Partito Comunista Internazionale Stampa in lingua italiana
La rifondazione post-bellica dei sindacati italiani nello spirito nazionale, patriottico, corporativo

["Il Partito Comunista" n. 64/1979, 66, 68, 70, 73, 76/1980, 80, 81, 82/1981]
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 1. MUSSOLINI - DI VITTORIO - LAMA
2. IL PATTO DI ROMA
3. LA RIORGANIZZAZIONE DELLA CGIL CONTRO GLI SCIOPERI DEL 1943
4. GLI SCIOPERI NELLE GRANDI FABBRICHE DEL NORD: Marzo 1943 - Agosto 1943 - Novembre 1943 - Marzo 1944
5. LA LIQUIDAZIONE DELLA CGL ROSSA DI NAPOLI
6. 1945, LA POLITICA DEI SACRIFICI - 1945: I Consigli di gestione - 1946: la CGIL dà via libera ai licenziamenti - Il proletariato impone il blocco dei licenziamenti
7. LA COSTITUZIONE E LA DEFINIZIONE GIURIDICA DEL RAPPORTO SINDACATO-STATO
8. LA SCISSIONE DEL 1949
9. BORGHESIA E STALINISMO CONSTRINGONO LA CLASSE OPERAIA AL SACRIFICIO DELLA RICOSTRUZIONE NAZIONALE
10. L’ACCORDO PER LA SCALA MOBILE CAPOLAVORO DEL SINDACALISMO TRICOLORE
 

 
 

1. MUSSOLINI - DI VITTORIO - LAMA
 

Negli ultimi anni il sindacato tricolore ha compiuto passi decisivi verso il suo definitivo inserimento nell’ingranaggio statale: la linea dell’EUR e la politica dei sacrifici, l’impegno aperto alla "riduzione del costo del lavoro" e alla piena utilizzazione degli impianti, l’espulsione dei comunisti e degli operai ribelli e la richiesta di fedeltà allo Stato per tutti gli iscritti, il sabotaggio delle lotte di classe spontanee, l’autoregolamentazione dello sciopero, ecc. Questi passi non rappresentano però una svolta, un cambiamento di rotta, ma, come il nostro partito ha sempre sostenuto, sono la conclusione di un lungo processo iniziato nel secondo dopoguerra.

Negli anni della ripresa economica il sindacato conduceva le lotte per l’adeguamento dei salari perché questo non solo non metteva in crisi l’economia borghese ma addirittura poteva rispondere agli interessi del grande capitale, costringeva le aziende ad ammodernare gli impianti e ad abbassare i costi di produzione. È oggi, all’inizio della grande crisi economica e politica del capitalismo, che le strutture sindacali sorte nel secondo dopoguerra si manifestano per quello che sono, cioè sindacati di regime, gestori della forza lavoro per conto dello Stato capitalista.

Questa politica di sostegno allo Stato, di controllo della manodopera per conto del capitale, era però già contenuta nella Confederazione Generale Italiana del Lavoro fondata nel 1944 col Patto di Roma. In questo i firmatari, PCI, DC, PSI, si dichiarano «convinti che l’unità sindacale di tutti i lavoratori senza distinzione di opinioni politiche e di fede religiosa è lo strumento più efficace all’opera immane di ricostruzione del paese (opera che sarà necessariamente imperniata sulle forze del lavoro)». Si dovevano riavviare le fabbriche, i cantieri e tutta la macchina dell’economia perché i capitalisti tornassero ad arricchirsi. Ma per far questo occorreva un rigido controllo della classe operaia, che doveva sopportare, e sopportò con salari da fame e con la miseria della disoccupazione, il peso totale della ricostruzione.

Ecco perché i falsi partiti operai e la DC decisero di comune accordo di ridar vita ad un’unica centrale nazionale sulle spoglie dell’ex sindacato fascista: per evitare che sorgessero delle vere organizzazioni di classe, per evitare che i forti scioperi e le sporadiche sommosse mettessero in pericolo la sopravvivenza del regime e i profitti del capitale.

In questo senso, la CGIL sorta "dall’alto", per iniziativa del governo borghese, ereditò in pieno le funzioni del sindacato unico fascista. Produrre di più per l’industria nazionale, questa era la parola d’ordine del sindacato fascista e tale rimase nella CGIL del secondo dopoguerra. Da Mussolini a Di Vittorio a Lama, non c’è soluzione di continuità; c’è un’unica linea di subordinazione dei proletari alle esigenze dell’economia borghese. Lo leggiamo nelle loro stesse dichiarazioni:

Mussolini (discorso nella sede dell’Alleanza Industriale e Commerciale a Milano il 5 febbraio 1920): «Ci siamo tenuti sul terreno produttivista perché se assassiniamo la produzione, se oggi insteriliamo le fonti prime dell’attività economica, domani sarà la miseria universale». «Se possiamo attivare i nostri traffici con l’Oriente, se le maestranze si metteranno in mente che nell’Oriente non si può portare la nostra moneta ma bisogna inviare le nostre locomotive, le nostre macchine, le nostre automobili, i nostri prodotti manifatturati e che allora solo si avrà la diminuzione del caroviveri, perché solo dall’Oriente ci verranno le materie prime di cui difettiamo, le maestranze industriali ripudieranno l’arma più distruttiva dello sciopero e si metteranno a lavorare sul serio».

Di Vittorio ("Il Lavoro", 6 giugno 1946): «La vittoria storica del popolo e della CGIL [è di] aver eliminato la frattura tradizionale fra Stato e masse popolari, [ma questa conquista] aumenta la responsabilità del popolo e dei lavoratori tutti [...] Per ricostruire l’Italia bisogna produrre di più, abbassare i costi di produzione e i prezzi di vendita dei prodotti, salvo a batterci con i capitalisti perché gli utili delle aziende non vadano a moltiplicare le loro ricchezze, ma siano in gran parte destinate a migliorare le condizioni dei lavoratori e la situazione generale del paese».

Lama (1979): «Noi siamo d’accordo nell’utilizzare al meglio tutti i fattori della produzione e quindi anche la forza lavoro».

Ecco che cosa ha guadagnato la classe operaia dopo aver "prodotto di più" in oltre cinquanta anni di solidarietà nazionale: cassa integrazione e licenziamenti.
 
 

2. IL PATTO DI ROMA
 

Nel giugno 1944 quindi, con il cosiddetto Patto di Roma tra PCI, PSI, DC, veniva ricostruita in Italia una unica centrale sindacale. Si trattava della necessità per il capitalismo di sostituire le vecchie centrali fasciste, ovviamente non più idonee a controllare il proletariato, con un’unica centrale che desse le stesse garanzie di controllo e di sottomissione allo Stato, ora governato dai partiti antifascisti.

Già nel 1943, in pieno regime fascista, nel Nord industriale la classe operaia aveva dato segni minacciosi con forti scioperi economici. Questi non avevano nulla a che vedere con le rivendicazioni democratico-resistenziali dei partiti del CLN, ma furono un moto spontaneo a difesa delle condizioni economiche: tutto lasciava prevedere che la lotta operaia si sarebbe sviluppata anche sotto il futuro governo democratico.

Il PCI, prevedendo questa situazione, con la "svolta di Salerno" lanciò la famigerata parola d’ordine "prima ricostruire, poi rivendicare".

Già prima che i nazifascisti fossero definitivamente sconfitti, secondo l’indirizzo dei partiti opportunisti, gli operai «nelle zone liberate dal nemico si impegnavano a lavorare alla ricostruzione materiale delle città distrutte, gratuitamente nelle ore libere» e «in cambio la proprietà degli immobili ricostruiti sarebbero passate alle organizzazioni dei lavoratori e sarebbero stati amministrati secondo criteri cooperativi» (Sergio Turone, Storia del sindacato in Italia). C’era già quindi un accordo per il passaggio delle sedi dei vecchi sindacati fascisti alla nuova CGIL.

L’elemento decisivo per arrivare all’unità sindacale fu il programma unitario lanciato dal PCI nell’ottobre del 1944. Togliatti allora affermava:

«Nel momento in cui vediamo che spetta alla classe operaia ed al suo partito raccogliere intorno a sé tutte le forze produttive del paese e dirigerle alla ricostruzione e alla rinascita dell’Italia, dobbiamo avere la profonda coscienza che non è possibile al nostro partito adempiere a questi compiti se esso rimane una associazione più o meno numerosa di propagandisti i quali si dedicano soltanto alla propaganda dei nostri obbiettivi generali ed ideologici. Dobbiamo riuscire a stabilire che se vogliamo realizzare la nostra funzione dobbiamo avere un programma preciso per quanto concerne tutti i problemi della vita nazionale; dobbiamo far conoscere questo programma a tutto il popolo e dobbiamo immediatamente iniziare il lavoro per la sua realizzazione».

Togliatti qui implicitamente descriveva l’indirizzo del PCI nei sindacati al fine di realizzare il suo compito: legare le masse operaie alla solidarietà nazionale, tramite la ricostruzione di organismi sindacali sotto il suo controllo.

L’Italia "progressista, democratica, antifascista" che il PCI voleva, sarebbe stata «un’Italia nella quale verranno spezzate le reni a quei gruppi di privilegiati che hanno dato vita al fascismo e che si sono arricchiti col fascismo, a quei gruppi nazionali che oggi governano e sgovernano nel Mezzogiorno, sarà un’Italia nella quale verrà fatto posto al popolo, nella quale verrà organizzato un governo di popolo e pel popolo e nella quale tutti i giovani e tutte le forze progressiste del Paese avranno il loro posto, potranno affermarsi ed avanzare in un grande fronte unito di forze liberali e progressiste».

Abbiamo visto come il PCI abbia dato attuazione pratica a questi propositi: pronunciamento a favore del mantenimento della Monarchia, liberazione dei fascisti dalle galere e costituzione della "Celere" da parte del Ministro di Grazia e Giustizia Togliatti, approvazione dell’art. 7 della Costituzione, sblocco dei licenziamenti, blocco dei salari, riconsegna delle fabbriche ai vecchi padroni che «si erano arricchiti sotto il fascismo», ecc. (la lista potrebbe allungarsi all’infinito).

All’idea del sindacato unico ci fu subito piena adesione da parte delle "forze reazionarie" rappresentate dalla DC: nei verbali della Commissione Sindacale dell’antifascismo cattolico (inizio 1944), troviamo così formulata l’adesione al principio dell’unità sindacale: «a) Il sindacato unico tutela meglio gli interessi della categoria rappresentata; b) rende più sicura la stipulazione del contratto collettivo che è strumento efficace di attuazione della lotta di classe; c) permette di contenere l’attività del sindacato entro i limiti dell’azione per la tutela degli interessi sindacali, riducendo di molto il pericolo che il sindacato torni ad essere strumento di lotta politica».

Qui sono contenuti i principi base del sindacalismo fascista, che troveremo puntualmente nella nuova Confederazione, la quale non a caso si definirà "Italiana". Unità sì, ma per controllare meglio la classe operaia, per mantenerla sottomessa allo Stato. Solo a queste condizioni le forze borghesi accettarono di formare una centrale sindacale unica. Queste condizioni furono subito accettate dal PCI, ormai trasformato in un partito nazionalista.

Sempre nello stesso verbale si legge che «è sembrato a tutti i presenti che risponda ad esigenze di libertà il riconoscere il diritto allo sciopero come strumento per la discussione del contratto di lavoro; d’altra parte è viva l’esigenza che lo sciopero non venga usato per scopi estranei all’azione sindacale e si ritiene da tutti che questo possa ottenersi: a) fissando che lo sciopero deve essere deciso dalla federazione nazionale; b) stabilendo che lo sciopero è ammesso solo in sede di preparazione o rinnovazione del contratto nazionale con netta esclusione dello sciopero per controversie di applicazione od interpretazione del contratto».

Il padronato quindi chiedeva disciplina nelle fabbriche, contratti vincolanti, mano libera nello sfruttamento della mano d’opera. Otterrà tutto, e solo le spontanee ribellioni degli operai, subito controllate dalla CGIL, potranno spingerlo a qualche concessione.

Per ammissione degli stessi opportunisti, il padronato, la borghesia, lo Stato erano allora "deboli". Ci pensò il PCI a rafforzarli. In Rinascita dell’ottobre 1949 si legge: «Pareva allora (1944) che non fosse necessario creare una organizzazione forte e differenziata; lo slancio spontaneo delle masse, l’avvilimento padronale conseguente alla caduta del fascismo facevano sì che la sola minaccia di uno sciopero e l’inizio di una agitazione piegassero i datori di lavoro ad accettare le nostre richieste».

Interessante anche quest’altra ammissione: «I dirigenti sindacali della nuova CGIL furono tali più per designazione delle correnti che per elezione dei lavoratori. Questi dirigenti furono proposti prima in misura paritetica poi con una proporzionale sempre estremamente attenuata rispetto ai veri rapporti di forza». Il PCI accettò che la direzione della CGIL fosse su un piano di parità col PSI e la DC, cioè il diretto controllo delle forze dichiaratamente borghesi sulla organizzazione sindacale, rinunciando volontariamente a una parte delle cariche dirigenti. Questi dirigenti, continua Rinascita, «disinteressandosi completamente delle attività concreta dei sindacati, si occupavano solo della organizzazione della propria corrente ad esclusivi fini di partito».

La CGIL nacque così dall’alto, per iniziativa dei partiti opportunisti e delle forze borghesi, con il preciso scopo di tenere il proletariato italiano sotto il controllo dello Stato, di impedire che la sua lotta mettesse in pericolo gli interessi dei capitalisti e del loro Stato nazionale, di inquadrarlo prima per la continuazione della guerra, poi per la ricostruzione. Questo scopo sarà raggiunto in pieno: la costituzione della CGIL – cui lo Stato come abbiamo visto fornì il suo pieno appoggio anche finanziario – impedì il formarsi di vere organizzazioni di classe, che sarebbero certamente sorte se le forze borghesi non avessero subito provveduto a inquadrare gli operai.

Ciò non è in contrasto con il fatto che la stessa CGIL abbia condotto o almeno non ripudiato forti scioperi, sia nell’immediato dopoguerra sia negli anni del boom economico. Vi saranno anche episodi di azione violenta degli operai, ma senza che mai si uscisse dal controllo delle centrali sindacali, e scioperi ad oltranza per mesi interi, in settori vitali. Gli operai riuscirono anche a strappare notevoli miglioramenti economici quando l’economia era in fase di espansione. I sindacati non potevano infatti negare questi scioperi, perché vi sarebbero stati comunque e avrebbero magari assunto l’aspetto di sommosse contro l’ordine generale capitalistico. Il loro compito era quello di non perderne il controllo, circoscriverli il possibile, renderli insomma innocui per l’ordine del regime in una fase di ripresa economica. In tutti gli episodi in cui il proletariato italiano mostrò una magnifica combattività si videro i dirigenti del PCI e della CGIL accorrere a disarmare e a fare opera di divisione e sabotaggio delle lotte.

Ma se allora, in una fase di economia in sviluppo, era possibile e anche necessario per la stessa industria che il sindacato si facesse carico dei bisogni operai essenziali in quanto "gestore della forza lavoro", per il capitale, oggi, alle soglie di una grande crisi economica e politica mondiale, lo stesso sindacato deve negare, deve opporsi anche alle spinte più elementari, alle richieste più misere, agli scioperi più timidi e pacifici.

Nulla è cambiato nella politica sindacale: sgherri del regime erano allora come lo sono oggi. Sono gli affari che non marciano più e i capitalisti non hanno più che poche briciole da gettare per corrompere strati di lavoratori. Il regime deve perciò ricorrere alla linea dura: impedire che si formino organizzazioni dei lavoratori "libere", cioè fuori dal controllo dei sindacati di regime. Ecco perché il risorgere di organismi di classe sarà la loro fine, perché ciò potrà avvenire solo rompendo il loro controllo poliziesco, solo fuori e contro di essi.
 
 

3. LA RIORGANIZZAZIONE DELLA CGIL CONTRO GLI SCIOPERI DEL 1943
 

Al Patto di Roma, del giugno 1944, si arrivò, come abbiamo scritto nei precedenti articoli, in seguito ad accordi di vertice tra i tre partiti PCI, DC, PSI, sotto il patrocinio della monarchia e del governo Badoglio, che garantirono alla nuova CGIL le sedi, il finanziamento, persino gli iscritti, ereditati direttamente dalle corporazioni fasciste.

L’ormai imminente vittoria degli alleati aveva convinto la borghesia italiana che avrebbe potuto continuare i suoi lauti affari, a spese di operai e contadini, solo scaricando i vecchi arnesi fascisti e ponendo uomini nuovi a tutela dei propri interessi. Gli scioperi del ’43-’44 nei centri industriali del Nord costituirono un allarme non solo per il padronato ma anche per i partiti che facevano capo al CLN e per le stesse autorità militari angloamericane. Tutto lasciava prevedere che le classi sfruttate si sarebbero messe in movimento al crollo del governo fascista. Perciò la prima preoccupazione della borghesia, degli alleati, dei partiti opportunisti fu quella di costituire una centrale sindacale sotto il controllo dello Stato che fosse l’unica rappresentante legale dei lavoratori salariati e di arrivare alla sostituzione del governo fascista senza brusche scosse: è questa la ragione che spinse il PCI a sostenere la monarchia, opponendosi ad una sua immediata abolizione, e i governi Badoglio e Bonomi.

Col Patto di Roma ci si preoccupava da una parte di ricostituire una centrale formalmente libera - altrimenti gli operai non vi avrebbero aderito - ma i cui organi centrali fossero saldamente nelle mani delle "tre correnti", cioè dei tre partiti PCI, DC, PSI. Recita il Patto di Roma:

     «Gli esponenti delle principali correnti sindacali dei lavoratori italiani, comunista, democratico cristiana e socialista (...) convinti che l’unità sindacale di tutti i lavoratori senza distinzioni di opinioni politiche e religiose è lo strumento più efficace all’opera immane di ricostruzione del paese (opera che sarà necessariamente imperniata sulle forze del lavoro), in unanime accordo dichiarano: 1) di realizzare l’unità sindacale mediante la costituzione per iniziativa comune di un solo organismo confederale per tutto il territorio nazionale (...); 3) Le correnti sindacali nominate costituiscono la direzione provvisoria dell’organizzazione che viene così composta: un comitato direttivo di quindici membri per ciascuna delle tre correnti, una segreteria generale provvisoria con poteri esecutivi, di tre membri, uno per ciascuna delle tre correnti (...) Con lo stesso criterio verranno formate le direzioni provvisorie delle federazioni nazionali e delle camere confederali del lavoro provinciali (...) A segretari generali vengono nominati: onorevole Giuseppe Di Vittorio, onorevole Achille Grandi, onorevole Emilio Canevari che rientrano subito in funzione.
     «La direzione provvisoria della CGIL si pone i seguenti obiettivi immediati: 1) Promuovere l’organizzazione e l’inquadramento del movimento sindacale in tutte le regioni liberate in uno con la rigorosa difesa degli interessi urgenti dei lavoratori; 2) Sostenere con tutte le proprie forze la guerra di liberazione nazionale onde affrettare la liberazione totale del paese, condizione pregiudiziale per la realizzazione dei postulati dei lavoratori; 3) Assicurare il massimo collegamento con le masse lavoratrici delle regioni occupate per aiutarle con mezzi adeguati alla lotta; 4) Studiare tutte le iniziative atte a preparare ed effettuare la ricostruzione del paese nel pieno riconoscimento del diritto del lavoro; 5) Elaborare un piano di ricostruzione del movimento cooperativo ispirandosi alle nuove esigenze poste dalla situazione; 6) Preparare un piano di trasformazione del sistema e degli istituti di previdenza sociale rivendicandone alla CGIL la direzione; 7) Rivendicare da subito la proprietà di tutti i beni già appartenenti alle disciolte organizzazioni fasciste; 8) Rivendicare dallo Stato il risarcimento dei fondi sottratti dai fascisti alle organizzazioni libere da prelevarsi dal ricavo della confisca degli illeciti patrimoni degli ex capi fascisti».
Anche se formalmente lo statuto si richiamava alla elettività delle cariche, di fatto la ripartizione delle cariche tra le "tre correnti" si estendeva fino alle infime strutture di fabbrica e in ogni posto di lavoro si cercava di imporre agli operai dei capi nominati dall’alto. Dal "Comunicato della Camera del Lavoro di Roma" del 14 giugno 1944: «Le Commissioni Interne sono per ora costituite dai Comitati Quadripartiti d’azienda, composti dai fiduciari dei quattro partiti [PCI, PSI, DC, Partito d’Azione, n.d.r.]; i Comitati Quadripartiti possono essere affiancati da altri collaboratori scelti fra gli esponenti delle correnti escluse dal quadripartito, fermo restando il principio che solo i Comitati Quadripartiti hanno la rappresentanza ufficiale e provvisoria dei lavoratori».

Il "per ora" si riferiva al Partito d’Azione perché soltanto un mese dopo, il 12 luglio 1944, un comunicato della Segreteria Nazionale della CGIL rendeva noto che «soltanto i rappresentanti delle tre correnti tradizionali dei lavoratori» potevano essere eletti nelle Commissioni Interne.

Quando diciamo che nel secondo dopoguerra i sindacati risorsero dall’alto, per iniziativa dello Stato borghese, "cuciti sul modello Mussolini", diretti continuatori delle corporazioni fasciste, non ci riferiamo soltanto alla loro politica nazionale, di pacificazione sociale, anticlassista, che facilmente si può leggere nelle dichiarazioni dei capi sindacali e del PCI. I dirigenti della nuova CGIL furono imposti alla classe dallo stesso governo Badoglio che pose Di Vittorio e compagnia a capo delle vecchie corporazioni, delle quali ereditarono tutti gli iscritti coatti. I dirigenti della nuova CGIL rivendicheranno sempre questa nomina, questa autorizzazione a rappresentare la forza lavoro, questi iscritti e, come vedremo, anche di fronte a organizzazioni spontanee e libere risorte nel Sud sulla spinta dei lavoratori, ma, ahimè, non "autorizzate".

Leggiamo la testimonianza – non sospetta – del Ministro delle Corporazioni Leopoldo Piccardi:

«Il mio compito di ministro del governo Badoglio fu grandemente agevolato dalla collaborazione che diedi a chi si sforzava di avviare l’esperimento del 26 luglio verso una soluzione democratica. Mi trovai ad essere l’ultimo ministro delle Corporazioni e il mio primo pensiero fu naturalmente di cambiare la denominazione del Ministero dell’Industria, del Commercio e del Lavoro (...)
«Ma l’occasione di una azione utile ai fini che la situazione imponeva era costituita dall’organizzazione sindacale che faceva capo a quel Ministero. Se non si poteva pensare per il momento alla restaurazione di sistemi elettorali ineccepibili con le maestranze, bisognava pensare il più sollecitamente possibile a sostituire gli uomini che erano posti a capo dell’organizzazione sindacale con altri scelti in base ad uno sforzo di interpretazione delle masse organizzate.
«Uno dei primi nomi che mi si presentarono fu naturalmente quello di Bruno Buozzi che, per la sua antica provenienza dalla FIOM e per tutto il suo passato di sindacalista, era più di chiunque altro adatto a dirigere la Confederazione dei lavoratori dell’Industria (...) Bruno Buozzi venne nel mio studio in Via Veneto accompagnato da quella stessa polizia che lo aveva custodito nel luogo di confino per alcuni anni; venne ad ascoltare che gli diceva questo sconosciuto Ministro di un nuovo enigmatico governo.
«Buozzi si dichiarò disposto a dare tutta la sua collaborazione chiedendo però che all’organizzazione sindacale fossero chiamati a partecipare anche i comunisti. Questa richiesta veniva accolta. Furono così posti a capo della Confederazione dei lavoratori dell’Industria un Commissario nella persona di Bruno Buozzi, e due vice Commissari, il Roveda, comunista, e il Quarello, democristiano. Sempre sulla base di uno sforzo di interpretazione di quello che poteva essere lo stato d’animo delle masse, si mise Achille Grandi, organizzatore democristiano, ex popolare, a capo della Confederazione dell’Agricoltura con vice Commissari Giuseppe Di Vittorio e Oreste Lizzadri; si mise Vanoni ai lavoratori del Commercio; Storoni ai Commercianti, De Ruggero alla Confederazione dei Professionisti e Artisti.
«Dopo aver fatto questo lavoro mi trovai lo strumento adatto per tenere i contatti con tutto il mondo antifascista e per offrire a mia volta al mondo antifascista una possibilità di influenza sull’andamento delle cose (...) Si arrivò alla stipulazione di un patto sindacale (...) nel quale i partiti antifascisti dichiaravano di essere disposti a dare la loro collaborazione al governo, s’intende, una loro responsabilità politica (...)
«Tralascio altre cose che vi sarebbero da dire per parlare degli scioperi di agosto, che costituivano per me e per chi collaborava con il governo Badoglio un altro problema di coscienza e responsabilità (...) Accadde a me di venire a Torino per cercare di farli cessare. In quella occasione ebbi compagni e collaboratori in piena unità di intenti Bruno Buozzi e Giovanni Roveda (...) Gli scioperi cessarono perché io detti l’assicurazione che l’Italia si stava avviando a prendere il suo posto accanto agli alleati contro la Germania» (Leopoldo Piccardi, "I 45 giorni del governo Badoglio" in "Trent’anni di Storia Italiana", Einaudi, 1961).
Il 19 settembre 1943, stanchi della guerra e dei bombardamenti, gli operai delle principali città del Nord erano infatti scesi in sciopero senza bisogno di "autorizzazioni" rivendicando:
     1. Immediata ed effettiva liberazione di tutti i detenuti politici.
     2. Scarcerazione di tutti gli operai arrestati.
     3. Allontanamento delle truppe dalle fabbriche.
     4. Immediata costituzione delle Commissioni Interne.
     5. Fine della guerra.
«Il pericolo che temevamo – dice Piccardi – era che una sollevazione dichiarata del Nord dividesse l’Italia in tre settori: i fascisti, che erano ancora forti, gli antifascisti, e in mezzo il governo che non era né fascista né antifascista. Andai nel Nord per vedere se era possibile indurre i lavoratori a sospendere lo sciopero, che nelle intenzioni doveva proseguire ad oltranza (...) C’erano una ventina di persone. Fu subito chiaro che le rivendicazioni salariali non avevano in quel momento peso fondamentale. Ciò che soprattutto premeva era che il governo facesse finire la guerra (...) Si convinsero a sospendere gli scioperi» (Dichiarazione a Sergio Turone in "Storia del Sindacato in Italia 1943-1969"). «La riunione fra Piccardi e gli esponenti operai si tenne nella prefettura di Torino. Buozzi e Roveda vi parteciparono senza prendere la parola».
L’opera dei Commissari Sindacali nominati dal governo Badoglio per conto di S.M. il Re fu subito rivolta a stroncare tutti i tentativi operai di organizzazione autonoma fuori dal controllo statale.
     «A Genova, durante i 45 giorni, l’organizzazione sindacale aveva prevalso sui partiti politici. I lavoratori genovesi (Ansaldo, Eridania, San Giorgio, Allestimento Navi...) avevano eletto ed imposto ai padroni le loro Commissioni Interne. Il 31 luglio un decreto del governo Badoglio ingiungeva il passaggio delle organizzazioni sindacali alle dipendenze dei prefetti. Non era consentito che i lavoratori scegliessero i propri rappresentanti».
Ai rappresentanti dei lavoratori il governo opponeva il proprio Commissario Sindacale.
     «Durante la repressione poliziesca – scrive Arturo Dellepiane – alcuni cittadini genovesi persero la vita. Infine il Commissario prefettizio, di fronte alla decisa azione dei lavoratori, si ritirò in buon ordine. Gli industriali genovesi riconobbero le Commissioni Interne e i rappresentanti sindacali».
Il vice Commissario alla Confederazione dell’Industria Roveda, del PCI, redarguì i rappresentanti operai genovesi «invitandoli a non intavolare trattative in sede locale e a lasciare alla organizzazione nazionale il compito di rivedere ogni forma di contratto» (Pietro Bianconi, "1943: La CGL sconosciuta").
Un’altra significativa testimonianza della connivenza dei capi sindacali opportunisti e del PCI con i fascisti è quella dell’ex direttore del "Lavoro Fascista" Luigi Fontanelli il quale, nell’ottobre 1943, in una relazione al segretario del ricostituito Partito Fascista, Pavolini, affermava: «Nelle organizzazioni sindacali affidate a elementi di sinistra si è potuto constatare: 1) Gli elementi estremisti, che pure avevano sulle loro spalle anni e anni di confino, di carcere, esilio, si sono mostrati straordinariamente obbiettivi. Essi hanno dichiarato che il sindacato sul terreno pratico non esisteva perché non si tenevano assemblee e non si facevano funzionare gli organi direttivi delle categorie, ma che molto buon lavoro era stato compiuto specialmente sul terreno giuridico in questi anni e che indubbiamente, nella grande maggioranza, i fascisti organizzatori sindacali erano, oltre che delle persone oneste in un periodo che si vuole di generale corruzione, dei sinceri sostenitori della funzione rivoluzionaria del sindacato e delle masse operaie. Questo l’atteggiamento di Buozzi, Roveda, ecc., espresso non soltanto in colloqui privati, ma nella stessa azione da essi svolta».

L’accordo sul riconoscimento delle Commissioni Interne fu firmato tra i Commissari Sindacali e la Confindustria il 2 settembre 1943 «sotto gli auspici di S.E. il Ministro delle Corporazioni, Dott. Leopoldo Piccardi».

Pochi giorni dopo il re e i suoi generali se la sarebbero squagliata brillantemente, facendo fessi i Commissari Sindacali che pure avevano con tanto impegno collaborato per salvare la continuità della monarchia.

Le truppe tedesche si occuparono di quella operazione di polizia nei confronti degli operai che lo Stato italiano non era stato in grado di fare: il 12 settembre una ordinanza del Maresciallo Kesserling avvisava che tutto il territorio controllato dalle sue truppe era soggetto «alle leggi tedesche di guerra» per cui «i promotori e gli organizzatori di scioperi» sarebbero stati fucilati.

Non per questo finì la collaborazione tra i capi opportunisti di PCI e PSI e gli sgherri più astuti del fascismo e della monarchia. Alla presidenza del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale fu posto Ivanoe Bonomi, quello stesso che, Ministro della guerra nel 1920, dispose con una circolare che tutti gli ufficiali dell’esercito in via di smobilitazione (circa 60.000) fossero inviati nei centri più importanti con l’obbligo di aderire ai fasci di combattimento. Quello stesso che «aveva armato i fascisti nell’autunno del 1920, come Ministro della Guerra, aveva fatto la campagna elettorale a braccetto con Farinacci nella primavera del 1921. Aveva lasciato mani libere ai fascisti e generali alleati coi fascisti durante il suo ministero dal luglio 1921 al febbraio 1922 (...) I fascisti gli facevano le dimostrazioni dovunque andava e gridavano: "viva la dittatura militare" e lui ringraziava» (Gaetano Salvemini, "Lettera a Bauer, Lussu, Comandini"). Oltre che rappresentante ufficiale delle forze antifasciste lo stesso Bonomi fu a capo del governo dal giugno ’44 al giugno ’45, sempre con la collaborazione dei capi sindacali, del PCI, del PSI.

La consegna delle forze borghesi e opportuniste era allora una sola: assicurare il cambiamento di governo, sostituire i fascisti più compromessi e più odiati, ma salvare la continuità dello Stato e quindi degli interessi delle banche, dell’industria, della proprietà terriera. Il pericolo era che la classe operaia approfittasse della momentanea debolezza statale per imporre le proprie rivendicazioni, per fare le sue vendette contro gli sfruttatori e i parassiti. Da qui la necessità di tenerla saldamente sotto controllo, di impedire che si desse una propria organizzazione. Da queste premesse nacque la nuova Confederazione Generale Italiana del Lavoro, filiazione diretta delle Corporazioni fasciste.
 
 

4. GLI SCIOPERI NELLE GRANDI FABBRICHE DEL NORD
 

Marzo 1943

Già nella prima metà del ’42 si verificarono i primi scioperi nelle fabbriche del Nord. All’Alfa Romeo di Milano e alla Tedeschi di Torino ebbero relativo successo, furono stroncati alla Fiat Mirafiori e all’Ilva di Milano.

L’"Unità" dell’ottobre 1942 scriveva: «Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da una crescente ondata di movimenti degli operai delle maggiori città industriali d’Italia. Questi movimenti, determinati per lo più dal razionamento, dai salari inadeguati al costo della vita, e dai tentativi di diminuire le paghe, sboccano sovente nello sciopero».

Nel marzo 1943 l’avvio venne dalla Fiat Mirafiori di Torino. Era prevista la data del primo marzo ma la direzione prevenne lo sciopero annunciando un aumento salariale di 50 lire come acconto sui miglioramenti futuri. Fu allora rimandato lo sciopero al giorno 5 e riuscì soltanto in alcune officine. Il segnale d’inizio avrebbe dovuto essere la sirena di prova d’allarme che in tutta Italia suonava alle 10. Essendo trapelata questa notizia, le autorità decisero di far tacere la sirena. Lo sciopero tuttavia ci fu anche in altre fabbriche, come per esempio alla Lingotto dove, racconta Ruffa, uno degli organizzatori, «non ci vollero molte discussioni: partimmo in cinque o sei, non di più, e la fabbrica nel giro di pochi minuti venne bloccata».

Nei giorni 8 e 12 marzo la partecipazione divenne massiccia. Magno Barale, uno dei protagonisti, poi arrestato e deferito al tribunale speciale, ricorda: «Nella mia vita di operaio ho partecipato a tanti scioperi, ma non ho mai visto una partecipazione così totale. Tutti si fermarono e devo precisare che alla Fiat Ricambi eravamo soltanto in tre a non avere la tessera del Partito Fascista».

La questura di Torino ricorse al trucco di convocare «per l’esame delle richieste» i rappresentanti degli operai e, naturalmente, li arrestò. Tuttavia lo sciopero continuava. «Vivace e dura fu anche la partecipazione delle operaie alle giornate di Torino. Fu in molti casi l’irruenza delle donne a sconcertare i poliziotti e a far fallire la loro opera di intimidazione. Tra gli arrestati ci furono quattro operaie» (Sergio Turone, "Storia del Sindacato in Italia").

Il giorno 17 giunse a Torino il vicesegretario del Partito fascista Carlo Scorza il quale ordinò a tutti gli operai iscritti di indossare la camicia nera «anche sui luoghi di lavoro». Nessuno obbedì.

Il giorno 24 lo sciopero si estese a Milano alla Pirelli, alla Falk, alla Magneti Marelli; poi in altre zone della Lombardia e anche in Liguria.

Un volantino diffuso in Piemonte diceva: «Operai, impiegati! Il governo di Mussolini, responsabile di aver trascinato il nostro paese in una guerra ingiusta e rovinosa, vuole farci morire di fame, dandoci degli stipendi irrisori, pagandoci con assegni in luogo di moneta e allungando a 12 ore la giornata lavorativa. Smettiamo di lavorare, prepariamo lo sciopero. Manifestiamo in tutti i modi per esigere che il nostro salario sia corrisposto in moneta».

Una delle maggiori rivendicazioni era quella delle 192 ore, cioè dell’indennità di fine anno o tredicesima (ma com’erano "corporativi" questi operai del ’43!). Mussolini in una delle sue ultime smargiassate disse: «Dichiaro nella maniera più esplicita che non darò neppure un centesimo. Noi non siamo lo Stato liberale che si fa ricattare da una fermata di un’ora di lavoro in un’officina» (Giuseppe Bottai, "Vent’anni e un giorno").

Un tentativo di far cessare lo sciopero con qualche concessione c’era stato alla Riv di Villar Perosa quando Agnelli in persona aveva proposto agli scioperanti un aumento giudicato accettabile; ma lo sciopero si estendeva e gli operai rifiutarono.

Altri episodi: «Il 27 marzo alla Bianchi di Milano lo sciopero aveva avuto inizio da mezz’ora, quando, in divisa grigioverde, giunse davanti alla fabbrica un gruppo di mutilati. Il tenente che li guidava parlò da un altoparlante illustrando i sacrifici che stavano compiendo i soldati al fronte. A nome degli scioperanti rispose un operaio, illustrando le condizioni misere delle famiglie dei lavoratori, fra miseria, disagi della guerra, pericolo del bombardamento, sfollamenti. I mutilati si allontanarono in silenzio. Lo stratagemma emotivo fu tentato anche con altre fabbriche. Il 29 marzo alla Caproni di Milano i mutilati furono accolti dagli applausi degli scioperanti e fu un’operaia ad apostrofarli: Non aspettavamo voi, voialtri siete dei disgraziati come noi. Sono i padroni e i gerarchi fascisti che debbono venire, sono essi che accumulano quattrini sul vostro sangue e sul nostro sudore».

Intanto i giornali riferivano della visita a Milano del Sottosegretario Tullio Cianetti che si era recato «in alcuni stabilimenti industriali, dove ha rivolto alle maestranze parole di incitamento e di fede che hanno provocato nelle masse una profonda eco di volontà e di lavoro». In realtà, dove si fece vedere, il Cianetti fu sonoramente fischiato. «Allo sciopero parteciparono compatti anche quei nuclei di operai che passavano per fascisti, e probabilmente credevano di esserlo. Il fatto fu riferito da Tullio Cianetti nella deposizione al processo di Verona del 1944».

Carmine Senise, capo della polizia di Torino, scrive nelle sue memorie che alla Fiat esisteva una apposita legione della milizia fascista, la "18 novembre", «costituita interamente di operai di quegli stabilimenti, creata d’accordo fra il Partito e i dirigenti di quell’industria allo scopo di controllare il comportamento politico della massa: ebbene, i militi parteciparono allo sciopero come tutti gli altri operai» (Carmine Senise, "Quando ero capo della Polizia").

Gli operai in quella occasione dettero prova di compattezza e di una forza irresistibili; il governo fascista era troppo debole per resistere alla loro pressione. Infatti il "duce" dovette rimangiarsi la parola: gran parte delle rivendicazioni furono accettate e solo allora lo sciopero cessò.
 

Agosto 1943

Ma la guerra continuava. Il 19 agosto 1943, dopo i massicci bombardamenti su Milano, Torino, Bologna, gli operai dei maggiori centri del Nord scesero in sciopero chiedendo il riconoscimento delle Commissioni Interne (che erano state abolite nel 1925), la liberazione degli operai arrestati e dei detenuti politici, l’allontanamento delle truppe e degli squadristi dalle fabbriche, la fine della guerra. Fu in quell’occasione che Piccardi, l’ultimo ministro delle Corporazioni, si recò a Torino per convincere gli operai a cessare lo sciopero. In quella occasione fu accompagnato da Buozzi (PSI) e Roveda (PCI), Commissari Sindacali delle Corporazioni nominati dal governo Badoglio.

La presenza dei due bonzi socialcomunisti spinse gli operai a fidarsi delle promesse e a cessare lo sciopero. Che cosa ci guadagnarono fidandosi di questi traditori lo si vide pochi giorni dopo con la fuga dell’8 settembre di Badoglio, del Re, dei suoi generali, la calata delle truppe del Maresciallo Kesserling, la formazione della repubblica di Salò, la continuazione della guerra, la pena di morte e la deportazione per gli scioperanti.

Ma né le pressioni né l’estremo tentativo dei fascisti di ingraziarsi le classi lavoratrici con la costituzione della Repubblica "sociale" riuscirono a fermare gli operai.

Uno dei primi atti del governo di Salò fu di dichiarare che le Commissioni Interne sarebbero state mantenute in quanto rappresentavano «una necessità organizzativa, nonché una garanzia e forse la maggiore, che i diritti riconosciuti ai lavoratori, riconosciuti nei patti liberamente stabiliti, non vengano manomessi nell’applicazione che se ne fa nelle aziende» ("Corriere della Sera" del 15 novembre 1943).

Ma questi tentativi del governo fascista non ebbero alcun effetto: per esempio alla Innocenti di Milano, per il rinnovo delle Commissioni Interne, su 5.000 aventi diritto di voto, i fascisti poterono raccogliere solo 297 schede delle quali solo 14 valide, le altre annullate con frasi di dileggio o richieste di aumenti salariali.
 

Novembre 1943

Il 2 novembre scesero in sciopero gli operai della Breda di Milano: chiedevano la rivalutazione dei salari e il pagamento delle ore nelle quali l’azienda sospendeva la produzione. Il 18 scioperarono gli operai della Fiat di Torino contro l’ordine di restare sul posto di lavoro durante i bombardamenti, e per protesta contro il razionamento dei generi alimentari. I rappresentanti degli operai si incontrarono per le trattative sul razionamento con le autorità tedesche, le rivendicazioni furono in gran parte accolte e lo sciopero cessò il 1° dicembre 1943, dopo una dimostrazione di forza delle truppe tedesche attorno a Mirafiori.

Proprio nello stesso momento a Milano l’agitazione si estendeva; queste le rivendicazioni degli operai milanesi: «1) aumento della razione di pane a gr. 500 per tutti gli operai e impiegati e aumento del 100% dei generi alimentari in genere; 2) aumento degli stipendi e salari del 100%; 3) pagamento di 192 ore agli operai della gratifica natalizia; 4) pagamento del premio di L. 500 da effettuarsi subito; 5) controllo assoluto della mensa aziendale; 6) abolizione dei pagamenti di ricchezza mobile, contributi sindacali e dopolavori; 7) cessazione assoluta dei licenziamenti: ai sospesi sia pagato il 75% dalla cassa integrativa e il 25% dalla ditta stessa del minimo di ore 40; 8) minimi di orario affinché tutti godano di 6 giorni di presenze la settimana». Come si vede sono proprio quelle "basse e volgari" rivendicazioni materiali contro le quali gli odierni bonzi sindacali si scagliano e che sono tanto disprezzate da gruppuscoli intellettualoidi.

Sesto S. Giovanni era la roccaforte operaia. Dopo 4 giorni intervennero i tedeschi: vi furono alcuni arrestati, poi rilasciati. Il console tedesco, in piedi su un carro armato, parlò agli scioperanti: se il lavoro fosse ripreso subito avrebbero ottenuto gli stessi miglioramenti avuti dagli operai torinesi; in caso contrario sarebbero stati chiusi gli stabilimenti, le mense, i negozi di generi alimentari e sospesa la paga. «Alle 11,30 arriva il generale Zimmerman il quale intima: chi non riprende il lavoro esca dallo stabilimento; chi esce è dichiarato nemico della Germania. Tutti gli operai escono dallo stabilimento» ("Il grande sciopero di Milano" in "Nostra lotta", gennaio ’44).

Ecco un altro episodio riferito dalla nostra rivista "Prometeo" del dicembre 1943:

«Falk (Sesto S. Giovanni): scoppiato lo sciopero lunedì il direttore del nostro stabilimento ci ha parlato facendoci promesse e minacciandoci nello stesso tempo che i tedeschi sarebbero intervenuti se non avessimo ripreso il lavoro. Le sue parole furono accolte da sonori fischi e lo sciopero continuò. Quand’ecco entra nel cortile un carro armato tedesco, ne esce un ufficiale che getta sigarette agli operai; ma noi tutti protestiamo e c’è chi gli dice di puntare i cannoni verso la direzione (...) Mercoledì sera, alle ore 20, giunge tra noi l’ingegnere capo Maino che ci annuncia l’imminente arrivo dei tedeschi. Poco dopo un plotone di carabinieri entra nello stabilimento e arrestano 10 operai. Tre di questi vengono prelevati dal maresciallo che guidato dall’ingegner Maino li consegna ai tedeschi, mentre noi liberiamo gli altri sette. Il mattino successivo si attende l’arrivo dell’ingegner Maino; infatti appena giunto, egli cerca di scolparsi, ma viene preso a sassate e arrestato come ostaggio, fintantoché non verranno liberati gli altri compagni. E così avviene: tuttavia la richiesta della liberazione di altri tre compagni arrestati alcune settimane prima viene respinta perché trattasi (dicono gli sgherri) di arrestati per motivi "politici". L’irritazione dei nostri compagni è massima. Il sabato lo sciopero perdura e tutti sono fermamente decisi a continuare al lunedì fintantoché non si otterranno gli aumenti richiesti».
Sempre da "Prometeo" ecco il testo di un volantino lanciato allora dal nostro partito agli operai milanesi:
     «Operai Milanesi! Voi avete incrociato le braccia. Soddisfatte o no le vostre richieste di oggi, voi vi muovete fatalmente in un vicolo cieco e sarete in breve costretti ad incrociare ancora le braccia. Perché i capitalisti e il governo nazifascista, responsabili della guerra, sono incapaci non solo di risolvere la tremenda crisi che ha polverizzato l’economia nazionale, ma persino di sfamare voi e le vostre famiglie, costringendovi ancora a fabbricare cannoni per la guerra.
     «Operai! Un solo mezzo avete per uscire dalla crisi: fate della vostra forza di classe una cosciente forza rivoluzionaria. Solo unendovi compatti contro la guerra, contro il capitalismo, contro gli sfruttatori di ogni colore che si servono delle vostre braccia e della vostra vita per la loro lotta criminale di dominio, solo spostando la vostra azione dal terreno economico a quello politico, riuscirete a spezzare le catene che ancora vi imprigionano.
     «Operai! Al capitalismo, colpito a morte dalla sua stessa guerra, contrapponete ora la vostra capacità e la vostra forza di nuova classe dirigente. Contro il fascismo, che vuole la continuazione della guerra tedesca, e contro il fronte nazionale dei sei partiti, che vuole la continuazione della guerra democratica, voi organizzatevi sul posto di lavoro, cementate in un Fronte unico proletario i vostri comuni interessi, il vostro stesso destino di classe che vi indica come già iniziata la lotta decisiva per la conquista del potere.
     «Il Partito Comunista Internazionalista è al vostro fianco. Abbasso la guerra fascista! Abbasso la guerra democratica! Viva la rivoluzione proletaria!».
A Genova gli scioperi iniziarono in ritardo, il 16 dicembre, ma furono caratterizzati da scontri molto più duri.

Il giorno prima, il 15, il ministro von Ribbentrop telegrafava all’ambasciatore tedesco a Roma: «Sono d’accordo che voi portiate gli scioperanti davanti alle Corti Marziali e arrestiate qua e là, per dare un esempio, un migliaio di persone, inviandole come internati militari in Germania. Il Führer inoltre vi dà poteri per arrestare i caporioni e fucilarli subito come comunisti».

Il 17 furono arrestati e fucilati tre operai a Pontedecimo e Bolzaneto. Il 20 tutta Genova era in sciopero. Nei giorni attorno a Natale a Genova e in altri centri come Savona si verificarono scontri armati con perdite da ambo le parti. Scontri, scioperi, attentati, fucilazioni, proseguirono nel mese di Gennaio.

Proprio in questo inizio del 1944 il regime fascista, nella speranza di legare a sé gli operai, giocava la carta della "socializzazione", insieme naturalmente a quella tradizionale della repressione. Con il Decreto legislativo sulla socializzazione delle imprese del 12 febbraio 1944 si stabiliva che organi dell’impresa socializzata erano: il capo dell’impresa, l’assemblea, il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale. All’assemblea «partecipano i rappresentanti dei lavoratori con un numero di voti pari a quelli del capitale intervenuto». Il consiglio sarebbe stato formato «per metà dai rappresentanti dei soci e per metà dai rappresentanti dei lavoratori».

Anche qui abbiamo una bella dimostrazione di come gli attuali bonzi sindacali siano dei buoni allievi di Mussolini; è il fascismo che ha inventato la cogestione, la "partecipazione dei lavoratori" all’impresa, l’ingresso dei sindacati nei consigli di amministrazione, insomma quello che oggi si chiama "sindacalismo responsabile". Non a caso Sergio Turone, l’autore del testo che utilizziamo ampiamente, iscritto al PSI, definisce questo decreto «non privo di una potenziale volontà innovatrice».

Ma questo tentativo di coinvolgere i lavoratori nella gestione del loro sfruttamento non poteva riuscire ai fascisti; avrebbero avuto in seguito miglior fortuna i democratici. In un rapporto del 20 giugno 1944, il capo della Federazione fascista degli impiegati Anselmo Vaccari scriveva: «I lavoratori considerano la socializzazione uno specchio per le allodole e si tengono lontani da noi e dallo specchio».
 

Marzo 1944

La mancanza dei generi di prima necessità e la conseguente impennata dei prezzi presto vanificarono gli aumenti salariali ottenuti. La guerra e i bombardamenti continuavano e cresceva il malcontento fra gli operai. Il 10 febbraio ’44 il Comitato segreto di agitazione del Piemonte, Lombardia, Liguria, diffuse un manifesto in cui, oltre alle rivendicazioni economiche, si preannunciava lo sciopero generale. L’appello allo sciopero fu discusso e accettato dai rappresentanti delle più grandi fabbriche. Il CLNAI si associò all’azione. I partiti del CLN cercavano in questo modo di prendere sotto il loro controllo le agitazioni operaie e da un lato utilizzarle per coadiuvare gli eserciti angloamericani, dall’altro acquistarsi l’influenza necessaria per far sgobbare gli operai anche dopo il crollo dei fascisti. Soltanto i comunisti rivoluzionari ebbero il coraggio di affermare che la classe operaia non doveva stare né dalla parte dei tedeschi né da quella degli americani, ma combattere solo per sé, per la sua guerra di classe.

Lo sciopero ebbe successo, si parla di un milione di scioperanti nell’Italia occupata dai tedeschi. Né le minacce né le deportazioni riuscivano a fermare la marea. Date le circostanze, dato che alla base dello sciopero erano anche rivendicazioni di carattere politico quali il rifiuto di continuare a produrre per la guerra, dato che questa agitazione veniva dopo due precedenti scioperi che, pur vittoriosi, avevano dimostrato praticamente che la questione centrale stava nell’abbattimento del regime fascista, la continuazione dello sciopero avrebbe senza dubbio significato lo sfociare nell’insurrezione armata. Ma questo sarebbe stato troppo pericoloso; gli operai, abbattuti i fascisti, non si sarebbero fermati e non si sarebbero sottomessi facilmente al fronte nazionale comprendente la monarchia, il clero, ex funzionari fascisti convertiti all’ultimo momento, generali badogliani.

Ecco perché i partiti del CLNAI non dettero la parola d’ordine dell’insurrezione; sarebbe stato per essi e per la borghesia, che rappresentavano, estremamente pericoloso lo scoppio di una insurrezione operaia prima dell’arrivo delle truppe alleate. Lo Stato della borghesia italiana non aveva la forza di "mantenere l’ordine", cioè di salvaguardare le proprietà e gli interessi dei borghesi. La cosa più pericolosa da questo punto di vista sarebbe stato il costituirsi di milizie operaie che, anche se non si poteva pensare ad uno sbocco rivoluzionario, avrebbero costituito un grave pericolo per l’incolumità delle classi che si erano arricchite protette dal fascismo.

Per questo i partiti del CLN troncarono dopo una settimana lo sciopero dando agli operai l’ordine di smobilitare. L’8 marzo diffusero un manifesto in cui si diceva: «I comitati di agitazione che vi hanno chiamato allo sciopero, vi chiamano ora alla preparazione di questa lotta decisiva. Rientrate nelle officine e negli uffici, riprendete il lavoro, ma rientrate non per capitolare di fronte alla prepotenza avversaria, ma per prepararvi a rispondere alla forza con la forza». Dovevano essere le truppe angloamericane, con le quali la borghesia italiana era ora alleata, e non gli operai a controllare la piazza. La guerra di classe non doveva sconvolgere i piani della guerra tra gli Stati.

In una pubblicazione del PCI, a commento di questo sciopero preso in mano e stroncato dal CLN, si legge: «Già otto o dieci giorni prima dello sciopero noi ci eravamo accorti che idee confuse sul suo carattere andavano facendosi strada e le nostre organizzazioni cercarono di precisare il carattere rivendicativo-politico del movimento. Si disse chiaramente che questo non avrebbe potuto essere ancora lo sciopero insurrezionale. Ma quest’opera di chiarificazione non fu abbastanza lunga e sufficiente» ("La nostra lotta, marzo ’44").

Gli operai del Nord avevano ampiamente dimostrato di essere pronti anche a sfidare le truppe tedesche ormai non più soltanto per rivendicazioni salariali, ma per imporre la fine della guerra. I falsi partiti operai volevano invece farli combattere sul fronte dell’imperialismo angloamericano per consentire alla borghesia italiana di presentarsi, alla fine della guerra, dalla parte dei vincitori; per questo stroncarono qualsiasi tentativo autonomo classista del proletariato.

Il trapasso dal regime fascista a quello postfascista doveva essere il più graduale possibile e senza scosse. Dopo la ingloriosa fuga del re e del governo Badoglio a mantenere l’ordine nelle fabbriche arrivarono le truppe tedesche; e senza soluzione di continuità alla ritirata delle truppe tedesche avrebbero dovuto immediatamente subentrare quelle alleate, a salvaguardare la vita e i beni dei padroni che avevano fatto buoni affari all’ombra del regime fascista e che faranno altrettanti buoni affari all’ombra di quello democratico.

I partiti opportunisti hanno qualche difficoltà nel rievocare questi significativi avvenimenti e in genere preferiscono ignorarli. Infatti queste ondate di scioperi, che fanno parte della nostra tradizione rossa e smentiscono tutte le loro tesi, dimostrano che:
     - i proletari combattono meglio da soli, senza "alleati";
     - sono uniti sulla base dei loro bisogni materiali, indipendentemente dalle idee politiche;
     - quando sono uniti si muovono molto bene anche sotto le dittature, non hanno bisogno delle libertà democratiche, non temono le repressioni, sanno difendersi ed attaccare;
     - non abbisognano delle libertà borghesi di parola, di stampa o di voto per chiedere le "libertà proletarie" di un salario adeguato e di condizioni di lavoro umane, quelle libertà che il regime capitalista, sia con la gestione fascista sia con quella democratica, negherà sempre.
 
 

5. LA LIQUIDAZIONE DELLA CGL ROSSA DI NAPOLI
 

Abbiamo visto nei precedenti articoli come a Napoli, arrivate le truppe alleate, i proletari avessero immediatamente ridato vita alla Camera del Lavoro e come ben presto si arrivasse alla costituzione della CGL rossa che raccoglieva numerose leghe e Camere del Lavoro del Sud.

Questa organizzazione, nata sull’onda della spinta dei lavoratori, aveva subito rivendicato un carattere proletario e classista e manteneva un atteggiamento ostile nei confronti del governo Badoglio, del quale facevano parte PCI e PSI. Al Congresso di Salerno del 18-20 febbraio 1944 era stata votata una mozione nella quale si dichiarava di «non riconoscere alcun programma di ricostruzione nazionale che tenda a rivalutare la proprietà privata ed a ricostruire il privilegio del capitale sul lavoro».

Si capisce bene come questa organizzazione dovesse suscitare l’odio del PCI. Appena arrivato in Italia, alla fine di marzo, Togliatti dichiarò che il PCI non aveva nessuna intenzione di ispirarsi a «un sedicente interesse ristretto di classe» ("Unità", 2 aprile ’44). Il picciista Pesenti, sottosegretario delle Finanze nel governo Badoglio, dichiarava che le linee dell’azione del governo erano: «La difesa della proprietà dello Stato, la ricostruzione delle risorse nazionali, il potenziamento delle forze produttive per dare pane e lavoro al popolo e per aumentare la quantità dei prodotti» ("Unità", maggio ’44). Giorgio Amendola, commentando questo periodo in "Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale", affermava: «I nostri compagni dirigenti furono costretti a battersi contro gli elementi estremisti i quali parlavano nientemeno di dichiarare deposta la monarchia».

Il sorgere della CGL di Napoli era un precedente pericoloso perché cozzava contro il progetto di costituzione del sindacato tricolore sancito nel Patto di Roma che, come abbiamo visto, con l’accordo del PCI, del PSI, della DC e con il benestare del Vaticano, prefigurava l’unità sindacale dall’alto, sotto il controllo dello Stato. Perciò contro la CGL iniziò immediatamente un’offensiva animata soprattutto dagli stalinisti del PCI: campagna diffamatoria, pressioni personali, tentativo di corruzione con l’offerta di posti, rivendicazione delle nomine a "Commissari Sindacali" ricevute dal governo Badoglio.

Il "Bollettino di Partito", mensile della direzione del PCI, n. 1 dell’agosto del 1944 così si esprime sui dirigenti della CGL rossa: «Si tratta di alcuni rinnegati espulsi dal nostro partito, capitanati da un elemento estraneo alla classe operaia piovuto di recente d’oltre mare (...) Costoro nel vano tentativo di conservare le proprie posizioni personali arraffate in un primo momento di confusione, si schieravano immediatamente contro il Patto di Roma».

Era gente che sosteneva la monarchia e collaborava con un governo composto di quegli stessi generali che poco prima, con l’aquila imperiale sul cappello, avevano portato al macello i proletari italiani. Tra questi spiccava il Ministro della Guerra Taddeo Orlando, denunciato dagli sloveni come criminale di guerra. Notevole anche la presenza del consigliere Pippo Naldi, finanziatore del "Popolo d’Italia" di Mussolini, e del Ministro Renato Prunas, già ambasciatore fascista a Madrid.

A quei socialisti e azionisti che non volevano entrare nel governo dei militari Togliatti aveva replicato: «Ci sono dei buoni italiani anche fuori dei nostri sei partiti, se vogliamo una politica di unità nazionale dobbiamo pur prenderli in considerazione» (Aurelio Lepre, "La svolta di Salerno"). Giustamente, questi erano i "buoni italiani", mentre i "rinnegati" di cui parlava il PCI erano in gran parte vecchi militanti comunisti che avevano conosciuto le galere fasciste.

L’"Unità" del 21 maggio affermava che i dirigenti della CGL eletti al congresso di Salerno dovevano essere sconfessati e si doveva tenere al più presto «sulla base del tesseramento, la libera elezione dei dirigenti». Naturalmente, il tesseramento al quale si riferiva l’Unità era quello coatto delle corporazioni fasciste delle quali, con la nomina a Commissari Sindacali, gli uomini del PCI avevano ereditato la "legittima rappresentanza".

Saputo dai giornali del Patto di Roma, i dirigenti della CGL espressero, ingenuamente, il loro disappunto di non essere stati consultati, e la convinzione che si fosse spartita la rappresentanza dei lavoratori tra le correnti politiche. Tuttavia affermarono la volontà «1) di stabilire al più presto contatti con i lavoratori di Roma e oltre Roma, di tutta l’Italia e di estendere così il lavoro a tutta l’Italia liberata; 2) di preparare, in accordo con i compagni dell’Italia liberata, la consultazione degli organi periferici attraverso congressi regionali da convocare possibilmente entro un mese, i quali discutano i problemi sindacali e organizzativi e designino un rappresentante per ogni provincia a far parte del Consiglio Nazionale».

Il 26 giugno un gruppo dei sindacalisti, che già si erano organizzati a Bari, passavano in blocco alla CGIL di Roma, rivendicando la nomina ricevuta da Badoglio e la rappresentanza di 150.000 tesserati, il numero degli iscritti alla vecchia corporazione fascista. Essi dichiararono i dirigenti della CGL «non autorizzati e usurpatori del titolo di dirigenti». Sul settimanale del PCI "Azione Proletaria" del 15 giugno 1944 si legge: «Si porta a conoscenza dei contadini, degli impiegati e degli operai che la Confederazione Generale del Lavoro di Napoli è un organismo che si propone di intaccare la unità e la concordia delle classi lavoratrici. La Confederazione di Bari invece rappresenta e tutela gli interessi della classe lavoratrice».

Intanto, mentre da una parte si aprivano finte trattative col dirigente della CGL Dino Gentili per discutere i criteri di rappresenta dei lavoratori meridionali e facendo balenare la possibilità di un riconoscimento dei dirigenti della CGL napoletana, dall’altra la CGIL di Roma, all’insaputa di questi, annunciava la convocazione di un congresso sindacale meridionale.

Così commentava "Battaglie Sindacali" del 20 agosto: «I rappresentanti della CGIL fanno annunciare un congresso che dovrebbe tenersi alla fine di Ottobre, senza previa consultazione con noi. Evidentemente essi preferiscono manovrare il congresso senza controlli ed organizzarlo totalitariamente da Roma. Intanto essi continuano l’opera disgregatrice dell’organizzazione, attraverso pressioni e minacce sui compagni organizzatori perché aderiscano a Roma e facciano aderire le rispettive organizzazioni. Si forzano così deliberazioni determinate dalla paura, dalla non conoscenza dei fatti, dal mimetismo, poggiate in una parola su tristi residui che il fascismo ha lasciato nella fibra degli italiani».

Parallelamente, come è facile immaginare, erano esercitate pressioni individuali sui dirigenti della CGL e in particolare sui vecchi militanti del PCI, minacciati di espulsione. Vi furono perciò le dimissioni di Vincenzo Iorio, segretario della Camera del Lavoro di Napoli, di Vincenzo Bosso, segretario dei Postelegrafonici, del membro del direttivo della Confederazione Vincenzo Gallo costretto dal PCI a scrivere ben due lettere di abiura.

La CGL decise perciò di convocare a Napoli per il 27 agosto un convegno dei rappresentanti delle leghe e delle organizzazioni territoriali per discutere il da farsi. Poco prima del convegno, in una lettera a Enrico Rosso, Di Vittorio, Lizzadri, Grandi, dopo aver affermato che la Confederazione di Napoli, dopo le dimissioni di una parte dei suoi dirigenti e il voto di adesione alla CGIL di Roma di altri, «non ha più ragione di essere», continuavano: «Ti informiamo – e ti preghiamo di informare gli altri membri del consiglio direttivo della confederazione che fossero ancora formalmente in carica – che nei prossimi giorni una rappresentanza della nostra segreteria confederale si recherà a Napoli e domanderà naturalmente la consegna del materiale appartenente alla ex Confederazione napoletana. In pari tempo ti preghiamo di cessare la pubblicazione di "Battaglie Sindacali" la cui testata appartiene di diritto all’unica confederazione del lavoro esistente oggi in Italia».

Al Convegno di Napoli del 27 erano presenti oltre cento delegati delle Leghe e i segretari di numerose Camere del lavoro. Aprendo i lavori a nome del direttivo, Dino Gentili affermava: «non ci restano che due vie, o restare come CGL o entrare nella CGIL. La prima via è impossibile oltre che per le enormi difficoltà, specie di ordine finanziario, anche e soprattutto perché l’esistenza di due Confederazioni Generali del Lavoro creerebbe col tempo una vera scissione del movimento sindacale. Resta la seconda via: bisogna che tutte le nostre organizzazioni entrino nella CGIL (...) Questo è l’invito del Comitato Direttivo della nostra Confederazione». Alla fine il convegno prese la seguente decisione: «Il convegno elegge un Comitato di collegamento per la difesa dei principi di unità, democrazia ed essenza classista del movimento sindacale, nel seno della CGIL, e per rappresentare all’interno di essa i gruppi di minoranze dell’Italia liberata che vi entreranno allo scopo di realizzare l’unità di tutti i lavoratori in un unico meccanismo. Esso prende la denominazione di Comitato della Sinistra Sindacale».

I dirigenti della CGL, mentre si sottomettevano alla ingiunzione di scioglimento venuta da Roma, esprimevano la volontà di continuare la battaglia come frazione classista in seno alla CGIL. Ma neanche il Comitato della Sinistra Sindacale fu riconosciuto dai gerarchi romani. In proposito Di Vittorio dichiarava: «La mozione votata al convegno di Napoli del 27 agosto è pur sempre una mozione di carattere scissionista perché con l’affermazione del postulato della lotta classista accentua in questo senso le posizioni di una parte delle forze proletarie e mira a provocare la scissione con i democristiani che non possono seguire su questo piano il sindacalismo» ("Battaglie Sindacali", 17 settembre ’44).

Così, liquidato il debole ma generoso tentativo di ricostruzione della CGL rossa, gli eredi legittimi delle corporazioni fasciste potevano in tutta tranquillità approntare gli strumenti per contenere e ingabbiare le lotte proletarie.
 
 

6. LA POLITICA DEI SACRIFICI - 1945
 

1945: I Consigli di gestione

Dopo la ritirata delle truppe tedesche dal Nord Italia il primo problema che si presentò ai partiti del CLN era quello di ristabilire l’efficienza produttiva delle fabbriche e la disciplina del lavoro. I padroni si erano prudentemente messi da parte per paura di vendette da parte degli operai che li avevano visti arricchire protetti dalle squadracce nere. È significativo l’episodio del 12 maggio ’45 alla Fiat di Torino dove il vecchio dirigente Valletta osò partecipare ai funerali di due operai uccisi dai tedeschi e fu salvato per un pelo, immobilizzando un operaio che stava per ucciderlo a colpi di mitra.

I partiti del CLN erano ben lontani dal voler colpire le classi possidenti e lo avevano ampiamente dimostrato collaborando per il salvataggio della monarchia, cioè della continuità dello Stato, con i governi Badoglio e Bonomi, ex arnesi fascisti. Riconsegnare le fabbriche ai vecchi padroni avrebbe però significato scatenare la collera degli operai, già allora in movimento, in una situazione di estrema debolezza dello Stato. Ciò avrebbe significato non certo la rivoluzione ma una situazione di continui disordini e rivolte armate che avrebbe messo a repentaglio non solo i beni ma la stessa incolumità fisica di borghesi e fondiari.

Perciò in questo periodo i padroni delle fabbriche si guardarono bene dal rivendicare le loro proprietà e se ne stavano rintanati lasciando fare al PCI, al PSI, alla CGIL che gliele riconsegneranno tre anni dopo con gli impianti intatti, spesso rinnovati e ampliati, con le maestranze ben disciplinate e pronte a farsi di nuovo sfruttare per salari da fame.

Anche in questo campo la soluzione adottata non fu nulla di originale, riprendendo pari pari l’iniziativa del governo fascista. Il 17 aprile 1945 un decreto del CLNAI istituiva i consigli di gestione delle imprese utilizzando lo schema tecnico e le strutture previste dal Decreto legislativo sulla socializzazione delle imprese emanato dal governo di Salò il 12 febbraio 1944. Il nuovo decreto prevedeva infatti i seguenti organi di gestione: capo d’impresa, assemblea, collegio sindacale, consiglio di amministrazione. All’assemblea partecipavano i rappresentanti dei lavoratori con numero di voti uguale a quello del capitale. Il consiglio di amministrazione era formato per metà dai soci e per metà dai rappresentanti dei lavoratori. In caso di parità sarebbe stato decisivo il voto del capo dell’impresa. Anche da un punto di vista strettamente aritmetico, lasciando da parte ogni altra considerazione, gli operai sarebbero stati sempre in minoranza.

A dimostrare con quale intento i partiti opportunisti ricostituissero i Consigli di gestione citiamo da un rapporto di Giovanni Battista Santhià, rappresentante del PCI nel Consiglio della Fiat, tenuto il 18 dicembre 1945: «Lo sbilancio tra spese generali e produzione è rilevante. Il numero degli operai è superiore al fabbisogno; degli impiegati il 40 per cento è di troppo. La Fiat non ha smobilitato e bisogna tener conto che smobilitare sarebbe necessario per riorganizzare la produzione sul piano di pace. Anche dopo l’altra guerra nel trapasso dalla produzione di guerra alla produzione di pace era stata necessaria la smobilitazione. È evidente che tutti coloro che dovrebbero e non sono smobilitati incidono sul bilancio. In più ogni anno sono stati assunti oltre settemila tra partigiani internati e reduci. Voi sapete che la mano d’opera non produttiva è un peso morto per la Fiat».

In un documento del direttivo CGIL del 23 settembre 1945 si dice: «Soltanto attraverso la diretta partecipazione delle maestranze alla gestione dell’azienda, realizzabile ad opera dei consigli di gestione, è possibile suscitare la "febbre del lavoro", l’entusiasmo delle masse lavoratrici nello sforzo produttivo. I consigli di gestione, già in atto nelle più importanti officine dell’Alta Italia, hanno dato risultati pienamente positivi, giudicati tali anche dai datori di lavoro».

E potevano ben dirsi soddisfatti i "datori di lavoro": in molte aziende gli operai lavorarono gratis per mesi per rimettere in efficienza gli impianti; attraverso i consigli di gestione furono reintrodotti il cottimo e gli incentivi in genere e ristabilita la disciplina del lavoro e la sottomissione degli operai alle direzioni aziendali. Mai i padroni avrebbero raggiunto tali risultati se avessero gestito direttamente le proprie aziende. Dopo tre anni, ricostituitasi la forza repressiva dello Stato, rifluita l’ondata di lotte proletarie, potevano tranquillamente riprendere in prima persona la direzione delle aziende e liquidare i consigli di gestione cacciando a pedate i loro servi, magari accusandoli, con beffarda ironia, di "bolscevismo".
 

1946: la CGIL dà via libera ai licenziamenti

Nella relazione al I Congresso nazionale della CGIL, nel 1947, Di Vittorio enuncerà chiaramente l’obbiettivo del sindacato di regime: «Tenere le masse popolari in una compostezza che ci deve essere invidiata da altri paesi più ricchi di noi».

Ma questa mussoliniana aspirazione non poteva attuarsi coi metodi mussoliniani. La pressione della classe era troppo forte e in molti casi il sindacato tricolore dovette subirla. Solo un accurato e abile dosaggio di valvole di sfogo e di repressioni poteva consentirgli di non perdere il controllo della situazione.

Nel novembre 1945 gli operai imposero il blocco dei licenziamenti e la CGIL, suo malgrado, dovette farlo proprio. In un documento del direttivo approvato il 23 settembre 45 si accettava l’opposizione allo sblocco dei licenziamenti, ma si precisava che «le masse lavoratrici sono pronte ad accollarsi altri sacrifici per alleviare le condizioni delle aziende aventi personale in soprannumero. Perché l’Italia rinasca, perché il popolo italiano esca dal marasma e dalla miseria attuale, bisogna sviluppare la produzione, incrementare il lavoro che costituisce la sola via di salvezza».

Nel rapporto al I Congresso Di Vittorio dirà che questo blocco «ha costituito per un tempo notevole un peso grave». I dirigenti del PCI e della CGIL subirono questo blocco per paura di una rivolta delle masse, nell’attesa del momento più opportuno per dare via libera ai licenziamenti. Già nell’aprile 1945 il "Bollettino di Partito", organo della direzione del PCI affermava:

«Le ragioni di solidarietà umana che hanno indotto i sindacati ad opporsi ai licenziamenti di personale in aziende in cui il lavoro di una persona viene compiuto da tre o quattro, erano comprensibili durante la guerra di liberazione; ma non può essere questo il giusto criterio che deve ispirare l’opera di rinascita del paese (...) Per sanare la nostra economia bisogna elevare il rendimento del lavoro».
Nel luglio 1945 la CGIL dovette tuttavia firmare un accordo per la concessione ai disoccupati del Nord del 75% del salario. Ai sindacalisti napoletani che protestavano per l’esclusione del Sud da questo accordo, Di Vittorio spiegava: «Gli industriali hanno guadagnato miliardi, i lavoratori hanno salvato le loro officine. Era giusto che al momento della riduzione del lavoro gli industriali aiutassero i propri lavoratori. La CGIL, davanti ai ministri interessati, ha dichiarato appunto che l’onere dev’essere esclusivamente a carico dei datori di lavoro e non dello Stato».

Un altro esempio della "politica meridionalistica" della CGIL furono gli accordi del dicembre 1945 e maggio 1946 con i quali era varata la scala mobile nell’industria, ma si fissavano anche quelle che poi furono chiamate "gabbie salariali", cioè 4 zone con salari e trattamento differenziato, uno dei più bei regali che siano mai stati fatti agli industriali.

Nel gennaio 1946 scadeva il blocco dei licenziamenti e i dirigenti opportunisti ritennero maturi i tempi per dare mano libera ai padroni. Con l’accordo del 19 gennaio la CGIL riconobbe «la necessità di non poter prolungare oltre il blocco puro e semplice senza compromettere irreparabilmente le basi economiche di un grande numero di aziende industriali e senza minare l’economia nazionale».

I dirigenti opportunisti, che avevano ricevuto la nomina a Commissari Sindacali dall’ultimo capo delle corporazioni e salvato la monarchia lavorando fianco a fianco con gli ex gerarchi clericali e fascisti, cercarono di deviare la collera degli operai minacciati dai licenziamenti lanciando la caccia all’ex fascista. Non nelle alte sfere ma all’interno stesso dei lavoratori, instaurando un clima di sospetto e di divisione, incitando a colpire, nella migliore delle ipotesi, la ex manovalanza fascista, i pesci piccoli, mentre gli alti gerarchi e i padroni di sempre se ne stavano tranquilli e ben protetti. «Il carattere dell’accordo risulta chiaro dall’impegno, a favore dei reduci e dei partigiani, di licenziare i fascisti più compromessi, cioè di coloro che sono stati sospesi dal servizio pur continuando a percepire lo stipendio, e di licenziare coloro che abbiano altri cespiti di sussistenza. A questi licenziamenti devono corrispondere le assunzioni di reduci e partigiani».

L’epurazione era solo un paravento, in realtà si trattava di gettare sul lastrico milioni di lavoratori:

«Durante il mese di febbraio potrà essere licenziato il 5% dei lavoratori occupati alla data del 31 dicembre 1945; dal 1° al 15 marzo un altro 4% e dal 16 al 31 marzo un altro 4%. La percentuale dei licenziamenti da effettuarsi nel mese di aprile sarà fissata in un nuovo accordo da concludersi il 10 marzo 1946. Potranno essere licenziati i lavoratori assunti dopo il 10 giugno 1940 che si trovino nelle seguenti condizioni: a) che siano sospesi dal lavoro da oltre due mesi; b) che abbiano in famiglia altri cespiti di sussistenza; c) se per ogni 4 membri della famiglia vi sia un lavoratore con un reddito continuativo; d) che provengono da altri settori economici.

«Inoltre devono essere licenziati i lavoratori inosservanti dei doveri di disciplina e di normale attività e quelli provenienti dal ruolo di aspettativa prevista dall’accordo dell’8 luglio 1945 o comunque sospesi da oltre due mesi. È obbligatorio licenziare innanzitutto i lavoratori colpiti da provvedimenti epurativi. Questi licenziamenti avverranno sotto il controllo delle C.I. I lavoratori licenziati in base all’accordo avranno l’indennità di licenziamento prevista dai contratti con una integrazione a carico della cassa del 66% della retribuzione globale per 60 giorni. Quelli sospesi o lavoranti a orario ridotto avranno il 50% della retribuzione globale per le ore non prestate tra le ore 0 e le 24 e del 66% per le ore non prestate da oltre le 24 alle 40» (da "Il lavoro" del 22 gennaio 1946).

Non occorre attendere la "linea dell’EUR" e la "politica dei sacrifici"! In quella occasione i bonzi sindacali si accordarono per licenziare nello spazio di tre mesi il 13% dei lavoratori occupati e a concordare altri licenziamenti nel mese di aprile, mentre sono già milioni i disoccupati. «D’altra parte – commenta "Il Lavoro" del 19 gennaio – ai lavoratori licenziati, oltre alla normale liquidazione, verrà assicurata una parte notevole della paga per un periodo di tempo abbastanza rilevante»: due mesi!
 

Il proletariato impone il blocco dei licenziamenti

Ma anche in questa occasione il proletariato italiano non si lasciò calpestare senza reagire: scioperi e rivolte scoppiarono in tutto il paese, soprattutto nel Sud dove le condizioni del proletariato erano particolarmente disperate. In Puglia, dove numerosissimi erano i braccianti, la situazione giunse sull’orlo della guerra civile. Ecco un resoconto degli avvenimenti di Andria tratto dal giornale "Il Lavoro":

Venerdì 8 marzo 1946: «C’è ad Andria e in tutta la Puglia una massa enorme di disoccupati e di reduci che vive nella miseria più nera e che cerca disperatamente lavoro. Per alleviare le condizioni di questi lavoratori era stato già concordato fra la Camera del Lavoro e le associazioni degli agricoltori l’imposizione dell’imponibile di mano d’opera che avrebbe contribuito anche ad incrementare la produzione agricola. Gli agrari si sono rifiutati e si rifiutano di far eseguire la sarchiatura del grano. La scintilla è stata data dall’agrario Spagnoletti che aveva spianato il fucile da caccia contro un gruppo di reduci che si era recato da lui per chiedere lavoro. Numerosi lavoratori cominciarono allora a percorrere le strade della città chiedendo pane e lavoro.

«Gli agrari intimoriti da tale manifestazione si trincerarono nelle loro case e cominciarono dalle terrazze a sparare contro questi gruppi di disoccupati che manifestavano lungo le strade. Un gruppo di carabinieri che era intervenuto per proteggere gli agricoltori si scontrò con un gruppo di lavoratori: ne nacque una zuffa e quindi partirono colpi di arma da fuoco che raggiunsero un carabiniere uccidendolo. Furono chiamati rinforzi al comando dei carabinieri; dal capoluogo partirono camion di carabinieri scortati da due carri armati. Frattanto i reduci e i lavoratori disoccupati avevano bloccato tutte le strade di accesso al paese e quando videro i carri armati proteggere l’ingresso dei carabinieri nella cittadina, essi accerchiarono un carro armato che aprì il fuoco contro di loro uccidendone quattro».

Sabato 9 marzo: «Ritorna la normalità ad Andria grazie all’intervento di Di Vittorio ( ... ) La cronaca deve purtroppo lamentare altri tre morti; una donna del popolo che si recava ad attingere acqua ad una fontana pubblica ed altre due donne appartenenti a famiglie di agrari che, appostate dietro i comignoli delle loro terrazze sparavano sui contadini che erano nella strada: queste ultime due sono state a furia di popolo trascinate fuori dalle loro case e linciate. La natura degli avvenimenti non è assolutamente di ordine politico, ma di origine esclusivamente economica essendovi attualmente ad Andria oltre 5.000 disoccupati di cui circa 2.000 reduci (...) Nel tardo pomeriggio di ieri è giunto qui l’on. Di Vittorio, proveniente da Roma. Egli ha preso immediatamente contatto con le autorità locali e con il comandante della caserma dei carabinieri, maggiore Fiaschetti (quello che comandava i rinforzi con i carri, n.d.r.) dal quale ha ottenuta che nel corso della nottata non sarebbe stato operato alcun arresto, né sarebbe stato sparato un sol colpo da parte dei militi dell’ordine. Nello stesso tempo l’on. Di Vittorio ha assicurato il maggiore Fiaschetti che da parte della popolazione non ci sarebbe stato incentivo a disordini di sorta ed ha promesso anche che le armi che erano state tolte a 14 carabinieri disarmati il giorno precedente sarebbero state restituite nella giornata di oggi. In mattinata l’on. Di Vittorio presiederà una riunione di tutti i partiti politici del CLN e, più tardi, un’altra riunione fra rappresentanti della C.d.L., dei reduci ed i rappresentanti degli agricoltori locali. Alle ore 11, terrà poi un grande comizio che – come ci ha dichiarato – dovrà suggellare "il ritorno alla normalità"».

La Puglia non era che la manifestazione maggiore di un movimento spontaneo di rivolta che si sviluppò in tutta l’Italia. Il ministro picciista Scoccimarro, recatosi in quel periodo nella regione, denunciava «l’insorgere spontaneo di formazioni armate».

Il PCI è al governo. La CGIL si accorda con i padroni per dare il via a licenziamenti massicci mentre già milioni di disoccupati vivono in miseria. La classe si rivolta. Le forze armate dello Stato sono mobilitate in difesa dei padroni e usano l’armamento da guerra contro le folle. Ma questo non basta, anzi, la repressione spietata rende ancora più decisa la rivolta dei proletari che imparano ben presto ad essere anch’essi spietati. Ecco allora la funzione dei Di Vittorio che riescono dove non avrebbero mai potuto riuscire i carabinieri: calmano gli animi, promettono, spengono la rivolta, disarmano e riconsegnano i proletari sottomessi ai loro boia. Questo il "ritorno alla normalità", a quella normalità che vede i padroni ingrassarsi e i proletari rassegnati a subire lo sfruttamento, la miseria, la fame.

In marzo si profila anche l’agitazione degli statali, che sono stati esclusi dalla scala mobile e vivono con salari da fame, ma che sono l’unica categoria che nell’immediato dopoguerra si è subito riorganizzata per effetto della rimessa in piedi dei servizi amministrativi.

Alla fine di aprile Di Vittorio denuncia la gravità della situazione: «la situazione è tale che se si lasciasse sviluppare automaticamente si giungerebbe, tra qualche settimana, a un vero e proprio scatenamento di guerra civile» ("Il Lavoro", 30 aprile 1946).

Il 17 aprile 1946, dopo appena tre mesi, la CGIL è costretta a fare marcia indietro e a chiedere di nuovo il blocco dei licenziamenti: «La Segreteria Confederale ha esaminato la situazione generale dei lavoratori italiani ed ha preso una serie di decisioni tendenti a integrare le conseguenze più gravi. In una lettera diretta in data di ieri alla Confindustria, la CGIL chiede che in deroga all’accordo interconfederale del 18 gennaio 1946 venga sospesa la quota ulteriore di licenziamenti prevista per il corrente mese. Questa richiesta è motivata dal fatto che l’accordo sullo sblocco dei licenziamenti presupponeva che in primavera si fosse verificata una ripresa delle attività economiche generali del Paese tale da potere assorbire in altre attività almeno una parte dei lavoratori licenziati. Questa eventualità non si è disgraziatamente verificata. Perciò si è avuto un aumento preoccupante della disoccupazione, specialmente nei grandi centri industriali. In tali condizioni procedere ad ulteriori licenziamenti significherebbe provocare una esasperazione incontenibile nelle masse lavoratrici le cui conseguenze potrebbero essere gravissime per la nazione» ("Il Lavoro", 18 aprile 1946).

Così la pressione dei lavoratori riesce a imporre ancora ai padroni, allo Stato, ai bonzi sindacali del regime, il ripristino del blocco dei licenziamenti. In gennaio i dirigenti della CGIL avevano affermato che la continuazione del blocco avrebbe compromesso "irreparabilmente" le aziende e avrebbe "minato" l’economia nazionale. Ora un pericolo ben più grave gli fa cambiare idea: la rivolta per la vita dei proletari rischia di far perdere loro il controllo della situazione. Perciò, mentre prima avevano chiesto sacrifici agli operai per salvare i padroni, sono ora costretti a chiedere ai padroni di allargare un po’ la borsa per non mettere a repentaglio la testa.
 
 

7. LA COSTITUZIONE E LA DEFINIZIONE GIURIDICA DEL RAPPORTO SINDACATO-STATO
 

Ai dirigenti della Confederazione Generale Italiana del lavoro, nata come abbiamo visto dall’alto, con l’appoggio diretto dello Stato e attraverso un accordo tra i maggiori partiti che lo sostenevano, si pone subito il problema dell’inquadramento giuridico del sindacato. Non vogliono ovviamente ricalcare la strada delle organizzazioni operaie del primo dopoguerra, che si erano poste in aperto antagonismo con lo Stato e con i padroni, anzi la loro opera è volta proprio ad impedire il risorgere di organizzazioni che si muovano sul terreno della lotta di classe.

Essi riconoscono al fascismo di aver per primo tentato una soluzione al problema dell’inquadramento delle lotte operaie nella legislazione borghese, ma la soluzione fascista – sindacato unico, di Stato, iscrizione obbligatoria – non è giudicata più idonea alla mutata situazione, perché susciterebbe una reazione proletaria. La soluzione sta in quello che abbiamo chiamato sindacalismo tricolore: una organizzazione i cui i bassi gradi della dirigenza sono scelti attraverso il metodo democratico, ma che nella sua politica sia rigidamente sottomessa allo Stato e alla collaborazione di classe.

Di Vittorio, in un lungo articolo su "Rinascita", affronta la questione ponendo in modo chiaro i termini del problema, dal punto di vista del controllo dei lavoratori e della stabilità sociale. Dopo aver affermato che il «diritto di associazione è il presidio più sicuro della libertà della persona umana», chiede che la Costituzione lo «sancisca nel modo più chiaro», naturalmente «nei limiti fissati dalle leggi». Ammette poi l’inevitabile contrasto di interessi, non fra le classi, ma tra «il cittadino lavoratore e il cittadino capitalista» che «non si trovano affatto in condizioni di uguaglianza».

Passando quindi a trattare del ruolo dei sindacati nello Stato democratico, Di Vittorio fa le seguenti considerazioni:

     «1) Gli interessi che rappresentano e difendono i sindacati dei lavoratori (...) in linea di massima coincidono con quelli generali della nazione. Il benessere generalizzato dei lavoratori infatti non può derivare che da un maggiore sviluppo dell’economia nazionale, da un aumento incessante della produzione, da un maggiore arricchimento del Paese, oltre che da una più giusta ripartizione dei beni prodotti. Non è mai accaduto e non può accadere, a liberi sindacati dei lavoratori, di avere interessi contrari a quelli della collettività nazionale.
     «2) I sindacati dei lavoratori rappresentano la forza produttrice fondamentale della società (...) ciò è tanto più giusto e necessario in Italia, dove il capitale più grande e più prezioso di cui dispone la Nazione è rappresentato appunto dalla sua immensa forza lavoro, ossia dal gran numero di lavoratori che conta il nostro paese.
     «3) I lavoratori, per la loro condizione sociale, sono i maggiori interessati al consolidamento e allo sviluppo ordinato della libertà e delle istituzioni democratiche (...) I sindacati dei lavoratori quindi costituiscono obiettivamente uno dei pilastri basilari dello Stato democratico e repubblicano ed un presidio sicuro e forte delle civiche libertà che sono un bene supremo dell’intera nazione.
     «4) I sindacati dei lavoratori, quali organismi unitari di milioni di cittadini in tutte le provincie d’Italia e tutori dei loro interessi collettivi e solidali, costituiscono obiettivamente il tessuto connettivo più solido della Nazione e della sua stessa unità.
     «5) Gli interessi economici rappresentati rispettivamente dai sindacati dei lavoratori e da quelli dei datori di lavoro sono entrambi legittimi ma la loro portata non è uguale e questo perché i primi rappresentano un numero "incomparabilmente maggiore di cittadini" e inoltre rappresentano interessi vasti e vitali della grande massa dei cittadini non abbienti che lo Stato ha il dovere di difendere e tutelare.
     «Ne consegue che il concetto di pariteticità fra gli interessi rappresentati dai sindacati dei lavoratori e quelli rappresentati dai sindacati padronali non corrisponde alla realtà ed è perciò da considerarsi infondato e ingiusto».
Di Vittorio chiede perciò allo Stato di assegnare un ruolo di «preminenza ai sindacati dei lavoratori rispetto a quelli padronali (...) I sindacati dei lavoratori dunque debbono avere un posto a parte nello Stato democratico. Pensiamo particolarmente alla costituzione di un Consiglio Nazionale del lavoro che abbia la facoltà di promuovere una legislazione sociale adeguata ai nostri tempi». Questo Consiglio, propone Di Vittorio, dovrebbe essere formato dal Governo e da tutte le «organizzazioni professionali (...) ma in proporzioni tali che si tenga conto del numero dei rispettivi organizzati».

Per quanto riguarda il "diritto di sciopero", Di Vittorio si dichiara in disaccordo con chi vorrebbe vietarlo per legge nei servizi pubblici e propone la soluzione alternativa delle «remore libere e spontanee», con la quale si raggiungerebbe lo stesso risultato senza mezzi coercitivi aperti. «La Confederazione Generale Italiana del Lavoro ha sancito spontaneamente nel proprio statuto sociale – approvato all’unanimità dal suo primo congresso nazionale – il principio che lo sciopero nei servizi pubblici sia da evitare in tutta la misura del possibile e che comunque vi si possa far ricorso soltanto dopo aver esperito invano tutti i tentativi di conciliazione e previa autorizzazione del comitato direttivo confederale (...) Questa remora, oltre che la sola possibile in un regime democratico, è anche la sola efficace».

Netto disaccordo poi anche con quanti sono favorevoli all’arbitrato obbligatorio da parte dello Stato nei conflitti di lavoro: «L’arbitrato obbligatorio è incompatibile con il principio della libertà ed è anche di assai dubbia efficacia, dato che in regime democratico nessuno potrebbe impedire alle masse lavoratrici interessate di respingere la soluzione imposta dall’arbitro e di effettuare ugualmente lo sciopero. L’arbitrato può essere efficace ed impegnativo per le parti solo quando queste vi accedono volontariamente». Di Vittorio, vecchia volpe, dice in sostanza che questa carta dell’arbitrato va giocata bene, al momento opportuno e non bruciata stupidamente. Meglio l’arbitrato facoltativo, «un mezzo al quale è desiderabile che si faccia ricorso il più possibile, per prevenire agitazioni e scioperi che, in linea generale, non sono mai eventi auspicabili». Il concetto è lo stesso: giungere al medesimo risultato senza l’imposizione aperta, mantenendo una libertà formale.

Passando poi all’esame del punto nodale della questione, quello del rapporto giuridico tra lo Stato e il sindacato, Di Vittorio lamenta che «l’Italia non ha un ordinamento sindacale giuridicamente definito», non essendo più idoneo quello fascista (fissato con la legge 3 aprile 1926 n.563) ancorché esso «dal punto di vista formale sembra essere tutt’ora in vigore». «In linea di fatto i sindacati liberi ora esistenti sono riconosciuti dallo Stato, ma non esiste nessun rapporto giuridicamente definito tra Stato e sindacato. La disciplina dei rapporti di lavoro, che può esercitare un’influenza decisiva nella ricostruzione economica e sociale del Paese, esige con tutta urgenza un nuovo ordinamento sindacale».

Qui si proclama il grande dilemma: sindacato di stato, giuridicamente riconosciuto e sottoposto a diretto controllo, oppure sindacato libero, non avente alcun rapporto giuridico con lo Stato? No al sindacato statale, dice Di Vittorio, perché «il sindacato di Stato significa automaticamente sindacato unico, obbligatorio, con tributi obbligatori, e con un controllo più o meno stretto dello Stato (...) Un sindacato unico, obbligatorio, statale, non può essere che un organismo burocratico, privo d’una propria vitalità, pesante, costoso, inefficiente, detestato dalle grandi masse lavoratrici». No anche al «sindacato libero prefascista non avente nessuna veste legale», che sarebbe «relegato ai margini dello Stato ed in una posizione di ostilità preconcetta contro di esso».

Uscire da questa alternativa, che vede le classi lavoratrici «o asservite allo Stato o ricacciate fuori di esso; o neutralizzate da uffici, regolamenti, funzionari o guardate dai carabinieri». Esiste una terza possibilità che Di Vittorio formula ammettendo di essersi ispirato al sistema sindacale francese «definito dalle leggi 21 marzo 1884, 12 marzo 1920, 4 giugno 1936 e 2 maggio 1938». È la soluzione democratica: sindacati liberi, libero diritto di sciopero e di associazione – nell’ambito delle leggi – libertà che sono garantite, tutelate, regolamentare dallo Stato. Sindacati liberi che, liberamente e spontaneamente, senza alcuna costrizione aperta, si sottomettono allo Stato e ne costituiscono uno dei fondamentali pilastri di sostegno: «Un nuovo tipo di sindacato con caratteri propri, originali, che concili l’esigenza di libertà, di autonomia e l’indipendenza del sindacato (che sono i suoi caratteri peculiari, senza dei quali il sindacato cessa di essere tale e diventa un ufficio), con l’esigenza di ottenere da esso quelle garanzie necessarie per potergli affidare legalmente alcune funzioni di carattere pubblico».

Questo tipo nuovo di sindacato «dovrebbe tradurre in termini politici e giuridici, sul terreno specifico dell’ordinamento sindacale, il fatto nuovo e salutare, nella storia d’Italia, dell’adesione piena delle grandi masse popolari allo Stato democratico».

Quali le funzioni di carattere pubblico da affidare ai sindacati? Quelle stesse che erano affidate alle corporazioni fasciste e cioè:
     1. La stipula di «contratti di lavoro che abbiano validità obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria e, quindi, efficacia giuridica»;
     2. L’«esercizio del collocamento dei lavoratori».

Quali le garanzie formali che lo Stato può chiedere?:
     1. «La registrazione legale in apposito registro tenuto dal Consiglio Nazionale del Lavoro e dai suoi organi periferici, col relativo deposito dello Statuto sociale e la denuncia del numero dei propri iscritti»;
     2. «Che lo statuto sociale del sindacato sancisca chiaramente un ordinamento interno democratico dell’organizzazione».

Così Di Vittorio delineava con estrema precisione la via italiana al sindacalismo tricolore. Ciò che egli chiedeva allora, «un ordinamento sindacale giuridicamente definito», non sarà mai realizzato e i famosi articoli 39 e 40 della Costituzione rimarranno lettera morta. Dovremmo perciò oggi ancora ripetere le sue parole di allora: «Dal punto di vista formale sembra essere tuttora in vigore l’ordinamento sindacale fascista».

I capi della CGIL tricolore, i partiti opportunisti, volevano un sindacato sottomesso allo Stato, ma che apparisse ai lavoratori come la loro libera organizzazione, che non si rivelasse la continuazione del sindacato obbligato fascista. Per il "nuovo" sindacalismo italiano intendevano adottare la vecchia soluzione democratica, che aveva già dato ottimi risultati, per la borghesia, in America, Francia, Inghilterra. Ma essi, antifascisti di nome, si dovettero inchinare di fronte al fascismo, del quale ereditavano la concezione dello Stato organico e al di sopra delle classi, quel fascismo che solo aveva avanzato una soluzione pratica al problema, da essi ritenuta necessaria, di inquadrare la lotta proletaria nella legalità borghese. La soluzione fascista del sindacato di Stato, che essi a parole aborrivano, era il loro inevitabile modello.
 
 

8. LA SCISSIONE DEL 1949
 
 

Nel 1947 in Italia la situazione economica e sociale è esplosiva. Passato il primo momento di assestamento dell’economia dopo la fine della guerra, passata alle classi possidenti la paura, esse riprendono il controllo dell’apparato produttivo e passano all’attacco delle condizioni di vita operaie con massicci licenziamenti e sanguinose repressioni delle lotte.

Questa situazione si colloca in un quadro internazionale che vede l’inizio della guerra fredda e l’azione americana per assicurarsi il controllo dei governi delle aree strategicamente vitali, come appunto l’Italia. Proprio nel 1947 si ha la piena assunzione da parte degli USA del ruolo di potenza imperialista gendarme del mondo che trova una possibilità di contrasto solo nel blocco sovietico e che impone agli Stati sotto il suo controllo una posizione decisamente antirussa. Questo viene sancito dalla "dottrina Truman" che prevede aiuti economici ai «popoli amanti della libertà (...) contro i movimenti aggressivi che cercano di imporre i propri regimi totalitari», che cioè chiede esplicitamente, in cambio dei finanziamenti, la formazione di governi decisamente filoamericani. In Italia il partito fiduciario degli USA è la Democrazia Cristiana (sono noti i ripetuti viaggi in America di De Gasperi e Pastore a battere cassa e prendere ordini). Il PCI da questo punto di vista non offre sufficienti garanzie, anzi è notoriamente legato all’Unione Sovietica.

Il 13 maggio 1947 il PCI è perciò escluso dal governo, sebbene la situazione sociale sia gravissima. Ora la borghesia italiana, con l’appoggio statunitense, si sente abbastanza forte da affrontare le agitazioni proletarie anche con il PCI all’opposizione. Un lungo elenco di eccidi polizieschi segna la fine di quest’anno: il 15 novembre a Cerignola due braccianti vengono uccisi durante uno sciopero; il 16 novembre a Corato uccisi un sindacalista, un bracciante e una contadina durante una manifestazione di braccianti; il 20 novembre a Capo Salentina (Lecce) due uccisi durante una manifestazione contadina; il 22 novembre a Gravina (Bari) ucciso un bracciante durante una manifestazione per la terra; il 2 dicembre a Basignano (Cosenza) ucciso un contadino; il 6 dicembre a Roma la polizia spara su un corteo: un morto; il 22 dicembre a Canicattì (Agrigento) la polizia spara su un corteo: 3 morti; sempre il 22 dicembre a Campobello di Licata (Catanzaro) un morto durante uno sciopero di braccianti.

Non per questo il PCI cessa, dall’opposizione, la sua opera di collaborazione di classe e di imbonimento democratico del proletariato. Da una parte i padroni licenziano o danno salari da fame e la loro polizia spara e bastona; dall’altra è il PCI a convincere gli operai che bisogna stare calmi e accettare senza reagire.

Con il ’48 si ha una ripresa della produzione; in giugno cominciano ad affluire all’Italia i dollari previsti dal piano Marshall: 100 milioni di dollari concessi dalla Export Import Bank. Non è che l’inizio, ma l’assegnazione di altri finanziamenti è subordinata «alla stabilità e al consolidamento del regime democratico italiano». Che cosa volesse significare questa formula lo si vedrà presto. Gli americani, come volevano al governo loro uomini di fiducia, ritenevano pericolosa l’esistenza di un’unica centrale sindacale che poneva di fatto tutto il proletariato italiano sotto il controllo del PCI. Da tempo erano iniziate pressioni da parte americana perché alla rottura della "solidarietà nazionale", con l’esclusione del PCI dal governo, seguisse la rottura della unità sindacale con la creazione di centrali controllate dai partiti filoamericani. Questo disegno faceva parte di una strategia enunciata chiaramente dal generale Marshall il 20 marzo 1948: «È venuto il giorno in cui noi possiamo contare su degli amici forti, capaci di contenere il primo attacco del nemico mentre noi saremo impegnati a prendere le ultime disposizioni per la guerra».

Già nel 1946 era sbarcato in Francia l’agente Irving Krown con un milione di dollari per finanziare la creazione di centrali sindacali filoamericane nell’Europa occidentale. Nel dicembre 1947 Léon Jouhaux ricevette 40 milioni di franchi per creare l’organizzazione scissionista "Force Ouvrière". A metà dicembre 1947 si era tenuta una riunione al Dipartimento di Stato con la partecipazione dei dirigenti della AFL-CIO e un rappresentante del Foreign Office. Qui venne delineato il piano di attacco alla FSM e ai sindacati influenzati dai partiti che simpatizzavano per l’Unione Sovietica.

In Italia la situazione si presentava più complessa per la presenza di un proletariato in condizioni di estrema miseria, agguerrito, che in parecchie occasioni aveva dimostrato di non lasciarsi intimorire dalle repressioni e che istintivamente si ricollegava alla tradizione rossa.

Il 14 luglio 1948 l’attentato a Togliatti fu la scintilla che scatenò la rivolta operaia con veri e propri focolai insurrezionali, soprattutto nei maggiori centri industriali. Se le azioni proletarie nel Sud assumevano quasi sempre l’aspetto di sommosse incontrollate che esplodevano come una fiammata improvvisa per poi spegnersi rapidamente, nel Nord industriale gli operai mostrano di sapere d’istinto come ci si muove in una guerra civile moderna: tirano fuori le armi nascoste, trasformano gli autobus in improvvisate autoblindo, circondano le caserme, si mettono agli ordini delle federazioni del PCI. Ma la risposta del PCI è naturalmente, come sempre, un invito alla calma.

In questa occasione la CGIL si trovò nella necessità di proclamare lo sciopero generale per riprendere il controllo delle masse in un momento in cui queste andavano ben al di là di una semplice dimostrazione di protesta. L’ordine di sciopero fu dato semplicemente per essere in grado poi, due giorni dopo, il 16 luglio, di dare l’ordine di ripresa del lavoro.

Lo spiegò chiaramente Di Vittorio in una riunione al Comitato Direttivo che si tenne pochi giorni dopo: «In questa occasione si è avuto lo sciopero generale più completo e più esteso che si sia mai avuto in Italia. Che cosa doveva fare la CGIL? Non poteva non mettersi alla testa del movimento per evitare una frattura tra l’organizzazione e le masse e per fare in modo che il movimento stesso cessasse al momento giusto». Di Vittorio così si giustificava di fronte alla corrente democristiana che accusava i nazionalcomunisti di aver proclamato uno sciopero politico, contrario a quanto stabilito nel patto di Roma.

"Rinascita" del giugno 1949, tornando sull’argomento, scriverà: «Quello sciopero fu spontaneo. Pastore lo sa poiché fu tra quelli che lo approvarono il giorno stesso (...) Del resto lo stesso Presidente del Consiglio De Gasperi lo riconobbe pochi giorni dopo in parlamento dichiarando al Senato il 23 luglio che, secondo lui, "la CGIL aveva avuto almeno in un secondo periodo il senso delle proprie responsabilità"».

Ma quella vicenda fu presa a pretesto dai sindacalisti democristiani per realizzare il piano americano di scissione sindacale. Dettero per conto loro l’ordine di cessazione dello sciopero poche ore prima della fine e ritennero rotto il patto di unità sindacale accusando la corrente socialpiccista di aver violato lo statuto della CGIL.

 Sul già citato numero di "Rinascita" si legge: «Per quanto si cerchi obbiettivamente con scrupolo di analisi e di documentazione quale ragione possa aver determinato la scissione democristiana non si riesce, sul piano della sola realtà sindacale italiana, che ad accumulare una serie di motivi i quali non bastano anche se sommati a spiegarla (...) Più difficile ancora, se non addirittura impossibile a comprendere, è la scissione operata a freddo da alcuni dirigenti della corrente sindacale del PRI e del PSLI».

Infatti, di punto in bianco la "Direzione Nazionale del Movimento di Azione Sociale" del PRI comunica l’indizione di un referendum entro il 30 aprile 1949 per decidere se la corrente repubblicana deve rimanere o no nella CGIL. Contemporaneamente, prendendo a pretesto un incidente alla Camera del Lavoro di Molinella, il PSLI di Saragat convoca un convegno sindacale per decidere se restare o meno nella CGIL. Il 24 e il 26 maggio le correnti del PRI e del PSLI annunciano la loro uscita dalla CGIL. Pochi giorni dopo, il 4 giugno, nasce la "Federazione Italiana del Lavoro" che, naturalmente, si proclama "apolitica" e "indipendente".

Quale la ragione di queste scissioni, continua "Rinascita"? «Essa va ricercata in un ordine più ampio di quello puramente nazionale (...) Gli americani hanno fretta. Dopo il piano Marshall e il Patto Atlantico, l’obbiettivo del Dipartimento di Stato è ora quello di organizzare al più presto la coalizione anticomunista mondiale anche sul piano sindacale (...) Antonini, in una dichiarazione pubblicata recentemente sull’organo del PSLI, non smentisce di aver finanziato i socialisti di Saragat con altri 200 mila dollari».

In un telegramma inviato a Giulio Pastore dal presidente della AFL Matthew Woll, si legge: «Irving Brown ha riferito la situazione sindacale italiana al comitato internazionale sindacale dell’AFL. Questo comitato approva caldamente la vostra azione e intende cooperare con voi». Si seppe poi ufficialmente che Irving Brown era un agente della CIA.

Questo il dispaccio dell’ambasciatore americano Jeames Dunn al segretario di Stato Marshall a proposito di un colloquio col dirigente sindacale democristiano Giulio Pastore:

«Pastore ha sottolineato che l’aspetto finanziario del suo nuovo sindacato lo preoccupa considerevolmente. Ha ricevuto inoltre offerte di finanziamento da gruppi industriali ma è sua ferma intenzione rifiutarle giacché comprometterebbero il futuro della sua organizzazione quando si troverà di fronte agli imprenditori nelle prossime rivendicazioni sindacali (...) Pastore ha dichiarato che da un primo studio ritiene che la cifra totale necessaria alla nuova organizzazione sia di 900 milioni di lire (circa un milione e mezzo di dollari) per nove mesi, prima che possa diventare autosufficiente (segue elenco dettagliato delle spese) (...) Confidiamo che il dipartimento di Stato esplorerà tutte le possibilità per ottenere l’assistenza finanziaria per il gruppo (...) La nuova organizzazione, naturalmente, è pienamente in favore del piano Marshall e si presterebbe a favorirne la propaganda attraverso la propria stampa e altri mezzi di informazione» (R.Faenza, M.Fini, "Gli Americani in Italia", Feltrinelli, Milano, 1966).
Questa scissione, operata a freddo, in un momento di spietato attacco padronale, apparve al proletariato italiano una pugnalata alla schiena, un tentativo di smembrare le proprie forze. Le organizzazioni nate da questa scissione finanziata dagli americani apparvero come un tentativo di ricostituire le organizzazioni bianche e gialle del primo dopoguerra, contrapposte alla organizzazione rossa.

Di fatto, come la patriottica CGIL del ’48 non aveva nulla a che vedere con la classista CGL del ’19, così CISL e UIL non erano che la brutta copia delle organizzazioni bianche del primo dopoguerra. Come scrivemmo allora, la scissione, la creazione di centrali sindacali apertamente confessionali e filopadronali, non cambiava la natura della CGIL, che era e restava il sindacato tricolore erede delle corporazioni fasciste.

Ma, data la particolare situazione internazionale di guerra fredda, dato l’ostracismo che gli americani imponevano nei confronti del PCI, che pure si dichiarava ed era sinceramente nazionale e patriottico, la CGIL appariva alla parte più combattiva del proletariato italiano come l’organizzazione rossa, contrapposta alle altre centrali legate ai padroni e allo Stato. Essere iscritti alla CGIL in quegli anni voleva dire esporsi alle angherie padronali, ai licenziamenti, alle repressioni, non avere nulla da guadagnare sul piano personale. Con la generosità e il coraggio che da sempre lo contraddistingue, il nucleo più combattivo del proletariato italiano si strinse attorno a questa bandiera colmando di odio e disprezzo i galoppini della CISL e della UIL.

Tutta la strada che i Di Vittorio e i Lama hanno poi percorso verso l’aperta statalizzazione della CGIL, dall’unità con CISL e UIL, alla istituzione della delega, alla abolizione delle Camere del Lavoro, al crumiraggio degli scioperi spontanei, l’hanno fatto contro questi proletari.
 
 

9. BORGHESIA E STALINISMO COSTRINGONO LA CLASSE OPERAIA AL SACRIFICIO DELLA RICOSTRUZIONE NAZIONALE
 

Dopo la prima fase di assestamento seguita alla guerra e alla caduta del fascismo, la borghesia italiana, ricostituito e rafforzato il proprio apparato statale, inquadrata e disciplinata la classe operaia in organismi dominati da una politica di collaborazione di classe, si preparava a reinserirsi nel giro degli affari mondiali; come aveva guadagnato sotto il fascismo e con la guerra, così avrebbe fatto affari d’oro con la democrazia e la ricostruzione. Gli stessi industriali, re della finanza, commercianti, fondiari che si erano arricchiti all’ombra del regime fascista, trovarono nello Stato democratico un protettore altrettanto benevolo e senza dubbio più raffinato.

Come oggi la borghesia scarica la crisi economica sulle spalle dei proletari, così allora il proletariato pagò con la miseria, la fame, lo sfruttamento forsennato, prima la ricostruzione e la ripresa produttiva, poi, negli anni ’60 quella riconversione dell’apparato industriale che consentì il cosiddetto "miracolo economico".

Nel 1950, due anni dopo la scissione sindacale, uno studio della CGIL così descrive la situazione. Sono presenti 2 milioni di disoccupati totali e 2 milioni di disoccupati parziali che lavorano in media un giorno sì e uno no: tre milioni di disoccupati su circa 7 milioni e 800 mila occupati: due disoccupati ogni 5 occupati.

Il salario medio mensile ammonta a L. 23.501, con notevoli differenze tra le varie categorie come mostrano questi dati: Industria: elettrici 35.575; metallurgici 27.251; industrie estrattive 24.772; tessili 19.191; alimentaristi 18.191. Nell’Industria quindi il salario più basso è la metà del più alto. Agricoltura (braccianti e salariati agricoli): Lombardia 13.346; Emilia 9.726; Toscana 9.429; Puglia 5.800; Sardegna 5.380; Abruzzo 5.957; Sicilia 5.414; Calabria 3.868. Il salario più alto nell’agricoltura è un terzo del più alto dell’industria; quello più basso è un quinto del più basso dell’industria.

La CGIL calcolava che il costo della vita per una famiglia tipo di 4 persone – genitori e due figli – fosse di L. 54.640 mensili di cui L. 33.648 per l’alimentazione e 11.860 per il vestiario. Ne deduce perciò che solo il salario degli elettrici può permettere di coprire le spese della alimentazione. Questi dati concordano con quelli del Ministero del Lavoro che nel 1951 calcolava in L. 26.790 mensili il salario medio e in L. 50.000 mensili il costo della vita per famiglia tipo.

Ma queste medie sono calcolate sui salari ufficiali e contrattuali, quotidianamente violati degli industriali e degli agrari a danno delle categorie più deboli: donne, giovani, avventizi, braccianti. Si dimezzano le tariffe, si allunga senza compenso l’orario di lavoro, si rifiutano le indennità creando così larghe zone di sottosalario. Spesso le operaie vengono licenziate all’inizio della gravidanza o addirittura del matrimonio. Un’indagine medica dell’inverno ’49-’50 dimostra che le gestanti operaie consumano mediamente 2.115 calorie al giorno contro le 3.006 delle benestanti. Secondo un’indagine dell’OECE, negli anni 1945-1950 in Italia si consumano rispetto al periodo 1934-’38 il 3% in meno di calorie e il 17% in meno di grassi. Secondo un’inchiesta governativa del 1952, 2 milioni e 800 mila famiglie vivevano in case sovraffollate; di queste 870 mila in abitazioni con più di 4 persone a stanza.

Ma negli anni ’50 anche in Italia inizia la ripresa produttiva, parallelamente al processo di ristrutturazione e di concentrazione delle imprese. Sono introdotti, sul modello americano, gli incentivi e i premi di produzione, ma tutto questo in un apparato industriale vecchio e obsoleto i cui impianti sono utilizzati al 50%. Tuttavia, spremendo gli operai, il padronato riesce ad ottenere un notevole incremento della produttività con il metodo classico, cioè attraverso i licenziamenti, il prolungamento della giornata lavorativa e l’intensificazione del lavoro.

Alcuni esempi indicativi. Snia Viscosa: nel 1949 si è lavorato 9.799.088 ore in meno che nel 1948 e si è avuto un aumento di prodotti pari a kg. 8.352.877 abbassando il tempo unitario di produzione da ore 0,52 a ore 0,32. Pirelli: nel 1949 si è lavorato 5.934.552 ore in meno rispetto al ’48 abbassando il tempo di produzione di unitario da ore 0,56 a 0,39. Fiat: in 8 mesi aumenta la produzione del 46% e l’occupazione solo del 14%. Industria cotoniera: dal 1948 al 1949 aumenta la produzione del 20% e l’occupazione dello 0,6%. Chimica: dal 1948 al ’49 aumenta la produzione del 10% e diminuisce l’occupazione del 10%. Si calcola che per ogni operaio l’azienda guadagni 5-6 volte il salario pagato.

Nonostante la fase di ripresa permane una situazione sfavorevole per le merci italiane sul mercato internazionale. I rapporti di forza scaturiti dalla guerra mettono il capitalismo italiano in uno stato di subordinazione rispetto a quello americano, che sforna merci a costi di produzione estremamente più bassi. La ripresa produttiva in Italia si realizza quindi non tanto con l’ammodernamento degli impianti (che avverrà più tardi), quanto con il prolungamento della giornata lavorativa, la diminuzione dei tempi di lavoro, i salari da fame. In molti casi si lavora allora fino a 76 ore la settimana.

Perciò non vi è possibilità immediata di riassorbire i 3 milioni di disoccupati. Questo esercito di riserva è necessario alla borghesia per abbassare al di sotto dei limiti di sussistenza il prezzo della forza lavoro. Le condizioni di miseria e di fame si fanno sentire particolarmente nelle campagne favorendo un esodo massiccio di braccianti, salariati agricoli, mezzadri e piccoli contadini poveri i quali, quando la ripresa generale della produzione richiederà un aumento di forza lavoro, saranno costretti ad offrirsi a basso costo mantenendo basso i salari e nel contempo frenando o rendendo impossibili le azioni rivendicative.

In questa situazione la CGIL, che allora si definitiva "sindacato di classe" ma nella politica non era diversa da oggi, non solo si rifiutò di guidare una lotta generale contro l’offensiva capitalista ma pose dal 1951 (dopo 6 anni dalla fine della guerra) la questione dei salari con aumenti differenti da zona a zona e il ristabilimento delle differenze salariali tra le qualifiche. Ciò corrispondeva proprio alle esigenze dell’economia capitalista in fase di ripresa. La politica salariale della CGIL, non diversamente da oggi, si muoveva sul doppio binario: da una parte tenere al livello più basso possibile il costo globale del lavoro, compatibilmente con la esigenza di tenere sotto controllo le spinte rivendicative operaie, dall’altra ricreare una gerarchia professionale innalzando le paghe dei tecnici e degli impiegati.

Ancora nel 1952, gli operai comuni e i manovali rappresentavano il 64% della manodopera (circa 8 milioni e mezzo), gli operai specializzati il 12% (400 mila), gli operai agricoli il 24% (circa 1 milione, naturalmente alle qualifiche più basse). In pratica risultavano quindi bloccati i salari di 10 milioni di operai, mentre aumentava il salario degli specializzati e degli impiegati, soprattutto delle fasce più alte. La divisione in zone salariali costituiva poi un vero regalo al padronato. «Questo accordo – dirà la CGIL – ha grande importanza per una immediata distensione nei rapporti sindacali ed il ritorno ad una situazione di normalità nelle aziende».

Allora come oggi i bonzi sindacali paventavano quello chiamano l’ "appiattimento", cioè i salari uguali per tutti, in quanto fattore di unificazione del proletariato. Ecco una dichiarazione della CGIL di allora, non diversa da quelle di oggi: «Gli aumenti salariali non sono uguali in cifra per gli operai e per gli impiegati e nemmeno per le varie categorie di operai e impiegati. Un aumento salariale in cifra fissa porterebbe ad un appiattimento delle retribuzioni, un aumento in percentuale invece mantiene invariate le proporzioni. L’organizzazione sindacale unitaria non vuole l’appiattimento anche se si rende conto che le categorie inferiori, cioè quelle attualmente peggio pagate saranno quelle che riceveranno il minore aumento in lire. La CGIL non vuole l’appiattimento perché la classe operaia italiana, pur essendo alla opposizione e sottoposta ad ogni sorta di pressione aggressiva da parte dei gruppi di potere, ha già una coscienza di classe dirigente. È con la stessa consapevolezza che i sindacati di classe si rifiutano di lottare per la riduzione dei prezzi quando ciò si intende la lotta contro i piccoli negozianti e bottegai, contro i piccoli e medi industriali».

Quest’opera sistematica di divisione procede anche all’interno delle strutture sindacali. I bonzi lamentano che il sindacato è ancora troppo centralizzato e mettono in evidenza la situazione, secondo loro grave, che si ha nelle grandi città come Milano, Torino, Napoli, dove i chimici, i tessili, i metallurgici, sono tutti rappresentanti in un’unica sezione comunale, il che li costringe a tenere collegati i 100 mila metallurgici organizzati di Milano o con i 70 mila di Torino attraverso comizi e vaste assemblee. Inizia qui la lunga marcia di smantellamento di quelle strutture che erano utilizzabili dal proletariato e attraverso le quali poteva far sentire il suo peso anche ai vertici del sindacato tricolore, marcia che oggi è arrivata alla abolizione delle Camere del Lavoro e alla costituzione dei Consigli di Zona.

Al Secondo Congresso della CGIL nel 1952 i bonzi affermeranno che il grande fatto nuovo era costituito dal fatto che «le rivendicazioni di aumento delle retribuzioni sono state inserite definitivamente in modo diretto nella soluzione dei problemi fondamentali dello sviluppo economico e sociale del paese e che i lavoratori hanno sempre più chiara lo coscienza che il miglioramento delle loro condizioni di vita è intimamente legato alle sorti dell’intera nazione». Abbiamo visto in quale modo gli interessi operai si legavano a quelli della "intera nazione" e lo si vedrà meglio più innanzi quando la borghesia italiana realizzò il suo "boom" economico sulla pelle del proletariato.

Ed ecco come la nazione ringraziava gli operai che secondo la CGIL le avevano legato e subordinato i propri interessi: dal 1949 al 1952 licenziati per motivi economici 136.000 operai, tra cui 5.000 attivisti sindacali. Nelle campagne i licenziamenti sono 57.000 di cui 3.150 di attivisti sindacali. Nello stesso periodo i licenziamenti per rappresaglia sono 11.000 di cui 1.600 contro attivisti sindacali. Sottoposti a processo per conflitti di lavoro 53.000 lavoratori di cui 24.000 condannati a pene che in totale ammontano a 74.000 mesi di carcere. 38 uccisi dalla polizia negli scontri di Melissa, Modena, Torremaggiore, ecc. Ecco quali vantaggi il proletariato ricavava dalla politica di tradimento della CGIL: miseria, supersfruttamento, bastonate, arresti, eccidi, divisione, impotenza, disarmo ideologico, politico, organizzativo.

È utile ricordare questi fatti che tutti hanno dimenticato, proprio oggi mentre è in corso una nuova offensiva padronale che presto getterà di nuovo il proletariato nelle condizioni di miseria degli anni ’50. La situazione economica, politica, sociale, è radicalmente diversa ma il nocciolo del problema è sempre lo stesso: il proletariato potrà difendersi soltanto se riuscirà a forgiarsi di nuovo la sua organizzazione di battaglia. Questo, se ieri voleva dire lotta all’interno della CGIL per difenderne i caratteri classisti, per cacciare i dirigenti venduti, oggi vuol dire svuotamento dei sindacati tricolore e costituzione di una organizzazione proletaria di classe libera dal controllo dello Stato e della sua polizia sindacale.
 
 

10. L’ACCORDO PER LA SCALA MOBILE CAPOLAVORO DEL SINDACALISMO TRICOLORE
 

L’istituzione del meccanismo della scala mobile può essere considerato il capolavoro della politica sindacale tricolore. Esso è stato uno dei fattori basilari di mantenimento della pace sociale e della disciplina nel lavoro dal dopoguerra ad oggi.

Abbiamo visto in quali condizioni di miseria vivevano le masse nell’immediato dopoguerra. Il vertiginoso aumento del prezzi di quegli anni (+67% nel 1943, +344% nel 1944, +96% nel 1945) poneva in maniera drammatica il problema di un adeguamento dei salari al costo della vita.

D’altra parte la Confindustria chiedeva mano libera per licenziare gli operai in soprannumero e un sistema salariale che riducesse al minimo le possibilità di azione rivendicativa operaia. Abbiamo anche visto come nel gennaio 1946 la CGIL avesse accettato lo sblocco totale dei licenziamenti, costretta a fare marcia indietro dopo pochi mesi a causa della pressione delle masse.

Con i contratti interconfederali del 6 dicembre 1945 in Alta Italia e 23 maggio 1946 nel Centro-Sud furono adottate tabelle salariali uniche per tutta l’industria, non modificabili da accordi locali o aziendali, ed era introdotto il lavoro a cottimo e gli incentivi di produzione.

Il 27 ottobre 1946 fu firmato l’accordo sulla scala mobile nell’industria che prevedeva: l) Indennità di contingenza uguale per tutta l’industria, senza distinzione tra operai comuni, specializzati, impiegati; 2) Diversità del punto sulla base dell’età e del sesso: una donna percepiva solo 1’87% della indennità spettante ad un maschio; ai minori di 16 anni ne spettava il 50%; 3) Il calcolo dell’indennità, bimestrale, addiveniva a valori diversi provincia per provincia; 4) Il paniere rispecchiava le spese mensili di una famiglia tipo di 4 persone: alimentazione (73% del totale), vestiario, spese sanitarie, igiene, divertimenti, varie.

Allora il meccanismo non venne giudicato "perverso", come oggi, tant’è che il presidente della Confindustria Andrea Costa così lo commentava: «Il sacrificio che gli industriali si assumono è indubbiamente pesante e potrà essere compensato soltanto da un aumento della produttività in relazione ad un miglior rendimento della manodopera. Se interpretato ed applicato in buona fede, e nulla ci lascia dubitare che ciò non debba essere, l’accordo dovrà determinare una sospensione di tutte le agitazioni, anche alla periferia, ritornando alfine la tranquillità e aumentando il ritmo di lavoro nelle officine e nei cantieri» ("Corriere della Sera"). Chiaro il significato politico di questo accordo: gli industriali pagavano una tangente per comprarsi la tranquillità nelle aziende e la pace sociale.

Le esigenze degli industriali trovavano ampia eco nelle alte sfere della CGIL, allora già, nella sua politica, sindacato di regime. Al congresso di Firenze, nell’agosto del ’47, Di Vittorio disse:

«Non è possibile elevare il tenore di vita delle masse popolari italiane se noi non aumentiamo la produzione, se non utilizziamo tutte le possibilità produttive del nostro paese, se non abbassassimo il costo della produzione, se non miglioriamo il rendimento del lavoro».
Il meccanismo della scala mobile aveva però il grosso difetto di produrre il famoso "appiattimento", cioè il livellamento dei salari, fatto quanto mai sgradito, allora come oggi, ai padroni e ai sindacati di regime. Il nuovo balzo dei prezzi verificatosi nel 1947 (+62%) rese evidente e accentuò questo fenomeno. Poiché – proprio per effetto della pace sociale – il salario base rimaneva pressoché inalterato, diminuiva la sua parte rispetto alla contingenza, che dal ’46 al ’47 passava dal 60 al 70% del salario. Perciò il 1° giugno 1947 un nuovo accordo ritoccava il meccanismo della scala mobile per trasferire una parte della contingenza nella paga base in modo da riportare la differenza fra le categorie secondo gli indici: manovale 100, manovale specializzato 108,5, operaio qualificato 115, operaio specializzato 127,5. La modifica del 1947 non ebbe però gli effetti sperati tanto che si resero necessari una serie di successivi conglobamenti.

Il 21 marzo 1951 ci fu una sostanziale revisione del meccanismo con un accordo che prevedeva: 1) Calcolo del costo della vita a livello nazionale sulla base della media dei dati relativi a 16 capoluoghi di provincia; 2) Introduzione della diversificazione per grandi aree geografiche: il valore del punto di contingenza veniva fissato al 20% in meno nell’Italia meridionale rispetto al Centro-Nord; 3) Differenza del punto base per qualifiche secondo gli indici: 100 manovale, 112,6 qualificato, 125,4 specializzato, 111,8 impiegato di III, 134,3 impiegato di III-A, 180,4 impiegato di II, 239,4 impiegato di I; 4) Modifica del paniere per tener conto dei mutamenti dei consumi: alimentazione, elettricità e combustibile. Il paniere che fu stabilito nel 1951 non ha subito sostanziali mutamenti e ancora oggi rappresenta la base per il calcolo della contingenza; 5) L’adeguamento dei salari viene portato da bimestrale a semestrale.

Un nuovo accordo del 1957 stabilì l’azzeramento della base per il calcolo delle variazioni del costo della vita al 1956 (maggio-giugno 1956= 100), e portò gli scatti da semestrali a bimestrali.

Solo nel maggio 1959 il meccanismo di scala mobile era esteso al Pubblico impiego ma con notevoli differenze rispetto all’industria: 1) La contingenza era calcolata solo su una parte del salario base (L. 40 mila); ne risultava un punto del valore di L. 400 mentre nella industria era di L. 948; 2) Rilevazione degli aumenti annuale anziché trimestrale e corresponsione dell’indennità solo dal 1° gennaio dell’anno successivo; un ritardo quindi di 18 mesi.

Fu solo con l’ondata rivendicativa del 1969 che i bonzi furono costretti dalla pressione della base a porre la rivendicazione dell’abolizione delle "zone", o "gabbie", salariali, dell’inquadramento unico, degli aumenti uguali per tutti, dell’abolizione degli incentivi.

Con l’accordo del gennaio 1975 era stabilita la progressiva unificazione del punto ai valori del parametro più alto e la concessione a tutti i lavoratori di L. 12.000 mensili a titolo di parziale risarcimento per il cattivo funzionamento del vecchio meccanismo. Il valore del punto era portato inoltre al livello attuale, cioè di L. 2.389.

Con l’accordo del giugno ’75 il punto di contingenza anche nel Pubblico Impiego fu progressivamente allineato a quello dell’industria fino alla parificazione, raggiunta nel luglio 1978. Il rilevamento e la corresponsione dell’indennità divenivano semestrali. La contingenza trimestrale arrivò nel Pubblico Impiego solo nel 1979.

Questa la tormentata storia del meccanismo della scala mobile che padroni e sindacati insieme vollero costruire con il preciso scopo di ottenere la pace del lavoro: si concedeva qualche briciola ai proletari per prevenire gli scioperi della parte più concentrata e più pericolosa del proletariato italiano: gli occupati dell’industria.