Partito Comunista Internazionale Stampa in lingua italiana

Per la storia dell’azione pratica del Partito negli anni 1921-1922

(Da Il Partito Comunista nn. 27-28 1976; 29-34-38-39 1977; 43-44-50-51-52 1978)



 

  • LA SITUAZIONE ITALIANA DEL TEMPO
  • L’ATTO DI PACIFICAZIONE
  • IL FRONTE UNICO SINDACALE
  • GLI "ARDITI DEL POPOLO"
  • IL CONGRESSO DELLA F.I.O.M.
  • MASSIMALISTI E RIFORMISTI A CONGRESSO
  • IL P.S.I. E L’INTERNAZIONALE
  • IL FRONTE UNICO PROLETARIO CONTRO IL DISFATTISMO CONFEDERALE
  • L’APERTO SABOTAGGIO DEI VERTICI CONFEDERALI
  • IL CONGRESSO DI VERONA
  • FRONTE UNICO SINDACALE
  • FRONTE UNICO POLITICO E GOVERNO OPERAIO
  • LE POSIZIONI COLLABORAZIONISTE DEI RIFORMISTI
  • L’ALLEANZA DEL LAVORO
  • ILLUSIONI BLOCCARDE
  • IL PERICOLO CENTRISTA
  • RISPOSTA IMBELLE DEL RIFORMISMO AGLI ASSALTI FASCISTI
  • L’ALLENZA DEL LAVORO RIFIUTA LA MOBILITAZIONE OPERAIA
  • AZIONE DIRETTA CONTRO METODI LEGALITARI
  • NASCITA DEL SINDACALISMO FASCISTA
  • LE DIRETTIVE DELLA III INTERNAZIONALE AL PROLETARIATO ITALIANO
  • LE TESI DI ROMA E IL FRONTE UNICO SINDACALE

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    [Il Partito Comunista n. 27, novembre 1976]

    Le vicende che narriamo e l’esperienza acquisita, sebbene per ragioni del tutto accidentali prendano le mosse dal luglio 1921, costituiscono una fonte preziosa non solo per la riaffermazione dei nostri principi, ma anche per l’educazione rivoluzionaria dell’attuale organizzazione di partito, cui, a differenza di allora, sorgendo sullo sfondo tragico di un proletariato, più che battuto dal suo nemico di classe, avvilito ed umiliato dal tradimento, è venuta a mancare quella vis vitalis che è la lotta rivoluzionaria di classe.

    Il lavoro per esigenze di chiarezza è stato suddiviso in tre filoni fondamentali:
    - Analisi della situazione italiana del tempo;
    - Critica serrata e decisa da parte del P.C.d’Italia ai partiti opportunisti (P.S.I.) ed alle organizzazioni sindacali guidate da dirigenti socialriformisti (C.G.L.);
    - La tattica del P.C.d’Italia e la sua azione pratica.
     
     

    LA SITUAZIONE ITALIANA DEL TEMPO
     

    La borghesia, dopo l’insuccesso dell’occupazione delle fabbriche da parte degli operai e della terra da parte dei contadini, ascrivibili all’inerzia ed all’indecisione del P.S.I. e della C.G.L., passa decisamente all’attacco per spezzare definitivamente il proletariato italiano e per fare ricadere su di esso interamente il peso della crisi, avendo sperimentato chiaramente che il P.S.I. e la Confederazione hanno timore della lotta.

    Lo Stato borghese si rafforza, si arma, viene accresciuto il corpo dei carabinieri, istituita la guardia regia, i tribunali non fanno altro che processare, condannare e riempire le galere di proletari, il fascismo dilaga liberamente dovunque protetto e favorito dallo Stato; numerosi proletari vengono massacrati impunemente, le Camere del Lavoro, le Case del Popolo, le Cooperative saccheggiate ed incendiate. Da parte degli industriali e degli agrari si passa decisamente alla riscossa, avendo compreso che l’avversario è poco pericoloso in quanto simile ad un corpo muscoloso ma inattivo. Gli industriali riducono a loro piacere le ore di lavoro, non rispettano le otto ore giornaliere, effettuano serrate (famosa quella alla FIAT), denunciano e non rispettano gli accordi sui salari, volendone imporre una riduzione, licenziano gli operai e gettano nella miseria più nera le loro famiglie, mentre i prezzi dei generi di prima necessità aumentano. Nel settore dell’agricoltura gli agrari non rispettano i patti colonici ed i contadini vengono ricacciati in condizioni da Medio Evo.

    Il padronato si sente più forte che in passato, per questo cerca di annullare le conquiste economiche conseguite negli ultimi anni di ripresa proletaria. I primi a fare le spese di tale massiccia offensiva sono naturalmente gli operai comunisti i quali sono licenziati, con la motivazione che i comunisti nelle officine e nelle fabbriche sarebbero i responsabili dei rapporti insostenibili creatisi al loro interno fra operai e padroni. Infatti i consigli di fabbrica in mano ai comunisti, secondo i padroni, impedivano la normale attività. Il licenziamento degli operai comunisti fu il primo passo del massiccio attacco padronale, ed in questo atto la borghesia trovò come alleati i capi socialriformisti Buozzi e compagni. L’esclusione dei comunisti dalle fabbriche portò alla formazione di commissioni interne socialiste, elette con l’aperta simpatia degli industriali, i quali offrirono persino le macchine per stampare manifestini anticomunisti. Cacciati che furono i comunisti, che erano gli elementi più combattivi dell’esercito proletario, fu più agevole per gli industriali passare all’attacco contro le posizioni conquistate dagli operai, con una serie di azioni e di iniziative che culminarono nella riduzione dei salari. Quindi la lotta contro gli operai comunisti fu l’inizio della lotta contro l’intera classe operaia.

    Una volta licenziati i comunisti dalle fabbriche, ritenuti responsabili delle difficoltà in cui si trovava la classe imprenditoriale, tutto avrebbe dovuto procedere regolarmente. La situazione invece peggiorava: non erano dunque i comunisti ad impedire il risveglio e lo sviluppo dell’industria, bensì la crisi economica in cui si dibatteva il capitalismo. Venuti a mancare i comunisti, nelle fabbriche le masse operaie si sono trovate disorientate, il loro spirito combattivo ha ricevuto un grave colpo dai compromessi, dalle sottomissioni, dalle umiliazioni che hanno ricevuto percorrendo la strada su cui sono stati guidati dai capi socialdemocratici.

    Di fronte alla disoccupazione, alla fame, alle violenze fasciste i dirigenti socialriformisti non hanno lanciato alle masse, che le attendevano, parole d’ordine chiare e fondate su un’aperta e generale lotta di classe, ma si sono posti su posizioni di resa e di inattività, generando nel mondo operaio e contadino un senso di abbattimento, di disillusione e di impotenza. Abbandonata a se stessa di fronte all’offensiva avversaria, gran parte della classe lavoratrice ha dovuto accettare per non morire di fame di vendere la propria forza-lavoro ad un prezzo inferiore ai concordati, riservandosi magari poi di compiere una seconda giornata lavorativa, e ciò naturalmente a danno dei disoccupati.

    Questa situazione favorisce i piani del padronato a cui è necessario poter disporre di un grande esercito di riserva per attaccare le posizioni raggiunte dalla classe operaia. D’altra parte i capitalisti sanno di agire senza opposizione da parte dei dirigenti sindacali opportunisti, i quali misconoscono quello che è il dovere principale delle organizzazioni sindacali, cioè impedire la concorrenza fra gli operai ed il deprezzamento della forza lavoro. Ma il comportamento collaborazionista dei capi confederali va oltre, infatti i signori Buozzi, Baldesi e compagni fanno di tutto per appianare la resistenza spontanea che gruppi di proletari oppongono all’attacco capitalista, cercando di convincerli che i licenziamenti sono necessari, le riduzioni dei salari inevitabili.

    L’attacco capitalista nei confronti delle conquiste operaie già dall’inizio del 1921 era stato denunciato chiaramente dal P.C.d’I. e dal suo Comitato Sindacale. L’invito rivolto da parte comunista ai lavoratori perché resistano, perché non cedano su alcun punto, perché non accettino le imposizioni degli industriali, perché non sottoscrivano dei patti capestro, fu interpretato come espediente per salvare dal licenziamento gli operai comunisti e dette luogo a calunnie contro di loro, ma la verità era che impedendo nelle fabbriche la reazione anticomunista si sarebbe salvata la compagine operaia dalla disgregazione e dall’indebolimento. I fatti successivi confermarono le nostre previsioni, e tutti gli operai, a qualunque partito appartenessero, sentirono le conseguenze di quella mancata resistenza.

    L’attacco capitalista apparve evidente e contro l’intera classe operaia, socialista, repubblicana, popolare, anarchica o comunista. Dopo gli operai comunisti toccò ai socialisti; licenziati o col salario decurtato; colpiti anche gli stessi operai fascisti, i quali avevano fatto le spie dei padroni in danno dei comunisti. Una ditta torinese (la Giachero) ridusse i salari anche ai lavoratori fascisti e minacciò di espellerli dai fasci se si fossero opposti. La classe padronale avvertiva di poter osare tutto e prendeva provvedimenti e decisioni senza neppure dare il tempo alle Commissioni Interne e alle organizzazioni sindacali di intervenire, di discutere, trattava direttamente con gli operai per imporre vili ricatti.

    Questo era possibile in quanto i dirigenti opportunisti e riformisti del P.S.I. e della Confederazione, di un esercito agguerrito di volontà di lotta avevano fatto un esercito diviso e disperso di fronte all’incalzare dell’offensiva borghese. La classe operaia era calpestata e non le era stato dato neppure il legittimo orgoglio di aver combattuto. Poi i dirigenti confederali si scandalizzarono perché gli industriali non rispettavano gli accordi salariali e si appellarono alla "opinione pubblica" perché li giudicasse, oppure si meravigliavano che un ministro del lavoro non riuscisse a far rispettare i contratti al padronato. Questi signori evidentemente non sapevano che tutti i concordati hanno valore in base alle forze che i contraenti hanno di farli rispettare.

    La tattica dell’inerzia, del lasciar fare, della rassegnazione, ed il rifiuto di porsi sul terreno della lotta aperta contro la reazione capitalista, adottata dai social-traditori, era motivata adducendo il fatto che il padronato era il più forte.

    Battuti sul terreno della resistenza ed incapaci di porsi su quello dello scontro diretto ecco che si appellano allo Stato per cercare che non tutte le conquiste ottenute dai lavoratori vengano strappate, illudendosi di trovare nello Stato, con il quale vogliono collaborare, un aiuto contro il padrone che diventa sempre più forte. Appellandosi allo Stato e cercando di collaborare con esso si misconosce un insegnamento fondamentale della dottrina marxista, ribadito più volte dall’Internazionale Comunista. Infatti, nella situazione di allora, non è solo il padrone nemico del proletariato a combattere per la sua vita, ma lo Stato, perché gli interessi e le forze di tutti i padroni si raccolgono e si unificano nel potere dello Stato, per cui non può non lottare contro lo Stato, per conquistarlo per via rivoluzionaria. Il ricorso allo Stato per una ipotetica difesa contro il padrone o il rifugiarsi sul terreno della collaborazione, disperando della vittoria in campo aperto, è più che illusione tradimento, è consegnare al nemico le forze rimaste dell’esercito proletario.

    Il volto social-agnostico dei dirigenti confederali traspare evidente da tutto il loro comportamento e dal tipo della loro azione. Di fronte al massiccio attacco capitalista su tutto il fronte del proletariato propongono e sostengono la tattica del caso per caso, che significa categoria per categoria, luogo per luogo. Questa tattica è destinata naturalmente all’insuccesso, è come mandare contro un intero esercito agguerrito e compatto dei battaglioni ad uno ad uno. Infatti ora vengono mandati allo sbaraglio i tessili, ora i chimici, ora i metalmeccanici, ora i lavoratori della terra. Gli insuccessi di una lotta così frazionata servono ai mandarini sindacali per trarre la conclusione che il padronato è il più forte, che non è possibile perseguire la strada dello scontro diretto, per cui non c’è altra via che la collaborazione e trasformare l’entusiasmo fecondo dei lavoratori in tante poltrone in parlamento.

    Lo sciopero generale minacciato dai tessili per la riduzione dei salari costituisce un esempio lampante della tattica corporativa e controrivoluzionaria dei dirigenti opportunisti. In una situazione che fa registrare uno dei punti più alti dell’attacco capitalista alle conquiste dei lavoratori, questo sciopero potrebbe assumere un enorme valore politico, segnare l’inizio di una riscossa, di una grande offensiva. Ma il valore politico di queste lotte per il salario non è posto all’attenzione delle masse, si cerca di dargli il significato delle solite controversie sindacali, alle quali è interessata solo una determinata categoria. Ma il colmo del tradimento è che i mandarini sindacali si accordano con i padroni, revocano lo sciopero ed accettano una riduzione dei salari del 20%, limitandosi ad ottenere il rifiuto da parte degli industriali di attaccare «le conquiste di carattere morale raggiunte dai lavoratori».

    Anche la vertenza alla FIOM non si conclude con risultati diversi, infatti i capi sindacali, per procedere ad una ripresa del lavoro nelle fabbriche, riconoscono la necessità di superare con spirito conciliativo il periodo di crisi che attraversa il paese. Per questo comportamento collaborazionista e di aperta difesa del sistema di produzione capitalista, i bonzi sindacali ricevono palesi e sentiti ringraziamenti da parte degli industriali; L’Idea Nazionale, giornale nazionalista filofascista, dà ampia lode al senso di responsabilità ed equilibrio dimostrato dagli organizzatori degli operai.

    Ma il tradimento dei dirigenti confederali non conosce limiti ed arriva ad imporre delle limitazioni al diritto di sciopero nei servizi pubblici. In caso di scioperi generali per proteste locali devono essere esclusi dal parteciparvi gli addetti ai servizi pubblici, ferrovieri, postelegrafonici, tranvieri impiegati in servizi interurbani, fornai, gli addetti alla distribuzione dell’energia elettrica e dell’acqua potabile. Così pure dagli scioperi di carattere politico nazionale sono esclusi i fornai e gli addetti alle distribuzioni dell’acqua potabile e dell’energia elettrica. Oltre a ciò, si minaccia di espellere dalle Confederazioni quelle organizzazioni e quei gruppi che agiscono in contrasto con le direttive sindacali stabilite o mettono in cattiva luce l’operato della Confederazione. Si aggiunge inoltre che ogni agitazione per essere portata avanti deve ottenere il previo consenso ed autorizzazione del Comitato Esecutivo della Confederazione dei Lavoro.

    Anche in questo caso non poteva mancare un vivo ringraziamento della controparte, cioè del padronato. La Tribuna, organo della borghesia, infatti si rallegra per la decisione presa dalla C.G.L. di espellere quegli elementi definiti estremisti e catastrofici; come pure sottolinea il fatto positivo di disciplinare gli scioperi nei servizi pubblici e che siano solo i capi supremi delle Confederazioni a maneggiare l’arma dello sciopero. La Tribuna afferma di apprezzare il merito civile di queste decisioni ed assolve la C.G.L. dagli eccessi e dagli errori compiuti in passato, dovuti a pressioni demagogiche che l’hanno indotta in errore, contro l’intimo parere dei capi più veggenti ed equilibrati. Con le decisioni prese, sempre secondo La Tribuna, la C.G.L. è giunta al riconoscimento della interdipendenza delle forze e degli interessi sociali; tale posizione assunta dalle Confederazioni favorirà la pace sociale ed agevolerà la collaborazione per la salvezza nazionale; tale atto è davvero un atto di conciliazione umana e nazionale, che cancella le responsabilità di cui in passato la C.G.L. si era macchiata.

    Questa volontà di conciliazione va oltre, e non poteva essere diversamente, tenuto conto delle premesse. Infatti i mandarini sindacali Galli, Baldesi e Caporali per la C.G.L. sono i firmatari dell’atto di pacificazione stipulato il 4 agosto fra fascisti e socialisti. Baldesi, in Battaglie Sindacali, organo sindacale delle Confederazioni, valuta il patto di Roma come un «fatto morale che mira a spazzar via dalla vita civile tutto quanto si era infiltrato e che avvelenava l’esistenza, esso è l’avvio per un ritorno a metodi di civiltà che pongono fine ad altri che per una strana inversione morale (n.d.r.: il fascismo come malattia morale!) sono stati anche esaltati».

    L’opera disfattista e antiproletaria dei bonzi sindacali non ha limiti e le conseguenze sono assai più gravi in quelle zone, come per esempio il ferrarese, che sono le roccheforti del fascismo. Nelle campagne ferraresi il movimento contadino era assai forte e poteva considerarsi l’avanguardia. Ciò lo aveva portato a trattare da pari a pari con i padroni, i quali ricorsero alle violenze più inaudite sguinzagliando per le campagne squadracce fasciste, protette dalle forze pubbliche, autorizzate ad intervenire quando veniva opposta resistenza alle violenze. Ecco che in questa situazione furono inviati dalla Confederazione del Lavoro i più vili ed accomodanti mandarini sindacali, i quali emisero comunicati invitanti alla calma ed alla rassegnazione, mentre la violenza fascista continuava più spietata e feroce. Fu detto ai contadini: con la calma si dominano le situazioni, siate disciplinati, non provocate. Il risultato fu che, rimasti in balia di se stessi, senza alcuna guida che indicasse loro una precisa linea di difesa, sotto la minaccia di gravi rappresaglie, molti passarono ai sindacati autonomi controllati dall’Agraria e dagli stessi fascisti.

    Non migliore sorte ebbero i contadini del pavese entrati in sciopero, i quali, abbandonati a se stessi, si trovarono di fronte i cannoni fascisti.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 28, dicembre 1976]
     

    Di fronte alla resa dei capi sindacali opportunisti e alla loro accettazione di patti-capestro o patti-capitolazione, come alla FIAT e nell’agitazione dei tessili, si riscontrano azioni di critica e di resistenza all’operato delle Confederazioni in settori del proletariato. Per esempio, gli operai tessili dei vari centri della Lombardia scendono in sciopero nonostante i dirigenti l’abbiano revocato e non accettano la riduzione del salario, impedirono a Buozzi di parlare e definiscono l’accordo una soluzione vergognosa. Come risposta dai capi sindacali hanno che la posizione assunta è "di marca comunista".

    Il metodo seguito dai dirigenti federali verso le organizzazioni e gli operai che si pongono sul terreno della aperta lotta di classe è quello dell’intimidazione, della minaccia di espulsione, come fa l’Internazionale gialla di Amsterdam. Un esempio di questo comportamento si può riscontrare nella polemica verificatasi fra la Camera del Lavoro di Savona, diretta dai comunisti, e la segreteria nazionale della C.G.L. Il motivo della polemica è la lotta contro la riduzione dei salari e l’accordo di Roma per la pacificazione. Di fronte alle critiche della Camera del Lavoro di Savona per l’operato della Confederazione, Baldesi ribadisce l’obbligo della disciplina da parte degli organizzati, chi non vuole rispettarla può prendere altre strade e aggiunge che la C.G.L. ha un patto di alleanza con il P.S.I. che intende far rispettare da tutti i suoi aderenti.

    Alla collaborazione dei dirigenti confederali con gli industriali nel campo economico corrisponde in quello politico la collaborazione del P.S.I. con i vari gruppi borghesi. Fra P.S.I. e C.G.L. ci sono stretti rapporti di alleanza. I comunisti come quelli di Savona sono suoi avversari e non sarà data loro la possibilità di prendere iniziative come quelle intraprese «in quanto per ora non avete la fortuna di essere i nostri padroni».
     
     

    L’ATTO DI PACIFICAZIONE
     

    Il patto di pacificazione fra socialisti e fascisti rappresenta l’atto più evidente della politica di collaborazione e di riconciliazione fra le classi svolta dal P.S.I.. Si vuole far dimenticare alle masse proletarie il passato e le violenze subite dalle guardie bianche al servizio del capitale. Il P.S.I., muovendosi sul terreno pacifista, fa proprio il punto di vista dei turatiani, che sostenevano il disarmo degli odi e delle mani, la lotta con le armi civili della propaganda e della discussione, cioè usando quei mezzi che offrono le istituzioni borghesi. Il principio del social-pacifismo ha alla base il comandamento cristiano "non uccidere" e l’invito a porgere l’altra guancia all’offensore. Il garante di questo trattato di pace sarà lo Stato, arbitro il governo nelle controversie che seguiranno. Ma com’è possibile credere ad uno Stato al di sopra delle classi, arbitro imparziale, quando tutti gli strumenti dello Stato borghese hanno servito fino ad ora il fascismo in tutte le sue imprese, quando il governo è il manutengolo del fascismo ed i fascisti si vantano di essere i tutori dello Stato? Il fascismo non si è sviluppato in antitesi allo Stato; credere al carattere antistatale del fascismo è grave errore dei socialisti.

    Nelle parole della Sinistra «il fascismo non è che un aspetto della violenza borghese – l’aspetto controffensivo che anticipa l’attacco del proletariato offensivo di domani (...) Lo Stato è un’organizzazione di difesa della classe più forte, è il prodotto degli antagonismi inconciliabili esistenti fra le classi. È un potere collocato dalla borghesia apparentemente al di sopra della società, destinato ad attutire il conflitto fra le classi e mantenerlo nei limiti dell’ordine. Lo Stato si rafforza come potere sempre più man mano che si acuiscono i conflitti di classe. Per i socialdemocratici ed i piccoli borghesi lo Stato è organo della conciliazione fra le classi».

    Pertanto non è una menomazione per i fascisti accordarsi con lo Stato e riconoscerne l’autorità. Chi ha tradito nel firmare questo patto di pace non sono i fascisti, ma i socialisti, i quali accettano di trattare e di accordarsi con la classe nemica e riconoscono come arbitro nelle contese uno degli strumenti di lotta più perfezionati e potenti degli stessi avversari, cioè lo Stato. Il trattato di pace di Roma darà mano libera al governo per reprimere ed iniziare una reazione legale; tale reazione legale, per ragioni facilmente comprensibili sarà sempre più feroce contro il proletariato ed il P.S.I. dovrà tacere, in quanto con il patto stipulato autorizza quanto il governo fa per mantenere la cosiddetta pace sociale.

    I socialisti giustificano l’atto di pacificazione in nome dell’umanitarismo, della civiltà, del bene del paese. Con questo patto il P.S.I. si ascrive il merito di voler ricondurre le lotte politiche ed economiche sul terreno loro naturale, che non è quello dell’imboscata, dell’assassinio e dell’incendio. È il tentativo, sempre secondo il P.S.I., di richiamare tutti al rispetto dei diritto di vivere che solo i selvaggi non riconoscono. Bacci, segretario del P.S.I., in un articolo sull’Avanti, paragona il fascismo a quelle manifestazioni della natura (temporali e terremoti) contro le quali non si accetta il combattimento, ma si corre ai ripari e sottolinea il senso di responsabilità dimostrato dal P.S.I., il quale, senza accettare la battaglia cruenta e l’annientamento di uomini e di cose, pur sotto i colpi più accaniti dell’avversario, ha dimostrato come si possa ricondurre tutti all’esplicazione civile dei programmi politici e sociali, così indispensabili, per il P.S.I., ai fini del progresso ed ai più radicali cambiamenti nella struttura della società.

    Con l’atto di pacificazione il P.S.I. crede di favorire ed accelerare la crisi del fascismo – questo determinerebbe una scissione al suo interno fra l’ala oltranzista dei grandi agrari emiliani, facenti capo a Farinacci, e l’ala meno intransigente capeggiata da Mussolini. I socialisti non capiscono che il fascismo che conta non è quello dei fascisti. Ciò che conta è l’armamento del capitalismo, dello Stato borghese, che la crisi fascista non può toccare. La Sinistra: «Lo Stato si rafforza come potere sempre più man mano che si acuiscono i confitti di classe». Mussolini stesso ebbe a dire: «Per me il fascismo non è fine a se stesso, ma un mezzo per ristabilire l’equilibrio nazionale», e commenta l’atto di pacificazione affermando: «La battaglia è vinta», e sottolineando come esso rappresenti una tappa importante ai fini di disarmare il movimento socialista di ogni velleità rivoluzionaria e bolscevica. Inalberare la bandiera pacifista da parte del P.S.I. costituisce per la borghesia una sicurezza di fronte allo stato d’animo pieno di odio e d’incognite, e desideroso di vendetta, determinatosi nelle masse proletarie in seguito alle continue violenze subite.

    D’altra parte, il proletariato non è come un orologio che si può caricare quando si vuole, per cui questa sagra pacifista non serve che a indebolire il suo potenziale rivoluzionario e non può essere giustificata, secondo quanto dicono i socialisti, come un momento di tregua, di sosta, utile al proletariato per ritemprare e raccogliere le proprie energie. Mentre la borghesia continua la sua reazione, una volta sperimentata l’impotenza del P.S.I. a fronteggiare sul terreno dell’aperta lotta di classe l’offensiva capitalista. Gli stessi socialisti sperimenteranno sulla propria pelle come l’atto di pacificazione sia stato solo una commedia.

    A farne le spese fu anche il deputato socialista Di Vagno, mentre partecipava ad una manifestazione di contadini pugliesi, i quali, nonostante che per alcuni mesi avessero saputo contrastare validamente con la forza la controffensiva padronale, erano stati invitati da Turati, con toni patetici ed umanitari, a mutare comportamento, con la raccomandazione di non raccogliere le provocazioni e le ingiurie degli avversari, di essere «buoni, pazienti, santi, di non meditare vendetta ma di compatire e perdonare i nemici di classe in quanto la violenza non può dare dei frutti ai violenti e coloro che oggi offendono piegheranno domani la cervice e temeranno per l’opera propria compiuta».
     
    Anche al P.C.d’I. viene rivolto l’invito a partecipare alle trattative per la pacificazione, ma la risposta non può essere che negativa. Bombacci risponde che nessun accordo ci può essere tra il carnefice e le sue vittime, fra gli oppressori e gli oppressi. Per aver rifiutato di prender parte a questo "mercato di scaicchi", il Partito Comunista viene considerato una associazione di assassini, di delinquenti, di teppisti bolscevichi, ed additato come la causa di tutte le disgrazie che si abbattono sul paese ed in definitiva la causa del fascismo, alle cui azioni offrirebbe motivo e giustificazione.

    I comunisti, per non aver accettato di compiere questo delitto contro il proletariato italiano, sanno di essere il bersaglio della coalizione reazionaria comprendente non solo i fascisti, ma anche i socialisti e i popolari. Essi sanno che il disarmo si accetta solo se imposto con la forza degli avversari e che non consegneranno mai spontaneamente le armi, rinunciando alla lotta, ma che devono restare e che resteranno ai loro posti di combattimento nella posizione inamovibile che è loro propria. Non ricorreranno mai allo Stato per un’ipotetica difesa contro il padrone divenuto più forte, in quanto non credono ad uno Stato imparziale, estraneo alla lotta di classe e capace di realizzare la pace sociale.

    Credere a queste fandonie è rinnegare ogni principio di lotta di classe, è credere alla consanguineità fra sfruttatori e sfruttati. «Il P.C.d’I. non sarà mai il Maramaldo del proletariato o se si preferisce il Pulcinella, come lo è il P.S.I.. Il comportamento dei socialisti nasconde il bersaglio da colpire, i socialisti stessi in nome della legalità, dell’ordine e della pace sociale, saranno le spie ed i complici dei fascisti nel ruolo di carnefici; del resto già i fatti di Firenze e di Maremma lo hanno dimostrato chiaramente».

    L’atto di pacificazione è in funzione anticomunista; la persecuzione contro i comunisti sarà legale; essere comunista, lottare per l’avvento al potere della classe proletaria non costituirà un delitto solo secondo un Farinacci, ma sarà un delitto da perseguire nel nome stesso della legge. Quei proletari che si opporranno con la violenza alla reazione borghese verranno affidati alla giustizia, ad una corte arbitrale presieduta da un De Nicola qualsiasi, che solo l’imbecillità dei socialisti può ritenere giudice imparziale. Ogni violenza di classe che sarà compiuta dalle masse proletarie verrà definita "delinquenza comunista".

    La riprova dell’accordo social-fascista contro i comunisti è data da tutta una serie di comunicati ed atti ufficiali firmati congiuntamente dai rappresentanti autorevoli dei due partiti. Possiamo esaminarne alcuni particolarmente significativi.

    In seguito all’uccisione di un giovane fascista avvenuta nelle vicinanze di Cremona, fascisti e socialisti sottoscrivono un manifesto comune in cui si parla di "malvagio agguato comunista", si condannano gli assassini e quella propaganda che li aveva spinti alla delinquenza. Le firme in calce al manifesto sono di Farinacci e di un sindaco socialista. Sempre nel Cremonese fra fascisti e socialisti viene stabilito un accordo in cui si legge che le due parti contraenti si impegnano ad arginare il movimento comunista, a formare una commissione mista alla quale dovevano essere denunciati tutti coloro che appartenevano al movimento comunista. Inoltre ci si impegna ad impedire la venuta nella zona di elementi ritenuti sovversivi.

    Nel milanese socialisti e fascisti, sempre in relazione all’atto di pacificazione, firmano un accordo in cui viene stabilita l’espulsione dalle leghe dei comunisti, l’obbligo di denunciare le loro attività, il divieto di pubblicare e di pronunciare frasi sovversive ed anti-patriottiche, il rispetto assoluto di ogni iniziativa fascista. L’accordo social-fascista comprende anche dei particolari curiosi come l’obbligo di portare nei cortei socialisti bandiere rosse fregiate con un largo nastro tricolore trasversale ed il divieto assoluto per i socialisti di attaccarsi al petto distintivi dei soviet.

    I comunisti naturalmente sottolineano agli occhi del proletariato questi patti d’infamia, ma al tempo stesso sono consapevoli che l’accordo social-fascista non può sopprimere le ragioni di lotta fra il proletariato e la borghesia; la storia infatti che, come ha detto Marx, è storia di lotte fra le classi, proseguirà il suo corso e la pace sociale può essere conseguita solo dopo l’abbattimento violento del sistema borghese e la presa del potere da parte del proletariato, e non attraverso patti come quello di Roma che, riconoscendo allo Stato il supremo diritto di far rispettare l’accordo, di fatto non fa che dare alla borghesia piena libertà di amministrare la violenza a proprio uso e consumo, in quanto lo Stato è strumento della classe dominante per tenere sottomessa e per sfruttare la classe oppressa.
     
     

    IL FRONTE UNICO SINDACALE
     

    Di fronte alla resa ed alla posizione collaborazionista del P.S.I. e della C.G.L., di fronte all’offensiva massiccia e decisa del capitalismo, il dovere del Partito Comunista è quello di assumere il ruolo di guida nella lotta del proletariato contro la reazione borghese, di chiamare alla resistenza e alla riscossa l’intera classe lavoratrice, e di dare a questa lotta la stessa unità e decisione che si riscontra nel campo avversario. Infatti l’esperienza dimostra che quanto più il fronte di battaglia è ampio, più numerose sono le prospettive di vittoria, poiché l’avversario di classe sarà costretto a dividere le sue forze.

    Già dai primi mesi del 1921, di fronte ai primi licenziamenti di operai comunisti dalle fabbriche, il partito aveva chiamato l’intera classe operaia a difendersi unitariamente dall’attacco del padronato, portando la lotta oltre i limiti delle singole categorie professionali e dei vari raggruppamenti locali.

    «Nell’attuale situazione non ci si può limitare allo stretto orizzonte delle questioni e controversie contingenti e particolari, ma si devono porre i capisaldi di un’azione generale e compatta di tutto il proletariato, il quale deve difendere precise posizioni di principio, abbandonando le valutazioni di dettaglio su questa o quella profferta avversaria. Infatti ogni concessione anche limitata su questioni fondamentali va ripudiata come creazione di un precedente che darebbe battaglia vinta agli avversari, i quali sarebbero resi più audaci ed agguerriti dai primi successi. Il mezzo a cui si dovrà ricorrere non appena, su qualsiasi fronte o per qualsiasi categoria o gruppo di lavoratori vengano intaccate le condizioni di vita conquistate, è lo sciopero nazionale generale. Pertanto chi tocca una categoria, un gruppo di operai o anche un solo operaio, tocca tutto il proletariato».
    I punti fermi fondamentali sui quali ancorare l’azione di difesa delle masse proletarie, il Partito e il suo Comitato Sindacale li stabiliscono in base alle condizioni in cui si trova la classe lavoratrice, ai suoi bisogni concreti, alle sue necessità urgenti, senza preoccuparsi di sapere se siano compatibili o no con lo sfruttamento capitalista.

    I partiti comunisti infatti, secondo le Tesi sulla tattica formulate al Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista, non devono limitarsi a formulare dei programmi minimi, come fanno invece i centristi e i riformisti, ma devono portare avanti rivendicazioni immediate e concrete, tenendo conto solo dello stato di disagio e di miseria che il proletariato non può e non deve sopportare.

    Compito dei partiti comunisti è poi quello di allargare il campo delle lotte che si sviluppano in nome di tali rivendicazioni, approfondirle e collegarle fra di loro sul terreno delle rivendicazioni immediate, subito comprese ed accettate dalle masse proletarie, mostrare chiaramente il tradimento socialdemocratico e conquistare la fiducia delle masse stesse e la loro adesione ai princìpi e agli obiettivi del comunismo. Poiché il capitalismo nell’attuale crisi è costretto, per mantenersi in vita, non solo a rifiutare ogni ulteriore concessione, ma a cercare di ritogliere al proletariato le posizioni conquistate e rifiutargli perfino il minimo necessario per l’esistenza, ecco che la tattica delle rivendicazioni immediate assume un valore rivoluzionario. I leaders dei partiti socialdemocratici ed i mandarini sindacali infatti, nell’attuale situazione di crisi del capitalismo, non portano neppure avanti le loro tradizionali direttive rivendicazioniste e riformiste, perché tale tipo di azione impedirebbe il riassestamento della produzione capitalista, quindi non predicano la resistenza collettiva ma accettano la disoccupazione e la riduzione dei salari.

    Le rivendicazioni immediate contro i licenziamenti, i bassi salari e la repressione legale ed illegale costituiscono un mezzo di incitamento rivoluzionario di vari strati proletari e poiché la borghesia, nello stato di cose attuali, non può fare concessioni su questo terreno, di fronte alla loro resistenza, ecco che mobilita le guardie bianche per il massacro dei lavoratori. Di fronte alla spietata reazione borghese i proletari possono toccare con mano l’incapacità del regime capitalista a soddisfare anche i loro più elementari bisogni, e perverranno a quelle stesse conclusioni che i partiti comunisti sostengono, cioè che per le masse proletarie l’unica via di salvezza dalla miseria e dalla fame sta nell’abbattimento violento del potere della borghesia.

    Quindi le rivendicazioni immediate, oltre a fare acquistare al proletariato una coscienza e solidarietà di classe, lo rendono consapevole della necessità delle rivendicazioni ultime, che si riassumono nella conquista del potere statale. La differenza fra la tattica riformista e quella comunista sta nel fatto che la prima mira ad attutire i contrasti fra capitale e forza-lavoro, a farli sboccare nell’accordo e nella collaborazione fra le classi, mentre la seconda tende a liberare tutti i conflitti, a generalizzarli, a favorirne lo sviluppo, per quanto possibile, oltre i limiti originari; infatti è nella lotta che i partiti comunisti si sviluppano. Da ciò l’invito dell’Internazionale «andate verso le masse, ponetevi alla testa delle loro lotte, formate il Fronte Unico Proletario». Nella lotta il combattente proletario potrà riconoscere che l’organizzazione comunista è l’unica coraggiosa ed energica guida del proletariato, mentre i partiti socialisti esauriscono la loro attività nelle chiacchiere sulle riforme e nelle impotenti richieste parlamentari.

    Sarebbe un grave errore (nel quale incorse per esempio la scuola olandese), richiamandosi alla lotta rivoluzionaria finale, giudicare come troppo limitati gli obiettivi delle lotte quotidiane della classe e assumere di fronte ad essi un atteggiamento passivo.

    In relazione alle adesioni delle masse lavoratrici ai principi del comunismo, l’Internazionale Comunista sottolinea l’importanza della conquista dei sindacati proletari da parte dei comunisti, con la conseguente epurazione dei dirigenti opportunisti. In tal modo i sindacati si trasformeranno in falangi dell’esercito rivoluzionario, imbevendosi dello spirito comunista e lottando inquadrati dal partito di classe per la conquista del potere.

    Per conquistare i sindacati i comunisti devono smascherare l’azione dei loro capi, liberare la classe proletaria dall’influenza nefasta di questi servi della borghesia, opporre alle loro direttive precise proposte concrete, in modo che si determini la separazione degli operai dai loro capi social-riformisti.

    Nei confronti della Confederazione Generale del Lavoro, la direttiva data dal partito è che i comunisti che vi militano devono restarvi a tutti i costi, nonostante i mandarini sindacali facciano di tutto per espellerli. Il comportamento dei bonzi non deve spingere all’avventata conclusione che convenga prepararsi alla scissione sindacale. Lo stesso Lozowsky, segretario dell’Internazionale Sindacale Rossa, del resto, sottolinea che il compito dei comunisti consiste nella conquista dei sindacati e non nel cercare di produrre la scissione. Non bisogna ripetere l’errore commesso dagli anarco-sindacalisti, allorché nel 1911, disgustati dalla politica portata avanti dai dirigenti confederali, vollero dar vita ad un’organizzazione di "veri rivoluzionari" e così facendo si isolarono dalle masse proletarie.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 29, gennaio 1977]
     

    All’interno della C.G.L. i comunisti devono esercitare a fondo la critica alla politica collaborazionista dei dirigenti in modo da debellare l’indirizzo opportunista della Confederazione.

    Già subito dopo la scissione di Livorno, allorché i dirigenti confederali, tutti socialdemocratici, rimasero nel P.S.I., tenendo legata a questo la massima organizzazione sindacale del proletariato, il partito giudicò il problema sindacale di vitale importanza, in quanto il suo stesso avvenire era strettamente legato alla formazione di una solida base in seno a tutte le organizzazioni proletarie. Da ciò la necessità di creare al proprio fianco un forte Comitato Sindacale diretto e controllato dagli organi del Partito stesso e capace di organizzare e disciplinare le forze comuniste già iscritte alla Confederazione.

    Al Congresso confederale le posizioni comuniste sulla questione sindacale ottennero 600.000 voti e successivamente numerose furono le Camere del Lavoro ed i sindacati di mestiere che sottoscrissero le direttive comuniste. Ma il debellare i bonzi sindacali dipendeva da un rapporto di forze all’interno dell’organizzazione; pertanto i comunisti fecero opera affinché nelle Confederazioni entrassero tutti i lavoratori rivoluzionari che ne erano fuori e tendevano ad unificare gli organismi sindacali proletari che parimenti si trovavano fuori dei quadri confederali. In tal maniera nuove forze si sarebbero associate all’opposizione svolta dalle minoranze comuniste in seno alla C.G.L. e saebbe statso possibile ingaggiare una lotta decisiva e senza quartiere contro i capi opportunisti per la conquista delle Confederazioni e per fare di esse uno strumento dell’azione rivoluzionaria del proletariato italiano.

    In aderenza a tali direttive è la posizione assunta dai comunisti nel X Congresso del Sindacato Ferrovieri Italiani tenutosi a Bologna, in cui i compagni comunisti sostengono la necessità che il S.F.I. entri nella C.G.L. ed aderisca all’Internazionale Sindacale Rossa. Parimenti sotto tale prospettiva va considerato l’invito rivolto all’U.S.I. per l’unificazione con la C.G.L.. La linea sindacale comunista risponde non solo alla necessità di combattere l’indirizzo opportunista dei dirigenti confederali, ma ha come presupposto fondamentale il fatto che la lotta di classe esige l’unità più completa delle forze dei proletariato. Infatti il frazionamento degli organismi sindacali operai determina una diminuzione di forze ai fini della lotta di classe. Da queste considerazioni deriva la proposta comunista di formare il Fronte Unico Proletario.

    Inoltre è la borghesia stessa che dà in proposito la lezione. Infatti nell’attuale situazione tutti i gruppi capitalisti dominanti concentrano ed unificano sempre più le loro organizzazioni, sia politiche sia economiche.

    In relazione a tali posizioni ed all’attacco massiccio che la borghesia porta alle conquiste raggiunte dai lavoratori, il Comitato Sindacale comunista rivolge un appello alle tre organizzazioni sindacali italiane che organizzano il maggior numero di lavoratori (C.G.L., S.F.I., U.S.I.) per la difesa e la riscossa proletaria contro l’offensiva borghese.

    Questo appello comprende una serie di punti precisi, di principio, che interessano tutte le categorie di lavoratori e sulla difesa di questi punti si invita a sostenere una grande e compatta battaglia. I punti enunciati sono: otto ore di lavoro; rispetto dei contratti vigenti e dell’attuale livello globale dei salari; rispetto dei patti colonici; assicurazione dell’esistenza per i lavoratori licenziati e per e loro famiglie attraverso la corresponsione di un indennizzo proporzionato al costo della vita ed al numero dei componenti la famiglia tendendo a raggiungere il livello dell’integrale salario, gravando gli oneri in parte sulla classe industriale ed in parte sullo Stato; integrità del diritto della organizzazione e riconoscimento di questa.

    Elevare questi punti a questioni di principio significa attuare lo sciopero generale nazionale di tutte le categorie organizzate degli operai e dei contadini, non appena su qualunque fronte, per una qualsiasi categoria o in qualsiasi zona, le classi padronali attaccheranno le posizioni raggiunte dai lavoratori.

    La C.G.L. risponde all’iniziativa presa dal Comitato Sindacale comunista e fa osservare che l’appello è "illegale", in quanto tutti gli iscritti devono avanzare le proprie proposte servendosi degli organi che lo statuto confederale designa a loro legittimi rappresentanti. Quanto al contenuto dell’appello i dirigenti confederali lo definiscono «un meschino tentativo di speculazione demagogica sopra i tremendi dolori che sopporta attualmente il proletariato italiano».

    Parlare di sciopero generale nazionale per i mandarini sindacali è insensato, puerile; tutto, secondo questi signori, si dovrebbe risolvere per via parlamentare con l’approvazione di certe leggi, ritenute il solo strumento valido per porre un rimedio alle tristi condizioni in cui si trovano le masse di proletari. Il colmo della demagogia, secondo i capi confederali, è costituito dalla proposta comunista di corrispondere un salario ai disoccupati in proporzione al costo della vita e alle dimensioni della loro famiglia. Questo, secondo Baldesi, rappresenterebbe la fabbrica della disoccupazione e non il rimedio ad essa, tenendo conto della situazione in cui si trovano le industrie e del fatto che lo Stato, per aumentare i sussidi ai disoccupati, ha bisogno di riempire le sue casse. Ciò è possibile, secondo Baldesi, solo facendo approvare delle leggi in parlamento.

    L’U.S.I. risponde che i riformisti restano tali anche nel fronte unico e che, comunque, se i comunisti riusciranno a piegare la Confederazione all’azione generale da loro stessi proposta, l’U.S.I. sarà ben lieta di parteciparvi. Chiedere ai comunisti la conquista della C.G.L., come fanno gli anarco-sindacalisti, è chiedere la luna, è voler raggiungere il fine senza preparare i mezzi, è voler ottenere la vittoria senza lotta.

    Il S.F.I. ribadisce l’autonomia del sindacato ferrovieri e svela di fatto il suo carattere per certi aspetti corporativo.

    Nonostante la risposta negativa sulla formazione di un fronte unico sindacale per la difesa proletaria da parte dei dirigenti della C.G.L., dell’U.S.I. e del S.F.I., il Comitato Sindacale comunista non desiste dalle iniziative prese e si appella direttamente alle masse proletarie, le quali non possono non sentire la validità della proposta comunista. Spetta ai gruppi comunisti e ad ogni singolo militante di svolgere un’intensa azione di propaganda a sostegno delle proposte. Nelle officine dove ancora si lavora, i gruppi comunisti devono organizzare gli operai e spiegare loro in tutti i particolari le proposte dell’agitazione.

    I gruppi di officina formatisi devono organizzarsi inoltre per industrie e mettersi in contatto con gli altri gruppi simili. È necessario che tutti insieme abbiano uno stretto collegamento con il Comitato Sindacale comunista locale. Dove esiste disoccupazione si devono formare dei consigli di disoccupati per rioni e per quartiere. Questi consigli devono anch’essi mantenere stretti collegamenti con i gruppi di officina.

    Le organizzazioni che seguono le direttive comuniste convochino i loro organi dirigenti, le loro assemblee, i consigli generali, e trasmettano il loro assenso all’appello comunista alla Centrale Confederale. Anche dove i comunisti sono in minoranza si deve fare ogni sforzo per arrivare all’esame ed all’accettazione della proposta comunista da parte dei lavoratori organizzati. Le questioni che dividono i comunisti dall’indirizzo dei dirigenti confederali devono essere costantemente sollevate dai compagni nelle riunioni di Federazione, nelle Camere del Lavoro, ma soprattutto nelle assemblee delle Leghe, che raccolgono effettivamente le masse degli organizzati. La propaganda all’appello comunista deve essere svolta, oltre che attraverso la stampa, tramite l’organizzazione di comizi e di riunioni di operai occupati e disoccupati. Solo attraverso una vasta azione di propaganda e di preparazione è possibile imporre ai dirigenti sindacali confederali la discussione e l’accettazione delle proposte comuniste.

    Grandiosa fu a Torino la manifestazione dei 10.000 disoccupati che ebbe luogo il 1° settembre 1921, nella quale Bordiga ribadì che l’unico mezzo per salvare la classe proletaria dalla fame e dalla miseria era la lotta generale contro la borghesia, per cui i sindacati avrebbero dovuto trasformarsi in organi di lotta rivoluzionaria.

    La necessità del Fronte Unico Proletario, fatta dal Comitato Sindacale comunista, venne ribadita nel primo Convegno delle organizzazioni sindacali comuniste, tenutosi a Milano nei giorni 8 e 9 settembre, a cui parteciparono dirigenti di numerose Camere del Lavoro, Federazioni, Leghe, Sindacati di mestiere, Comitati e organizzazioni sindacali che si muovevano secondo le direttive comuniste.

    In tale convegno vennero affrontate ed approfondite varie questioni importanti, come:
     1) i rapporti fra l’Internazionale Comunista e l’Internazionale Sindacale Rossa;
     2) la funzione dei gruppi comunisti;
     3) il problema dei disoccupati;
     4) la necessità per i militanti comunisti nella C.G.L. di spingere le Confederazioni ad aderire senza riserve all’Internazionale Sindacale Rossa, rompendo ogni legame con l’Internazionale gialla di Amsterdam.

    Per quanto concerne i rapporti fra l’Internazionale Comunista e l’Internazionale Sindacale, in contrasto con coloro (fra i quali l’U.S.I. e quella spagnola) che sostenevano l’assoluta indipendenza ed autonomia dell’Internazionale Sindacale di Mosca dalla III Internazionale Comunista, viene sostenuta la necessità di stretti rapporti fra le due Internazionali. Infatti l’assoluta indipendenza è inammissibile poiché per ottenere la vittoria è indispensabile unire in un unico fascio tutte le forze rivoluzionarie. Le due Internazionali si completano a vicenda ed ogni tentativo di separarle condurrebbe ai più deprecabili risultati. Del resto la borghesia stessa ce ne dà un esempio nel blocco compatto che la sua organizzazione economica forma con quella politica. L’indipendenza nei confronti dell’Internazionale Comunista minaccerebbe seriamente di divenire una dipendenza verso il capitale.

    Per quanto riguarda i rapporti internazionali della Confederazione, il dovere dei comunisti è di spingerela ad aderire senza riserve all’Internazionale Sindacale Rossa, tagliando nettamente i ponti con l’Internazionale gialla di Amsterdam, la quale è un baluardo della borghesia ed i suoi capi agenti del capitalismo. Essa infatti sosteneva la collaborazione fra le classi, la riconciliazione con la borghesia, la pace sociale, il passaggio graduale ed indolore al socialismo e negava il valore della rivoluzione e della dittatura del proletariato.

    Non è possibile ai comunisti avallare il comportamento ambiguo tenuto dalla C.G.L., la quale, come disse Lozowsky al Primo Congresso dell’Internazionale Sindacale Rossa, «è sposata con Amsterdam ed amoreggia con Mosca», poiché aderiva contemporaneamente a due organizzazioni internazionali in lotta fra loro, benché nella realtà si muovesse ben più sulle posizioni di Amsterdam che non su quelle dell’Internazionale Sindacale Rossa. Infatti, sia nel III Congresso dell’Internazionale Comunista che nel I Congresso dell’Internazionale Sindacale Rossa, le fu posto l’ultimatum "o Mosca o Amsterdam".

    Per quanto riguarda i gruppi comunisti, al primo convegno delle organizzazioni sindacali comuniste viene sottolineata, di fronte a certe perplessità manifestate da alcuni compagni, la loro funzione, che è, inscindibilmente, politica ed economica al tempo stesso.

    Vengono ribadite le norme già stabilite dal partito per la formazione e l’attività dei gruppi comunisti, i quali devono essere delle piccole cellule attive, formate da almeno tre compagni iscritti al Partito Comunista. Tali gruppi comunisti si formano nelle fabbriche, nelle aziende agricole, nelle Leghe di mestiere, nelle cooperative di consumo e di produzione, nei circoli operai e nei sindacati. Il loro scopo principale è di svolgere opera di propaganda e di penetrazione delle direttive comuniste in seno alle masse lavoratrici; sono quindi una longa manus del Partito e del Comitato Sindacale comunista, con i quali devono mantenere stretti e continui rapporti.

    L’ultima questione affrontata nel primo Convegno delle organizzazioni sindacali comuniste è quella dei disoccupati. I socialdemocratici considerano i senza lavoro come Lumpenproletariat e li abbandonano a se stessi, invocando per essi solo l’elemosina dello Stato o rimedi che sono soltanto dei palliativi temporanei. Il comportamento dei riformisti ha fatto sì che nuclei di disoccupati si sono sentiti abbandonati a se stessi, per cui in alcuni casi si sono mostrati propensi a portare avanti iniziative in contrasto con la realtà e la logica.

    D’altra parte i capitalisti hanno compreso che la disoccupazione è la più terribile macchina da guerra che si possa muovere contro il proletariato e le sue organizzazioni; essa, infatti, le serve a portare la discordia nei ranghi della classe operaia, opponendo i disoccupati a coloro che ancora lavorano. Quello che per il capitalismo costituisce l’esercito di riserva da manovrare nel proprio interesse, per i comunisti deve divenire un esercito attivo della rivoluzione, propulsore di un ordinamento sociale che non conosca lo spettro della disoccupazione. Pertanto, nei confronti dei disoccupati, è necessario ribadire costantemente che la disoccupazione è frutto del regime borghese e che questo flagello non può essere risolto nella società capitalista; esso sparisce solo dopo il rovesciamento del potere borghese.

    La borghesia e l’opportunismo sindacale, con la creazione di casse di assicurazione e di altre forme assistenziali, cercano di convincere il proletariato che la sua esistenza può essere assicurata sotto il capitalismo, nascondendogli in realtà il pericolo che la minaccia. I disoccupati, secondo i comunisti, devono restare nelle organizzazioni sindacali e non formare, com’è avvenuto in Germania, organizzazioni separate di disoccupati. Ciò produrrebbe un dualismo di interessi pericoloso per la compattezza e l’unità del fronte proletario.

    Fra operai occupati e disoccupati, ai fini della lotta contro il sistema borghese, non ci sono differenze; in ogni operaio oggi occupato c’è un possibile disoccupato di domani, perché la disoccupazione è come un’arma rivolta contro tutti gli operai e non riguarda solo i disoccupati. Il compito dei comunisti è quello di mantenere stretti contatti fra il proletariato disoccupato e quello che ancora lavora, facendo capire al primo che non potrà ottenere successi se non difendendo gli interessi di tutta la classe lavoratrice in quanto gli obbiettivi sono comuni.

    Agli operai ancora occupati va fatto costantemente presente che la sorte della disoccupazione li riguarda direttamente e che la lotta dei disoccupati deve essere la lotta di tutti i lavoratori contro lo sfruttamento e l’affamamento del proletariato da parte della classe borghese.

    Al 1° Convegno delle organizzazioni sindacali comuniste viene inoltre presa la decisione di dare vita ad un organo settimanale sindacale, "Il Sindacato Rosso".
     
     

    GLI "ARDITI DEL POPOLO"
     

    Resta infine da esaminare l’atteggiamento del Partito verso certi movimenti spontanei, come gli Arditi del Popolo, i quali hanno dato un inquadramento militare alle loro forze (come per esempio la legione proletaria nel Parmense). Queste organizzazioni si pongono come scopo fondamentale quello di rispondere sul piano dell’azione alle violenze fasciste.

    Gli Arditi del Popolo, formati in prevalenza da ex combattenti, ammiratori di D’Annunzio, avevano come programma la difesa dei "lavoratori del braccio e del pensiero" soggetti alla reazione fascista, in modo da poter ristabilire l’ordine e la normalità nella vita sociale. Essi si ponevano al disopra dei partiti e non avevano un preciso programma politico. Tale organizzazione ebbe notevole sviluppo in tutta l’Italia ed il partito sentì il dovere di precisare la sua posizione nei confronti degli Arditi del Popolo, anche perché tra i compagni comunisti si erano venute a determinare delle situazioni equivoche. Alcuni militanti comunisti infatti avevano aderito a questa organizzazione e preso l’iniziativa di costituire gruppi locali di Arditi del Popolo. Il Partito ne mise in evidenza i limiti, sostenendo che essi non avevano capito come la brutalità delle bande bianche che li indignava tanto non era che un aspetto del regime oppressivo borghese. Il proletariato infatti non si trovava contro soltanto un’associazione privata ma l’intero apparato statale con la sua polizia, la sua burocrazia e i suoi tribunali. Inoltre essi non si rendevano conto che il fascismo era fenomeno legato alla crisi del regime capitalista e che sarebbe sparito solo con la soppressione di questo. Quindi risulta utopistico parlare di voler riportare l’ordine e la normalità nella vita sociale. Questo "ordine e normalità" nella vita sociale per i comunisti è possibile solo dopo la vittoria della rivoluzione e non nell’ambito del sistema borghese.

    Nonostante queste ampie riserve il Partito sottolinea che, sul piano dell’azione svolta, gli Arditi del Popolo non possono essere considerati degli avversari. Per quanto concerne l’inquadramento militare del proletariato, che costituisce la estrema e più delicata forma di organizzazione della lotta di classe, attraverso comunicati ufficiali del Comitato esecutivo e della Federazione giovanile, si ribadisce ai militanti e simpatizzanti comunisti che il Partito ha stabilito e realizzato forme proprie ed indipendenti di inquadramento militare delle forze comuniste, costituite da squadre di 10 elementi e da compagnie formate da 5 a 10 squadre, suddivise per zona e per provincia. Pertanto è necessaria da parte dei comunisti la più ferrea disciplina.

    Quindi i comunisti non devono partecipare ad iniziative prese da altre organizzazioni e formazioni che sono estranee al Partito, la cui popolarità apparente nasconde gravi errori e pericolose conseguenze e deriva da considerazioni romantiche e sentimentali. I compagni che non si attengono alla disciplina del partito per quanto riguarda l’inquadramento militare, vengono minacciati di severi provvedimenti ed è prevista anche la loro espulsione dalle file del partito stesso.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 34, giugno 1977]
     

    Riprendiamo con questo numero l’esposizione delle direttive impartite dal Partito Comunista d’Italia diretto dalla Frazione di Sinistra al proletariato impegnato nelle lotte del 1921. La parte che qui segue si riferisce ai mesi di ottobre, novembre e dicembre.
     
     

    IL CONGRESSO DELLA F.I.O.M.
     

    La proposta comunista del fronte unico sindacale e la formulazione di obbiettivi di lotta, riguardanti l’intera classe proletaria italiana e da portare avanti con l’arma dello sciopero generale nazionale, trovano consensi nelle masse lavoratrici, determinando, di conseguenza, serie preoccupazioni nei riformisti confederali i quali, dinanzi alla violenta offensiva padronale e fascista, continuano a dirigere l’organizzazione su posizioni di inerzia e di passività. In questa azione disfattista ai danni della classe proletaria, i mandarini sindacali hanno come fedeli alleati i capi socialisti che, di fronte alla reazione fascista dello Stato borghese, biascicano i salmi turatiani dell’evangelismo gesuitico, si elevano a martiri della violenza altrui e, in nome dell’umanitarismo e del pacifismo, vanno persino a piangere sulle bare fasciste come a Modena.

    In tale situazione l’azione di resistenza e di lotta generale, proposta dai comunisti contro l’attacco padronale e la sua guardia bianca, si presenta come l’unica soluzione in grado di difendere gli interessi dell’intero proletariato italiano e di impedire quella dura sconfitta a cui i social-riformisti vorrebbero portarlo, senza avergli dato neppure la possibilità di combattere.

    Per cercare di sabotare il valore delle posizioni comuniste e neutralizzarne il consenso ottenuto fra le masse lavoratrici, i dirigenti della C.G.L. tramite Battaglie Sindacali, organo della Confederazione Generale del Lavoro, rivolgono un caloroso appello alla "Concordia". Questo atteggiamento paternalistico viene adornato a bella posta di slogans inneggianti all’unità d’azione della classe proletaria. Il Comitato Centrale Sindacale comunista, di fronte a tale appello, risponde che non è affatto contrario alla concordia fra socialisti e comunisti in seno alla C.G.L., anzi, da parte comunista si è sempre sostenuta la necessità di un accordo fra tutte le organizzazioni sindacali del proletariato per poter arrivare ad una sola e grande unione sindacale di tutti gli sfruttati.

    Del resto queste posizioni sono alla base della proposta del fronte unico sindacale sostenuta dai comunisti. Di fronte all’invito alla concordia rivolto dai dirigenti confederali, i comunisti non ne negano la validità nell’azione sindacale, ma vogliono però conoscere le finalità concrete di questo appello, cioè gli obiettivi e la linea della lotta. La concordia fra socialisti e comunisti all’interno della C.G.L. è possibile solo se esiste una identità di posizioni programmatiche e di lotta. In ossequio alla concordia i comunisti non accetteranno mai di avallare la linea remissiva dei mandarini confederali, di partecipare ai loro sciocchi mercanteggiamenti, di assumere il ruolo di corresponsabili nella disfatta del proletariato italiano di fronte all’offensiva capitalistica.

    Quanto siano divergenti le posizioni dei dirigenti della C.G.L. da quelle comuniste emerge chiaramente nel congresso straordinario della FIOM tenutosi a Roma.

    Nella relazione introduttiva l’onorevole Buozzi alle proposte formulate dal Comitato Centrale Sindacale comunista contrappone «l’utilità di continuare la tattica del caso per caso». Secondo il segretario della FIOM, con la classe padronale si dovrà trattare non solo per regione o per città, ma anzi fabbrica per fabbrica. Ciò equivale a dire "si salvi chi può": nella situazione in cui il proletariato italiano si trova significa la disgregazione totale delle masse lavoratrici e la loro soggezione assoluta alla reazione capitalistica. La tattica sostenuta da Buozzi e compagni non solo porterà i metallurgici alla sicura sconfitta, ma avrà come conseguenza di fare dimenticare agli operai i fini supremi della lotta di classe, per fargli ritornare all’egoismo di categoria, di luogo e di fabbrica.

    Certamente se gli industriali avessero partecipato al Congresso metallurgico di Roma sarebbero stati i primi ad applaudirlo, ma il loro ringraziamento giunge ugualmente puntuale attraverso un comunicato dell’Associazione Industriali Italiani. In esso viene sottolineata l’utilità di continuare con il sistema degli accordi regionali o locali ed anche per singole ditte, «in quanto tale metodo permette la migliore sistemazione delle vertenze salariali a vantaggio degli operai».

    Di fronte a queste strane coincidenze di posizioni fra l’onorevole Buozzi e gli industriali italiani, i comunisti impegnano tutte le loro forze nello smascherare il ruolo anti-proletario dei capi confederali. Il compagno Repossi, in opposizione alle tesi sostenute nel Congresso di Roma, come la tattica del "caso per caso", vero suicidio per la classe operaia, nega che il proletariato italiano non abbia forze sufficienti per difendersi dall’attacco padronale, ribadisce la necessità della lotta generale e del Fronte Unico Proletario, inoltre addita nello sciopero di tutte le categorie di lavoratori l’arma da impugnare di fronte alla reazione borghese. Contro le proposte della direzione della FIOM i comunisti presentano un ordine del giorno che contiene il seguente postulato:

    La lotta deve essere portata avanti con direttive e tattica uniche su tutto il fronte delle organizzazioni nazionali affiliate alla FIOM. Mantenimento degli accordi salariali vigenti. Rispetto dei limiti di salario e loro applicazione per qualunque nuova assunzione di manodopera. Su questi punti elevati a questione di principio i comunisti invitano l’organizzazione ad impegnare tutta la sua forza e tutti i suoi mezzi di lotta.
     
     

    MASSIMALISTI E RIFORMISTI A CONGRESSO
     

    Come i capitalisti non lesinano consensi alla tattica dei capi confederali, così guardano con occhi benevoli al successo che il massimalismo serratiano otterrà al 18° congresso socialista che si svolge a Milano. La stampa borghese nei giorni precedenti l’apertura di tale congresso già anticipa quali saranno le conclusioni finali, che si possono compendiare nella formula "unità del partito senza collaborazione", e se ne compiace. Infatti una scissione nel P.S.I. avrebbe lasciato l’ala destra, Turati e compagni, liberi di andare al governo, ma le masse proletarie aderenti al P.S.I., per tradizione o per forza d’inerzia o per inquadramento in organismi controllati dal partito stesso, mai avrebbero dimenticato la propaganda post-bellica svolta dal P.S.I.. I capi della destra quindi, usciti dal partito, sarebbero divenuti degli isolati posti al di fuori del movimento operaio.

    Di questi individui al governo che cosa se ne sarebbe fatta la borghesia? Nulla. Avvocati gonfi di vento come Turati, mediocri sofisti del tipo di Treves, maneggioni da corridoio simili a Modigliani ve n’erano già decine in parlamento. Sarebbe stato a Montecitorio un gruppo in più di persone vuote ed insignificanti alla caccia famelica di posti e di favori. Ciò avrebbe aumentato solo la concorrenza per i rappresentanti della borghesia in parlamento, ma non si sarebbe prodotto nessun fatto degno di nota. Quello che interessava ai capitalisti era il controllo del proletariato, e uomini come Turati e compagni potevano servire ottimamente alla causa borghese solo rimanendo collegati alle masse lavoratrici. Le capacità di cooperatori della borghesia infatti sarebbero svanite istantaneamente qualora fosse venuto meno a questi individui il contatto con la classe operaia, in seno alla quale svolgevano sistematicamente un lavoro disfattista.

    Dal Congresso di Livorno in poi l’azione della Destra socialista aveva dato ottimi risultati per la borghesia portando l’intero partito sulle posizioni social-pacifiste turatiane. Questo processo di sabotaggio della causa proletaria però non era ancora compiuto fino ai limiti voluti dal capitalismo, occorreva altro tempo e lavoro. L’azione deleteria dei socialisti riformisti sulle masse operaie e contadine doveva quindi continuare a svolgersi, Turati e compagni dovevano continuare a restare nel P.S.I. in quanto solo così avrebbero potuto adempiere alla missione affidata loro dalla borghesia, la quale attraverso il fascismo aveva fatto tornare in auge queste vecchie Cariatidi che cominciavano ad essere messe in disparte.

    Non è infatti un caso che in quasi tutti i centri battuti dalla reazione fascista fossero tornati alla ribalta i riformisti. Se nelle file del P.S.I. doveva restare la destra turatiana era ugualmente vero che per fare il gioco della borghesia il partito doveva continuare a mantenere una certa aureola di rivoluzionarismo, in modo da conservare la fiducia delle masse socialiste. A questo ruolo assolveva il massimalismo inconcludente e parolaio di Serrati, il quale volendo che Turati e compagni rimanessero nel partito non faceva altro che realizzare nel modo più perfetto i piani della borghesia. L’ideale per il nemico di classe era che questa vestale da marciapiede della intransigenza potesse esercitare ancora la sua funzione fino a quando tutto il P.S.I., senza scosse, fosse divenuto un partito piccolo-borghese e dietro al quale si fosse avvilito il maggior numero di proletari possibile.

    Il 18° congresso del P.S.I. si apre a Milano con una relazione del segretario Bacci, il quale sostiene che due necessità si impongono al partito, restare se stesso e rimanere unito. Viene difesa l’azione svolta dal P.S.I., dal congresso di Livorno in poi, ed esaltato l’atteggiamento tenuto verso il fascismo. La linea di condotta civile portata avanti dalla direzione socialista secondo Bacci, avrebbe dato buoni frutti, cioè avrebbe reso possibile il successo del partito nelle elezioni del maggio, inoltre la tattica di attesa di fronte al fascismo armato avrebbe indotto l’opinione pubblica a cambiare atteggiamento verso il P.S.I., riconoscendo che l’anima del partito sarebbe un’anima di "civiltà", ispirata a "valori umanitari".

    Tali affermazioni dimostrano come i dirigenti socialisti avessero ripudiato totalmente la dottrina marxista della lotta di classe. Ogni partito sovversivo ripone la sua forza nelle masse dei lavoratori ed a queste deve rivolgersi costantemente in quanto solo con la loro azione è possibile affrontare e risolvere le situazioni che si presentano nello svolgersi della storia sociale. I dirigenti socialisti appellandosi all’opinione pubblica hanno mutato parere, evidentemente nutrono sfiducia nelle masse proletarie, la cui azione di lotta viene ad essere ritenuta ormai insufficiente alle necessità del momento e non in grado di cambiare la situazione. Viene vista pertanto nella "opinione pubblica" la grande leva da manovrare in sostituzione della mobilitazione del proletariato.

    Di fronte alla protervia dei mercenari della borghesia ed alla passività delle masse operaie e contadine guidate dal P.S.I., l’opinione pubblica, per i social-pacifisti, avrebbe dovuto insorgere e dare tutto il suo appoggio alle vittime disarmate ed inerti. Ma che cosa è questa opinione pubblica? Essa non è altro che la piccola e media borghesia, a cui i capi socialisti si appellavano e sulla quale facevano affidamento. Non immaginavano neppure per un momento che la salvezza e la vittoria del proletariato sono unicamente riposti nella sua forza organizzata, ma ritenevano strumento risolutivo dei conflitti di classe l’opinione pubblica, cioè i ceti intermedi della società borghese nella cui orbita sono finiti per aggirarsi. Un mutamento dell’opinione pubblica è possibile solo ad una condizione: che il proletariato rinunci alla sua lotta.

    Insensata alla luce della dottrina marxista è anche l’altra tesi dei social-riformisti, per cui essendo il fascismo armato non era possibile fare nulla contro di esso, ma solo mantenere la lotta nell’ambito della legalità. È da stolti infatti pensare che la borghesia si lasci spodestare senza ricorrere alla difesa armata dei suoi privilegi, quando la situazione lo renda necessario, e ritenere di poter contenere la lotta del proletariato nel rispetto della legge, con le armi cosiddette civili, in quanto il giorno in cui la borghesia avverte che la legalità diviene per essa un’arma pericolosa è essa stessa la prima a rinnegarla ed a porsi sul terreno dell’aperta ribellione alla legge scritta. I fatti stessi ne danno piena conferma.

    Nei cinque giorni del congresso socialista di Milano il tema più dibattuto fu il collaborazionismo, e pure c’erano problemi fondamentali da affrontare come la disoccupazione e la riduzione dei salari. A questi problemi fu accennato solo tenendosi sulle linee generali: tutti gli esponenti delle correnti, compresi i massimalisti, si trovarono concordi nel sostenere nella pratica una azione che non avesse nulla in comune con l’inquadramento delle forze proletarie a scopo rivoluzionario. Infatti il principale fine del congresso socialista fu quello di legare le masse operaie e contadine agli istituti dello Stato borghese. Dal congresso di Milano non uscì nulla di nuovo per la classe lavoratrice, nessuna direttiva precisa di lotta, ma solo un ulteriore invito ad attendere, a sopportare con rassegnazione. Nonostante che i massimalisti avessero riportato un ampio successo, come del resto era previsto, la destra socialista non se ne dispiacque molto, in quanto riscontrò con grande soddisfazione che Serrati ed i suoi compagni erano discesi del tutto dalle ragioni del dogma e dell’utopia, piegando la loro intolleranza arida di sentenze e di scomuniche in un saggio ed illuminato apprezzamento di situazioni contingenti, di possibilità e di opportunità. D’altra parte Serrati stesso aveva richiesto che la minoranza avesse dei rappresentanti nella direzione, in quanto ciò sarebbe stato una "garanzia di giudizio".
     
     

    IL P.S.I. E L’INTERNAZIONALE
     

    Al congresso socialista di Milano intervennero come invitati anche dei rappresentanti dei partiti comunisti esteri ed i delegati del comitato esecutivo comunista, il polacco Valewski e Clara Zetkin.

    Il discorso di quest’ultima era molto atteso per il prestigio della sua figura. Essa esordisce analizzando l’azione svolta dal P.S.I. dal congresso di Livorno in poi e sottolinea come non sia stato fatto un passo in avanti verso il comunismo, bensì due passi indietro verso la borghesia, la quale guarda con compiacimento i segni di ammansimento che il P.S.I. ha dato e continua a fornire nella speranza che tutto il partito si dissolva nel riformismo, in modo da dare garanzie sicure contro il possibile riemergere dell’antica volontà di lotta nelle masse socialiste. La Zetkin nel suo discorso valuta negativamente il congresso socialista di Milano in quanto avrebbe dovuto essere uno sprone per il proletariato italiano soggetto alla violenta offensiva capitalista affinché si agguerrisca, mentre in realtà i dirigenti socialisti non pensano affatto all’agguerrimento della classe operaia e contadina, ma parlano solo di collaborazionismo, di adattamento alla tattica borghese. E del resto anche gli avversari della collaborazione si fanno avanti con idee riformiste, delle quali il collaborazionismo è la logica conseguenza.

    Il collaborazionismo infatti non è altro che una foglia di fico della spudorata dittatura della borghesia, non costituisce un segno di forza dei proletariato, ma una prova della sua impotenza. La Zetkin, dopo avere ribadito che la classe proletaria difenderà propri interessi solo quando avrà tutto il potere nelle sue mani, sottolinea le nefaste conseguenze del collaborazionismo, infatti esso non è un’incognita politica. L’esempio che hanno offerto paesi come l’Inghilterra, la Francia, la Germania e la Russia con il governo Kerensky è una riprova inconfutabile dei risultati deleteri a cui porta la collaborazione.

    Clara Zetkin conclude il suo discorso riproponendo l’Ultimatum, che già più volte era stato rivolto al P.S.I. dall’Internazionale Comunista, cioè espellere dal partito l’ala collaborazionista o essere fuori dalla Terza Internazionale. La mancata espulsione dal partito della destra socialista ebbe come automatica conseguenza l’impossibilità per il P.S.I. di appartenere all’Internazionale Comunista, secondo quanto prescriveva il settimo dei 21 punti stabiliti per l’ammissione.

    Il comportamento tenuto dal Comitato Esecutivo della Terza Internazionale verso il P.S.I., dal congresso di Livorno in poi, fu più volte oggetto di critiche da parte del Partito Comunista d’Italia. Al congresso di Livorno, di fronte alle tesi di principio stabilite dall’Internazionale Comunista, la maggioranza del P.S.I. aveva dichiarato di condividerle, ma, quando fu posta dinanzi all’adempimento delle condizioni in cui il secondo congresso della III Internazionale aveva tradotto le posizioni teoriche, accettò i 21 punti meno uno, il 7° che avrebbe dovuto immediatamente mettere in pratica, espellendo i riformisti dal partito.

    Le 21 condizioni di ammissione volevano essere soprattutto "un baluardo contro il centrismo" e Zinovief stesso, segretario dell’Internazionale, aveva affermato che «come non è facile per un cammello passare per la cruna di un ago, così non sarebbe stato facile per i centristi sgusciare fra le 21 condizioni». Con il rifiuto del punto 7, cioè di espellere i riformisti, la maggioranza del P.S.I. dimostrava di accettare solo a parole il comunismo, ma poi in pratica non faceva neppure il primo passo indispensabile nella direzione segnata dalla Terza Internazionale.

    La mancata espulsione dei riformisti lasciò insoluta la questione della appartenenza o meno del P.S.I. all’Internazionale Comunista. Da parte del P.C.d’Italia fu fatto ripetutamente notare, a pochi mesi di distanza dal congresso di Livorno, che tutte le frazioni presenti nel P.S.I. erano al di fuori del terreno comunista, quindi controrivoluzionaria, sia per dottrina che per azione; anche la corrente massimalista unitaria, la quale dirigeva il partito ed era responsabile del suo indirizzo.

    Dei 21 punti stabiliti per l’ammissione alla Terza Internazionale, il P.S.I. non ne aveva respinto uno soltanto, ma li aveva contrastati tutti quanti. Non parlava più di abbattimento violento del potere capitalistico e di Dittatura Proletaria, bensì valorizzava il parlamentarismo borghese, additando al proletariato la scheda elettorale come mezzo unico per la sua emancipazione. Non solo il P.S.I. rinnegava la violenza offensiva e rivoluzionaria, ma la negava perfino come mezzo di difesa delle masse operaie di fronte al fascismo, con il quale si era premurato di venire a patti con un ignobile atto di pacificazione, riservando allo Stato la funzione di arbitro nei conflitti di classe.

    Oltre a ciò il P.S.I. era fedele alleato dei capi social-traditori confederali, che seguivano le direttive dell’Internazionale gialla di Amsterdam e portavano avanti sistematicamente un’azione denigratoria contro i comunisti, ricorrendo ad ogni mezzo.

    Contro tale rinnegamento delle posizioni teoriche e tattiche della III Internazionale la stessa corrente massimalista non aveva fatto una riga di critica e neppure formulato un programma ed una azione opposti. Non aveva fatto nulla per ristabilire i valori delle posizioni comuniste pur essendo la più forte all’interno del partito. Da tutto ciò è evidente che l’intero P.S.I. si trovava fuori del comunismo.

    Il pericolo a cui, secondo il P.C.d’Italia, la III Internazionale andava incontro con i suoi ripetuti appelli ed ultimatum rivolti al P.S.I. affinché allontanasse dalle sue file Turati e compagni, era di scambiarla per una scissione di vari mesi posteriore a quella che si era verificata al congresso di Livorno. A distanza di tempo l’accettazione da parte del P.S.I. del punto 7 (cioè l’espulsione dei riformisti) non era più garanzia di adesione completa a tutti i 21 punti. Dal congresso di Livorno in poi gli elementi di distanziamento del P.S.I. dal comunismo erano rilevanti sia sul piano teorico che tattico. D’altra parte, per i comunisti, il rifiuto di espellere a Livorno i riformisti dal partito socialista celava l’opposizione a tutte le posizioni programmatiche della III Internazionale, per cui si arrivò alla scissione, alla fondazione del P.C.d’Italia e alla costituzione della sezione italiana della Internazionale Comunista. Per il P.C.d’Italia quindi la questione dell’appartenenza del P.S.I. all’Internazionale non si sarebbe dovuta protrarre per vari mesi dopo il congresso socialista di Livorno, allorché la destra riformista non fu espulsa dal P.S.I.

    Rimandando la questione l’I.C. si espose al grave rischio di poter vedere gli intransigenti socialdemocratici italiani, i socialpacifisti firmatari dell’ignobile patto con la guardia bianca, gli apologisti dell’azione parlamentare e della sovranità dello Stato borghese, rispondere positivamente a quanto il punto 7 delle condizioni di ammissione prescriveva (espellendo Turati e compagni) ed avere pertanto le carte in regola per appartenere alla III Internazionale mentre venivano rinnegati tutti gli altri 20 punti, cioè in una parola i principi teorici e tattici del comunismo. Il pericolo a cui l’Internazionale Comunista si espose avrebbe avuto gravi conseguenze per il P.C.d’Italia, il quale si sarebbe trovato minacciato nella sua compattezza dottrinaria, nel suo lavoro di preparazione e di propaganda rivoluzionaria.

    Per i comunisti l’ennesimo ultimatum rivolto al P.S.I. dai rappresentanti dell’esecutivo della III Internazionale in occasione del congresso socialista di Milano, affinché venissero espulsi i riformisti era dettato da una mera illusione di poter curare un ammalato, del quale già i comunisti avevano diagnosticato da tempo la malattia e la fine, infatti proprio su questo a Livorno si arrivò a quella scissione che permetteva di salvare la parte sana, non affetta da cancrena.

    Di fronte all’iniziativa, portata avanti nel congresso socialista di Milano da Clara Zetkin e dal polacco Valewski, il P.C.d’I. non si oppose per disciplina, ma i due rappresentanti dell’esecutivo dell’I.C. poterono di persona rendersi conto chiaramente come la diagnosi fatta dai comunisti italiani sul P.S.I. rispondesse alla realtà e ad un’esatta conoscenza di questo partito. La Zetkin stessa, spinta dalla evidenza dei fatti, nel discorso tenuto al Congresso socialista di Milano non poté fare a meno di affermare: «Mi domando se per avventura non abbia fatto una bestialità a venire qui fra voi».

    Come ormai fosse consolidato e netto il giudizio negativo del P.C.d’I. nei confronti dell’intero P.S.I. emerge anche dalla risposta data dallo stesso Partito Comunista in relazione all’accusa di parte socialista che il discorso tenuto al congresso di Milano dal compagno Valewski fosse stato scritto da Bordiga, in quanto presupponeva una conoscenza molto precisa del P.S.I. Il Partito Comunista chiarì la questione sottolineando che se il discorso di Valewski fosse stato veramente scritto da Bordiga sarebbero bastate poche parole del tipo: «Andate a farvi fregare tutti quanti».

    All’indomani del congresso socialista di Milano, da cui non era uscito nulla di nuovo per la classe lavoratrice, nessuna precisa direttiva di lotta, i comunisti misero in evidenza che il P.S.I. era ormai un organo in putrefazione, per cui il proletariato italiano per una azione di difesa e di attacco nei confronti della reazione borghese doveva passare su questo cadavere.

    Il P.C.d’I. colse l’occasione per rivolgere un appello a tutti i lavoratori socialisti che si sentivano legati alla causa dell’emancipazione rivoluzionaria della loro classe ed ai metodi stabiliti dalla III Internazionale. In questo appello le masse socialiste venivano invitate a compiere il gesto decisivo di dividere le proprie responsabilità da quelle dei manutengoli della borghesia. Ciò è possibile solo abbandonando il P.S.I. al suo destino e rafforzando le file del P.C.d’I., nonché dell’I.C.
     
     

    IL FRONTE UNICO PROLETARIO CONTRO IL DISFATTISMO CONFEDERALE
     

    Al disfattismo dei capi socialisti, riemerso chiaramente nel congresso di Milano, fa eco nel campo sindacale quello dei dirigenti confederali.

    Questi di fronte all’offensiva padronale mirante a ridurre i salari operai, anziché mobilitare la classe lavoratrice con precisi obiettivi di lotta, propongono, come mezzo per risolvere le vertenze salariali in corso, un’inchiesta sulle condizioni delle industrie italiane. Nell’attesa di conoscere le conclusioni a cui perverrà la commissione d’inchiesta, i dirigenti della C.G.L. si impegnano a fare sospendere le azioni di lotta intraprese da alcune categorie e aggiungono che accetteranno una riduzione dei salari solo qualora risulti che anche il reddito dei capitalisti sia realmente diminuito. La trovata dell’inchiesta sulle industrie ebbe sostenitori anche nelle organizzazioni sindacali bianche e perfino fasciste. La commissione d’inchiesta avrebbe dovuto essere formata da otto rappresentanti degli industriali, da otto funzionari dello Stato con funzione di arbitri e da otto delegati sindacali, dei quali solo una parte appartenenti alla Confederazione Generale del Lavoro.

    Da parte comunista fu subito messo in luce che l’inchiesta sulle condizioni dell’industria era niente altro che una grande truffa a danno della classe proletaria, prima di tutto perché si credeva che i risultati di una inchiesta potessero essere in grado di indurre i padroni a mantenere un determinato livello dei salari. E poi quale garanzia poteva dare alle masse operaie una tale commissione? Nessuna! Infatti la condizione delle aziende è controllabile solo da parte degli industriali e dissimulabile con mille artifici, inoltre, come era facilmente prevedibile, i fiduciari degli imprenditori si sarebbero messi subito d’accordo con i rappresentanti dello Stato venali e corrotti, mentre i delegati sindacali avrebbero cominciato immediatamente a becchettarsi fra di loro per ragioni di concorrenza mandarinesca.

    Oltre a criticare lo strumento della commissione d’inchiesta, in quanto chiaramente nelle mani dei padroni, da parte comunista fu sottolineato che era inconcepibile accettare una riduzione dei salari in relazione alle diminuzioni del profitto capitalista. Essere disposti a ciò significa subordinare la lotta del proletariato per la sua esistenza all’entità del guadagno degli sfruttatori, all’integrità dell’ordinamento economico vigente, mettere da parte il principio che il lavoro deve essere retribuito in relazione alla necessità degli operai, vuole dire che le masse devono subire l’affamamento mentre il costo della vita aumenta, solo perché diminuiscono i dividendi dei padroni a causa della crisi che travaglia il sistema capitalista e rende le speculazioni meno fruttuose. Le posizioni assunte dai mandarini della C.G.L. sono in netto contrasto con il fine che già si proponevano le primordiali organizzazioni economiche del proletariato, cioè la resistenza contro i datori di lavoro. Quello che è l’ABC del movimento sindacale dai dirigenti sindacali viene rinnegato in quanto si scopre che è un principio pericoloso per le aziende capitaliste. Anziché resistere con la forza sindacale, di cui la classe proletaria dispone, si ritiene opportuno sospendere le vertenze salariali scaturite dalla realtà delle cose e pervenire ad una regolamentazione del conflitto, accettando criteri che significano l’imbottigliamento di ogni movimento degli sfruttati contro gli sfruttatori.

    Contro la proposta di una inchiesta sulle condizioni delle industrie e le sue deleterie conseguenze per la classe operaia italiana, i comunisti ribadiscono l’intangibilità dei salari, anche se le aziende capitalistiche sono in deficit. Inoltre, ai risultati della commissione d’inchiesta, oppongono la mobilitazione della classe operaia e il ricorso all’arma dello sciopero generale nazionale. Gli accordi salariali infatti possono essere imposti agli industriali solo da un proletariato agguerrito, sceso compatto sul terreno della lotta aperta contro i capitalisti.

    A questo obiettivo mirava la proposta comunista del Fronte Unico Proletario. Su tale questione, il P.C.d’I., per evitare equivoci, dovette fare delle precise puntualizzazioni.

    Il comunismo rivoluzionario si basa sull’unità della lotta di emancipazione di tutti gli sfruttati e al tempo stesso sull’organizzazione ben definita in partito politico dell’avanguardia della classe operaia. Esso proclama la necessità di unificare le lotte dei lavoratori in modo da dare a queste un obiettivo e un metodo comune. Perciò per l’unità degli sfruttati, al di sopra delle singole categorie professionali, delle situazioni locali, delle frontiere nazionali o di razza.

    L’organizzazione sindacale è il primo stadio della coscienza e della pratica associativa degli operai, che li pone contro i padroni ed in quanto raccoglie i lavoratori per la comune condizione di sfruttamento economico e ne unifica le lotte, per questo deve essere unica. I comunisti sono pertanto contrari alla scissione nelle organizzazioni economiche del proletariato, mentre lavorano per la loro unificazione. L’unità sindacale è un coefficiente favorevole alla diffusione dell’ideologia e dell’organizzazione rivoluzionaria delle masse lavoratrici, quindi il Partito Comunista fa del sindacato unico della classe operaia il suo miglior reclutamento e la miglior campagna contro i metodi di lotta che da altre parti vengono prospettati al proletariato. L’esistenza di un unico organismo sindacale proletario permette ai comunisti di svolgere con maggior rapidità e successo il lavoro di orientamento delle classi sfruttate verso il programma rivoluzionario.

    Mentre i comunisti lavorano per l’unificazione degli organismi sindacali del proletariato, essi sostengono altrettanto energicamente, prima di raggiungere questa unità organizzativa, la necessità di un’azione d’insieme di tutti i lavoratori per la comune difesa di fronte all’offensiva dei padroni. Additando alle masse che unico è il postulato ed unica deve essere la tattica per fronteggiare la riduzione dei salari, la disoccupazione e tutte le altre manifestazioni dell’attacco antiproletario, si rende più agevole il compito di dimostrare al proletariato che deve avere un programma unico di offensiva rivoluzionaria contro il sistema capitalistico.

    Dal fronte unico del proletariato sindacalmente organizzato contro l’offensiva della borghesia sorgerà il Fronte Unico Proletario sulla base del programma comunista dimostrandosi insufficiente ogni altro programma. Unità sindacale e Fronte Unico Proletario sono tappe che la classe sfruttata deve percorrere per il suo allenamento a lottare sulla via rivoluzionaria segnata dall’avanguardia comunista. Il Partito Comunista vede in essi un mezzo per far trionfare il suo programma, ben differente da tutti gli altri che vengono prospettati al proletariato.

    È errato ritenere la formula dell’unificazione sindacale e del fronte unico come un blocco di partiti proletari o di comitati sorti da un compromesso tra varie posizioni politiche. Ciò da parte dei comunisti significherebbe concedere una tregua ai socialdemocratici mostrandosi con un metodo di azione che fa smarrire al proletariato la chiara visione del percorso rivoluzionario. È inconcepibile per i comunisti, in una piccola o grande circostanza, fare omaggio a qualche organismo, atteggiamento o finalità, che, secondo l’ultrafilistea frase, "si ponga al di sopra dei partiti".

    Unità sindacale o Fronte Unico Proletario sono il logico e consequenziale sviluppo, non una forma coperta di pentimento, dell’opera svolta dai comunisti al fine di rafforzare l’arma fondamentale della lotta rivoluzionaria, cioè il partito di classe.
     
     

    L’APERTO SABOTAGGIO DEI VERTICI CONFEDERALI
     

    Mentre i dirigenti confederali respingevano le proposte comuniste del Fronte Unico Proletario per sbandierare la trovata delle Commissioni d’inchiesta sulle condizioni delle industrie italiane, che avrebbe dovuto permettere alla C.G.L. di riorganizzare nel frattempo le proprie forze, varie categorie di lavoratori si trovavano già in lotta aperta contro la classe padronale. I metallurgici della Venezia Giulia, della Lombardia, della Liguria, napoletani, livornesi, gli operai chimici e tessili, avevano effettuato scioperi ed erano orientati per una azione di lotta generale. Da parte dei mandarini della C.G.L. si cercò subito di spezzare questo fronte proletario, evitando l’affasciamento delle vertenze salariali in corso, in modo che ogni categoria si trovasse isolata e quindi inevitabilmente costretta ad accettare le imposizioni dei padroni. Il frazionamento delle lotte fu giustificato con la "tattica delle ondate", geniale scoperta dei vertici sindacali. Questi, adducendo il pretesto che il nemico di classe era troppo forte per essere affrontato in uno scontro frontale, sostenevano la mobilitazione in più riprese delle masse operaie, in modo da avere sempre "di riserva" forze nuove e fresche da immettere sul fronte della lotta.

    A fare le spese di queste posizioni disfattiste furono ben presto gli operai metallurgici lombardi, sui quali erano giustamente puntati gli occhi di tutti i metallurgici italiani. Infatti la scesa in campo di queste poderose forze dell’esercito proletario avrebbe voluto dire l’allargamento immediato della lotta della categoria su tutto il territorio nazionale. Agli operai metallurgici della Lombardia si sarebbero presto uniti i loro compagni della Liguria e della Venezia Giulia, formando un primo scaglione di quel Fronte Unico Proletario sostenuto dai comunisti. Varie categorie di lavoratori vedevano inoltre nella lotta dei metallurgici lombardi una ripresa della forza rivoluzionaria dell’intera classe operaia. Ma era proprio questo che i funzionari sindacali riformisti ed i padroni volevano evitare. Buozzi per la FIOM e Iarachi per gli industriali si trovarono ben presto d’accordo. I concordati salariali vigenti furono prorogati fino al 31 dicembre, in quanto i mandarini sindacali speravano che entro tale data la trovata delle Commissioni d’inchiesta potesse dare dei risultati.

    Il compagno Repossi fu invitato a partecipare alle trattative per la risoluzione della vertenza metallurgica riguardante la Lombardia, ma il suo rifiuto fu netto. Da parte comunista a proposito dell’accordo raggiunto fu sottolineato che di fronte alla volontà di lotta della intera categoria non dovevano essere accettati patti che non rappresentassero una vera vittoria degli operai. Fu aggiunto inoltre che la proroga stabilita per la risoluzione della questione salariale avrebbe costituito più un pericolo che non un vantaggio per i lavoratori metallurgici lombardi, mentre favoriva gli industriali, i quali, di fronte all’azione decisa degli operai, non avevano veduto altra soluzione che rimandare la vertenza salariale ad altra situazione. L’inverno e la sfiducia, determinata negli operai dal disfattismo dei dirigenti confederali, sarebbero stati buoni alleati dei padroni, per i quali la lotta, fra alcuni mesi, si sarebbe presentata più facile.

    Le conseguenze dannose del concordato metallurgico per la Lombardia furono messe in evidenza dai comunisti; questo accordo infatti doveva avere gravi ripercussioni su tutta la futura azione del proletariato italiano, esso non rappresentava solo la fine di una vertenza regionale, ma era un’altra battuta d’arresto nella lotta di classe sferrata dai metallurgici italiani con unità di azione. E dopo i metallurgici lombardi a fare le spese dell’azione deleteria svolta dai capi confederali furono gli operai chimici, che videro i loro salari ridotti del 10%.

    Un commento sull’operato dei dirigenti della C.G.L. lo offre la stessa classe padronale per bocca di Olivetti, segretario della Confindustria, il quale con viva soddisfazione dichiara che a proposito delle vertenze salariali in corso il quadro è tutt’altro che catastrofico, infatti la vertenza dei chimici è stata risolta in tutta Italia, l’accordo metallurgico per la Lombardia si è raggiunto e con esso almeno per ora è stata allontanata la possibilità di una agitazione nazionale dell’intera categoria. È evidente che il fine degli industriali, firmando l’accordo metallurgico di Milano, era quello di togliere dalla lotta una parte fondamentale dell’esercito proletario per essere poi liberi di muovere con maggiore foga contro la parte rimanente.

    Il valore del concordato metallurgico per la Lombardia viene esaltato dai social-traditori confederali nel Congresso della C.G.L. tenutosi a Verona. Buozzi e compagni affermano che questo accordo avrebbe rotto il fronte degli industriali e costituito la base per piegare volta per volta gli industriali delle altre regioni.
     
     

    IL CONGRESSO DI VERONA
     

    Al Congresso di Verona i social-riformisti pongono come fulcro della loro tattica l’inchiesta sulle condizioni delle industrie italiane, ma al tempo stesso, per cercare di evitare di essere smascherati come i sabotatori e demolitori della organizzazione sindacale e del metodo della lotta di classe, non rinunciano al solito frasario demagogico, per cui viene prospettato, ma solo a parole, l’eventualità di portare avanti la lotta "per altro tramite".

    Il Congresso di Verona è aperto da una relazione di Bianchi, il quale esalta l’operato della Confederazione «a difesa delle masse proletarie contro l’offensiva capitalista» e presenta la proposta della Commissione di inchiesta sulle condizioni delle industrie italiane come un mezzo idoneo a scuotere vasti strati dell’opinione pubblica.

    Ritorna anche nei riformisti confederali, come nei loro fratelli del P.S.I., il motivo dell’opinione pubblica, considerata la grande leva da manovrare in sostituzione della mobilitazione del proletariato su precisi obiettivi di lotta, come invece sostenevano i comunisti. L’appello al fronte unico rivolto dal Comitato Sindacale Comunista ed il ricorso all’arma dello sciopero generale nazionale vengono definite "manovre demagogiche ed arriviste" dai vari mandarini confederali che si avvicendano alla tribuna.

    Reina considera "una delinquenza" l’azione generale; Galli (segretario della FIOT) ritiene lo sciopero nazionale di tutte le categorie "un’azione disperata" e vede in esso un’arma che può essere impugnata solo da "incoscienti e demagoghi"; Violante (segretario della FIOC) si scaglia contro i comunisti che vorrebbero trascinare nella lotta 300.000 operai chimici e li definisce "delinquenti", aggiunge, da bravo social-patriota, che i dirigenti della FIOC sono per "un’Italia ricca e grande" e minaccia di espellere dalla federazione gli operai chimici della Venezia Giulia se non cambieranno comportamento.

    La posizione dei comunisti, ribadita dai compagni Tasca e Repossi, è sintetizzata nella mozione presentata. In tale mozione si sottolinea come la offensiva padronale in tutte le sue manifestazioni politiche ed economiche costituisca l’esplicazione di un piano di schiacciamento delle organizzazioni di classe proletarie, piano in cui la borghesia scorge l’unica via per ricostituire il suo dominio e per scongiurare l’opposta soluzione rivoluzionaria, a cui il proletariato è sempre più spinto dalla difesa dei suoi interessi immediati e dalla stessa lotta per i problemi contingenti. Sostituire le lotte sindacali e le forze delle organizzazioni economiche del proletariato con l’arbitrato di una Commissione d’inchiesta ed accettare il principio che in base alle condizioni delle aziende capitaliste si debba giustificare una riduzione dei salari, equivale al disarmo del proletariato di fronte all’offensiva borghese ed alla rinuncia, non solo di ogni metodo di lotta di classe, ma anche delle stesse ragioni di essere delle organizzazioni economiche dei lavoratori.

    Nella mozione comunista vengono poi ribaditi i criteri di lotta da seguire contro l’offensiva della borghesia: poiché la resistenza alle pretese del padronato svolta localmente e per singole categorie non può dare alcun affidamento di vittoria, il compito e il dovere delle organizzazioni sindacali proletarie è di impegnare tutte le proprie forze per la difesa di una serie di postulati, che rappresentano le conquiste ottenute dalle masse operaie nel campo del lavoro, il cui mantenimento è condizione indispensabile e la vita stessa delle organizzazioni. I postulati di lotta sono i medesimi contenuti nell’appello rivolto già dal Comitato Sindacale Comunista alla C.G.L., all’U.S.I. e al S.F.I. e cioè: otto ore di lavoro giornaliero, intangibilità dei salari, salario pieno ai disoccupati, integrità del diritto di organizzazione e suo riconoscimento, controllo delle organizzazioni sindacali proletarie sulle assunzioni e sui licenziamenti; la difesa di questi postulati di lotta è solo possibile con la realizzazione del Fronte Unico Proletario, in modo da esplicare una azione di insieme che si contrapponga all’attacco capitalista con l’attuazione dello sciopero generale nazionale di tutto il proletariato.

    Da parte comunista fu sostenuta al Congresso di Verona l’adesione della C.G.L. alla Internazionale Sindacale Rossa e la uscita immediata dalla Internazionale gialla di Amsterdam, organizzazione controllata dalla borghesia.

    I social-riformisti confederali, che già più volte avevano ricevuto l’ultimatum "o Mosca o Amsterdam", confermarono la loro adesione all’Internazionale gialla, pur atteggiandosi nella pia illusione di svolgere nell’interno di essa un’azione di opposizione. Così la C.G.L. si trovò esclusa dall’Internazionale dei Sindacati Rossi, che era l’unica organizzazione sindacale internazionale su posizioni di classe.

    I risultati del Congresso di Verona furono salutati dalla stampa borghese come un "ritorno al buon senso", "una prova di saggezza". Di fronte all’offensiva padronale e fascista si estende la lotta proletaria.

    Mentre il P.S.I. e la C.G.L. giustificavano l’atto di pacificazione e l’inchiesta sulle condizioni delle industrie come mezzi per organizzare le proprie forze, i fascisti continuano ad uccidere ed a devastare le sedi delle organizzazioni proletarie al grido di "viva l’Italia", che è ormai divenuto per essi un ottimo passaporto per l’incolumità di fronte ai più efferati delitti.

    Sentendosi incontrastati e protetti dallo Stato in occasione del Congresso fascista di Roma convergono nella capitale da tutta Italia in circa 30.000, inquadrati ed armati. Il fine di questa calata di lanzichenecchi non era quello di partecipare al congresso fascista, infatti solo 500 delegati vi presero parte, bensì di dimostrare che l’assalto portato da loro a Roma poteva essere domani rivolto a qualunque città o regione italiana.

    In seguito all’uccisione da parte dei fascisti di un ferroviere, tutti i ferrovieri del dipartimento di Roma abbandonarono il lavoro e proclamarono lo sciopero. Il Comitato di Difesa proletaria estese lo sciopero a tutta la provincia di Roma per tutte le categorie di mestieri e di servizi pubblici. Da parte dei fascisti furono rivolti degli ultimatum agli operai romani affinché riprendessero il lavoro, ma lo sciopero continuò compatto. La reazione delle guardie bianche è spietata, altri operai vengono uccisi, tuttavia nessun cedimento da parte degli scioperanti i quali fanno sapere che riprenderanno l’attività solo quando i fascisti abbandoneranno Roma. Di fronte all’attacco dei fascisti si assiste al costituirsi spontaneo di quel Fronte Unico Proletario che i comunisti già da tempo avevano sostenuto.

    Per volontà e decisione combattiva si distinguono i ferrovieri. Mentre da parte del Comitato Centrale dello S.F.I. si cerca di indurre i ferrovieri romani a sospendere lo sciopero adducendo l’impegno preso dal governo di fare ripartire i fascisti, i compagni comunisti si battono per lo sciopero ad oltranza e la massa dei ferrovieri del compartimento di Roma segue le direttive comuniste. Ai ferrovieri romani giunge ben presto la solidarietà dei loro compagni di Ancona, di Napoli, di Reggio Calabria, i quali scendono in sciopero.

    Intanto la direzione delle ferrovie, su invito del governo Bonomi e sotto la pressione della stampa borghese, minaccia di ritenere dimissionari quei ferrovieri che avevano abbandonato il servizio. Per i ferrovieri avventizi l’adesione allo sciopero è causa di licenziamento. L’azione di rappresaglia del governo trova un sostegno nei dirigenti del S.F.I., i quali minacciano di abbandonare gli scioperanti a se stessi.

    Dopo quattro giorni di sciopero e di lotta l’assalto dei fascisti è spezzato. L’agitazione dei ferrovieri però continua e si presenta la possibilità che assuma un carattere generale. Ai ferrovieri napoletani, che danno grande prova di volontà combattiva si uniscono quelli dei dipartimenti di Salerno, di Catanzaro, di Avellino, di Benevento, attuando anche essi lo sciopero.

    Seguendo le direttive dei loro compagni comunisti chiedono ai dirigenti del S.F.I. di proclamare uno sciopero nazionale dei ferrovieri come risposta alle provocazioni del governo e dell’amministrazione ferroviaria. La piattaforma di lotta comprende, oltre alla riassunzione immediata in servizio dei licenziati, anche una serie di rivendicazioni (rispetto delle otto ore di lavoro giornaliero, regolamento organico, miglioramento del trattamento economico ai pensionati, sistemazione definitiva degli avventizi, istituzione di commissioni locali, retribuzione delle competenze accessorie già accettate dal governo, ma poi rimangiate per rappresaglia contro la volontà combattiva dimostrata dai ferrovieri in occasione dei fatti di Roma.

    Il comitato centrale del S.F.I., composto in prevalenza da anarchici e socialisti, non accetta di proclamare uno sciopero generale della categoria, tuttavia i ferrovieri campani proseguono compatti nell’azione intrapresa e solo dopo dieci giorni di sciopero riprendono il lavoro allorché i loro compagni licenziati sono stati riassunti in servizio.

    Dopo i ferrovieri scendono in lotta gli operai metallurgici liguri per i contratti di lavoro. Secondo Buozzi e compagni l’accordo metallurgico per la Lombardia doveva costituire la base per piegare volta per volta gli industriali delle varie regioni ed essere un precedente per risolvere nella stessa maniera le vertenze salariali nelle altre zone. Di fronte alla richiesta di estensione dell’accordo metallurgico di Milano gli industriali liguri risposero negativamente adducendo il fatto che le aziende meccaniche della Liguria presentavano caratteristiche diverse da quelle lombarde per la prevalenza nel ramo delle costruzioni navali, che più di ogni altro era colpito dalla crisi. Pertanto non accettarono neppure la proroga fino al 31 dicembre del concordato vigente, come si era stabilito per i metallurgici della Lombardia. Infatti rimandare ad una stessa data due vertenze poteva rappresentare il rischio che l’agitazione degli operai metallurgici si estendesse contemporaneamente in due importanti regioni.

    Di fronte al rifiuto da parte degli industriali della Liguria di accettare il concordato dei loro colleghi lombardi, i dirigenti confederali, contro la loro volontà, furono costretti a proclamare uno sciopero generale regionale a sostegno degli operai metallurgici liguri, con l’esclusione però di alcune categorie di lavoratori: i postelegrafonici, i panettieri, i gasisti, gli elettrici, gli addetti alla distribuzione dell’acqua potabile, i ferrovieri ed i lavoratori del mare.

    A questo metodo di azione, che comportava un restringimento della lotta, da parte comunista fu contrapposta la necessità di allargare lo sciopero a tutte le categorie di lavoratori in modo da spezzare la tracotanza dei capitalisti. Solo con l’ampliamento e con l’intensificazione della lotta era possibile ottenere dei successi, pertanto i comunisti sostennero che il comitato di agitazione doveva fare appello a tutte le forze operaie non ancora schierate sul fronte di battaglia.

    Comunque lo sciopero in Liguria proseguiva, mentre i capi confederali si preoccupavano di contenerlo sul terreno della dimostrazione pacifica e civile, in modo che "l’ordine pubblico" non venisse sconvolto da alcun "torbido".

    I dirigenti CGIL facevano grande affidamento sull’opinione pubblica e cercavano di spingerla a prendere posizione a loro favore; le masse in sciopero al contrario avrebbero voluto dare alla propria azione un carattere più aspro e deciso, così come da parte comunista veniva sottolineato che questa forma educata e civile di agitazione era dannosa per il proletariato, in quanto c’era il pericolo di vedere esaurite le sue riserve di energia combattiva durante le lunghe e sterili manovre di attesa. Per i comunisti uno sciopero generale limitato ad una sola regione non poteva avere esito favorevole se non attuato come un assalto formidabile, improvviso, rapido, capace di terrorizzare il nemico e non blandirlo, come invece stava succedendo, meritando il suo consenso per il modo in cui la lotta era stata frazionata.

    Seguendo le direttive confederali lo sciopero minacciava di languire e d’altra parte non si prospettava alcuna possibilità di cedimento degli industriali. Di fronte ad una tale situazione Buozzi e compagni invocarono l’intervento del governo, sul quale evidentemente riponevano maggior fiducia che non sulle masse operaie in lotta. In un bollettino dello sciopero si afferma: «poiché i mezzi conciliativi non hanno approdato a nulla per la protervia degli industriali, il governo ha il preciso dovere di adottare dei provvedimenti di imperio».

    A Genova dopo vari giorni di sciopero fece la sua comparsa la prima donna del massimalismo inconcludente, Serrati, il quale cercò con ogni mezzo di evitare l’allargamento delle lotte e criticò l’idea di uno sciopero generale nazionale, adducendo il pretesto che il proletariato italiano non era abbastanza forte e preparato. Intanto le squadre fasciste armate aiutarono la guardia regia a sgomberare le città dagli operai in sciopero ed al grido "tu sei una guardia rossa" lo disperdevano con la forza. Per spezzare il fronte proletario le guardie bianche si offrivano esse stesse per far riprendere in alcuni settori l’attività soprattutto nei servizi pubblici, in altre invitano i disoccupati a presentarsi nelle loro sedi garantendo l’immediata assunzione al lavoro.

    Nonostante non si verificasse nessun cedimento sul fronte dello sciopero Buozzi e compagni a Roma si affrettano a firmare con gli industriali liguri un accordo che non definiva per il momento le condizioni salariali per gli operai metallurgici della Liguria.

    Se a Genova gli industriali rifiutarono di accettare il concordato metallurgico per la Lombardia, a Trieste non vollero neppure venire a trattative, eppure avevano ricevuto dal governo centinaia di milioni in più rispetto ai loro colleghi con il pretesto di far fronte alla tragica situazione del proletariato della propria regione.

    Gli operai metallurgici della Venezia Giulia con la loro ferrea volontà di lotta mostrata in varie occasioni avevano creato le premesse per una agitazione generale di tutta la categoria e contribuito in maniera rilevante alla campagna di risveglio dell’intero proletariato italiano. Di fronte all’atteggiamento inflessibile degli industriali, i lavoratori della Venezia Giulia scesero compatti in movimento a sostegno della vertenza metallurgica.

    Su di essi si riversò spietata la reazione fascista. Bande di guardie bianche effettuavano perquisizioni, sequestravano, si improvvisavano giudici ed eseguivano sentenze capitali. Fiancheggiando la loro azione le autorità governative intervenivano arrestando centinaia di operai con il pretesto che avrebbero potuto commettere atti contrari alla legge. Di fronte ai soprusi delle squadre fasciste, assoldate dagli industriali grazie ai finanziamenti ottenuti dallo Stato, i dirigenti confederali parlavano di disarmare l’avversario di classe con metodi pacifici e di smuovere l’opinione pubblica attraverso lo spettacolo del martirio proletario in modo che questa spingesse il governo ad intervenire.

    Mentre il proletariato della Venezia Giulia resiste compatto nello sciopero generale con decisa volontà di lotta, a Roma viene fissato l’accordo per porre fine alla vertenza dei metallurgici. Viene accettato dai socialdemocratici confederali una riduzione dei salari del 10%. Le condizioni dell’accordo sono più sfavorevoli di quelle stabilite per gli operai metallurgici lombardi e liguri, eppure Buozzi e compagni ritenevano la tattica "delle ondate" in grado di dare buoni frutti per la causa proletaria.

    La capitolazione dei confederali fa sì che ancora più dure siano le imposizioni subite dagli operai metallurgici di altre regioni come la Toscana e l’Emilia. Numerosi sono i licenziamenti, gli elementi più attivi nel campo sindacale vengono allontanati dal posto di lavoro, gli industriali trattano direttamente con gli operai sotto la minaccia dei licenziamenti.

    Alla capitolazione dei metallurgici segue quella dei lanieri che vedono ridurre i loro salari del 20%. La loro lotta fu sabotata dai dirigenti della FIOT, i quali condussero la vertenza senza coinvolgere anche le altre categorie aderenti alla Federazione Italiana Operai Tessili, come ad esempio i cotonieri.

    Alla prova dei fatti la tattica "delle ondate" sostenuta dai riformisti si rivelò un pieno fallimento in quanto le vertenze salariali si risolvevano sempre più su basi svantaggiose per gli operai. I risultati ottenuti davano completa ragione alla tesi dei comunisti i quali avevano costantemente ribadito che questa tattica si sarebbe risolta in una progressiva riduzione della forza d’urto dell’esercito proletario, portato allo sbaraglio con un sistema di lotte che faceva ricadere su tutta la classe operaia le conseguenze di ogni concessione, cioè di ogni sconfitta parziale, e rendeva più precaria la posizione di tutti i combattenti.

    Mentre l’azione infame dei dirigenti confederali tendeva a sgretolare la volontà di lotta del proletariato italiano, gli operai torinesi davano tuttavia prova di possedere ancora energia combattiva. In seguito alle dure condanne inflitte a nove operai per fatti avvenuti in relazione all’occupazione delle fabbriche del settembre 1920, il proletariato torinese scese in sciopero per 24 ore contro una sentenza dettata esclusivamente dall’odio di classe: la magistratura infatti, arma al servizio dei padroni e strumento della dittatura borghese, volle colpire gli accusati in quanto operai.

    Se nelle città le squadre fasciste facevano la loro comparsa come braccio destro degli industriali nelle vertenze salariali, nelle campagne avevano ormai instaurato un vero e proprio clima di terrore. Contro i contadini del milanese i fascisti furono autori di efferate spedizioni punitive. Il piano dei fascisti era di muovere dalle campagne un’azione di accerchiamento nei confronti di Milano, che si sarebbe dovuta concludere con l’assalto alla città e con lo scioglimento dell’amministrazione comunale socialista. Con il passaggio dell’offensiva fascista dalle campagne alla città la classe operaia milanese si sarebbe trovata a lottare contemporaneamente contro l’attacco degli industriali, mirante a ridurre i salari dei lavoratori (il 31 dicembre scadeva la proroga del concordato metallurgico), e contro l’offensiva fascista. Infliggere una duplice sconfitta al proletariato milanese sarebbe stato per la borghesia una grande vittoria, data l’importanza della città, e un simile successo l’avrebbe spinta a non porre alcun limite alla sua azione repressiva contro il proletariato italiano.

    Di fronte a questo pericolo i dirigenti del P.S.I. e della C.G.L. non cercarono neppure di difendere le loro roccheforti. Continuarono invece ad appellarsi allo Stato affinché intervenisse contro i fascisti e facesse rispettare le leggi. Tale comportamento dei social-riformisti era simile a quello di certa piccola e media borghesia nel cui ambito ormai si aggiravano.

    Questa infatti sdegnata per vedere minacciato il suo quieto vivere e venire meno le normali condizioni dell’ordine pubblico, chiedeva il ritorno alla normalità, che fossero fatte rispettare le leggi dallo Stato, considerato il difensore ed il tutore imparziale di tutti i cittadini. Per i comunisti invece la soppressione delle legalità è un fatto strettamente connesso con l’acuirsi dei contrasti di classe, per cui il proletariato non deve attenuare questo stato di cose, ma aggravarlo, rendendo lo scontro di classe più aspro e deciso. Da parte dei comunisti è inconcepibile che lo Stato disarmi ed allontani i violenti, pertanto le masse proletarie devono armarsi esse stesse, accettare la lotta sul terreno su cui viene portata e fare affidamento unicamente sulla propria violenza per spezzare quella del nemico di classe di cui il fascismo è figlio legittimo.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 38, ottobre 1977]
     

    Il periodo qui preso in esame comprende i mesi di gennaio, febbraio e marzo dell’anno 1922.

    I filoni fondamentali in cui si articola tale rapporto sono tre:
     1) Analisi della situazione italiana;
     2) Le posizioni e l’azione pratica del Partito Comunista d’Italia;
     3) La critica serrata condotta dal Partito Comunista nei confronti del P.S.I. e della C.G.L. diretti dai social-riformisti.

    Dai rapporti svolti nelle precedenti riunioni di Partito è emerso in maniera evidente come il comunista fosse l’unico partito proletario a muoversi su corrette posizioni di classe e capace di dare alle masse lavoratrici precise direttive di lotta aperta contro la violenta reazione politica ed economica della borghesia, la quale mirava a rinsaldare il proprio sistema economico, sconvolto dalla crisi in atto, attraverso un’intensificazione dello sfruttamento della classe operaia.

    Di fronte alla dura offensiva borghese, che utilizza le guardie bianche per costringere operai e contadini a subire le proprie imposizioni, i dirigenti dei P.S.I. e della C.G.L. adottano una politica di rinuncia allo scontro frontale, mirante ad indebolire la volontà combattiva delle masse.

    I riformisti affermano che la stipula di un patto di pacificazione con i fascisti possa riequilibrare la situazione e disarmare il fascismo stesso, avviandone così il declino. In realtà questo infame atto ha il solo effetto di disorientare e demoralizzare le masse lavoratrici; mentre l’avversario di classe, fiducioso dell’appoggio dell’apparato statale borghese, si sente libero e indisturbato nella realizzazione dei propri piani. Così il padronato con una azione massiccia muove all’attacco delle conquiste conseguite dai lavoratori, cercando di imporre una riduzione dei salari e l’abrogazione dei contratti di lavoro. La mancanza di un fronte compatto di resistenza fa sì che le varie categorie operaie si sentano sole ed isolate nella lotta contro le soverchianti forze del capitale, mentre dall’interno delle loro organizzazioni l’azione viene sabotata dagli stessi dirigenti opportunisti.

    Come, nei confronti del dilagare indisturbato del terrore fascista, i capi riformisti non vedono altra via se non rivolgere continui inviti agli organi dello Stato borghese affinché siano ripristinati l’ordine e la legalità, così, di fronte ai pesanti attacchi rivolti alle retribuzioni salariali, non sanno fare altro che proporre una Commissione d’inchiesta la quale stabilisca la reale situazione in cui si trovano le industrie italiane. La proposta della commissione d’inchiesta lascia il tempo che trova, ma intanto le vertenze contrattuali in corso si risolvono a favore dei capitalisti, infatti gli operai metallurgici tessili e chimici subiscono riduzioni di salario.

    Mentre i riformisti operano una politica disfattista di capitolazione, il Partito Comunista ed il suo Comitato Sindacale sostengono la necessità di affasciare tutte le vertenze che riguardano il proletariato, in modo che si formi un fronte compatto ed unico di lotta in grado di opporsi alla violenta reazione borghese. A tale fine risponde la proposta comunista di formare il fronte unico sindacale rivolta alle maggiori organizzazioni economiche del proletariato ed avente alla base precisi postulati di lotta riguardanti l’intera classe lavoratrice.

    Come arma da impugnare per difendere le condizioni di vita e di lavoro delle masse proletarie viene indicato lo sciopero generale nazionale.
     
     

    FRONTE UNICO SINDACALE
     

    La proposta comunista del Fronte Unico Proletario da contrapporre all’offensiva capitalistica viene presentata dall’opportunismo del tempo come un ripiegamento del Partito Comunista dalle posizioni fino ad allora sostenute, un’attenuazione degli obiettivi rivoluzionari. Questo indirizzo "nuovo", per i social-riformisti implicherebbe il riconoscimento che la scissione operata per costituire un Partito Comunista indipendente sarebbe stato un errore. Quanto è ritenuto da parte socialdemocratica una contraddizione, una rettifica di tiro verso "destra", che sarebbe dovuta al riconoscimento di errori comunisti nei metodi tenuti, è in realtà perfettamente coerente con le fondamentali direttive del comunismo rivoluzionario ed è una novità solo per gli opportunisti.

    Il III Congresso dell’Internazionale Comunista aveva dato come parola d’ordine "andare verso le masse" e nello stesso tempo aveva ribadito la necessità di avere dei saldi partiti comunisti, indipendenti, cristallizzati, immuni dalla tabe socialdemocratica e da influenze opportuniste. Zinovief stesso, rispondendo direttamente alle speculazioni dell’opportunismo, aveva affermato:

    «Noi siamo pronti anche a fare nuove scissioni, se fosse necessario, lungi dal rimpiangere le antiche, perché queste hanno accresciuto la nostra libertà di azione, permettendoci di sfidare le più difficili situazioni senza mai smarrire la visione della meta rivoluzionaria, mille volte barattata dagli opportunisti nei bassi servizi resi alla borghesia».

    La distinzione più spietata e netta nel campo politico permette infatti ai partiti comunisti di avere e mantenere la loro ferma e chiara fisionomia. Anche Trotzki sottolinea come il Partito Comunista, se non avesse effettuato una rottura radicale e decisiva con i socialdemocratici, non sarebbe mai diventato il partito della rivoluzione proletaria, ma non avrebbe nemmeno potuto fare il primo passo sulla via della rivoluzione.

    L’assoluta indipendenza dei partiti comunisti non è in contrasto con la proposta del Fronte Unico Proletario, infatti l’unità nella lotta della classe lavoratrice è sempre stata un caposaldo della dottrina marxista.

    Il Fronte Unico Proletario, se realizzato sul terreno sindacale, rappresenta un mezzo per la conquista delle masse al solo metodo politico che contiene la via della loro emancipazione, cioè quello comunista. Esso non può essere un’alleanza, né una fusione, né un blocco di partiti per cui dalle varie parti venga sacrificata o sottaciuta una parte del proprio programma per incontrarsi su una linea intermedia. Se così fosse il Fronte Unico Proletario rappresenterebbe null’altro che un informe guazzabuglio di diverse tendenze politiche, un comitato misto di rappresentanti di vari organismi, in favore del quale il partito dovrebbe abdicare alla propria indipendenza per barattarla con un certo grado di influenza su una massa maggiore di quella che lo segue attualmente. La tattica del fronte unico, come è concepita da parte comunista, non contiene affatto elementi di rinuncia, ma risponde perfettamente alle due condizioni fondamentali e parallele del processo rivoluzionario, cioè, da una parte, rafforzamento del Partito di classe, che rappresenta lo stato maggiore della rivoluzione, dall’altra, mobilitazione generale delle masse in lotta frontale contro il sistema borghese e spinte, anche in modo istintivo, all’azione dalle situazioni.

    Il capitalismo in crisi, infatti, non può rimandare la catastrofe se non intensifica il grado di sfruttamento dei lavoratori ricorrendo a mezzi oppressivi economici e politici. Il proletariato va toccando così con mano che è giunta l’ora di un’azione generale ed unitaria di tutti gli sfruttati contro le vessazioni del capitalismo, che con le sue mire insaziabili di sfruttamento economico, con le gesta bieche dei propri sicari va a snidare e a destare anche l’ultimo lavoratore e gli rammenta che accettare la sfida è un problema di morte o di vita. Il Fronte Unico Proletario riguarda quindi tutte le masse lavoratrici, comuniste, socialdemocratiche, socialiste, anarchiche, sindacaliste, senza partito ed anche facenti parte di organizzazioni professionali di ispirazione cristiana o liberale, in modo che si formi un fronte compatto di battaglia per fini comuni che riguardano tutti gli sfruttati.

    L’unità d’azione della classe lavoratrice determinerà anche l’unità di coscienza e di fede politica. Secondo il metodo marxista è infatti insostenibile che nella classe proletaria l’unità di dottrina politica preceda l’unità di azione. Il Partito Comunista, quindi, non pone aprioristicamente, per la formazione del Fronte Unico Proletario, l’accettazione da parte delle masse lavoratrici dei capisaldi della dottrina marxista, bensì postulati di lotta che riguardano gli interessi vitali ed immediati del proletariato, la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro.

    Da parte opportunista, a proposito degli obiettivi di lotta posti alla base del fronte unico sindacale, viene sottolineato che il Partito Comunista avrebbe spostato la sua attenzione e il suo sforzo dai fini rivoluzionari su altri ben più attenuati, su modeste rivendicazioni contingenti, accontentandosi che vengano mantenute le attuali condizioni di trattamento concesse al proletariato. Ciò significherebbe, secondo i riformisti, passare da una posizione "offensiva" ad una "difensiva".

    La realtà è ben diversa ed in perfetto accordo con le più genuine fonti della dottrina marxista e dell’esperienza rivoluzionaria. I comunisti non hanno infatti mai sostenuto la tesi superficiale del rifiuto di lottare per gli interessi immediati e contingenti della classe lavoratrice, adducendo che solo per la finale soluzione rivoluzionaria meriterebbe scendere in campo. Un concetto ormai consolidato, ribadito anche nel terzo congresso dell’Internazionale, è che i Partiti Comunisti devono sempre porsi alla testa dei movimenti del proletariato per le rivendicazioni economiche. Il compito del Partito Comunista è quello di unificare e fare convergere questi movimenti delle masse in una lotta generale. A ciò si giunge non disprezzando e negando puerilmente certi impulsi dei lavoratori all’azione, ma sollecitandoli e sviluppandoli nella logica realtà del loro processo, armonizzandoli nella loro confluenza nella lotta generale rivoluzionaria.

    Riguardo al preteso ripiegamento difensivo della posizione comunista, contrapposta dagli opportunisti al tradizionale slancio offensivo dei marxisti rivoluzionari, va sottolineato che la situazione di crisi in cui si trova il capitalismo fa sì che anche una lotta economica puramente difensiva del proletariato ponga il problema di un’azione rivoluzionaria e dell’abbattimento violento del sistema borghese. Se in passato non era rivoluzionario chiedere un aumento dei salari, lo è invece nella situazione attuale chiedere che non vengano ribassati. La proposta di un’azione difensiva di tutto il proletariato non significa affatto rinunciare alla lotta rivoluzionaria, bensì innestare su problemi immediati un ritorno controffensivo delle masse sulla via della rivoluzione. La difesa degli interessi contingenti e delle vigenti condizioni proletarie non si può fare infatti che preparando ed attuando l’offensiva in tutti i suoi sviluppi rivoluzionari.

    Il Fronte Unico Proletario, proposto dal Partito già fin dall’agosto dei 1921, non rappresenta quindi una attenuazione del programma comunista, ma vuol dire lottare per tale programma nel senso di preparare una situazione in cui l’azione offensiva di tutto il proletariato possa raccordarsi con l’indirizzo rivoluzionario comunista. Il fronte unico non è l’espressione della nostra "disperazione", come vogliono far credere gli opportunisti, bensì il prodotto della spirale ascendente della rivoluzione.
     
     

    FRONTE UNICO POLITICO E GOVERNO OPERAIO
     

    Mentre il Partito Comunista d’Italia sostiene la necessità di costituire il Fronte unico sindacale, l’Internazionale Comunista tende a proiettare anche sul terreno politico tale metodo proponendo il Fronte unico dei partiti proletari. Questa tattica, ribadita anche nella riunione dei Comitato Esecutivo allargato del Comintern riunitosi a Mosca nel febbraio del 1922, trovò assai critico il Partito Comunista d’Italia, che tramite i suoi delegati espose di fronte all’Esecutivo dell’Internazionale il proprio punto di vista, anticipando tuttavia la propria disciplina alle decisioni che saranno prese dell’Internazionale.

    La posizione del P.C.d’I., espressa da Terracini e Repossi nella riunione dell’Esecutivo Allargato dell’Internazionale, riscosse il consenso dei delegati francesi e spagnoli, i quali si trovarono concordi con i compagni italiani nel sostenere che ogni azione a favore della causa proletaria e per gli interessi immediati delle masse lavoratrici dovesse essere condotta al di fuori di ogni ravvicinamento con altri partiti, anche se definiti proletari.

    I delegati italiani, francesi e spagnoli, come dichiarato nella loro opposizione al Fronte Unico Politico, così si dimostrarono contrari alla partecipazione dell’Internazionale Comunista alle conferenze delle tre Internazionali (Terza, Seconda e Internazionale Due e mezzo), proposte dall’Internazionale di Vienna per stabilire un programma di azione comune contro la reazione borghese. Da parte dei delegati italiani venne invece proposto un incontro fra le organizzazioni sindacali di ogni sfumatura.

    L’opposizione del P.C.d’I. al Fronte Unico Politico non è frutto di purismo teorico o di intransigenza aprioristica, ma è la realtà stessa che l’impone, se si vuole procedere sulla via che introduce alla rivoluzione.

    La questione del Fronte Unico Politico fu dibattuta al secondo Congresso del Partito Comunista svoltosi nel marzo a Roma. A tale congresso partecipò Kolarof, rappresentante dell’Esecutivo del Comintern, il quale nel suo discorso sottolineò che se il P.C.d’I. non avesse aderito al Fronte Unico Politico si sarebbe trovato automaticamente tagliato fuori dalla direzione della lotta; ed aggiunse che il suo metodo dell’unità sindacale si riallacciava in certo qual modo alla concezione sindacalista, che negava la funzione ed il ruolo determinante del Partito Comunista come organo direttivo della lotta.

    I motivi per cui il P.C.d’I. fu contrario al Fronte Unico Politico sono contenuti nelle Tesi sulla tattica, presentate nel Congresso di Roma da Terracini e Bordiga. Quest’ultimo sottolineò che, se si continuerà ad esagerare nel metodo delle illimitate oscillazioni tattiche e delle coincidenze contingenti fra le opposte parti politiche, verrà demolito a poco a poco il risultato di sanguinose esperienze di lotta di classe, per arrivare, non a geniali successi, ma allo svuotamento delle energie rivoluzionarie del proletariato, correndo il rischio che ancora una volta l’opportunismo celebri i suoi saturnali sulla sconfitta della rivoluzione, le cui forze dipinge come incerte, esitanti ed avviate sulla via di Damasco.

    Il Fronte Unico Politico, secondo i suoi sostenitori, agevolerebbe la conquista delle masse alla causa comunista e darebbe al partito la possibilità di avere la maggioranza del proletariato. È innegabile che il partito, ai fini del successo rivoluzionario, debba avere la più grande influenza possibile sulle masse proletarie, ma al tempo stesso deve guardarsi dal pericolo e dalla illusoria speranza di ottenere per vie devianti da quella corretta questa vasta influenza sulla classe. La nota espressione di Lenin «dobbiamo avere la maggioranza del proletariato» non significa che i partiti comunisti debbano spostare le proprie basi programmatiche, alterare la loro inconfondibile fisionomia, perché così facendo è più facile ottenere la maggioranza. Si ripeterebbe infatti l’errore commesso dal partito cecoslovacco, il quale allargando le maglie del proprio programma e dei suoi stessi principi, era arrivato ad avere 400.000 iscritti, ma di fronte alle dure lotte sociali dimostrò un vergognoso passivismo.

    Nelle tesi sulla tattica presentate al secondo Congresso del Partito Comunista viene ribadita la stretta connessione esistente fra direttive programmatiche e norme tattiche. Nella tesi 31 è detto che il partito non può proporsi una tattica con criterio occasionale e temporaneo, calcolando di poter eseguire in seguito una brusca conversione ed un cambiamento di fronte, mutando in nemici gli alleati di ieri. Se non si vogliono compromettere i legami con le masse ed il loro rafforzamento nel momento in cui sarà più necessario che si manifesti, si dovrà seguire una continuità di metodo strettamente coerente con la propaganda e con la preparazione ininterrotta per la lotta finale. Le norme tattiche dunque non devono essere mai in contraddizione con le esigenze ulteriori della lotta, secondo il programma di cui il Partito Comunista è il solo assertore e per il quale nel momento decisivo sarà anche l’unico partito a combattere. I limiti della tattica li ha fissati la realtà stessa e non possono essere cancellati senza sacrificare la prima condizione soggettiva della vittoria rivoluzionaria, cioè la continuità del programma, dell’azione pratica e dell’organizzazione.

    Il contenuto e l’indirizzo programmatico del partito, che, nella sua milizia e in quella più vasta che inquadra sindacalmente e in altri campi, non è una macchina bruta né un esercito passivo, possono essere influenzati sfavorevolmente da una tattica errata, infatti essa reagisce sull’organismo che la pratica, modificandolo, se discordante dalle basi programmatiche, nella sua struttura, nella sua capacità e modo di agire ed alla lunga negli stessi principi, per quanto accanitamente e sinceramente difesi. Nelle Tesi sulla tattica presentate al secondo Congresso Comunista di Roma vengono inoltre ribaditi i caratteri fondamentali del partito, che sono la sua unità e omogeneità, l’assoluta indipendenza e l’attitudine pratica di stretta opposizione allo Stato borghese ed agli altri partiti.

    L’attività di opposizione politica del partito consiste nella costante affermazione della tesi dell’insufficienza di ogni azione che miri alla conquista democratica del potere e di ogni lotta politica che voglia mantenersi sul terreno legale e pacifico; significa critica continua e divisione netta di responsabilità dall’operato dei governi e dei partiti legali; vuole dire inoltre formazione ed azione di organi di lotta che solo il partito può costruire e rendere operanti, contro e fuori il meccanismo legalitario dello Stato borghese. Ogni piano tattico in cui il Partito Comunista assumesse iniziative od atteggiamenti tali da annullare od inficiare ai propri occhi ed a quelli del proletariato i caratteri distintivi ed i confini delimitati della propria indipendente esistenza, non solo sarebbe sterile, ma comprometterebbe lo stesso contenuto programmatico e le condizioni indispensabili del processo rivoluzionario.

    L’assoluta indipendenza del Partito, concetto ribadito più volte dall’Internazionale Comunista, non è però una categoria metafisica, ma un fatto reale. Essa viene minacciata ed anche distrutta attraverso l’adesione del partito ad iniziative di azione comune al fianco di altri partiti, come nel Fronte Unico Politico, o ad alleanze parlamentari nel caso del Governo Operaio. Tollerare alleanze con altri schieramenti politici vorrebbe dire inoltre mettere in pericolo quel tanto di preparazione rivoluzionaria raggiunta dal partito nella propria organizzazione e nell’inquadramento di parte del proletariato. Ai fini del successo rivoluzionario è indispensabile invece che il partito conservi sempre intatta la propria fisionomia, tutte le sue posizioni di battaglia, senza fondersi e quindi confondersi, come nel Fronte Unico Politico, con coloro che nel momento supremo devono per forza di cose schierarsi dalla parte dell’avversario.

    Non è che i comunisti rifiutino di stringere la mano ai capi socialdemocratici per qualche sentimentalismo, infatti sono disposti a sedere allo stesso tavolo con chiunque nella organizzazione sindacale. Sul terreno politico, afferma Bordiga a nome dell’esecutivo del Partito Comunista d’Italia «ci rifiutiamo di stringere la mano ai Noske e agli Scheidemann, noi rifiutiamo di stringere queste mani non perché siano bagnate del sangue della Luxemburg e di Liebknecht, ma sappiamo che, se queste mani non fossero già state strette da comunisti subito dopo la guerra, assai probabilmente in Germania il movimento rivoluzionario del proletariato avrebbe già avuto il suo sbocco vittorioso».

    Accettare la tattica del Fronte Unico Politico significherebbe inoltre mettere il Partito Comunista allo stesso livello dei partiti socialdemocratici, pacifisti e legalitari, ottenebrando agli occhi della classe proletaria la chiara visione dell’abisso che esiste "fra noi e gli altri".

    Nel Fronte Unico Politico il partito non assolverebbe più al suo compito insostituibile di preparazione rivoluzionaria, mentre si troverebbe costretto ad accettare la corresponsabilità di azioni che possono essere dirette da altri elementi politici prevalenti nella coalizione, la cui disciplina si sia preventivamente riconosciuta, senza di che non vi può essere nessuna coalizione.

    Nel Fronte Unico dei partiti proletari si sarebbero determinati gli stessi risultati riscontrati, con disastroso effetto, all’interno del P.S.I. per la convivenza di opposte tendenze.

    Come netta fu l’opposizione del Partito Comunista d’Italia verso il Fronte Unico Politico così altrettanto decisa e ferma fu la posizione contro il Governo Operaio, la cui realizzazione trovava sempre più sostenitori all’interno dell’Internazionale. In una serie di articoli Radek era giunto a proporre il Fronte Unico Proletario ai fini della formazione di un Governo Operaio. Egli si riferiva alla situazione tedesca sulla quale gravava il peso delle riparazioni di guerra dovute ai paesi dell’Intesa vincitori del conflitto mondiale. Per realizzare il valore delle indennità da pagare la classe lavoratrice della Germania era soggetta ad uno sfruttamento senza limiti da parte della propria borghesia. Radek sottolinea come la formazione di un Governo Operaio sia voluto dalle masse; inoltre, attraverso tale soluzione, sarebbero stati i capitalisti tedeschi a dover pagare le riparazioni di guerra dovute alle potenze dell’Intesa e non i lavoratori. La costituzione di un Governo Operaio in Germania, determinando una situazione di guerra civile, viene presentata come un passo avanti sulla via della rivoluzione, in quanto il proletario tedesco si sarebbe reso conto che non esisteva altra via di sbocco se non l’abbattimento violento del potere borghese e l’instaurazione della propria dittatura.

    Tale tattica proposta da Radek e sostenuta dal Partito Comunista Tedesco presenta gravi insidie. È innegabile che le masse, per il loro limitato grado di coscienza politica e sotto l’influsso nefasto dei capi socialdemocratici, possano ritenere un’azione condotta attraverso l’apparato statale borghese in grado di risolvere i loro impellenti problemi, e quindi desiderino un governo il quale, ad esempio in Germania, decida che il peso del pagamento delle riparazioni di guerra gravi sui capitalisti e non sulla classe lavoratrice. Ciò però non è un elemento valido per spingere i partiti comunisti a sposare questo atteggiamento ed assecondare tale spinta delle masse; infatti, se è vero che il Partito Comunista deve sostenere ed appoggiare i movimenti di tutti gli sfruttati in difesa dei loro interessi vitali, è anche altrettanto vero che non può avvenire fuori di ogni limite, ossia rischiando di compromettere la propria indipendenza, nonché la sua attitudine pratica di opposizione netta allo Stato borghese ed agli altri partiti politici.

    La tattica del Governo Operaio, invece, prevede l’utilizzazione dell’apparato statale borghese e comporta un avvicinamento ed un’intesa con gli altri partiti cosiddetti proletari, ma che in realtà non lo sono. Il carattere proletario dei partiti non deriva dal fatto che essi reclutino i propri aderenti nella classe lavoratrice, escludendo la loro posizione verso lo Stato ed il suo apparato. Un partito che si chiude volontariamente nei confini della legalità, ossia che non concepisce altra azione politica che quella esplicabile nell’ambito delle istituzioni statali non può essere un partito proletario, bensì borghese. Esso non fa che il gioco della borghesia, la quale con ogni mezzo cerca di diffondere nella classe lavoratrice la persuasione che per ottenere una soluzione dei suoi problemi vitali non è necessario ricorrere all’uso di mezzi violenti e propone al proletariato come armi di difesa l’impiego pacifico dell’apparato democratico statale e l’utilizzo delle istituzioni legali.

    Tesi fondamentale della dottrina marxista è che la via attraverso la quale la classe operaia giungerà a fare trionfare la propria causa dovrà passare per la distruzione della macchina statale borghese. Non basta che di tale tesi da parte comunista ci si limiti a riconoscere la validità, ma bisogna che i partiti comunisti, per la vittoria finale del proletariato, anche nei periodi che precedono la fase suprema della lotta in cui tale necessità diventerà tangibile ed indispensabile, devono farne il motivo informatore della loro azione. L’accettazione da parte comunista di utilizzare il meccanismo statale borghese nella situazione attuale sarebbe in contrasto con i propri contenuti programmatici e comprometterebbe l’esito finale del processo rivoluzionario.

    Se un giorno le masse lavoratrici, ancora illuse dal miraggio riformista dei partiti socialdemocratici e non in grado di vedere quegli obiettivi rivoluzionari più lontani, di cui ha coscienza il Partito Comunista, si trovassero di fronte alla constatazione che ogni tentativo di riscossa è inutile se non si viene a cozzare contro la macchina statale borghese, ma nelle precedenti fasi fosse rimasta gravemente compromessa l’organizzazione del partito di classe e dei movimenti che lo fiancheggiano (come l’organizzazione sindacale e militare), ne conseguirebbe che il proletariato si troverebbe sprovvisto delle armi stesse della sua lotta, cioè del contributo indispensabile di quella minoranza che ha una chiara e salda visione dei compiti da affrontare e per averla posseduta da lungo tempo si è data tutta un’organizzazione ed un allenamento necessario per la vittoria finale della rivoluzione.

    Non è pensabile infatti che, quando le menzogne socialdemocratiche cadano di fronte all’evidenza dei fatti, si determini automaticamente nelle masse la volontà di sostenere la lotta contro l’apparato statale borghese, con i mezzi della guerra rivoluzionaria, per affermare la propria dittatura di classe, unica soluzione capace di soffocare l’avversario. L’inesperienza del proletariato ad usare queste armi risolutive tornerebbe a tutto vantaggio della borghesia. Solo possedendo un saldo punto di riferimento e di sostegno l’immancabile delusione determinata nella classe proletaria dallo svanire delle illusioni socialdemocratiche sarà seguita da una conversione sui metodi di lotta rivoluzionaria. Questo polo di riferimento sarà rappresentato dal Partito Comunista, stato maggiore della rivoluzione, il quale abbia impostato tutta un’opera di preparazione sul terreno della lotta antilegalitaria.

    Con la tattica del Governo Operaio, che comporta l’accettazione dei sistema istituzionale borghese, come potrebbe il Partito Comunista essere un domani punto di riferimento delle masse per portare avanti la lotta rivoluzionaria contro lo Stato capitalista? Nel Governo Operaio il Partito Comunista dovrebbe rinunciare alla propria assoluta indipendenza per allearsi con i partiti socialdemocratici, in combinazioni parlamentari e ministeriali. Ma il compito svolto dalla socialdemocrazia nella storia non costituisce un’incognita, infatti ormai consolidato è il ruolo controrivoluzionario ed anti-proletario dei partiti socialdemocratici, e proprio questo vieta di gettare ponti o tendere la mano verso coloro che sono nemici sperimentati.

    La situazione determinatasi in Germania lo conferma inequivocabilmente, infatti il governo socialdemocratico ha instaurato un clima terroristico nei confronti dei proletariato tedesco. Decine di migliaia di operai sono stati martoriati, condannati, uccisi ed ogni tentativo di difesa della classe lavoratrice è stato soffocato nel sangue. «Stringere un’alleanza con i partiti socialdemocratici dunque a che scopo? Per fare ciò che essi sanno, possono e vogliono fare, oppure per chiedere loro ciò che non sanno, non possono e non vogliono fare?».

    La tattica del Governo Operaio viene sostenuta da Kolarof, rappresentante dell’Esecutivo del Comintern, al secondo Congresso Comunista di Roma, e dal delegato del Partito Comunista Tedesco. Quest’ultimo difese a spada tratta la realizzazione del Governo Operaio, definito anti-borghese, in quanto esso avrebbe permesso al proletariato di estendere il proprio potere pur nell’ambito del sistema di produzione capitalista e della struttura sociale borghese. Il Governo Operaio viene presentato come un mezzo di transizione, di trapasso verso l’attacco rivoluzionario al potere.

    Bordiga nella sua replica sottolineò che non può esistere Governo Operaio che non sia costituito sulle basi della vittoria rivoluzionaria del proletariato. Inoltre tale tattica si oppone a tutti i principi fondamentali dei comunismo. Il Governo Operaio infatti compromette l’indipendenza reale dei partiti comunisti; è in contrasto con la dottrina marxista che esclude soluzioni intermedie tra la dittatura borghese e quella proletaria ed indica nell’abbattimento violento del potere borghese l’unica via di uscita dalla situazione in cui si trova il proletariato; inoltre si pone contro le basi stesse del parlamentarismo rivoluzionario, strumento di eversione degli istituti rappresentativi borghesi, e misconosce la concezione marxista dello Stato.

    Va aggiunto anche che è inspiegabile come, nel Governo Operaio, ritenuto uno strumento rivoluzionario, la socialdemocrazia non assolverebbe più al suo compito di conservazione del sistema borghese, ma diverrebbe un suo possibile fermento dissolutore.

    Nessun elemento dunque può indurre ad attribuire una benché minima efficienza rivoluzionaria ad un Governo Operaio che si realizzi nell’ambito delle istituzioni democratiche, le quali costituiscono nient’altro che l’inganno liberalesco della borghesia.

    Il Governo Operaio, in seno all’Internazionale Comunista, arriverà addirittura ad essere sinonimo di Dittatura Proletaria e costituirà parola d’ordine del Comintern stesso. I motivi dell’opposizione del Partito Comunista d’Italia alla tattica del Fronte Unico Politico e del Governo Operaio, proposta dall’Internazionale, sono sviluppati da Bordiga nel Congresso di Roma. Questi terminò la sua replica affermando che

    «il Partito Comunista sarà sempre al fianco del più umile gruppo degli sfruttati che chiede un pezzo di pane e lo difende dall’insaziabile ingordigia padronale, ma la sua azione di difesa della classe proletaria non sarà mai condotta avanti nell’ambito del meccanismo istituzionale borghese, bensì contro di esso e chiunque si ponga sullo stesso terreno».

    Tale infatti l’insegnamento della dottrina marxista, i cui principi devono essere seguiti con continuità, sia che la via della redenzione proletaria conduca i militanti comunisti al sacrificio come alla vittoria, sia che li collochi nella falange dei trionfatori che nell’ultimo manipolo di combattenti per il comunismo.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 39, novembre 1977]
     

    LE POSIZIONI COLLABORAZIONISTE DEI RIFORMISTI
     

    Mentre il Partito Comunista d’Italia invita tutti i lavoratori a formare il Fronte Unico Proletario in risposta alla violenta offensiva politica ed economica della borghesia, i riformisti della C.G.L. e del P.S.I., temendo lo slancio delle masse, antepongono all’azione diretta di tutti gli sfruttati la tribuna parlamentare, le anticamere dei ministeri, che sono il loro terreno preferito. Il Consiglio Direttivo della Confederazione Generale del Lavoro ribadisce a chiare note i propri intendimenti collaborazionisti, mentre i massimalisti, intransigenti solo a parole, non oppongono a tali direttive un loro programma, confermando la sterilità delle loro posizioni. Buozzi dichiara apertamente che bisogna essere disposti alla collaborazione e dare vita ad un governo "migliore"; il quale contenga i postulati più immediati della classe proletaria e dia garanzia del ripristino delle libertà elementari.

    La posizione collaborazionista dei dirigenti confederali significa che il proletariato dovrebbe stringersi intorno alla borghesia per aiutarla a rinsaldare l’economia capitalista sconvolta dalla crisi. Viene così rifiutata ed esclusa ogni iniziativa di lotta anche per la tendenza a concedere da parte dei lavoratori al capitalismo tutte le rinunce di cui ha bisogno nel suo tentativo di ricostruzione. Agli opportunisti della C.G.L. si associano i riformisti del P.S.I., i quali si dicono disposti ad appoggiare qualunque governo dia affidamento contro il fascismo.

    In realtà la loro collaborazione non mira a combattere il fascismo, ma a collaborare con esso, che rappresenta la forza repressiva usata dalla borghesia per ottenere l’assenso del proletariato nel tentativo di rinsaldare il proprio sistema economico minacciato dalla crisi. Tramite il fascismo infatti il capitalismo si propone di conseguire un duplice scopo, cioè allontanare le masse lavoratrici da ogni attacco rivoluzionario e costringerle ad accettare le imposizioni del padronato. Tale piano è assecondato dalla complicità dei dirigenti riformisti, che la borghesia stessa ora vuole al governo per averli corresponsabili nella azione repressiva contro chiunque guidi il proletariato sul terreno della lotta di classe. Significative a tale proposito sono le assicurazioni date da Baldesi a Mussolini, che finge di temere un’ipotetica azione antifascista. La risposta è «noi non la vogliamo, né la faremo». Scheidemann e Noske non distrussero infatti le guardie bianche, le arruolarono per uccidere Spartaco, ma Spartaco rinasce sempre dal suo stesso sangue.

    Alla luce dei fatti risulta evidente che le affermazioni di intransigenza, ribadite nel Congresso Socialista di Milano e nel Consiglio Nazionale tenuto nel gennaio a Roma, non sono in realtà nient’altro che la foglia di fico per la fornicazione del P.S.I. con la borghesia. La marcia verso destra del partito è cosa incontestabile e ciò avviene con la complicità di Serrati e compagni, i quali rappresentano l’ala maggioritaria e sono i primi responsabili della politica svolta dal P.S.I. Questi capiscuola dell’opportunismo intransigente, con la loro aureola massimalista, svolgono il ruolo di agevolare le manovre al Turati ed ai suoi seguaci, miranti a fare entrare le masse socialiste, gradatamente ed in modo organico, nell’orbita dello Stato borghese. Tale conversione è condotta dall’opportunismo con gradualità: si assicura di giungere alla collaborazione con l’appoggio di ampi strati proletari. I rimbrotti e le minacce di Serrati, che non si concretizzano in nulla, non sono altro se non una parte della commedia indispensabile per il successo dei primi attori, cioè i riformisti, i quali vogliono celebrare il loro matrimonio ministeriale con la borghesia.

    Che il P.S.I. sia un organismo in decomposizione lo conferma in occasione della caduta del ministero Bonomi, assumendo atteggiamenti possibilistici e dichiarandosi disposto ad appoggiare con l’astensione un governo migliore, che dia sufficienti garanzie di voler restaurare la pace all’interno e di orientare la propria politica internazionale nel senso della ricostruzione economica dell’Europa.

    I tre punti fondamentali (politica di libertà diretta a ristabilire l’ordine e la legalità; riconoscimento dei diritti della classe lavoratrice; politica di accordi internazionali miranti alla ricostruzione economica dell’Europa) posti dal P.S.I. come contropartita per il suo appoggio indiretto ad un nuovo Governo presentano evidenti contraddizioni con la dottrina marxista e con l’esperienza delle lotte proletarie.

    A proposito del primo punto, il ristabilimento dell’ordine all’interno, è da sottolineare che ad un governo borghese, "migliore" o "peggiore" che sia, non può domandarsi se non l’ordine della società capitalista, di quella società minacciata dalla crisi economica e dall’assalto della classe lavoratrice finora soggetta. L’ordine borghese non consente, né può consentire, specialmente nei momenti più acuti della lotta e del pericolo, la libertà del proletariato, nemico tradizionale della borghesia. Chiedere il ripristino della legalità significa poi rinnegare ogni azione rivoluzionaria, che tende a spezzare la legge e l’ordine borghese.

    Il secondo punto contenuto nelle richieste del P.S.I. per appoggiare il nuovo governo, cioè il riconoscimento del diritti della classe lavoratrice, è inconciliabile con gli insegnamenti deducibili dallo sviluppo della lotta di classe. Infatti il proletariato può far valere i propri diritti solo con la propria forza e non demandando ad un ministro borghese tale compito.

    Quanto alla ricostruzione economica dell’Europa essa viene concepita dal P.S.I. come un riassestamento ed una riorganizzazione della società borghese e non si pensa neppure ad una ricostruzione su nuove basi poste dalla vittoria del proletariato.

    Con la promessa di astensione dal voto nei confronti di un "governo migliore" il P.S.I. è già sul terreno della collaborazione, che cerca di camuffare con la formula "attenuata intransigenza". L’astensione è il primo passo, quindi si passerà al voto favorevole, per arrivare poi alla partecipazione ad un governo borghese. I riformisti, socialisti e confederali ritengono di poter utilizzare la crisi di governo in senso favorevole al proletariato sostenendo la candidatura di De Nicola o di Nitti, considerati non reazionari come Giolitti, Bonomi o Orlando. Valorizzando l’azione parlamentare l’opportunismo vuole far credere che le rivendicazioni del proletariato possano essere conseguite non attraverso la pressione dei lavoratori sul terreno dell’azione diretta, ma tramite meccanismi dello Stato democratico, includendole nel programma di un ministero borghese.

    Le insidie contenute nelle manovre parlamentari dei social-riformisti (i quali nello slancio collaborazionista non esitano ad avvicinarsi ai popolari per intessere accordi di governo) furono messe in evidenza dal compagno Gennari nel discorso pronunciato in Parlamento per esporre la posizione del Partito Comunista d’Italia in riferimento alla crisi di governo ed alle possibili soluzioni. Gennari sottolineò come tutti i ministeri borghesi si equivalgono, infatti tutti i governi della borghesia, migliori o peggiori, con o senza l’appoggio dei socialdemocratici, sono sempre strenui difensori dello sfruttamento borghese e si pongono come compito fondamentale la deviazione ed il soffocamento dello spirito rivoluzionario del proletariato. Le masse lavoratrici il diritto alla vita non possono attenderlo più dalla politica di De Nicola che da quella di Giolitti, ma solo nella misura in cui sapranno imporre la propria forza all’avversario di classe. Ogni ministero infatti fa e farà la sua politica sulla base dei rapporti di forza tra il fascismo-borghesia ed il fronte di resistenza proletaria, sabotato dai consumati ruffiani socialdemocratici schierati a fianco dei carnefici del proletariato.
     
     

    L’ALLEANZA DEL LAVORO
     

    Lo S.F.I., spinto dalla situazione delle vertenze in corso riguardanti la categoria dei ferrovieri, propone alle maggiori organizzazioni sindacali del proletariato (l’U.S.I., la C.G.L., l’Unione Italiana del Lavoro, la Federazione Nazionale dei Lavoratori dei Porti) di accordarsi su un programma comune da portare avanti contro l’offensiva politica ed economica della borghesia. Tale fronte viene denominato Alleanza del Lavoro e si stabilisce di indire a Genova un convegno allo scopo di tracciarne le direttive di azione ed eleggere un Comitato Nazionale Unitario. Per un’intesa preliminare fu decisa una riunione fra il P.S.I., l’Unione Anarchica e il Partito Repubblicano, in modo che questi partiti esercitassero la loro influenza sui propri militanti aderenti alle suddette organizzazioni sindacali. Il Partito Comunista d’Italia ritenne di non dovere intervenire a tale riunione preparatoria in quanto la presenza dei partiti politici, con l’incompatibilità dei rispettivi programmi, avrebbe compromesso la riuscita dell’iniziativa.

    Il Comitato Sindacale Comunista chiese, tuttavia, che le minoranze sindacali comuniste presenti nelle suddette organizzazioni economiche avessero, in proporzione alla loro consistenza, dei rappresentanti nel Convegno di Genova, in modo che questi potessero portare la voce delle forti correnti proletarie che erano su posizioni comuniste. La richiesta venne respinta, per cui dal Comitato Nazionale dell’Alleanza del Lavoro sono esclusi i comunisti, mentre vi predominano i riformisti. Come obiettivo l’Alleanza del Lavoro si propone la restaurazione delle pubbliche libertà, del diritto comune e la difesa delle conquiste di carattere generale conseguite dalla classe lavoratrice, sia sul terreno economico sia dal lato morale. Per il raggiungimento di tali fini non è escluso alcun mezzo di lotta sindacale, compreso lo sciopero generale. Nonostante l’esclusione dal Comitato Nazionale delle minoranze sindacali comuniste, il Partito Comunista ed il suo Comitato Sindacale invitano tutti i propri militanti ed i lavoratori che ne seguono le direttive a riconoscere il Comitato che dirige l’Alleanza del Lavoro ed a seguire con disciplina le disposizioni che diramerà.

    Ciò non esclude che vengano sottolineati i limiti programmatici e di azione dell’Alleanza dei Lavoro, per cui, al suo costituirsi, appare un’imperfetta realizzazione del fronte unico sindacale proposto già dall’agosto 1921 dal Partito Comunista. Al fine che l’Alleanza del Lavoro divenga una forza reale ed operante in difesa dei lavoratori contro la reazione borghese, da parte comunista vengono indicati i capisaldi di cui deve essere materiato il Fronte Unico Sindacale.

    Il primo caposaldo è l’impegno effettivo al reciproco sostegno in un’azione comune di tutti i sindacati in difesa di qualunque di esso venga colpito dall’offensiva capitalista. Ciò non significa la semplice solidarietà in favore di una organizzazione sindacale in lotta con le forze soverchianti dei capitalismo, bensì la mobilitazione di tutto il fronte sindacale contro il nemico comune.

    In secondo luogo occorre stabilire i postulati da difendere con un’azione unitaria. Questi non possono essere che gli interessi vitali del proletariato. Quando certi postulati risultano minacciati, assaliti e distrutti per una categoria di lavoratori tutto il proletariato è colpito. Infatti anche ogni conquista particolare a cui viene attentato ha un valore generale che interessa tutti i lavoratori. Con lo schieramento compatto del fronte sindacale deve essere impedito che pure una sola categorie sia costretta dall’offensiva capitalistica a subire le rinunce a posizioni già raggiunte. Risulta pertanto insufficiente la formula approvata nei Convegni dell’Alleanza del Lavoro che parla di "difesa delle conquiste di ordine generale dei lavoratori". Il secondo caposaldo indicato da parte comunista è dunque «la salvaguardia dei postulati che rappresentano il diritto all’esistenza del proletariato e delle sue organizzazioni, difesa della causa dei disoccupati e mantenimento di tutti i patti di lavoro vigenti e dei livelli dei salari».

    In terzo luogo vanno stabiliti i mezzi di lotta sindacale che le masse lavoratrici devono adottare per difendersi. Questi non possono consistere che nell’azione diretta contro la classe padronale e lo sciopero generale nazionale è l’arma più efficace. Pertanto il terzo caposaldo da porre alla base del fronte unico sindacale deve essere «l’azione diretta delle masse e sciopero generale nazionale come mezzo di lotta a cui bisogna tendere con una decisa preparazione». Nelle formule approvate nel Convegno di Roma dell’Alleanza del Lavoro, in cui si parla dell’impiego di tutti i mezzi di lotta sindacale, non escluso lo sciopero generale, non sono contenute direttive precise di preparazione e di azione, ma tutto è lasciato nel vago.

    La genericità di metodi di lotta racchiude il pericolo che l’attenzione delle masse lavoratrici sia rivolta verso una speranza contenente solo elementi di delusione, di ulteriore smarrimento e di demoralizzazione per le masse operaie, e cioè che da un’azione dello Stato borghese, ottenuta con la partecipazione delle forze proletarie al gioco parlamentare, in collaborazione con i partiti della borghesia, si possa attendere la realizzazione di quelle rivendicazioni indispensabili per le classi lavoratrici, nonché la limitazione dei soprusi del padronato e del fascismo.

    Questa insidia deve essere fugata. Infatti tutti i governi borghesi, qualunque sia la loro posizione parlamentare, non possono avere nei loro programmi quei postulati che significano il suicidio per la borghesia. Anzi, il peggiore trattamento al proletariato verrebbe proprio da quel governo che potesse calcolare di avere infeudato alla propria politica la classe lavoratrice attraverso la collaborazione dei suoi dirigenti nel campo parlamentare. Solo con una pressione ed un’azione diretta le masse possono imporre all’avversario il rispetto dei propri diritti e delle proprie organizzazioni.

    L’Alleanza del Lavoro, non materiata dei contenuti e dei metodi di lotta indicati dai comunisti, è un accordo fra capi, non un’unione dei lavoratori; risulta una vaga intesa formale, che ciascuno può interpretare a modo suo, adoperando i mezzi di azione preferiti, per cui i riformisti ricorrono alle loro manovre parlamentari e gli anarchici, magari, al lancio di bombe. In tale caso non vi sarebbe unità di azione del proletariato, per cui l’Alleanza del Lavoro sarebbe null’altro che una caricatura del Fronte Unico Sindacale proposto dai comunisti.

    Il Partito Comunista, già al momento della costituzione della Alleanza del Lavoro, sottolineò il pericolo che a tale organismo i riformisti volessero dare un valore riduttivo, facendone un mezzo per portare avanti le loro mire collaborazioniste in vista della formazione di un nuovo governo. Non è casuale infatti che proprio nel periodo delle crisi ministeriali si costituisca l’Alleanza del Lavoro. Il Partito Comunista nel suoi comunicati mette in guardia i propri militanti e tutti i lavoratori, sottolineando il rischio che l’Alleanza del Lavoro degeneri in senso opportunista e collaborazionista servendo come elemento della concorrenza parlamentare fra i vari gruppi interessati alla formazione del nuovo governo. L’unità sindacale del proletariato verrebbe così risolta a fini ingannevoli, l’azione di classe si trasformerebbe nella collaborazione con la borghesia.

    In Battaglie Sindacali, organo della C.G.L., la salvaguardia delle otto ore giornaliere di lavoro viene presentata come un elemento capace di determinare nei lavoratori il fronte unico automatico in quanto profondamente sentita da tutti, ma non si parla della difesa dei salari e dei contratti di lavoro vigenti. Anche il P.S.I. nella piattaforma per l’appoggio ad un nuovo governo, nella parte riguardante le rivendicazioni economiche, sottolinea la intangibilità delle otto ore, ma non c’è accenno alla difesa dei salari. In realtà la salvaguardia delle otto ore non ha valore se viene abbandonata quella dei salari. Infatti, se non si difendono questi ultimi dai tentativi di riduzione del padronato è inevitabile che gli operai per vivere accettino di lavorare di più. Tale ulteriore offerta di mano d’opera determinerà un inasprimento maggiore dei patti di lavoro e favorirà l’aumento della disoccupazione, su cui specula il capitalismo. Così verrà assecondato il piano di ricostruzione economica della borghesia, che si basa sullo svilimento del prezzo della forza lavoro.

    I riformisti della C.G.L. e del P.S.I. non insistono sulla difesa del salario perché questa non può essere fatta con un’azione parlamentare o conseguita con procedimenti governativi, ma si impone di lottare con le armi dell’azione diretta ed arrivare alla fusione di tutte le vertenze nello sciopero generale nazionale. Ma è proprio la mobilitazione delle masse che gli opportunisti temono, infatti preferiscono muoversi sul terreno parlamentare e legalitario.

    Che i riformisti confederali vogliono servirsi dell’Alleanza del Lavoro allo scopo di agevolare e valorizzare le manovre compiute dal gruppo socialista nei corridoi di Montecitorio, sabotando l’unità d’azione delle masse operaie, lo dimostra chiaramente il comportamento tenuto in occasione dell’agitazione dei lavoratori del mare. Da questi fu chiesto, al Consiglio Direttivo della C.G.L., la solidarietà di tutto il proletariato organizzato nella Confederazione. La risposta fu che non si può parlare di intervento confederale ogni volta che è in lotta una categoria, inoltre non si può intendere la solidarietà della C.G.L. ai lavoratori del mare o ad altra categoria come impegno ad effettuare uno sciopero generale. Mentre Buozzi, Baldesi e D’Aragona rifiutano di estendere l’agitazione dei lavoratori del mare ad un movimento più ampio del proletariato italiano e di costituire un fronte unito fra le stesse categorie inquadrate nella C.G.L., ecco che contemporaneamente partecipano alla riunione ed ai convegni per la costituzione dell’Alleanza del Lavoro, la quale avrebbe dovuto essere un organismo di lotta e di azione comune delle masse lavoratrici.

    Con il passare del tempo i limiti dell’Alleanza del Lavoro appaiono sempre più chiari; balza evidente infatti la volontà dei riformisti, che sono la maggioranza degli organi direttivi, di risolvere in maniera puramente burocratica e formale il problema dell’unità sindacale. Con la costituzione dell’Alleanza del Lavoro i mandarini confederali vogliono togliersi di dosso le responsabilità nei confronti delle masse lavoratrici di non avere opposto all’offensiva padronale e fascista un fronte unito di lotta. Così che un giorno possano dire: «Abbiamo fatto l’unità sindacale, l’Alleanza del Lavoro, ma non è servito a nulla».

    Una conferma delle riserve sollevate da parte comunista sull’Alleanza del Lavoro e del pericolo che tale organismo sia fatto degenerare in una speculazione dell’opportunismo per le proprie manovre parlamentari le offre Il Mondo, giornale sostenitore di Nitti, che proprio i riformisti vorrebbero a capo del nuovo governo. Il Mondo si compiace e considera assai importante il fatto che gli assertori del riformismo, come D’Aragona e Baldesi, affianchino gli anarco-sindacalisti nell’Alleanza del Lavoro. Secondo il giornale nittiano i dirigenti della C.G.L., con l’elasticità della loro tattica, che accanto all’azione parlamentare non esclude il ricorso alla piazza (ma solo a parole), si propongono di valorizzare l’influenza del movimento operaio nella politica nazionale fino ad avere una parte rilevante nella formazione del nuovo governo ed al tempo stesso con la non esclusione dello sciopero generale riescono a mantenersi il seguito delle masse abituate alle enunciazioni nette.

    Le gravi insidie per il proletariato presenti nella tattica confederale sono ripetutamente messe in risalto dal Partito Comunista e dal suo Comitato Sindacale. Inoltre ripetuti appelli sono rivolti a tutti i lavoratori affinché sostengano i capisaldi indicati dai comunisti come base per il fronte unico sindacale, in modo che l’Alleanza del Lavoro non costituisca un coefficiente delle manovre dei social-riformisti tendenti a rimettere nelle mani della collaborazione ogni criterio di lotta di classe.

    Ciò significherebbe immettere il proletariato nella via del disarmo, abbagliandolo con l’illusione che un Ministero borghese, su posizioni ritenute più avanzate, possa affrontare e risolvere i problemi vitali della classe lavoratrice. I risultati sarebbero tragici per il proletariato in quanto consoli, Bonomi o De Nicola, Giolitti o Nitti, la macchina dello Stato borghese non ha che piombo, manette e tribunali per i lavoratori insorti in difesa dei loro diritti, mentre lo stesso trattamento non è riservato ai fascisti. L’armamento repressivo dello Stato borghese resterà e verrà applicato con il consenso degli stenterelli sindacali e dei manutengoli socialdemocratici contro quei proletari che si schiereranno sul fronte di lotta ad essi interdetto dagli stessi loro rappresentanti, divenuti le colonne di sostegno della borghesia.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 43, marzo 1978]
     

    ILLUSIONI BLOCCARDE
     

    Nella riunione del Comitato Esecutivo allargato della Terza Internazionale tenuta a Mosca nel febbraio-marzo 1922 fu deciso di accogliere l’invito rivolto dalla Internazionale di Vienna e di aderire alla Conferenza delle tre Internazionali con l’obiettivo di gettare le basi del Fronte Unico Proletario e stabilire delle direttive comuni di lotta contro l’offensiva del capitalismo internazionale. I rappresentanti del Partito Comunista d’Italia, seguiti dai delegati francesi e spagnoli, dichiararono la loro opposizione a tale iniziativa, in quanto i maggiori esponenti delle Internazionali di Londra e di Vienna avevano dato e continuavano a fornire evidenti prove di svolgere una politica contraria alla difesa degli interessi vitali del proletariato e di essere i veri sabotatori del fronte unico delle masse lavoratrici. Nonostante la posizione critica sul valore della Conferenza, i delegati italiani confermarono la loro piena disciplina alle risoluzioni rese dall’Esecutivo dell’Internazionale Comunista.

    La Conferenza delle tre Internazionali si aprì a Berlino nei primi giorni del mese di aprile, proprio mentre a Genova le maggiori potenze capitalistiche, sotto il pretesto della ricostruzione economica dell’Europa, cercavano la maschera migliore per camuffare i loro delitti passati e per concertare un nuovo saccheggio ai danni della classe proletaria e della Russia dei Soviet. Dalla Conferenza di Berlino sarebbe dovuta uscire una risposta unitaria del proletariato internazionale ai disegni dei paesi capitalistici, i cui rappresentanti a Genova stavano preparando una nuova pace da briganti, sulle orme del vergognoso trattato di Versailles.

    Di fronte alla proposta di convocare nel mese di aprile un congresso operaio mondiale come contraltare alla Conferenza di Genova, i delegati della Seconda Internazionale oppongono un netto rifiuto, adducendo false motivazioni di ordine pratico. Minacciano di abbandonare la conferenza allorché i rappresentanti della Terza Internazionale insistono affinché venga inclusa nella dichiarazione ufficiale la richiesta di annullamento del famigerato trattato di Versailles. L’obiettivo della Seconda Internazionale, formata da partiti riformisti direttamente legati ai rispettivi governi borghesi, è quello di non disturbare i lavori dei rappresentanti delle potenze capitalistiche riunite a Genova, infatti un congresso operaio internazionale contemporaneo alla conferenza di Genova costituirebbe un intervento proletario negli affari della diplomazia capitalistica.

    Nella mozione ufficiale votata a Berlino dai delegati delle tre Internazionali, come risposta immediata della classe lavoratrice contro l’offensiva borghese, vengono proposte delle manifestazioni unitarie da effettuarsi il 20 aprile, mentre è in pieno svolgimento la conferenza di Genova, o il Primo maggio, qualora non fosse possibile per ragioni tecniche o di organizzazione indirle per il 20 aprile. Tali manifestazioni dovranno avere alla base i seguenti punti: giornata lavorativa di otto ore, lotta alla disoccupazione, azione comune del proletariato contro l’offensiva capitalista, aiuto e difesa della Russia dei Soviet, formazione in ogni paese del Fronte Unico Proletario.

    Per quanto riguarda la convocazione del Congresso Operaio Mondiale viene stabilito che un comitato di nove membri si assuma il compito di organizzarlo al più presto possibile. Per arrivare alla definizione di un programma di azione comune e per fare avanzare la realizzazione del Fronte Unico Proletario internazionale, i delegati russi della Terza Internazionale, Radek e Bucharin, sono costretti ad accettare che nella mozione ufficiale conclusiva votata a Berlino venisse concesso ai socialrivoluzionari incriminati in Russia di avere i difensori che vogliono, inoltre sia esclusa la pena di morte e data la possibilità ai rappresentanti dell’Internazionale di Londra e di Vienna di assistere al dibattimento processuale. I delegati russi devono accettare anche che sia riaperta la questione dell’abbattimento del governo georgiano. Lenin stesso ritiene eccessive queste concessioni fatte alla borghesia internazionale, tanto più che non c’è stata una adeguata contropartita, e mette in guardia dal ripetere simili errori.

    Lo svolgimento degli avvenimenti successivi alla Conferenza di Berlino mostra chiaramente come le perplessità avanzate dai delegati del Partito Comunista d’Italia a Mosca sulla adesione della Terza Internazionale alla Conferenza di Berlino derivino da valutazioni oggettive. In Olanda, in Germania ed in altri paesi i socialdemocratici della Seconda Internazionale non solo non fanno nulla per organizzare le manifestazioni stabilite, ma anzi con ogni mezzo cercano di sabotarle. Il fine è sempre lo stesso, cioè l’Internazionale di Londra vuole che la classe operaia resti ferma e muta, mentre a Genova le potenze borghesi cercano di realizzare i loro piani. Poiché gli interessi degli Stati capitalistici cozzano in tale modo fra di loro che neppure la volontà di furto e di sfruttamento comune del mondo riesce a mettere d’accordo i duci della borghesia internazionale, per cui la Conferenza di Genova si protrae oltre il previsto, i rappresentanti della Seconda Internazionale, sempre per non disturbare i disegni dei rispettivi governi borghesi sostenuti dai loro partiti, cercano di sabotare con ogni mezzo le riunioni della commissione dei nove, in modo che si allontani ancora di più nel tempo la possibilità di convocare il Congresso Operaio Mondiale.

    I socialtraditori di Londra arrivano a presentare il Fronte Unico Proletario come una mascheratura machiavellica della politica estera russa avente per fine, attraverso la convocazione di un congresso operaio internazionale, di aggiogare il proletariato mondiale al carro della Russia dei Soviet. Di fronte a tale accusa i rappresentanti del Partito Comunista Russo si dichiarano disposti a cancellare dal testo della dichiarazione ufficiale ogni riferimento riguardante l’aiuto e la difesa della Russia da parte di tutta la classe lavoratrice.

    L’azione sabotatrice della socialdemocrazia non conosce limiti, infatti nella prima riunione dei comitato dei nove, tenutasi varie settimane dopo la conferenza di Berlino a causa dell’ostruzionismo dei rappresentanti della Seconda Internazionale, come premessa indispensabile per arrivare alla convocazione del Congresso Operaio Mondiale viene presentata dai delegati dell’Internazionale di Londra la rinuncia da parte dei comunisti ad ogni critica nei confronti dei capi socialdemocratici e dei dirigenti sindacali riformisti. Oltre a ciò il governo dei Soviet dovrebbe rinunciare a reprimere le insurrezioni dei menscevichi in Georgia. Il rispetto della prima clausola significherebbe per i comunisti la loro completa sottomissione al predominio dei capi socialriformisti, nonché la rinuncia totale a quegli ideali per i quali migliaia e migliaia di lavoratori sono caduti in Russia, in Germania e milioni di proletari lottano in tutto il mondo.

    Dare poi libertà ai menscevichi di organizzare rivolte in Georgia equivarrebbe alla abdicazione del governo sovietico a favore dell’imperialismo francese, che si presenta difensore dei menscevichi. L’interesse per la situazione determinatasi in Georgia in seguito all’instaurazione del potere proletario deriva dal fatto che la Seconda Internazionale è paladina delle mire dei paesi capitalistici, i quali vedevano nella possibilità di formare uno "Stato bianco" aperta la via allo sfruttamento dei pozzi di petrolio di Bakù.

    L’Internazionale di Londra nella sua azione di sabotaggio del Fronte Unico Proletario riceve l’appoggio dell’Internazionale Due e mezzo, i cui rappresentanti con una infame campagna di menzogne accusano i comunisti di non volere più il Congresso Operaio Mondiale, in quanto esso costituirebbe un ostacolo al compromesso che il governo sovietico sarebbe in via di firmare a Genova con le potenze dell’Intesa. Con tali accuse i dirigenti dell’Internazionale Due e mezzo si pongono sullo stesso piano dei riformisti dichiarati e non è un caso che sia stato firmato a Bruxelles un accordo tra il P.S. francese, appartenente all’Internazionale di Vienna, il Labour Party inglese e il Partito Operaio Belga, questi ultimi due aderenti alla Seconda Internazionale, allo scopo di convocare all’Aia un congresso mondiale dei partiti riformisti e semi-riformisti.

    Di fronte alle posizioni prese dalle Internazionali di Vienna e di Londra non resta ai rappresentanti dell’Internazionale Comunista che abbandonare la commissione dei nove la quale da strumento per la realizzazione del Fronte Unico Proletario sta divenendo palestra per le mire dei riformisti dichiarati e camuffati. L’Esecutivo dell’Internazionale Comunista in un appello rivolto a tutti i lavoratori, dopo avere constatato che era fallito per la resistenza dei capi socialdemocratici il tentativo di organizzare dall’alto in basso il Fronte Unico Proletario, invita la classe lavoratrice a prendere nelle sue stesse mani la causa del Congresso Operaio Mondiale costringendo le rispettive organizzazioni a pronunciarsi per l’immediata convocazione di tale congresso.
     
     

    IL PERICOLO CENTRISTA
     

    Alla Conferenza di Berlino partecipano anche i rappresentanti del P.S.I., nonostante che questo non aderisca ad alcuna delle tre Internazionali. In tale occasione i socialisti italiani non esitano ad indossare la veste di rivoluzionari, fedeli al costume proprio dell’opportunismo che ama presentarsi all’estero come rivoluzionario, mentre nel proprio paese agisce da socialtraditore. L’anfibio Serrati a Berlino si atteggia a uomo di estrema sinistra e nel suo rumoroso discorso lancia parole di fuoco contro i delegati della Seconda Internazionale. Il caposcuola dell’opportunismo intransigente da vergognoso demagogo sostiene che è da tempo nei suoi obiettivi costituire il Fronte Unico Proletario mondiale, anzi se ne ascrive la paternità ed aggiunge che il suo partito si assumerebbe l’incarico di convocare al più presto in Italia il congresso operaio internazionale per stabilire un piano di azione comune per tutti i paesi. Nella dichiarazione presentata alla Conferenza di Berlino da Serrati e compagni sono contenute affermazioni ed obiettivi di lotta che mirano a far apparire il P.S.I. come fulcro della rivoluzione.

    Ritornati da Berlino i delegati socialisti italiani sottolineano che troppo poco si era riusciti ad imporre ai rinnegati della Seconda Internazionale, appena delle manifestazioni per il 20 aprile, nonché delle rivendicazioni ben modeste, insomma robe degna dei Thomas e dei Vandervelde. Serrati non esita ad accusare di opportunismo Radek e Bucharin per le concessioni fatte e la stessa colpa riserva a Cicerin, capo della delegazione russa alla Conferenza di Genova, per il fatto di aver stretto la mano al re d’Italia.

    L’ultrasinistrismo parolaio di Serrati e compagni alla prova dei fatti è però latitante, cioè confermava una verità oramai consolidata, ossia il doppio gioco del P.S.I., che da una parte recitava la commedia del rivoluzionarismo e dall’altra nella pratica faceva una politica che non aveva nulla da invidiare a quella dei partiti più controrivoluzionari. La premessa di Serrati per realizzare il Fronte Unico Proletario non è diversa da quella avanzata dai dirigenti dell’Internazionale di Londra, infatti il direttore dell’Avanti! scrive che per essere uniti bisogna che i comunisti rinuncino a dire male dei bonzi e dei mandarini, mutino il loro linguaggio violento ed attenuino i propri metodi di lotta contro i socialisti. Quale unità proletaria vada cercando il P.S.I. balza evidente dalla fusione dei socialisti autonomi genovesi con il P.S.I., che accolse nelle sue file socialpatrioti, collaborazionisti, massoni interventisti i quali nel 1915 avevano abbandonato l’ideale socialista per sostenere e difendere la guerra imperialista, esaltatori del generale Cadorna, fucilatori degli operai torinesi in rivolta contro la guerra. Il P.S.I. accetta gli autonomi genovesi con tutto il loro passato, di cui nulla hanno rinnegato e si fonde con chi ha tradito la classe operaia per gli interessi del capitalismo.

    In base alle deliberazioni della Conferenza di Berlino, sottoscritte anche dai delegati del P.S.I. benché ritenute ben poca cosa, il Partito Comunista d’Italia ed il suo Comitato Sindacale rivolgono ripetuti inviti all’Alleanza del Lavoro, in cui predominano i socialisti, affinché prepari ed organizzi le manifestazioni del 20 aprile con gli obiettivi di lotta e le rivendicazioni stabilite a Berlino riguardanti gli interessi immediati e vitali dell’intera classe lavoratrice.

    L’invito rivolto da parte comunista all’Alleanza del Lavoro deriva dal fatto che questa rappresenta organismo idoneo per l’esecuzione immediata dei deliberati di Berlino in quanto, anche se in forma embrionale ed imperfetta, realizza l’unità del movimento sindacale e costituisce un primo passo sulla via dell’affermazione del Fronte Unico Proletario. Il Comitato Direttivo dell’Alleanza del Lavoro non risponde neppure a tale invito, così pure i dirigenti del P.S.I. si mostrano latitanti nonostante gli impegni presi a Berlino. Il comportamento degli opportunisti italiani non è diverso, alla prova dei fatti, da quello dei socialdemocratici tedeschi, che già all’indomani dell’impegno assunto nella Conferenza di Berlino rifiutano di prendere parte all’organizzazione delle manifestazioni. Eppure Serrati non aveva esitato a dare il titolo di rinnegati ai rappresentanti della Seconda Internazionale.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 44, aprile 1978]
     

    RISPOSTA IMBELLE DEL RIFORMISMO AGLI ASSALTI FASCISTI
     

    In relazione alla ricorrenza del 1° Maggio l’Internazionale Sindacale Rossa lancia un appello ai lavoratori di tutti i paesi affinché tale circostanza rappresenti la risposta proletaria all’offensiva capitalistica e costituisca il segnale del risveglio della classe lavoratrice internazionale, decisa a contrattaccare di fronte alla reazione borghese. Come strumento immediato di lotta viene indicata l’astensione dal lavoro per l’intera giornata. La ricorrenza del 1° Maggio fa registrare in tutta Italia una partecipazione numerosa dei lavoratori ai comizi, sui quali si riversa la violenza della forza pubblica e dei fascisti. A Torino le autorità proibiscono di tenere manifestazioni all’aperto, per cui come luogo di riunione viene scelto il palazzo dell’Associazione Generale degli Operai. Carabinieri guardie regie, plotoni di cavalleria e squadre di fascisti sbarrano le vie di accesso, nonostante ciò i lavoratori accorrono numerosi.

    Il bilancio del 1° Maggio è pesante per la classe proletaria: operai uccisi, centinaia di feriti, arresti in massa, incendi e devastazioni di sedi di organizzazioni proletarie, agguati, imboscate contro i lavoratori. Eppure in un comunicato del governo viene detto che la giornata è trascorsa tranquilla in tutto il regno.

    Il Comitato Sindacale Comunista in seguito ai fatti accaduti il 1° Maggio provocati dalla reazione del governo e della guardia bianca invita l’Alleanza del Lavoro a proclamare uno sciopero generale nazionale quale adeguata risposta alle violenze subite dalle masse proletarie e come unico mezzo per imporre alla classe dominante il riconoscimento ed il rispetto dei diritti conquistati dai lavoratori. Di fronte alla proposta comunista ed alla pressione di ampi strati della classe operaia favorevoli allo sciopero generale nazionale il Comitato Centrale dell’Alleanza del Lavoro emette un comunicato in cui è detto che le "comprensibili impazienze" dei lavoratori non debbono minimamente influire sulla ponderatezza dei dirigenti i quali si stanno accingendo con mezzi appropriati ad affrontare "l’inderogabile problema della libertà" e daranno prova di saper assolvere il proprio mandato. Come risposta immediata della classe lavoratrice "ai profanatori dei diritti comuni agli uomini civili" i dirigenti dell’Alleanza del Lavoro non propongono altro se non che "sul capo dei violentatori e degli oltraggiatori della manifestazione sacra del lavoro cada l’indignazione e il disprezzo del proletariato". Il comunicato dell’Alleanza del Lavoro, con le sue frasi piatte e banali, mostra chiaramente il ruolo passivo di tale organismo che irretisce l’azione della classe operaia disposta a procedere sulla via della controffensiva di fronte alle provocazioni subite.

    Con la fine della Conferenza di Genova si registra in tutta Italia una violenta ripresa dell’offensiva armata fascista, infatti la parola d’ordine della canaglia tricolore durante la Conferenza di Genova era stata di "rimanere fermi con le armi al piede", allo scopo di dare l’impressione ai delegati stranieri che la reazione fascista sia una invenzione dei comunisti.

    La violenza delle guardie bianche si accompagna all’offensiva padronale sul piano economico. Infatti la borghesia, per superare la crisi che travaglia il sistema capitalista e per sopravvivere come classe dominante, non ha altra via che schiacciare il proletariato distruggendo i suoi organi di difesa e gettandolo nella miseria, in modo che ridotto nell’impotenza e nella disperazione esso stesso metta le mani nelle catene che lo devono legare e si lasci aggiogare definitivamente al carro del padrone. La violenza fascista e l’offensiva padronale hanno dunque lo stesso obbiettivo ed il loro ripresentarsi in forma ancora più dura attesta l’esistenza di un preciso piano concertato. Non è casuale infatti che nelle campagne le squadracce fasciste, instaurando un clima di terrore, costringano i contadini a subire le pesanti imposizioni degli agrari.

    In occasione della ricorrenza del 24 maggio bande fasciste ben armate ed inquadrate invadono Roma ed aggirandosi liberamente nel quartieri più popolari della città provocano il proletariato romano. La reazione della classe lavoratrice della capitale è immediata e viene proclamato uno sciopero generale di una giornata. Ben più feroce è l’offensiva fascista nell’Emilia e soprattutto a Bologna, Questa zona costituisce una roccaforte proletaria e per piegare la volontà di lotta dei braccianti bolognesi gli agrari li riducono alla fame, importando manodopera dalle province di Modena e di Ferrara in balia delle guardie bianche. Gli agrari però non riescono a fiaccare il forte proletariato bolognese, per cui si arriva ad organizzare un vero e proprio assalto armato alla città ed alle campagne con l’obiettivo di stroncare definitivamente ogni volontà di resistenza e di riscossa. Case del popolo, camere del lavoro, cooperative, circoli operai sono distrutti, lavoratori picchiati a sangue ed uccisi, la città ridotta alla mercé dei fascisti.

    Tutto questo avviene mentre l’Alleanza del Lavoro non dà una parola d’ordine, una direttiva di lotta ma si limita a deprecare la violenza fascista ed invita le masse a rimanere disciplinate e a dare esempio di "civismo". Da parte comunista è sottolineato come i tragici fatti di Bologna non abbiano solo il valore di episodi locali, ma costituiscano la prima tappa di un disegno offensivo generale, mirante ad estendere successivamente in altre province e regioni il regime dei terrore. Mussolini stesso infatti, annunciando il ritiro delle sue bande vittoriose dal campo di battaglia, aggiunge minaccioso che la lotta sarebbe ripresa a tempo opportuno. Con il successo di Bologna, il fascismo, che già dominava le province di Ferrara, Modena e Rovigo, fa progredire la sua manovra di accerchiamento delle zone settentrionali, in cui il proletariato dimostrava una maggiore volontà combattiva. Solo con una mobilitazione generale della classe lavoratrice si ostacolerebbe la realizzazione dei piani offensivi fascisti di portata nazionale e si eviterebbe che i sanguinosi fatti di Bologna si verifichino di nuovo in altre città o province.
     
     

    L’ALLENZA DEL LAVORO RIFIUTA LA MOBILITAZIONE OPERAIA
     

    Parallelamente ed in stretta connessione con la dura reazione fascista si svolge l’offensiva padronale contro le conquiste conseguite dal lavoratori sul piano salariale e normativo. Gli industriali lombardi del settore metallurgico disdicono i contratti di lavoro che erano stati prorogati e prospettano una riduzione del salari, adducendo come motivazione lo stato di crisi in cui versa l’economia nazionale. Come alternativa minacciano serrate ed aumento della disoccupazione. Di fronte alla resistenza compatta dei lavoratori metallurgici lombardi gli industriali avanzano la proposta di rinunciare alla stipulazione di un contratto collettivo per dare la possibilità ai vari imprenditori di sistemare la vertenza a seconda delle situazioni ed arrivare ad intese particolari. La manovra degli industriali lombardi mirante a spezzare il fronte di resistenza degli operai metallurgici non ottiene i risultati sperati, in quanto è evidente che gli accordi parziali restano lettera morta se non si ha la forza adeguata per difenderli. Anche gli imprenditori della Venezia-Giulia disdicono i contratti dei lavoratori metallurgici, procedono a licenziamenti su vasta scala, per poi magari assumere manodopera nuova a salari inferiori. A Torino la direzione della FIAT annuncia una riduzione dell’indennità caro-viveri suscitando la reazione immediata delle maestranze, che in segno di protesta nei reparti incrociano le braccia e rifiutano di proseguire il lavoro.

    Da parte comunista viene sottolineato come l’attacco padronale nei confronti del proletariato metallurgico dei maggiori centri industriali costituisca la prima tappa di una nuova ondata dell’offensiva capitalista contro le condizioni dei lavoratori. Una volta infatti avuta ragione della categoria più combattiva, che era stata in parecchie occasioni all’avanguardia della classe proletaria, sarebbe stato più facile per il padronato costringere le altre categorie di lavoratori a subire le proprie imposizioni facendo a pezzi concordati e patti colonici. Non è quindi un caso che il proletariato metallurgico, il quale era stato il primo a conquistare le otto ore giornaliere e migliori condizioni di vita nei luogo di lavoro, sia anche il primo a subire il massiccio attacco della nuova offensiva padronale. La vertenza degli operai metallurgici quindi non coinvolge solo gli interessi di questa categoria, ma riveste un’importanza ben più ampia, in quanto ad essa si legano le sorti di tutte le altre categorie di lavoratori sulle quali un domani si riverserà l’offensiva degli imprenditori. Evidenti ragioni tattiche consigliano gli industriali a non premere simultaneamente sull’intera classe lavoratrice, ma ad affrontare il nemico categoria per categoria, località per località.

    In relazione al piano strategico del padronato e per il fatto che le vertenze degli operai metallurgici lombardi, piemontesi e della Venezia Giulia, sono identiche, da parte comunista viene proposto al Comitato Centrale della FIOM di promuovere un’azione energica della categoria culminante in uno sciopero nazionale per l’applicazione del contratto stipulato nell’Ottobre 1920. E insostenibile infatti perdurare nella tattica del "caso per caso", che si è rivelata chiaramente fallimentare e di cui gli operai metallurgici della Liguria, della Lombardia, della Venezia Giulia hanno già in passato sperimentato le nefaste conseguenze. Per il carattere generale che ha la vertenza dei metallurgici riguardante la sorte dell’intero proletariato italiano e per il fatto che anche altre categorie operaie (edili, chimici, lavoratori della terra, lavoratori del legno, ceramisti) sono in agitazione o si accingono ad entrarvi, da parte comunista si ribadisce la necessità di una azione insieme di tutta la classe lavoratrice e viene indicato nell’Alleanza del Lavoro l’organismo più idoneo a guidare la controffensiva proletaria nella battaglia contro la reazione capitalista, che mira a gettare i lavoratori in condizioni tali da non potersi risollevare per lungo tempo.

    Di fronte alle proposte comuniste i mandarini sindacali della FIOM negano non solo la validità dell’affasciamento delle lotte delle varie categorie operale, ma anche sono contrari a collegare fra di loro perfino le vertenze dei metallurgici delle diverse regioni italiane. Buozzi e compagni ripropongono la inconcludente tattica del "caso per caso", luogo per luogo, fabbrica per fabbrica, ed accusano i comunisti di essere riesumatori di tesi sindacaliste. La richiesta dell’intervento dell’Alleanza del Lavoro a sostegno degli operai metallurgici viene presentata dal segretario della FIOM come inopportuna in quanto tale organismo non sarebbe preparato ad assumersi la responsabilità della vertenza metallurgica.

    Intanto fra gli operai metallurgici della Lombardia si tiene un referendum sull’azione di lotta da portare avanti e grazie alla propaganda comunista la stragrande maggioranza delle maestranze vota contro ogni riduzione dei salari ed a favore dello sciopero proclamato il primo giugno. Alla FIAT le trattative sulla questione del caro viveri si svolgono piuttosto a rilento. La tattica della direzione è di guadagnare tempo ed attendere un chiarimento nella situazione determinatasi in Lombardia. Rompere le trattative infatti avrebbe voluto dire favorire l’allargamento della lotta dei metallurgici, dall’altra parte cedere significava indebolire la posizione degli industriali metallurgici lombardi.

    Mentre il proletariato metallurgico è in lotta in varie regioni d’Italia e chiede l’intervento al suo fianco dell’Alleanza del Lavoro, ma non in forma platonica o di vaga solidarietà, il Comitato Centrale dell’Alleanza del Lavoro emette un comunicato in cui avverte «quanti vorrebbero affidata a tale organismo la direzione effettiva del movimento salariale che esso non può e non deve sostituirsi alle organizzazioni competenti e responsabili nei movimenti interessanti particolari categorie di lavoratori». Viene aggiunto inoltre che l’Alleanza del Lavoro «vigila ogni movimento ed è pronta eventualmente ad intervenire se l’ulteriore svolgimento dovesse assumere un aspetto di ordine generale». E evidente come la tattica del caso per caso perseguita dai mandarini sindacali impedisce che le agitazioni locali assumano quell’aspetto generale che solo interesserebbe i dirigenti dell’Alleanza del Lavoro.

    Nel consiglio nazionale della FIOM svoltosi a Genova nella seconda metà di giugno, da parte comunista è ribadita la necessità urgente di un’azione generale del proletariato italiano a sostegno dei lavoratori metallurgici, in quanto questi combattono per una causa comune a tutta la classe operaia. È vero che la lotta di una categoria alla scala nazionale rappresenta un notevole passo avanti rispetto alle agitazioni condotte luogo per luogo o fabbrica per fabbrica, ma può andare incontro ad insuccessi se manca il sostegno di tutta la classe lavoratrice. L’esempio offerto dagli operai metallurgici cecoslovacchi ed inglesi è significativo ed insegna a non ripetere lo stesso errore. Da ciò la necessità di estendere la lotta a tutte le categorie e di arrivare ad un’azione unitaria dell’intero proletariato culminante nello sciopero generale nazionale. I mandarini sindacali della FIOM accusano i comunisti di disfattismo e di essere irresponsabili provocatori di scioperi.

    Nonostante l’opposizione dei massimi dirigenti i delegati presenti al consiglio nazionale della FIOM in grande maggioranza si pronunciano per lo sciopero generale metallurgico, per cui Buozzi e compagni devono acconsentire alla decisione presa nonostante la loro contrarietà. Lo sciopero viene proclamato il 26 giugno e registra vaste adesioni in tutti i maggiori centri metallurgici d’Italia.

    Se gli operai metallurgici con la loro decisa volontà di lotta riescono a contrastare l’azione traditrice dei dirigenti social-riformisti, altre categorie ne pagano invece le pesanti conseguenze. Nelle campagne del milanese, del mantovano, del cremasco, i contadini, benché pronti a combattere l’offensiva degli agrari, sono costretti dai capi della Federazione dei Lavoratori della Terra ad accettare le dure imposizioni dei padronato e restano beffati con l’istituzione di Comitati Provinciali per la conciliazione delle vertenze.

    La classe lavoratrice si trova dunque fra due fuochi, da una parte l’offensiva fascista-padronale, dall’altra l’azione caina dei social-traditori, aventi entrambe lo stesso scopo, cioè lo smantellamento del proletariato e la distruzione di ogni sua possibilità di riscossa. I social-pacifisti ritengono ormai giunto il momento opportuno per costruire sulle rovine delle Case del Popolo la loro fortuna ministeriale, cementandola con il sangue dei proletari uccisi dai fascisti. Il loro campo di azione preferito è la cloaca massima di Montecitorio dove attraverso la collaborazione pensano di dare vita ad un governo capace di sconfiggere il fascismo e di ripristinare le pubbliche libertà, nonché l’imperio della legge. Ma il fascismo si vince ponendosi sullo stesso suo piano, accettando la sfida, schierando agguerrite nel campo di battaglia le falangi dell’esercito proletario. Infatti è mera illusione credere che le forze della reazione si possano dominare da Roma e da chi ha in mano le redini del governo centrale. Quanto al ripristino della libertà ciò sarà possibile per i lavoratori solo quando avranno sconfitto il loro nemico di classe ed instaurata la propria dittatura.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 50, ottobre 1978]
     

    AZIONE DIRETTA CONTRO METODI LEGALITARI
     

    Gli organismi proletari debbono dare proprie indicazioni di azione, non paralizzarsi per gli inganni della collaborazione borghese. Alla vigilia dello sciopero generale l’appello dei comunisti è diretto agli operai e ai contadini di tutta Italia perché non si lascino ingannare sulla possibilità di una difesa legalitaria, il problema della difesa essendo un problema di lotta e di combattimento.

         «In questo grave momento il partito grida ancora una volta la sua parola, che è disfattismo non diffondere con chiara assunzione di responsabilità: Sciopero generale di tutte le categorie contro l’offensiva borghese, contro il fascismo per riguadagnare una situazione in cui la classe operaia abbia una piattaforma di potenza da cui lanciare le forze migliori alle sempre più ardue battaglie».
    L’appello continua:
         «Chi indugia nell’attesa degli intrighi di corte e delle manovre di crisi, chi ha dissimulata la necessità della lotta diretta, chi ha illuso nella possibilità di un ritorno a rapporti civili delle lotte sociali e ha negato la necessità dell’armamento dei lavoratori per la propria difesa, quegli ha dato armi all’avversario. Chi vorrebbe incanalare lo sforzo, formato sulle basi di granito della lotta di classe, nelle vie traverse dei patteggiamenti della collaborazione?
         «Lavoratori! È l’ora di una difesa disperata. È l’ora delle responsabilità. È l’ora in cui tutte le forze del lavoro devono saldamente stringersi per la difesa. Fra l’esercito del lavoro salariato in campo e le forze della classe dominante deve scavarsi un abisso. Dall’una parte e dall’altra!
         «Evviva la riscossa degli operai e contadini contro la reazione con la forza degli operai e dei contadini!
         «Evviva lo sciopero generale nazionale! Abbasso i traditori!».
    Il primo agosto si riunisce il Comitato Centrale dell’Alleanza del Lavoro il quale dichiara che davanti all’ormai chiara intenzione delle forze reazionarie di tentare un assalto agli organi dello Stato, «non ritenendo di avere sufficienti poteri per ordinare a dirigere l’azione difensiva del proletariato», ha convocato d’urgenza le organizzazioni da esso rappresentate per le opportune sollecite decisioni.

    Seduta stante i rappresentanti delle organizzazioni nazionali hanno proceduto alla nomina di un Comitato Segreto d’Azione con pieni poteri. Il Comitato Segreto, appena nominato, si è radunato separatamente per deliberare sul da farsi e proclama lo sciopero generale. Nel proclama dello sciopero il Comitato si propone come scopo la difesa delle libertà politiche e sindacali, e di spezzare l’assalto rivoluzionario difendendo in questo modo le conquiste della democrazia e salvando la nazione dal baratro, in cui sta per essere trascinata.

    Il proclama: «Dallo sciopero generale deve uscire un solenne ammonimento al Governo del Paese perché venga posto fine e per sempre ad ogni azione violatrice delle civili libertà, che debbono trovar presidio e garanzie nell’imperio della legge». Poi fa appello perché non vengano compiuti atti di violenza e perché tutto venga eseguito secondo gli ordini delle Organizzazioni.

    Da parte sua il Partito Comunista chiama i lavoratori alla massima disciplina agli organi dell’Alleanza del Lavoro e a non discutere ora, nel momento dell’azione, l’impostazione data allo sciopero dai dirigenti della lotta. La lotta deve portare il proletariato su posizioni di forza e quindi non si deve rinunciare ad alcun colpo al nemico, ogni patteggiamento con esso deve essere considerato una rottura del Fronte Unico Proletario.

    I fascisti rispondono all’azione proletaria lanciando un manifesto che dichiara: «Diamo 48 ore di tempo allo Stato perché dia prova della sua autorità in confronto di tutti i suoi dipendenti e di coloro che attentano all’esistenza della nazione. Trascorso questo termine il fascismo rivendicherà piena libertà di azione, si sostituirà allo Stato che avrà ancora una volta dimostrato la sua impotenza». Anche il governo lancia un appello al paese risbandierando i soliti motivi di pace tra le classi, dell’amor patrio verso i figli che si dilaniavano in una lotta fratricida e che si conclude con tono meno lacrimoso con la minaccia a far rispettare con tutti i mezzi la legge e la proprietà.

    Ogni categoria sindacale lancia appelli ai propri iscritti perché lo sciopero riesca compatto, perché si intervenga alle manifestazioni pubbliche, perché nessuno tradisca.

    Lo sciopero si realizza con l’astensione generale dei lavoratori, adesione che viene falsamente sminuita dalla stampa borghese. Il Comitato Esecutivo del Partito chiede alle organizzazioni periferiche di mandare notizie dello svolgimento dei fatti, e constata che tutte le forze del partito hanno assolto il proprio compito con mirabile compattezza.

    Mentre l’azione proletaria cresce in potenza e in disciplina chiama i compagni a osservare la disposizione di cessazione dello sciopero diramata dall’Alleanza del Lavoro, annunziando un documento dove precisa la sua posizione dinanzi al modo insufficiente e deplorevole dell’impostazione e della preparazione dello sciopero che preludeva a una sua strumentalizzazione. In effetti si era davanti ad un vero tradimento e il colpo alla schiena era più temibile per quest’ultimatum fascista suggerito dal governo stesso, consapevole che uno scontro armato con il proletariato non avrebbe assicurato il successo né ai fascisti né ai governativi e che gli opportunisti avrebbero capitolato.

    A Milano e a Genova lo sciopero divenne vera e propria guerriglia. A Milano il prefetto consente ai fascisti di condurre alcune vetture tranviarie che verranno assaltate dagli scioperanti contro i quali poi interverranno guardie regie e polizia. Anche a Genova guerriglia con tram e auto-blindate. I fascisti tentarono di assaltare il porto, ma non riuscirono perché era presidiato da 1.500 operai e forza pubblica.

    In tutta Italia comunque poté scatenarsi la controffensiva opportunista e borghese favorita dall’uso dei mezzi di trasporto per il concentramento delle bande fasciste nei punti dove la resistenza degli operai era più forte e vigorosa.

    A Milano viene incendiato l’Avanti, nei rioni popolari si hanno scontri violenti, vengono devastate cooperative e circoli operai, i tranvieri sono fatti segno a continue violenze e si ritirano conducendo le vetture in rimessa, quelle che circolano sono condotte da fascisti. Su Milano, come su molte città pesa l’incubo di una tragedia. A Genova sono in azione mitragliatrici e auto-blindate, per le strade si combatte di notte e di giorno. Al porto nonostante l’ordine del segretario dell’Organizzazione Portuaria la ripresa del lavoro fu parziale. Anche i tranvieri rimandarono di un giorno la ripresa del lavoro.

    Sotto il pretesto di non fomentare la reazione borghese i capi sindacali sabotano e stroncano le azioni proletarie. Il Consiglio dei Ministri approva provvedimenti necessari per il ritorno all’ordine pubblico, il governo emette un programma in un manifesto: «Il Governo ha il supremo dovere di difendere lo Stato, i suoi istituti, gli interessi generali e i diritti individuali a qualunque costo, con qualunque mezzo inflessibilmente contro chiunque vi attenti. Esso adotta i provvedimenti imposti dall’azione per ristabilire il rispetto della legge, della vita, della proprietà. Comprendano la realtà in un momento così denso di pericoli e minaccioso di rovina le fazioni contendenti e rientrino nella disciplina».

    Solo in campo, il Partito Comunista, che si era uniformato alla cessazione dello sciopero, davanti al fatto che ancora in alcune città lo sciopero continua scrupolosamente, come a Milano, Genova, Ancona, Parma, Gorizia, Bari, Civitavecchia, ordina quella che deve essere in quella situazione e in quel preciso momento storico una tattica permanente per il proletariato: arma contro arma, violenza contro violenza.

    La Centrale del Partito in un appello del 6 agosto garantisce il sostegno nell’azione di guerriglia, procurando di dare alle masse gli elementi di direzione e di tecnica dell’azione di cui si difetta e chiama alla lotta gli altri organismi del proletariato che hanno influenza sulle masse che devono convincersi che ogni visione pacifista e legalitaria è ormai da abbandonare. Il Comitato Centrale del Partito chiede che sia convocato immediatamente un convegno dei delegati di tutte le Alleanze del Lavoro provinciali per esaminare la situazione e predisporre una nuova ondata dell’azione proletaria.

    Intanto viene proclamato lo stato d’assedio a Genova, Milano, Ancona. Nella calma tornante dappertutto di cui parlano i bollettini del tribunale, a Genova viene distrutta la sede del lavoro confederale e saccheggiata la Camera del Lavoro e poi la sede confederale a Bologna. Sarebbe bastato che i capi dell’Alleanza del Lavoro non avessero smobilitato lo sciopero perché a 10 giorni di distanza la situazione fosse diversa. Ora i capi dell’Alleanza tacciono, non spiegano con quali obiettivi hanno lanciato lo sciopero e con quali intendano affrontare la realtà attuale, non dicono dietro quali fatti e quali accordi si muovano le loro manovre.

    È interessante fermarsi su come si è difesa la città di Torino e sugli aspetti dell’attacco fascista alle istituzioni operaie. Gli industriali capaci a riconoscere la forza dei loro avversari furono abili alleati dei fascisti in quanto procedettero sistematicamente alla distruzione del sistema dei nessi organici attraverso i quali, partendo dalle fabbriche e dai Consigli di fabbrica, la grande massa aderiva alla minoranza rivoluzionaria e la seguiva nelle sue direttive di lotta. Esecutori di questo piano furono tutti i membri socialisti delle commissioni interne. Venuta meno questa capacità organizzativa, il partito si preoccupa di ricostruire un sistema nuovo di collegamento basato sui gruppi comunisti e sul contatto continuo di essi con tutti gli elementi che scendevano in campo contro il fascismo. In questo sforzo i comunisti torinesi furono al primo posto e anche dopo lo sciopero continuarono a mantenere desto il fuoco della guerriglia e a preparare la trasformazione di essa in guerra vera.

    Ancora il 10 agosto alla Camera i comunisti affermavano la necessità per il proletariato di armarsi. Repossi viene aggredito da un fascista che tenta di sparargli. Parlando contro i socialisti rivendica la riuscita dei movimento contro tutte le menzogne che ne erano state diffuse; rivendica ai comunisti il ruolo di agitatori tra le masse; afferma che la propaganda dei partito è l’artefice e la responsabile dello sciopero generale e delle sue più ardite manifestazioni. Repossi poi dichiara che ora i comunisti devono separare le loro responsabilità da quelle di chi ha avuto la direzione dei movimento, da chi ne ha deliberata la cessazione prematura, perciò i comunisti ora chiamano le masse a ritrovare le proprie forze, a ricongiungersi nelle organizzazioni operaie per seguitare la lotta. Il Partito Comunista si prefigge ora di inquadrare tutti i lavoratori che conservano in sé lo spirito della lotta di classe e vogliono resistere con le armi in pugno al tentativo di stroncare mortalmente le loro forze.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 51, novembre 1978]
     

    I comunisti rivendicano il valore positivo dello sciopero che non è fallito perché le forze governative e fasciste non hanno indietreggiato di fronte all’azione operaia, ma perché fu proclamato senza un’estesa e profonda preparazione politica e psicologica delle azioni operaie, crescenti in potenza e in estensione e di cui lo sciopero generale avrebbe dovuto costituire il punto culminante. Lo sciopero mancò anche di direttiva perché si insinuava che non si dovesse preparare se non si era automaticamente sicuri di arrivare alla soluzione, nello stesso tempo in cui si faceva intendere essere uno strumento legalitario per tentare la collaborazione governativa. Non si indicavano gli scopi immediati, lo sbocco cui tendere. Solo i comunisti erano stati capaci di dare ai lavoratori la coscienza dello sciopero, sciopero di avanzata su posizioni ulteriori di lotta, per un inquadramento superiore, politico e militare, delle masse per il consolidamento di una loro unità.

    Il partito si domanda dopo quei giorni pregni di significato che cosa aveva mostrato lo sciopero e il suo svolgimento connesso a quello della crisi del paese. Questa riflessione non porta altro che a constatare che la collaborazione e l’azione di massa sono due vie inconciliabili. Quindi il proletariato può fare le sue scelte alla luce di questa esperienza pagata col sangue: o l’azione legalitaria attuabile solo col disarmo e la disgregazione delle sue forze organizzate, e che si realizzerà con l’alleanza fra social-democratici e fascisti, oppure l’azione delle masse. Questa può e deve essere preparata solo condannando ogni illusione democratica e ogni pacifismo, armando e organizzando la guerra di classe.

    Lo sciopero di agosto aveva insegnato che le masse potevano contare soltanto sul Partito Comunista rivoluzionario nelle lotte rivendicative per l’esistenza quotidiana contro il padronato quando le condizioni storiche rendono insolubile il conflitto economico tra operai e aziende sul piano legalitario e pongono all’ordine del giorno lo scontro diretto e frontale delle due classi.

    Aveva inoltre rivelato l’inconsistenza delle cosiddette "sinistre", gli anarchici, i sindacalisti senza programma, senza disciplina mai disposti a seguire la compagine del partito. Aveva denunciato il partito socialista che in quei giorni consumò tutte le sue peggiori carte mascherandosi col suo operato con massimalisti e serratiani.

    Un altro insegnamento fondamentale era che il sindacato è il terreno della mobilitazione rivoluzionaria delle masse, però solo a condizione che il partito vi esplichi la sua infaticabile attività per conquistarne la direzione e non rinunci mai alla sua autonomia e indipendenza tattica e organizzata. Se il partito non si fosse tenuto fermo su queste basi sarebbe naufragato nella tattica frontista delle sinistre e avrebbe compromesso la saldezza dell’organizzazione che gli permetteva ancora di poter esplicare la funzione direttrice delle masse proletarie.

    In un appello ai lavoratori del 15 agosto il partito conferma tutto ciò e inoltre sottolinea:

         «L’Alleanza del Lavoro così come era costituita non rappresentava quella piattaforma d’azione generale del proletariato che l’opera dei comunisti tendeva a formare. Le nostre proposte per poggiarla estesamente sulle masse e sottrarla all’influenza di pochi alti funzionari del movimento sindacale furono sistematicamente respinte da tutti gli altri organismi proletari. Anziché rispondere all’incitamento delle masse alimentato dalla nostra propaganda, l’Alleanza, dopo aver sempre tergiversato innanzi alla parola sciopero nazionale, ha organizzato con ordini segreti uno sciopero generale per una data che non aveva significato alcuno, senza voler fare nessuna preparazione».
    Il proletariato non può restare privo di direzione. D’altra parte non pochi capi sindacali impegnati alla disciplina dell’Alleanza hanno in modo indegno sabotato l’ordine di sciopero o negato la sua esistenza nota agli stessi prefetti del regno. Ora che i responsabili di questo disfattismo non parlano alle masse tradite il Partito Comunista assolve a un suo dovere denunciando questi che non sono errori ma colpe gravissime. Dopo aver indicato in tempo utile i pericoli e i metodi per evitarli.

    Malgrado tutto questo la lotta non è stata inutile e il proletariato ha saputo combattere. Il proletariato ha percorso un’altra tappa verso la sua preparazione a quei metodi di lotta rivoluzionaria che sono imposti dalla situazione odierna e che sono tanto diversi da quelli tradizionali.

    Il partito socialista si decompone dimostrandosi non adatto ad essere l’organo politico della classe operaia. Già si parla di togliere ai sindacati ogni carattere rivoluzionario e di operare una fusione dell’organizzazione rossa con altre organizzazioni, anche con quelle create con la violenza dagli strumenti diretti del padronato.

    Il Partito Comunista è per la più vasta base possibile della organizzazione professionale perché è convinto che da questa condizione non può che accelerarsi il sorgere dalle singole lotte economiche, dell’azione politica e rivoluzionaria. Il sindacato deve restare aperto a tutti i lavoratori, e libero da ogni influenza limitatrice. Il partito seguita a sostenere con tutte le sue forze:
     1) l’unità sindacale del proletariato italiano al di fuori di ogni influenza padronale e statale;
     2) l’Alleanza del Lavoro deve sopravvivere malgrado e contro quelli che l’hanno snaturata. Essa deve poggiarsi localmente sulle masse con elezione diretta dei rappresentanti nei comitati locali proporzionati alle tendenze politiche e con un organo supremo eletto da un congresso nazionale dell’Alleanza;
     3) l’intesa di tutte le forze proletarie non deve avere per obiettivo l’assurdo di un governo borghese che restituisca la libertà e i diritti ma l’affermazione della forza indipendente delle masse;
     4) i comunisti sostengono ancora la parola d’ordine generale come impiego diretto di forza classista e non per cercare la difesa delle masse nell’azione dello Stato.

    La questione sindacale costituisce il punto centrale anche dei Comitati Centrali fascisti, i quali si preoccupano di concretare al più presto le relazioni e i rapporti con le corporazioni sindacali. Questa opera è affiancata dai riformisti che, tacendo delle responsabilità dirette dello sciopero, tirano fuori la "Costituzione del Carnaro" e dicono di orientarsi in questo modo per disarmare il fascismo. I riformisti per bocca di Baldesi affermano che è giusto ciò che affermano i fascisti e cioè che:
     1) alla fine di agosto le rappresentanze nei Corpi Consultivi vengano assegnate a seconda delle forze rappresentate;
     2) che vengano rapidamente approvate la legge per la riforma del Consiglio Superiore del Lavoro e quella per l’iscrizione dei sindacati.

    Baldesi afferma: «Se nei corpi consultivi i rappresentanti confederali vengono a trovarsi in minoranza niente paura, si vedrà quello che sanno fare gli altri!». Questa che voleva sembrare una ritirata strategica è un’altra gravissima rinuncia, perché nel Consiglio del Lavoro si troveranno poi tutti d’accordo: popolari, fascisti e riformisti. Sempre nell’intervento di Baldesi su Giustizia, alla domanda dell’atteggiamento che il Partito Socialista e le organizzazioni operaie dovrebbero tenere in questo momento risponde sostenendo:
     1) è necessaria per tutte le organizzazioni l’autonomia da ogni partito politico, «in questo momento più necessaria che mai!»;
     2) in questo momento vi è una sola politica da fare: conservare le conquiste già strappate, recuperare la libertà, cooperare all’impellente necessità nazionale di ricostruzione economica del paese.

    Questa politica avrebbe l’appoggio delle correnti non reazionarie, dei ceti medi, degli intellettuali, ma per poterla effettuare sarebbe necessario che la Confederazione si sciolga dal Partito, così potrebbe essere disarmato il fascismo che non potrebbe più rivolgere l’accusa alla Confederazione di violentare le masse lavoratrici. In sintesi rottura del Patto di alleanza col Partito Socialista.

    Il Partito Comunista incita gli operai rivoluzionari a battere il piano infame che si nasconde dietro questa mossa, il cui scopo non sta nella rottura del Patto di alleanza, ormai inesistente, ma nello strozzamento dei gruppi comunisti e chiede subito la convocazione di un congresso nazionale della Confederazione.

    Purtroppo il movimento operaio rivoluzionario deve ricevere un altro durissimo colpo, che costituisce di fatto la rottura del fronte unico: il sindacato ferrovieri decide di uscire dall’Alleanza. Il piano è certamente quello di spezzare le file operaie fino a fare crollare il baluardo intorno al quale esse potrebbero ancora formarsi e riprendere la lotta. I comunisti chiedono che sia convocato il congresso del S.F.I. perché la massa possa giudicare, perché sia chiaro che sono i capi quelli che tradiscono, e premono perché si convochino tutti i congressi di categoria per arrivare ad un congresso nazionale e perché l’alleanza non venga spaccata in quanto è e rimane la forma concreta del Fronte Unico Proletario.

    Gli avvenimenti di agosto hanno accelerato lo smascheramento dei nemici dei proletariato ma per la masse lavoratrici è difficile orientarsi. Così i comunisti indicano i pericoli del momento:
     1) i nemici della classe operaia, social-riformisti e fascisti, tendono a coalizzarsi per trascinarla sotto il giogo della legalità;
     2) la stessa coalizione tende a tagliare ogni legame tra masse operaie e proletariato rivoluzionario. La lotta della reazione da ora innanzi sarà rivolta a staccare le avanguardie rivoluzionarie dalla classe operaia; questo obiettivo verrà perseguito nelle officine, nei campi e nelle miniere.

    Davanti a questo pericolo immediato i comunisti ricorrono a tutte le loro forze, il partito si rivolge ai lavoratori sostenendo di aver sempre proclamato e desiderato che tutti i lavoratori si trovino uniti nei sindacati quindi non è tanto preoccupante che si vada verso l’unificazione delle forze organizzate quanto che questo avvenga a danno del proletariato rivoluzionario. Contro questo pericolo è necessario che i comunisti si preparino a lottare e a difendere queste posizioni:
     1) intensificare la organizzazione dei gruppi d’officina cercando di conquistare le commissioni interne;
     2) svolgere eguale azione nei sindacati con la creazione dei gruppi di operai rivoluzionari e servirsi della loro base per impedire e smascherare alle masse il tradimento dei capi sindacali;
     3) mantenere unita l’Alleanza del Lavoro la quale deve rappresentare le effettive unità del proletariato.

    Difatti dallo smarrimento prodotto da certe manovre poteva scaturire il riconoscimento delle direttive comuniste.
     
     

    NASCITA DEL SINDACALISMO FASCISTA
     

    Il governo licenzia i ferrovieri, le paghe diminuiscono, è abrogata l’erogazione dei sussidi ai disoccupati; le bande armate proseguono indisturbate le loro nequizie. Per impedire che la lotta organizzata si ricostituisca, la borghesia completa il suo piano offensivo con il tentativo di inquadrare le corporazioni operaie.

    I metodi adottati sostanzialmente sono due: attacco violento e assedio per fame. Con il primo si spezza ovunque il ritmo della vita sindacale, si colpiscono i capi, si distruggono le sedi, si terrorizza la massa, ma esso non basterebbe ad evitare il risorgere delle leghe distrutte per cui si ricorre alla formazione di nuove organizzazioni tenute in pugno dalle forze borghesi attraverso la presa per fame.

    La disoccupazione infierisce, la violenza abbatte il monopolio delle organizzazioni rosse e la loro pressione sui datori di lavoro. Il sindacato fascista riesce a imporsi agendo di concerto col padronato anzi ricevendo da esso il mandato del reclutamento della mano d’opera, offrendo così l’alternativa tra lavoro a vile prezzo e la fame.

    In alcune zone, come nel Ferrarese, si è già al punto che tutto un popolo geme sotto uno sfruttamento senza freno. Questi lavoratori anelano l’ora della vendetta e non basteranno le rivoltellate squadriste a difendere una simile oppressione da esplosioni di ira proletaria.

    Il nodo della questione è che, per quanto sia grave la crisi, la costruzione di un movimento generale delle masse dei salariati nei limiti della nazione, ossia delle istituzioni, rimane obiettivo difficile a strappare. Prova concreta che ancora i baluardi delle organizzazioni operaie non erano stati distrutti è il Primo Convegno Nazionale dei Gruppi Ferrovieri Comunisti che si tenne a settembre e che affrontò i seguenti temi: l’azione sindacale dei ferrovieri comunisti, la ricostruzione del Fronte Unico Proletario, la convocazione del congresso straordinario S.F.I., il collegamento con la centrale sindacale rossa di Mosca.

    Il congresso nelle giornate di lavoro formula un preciso ed esplicito programma di ricostruzione e d’azione sindacale. I lavoratori esprimono punti netti a proposito dei problemi economici e di lavoro dei ferrovieri e sottolineano che certe conquiste saranno recuperate e altre ottenute solo se la lotta sarà condotta sul terreno di classe con finalità politiche e sindacali sempre più vaste e generali.

    Nella seconda giornata viene prodotta una mozione in difesa dei colpiti dall’azione politica ed amministrativa, perché è necessario dare la sensazione che la solidarietà con i compagni colpiti da punizioni e con quelli colpiti dal fascismo è superiore alla reazione. Viene presentata una mozione dove si delibera che venga messa a disposizione del S.F.I. l’attrezzatura dei gruppi comunisti perché venga mantenuta ovunque l’organizzazione e il funzionamento delle sezioni del sindacato, anche a carattere riservato ed illegale, secondo le esigenze che si potranno verificare, e si afferma che soltanto dalla rinascita di tutte le energie sindacali, di nuove e più definitive lotte, in una decisa riscossa che conduca il S.F.I. e la classe lavoratrice alla riconquista di tutta la sua forza, si potrà ottenere una vittoriosa affermazione dei propri diritti e che solo così si possono revocare tutte quelle situazioni di licenziamenti e sospensioni che gettano i lavoratori nella disperazione.

    Decreta la costituzione di un fondo di resistenza con sussidi pro-licenziati e sospesi senza distinzione fra iscritti e non iscritti; la raccolta, l’assegnazione e il controllo dei sussidi dovranno essere effettuati da una apposita Commissione Nazionale; stabilisce che anche le conseguenze giudiziarie dovranno essere compensate con i fondi comuni di cui sopra; delibera inoltre che in attesa del Congresso i ferrovieri comunisti aderiscano all’Internazionale Sindacale di Mosca e decide di partecipare al prossimo Congresso dei sindacati rossi che si terrà a Mosca in ottobre.

    Intanto le aggressioni fasciste si susseguono. A Torino viene aggredita la casa del compagno redattore di Ordine Nuovo, pochi giorni prima c’era stata la perquisizione al giornale.

    L’infaticabile opera del Partito non è vana, il Comitato Comunista Ferrovieri si incontrò con il Comitato Comunista Sindacale per una riunione comune della Sinistra Sindacale e viene inviata una lettera aperta delle due organizzazioni al Comitato Sindacale Terzointernazionalista; al Comitato Sindacale Massimalista; al Comitato della frazione sindacale dell’U.S.I,; all’Ufficio Sindacale dell’Unione Anarchica, al Comitato Massimalista Ferroviario.

    Si dice nella lettera, datata 10 settembre 1922:

         «Cari compagni, la situazione del movimento sindacale ci spinge alla presente iniziativa, per il successo della quale non dubitiamo del vostro efficace concorso (...)
         «Equivoche formule collaborazionistiche e borghesi vengono da più parti affacciate sotto il nome del sindacalismo nazionale, di movimento operaio entro il campo degli interessi nazionali: e questo piano non significa altro che il proposito di togliere ai sindacati ogni efficacia rivoluzionaria e persino ogni effettiva capacità di lotta contro il padronato nelle stesse contese economiche. Si tende per tal modo al siluramento del Fronte Unico e dell’Alleanza del Lavoro, e a rendere impossibile ogni schieramento delle forze proletarie sul terreno della lotta diretta contro la reazione e contro il fascismo, con i quali stessi si giungerà in ultima analisi a patteggiare, prima una resa vergognosa, poi una effettiva alleanza.
         «A tale scopo noi riteniamo che le varie tendenze sovversive militanti nel campo sindacale, restando nettamente distinte e serbando libertà d’azione non solo per quello che è il loro programma politico, ma anche nelle loro particolari vedute su dati problemi di tattica sindacale, possano e debbano stringere tra di loro una intesa leale per la difesa di alcune posizioni comuni a quanti sono per la causa della lotta emancipatrice del proletariato. Questi punti, su cui una intesa dovrebbe effettuarsi, con l’impegno reciproco di coalizzarsi nella loro affermazione in tutte le adunate proletarie e i congressi sindacati, sono a nostro modo di vedere i seguenti:
         «Le organizzazioni sindacali debbono essere indipendenti da ogni influenza dello Stato borghese e dei partiti della classe padronale e la loro bandiera deve essere la emancipazione dei lavoratori dallo sfruttamento padronale.
         «Il Fronte Unico Proletario per la difesa contro l’offensiva padronale deve essere mantenuto e rinnovato nell’Alleanza del Lavoro, stretta tra le organizzazioni tra cui sorse e resa tale nella sua costituzione da rispecchiare le forze e la volontà delle masse.
         «Noi quindi vi invitiamo ad un convegno nel quale una comune dichiarazione da lanciare al proletariato italiano suggellerebbe una simile intesa, e darebbe a tutte le forze classiste una chiara piattaforma comune di propaganda e di agitazione suonando severa rampogna ai pochi che tentennano e defezionano nell’ora del pericolo».
    Anche i metallurgici Torinesi si apprestano ad una assemblea generale delle sezioni metallurgiche per udire la relazione del Consiglio Direttivo. Malgrado la situazione di paura e di stanchezza la sezione metallurgica è oggi ancora la più forte, e tra i metallurgici è ancora forte la fiducia nell’organizzazione. La Camera del Lavoro di Torino risponde alla lettera aperta inviata dalle organizzazioni comuniste. Risponde con un manifesto-appello dove si difende il carattere classista dei sindacati.
         «Lavoratori, Lavoratrici!
         «Sottoposta ad un intenso sfruttamento nelle officine e nei campi, assalita violentemente con il ferro e con il fuoco nelle piazze, nelle proprie sedi e perfino nelle private abitazioni; oppressa dalla disoccupazione, dalla miseria e dalla fame; disorientata dalla menzogna, dall’inganno e dal tradimento dei suoi capi. Questa la situazione nella quale trovasi oggi la classe lavoratrice. Sperimentata attraverso una serie di successive sconfitte l’inanità delle lotte isolate, maturò nella coscienza proletaria la necessità del fronte unico e dell’azione simultanea di tutte le forze operaie. Sorse l’Alleanza del Lavoro e sotto l’incoercibile pressione degli avvenimenti e della volontà delle masse si giunse allo sciopero generale nazionale. Scopo di questo movimento doveva essere l’arresto dell’offensiva capitalistica, la possibilità della riorganizzazione delle schiere proletarie per le future battaglie, l’affermarsi di una più sicura coscienza e fiducia delle proprie forze tra le masse lavoratrici.
         «Questi scopi non furono raggiunti per l’inettitudine e l’incapacità dei dirigenti riformisti, che un’azione di così grande importanza per gli interessi del proletariato non seppero preparare, dirigere e neanche far cessare. E nonostante la dimostrazione della grande forza e capacità d’azione che tuttora esiste nella massa lavoratrice, la mancata vittoria, ha diffuso tra le sue file la delusione e lo scetticismo. Molti non portano più alla loro organizzazione quel contributo di attività che dà vita all’organizzazione stessa, altri si sono appartati sfiduciati e altri ancora per cause diverse non sempre dipendenti dalla loro volontà si sono lasciati inquadrare nei sindacati fascisti che rinnegano tutti i principi, le idealità, i metodi e le aspirazioni della lotta di classe, del socialismo.
         «Il sorgere del sindacalismo fascista segna una nuova fase dell’offensiva padronale. Non solo si vuole oggi stringere sempre di più le catene della schiavitù intorno alla classe lavoratrice, ma si vuole togliere ad essa ogni speranza anche per il domani. Si vuole privare il proletariato degli stessi strumenti della lotta di classe. Ed il pericolo non sarebbe tanto grave se nel seno stesso del proletariato non vi fossero degli uomini che godono della sua fiducia e lavorano per l’attuazione di questo piano di tradimento.
         «Dopo aver dichiarato "fallito" il Fronte Unico Proletario, i dirigenti sindacali riformisti si apprestano, con opera subdola e nascosta, a far causa comune con i sindacati patriottici e nazionali, portano per tal via la classe lavoratrice ad una nuova e più grave schiavitù. Una prima manifestazione ufficiale di tale stato di fatto si è avuta nel tentativo di alcuni dirigenti del sindacato ferrovieri ora sventato. Questo tentativo di snaturamento del carattere di classe delle organizzazioni operaie e di rinnegamento delle tradizioni classiste del movimento proletario italiano, in un momento in cui lo scetticismo domina fra i lavoratori, appare veramente di una gravità eccezionale.
         «Ma un’avanguardia cosciente ed illuminata del movimento operaio, avvertendo il pericolo, lancia il grido di allarme ed addita loro la via della salvezza Si tratta in sostanza di realizzare il fronte unico operaio tra quanti restano fedeli ai principi della lotta di classe. Noi facciamo nostra questa parola d’ordine e la diffondiamo fra la massa, rilevandone tutta l’importanza ed utilità, spronando gli scettici e i dubbiosi a stringersi sempre più compatti intorno alle loro organizzazioni di classe. È nell’ora torbida del maggior pericolo e dei più gravi sacrifici che si rivelano i migliori combattenti della causa proletaria. Ed è in quest’ora grave per il movimento operaio italiano che l’avanguardia comunista chiama a raccolta intorno a sé tutte le forze operaie nel cui animo non è ancor spento il ricordo delle gloriose lotte del passato e la speranza di un migliore avvenire per la classe degli sfruttati. Oggi più che mai urge essere compatti contro la nuova pericolosa minaccia che sorge nelle nostre stesse file. Salvare il sindacato rosso oggi significa conservare la possibilità della riscossa e della vittoria proletaria per domani. Non tradite la vostra causa, la causa della vostra classe! La rossa bandiera della lotta di classe è stata e sarà sempre in testa alle nostre organizzazioni.
         «La C.E. della Camera del Lavoro. 14 settembre 1922».
    Intanto, mentre continuano le polemiche sulle responsabilità del tradimento e ne vengono fuori sempre più losche le azioni dei dirigenti, il fatto politico sul quale si stanno concentrando le attese è il Congresso Socialista in cui si dà per scontata la scissione. La data del Congresso viene fissata per ottobre, poiché le diverse frazioni del partito hanno avuto più di due mesi di tempo, dopo l’ultima crisi di governo e dopo lo sciopero generale, per fissare il proprio atteggiamento teorico.

    I più chiari sono stati i riformisti sia nel Convegno di Milano che nel Manifesto lanciato alle masse operaie. Dal punto di vista teorico il Manifesto non contiene niente di nuovo, ma la ripetizione delle critiche che la socialdemocrazia va ripetendo alle concezioni marxiste. A ciò i riformisti aggiungono che lo scatenarsi della reazione fascista è dovuto all’azione dei massimalisti e dei comunisti. Per colpa loro e della loro intransigenza gli operai e i contadini d’Italia non hanno potuto approfittare dopo la guerra della propria situazione di forza per conquistarsi nell’ambito della legalità dei vantaggi reali.

    Il manifesto dei riformisti prelude al distacco dei massimalisti. È più difficile per i lavoratori comprendere l’atteggiamento dei massimalisti. Da parte loro non c’è chiarezza quando devono esporre le loro direttive. Certo l’intenzione dei massimalisti non è quella di staccarsi dal partito per combattere i riformisti: nel campo sindacale lasceranno via libera ai riformisti, non solo, ma dopo i recenti avvenimenti del Comitato Sindacale Comunista per un accordo delle Sinistre sindacali, si alleeranno con essi contro i comunisti. Praticamente i massimalisti sostengono che nel momento attuale non è possibile far nulla per mutare le condizioni in cui si trova la classe operaia. In queste condizioni dunque è urgente liquidare nelle file operaie l’equivoco del massimalismo.

    Il movimento dei lavoratori soffre di un disagio profondo dovuto in parte alla reazione, ma in gran parte alla liquidazione del falso rivoluzionarismo del Partito Socialista sotto la bandiera del quale si erano raccolte le masse durante l’ondata del 1919-1920. È attraverso questa liquidazione che una parte delle masse è stata portata ad abbandonare il terreno dell’organizzazione politica di classe.

    I massimalisti non sono più nelle file degli operai e dei contadini, ma in quelle dei funzionari; essi però si propongono di sfruttare il grande prestigio dell’Internazionale Comunista per risollevare la loro credibilità. Era necessario che le masse operaie capissero che non era sufficiente staccarsi dai riformisti dopo aver appoggiato e condiviso i loro tradimenti, ma era necessario avere un programma d’azione, essere dei combattenti per quel programma e non dei parolai.

    Una delle ragioni determinanti della decisione comunista di Livorno era stata che la coscienza della decomposizione socialista rendeva urgente la costruzione immediata di un organismo capace di affrontare e di superare il generale scompaginamento delle organizzazioni rosse che erano nate per il suo impulso e per la sua propaganda e che si erano sviluppate poggiandosi sulle sue sezioni ed i suoi militanti.

    In questo periodo di tempo che resta per la scomparsa definitiva del Partito Socialista, la parola d’ordine dei comunisti è, come per il passato, la lotta aperta contro tutte le frazioni, gruppi e correnti che tra massimalisti e riformisti tentano di ereditare a proprio vantaggio la tradizione di lotta del P.S.I. per piani reazionari.

    La difesa delle forze rivoluzionarie italiane imponeva due azioni:
     1) ricostruire e rafforzare il Fronte Unico con la sua forma di Alleanza del Lavoro, il che veniva perseguito attraverso l’iniziativa del Convegno delle frazioni sindacali di sinistra;
     2) rinnovare il metodo della lotta proletaria che si esplicherà nella lotta contro le due frazioni socialiste.
     
     

    [Il Partito Comunista n. 52, dicembre 1978]
     

    LE DIRETTIVE DELLA III INTERNAZIONALE AL PROLETARIATO ITALIANO
     

    Il XIX Congresso Socialista opera la separazione dei socialisti dai riformisti. Serrati ha affermato che la separazione dai destri è stata resa inevitabile non tanto dai motivi di incompatibilità quanto dalla necessità di preparare al proletariato un efficace strumento per la lotta a venire, e cioè un Partito saldo e omogeneo e capace di guidare le masse sul cammino aspro e difficile della rivoluzione. Ma al di là di questo pentimento tardivo la questione si poneva nella maniera già fissata a Livorno e seguita da quella minoranza che uscita allora ha dato vita autonoma e forza propria di classe all’organizzazione proletaria.

    Il Partito Socialista rinnova la sua adesione alla Terza Internazionale e dà mandato di fiducia alla Direzione con un manifesto al proletariato. Restano al Partito i segni e le forme esteriori delle sue attività. Si dichiarano appartenenti il Gruppo Parlamentare Socialista, i deputati che hanno accettato e accettano il programma di Bologna e che hanno votato la mozione massimalista (che riportò 32.106 voti uscenti dalla formazione dei due gruppi massimalisti, con voti 25.399, e i Terzi Internazionalisti, con voti 6.777. 19.119 i voti per la mozione unitaria. Totale 61.225 iscritti).

    Al Congresso Socialista giunge anche il messaggio della III Internazionale che dà ai socialisti delle direttive precise perché si assumano le proprie responsabilità in senso rivoluzionario in un così grave momento.

         «La scissione tra massimalisti e riformisti in Italia è ormai un fatto compiuto! Ciò che l’I.C. chiedeva da due anni or sono si è inevitabilmente avverato. La necessaria operazione chirurgica ha tardato due anni. La malattia è stata trascurata e ciò naturalmente ha procurato danni incalcolabili all’organismo del P.S.I. Le perdite della classe operaia italiana per gli errori dei duci massimalisti del 1920 sono enormi. La borghesia ha utilizzato gli errori dei socialisti per consolidarsi e passare all’offensiva sfacciata e cinica contro la classe operaia italiana.
         «Che nel 1920 i capi massimalisti hanno compiuto un errore terribile lo vede ogni onesto operaio massimalista. Quando si dice che, nel 1922 la scissione è necessaria, ma nel 1920 la scissione non era necessaria perché allorasi dicenon c’erano fatti concreti che testimoniavano il tradimento dei riformisti, una simile dichiarazione è o un infantilismo o un tentativo deplorevole di nascondere agli operai il senso reale degli avvenimenti. Non può dirsi capo delle masse proletarie quegli che a stento sa trarre una conclusione giusta con ritardo di alcuni anni; ma quegli invece che rilevando tosto una corrente al suo primo nascere, sa per tempo avvertire gli operai dei pericolo che li minaccia. I marxisti ci sono appunto per questo, perché studiando il processo della lotta di classe, essi sappiano trarre delle conclusioni da essa e lottare contro il pericolo subito appena nasce. Alla fine del 1922 è in verità troppo facile vedere dove ci ha portato il riformismo italiano, quando questi, armi e bagagli, è già passato alla borghesia.
         «Ciò era più difficile due o tre anni fa. L’I.C. ha visto a tempo opportuno, ma alcuni capi massimalisti o non hanno visto affatto o coscientemente hanno chiuso gli occhi sul tradimento dei riformisti. Ma in qualunque modo sia, la situazione in cui si trova la classe operaia in Italia è tale che gli uomini veramente devoti agli interessi del proletariato non devono perdere troppo tempo per chiarire la questione: chi aveva ragione e chi torto.
         «Il compito più elementare e urgente in Italia consiste in ciò: unire il più presto possibile tutte le forze rivoluzionarie e creare in tal modo un blocco del proletariato contro il blocco delle forze riformiste-fasciste e imperialiste.
         «Compagni massimalisti! Davanti a voi ci sono due vie: o voi tenterete di creare qualcosa di mezzo, un partito centrista cosiddetto Indipendentee allora dopo sei mesi o un anno il vostro partito diventerebbe di nuovo preda dei riformisti e della borghesia (un simile partito di mezzo indipendente, centrista nelle attuali condizioni, nell’attuale processo della lotta di classe in Italia non potrebbe condurre che un’esistenza miserabile per qualche anno e sarebbe immancabilmente destinato ad una fine vergognosa)o seguirete un’altra via, con risolutezza e senza deviazioni: prenderete l’orientamento per l’unione con il P.C.d’I.; vi metterete sulla via della lotta veramente rivoluzionaria e con questo scopo prima di tutto ritornerete sotto la bandiera dell’I.C. Scegliete, compagni.
         «Il vostro congresso deve rendersi conto dell’importanza della situazione e della scelta. Guardate! Nello stesso tempo, quando voi massimalisti italiani sotto la pressione degli eventi strappate finalmente la catena arrugginita che vi unisce con i traditori riformisti, nel campo internazionale avviene l’unione della Internazionale Due e Due e mezzo.
         «I Centristi, gli indipendenti, come ha già predetto l’I.C. tanto tempo fa, stanno capitolando davanti ai Noske, Scheidemann, Renaudel. L’Internazionale Due e mezzo ha cessato di esistere. Essa ha capitolato e aspetta la grazia della social-democrazia gialla. E possibile, compagni che non si veda l’enorme importanza di un tale evento nel campo del movimento operaio internazionale? E possibile che anche ora non vediate che ci sono due sole vie: o la Seconda Internazionale, l’Internazionale dei tradimenti, degli equivoci; o la Terza Internazionale, Internazionale della lotta di classe e del marxismo. Altra via non v’è.
         «La tattica del fronte unico propugnata dalla I.C. si sta attuando con risultati immensi in tutti i paesi di avanzato movimento operaio. La tattica del fronte unico otterrà anche in Italia grandi successi se la vostra coscienza saprà rendersi conto dei problemi che incombono. Se voi sarete decisi, non a parole, ma a fatti, a staccarvi una volta per sempre dai riformisti e dagli opportunisti; se la scissione avvenuta non sarà un semplice episodio; se voi vi renderete chiaro conto di quanto siano inconciliabili il marxismo e il riformismo; se coraggiosamente correggerete i vostri errori e andrete incontro al P.C.d’I., allora la classe operaia sentirà subito che è cominciata un’era nuova, che si inizierà la formazione di un possente blocco proletario. E allora, con le forze riunite, noi in breve tempo sconfiggeremo radicalmente tutti i Turati, i D’Aragona, i Modigliani e altri agenti della borghesia.
         «O una putrefazione lenta, o la correzione dei propri errori e il passaggio su altre vie. Bisogna scegliere.
         «Da parte sua il C.E. dell’I.C. ha il sincero desiderio di fare il possibile per facilitarvi il ritorno sotto la bandiera dell’I.C. La situazione della classe operaia in Italia è veramente tale che non possiamo permetterci il lusso di una polemica lunga con quelli che forse in molti punti ancora errano, ma nelle questioni fondamentali riconoscono i propri errori e sono pronti a correggerli. Il C.E. del Comintern vi fa le seguenti proposte:
         1) Eleggete una delegazione del vostro congresso; mandatela alla fine di Ottobre a Mosca per il IV congresso mondiale della I.C. A questa delegazione sarà data la piena possibilità di esporre il vostro punto di vista davanti alla III Internazionale e sentire l’opinione della I.C. su quelle questioni che sono di interesse più vitale per il movimento operaio italiano;
         2) Riconoscete la necessità di costruire nel più breve tempo possibile un Comitato di azione unificato con il P.C.d’I., che è ora in Italia l’unico rappresentante dell’I.C. Questo Comitato d’azione tenti di organizzare, malgrado le profonde divergenze ancora esistenti, una lotta comune nei sindacati e nel campo politico, una lotta comune contro la borghesia e i riformisti.
         «Questo sarà il miglior mezzo per preparare l’unità delle forze veramente rivoluzionarie in Italia.
         «Ripetiamo, la vostra sorte è nelle vostre mani. Nuovi errori, nuovi tentennamenti e irresolutezze sarebbero veramente dei delitti contro la classe operaia in Italia il cui petto i briganti del fascismo vogliono fare a brandelli e sulla cui testa gracchiano i corvi neri dei riformismo.
         «Ricordate, compagni massimalisti: la decisione non può essere ritardata. La parola è a voi. Decidetevi!
         «Evviva il proletariato rivoluzionario dell’Italia.
         «Il C.E. dell’Internazionale Comunista. 5 ottobre 1922»
    Un primo passo verso il fronte unico del proletariato è l’accordo delle sinistre raggiunto a Milano per la lotta nei sindacati contro le deviazioni social-riformiste:
         «...In base a tali criteri, sui quali il Consiglio si trova concorde, viene approvata all’unanimità la seguente Mozione:
         «I rappresentanti del Comitato Sindacale Comunista, del Comitato sindacale Socialista, del Comitato Comunista ferroviario, della Frazione Sindacalista rivoluzionaria, riuniti a convegno il giorno 8 ottobre 1922,
         «esaminata la situazione del movimento sindacale italiano;
         «convinti che nell’interesse e per la salvezza del proletariato italiano sia indispensabile difendere con un’azione risoluta e concorde i punti seguenti:
     1) le organizzazioni sindacali dei lavoratori devono rimanere indipendenti da ogni influenza e controllo dello Stato borghese e dei partiti della classe padronale; loro programma e loro bandiera deve essere la lotta per l’emancipazione dei lavoratori dallo sfruttamento capitalistico, le loro file devono essere aperte ad ogni propaganda delle idealità rivoluzionarie del proletariato;
     2) il Fronte Unico Proletario per la difesa e la riscossa contro le molteplici manifestazioni dell’offensiva borghese deve essere mantenuto nella forma dell’Alleanza dei Lavoro, stretta tra tutti gli organismi classisti del proletariato, ma organizzata in modo che essa sia deliberante a voto maggioritario, ed assicuri la più fedele consultazione e rappresentanza delle masse, localmente e nazionalmente, con la rappresentanza proporzionale per ogni sindacato aderente delle frazioni che militano nel seno del medesimo e anche come necessaria preparazione alla auspicata definitiva fusione in una sola di tutte le organizzazioni di classe dei lavoratori italiani;
         «convinti che ogni manovra tendente, sotto varie formulazioni, ad intaccare questi capisaldi, col voler raffrenare l’azione sindacale entro i limiti delle istituzioni borghesi, escludere la propaganda e l’azione dei partiti estremi nei sindacati, legalizzare l’opera e l’attività di essi sullo stesso piano di quello delle corporazioni dei ceti abbienti per una pretesa collaborazione ricostruttiva dell’economia, ammainare il glorioso vessillo rosso emblema delle altissime tradizioni delle classe italiana, corrispondere al tentativo reazionario di stroncare la lotta di classe, rendere impossibile ogni resistenza dei salariati, e avvilire a livello schiavistico il tenore di vita delle classi lavoratrici per consentire alle classi sfruttatrici di consolidare le basi compromesse del loro dominio;
         «impegniamo tutte le forze aderenti agli organismi convenuti, pur differenziandosi nel sostenere i particolari punti di vista circa altri problemi di tecnica e politica sindacale, a coalizzarsi per l’affermazione e la difesa dei capisaldi suddetti, in tutte le adunate e convegni, congressi dei sindacati e convocazioni comuni ai vari sindacati, contro proposte e atteggiamenti che tali capisaldi tendessero a ledere, e a provocare con un attiva campagna delle adunate proletarie voti che esigano dagli organi centrali dei sindacati nazionali la ripresa dei contatti per la riorganizzazione immediata dell’Alleanza del Lavoro».
    Il Partito Comunista si preoccupa in modo fondamentale ed esclusivo dell’azione del proletariato contro l’offensiva reazionaria e chiede ai massimalisti una maggiore chiarezza e che essi dicano apertamente di rinnegare il patto di pacificazione. I massimalisti tacciono anche sul problema sindacale, e non si sa che posizione assumano. Nel commentare il deliberato Confederale di cessare il patto di alleanze con il P.S.I., essi mostrano di credere che il Congresso rinunzierebbe a ciò. Silenzio anche sul Fronte Unico e sull’Alleanza. Anzi, da parte loro si riparla di un fronte di partiti politici, mentre si sa che il Partito Comunista è per il Fronte Unico dei Sindacati.

    Il Partito Comunista richiama i militanti di base del P.S.I., che devono compiere uno sforzo maggiore per mettersi nella strada dei comunismo. Essi devono premere sui loro dirigenti, che escano allo scoperto, che abbandonino la tattica del nullismo.
     
     

    LE TESI DI ROMA E IL FRONTE UNICO SINDACALE
     

    Gli avvenimenti che abbiamo illustrato mettono in evidenza alcuni principi fondamentali sui quali si basa l’azione del Partito in rapporto al movimento sindacale delle masse lavoratrici. La lezione dei primi anni di esistenza dei Partito Comunista sono condensate nel "Progetto di programma di azione" e svolte in aspetto di tesi nelle celebri "Tesi di Roma".

    Nel progetto, dopo aver precisato che obiettivo del Partito Comunista deve essere la dimostrazione alle masse dell’incapacità rivoluzionaria del Partito Socialista come della sua incapacità di difendere anche i concreti loro interessi immediati, ciò esige che non si cessi l’opposizione a tutte le correnti del P.S.I. e che si dichiari impossibile fare opera comunista rivoluzionaria nelle sue file, e che di fronte alla scissione del P.S.I. e alla formazione di un partito indipendente, l’azione del P.C. deve essere tale da impedire che questo partito venga accolto dal proletariato italiano come un organismo di capacità rivoluzionaria.

    Così viene messa a punto la questione dell’azione del Partito:

         «La conquista delle masse allo scopo di prepararle alla lotta per il potere proletario si deve realizzare con un’azione complessa in tutti i campi della lotta e della vita proletaria e con la partecipazione del Partito in prima linea, in tutte le lotte anche parziali e contingenti suscitate dalle condizioni in cui il proletariato vive. Nel corso della partecipazione del Partito a tali lotte deve essere in ogni istante posta in rilievo la connessione stretta tra le parole che il Partito lancia e gli atteggiamenti che assume, ed il conseguimento dei suoi massimi fini programmatici. È necessario accompagnare tutta questa opera nel ricchissimo campo dei problemi concreti con una critica incessante ed una polemica diretta verso gli altri partiti che guidano parte delle masse anche quando appare che questi possano condividere gli stessi obiettivi per cui lotta il Partito Comunista.
         «Gli elementi guadagnati all’opera del Partito devono venire solidamente inquadrati nelle varie reti organizzative di cui il partito dispone e delle quali tende ad ottenere l’incessante estensione».
    Al paragrafo 6 si danno norme pratiche d’azione. La partecipazione del Partito Comunista alle lotte concrete del proletariato si effettua in primo luogo con la partecipazione dei membri del Partito all’attività di quegli organismi associativi delle classi lavoratrici nati per necessità e finalità economiche come i sindacati, le cooperative, le leghe, le mutue, ecc.

    Di massima e sistematicamente i comunisti lavorano in tutti quegli organismi che sono aperti a tutti i lavoratori e non esigono dai loro aderenti, professione di fede, religiosa o politica.
         Il Partito Comunista tende all’unificazione dei grandi organismi sindacali classisti e lavora per essa fino alla sua costituzione.

    Sempre al punto 7 leggiamo queste norme particolarmente attuali. Ogni P.C. deve condurre un’intensa campagna nel senso della ricostruzione dei sindacato di classe contro il sindacato tricolore. A questo scopo deve cercare di concludere un’intesa con quelle correnti di sinistra del movimento sindacale che vogliono tenerlo sulle linee di una lotta di classe rivoluzionaria e inserire in questa azione la lotta per l’unificazione organizzativa dei sindacati.

    Questa unificazione deve essere perseguita il più ampiamente possibile senza escludere nemmeno gli elementi di destra che sono inquadrati da riformisti e sindacalisti, ma deve altresì avere i limiti di mantenere gli organi sindacali immuni da ogni influenza diretta dello Stato e di partiti e sindacati padronali.

    Nella relazione sulla tattica al II Congresso, di Roma, del 1922 venne analizzata e approfondita la questione dei rapporto del P.C. con la classe operaia.

    La Sinistra è stata accusata di praticare una tattica sindacalista anche a proposito del suo modo di intendere il Fronte Unico, che secondo i dirigenti dell’Internazionale doveva interessare non solo le organizzazioni economiche e di massa del proletariato ma anche i partiti politici operai: le Tesi di Roma affrontano questa questione mettendo in evidenza il carattere politico della tattica dei Partito:

         «È sembrato ad alcuni nostri compagni dell’Internazionale che la nostra tattica meriti il nome di sindacalista perché prescinde dal fattore politico. Ciò non è esatto (...) La verità è che noi stiamo costruendo nei sindacati il nostro solido congegno per la lotta contro i riformisti. Questo congegno è strumento prevalentemente politico nella lotta ingaggiata dal proletariato contro lo sfruttamento capitalista. Il nostro Fronte Unico significa il fronte di tutte le organizzazioni di lavoratori. Esso varca ogni limite di categoria e di località. Esso si sforza di cancellare le tendenze corporative che spesso vengono mascherate sotto un sindacalismo rivoluzionario. Questo Fronte Unico per il quale noi lottiamo è un patto prevalentemente politico, perché attraverso la lotta per ottenere la sua organizzazione, ricostituisce e risviluppa l’inquadramento delle masse proletarie sotto la guida del partito politico di classe».
    Questo chiarimento non solo rigettava le accuse di attivismo sindacale, in contrasto con l’accusa dell’atteggiamento dottrinario e settario per cui i comunisti si ritirerebbero nella torre d’avorio, ma condanna anche atteggiamenti ultrasinistri, che rifiutando di lavorare nelle organizzazioni economiche operaie, non avevano altra risorsa che approdare ai margini dell’opportunismo.

    Questa rilettura è finalizzata ai nostri compiti, alla tensione del Partito attuale, verso quegli obiettivi preliminari e storicamente attuali di penetrazione del programma rivoluzionario e di costruzione di un fronte di opposizione sindacale.

    Ma le furibonde lotte del 1919-1926 insegnano anche che non basta la conquista di una solida posizione teorica per immunizzare il Partito da un suo sfaldamento. Ad un saldo possesso dei principi deve corrispondere un’azione conseguente.

    La sinistra non soltanto fu l’unica forza a lanciare la parola d’ordine in Italia del Fronte Unico, ma fu anche la sola ad applicarlo con evidenti successi e ciò fu possibile perché il Partito non si mischiò con altri, non strinse alleanze ideologiche ed organizzative che avrebbero compromesso l’esistenza del Partito di classe.

    L’applicazione della tattica del Fronte Unico fatta dalla Sinistra fu esemplare per dimostrare due cardini dell’azione comunista:
     1) la necessaria partecipazione dei comunisti alle organizzazioni economiche di classe, con conseguente formazione di gruppi comunisti all’interno di esse;
     2) l’assoluta fedeltà ai principi che non devono essere contrabbandati per un ipotetico e illusorio successo immediato.

    Con ciò la Sinistra non mise mai in discussione la conquista delle masse, nel senso che il Partito debba abilitarsi a dirigere la lotta generale del proletariato strappandolo per prima cosa all’influenza dei riformisti e dei centristi.

    La Sinistra fu anche la sola forza a non sopravvalutare il ruolo del Partito indipendentemente dalle condizioni internazionali e per questo fu sensibile e attenta più di ogni altra forza al reale andamento dell’economia capitalistica in una situazione storica in cui ogni tentativo rivoluzionario dopo la vittoria dell’Ottobre veniva battuto.

    Per questo la massima preoccupazione della Sinistra consistette nel conservare un Partito fedele al marxismo rivoluzionario, che operasse per quello che le condizioni materiali consentivano alla classe operaia, rifuggendo soprattutto da tentazioni operaiste o consiliari.