
     

    La proposta Comunista in difesa dei Sindacati

    Altrove diciamo dello sciopero generale della situazione nuova venutasi a creare. Oggi il compito preciso è quello di salvare i sindacati dal pericolo di un ulteriore disgregamento, che la reazione accelera con un martellamento senza fine, e di impedire che il sindacato perda i suoi connotati classisti. A tal proposito il nostro Comitato Sindacale avanzò recentemente la seguente lettera alle frazioni di sinistra dei sindacati:

        Milano, 6 settembre 1922Al Comitato Sindacale terzinternazionalista
    Al Comitato Sindacale massimalista
    Al Comitato Sindacale della frazione sindacalista dell’U.S.I.
    All’Ufficio Sindacale dell’Unione Anarchica Italiana
    Al Comitato Massimalista Ferroviario.
       Cari compagni,
        La situazione presente del movimento sindacale italiano ci spinge alla seguente iniziativa, per il successo della quale non dubitiamo del vostro efficace concorso.
        Il pericolo che sovrasta in questo momento alle organizzazioni di classe del proletariato non è solo quello della reazione statale e fascista che i prefigge di stroncarle con la violenza. Un’altra insidia si delinea sempre più, proveniente dai capi stessi di una parte del proletariato organizzato, che vorrebbero incanalare i sindacati su vie e metodi nei quali si snaturerebbe il loro carattere di classe.
        Equivoche forme collaborazioniste e borghesi vengono da più parti affacciate sotto il nome di sindacalismo nazionale, di movimento operaio entro il campo degli organismi nazionali; e questo piano non significa altro che il proposito di togliere ai sindacati ogni efficienza rivoluzionaria e perfino ogni effettiva capacità di lotta contro il padronato nelle stesse contese economiche.
        Si tende per tal modo al siluramento del fronte unico e dell’Alleanza del Lavoro e a rendere impossibile ogni schieramento delle forze proletarie sul terreno della lotta diretta contro la reazione e contro il fascismo, con i quali stessi si giungerà in ultima analisi a patteggiare, prima una resa vergognosa, poi una effettiva alleanza.
        Simili propositi non debbono riuscire a realizzarsi: ad essi tutte le forze sane del movimento proletario devono opporre le gloriose tradizioni rosse di questo, la insopprimibile ragione della lotta di classe, la salda speranza delle masse nell’abbattimento del regime capitalistico.
        A tale scopo noi riteniamo che le varie tendenze sovversive militanti nel campo sindacale, restando nettamente distinte e serbando libertà d’azione non solo per quello che è il loro programma politico, ma anche nelle loro particolari vedute su dati problemi di tattica sindacale, possano e debbano stringere fra loro una intesa leale per la difesa delle posizioni comuni a quanti sono per la causa della lotta emancipatrice del proletariato.
        Questi punti, su cui una intesa dovrebbe effettuarsi con l’impegno reciproco di coalizzarsi nelle loro affermazioni in tutte le adunate proletarie e i congressi sindacali, sono, a nostro modo di vedere, i seguenti: Le organizzazioni sindacali devono essere indipendenti da ogni influenza dello Stato borghese e dei partiti della classe padronale, e la loro bandiera deve essere la liberazione dei lavoratori dallo sfruttamento padronale. Il fronte unico proletario per la difesa contro l’offensiva padronale deve essere mantenuto e rinnovato nell’Alleanza del Lavoro, stretta fra le organizzazioni tra cui sorse e resa tale nella sua costituzione da rispecchiare le forze e la volontà delle masse.
        Noi quindi vi invitiamo ad un convegno, nel quale una comune dichiarazione da lanciare al proletariato italiano suggellerebbe una simile intesa, e darebbe a tutte le forze classiste una chiara piattaforma comune di propaganda e di agitazione, suonando severa rampogna ai pochi che tentennano e defezionano nell’ora del pericolo.
        Per tale modo si opererà potentemente al fine di salvare la rossa bandiera della classe proletaria da oblique insidie come dalla bufera della violenza reazionaria, e di stringere i vincoli dell’unità del fronte del proletariato contro la reazione borghese.
        Siamo ben certi di ricevere la vostra adesione alla convocazione del convegno tra le delegazioni degli organismi a cui la presente lettera è indirizzata e di quelli che la sottoscrivono, riservandoci di farvi noto il luogo e la data di convocazione.
        In tale fiducia vi porgiamo il nostro saluto.
    Il Comitato Sindacale Comunista
    Il Comitato Comunista Ferroviario.
    Il giorno 8 ottobre si tenne a Milano il convegno delle sinistre sindacali. Erano presenti: i rappresentanti del Comitato Sindacale Comunista, del Comitato Sindacale Social-massimalista, del Comitato comunista Ferroviario, della Frazione Sindacalista Rivoluzionaria (Vecchi). Poiché l’U.S.I. è diretta da sindacalisti anarchici, desiderando l’intervento dei dirigenti attuali dell’U.S.I. dal convegno fu inviata una lettera al Comitato Sindacale del Partito Anarchico. L’Ufficio di corrispondenza dell’Unione Anarchica aveva risposto con una lettera nella quale, fra l’altro, era detto: "In quanto alla difesa del movimento operaio dalle perniciose infiltrazioni collaborazioniste da un lato e nazionaliste dall’altro, noi siamo in linea di massima perfettamente d’accordo, anzi pensiamo che esso debba essere mantenuto indipendentemente da qualsiasi governo e da qualsiasi partito politico".

    Il contenuto della lettera era dunque di adesione al convegno. Ma saranno fatti da parte nostra altri passi per impegnare possibilmente in maniera più stretta gli anarchici che dirigono organismi sindacali alla difesa dei "punti" approvati nel convegno dell’8 ottobre a Milano.
     

    La mozione delle sinistre sindacali

    In detto convegno fu approvata la seguente mozione:

        "I rappresentanti del Comitato Sindacale Comunista, del Comitato Sindacale Socialista, del Comitato Comunista Ferroviario, della Frazione Sindacalista Rivoluzionaria dell’U.S.I., riuniti a convegno il giorno 8 ottobre 1922, esaminata la situazione del movimento sindacale italiano, convinti che nell’interesse e per la salvezza del proletariato italiano sia indispensabile difendere con una azione risoluta e concorde i punti seguenti:
    1) - Le organizzazioni sindacali dei lavoratori devono rimanere indipendenti da ogni influenza e controllo dello Stato borghese e dei partiti della classe padronale, loro programma e loro bandiera deve essere la lotta per l’emancipazione dei lavoratori dallo sfruttamento capitalistico, le loro file devono essere aperte ad ogni propaganda delle idealità rivoluzionarie del proletariato.
    2) - Il fronte unico proletario per la difesa e la riscossa contro le molteplici manifestazioni della offensiva borghese deve essere mantenuto nella forma dell’Alleanza del Lavoro, stretta fra tutti gli organismi classisti del proletariato, ma organizzata in modo che essa sia deliberante a voto maggioritario e assicuri la più fedele consultazione e rappresentanza proporzionale per ogni sindacato aderente delle frazioni che militano nel seno del medesimo e anche come necessaria preparazione alla auspicata definitiva fusione in un sola di tutte le organizzazioni di classe dei lavoratori italiani.
        Convinti che ogni manovra tendente sotto varie formulazioni ad intaccare questi capisaldi, con voler raffrenare l’azione sindacale entro i limiti delle istituzioni borghesi, escludere la propaganda e l’azione dei partiti estremi dai sindacati, legalizzare l’opera e l’attività di essi sullo stesso piano delle corporazioni dei ceti abbienti per una pretesa collaborazione ricostruttiva della economia, ammainare il glorioso vessillo rosso emblema delle altissime tradizioni delle organizzazioni classiste italiane, corrisponde al tentativo reazionario di stroncare la lotta di classe, rendere impossibile ogni resistenza economica dei salariati, e avvilire ad un livello schiavistico il tenore di vita delle classi lavoratrici per consentire alle classi sfruttatrici di consolidare le basi compromesse del loro dominio:
        Impegnano tutte le forze aderenti agli organismi convenuti, pur differenziandosi nel sostenere particolari punti di vista circa altri problemi di tecnica e politica sindacale, a coalizzarsi per l’affermazione e la difesa dei capisaldi suddetti, in tutte le adunate e convegni, congressi dei sindacati e convocazioni comuni a vari sindacati, contro proposte e atteggiamenti che tali capisaldi tendessero a ledere, e a provocare, con una attiva campagna, dalle adunate proletarie, voti che esigano dagli organi centrali dei sindacati nazionali la ripresa dei contatti per la riorganizzazione immediata dell’Alleanza del lavoro".


    Dopo lo sciopero dell’agosto

    In seguito all’approvazione di tale mozione noi tendiamo a mettere sul tappeto della discussione la immediata intesa per la ricostruzione dell’Alleanza del Lavoro, che dopo lo sciopero dell’agosto fu dai capi riformisti ed opportunisti spezzata, ed a sostenere i concetti classisti del Sindacato che una corrente di destra tenterebbe di distruggere.

    La intensa opera di propaganda e di organizzazione comunista, compiutasi nel seno dei sindacati classisti italiani, sollevò l’offensiva dei dirigenti socialisti, anarchici e sindacalisti contro di noi. Una campagna di diffamazione fu aperta contro il presunto intendimento dei comunisti di dissolvere i sindacati, che è una parola d’ordine dei mandarini di ogni paese contro l’attività comunista. La campagna dette una maggior vivacità alla lotta, ed i nostri compagni furono costretti ad una asprezza polemica vivacissima. Fu votato, in una riunione del consiglio direttivo della Confederazione, un ordine del giorno con il quale minacciavasi di espellere chi mantenesse un contegno polemico "diffamatorio" ed "organizzasse la indisciplina". Queste espressioni volevano significare che i capi comunisti dovevano essere espulsi dai sindacati. Ma noi eravamo riusciti ad essere troppo forti perché i funzionari riformisti ed opportunisti osassero liberarsi con troppa facilità dall’opposizione comunista. E provvedimenti simili non furono presi. Chi invece, seppe dare esempio del modo come si debbano trattare i comunisti nei sindacati, furono i sedicenti rivoluzionari dirigenti del Sindacato Ferrovieri Italiani, i quali nel luglio espulsero dalla loro organizzazione i compagni Isidoro Azzario e Carlo Berruti, per la loro attività comunista e per aver essi aspramente criticato taluni capi del sindacato. Il provvedimento, nuovo nella storia delle organizzazioni di classe italiane, indignò le masse sindacali e quella ferroviaria in specie. Numerose assemblee di ferrovieri votarono risoluzioni di simpatia ai nostri due compagni. Sopravvenuto lo sciopero generale, i capi ferrovieri che i nostri compagni avevano accusato dettero prova di voler portare il sindacato fuori dall’orbita classista. La critica dei nostri compagni veniva a trovare conforto nella prova dei fatti. Intanto l’amministrazione ferroviaria dimissionava il compagno Azzario perché capeggiatore dello sciopero. Il Consiglio Generale del S.F.I. (3 settembre 1922) era costretto a ritirare il precedente deliberato e a riammettere nel Sindacato i due nostri compagni. Tale avvenimento segnò la vittoria comunista nella organizzazione dei ferrovieri.

    Contemporaneamente alla convocazione del Consiglio Generale del S.F.I. si riuniva a Roma il Convegno Nazionale dei gruppi comunisti ferroviari, il quale riuscì numeroso di rappresentanti, e manifestò la preparazione dei ferrovieri comunisti nelle questioni tecniche della vita del loro Sindacato ed il possesso da parte loro delle soluzioni sulla varie rivendicazioni di categoria.
     
     
     

    RAPPORTI COL PARTITO SOCIALISTA
     

    Il Congresso Internazionale di Mosca, nel discutere l’appello presentato dal Partito Socialista contro la sua esclusione, interpretò la situazione italiana diversamente dalla nostra delegazione e dal nostro partito, e rinnovò l’ultimatum al Partito Socialista Italiano esigendo l’esclusione dei riformisti per la sua riammissione nell’Internazionale. Il congresso di Mosca si orientò verso la convinzione che il P.S.I. si sarebbe scisso. Il nostro Partito con ampie relazioni in materia precisò invece il suo diverso punto di vista presso l’Internazionale. Esso previde come sarebbero andate le cose, con l’allontanamento di ogni possibilità di contrasto pratico tra la politica del nostro Partito e quella dell’Internazionale, esponendo a Mosca che nessuna scissione sarebbe venuta a Milano e che una piccola frazione avrebbe sostenuto la esclusione dei riformisti, ma non per le ragioni collimanti con le direttive nostre e affermate da noi a Livorno, né con la decisione di uscire nel caso non si fosse effettuata la scissione nel Partito Socialista.

    D’altra parte il nostro Partito osservava che nell’ipotesi di una scissione tra intransigenti e collaborazionisti, ossia sulla questione che era sul tappeto al Congresso Socialista di Milano, non si sarebbero verificate quelle condizioni che sono necessarie per l’entrata nell’Internazionale, a cui non basta che si espellano i fautori della collaborazione borghese, ma anche tutti coloro che sono contro la lotta rivoluzionaria e la preparazione della dittatura proletaria, così come lo era tutto il Partito Socialista, compresa la frazione dei dirigenti di sinistra, responsabile di vergogne come la pacificazione coi fascisti. Ripetiamo che questo contrasto fu eliminato dai fatti. Dopo il Congresso di Milano, l’Internazionale con una sua dichiarazione, il testo della quale rispondeva ai desiderata della nostra centrale, escludeva definitivamente il Partito Socialista dalle sue file.

    Restava il problema dell’atteggiamento da tenere verso la frazione Lazzari, Maffi, Riboldi. Il nostro Partito precisò la sua posizione col manifesto ai lavoratori socialisti, che li invitava a venire nelle sue file aprendo gli occhi sulla rovinosa politica socialista, e con la decisione di non accettare adesioni di gruppi, né di aver contatti ufficiali con la organizzazione di frazione nel seno del Partito Socialista, poiché i singoli elementi di tendenza affine alla nostra erano chiamati a passare nelle nostre file e non invitati a fare un lavoro per noi nelle file socialiste. Disposizioni interne chiarirono che gli elementi proletari potevano e dovevano essere cordialmente accolti, come in genere tutti quelli che erano sinceramente convinti nel venire a noi, e le ammissioni pur seguendo le norme statutarie dovevano essere facilitate nello sbrigarne la procedura. In tal modo non pochi sono stati casi di socialisti passati a noi anche con aperte dichiarazioni contro la politica del loro antico partito. Quanto alla frazione Maffi essa non è stata trattata con ostilità dal nostro Partito e dalla nostra stampa, a parte le obiettive critiche a quanto essa ha di indeciso e di incompleto nel suo atteggiamento. Non si sono evitati alcuni esperimenti di collaborazione sindacale con essa, che se non hanno avuto più grande ripercussione, deriva appunto dalla posizione equivoca in cui si trova chi voglia fare opera rivoluzionaria nelle file del Partito Socialista.
     
     
     

    LA LOTTA CONTRO LA REAZIONE
     

    Non vi è alcuna probabilità che il fenomeno fascista abbia a cessare per dar luogo ad un regime di liberalismo pratico e di neutralità dello Stato nelle lotte tra classi e partiti, nemmeno nella misura in cui si simulava in altri periodi meno critici l’apparenza giuridica di tutto questo. La situazione tende a due ben distinti sbocchi: o allo schiacciamento del proletariato e dei suoi sindacati, e ad un regime di sfruttamento negriero; o a una risposta rivoluzionaria delle masse che in tal caso contro di sé troveranno la coalizione del fascismo, dello Stato e di tutte le forze che difendono il fondamento democratico delle presenti istituzioni.
     

    La resistenza al fascismo

    Data questa previsione, resta risolta una prima questione: quella della resistenza da opporre al fascismo. I socialdemocratici predicarono la non resistenza alle gesta fasciste perché previdero o dettero ad intendere che se il proletariato rinunciava alle "provocazioni" lo Stato avrebbe restaurato contro le violenze fasciste il "diritto comune" e, in fondo, perché contrari all’impiego della violenza di classe da parte del proletariato; il Partito Comunista deve sostenere la resistenza con tutti i mezzi possibili e dichiarare che è giusto e utile adoperare contro il fascismo gli stessi suoi mezzi offensivi, passando ad organizzare la preparazione e l’impiego di tali mezzi.

    Una parola d’ordine veniva data dal Partito in occasione dei fatti di Firenze. Un secondo problema fondamentale tattico era quello della misura in cui si poteva collaborare con altri partiti proletari che prendevano atteggiamento antifascista e che dettero luogo al sorgere, in episodi del luglio 1921, di formazioni di lotta dette "arditi del popolo".
     

    Gli Arditi del Popolo

    La Centrale dette decisamente la disposizione che il nostro organismo di inquadramento dovesse restare affatto indipendente dagli Arditi del Popolo, pur lottando a fianco di questi come molte volte è avvenuto, quando si avessero di fronte le forze del fascismo e della reazione.

    Le ragioni di questa tattica non furono di ordine teorico e pregiudiziale, ma essenzialmente pratiche e ben connesse ad un attento esame della situazione e dell’eventualità a cui nell’uno e nell’altro caso si andava incontro, soprattutto in base ad informazioni riservate, assunte con i mezzi di cui si disponeva, intorno agli Arditi del Popolo ed al loro movimento. Una relazione verbale sul nostro inquadramento potrà indicarvi la misura del lavoro fatto nel campo della organizzazione militare. Certo le difficoltà di vincere vecchi pregiudizi e le resistenze della situazione hanno contribuito a dare carattere embrionale a questo tipo di organizzazione, ma i fatti hanno dimostrato più volte che senza di essa difficile è sperare di vincere l’avversario.

    La parola d’ordine gettata fra le masse dal nostro Partito fu questa: unità proletaria e lotta contro la reazione.

    Il nostro Partito, accettando la costituzione della Alleanza del Lavoro, ne fissava i compiti di azione. In ogni adunata proletaria si prospettavano tali compiti, che la massa approvava per acclamazione, culminanti nello sciopero generale nazionale di tutte le categorie.

    Nel giugno scorso il Partito Comunista d’Italia partecipò con una delegazione ai lavori del Comitato Esecutivo allargato dell’Internazionale. In tale occasione il C.E. del Comintern adottò la risoluzione nota alle sezioni dell’Internazionale Comunista, con la quale dichiaravasi la inesistenza di un conflitto disciplinare tra il P.C.d’I. e il C.E. del Comintern. Pure in tale occasione il Presidium affermò alla delegazione italiana la necessità di lanciare alcune parole d’ordine al proletariato italiano come quella del Governo Operaio.

    Al ritorno della delegazione in Italia fu data ampia informazione ai gruppi dei lavori svoltisi a Mosca a mezzo della stampa del Partito. In data 2 luglio, mentre si apriva la serie di agitazioni locali antifasciste, noi lanciammo in un manifesto la parola d’ordine del Governo Operaio. Nei discorsi parlamentari del giugno-luglio la parola d’ordine del Governo Operaio fu lanciata dai nostri compagni e fu portata al Consiglio Nazionale di Genova della Confederazione Generale del Lavoro con la mozione comunista.

    Dopo la manifestazione del 1° Maggio, i riformisti della C.G.L. rappresentati nel C.C. dell’Alleanza del Lavoro, dichiararono la inevitabilità dello sciopero generale, il quale non poteva che essere insurrezionale e tendere ad una crisi politica del regime. E perciò essi proposero di interpellare i partiti politici proletari. Noi intervenimmo e dichiarammo che potevamo arrivare alla coalizione politica, ma sotto precise condizioni. Queste condizioni erano tali che l’accettarle voleva dire per i socialisti e confederali veder fallire tutto il loro piano di deviazione del movimento mentre il respingerle ci avrebbe dato buon gioco nel dimostrare alle masse la giustezza delle condizioni da noi poste, e che equivalevano a proteggere il proletariato da tradimenti e terribili delusioni come quelle di cui è viva la memoria.

    Questo nostro atteggiamento fu puramente tattico: in verità noi eravamo per lo sciopero sindacale da cui la lotta politica, che ne è anzi un episodio, si sviluppa. Fummo contro ogni coalizione di partiti nel dirigere l’azione insurrezionale ed il movimento rivoluzionario delle masse, di cui altri parlavano in mala fede o con incoscienza ed in genere con spaventosa impreparazione. Tuttavia la nostra tattica mise gli altri in posizione assai imbarazzante: non accettarono né respinsero la nostre proposte: non potevano accettarle e temevano di compromettersi respingendole, dal momento che si servivano contro l’impulso alla lotta del demagogico argomento che questa poteva essere solo la "rivoluzione". Data la situazione, non era da pensarsi che una soluzione intermedia tra l’aperta collaborazione borghese che preparavano di riformisti, e la nostra proposta di azione diretta delle masse.
     

    L’Alleanza del Lavoro e dei partiti proletari

    I contatti dell’A.d.L. con i partiti proletari duravano. In ogni riunione si manifestò l’assenza di serietà dei presenti. I rappresentanti socialisti mutavano continuamente attitudine e dichiaravano di non potere impegnare tutti gli aderenti. Si arrivò alla costituzione di un Comitato tecnico segreto che doveva preparare l’azione generale proletaria (per noi lo sciopero generale contro l’offensiva borghese e il fascismo, per gli altri la redenzione completa), ma non si accettarono le nostre condizioni per la formazione ufficiale del fronte unico dei partiti. Questo comitato tecnico si riunì per iniziativa della Alleanza del Lavoro, senza far nulla di serio, al contrario si cercò di servirsi di esso per impedire l’azione e per cercare di coinvolgere in ciò la responsabilità del nostro partito.

    Parecchie volte si è cercato, violando gli impegni al segreto, di sfruttare le nostre dichiarazioni per dire pubblicamente che il Partito Comunista aveva dichiarato che lo sciopero generale era impossibile. Contro queste menzogne noi abbiamo preso un’attitudine assai energica, precisando i nostri punti di vista nelle caratteristiche dell’azione generale proletaria che noi sostenevamo come immediata nei nostri manifesti, e la nostra attitudine al C.N. della C.G.L. nel luglio.
     

    Lo sciopero dell’agosto 1922

    La sera del 29 luglio il nostro delegato nel Comitato Tecnico ci informò che il rappresentante dell’Alleanza aveva annunciato lo sciopero per il mattino del 1° agosto. Non si doveva pubblicare la notizia: l’ordine era stato dato dalla Alleanza del Lavoro per vie interne. Noi osservammo il segreto. Il nostro delegato, in altra seduta, dichiarò insufficienti le misure di organizzazione dello sciopero. Poiché non si era voluto lanciare la parola dell’azione in occasione di una svolta della lotta, gli operai non potevano comprendere senza una preparazione il brusco cambiamento di attitudine di quelli organizzatori che avevano sempre imprecato contro lo sciopero generale. Noi dichiarammo di essere disciplinati, pur riservandoci di accompagnare la pubblicazione della risoluzione dell’A.d.L. con un nostro manifesto.

    La riuscita dello sciopero fu da principio parziale. Le masse furono sorprese per gli ordini imprevisti, dopo essere state disarmate qualche giorno addietro. Al secondo giorno il movimento era in pieno sviluppo, le masse erano largamente entrate in azione, la lotta cominciò ovunque.

    La borghesia fu sorpresa dalla situazione prodotta dallo sciopero. La notizia data la domenica 30 luglio dal "Lavoro" fu smentita dai giornali borghesi: a Roma l’emozione fu enorme quando il lunedì sera (31) "Il Comunista" uscì avanti agli altri giornali proletari e la sua vendita fu più che decuplicata.

    Il venerdì precedente (28 luglio) la frazione parlamentare socialista aveva votato per la partecipazione al Gabinetto, non importa quale; il sabato Turati era stato dal Re: tutta l’attenzione era volta all’accordo dei socialisti con le istituzioni costituzionali, quando lo scioperò scoppiò.

    I collaborazionisti non avrebbero potuto fare una bestialità maggiore. Nei circoli borghesi e parlamentari le loro azioni caddero tutte di un colpo: in poche ore Facta compose un ministero qualunque, senza socialisti, con la destra, con l’antico prefetto di Torino, sen. Taddei – vale a dire un funzionario di polizia – al Ministero degli Interni.
     

    L’ultimatum dei fascisti

    I fascisti lanciarono un ultimatum: se il governo non fosse intervenuto a soffocare il movimento entro 48 ore, lo avrebbero fatto essi stessi.

    Le 48 ore passarono senza grandi conflitti. Nelle sfere ufficiali si sforzarono di dimostrare che lo sciopero era fallito. Il terzo giorno, come si prevedeva, lo sciopero sarebbe riuscito imponente, quando fu spezzato dall’Alleanza. I fascisti scatenarono allora le loro rappresaglie. Non essendo più impegnati in tutto il paese, ciò che li aveva momentaneamente immobilizzati, essi poterono fare dei concentramenti servendosi dei treni non più fermi, ed attaccarono quelle città nelle quali durante lo sciopero gli operai avevano attaccato gli elementi fascisti locali. La difesa delle masse operaie in questa seconda fase, cioè dopo la fine dello sciopero, fu meravigliosa. Milano, Bari, Ancona, Genova, Parma ecc. furono teatro di vere battaglie, nelle quali i comunisti validamente parteciparono, mettendosi in evidenza agli occhi delle masse, che ne ricevettero una entusiastica impressione. Carattere quasi generale di questa lotta: il fascismo concentrato nel centro della città andò all’attacco dei quartieri operai: furono ricevuti sparando dagli angoli delle strade, delle case, da barricate e trincee improvvisate. Le donne aiutarono gli uomini, pietre e oggetti di ogni sorta completarono l’armamento insufficiente.

    I fascisti si ritirarono chiedendo aiuto, e la forza pubblica entrò in scena con le mitragliatrici e le autoblindo che coprirono le case con raffiche di proiettili: le case furono invase da centinaia di armati, furono arrestati tutti gli abitanti sospetti di essersi difesi. Dopo i fascisti ritornarono per distruggere, incendiare, predare: la polizia che avrebbe dovuto respingerli aveva l’ordine di tirare in aria e li lasciava passare. In questo modo furono prese non dai fascisti, ma dalla polizia, Ancona e Livorno, Milano, Bari, Roma, Genova resistettero. Il Partito Socialista uscì da questa lotta distrutto. Il collaborazionismo in rotta, i sindacati socialisti impotenti a mantenersi alla testa delle masse che risposero così bene all’appello, i massimalisti resi nulli dalla loro insufficienza pacifista e dalla loro debolezza. Il Partito Comunista al contrario, che denunziò gli errori e che evitò di impegnarsi da solo in una lotta che avrebbe potuto rovinarlo dopo la ritirata dei socialisti, ma che diede arditamente la parola del combattimento, dimostrò di essere al suo posto fra le masse in lotta e ha guadagnato molta influenza sul proletariato. Gli elementi estremisti e gli operai anarchici anch’essi tesero a raggrupparsi intorno a noi, avendo compreso che noi siamo un vero partito rivoluzionario.
     

    Le conseguenze dello sciopero

    Noi facemmo una inchiesta sullo svolgimento dello sciopero che riuscì interessantissima. Ne risultarono in modo quasi generale le seguenti caratteristiche degli avvenimenti: cattiva organizzazione dello sciopero e ritardo nella trasmissione degli ordini da parte dell’Alleanza del Lavoro. Tradimento e sabotaggio generale da parte dei funzionari sindacalisti socialisti. Vittoria militare dei fascisti contro gli operai assicurata soltanto dopo l’intervento delle forze poliziesche a fianco dei fascisti. Lodevole attitudine dei comunisti con eccezioni di ordine puramente personale che furono risolte in linea disciplinare normale. Buona partecipazione delle masse allo sciopero, quasi ovunque. Considerevole combattività del proletariato.

    Le conseguenze dello sciopero sul movimento sindacale furono gravi, bisogna riconoscerlo, per l’attitudine degli organi centrali a completare l’effetto dell’attacco fascista. Parecchie organizzazioni si sfasciarono. Il passaggio ai sindacati fascisti non ebbe una grande importanza e la stampa borghese li esagerò molto. Esso si limitò a dei piccoli gruppi di certe categorie organizzate su basi corporative (come i lavoratori dei porti) ma fu nullo nell’industria. Ma i sindacati sono in cattive condizioni a causa della reazione, della disoccupazione, delle rappresaglie, della mancanza di fiducia nell’attitudine dei capi, della crisi generale. Le forze proletarie lottarono contro i vari tentativi di tradimento riformisti, dopo lo sciopero, come quello di trasformare i sindacati in una organizzazione a carattere nazionale entro il quadro dello stato borghese ecc. I massimalisti furono in quel momento contro la politica dei riformisti e il loro punto di vista sindacale, ma nessuno più li ascolta e ogni giorno di più essi perdono influenza e importanza.

    Il nostro Partito ha preso posizione sulla stampa e con un manifesto al proletariato in questo senso: per il fronte unico reale delle masse operaie e per l’Alleanza del Lavoro appoggiata sulle masse secondo le nostre antiche proposte. Per una lotta generale del proletariato libero dagli impacci riformisti e collaborazionisti e da tutte le illusioni che la politica dello Stato borghese possa volgersi contro il fascismo, basata sulla azione diretta classista delle masse. Per l’unità sindacale ma al di fuori di tutte le influenze sul movimento sindacale dello Stato borghese o dei partiti della classe padronale.

    Nel programma di azione che il P.C.d’I. sottopone alla approvazione del IV Congresso del Comintern noi diciamo quale è il lavoro che il nostro Partito deve svolgere in un prossimo avvenire.

    È certo che l’esperienza di questo anno di lotte sanguinose è un contributo prezioso allo sviluppo della nostra capacità all’azione; ed i rilievi che i compagni della Internazionale vorranno fare alle nostre deficienze noi li considereremo nel loro alto valore.
     

    ("Lo Stato Operaio" - Anno II - nr. 6 - 6 marzo 1924).