Partito Comunista Internazionale Stampa in lingua italiana
L’azione e la politica dell’opportunismo nel dopoguerra segnano l’assoggettamento dei sindacati tricolore al Capitale e al suo Stato

["Il Partito Comunista" n. 104-109 – aprile-settembre 1983]
 

1. Premessa e collegamento
2. Le disperate condizioni di vita del proletariato italiano nell’immediato dopoguerra
3. Stato e sindacati scissionisti uniti nella repressione antioperaia
4. La politica collaborazionista della CGIL
5. Paternalismo aziendale e codismo della CGIL
6. La diversificazione dei salari
7. Il dramma dell’immigrazione interna
8. La contrattazione articolata
9. Primi richiami all’unità sindacale
10. L’ "unità d’azione" stronca le grandi lotte 1960-’62
11. La rabbia operaia esplode in Piazza Statuto
12. La "crisi congiunturale" fra riformismo sindacale e repressione statale
13. Le premesse degli scioperi del ’68
14. La vertenza sulle pensioni e sulle "zone salariali"
15. Nascita dei Comitati Unitari di Base
16. Limiti dei C.U.B e disfattismo dei gruppettari
17. Dopo l’ "autunno caldo" i Consigli di fabbrica 
18. L’organizzazione dei sindacati nelle fabbriche
19. La "contrattazione integrativa"
20. La funzione dei CdF e il giudizio del Partito
21. Verso un moderno sindacato di regime
22. Progressiva involuzione
23. Cadono i presupposti per il lavoro interno alla CGIL
24. L’opportunismo sindacale di fronte alla crisi
25. Reazione operaia fuori e contro le strutture
26. I nuovi Comitati Unitari di Base 
27. L’indirizzo del Partito
28. Verso la riorganizzazione di classe
 

1 - Premessa e collegamento

Nel lavoro sulla questione sindacale, pubblicato sul n. 10 di "Comunismo" abbiamo tracciato una sintesi di tutta la storia del movimento sindacale sotto l’angolatura che ha sempre direttamente interessato il movimento comunista: ci eravamo proposti, come è nostro metodo, di trarre degli insegnamenti dalla storia passata del movimento operaio, e in rapporto alla situazione sociale di oggi, le indicazioni di massima di quella che dovrà essere la strategia rivoluzionaria che il Partito dovrà impostare nella prospettiva della futura ripresa della lotta di classe. Abbiamo tratteggiato il processo di involuzione della forma sindacato, o, meglio, delle associazioni classiste a contenuto economico, nel periodo dell’imperialismo. In particolare abbiamo voluto mettere in rilievo come queste tendenze non siano "scoperte dell’oggi" ma sempre apparse chiare ai marxisti in tutta l’evoluzione e le vicissitudini del movimento operaio in tutti i paesi, e questo per la semplice ragione che le leggi sociali che hanno regolato il loro sorgere dalle prime lotte operaie, così come la loro involuzione, appartengono intrinsecamente allo svolgersi del modo di produzione capitalistico.

Questa constatazione ci ha portato a mettere in risalto una classica tesi della sinistra comunista: che il futuro ripresentarsi del proletariato sulla scena della lotta di classe non potrà non essere accompagnato dal risorgere di associazioni proletarie di classe a contenuto economico, "non politico", per citare l’espressione di une scritto del 1951, che oggi noi, a puro scopo espositivo, e senza alcun mito verso particolari forme organizzative, chiamiamo “sindacato di classe”, in quanto è con questo termine che finora lo hanno conosciuto intere generazioni proletarie. La tesi del risorgere di organismi economici classisti è legata alla constatazione dell’irreversibilità del processo di assoggettamento allo Stato, nella fase imperialista, delle organizzazioni sindacali attualmente esistenti, fase che ha raggiunto il suo culmine nel secondo dopoguerra, in cui in tutti i paesi le organizzazioni sindacali nazionali sono divenute pilastri insostituibili dell’apparato istituzionale su cui si regge il dominio di classe della borghesia.

La sinistra ha messo in risalto questa caratteristica propria dell’assetto politico internazionale uscito dalla seconda carneficina mondiale al suo delinearsi, nell’immediato dopoguerra. Su questa base ha fin da allora negato qualsiasi validità classista in Italia al sindacalismo unitario resistenzial-democratico succeduto al sindacalismo fascista.

La particolare attenzione che il Partito ha dedicato ai risvolti italiani di questa tendenza internazionale deriva, oltre che per interessare l’area geografica entro cui prevalentemente si è svolta e si svolge la nostra pur debole possibilità di azione, dal carattere particolarmente mistificante che vi ha assunto, avendo dovuto l’opportunismo nostrano fare i conti con una classe operaia tradizionalmente combattiva, riluttante in molti suoi settori a sentirsi parte attiva e compartecipe del processo produttivo aziendale e del buon andamento dell’economia nazionale, un proletariato mosso da un sano istinto di classe ed incline a considerare i padroni, i governi, lo Stato e le sue istituzioni come nemici. Non si può negare che oggi, pur sotto i colpi incalzanti della crisi, questo istinto sia sopito sotto una cappa di apatica sfiducia e di accettazione a denti stretti della "politica dei sacrifici", ma con questa combattività classista l’opportunismo italiano dovrà ancora fare i conti.

In questo contesto l’azione dei sindacati, in particolare della CGIL, su cui più si scaricava il peso di questa combattività, è sempre stata caratterizzata da un equilibrismo tra la necessità di subordinare gli interessi dei lavoratori alle esigenze produttive capitalistiche e quella di apparire, attraverso l’azione rivendicativa, il reale e unico vero difensore della classe operaia. Questa contraddizione tipica di ogni sindacato di regime è più facilmente mascherabile nei periodi di sviluppo produttivo della macchina capitalistica, in cui i capitalisti possono permettersi di concedere ai proletari le briciole dei loro profitti, mentre assume, come oggi, aspetti stridenti quando l’opportunismo è costretto a gettare la maschera e ad apparire sempre più nei fatti come l’alleato prezioso dei borghesi, assumendosi il compito di imporre ai lavoratori, con ogni genere di menzogna e di inganno, i necessari "sacrifici" e ogni sorta di pateracchio con i rappresentanti ufficiali degli interessi capitalistici.

Proprio il fatto di dover svolgere questo ruolo classico di puntello del regime a diretto contatto con un proletariato che ha spesso scritto pagine formidabili nel libro dei conflitti di classe, ha permesso al sindacalismo di regime italico di acquisire una profonda e forse unica esperienza in questo campo, e oggi sa giocare carte abilissime nello scovare le forme più indolore possibile per far digerire ai lavoratori le misure anticrisi dei governi e delle organizzazioni padronali, fino al punto di fare proprie rivendicazioni che mirano a ridurre il potere d’acquisto dei salari e ad aggravare le condizioni di vita dei lavoratori e di presentarle come obiettivi operai.

È importante per il Partito avere una esatta cognizione delle caratteristiche di questa politica collaborazionista, di individuare le forze sociali che rappresenta, di ben valutare le reazioni operaie ad essa per prevedere le tendenze nel futuro svolgersi della ripresa di classe ed impostare una corretta soluzione tattica alle immancabili lotte operaie di un domani certo non molto lontano.

Nella seconda parte dello studio "Il Partito di fronte ai sindacati nell’epoca dell’imperialismo" abbiamo evidenziato in forma sintetica le tappe dell’involuzione del sindacalismo democratico nel secondo dopoguerra, verso l’abbraccio con le istituzioni statali in rapporto alla situazione sociale allora esistente. Ora vogliamo approfondire questo periodo, per cercare di cogliere il senso preciso dell’atteggiamento dei sindacati di fronte alle grandi questioni politiche ed economiche che hanno caratterizzato questo trentennio di vita sindacale per le masse operaie.

Potrebbe sembrare pedante il continuo richiamo agli atteggiamenti del sindacato in questo periodo, ma questi lavori di Partito non hanno un fine intellettuale e culturale ma di fornirgli una arma critica da rivolgere oggi contro questa influenza traditrice e per il continuo affinamento della tattica del Partito in campo sindacale.

Il nostro Partito, nel primo ventennio della sua attività come organizzazione formale, rifondato nel 1951 sulla base di corpi di tesi caratteristiche che lo inquadravano in modo organico e preciso sui binari della continuità teorico-programmatica della Sinistra Comunista e dunque nell’autentico marxismo rivoluzionario di sinistra (tutti aggettivi che siamo costretti ad usare per distinguerci non solo dal pestilenziale opportunismo ufficiale ma anche dal multiforme pullulare di gruppettini di pseudo-rivoluzionari che ad esso pretendono di richiamarsi, perché un marxismo "diverso" non esiste), si dette per l’Italia una tattica sindacale improntata sulla prospettiva del ritorno delle masse operaie all’azione di classe, della riconquista delle strutture sindacali esistenti, in particolare quelle della CGIL, in quanto in essa militava la gran parte del proletariato più combattivo. Quindi prevedeva il lavoro al loro interno, con l’adesione a questi sindacati dei militanti operai del Partito e il costituirsi nel suo seno dei gruppi comunisti.

Nell’ultimo decennio il Partito ha abbandonato questa tattica a favore di una posizione tendente a privilegiare un processo che vedrà la ripresa della lotta di classe esprimere organismi economici immediati estranei e antitetici ai sindacati attuali. Si è abbandonato il lavoro interno di frazione per orientarci verso la prospettiva dell’organizzazione indipendente da questi sindacati, pur non escludendo "per principio" la possibilità, peraltro poco probabile, di dover tornare in futuro ad una battaglia al loro interno.

Entrambe queste scelte tattiche non sono state il frutto di sperimentalismo, né indirizzi volontaristici e attivistici che, sostituendo il partito alla classe, preferissero un particolare indirizzo organizzativo classista, ma la logica deduzione tattica conseguente alla valutazione della situazione esistente in seno al movimento sindacale operaio e alle “sue” organizzazioni, in rapporto alle lotte e alla rispondenza ad esse dei settori operai più combattivi.

La storia delle lotte sindacali di questi anni è quindi importante anche sotto questo aspetto, perché è da essa che il Partito deve trarre gli spunti più significativi per il suo indirizzo tattico.
 

2 - Le disperate condizioni di vita del proletariato italiano nell’immediato dopoguerra
 

Questo lavoro vuole essere anche il completamento della serie, poi interrotta, di articoli apparsi sul nostro giornale dal n. 64 sotto il titolo "La rifondazione post-bellica dei sindacati italiani nello spirito nazionale, patriottico, corporativo". In questi articoli è stato messo in luce un aspetto, già ampiamente trattato in altri lavori di Partito: la totale subordinazione dell’allora unitaria CGIL alla politica di ricostruzione dell’economia nazionale dissestata dalla guerra esaminando il periodo dalla fine del conflitto, o meglio, dalla fondazione della CGIL con il "Patto di Roma" del ’44, alla scissione sindacale del ’49. Non riprenderemo questo argomento, trattato ampiamente in quel rapporto, limitandoci a ricordare come quegli furono anni di lotte durissime che, specie nel Sud, assunsero spesso carattere quasi insurrezionale, seguite da sanguinose repressioni. Una movimento spontaneo disposto anche a portarsi su di un piano più generale, come fu nella reazione all’attentato a Togliatti, subito stroncato dall’azione congiunta PCI-CGIL. La scissione sindacale fu il riflesso in questo campo di avvenimenti internazionali caratterizzati dalla "guerra fredda", ovvero dalla contrapposizione politico-economica dei due blocchi imperialistici usciti dalla Seconda Guerra mondiale che ebbero come conseguenza politica in Italia la frattura del governo di unità nazionale e la cacciata all’opposizione di PCI e PSI che, immediatamente, e tramite la CGIL, si assunsero il ruolo di elastici controllori del minaccioso movimento proletario, tormentato da condizioni di vita drammatiche, ai confini della miseria più nera.

«Questa scissione – abbiamo scritto in quell’articolo – operata a freddo in un momento di spietato attacco padronale, apparve al proletariato italiano come una pugnalata nella schiena, un tentativo di dividere e smembrare le proprie forze. Le organizzazioni sindacali nate da questa scissione finanziata dagli americani apparvero come un tentativo di ricostruire le organizzazioni bianche e gialle del primo dopoguerra contrapposte all’organizzazione rossa. Di fatto, come la patriottica CGIL del ’48 non aveva nulla a che vedere con la CGIL del ’19, così CISL e UIL non erano che la brutta copia delle organizzazioni bianche del primo dopoguerra (...) Ma, data la particolare situazione internazionale di guerra fredda, dato l’ostracismo che gli americani imponevano nei confronti del PCI, che pure si dichiarava ed era sinceramente nazionale e patriottico, la CGIL apparve alla parte più combattiva del proletariato italiano come l’organizzazione rossa contrapposta alle altre centrali legate ai padroni e allo Stato. Essere iscritti alla CGIL in quegli anni voleva dire esporsi alle angherie padronali, ai licenziamenti, alle repressioni, non avere nulla da guadagnare sul piano personale. Con la generosità e il coraggio che da sempre lo contraddistingue, il nucleo più combattivo del proletariato si strinse attorno a questa bandiera colmando di odio e di disprezzo i galoppini della CISL e della UIL».
È in questa situazione che il Partito vide suo naturale campo d’intervento e d’azione la CGIL, perché era in essa che si organizzava il proletariato più combattivo e suscettibile all’influenza delle posizioni del Partito rivoluzionario.

Come si è detto la scissione sindacale cadde sulla testa di un proletariato attanagliato da condizioni di vita e di lavoro miserabili, da sottoalimentazione. Un’indagine dell’OECE sulle disponibilità medie giornaliere di proteine, grassi e calorie nei 12 paesi europei, vedeva l’Italia all’ultimo posto con un 15-17% in meno rispetto agli anni dell’anteguerra, che già erano di fame e miseria. Se si considera la solita fregatura interclassista delle “medie” statistiche, si ha un’idea delle spaventose condizioni dei proletari.

La stessa sociologia borghese, come sempre asservita ai dettami dei potenti e delle classi privilegiate, era costretta a prenderne atto con toni che ricordano i passi classici di Marx sull’alienazione del lavoro salariato e di Engels sulla "Condizione della classe operaia in Inghilterra". Significativi alcuni brani di Simone Weil da "La condizione operaia": «Egli consuma nella fabbrica, talora fino al limite estremo, quel che ha di meglio di sé, la sua capacità di sentire, di pensare, di muoversi; la consuma perché quando esce ne è svuotato; eppure non ha messo nulla di se stesso nel lavoro, né pensiero, né sentimento, e nemmeno, se non in debole misura, movimenti determinati da lui in vista di un fine». E, più avanti: «Si possono vedere delle donne aspettare dieci minuti davanti a una fabbrica sotto la pioggia battente di fronte ad una porta aperta, dove passano i capi, finché non è suonata l’ora: sono delle operaie; quella porta è più straniera per loro di qualsiasi casa sconosciuta dove con la massima naturalezza entrerebbero per ripararsi». Weil esclama con candido stupore: «Bisogna che lo vita sociale sia proprio corrotta in profondità, se gli operai si sentono in casa propria nella fabbrica quando scioperano, ed estranei quando si lavora!».

Ancora alcuni dati: da una inchiesta parlamentare sulla miseria, condotta per volontà del governo e conclusasi nel ’52 (e si sa che questo tipo di inchieste peccano sempre abbondantemente per difetto) risultò che 2.800.000 famiglie vivevano in case con più di 4 persone per stanza o in abitazioni "improprie". Inoltre il salario medio mensile dell’operaio, calcolato dividendo il monte-salario per il numero dei lavoratori occupati, veniva indicato nel ’51 dal Ministero del Lavoro in Lire 26.790, mentre il costo della vita per la "famiglia tipo" oscillava sulle 50.000 al mese. Ma questi calcoli partivano dal monte-salari ufficiale, che non teneva conto delle inadempienze contrattuali di un numero elevatissimo di imprese che tendevano in generale ad eludere il pagamento delle festività lavorative, della tredicesima, dei contributi assicurativi.

Oltre che sotto l’aspetto salariale, la precarietà dei rapporti di lavoro era un fenomeno generalizzato e trovava alimento nell’esercito di riserva dei disoccupati. Nonostante l’industria italiana fosse all’inizio di una fase di ripresa, la disoccupazione non accennava a diminuire perché le aziende si andavano organizzando su basi tecnologicamente più moderne e l’aumento della produttività del lavoro, come sempre, indusse i capitalisti a ridurre la forza lavoro. Dalle statistiche risulta che nel 1950, sul totale dei lavoratori occupati, quelli che trovarono un posto furono il 4,94% e quelli che lo persero, il 5,93%. I licenziamenti colpivano in particolare le operaie, spesso espulse all’inizio della gravidanza o addirittura al momento del matrimonio. La disoccupazione era in aumento, sotto l’effetto di una depressione economica che si accentuò nei primi due-tre anni del decennio: nel ’50 l’occupazione scende di 40.000 unità e nel ’52-’53 di 160.000.

Lo sfruttamento della forza-lavoro raggiungerà intanto il massimo possibile della compressione psico-fisica degli operai con l’introduzione nell’organizzazione del lavoro in fabbrica, del sistema Taylor, fondato su un rigoroso controllo cronometrico dei tempi delle fasi lavorative in rapporto al cottimo, e ai compensi incentivanti che si aggiungevano alla paga base in proporzione alla quantità di lavoro prodotta. Importato dagli USA, in cui peraltro trovava applicazione in una struttura produttiva molto più avanzata tecnologicamente, applicato in Italia, si estese nella prima metà degli anni ’50 a un tessuto produttivo che si andava ammodernando con estrema lentezza, produsse quello che fu definito "taylorismo da straccioni", ossia uno sfruttamento paurosamente intensivo della forza-lavoro.
 

3 - Stato e sindacati scissionisti uniti nella repressione antioperaia

A questa situazione di super-sfruttamento della classe operaia andava ad aggiungersi un clima di feroce repressione statale e padronale nelle fabbriche verso gli operai più combattivi, con vere e proprie purghe contro gli iscritti alla CGIL, metodo questo che, specialmente alla FIAT e su precise disposizioni dei circoli politico-economici internazionali legati all’imperialismo americano, durerà fin verso il ’58-’59, mentre le forze di polizia, le questure, le prefetture lavoravano apertamente in collegamento con le direzioni aziendali per schedare gli operai in base alle loro tendenze politiche e alla loro "condotta morale", come si può leggere sui formulari regolarmente stampati e firmati che i Commissari di Pubblica Sicurezza inviavano alle aziende per avere informazioni sui loro dipendenti. Non ci sono dubbi che un simile collegamento non ha mai cessato di esistere ma, come sempre, ogni aspetto della repressione antioperaia, viene svelato a scopo intimidatorio nei periodi, come allora, in cui le tensioni sociali e i fermenti proletari diventano minacciosi. La situazione creatasi in campo sindacale in seguito alla scissione del ’48 favoriva indubbiamente il controllo politico della classe operaia da parte delle istituzioni preposte. I sindacati bianchi e gialli CISL e UIL, la prima in particolare, ma indirettamente anche la CGIL con la sua politica riformista, si dimostrarono subito preziosi collaboratori del padronato. Il flusso migratorio della forza-lavoro sul territorio nazionale dal ’53 raggiunge notevoli proporzioni con l’esodo dei contadini dalla campagna e con l’emigrazione interna della popolazione delle regioni più povere verso i "poli industriali".

La CISL, finanziata esplicitamente dagli americani, era l’espressione più classica della borghesia italica, bigotta e stracciona, impegnata a spremere ogni possibile goccia di sudore operaio, con l’aperta complicità dell’apparato della Chiesa, sfruttando la sua presa su popolazioni di origine contadina che, spinte dalla miseria e dalla fame, si apprestavano a vendere le proprie braccia nel ciclo infernale della produzione capitalistica. Facendo leva sullo spirito di sottomissione religiosa delle masse contadine proletarizzate in cerca di occupazione le sedi CISL divennero centri di lotta antisindacale foraggiati e incoraggiati dal padronato. Le correnti migratorie che dal Veneto raggiungevano le provincie più industrializzate del Piemonte e della Lombardia erano caratterizzate in prevalenza da lavoratrici nubili; da qui lo sviluppò dei cosiddetti "convitti", gestiti generalmente da suore con criteri di tradizionale severità. Quando nelle fabbriche si preparavano le elezioni per il rinnovo delle commissioni interne, le convittrici partecipavano a preghiere collettive perché venissero eletti i candidati della CISL. Non è un mistero poi che occorresse la "raccomandazione" delle curie e delle sagrestie agli operai in cerca di occupazione a garanzia del loro comportamento sottomesso.

La UIL era invece prevalentemente dedita ad inquadrare le aristocrazie operaie e i "quadri intermedi" e quindi anch’essa, seppure in misura minore perché quantitativamente più debole, contribuì al rafforzamento del cordone sanitario nelle fabbriche intorno ai settori più combattivi del proletariato.
 

4 - La politica collaborazionista della CGIL

E la CGIL? Fedele al ruolo di sindacato democratico-nazionale, che per nulla aveva abbandonato dopo la scissione, alle spinte di un esercito di proletari in condizioni disperate e di una marea crescente di disoccupati antepose, allora come oggi, gli imperiosi interessi della nazione, del "progresso" economico e sociale dell’Italia; o meglio pretese di risolvere questi interessi attraverso lo sviluppo capitalistico, com’è nel classico spirito del riformismo e com’è nell’aspirazione delle stesse forze che incarnano gli interessi diretti del capitale. È in questo spirito che, nel secondo Congresso nell’ottobre del ’49 e, successivamente, nella "Conferenza di Produzione", la CGIL lanciò il suo "piano di lavoro" e si dichiarò pronta a far ingoiare "minori sacrifici" ai lavoratori, ammesso che fosse ancora possibile sacrificarli più di quanto già fossero. In mezzo a milioni di proletari che soffrivano la fame, la preoccupazione dei caporioni del sindacato "rosso" era convincere i capitalisti dell’efficienza produttiva e proficua dei loro progetti. Seguiamo la relazione di Di Vittorio nei suoi passaggi salienti:

   «I lavori che noi proponiamo sono utili, produttivi, redditizi. L’investimento di capitali in tali opere sarebbe nella maggior parte dei casi conveniente anche dal punto di vista del calcolo economico del capitalista. Abbiamo bisogno di fare questi lavori, di risolvere questi problemi angosciosi della nazione, questi problemi che condizionano la vita ed il piccolo passo verso il progresso dell’Italia. Perché non si fa nulla? Perché in primo luogo l’attuale struttura economica ci impedisce ogni passo in avanti e perché manchiamo di investimenti di capitali».
Ed ecco i punti del piano:
     «1) Nazionalizzazione delle aziende elettriche monopolistiche e costituzione di un ente nazionale dell’elettricità che assuma la gestione delle aziende nazionalizzate, con il compito precipuo di promuovere in breve termine la costruzione di nuove centrali idroelettriche in misura sufficiente per soddisfare le esigenze dello sviluppo produttivo e civile del paese;
     «2) Costituzione di un ente nazionale per la bonifica, le irrigazioni delle terre e le trasformazioni fondiarie, col compito di promuovere un intenso sviluppo dell’agricoltura italiana, specialmente nel Mezzogiorno, collegate all’inizio della realizzazione della riforma agraria;
     «3) Costituzione di un ente nazionale dell’edilizia popolare, col compito di promuovere la costruzione di case popolari, scuole, ospedali, ecc., in tutte le province d’Italia, principalmente nelle zone più devastate dalla guerra;
     «4) Realizzazione di un vaste programma di opere pubbliche essenziali ad un minimo di civile convivenza (strade, acquedotti, fognature, illuminazione, telefoni, ambulatori)».
Per finanziare questo piano, parte del quale sarà poi attuato dalla borghesia perché confacente ai suoi interessi in quanto realizzava le strutture sociali indispensabili per oliare a dovere il meccanismo della produzione e del mercato, e non certo perché le proponevano i suoi "servi sciocchi", Di Vittorio propone: «qualche cosa [non troppo, per carità!] si può ricavare dai ceti possidenti, dai grandi latifondisti, dagli agrari, dagli industriali monopolisti, che, avranno le loro terre bonificate, irrigate, i loro impianti accresciuti e rimodernati e non pretenderanno di avere gratis questi lavori». La seconda fonte di finanziamento sarebbe dovuta venire «da un orientamento organizzato del risparmio nazionale verso gli investimenti produttivi», come se non fosse questa una delle aspettative più trepidanti di tutti gli imprenditori, e infine «da prestiti esteri, che non menomino l’indipendenza economica e politica della nazione».

Queste enunciazioni riformistiche, a cui si affiancavano, a livelli aziendali, le proposte delle Conferenze di produzione (tipo quelle della Fiat in cui la CGIL propose il "piano per dare l’automobilina a tutti gli operai", quello della famosa "600") si traducevano sul piano pratico in un abbandono della difesa dei salari e delle condizioni più elementari di vita degli operai.

Quando, nel ’52, queste condizioni raggiungono forse il punto più basso del dopoguerra, nel III Congresso della CGIL non una parola si leva in questa direzione e la rabbia e i malanni di milioni di proletari sono attutiti alla rassegnazione e dalla fame. La "Mozione unitaria" che conclude il congresso è tutto un inno alle grandiose conquiste della democrazia, alla pace tra i popoli, alla concordia nazionale:

     «La CGIL richiama l’attenzione di tutti i lavoratori italiani sul legame diretto che si è formato tra la lotta per la difesa del proprio lavoro, del proprio pane e dei propri diritti elementari, con la lotta in difesa delle libertà democratiche conquistate, per la realizzazione delle riforme sociali indispensabili, per la difesa del bene supremo del popolo dell’Italia e dell’intera umanità: la Pace (...) In questa lotta per il benessere, per il progresso, per la libertà e per la pace, tutti gli strati del popolo sono direttamente interessati: la CGIL chiama le organizzazioni confederate a realizzare rapporti di buona intesa, di collaborazione e di reciproco aiuto con gli artigiani, commercianti, coi piccoli e medi produttori agricoli ed industriali, coi professionisti e con ogni altro strato del ceto medio lavoratore facendo proprie le loro legittime rivendicazioni, perché tutto il popolo unito riesca a far prevalere i bisogni di vita e di sviluppo della Nazione, sull’egoismo cieco delle oligarchie capitalistiche e agrarie».
Avrà certo ragione Di Vittorio in questo congresso a proclamare: «Noi siamo la forza più costituzionale che esiste oggi in Italia. La CGIL, sul terreno politico, vuole conservare le grandi conquiste sancite nella Carta costituzionale, nel patto fondamentale della società nazionale, consacrato dall’Assemblea costituente, eletta a suffragio universale». Questa fedeltà alla costituzione giungerà al punto che la CGIL – in contrasto perfino con la CISL che proclamerà la sua pretesa "indipendenza" dallo Stato (quale fosse questa indipendenza lo dimostrava continuamente nei fatti!) – rivendicherà più volte l’applicazione dell’art. 39, quello relativo al riconoscimento giuridico del sindacato come unico rappresentante di tutti i lavoratori.
 

5 - Paternalismo aziendale e codismo della CGIL

Impregnata fino al midollo di demagogia riformistica nazional-patriottica, la CGIL non poteva certo costituire il contraddittore classista al collaborazionismo di CISL e UIL. Anzi, il periodo di più acuto contrasto tra le confederazioni, che possiamo indicare dal ’52 al ’56-57, fu caratterizzato da roventi polemiche verbali che riflettevano sostanzialmente le posizioni politiche dei partiti a cui ogni confederazione faceva capo e che, di riflesso, trovavano alimento sul piano dei rapporti interimperialistici tra i blocchi usciti vittoriosi dalla carneficina bellica, dominato allora dalla cosiddetta "guerra fredda". Sul piano rivendicativo la CGIL mantenne sempre un atteggiamento di cedimento e di rinuncia alla lotta accettando nei fatti, al di là degli attacchi strumentali e delle polemiche verbali, l’operato degli altri due. Di fatto questo atteggiamento permise al padronato di stringere accordi capestro sia generali sia aziendali, con CISL e UIL, senza che la CGIL ne fosse coinvolta esplicitamente, ma senza che questa mai si opponesse a queste conclusioni, nonostante la sua forza contrattuale e la sua capacità di mobilitazione. Un esempio significativo fu quello della vertenza sul "conglobamento". Sotto la pressione della base operaia, sempre più esasperata dall’impoverimento dei salari, tutte e tre le confederazioni furono costrette a dare una risposta a queste spinte, e lo fecero attraverso una richiesta di conglobare nella paga base l’assegno di carovita e altre indennità minori e chiedendo contemporaneamente aumenti salariali. Ciascun sindacato presentò richieste separate. Per la UIL l’aumento del salario base doveva essere del 10%; la CISL chiedeva ritocchi salariali differenziati da un settore industriale all’altro, secondo la maggiore o minore produttività, in base a una logica che diverrà, come vedremo, il suo cavallo di battaglia prima, quello di tutti i sindacati poi. La CGIL presentò inizialmente una richiesta del 20%, pudicamente ridotta poi quasi al 15%.

Questa facciata di radicalismo rimase tuttavia tale, perché la vertenza si trascinò per due anni tra la stanchezza e la sfiducia degli operai. Mentre la CISL assunse subito un atteggiamento tiepido e fece capire che poco le interessava l’aumento salariale, la CGIL abbandonò l’impegno per questa vertenza, tutta protesa verso le elezioni politiche del ’53, ad accaparrare voti al PCI e al PSI tra una base operaia disorientata e confusa. Passate le elezioni, i sindacati filo-governativi si buttarono a capofitto nel sostenere i giochi e gli intrallazzi politici dei partiti e delle correnti per la costituzione dei nuovi governi. Dopo diverse peripezie di governi "di transizione" di cui è inutile narrare le gesta, la formazione del governo di centro-destra Scelba, tra DC-PSDI-PRI-PLI, per il quale si era battuta la CISL, indusse quest’ultima ad assumere un atteggiamento ancor più morbido, subito seguito dalla UIL.

A questo punto la Confindustria aprì il negoziato, ma fin dall’inizio dichiarò che avrebbe accettato soltanto di conglobare le varie voci salariali, senza aumenti. I dirigenti della CGIL subodorarono che si stava andando verso un accordo in questo senso e abbandonarono il tavolo delle trattative, senza tuttavia chiamare gli operai alla lotta, cosicché la Confindustria nel giugno del ’54 poté giungere ad un accordo separato con CISL e UIL: conglobate le voci retributive, gli aumenti variavano da categoria a categoria per un totale inferiore al 5%. Un paio di esempi bastano a commentare l’accordo: la paga oraria di un manovale comune aumentò, a Milano, da L. 139,05 a L. 142,50; a Torino da L. 133,55 a L. 139,38 e questo dopo che i salari erano fermi dai contratti del ’48-49 mentre in questi anni si era registrato un sensibile aumento del costo della vita.

L’assenza, nella politica rivendicativa della CGIL, di ogni serio riferimento all’esigenza di aumentare drasticamente i salari e di ridurre l’orario di lavoro è confermata dal fatto che i primi rinnovi contrattuali delle principali categorie operaie che avevano stipulato contratti collettivi di lavoro nell’immediato dopoguerra avverranno dopo 10 anni, nel ’59 e vedremo con quali deludenti risultati.

Che il poderoso sviluppo post-bellico del capitalismo italiano e in particolare del "boom" economico degli anni ’60 sia fondasse sui bassi salari e sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro è ormai da tutti accettato. Ma la dinamica attraverso cui ciò avvenne, e in particolare il ruolo specifico giocato dall’opportunismo sindacale delle varie correnti politiche riveste un’importanza fondamentale per capire gli sviluppi del movimento organizzativo sindacale del periodo seguente e fino ai giorni nostri.

L’atteggiamento arrendevole della CGIL di fronte alle pressioni del padronato e alla repressione nelle fabbriche, nonché di fronte alla politica apertamente collaborazionista della CISL e della UIL, provocò una sfiducia crescente dei proletari verso di essa, e questo si tradusse, sotto l’effetto combinato delle intimidazioni padronali e delle lusinghe dei sindacati filo-padronali, in un calo di adesioni alla CGIL e in un aumento del "peso contrattuale" di CISL e UIL. Alla fine del ’54 la CGIL denunciò 4.525.000 iscritti, la CISL quasi 2 milioni, la UIL 500.000.

Questa consistenza quantitativa permise alla CISL di svolgere un ruolo non indifferente nell’interpretare le esigenze del capitale aziendale e tradurle in atteggiamenti conseguenti in seno alle fabbriche. Ruolo che divenne prezioso quando l’industria italiana, a partire dal ’53-’54, incominciò ad affacciarsi sui mercati mondiali, trovandovi un terreno favorevole per le proprie merci, molto competitive grazie al progressivo, anche se lento, ammodernamento degli impianti produttivi sotto l’effetto dei piano Marshall e delle nuove tecnologie importate dagli USA e, come già detto, al supersfruttamento di un proletariato ridotto alla miseria.

Ciò si tradusse in un aumento progressivo dell’occupazione e in un relativo miglioramento salariale, differenziato però per categorie ed aziende. Questo non fu in risposta a rivendicazioni sindacali, mai richieste dai sindacati, ma concesso dai padroni per legare la forza-lavoro alla singola azienda, in un momento in cui l’espansione produttiva capitalistica prometteva facili ed ingenti profitti. Gli imprenditori puntarono così a svalutare la contrattazione collettiva, valorizzando le concessioni aziendali. Singoli imprenditori, per iniziativa autonoma o trattando con rappresentanze sindacali accomodanti, tra cui i bonzi e bonzetti della CISL ma anche formazioni sindacali create ad arte e su misura dalle stesse aziende, concedevano trattamenti sensibilmente migliori rispetto a quelli della contrattazione collettiva, ottenendo di screditare i sindacati, in particolare la CGIL, davanti agli operai e di presentarsi ai lavoratori e ai giovani in cerca di lavoro come un "buon padrone".

Il livello sempre basso dei salari contrattuali e la complice acquiescenza dei sindacati ufficiali lasciavano all’imprenditore un ampio margine per decidere di fatto le paghe reali, e, come conseguenza, un potere di manovra e di pressione anche psicologica sui singoli lavoratori. È il periodo del fiorire del paternalismo di azienda, degli accordi di maggior favore, dei sindacatini padronali inseriti nell’ambiente sociale circostante la fabbrica, che ne captavano la forza-lavoro più docile e servile, facendo leva sulla promessa del "posto sicuro", della "posizione privilegiata", del "benessere crescente".

Cercavano di inquadrare i già occupati in azienda attraverso campagne intese a convincere l’operaio che le sue possibilità di guadagno sarebbero aumentate man mano che, abbandonata la via delle lotta, si fosse inserito con slancio collaborativo nella struttura produttiva aziendale. Ne sono un esempio classico il sindacato A.A. alla Olivetti. Alla FIAT la CISL era stata sostenuta apertamente dall’azienda nelle elezioni della C.I., al punto che lo stesso sindacato stava per essere screditato in modo plateale agli occhi dei lavoratori. Dovette intervenire la stessa segreteria nazionale CISL, il cui segretario Pastore si recò personalmente a Torino e, in una conferenza stampa, respinse l’interferenza padronale nelle elezioni di C.I. e annunciò che la CISL non avrebbe presentato proprie liste se l’azienda non avesse garantito la libertà di voto. Questo intervento provocò la scissione, che vide ben 100 membri CISL della C.I. su 144 prendere la via della costituzione del Sindacato Italiano dell’Automobile (SIDA), del quale l’azienda si servirà per concludere accordi separati a vantaggio delle categorie impiegatizie e dei tecnici specializzati.
 

6 - La diversificazione dei salari

Rispetto al periodo ’47-’53, in cui i salari erano rimasti di gran lunga al di sotto del costo della vita, aumentarono nel periodo successivo, ma, se esaminiamo la cosa da un punto di vista generale di classe, si vede che ciò non toglie che il capitalismo italiano continuasse a fondarsi su salari da fame. Si determinò infatti un sensibile divario tra categorie, qualifiche, zone geografiche. Ad esempio, un operaio comune nella siderurgia guadagnava, come minimo sindacale orario, 148 lire a Terni, 167 a Livorno, 179 a Milano. Esisteva poi una netta differenziazione fra le qualifiche più basse, che a mala pena arrivano al minimo di alimentazione necessario per sopravvivere, le categorie impiegatizie intermedie, e gli strati superiori, cani da guardia degli operai. È bene notare, per avere un’idea esatta della situazione, che nel ’56 i manovali erano ancora il 47% della manodopera industriale ai quali si devono aggiungere un 33% di salariati agricoli per un totale di 80% di forza-lavoro non qualificata di fronte ad un 20% di operai specializzati, impiegati, e "quadri". Inoltre, secondo un’inchiesta governativa, quindi non certo sospetta di filo-operaismo, condotta nel ’57 sul tenore di vita degli operai dell’industria, il salario globale medio, differenziato secondo le tariffe di zona e secondo una frazionatissima scala di qualifiche, presentava ampie oscillazioni, ma i redditi della grande maggioranza di lavoratori risultavano compresi (mettendo nel calcolo tutte le voci retributive) fra le 50.000 e le 60.000 lire mensili, «e già le 60.000 – affermava il rapporto della commissione governativa – sono una cifra che riguarda, come massa, soltanto le maestranze di alcune grandi aziende metalmeccaniche e chimiche del Nord». Quell’anno l’ISTAT rilevava che il bilancio di una famiglia di quattro persone necessario per affrontare le spese essenziali era di L. 70.371 al mese. Pur tenendo conto dello schematismo delle statistiche, che sempre maschera le situazioni peggiori e più diffuse, risulta evidente che, a 12 anni dalla fine della guerra e dopo che il proletariato già aveva pagato a duro prezzo la ricostruzione del tessuto produttivo nazionale, il salario era insufficiente a garantire il minimo vitale ad una famiglia in cui un solo membro lavorasse. Questo, tra l’altro, provocò un ricorso diffuso e generalizzato al secondo lavoro. Se a tutto questo, in quell’anno, si aggiungono 2.171.000 tra disoccupati e sottoccupati il quadro è completo: la grande maggioranza degli operai rimaneva vincolata a salari miserabili.

Nello stesso tempo iniziò il ricorso all’acquisto per cambiali, rate, ecc., fenomeno che fu poi chiamato del "consumismo" dalla sociologia borghese.

È naturale che su questa base, favorita dal concentrarsi del grosso della produzione manifatturiera nel cosiddetto "triangolo industriale", si creava un’infinita varietà di situazioni con differenziazioni notevoli tra categorie e categorie, tra Nord e Sud, tra regioni industriali in genere e regioni agricole. Ancora, tra nuclei familiari in cui lavorano più componenti o uno solo; fra lavoratori con più o meno figli; fra operai che pur lavorando in fabbrica mantengono i mezzi di sussistenza agricola da cui provengono, ecc. Pesante atomizzazione economica della classe operaia, concorrenza spietata fra operai e un esercito di guardiaciurma ben pagati che si organizzano nei sindacati bianchi e tengono a bada il proletariato spremendone le energie lavorative fino all’ultima goccia.

Tutta questa situazione, favorita dalla politica sindacale, spiega perché il periodo ’53-’59 è caratterizzato dalla assenza di grandi lotte rivendicative, tanto che la stessa repressione diretta da parte dello Stato si attenua dando modo agli opportunisti di magnificare le conquiste democratiche e le prospettive di un continuo progresso sociale, cosa che, apparentemente, è confermata appunto da una serie di aumenti salariali a livello aziendale che porta un certo numero di operai, i "più fortunati", a raggiungere un minimo vitale di sussistenza.
 

7 - Il dramma dell’immigrazione interna

Altro aspetto che non può essere trascurato della condizione operaia del periodo è quello dell’emigrazione interna, senza dimenticare naturalmente quella verso l’estero. L’afflusso al "triangolo industriale" di lavoratori di origine contadina in cerca di lavoro, provenienti dal Sud o dalle province depresse del Centro-Nord, accentuato dalle alluvioni di quel periodo nel Polesine e in Calabria, determinò intorno alle città del polo industriale, in particolare Torino e Milano, il sorgere di caotici villaggi in un ammasso urbano privo delle più elementari strutture igieniche, che contribuì non poco al manifestarsi di ogni genere di tensioni e di contraddizioni sociali dovute alle grosse difficoltà di inserimento dei nuovi venuti, che inoltre incontravano una certa avversione da parte della popolazione locale. Il fenomeno assunse dimensioni notevoli nelle zone urbane a nord di Milano che, dal ’52 al ’56 videro la popolazione locale aumentare del 16%. Questa massa di contadini proletarizzati sradicati dal proprio ambiente sociale si scontrava con il bisogno elementare della casa, proibitive all’interno delle grandi città, per i prezzi già allora elevati, relativamente meno nel raggio di 20-30 chilometri, purché si trovasse il modo di vendere, anche a bassissimo prezzo, la propria forza-lavoro. Nella "speculazione edilizia" si buttano le imprese del settore: nell’area Nord di Milano dal ’51 al ’57 il valore dei terreni aumentò nientemeno che del 1000% in media, con punte fino al 1200. I "piani regolatori" approntati dalle amministrazioni comunali venivano travolti prima ancora di essere varati. Dominava incontrastata su tutto l’avidità caotica e anarchica di valorizzazione del capitale, tanto più frenetica e incontrollabile quanto più singoli capitalisti, banche, imprenditori piccoli e medi fiutavano facili guadagni. Il bisogno della casa determinò una penosa situazione di sfruttamento a catena di proletari immigrati, altro esempio emblematico delle condizioni di vita operaie determinate dal cosiddetto "miracolo economico". I primi arrivati, che nel ’51-’52 avevano acquistato il terreno pagandolo 150-200 lire al metro quadro e vi avevano costruito la casetta da soli, al prezzo naturalmente di indicibili sacrifici, cominciarono a rivalersi sui proletari che giungevano con le successive ondate migratorie.

     «La casa – si legge in un volume-inchiesta redatto dall’ISTAT sul finire degli anni ’50 – comincia dalla cantina; è la cantina che permette la costruzione della casa, perché viene subito affittata ad una famiglia che non ha tutti i soldi per potersela costruire da sola; una famiglia vive in affitto in cantina, la famiglia del padrone di casa a piano terreno: sono due stanze e un bugigattolo, o una stanza con una tramezza. L’anno dopo, se le cose vanno bene, l’immigrato ha fatto un primo piano, nel quale andrà subito ad abitare. Gli inquilini della cantina saliranno a piano terreno e la cantina verrà ceduta in subaffitto ad una nuova famiglia appena arrivata».
In questa situazione ogni nucleo proletario tendeva a chiudersi in se stesso, per tentare con le sue sole forze di uscire dal ghetto di una miseria opprimente, a grave detrimento della coscienza di classe, e sulla quale speculava il racket della manodopera, che assumevano per conto terzi ai prezzi più bassi possibile. Tutto ciò va ricordato a coloro che oggi, crollati ormai i miti del "benessere crescente", che allora trovavano facile alimento nelle condizioni miserabili in cui viveva la classe operaia, accusano i proletari di essere finora vissuti "al di sopra delle loro possibilità". "Dimenticano" costoro che il "miglior benessere", se così lo vogliamo chiamare, di cui hanno goduto ampi strati operai nel ventennio trascorso, è stato solo per le briciole di una massa impressionante di profitti estirpati dallo sfruttamento bestiale, al limite della sopportazione fisica, della quale i proletari ne hanno poi beneficiato per una minima frazione.

A questa drammatica situazione abbiamo visto come i sindacati rispondevano con il disinteresse sul piano salariale che si concretizzerà, oltre che con la triste vicenda dell’accordo sul conglobamento, nei rinnovi contrattuali degli anni tra il ’54 e il ’58, i cui aumenti tabellari sui minimi non andranno mai oltre il 3,5%.

In compenso questi rinnovi serviranno ai sindacati per inculcare nei lavoratori il mito del contratto collettivo nazionale, una struttura di contrattazione oltre misura esaltata dai sindacati, anche dalla CGIL, un insieme di norme che regolano il rapporto di lavoro e che per tutta la sua durata sarebbero da considerarsi di per sé inviolabili. Il contratto assicura al padronato un riferimento su cui contare nello sfruttamento della forza-lavoro e soprattutto la pace sindacale per un tempo contrattualmente predeterminata. Rafforza nei proletari l’illusione che il padronato sia tenuto a rispettare certe clausole solo perché ha firmato un pezzo di carta e che la loro difesa possa demandarsi alla magistratura borghese, illusione di cui oggi i proletari pagano lo scotto, come hanno dimostrato i recenti episodi di operai ricorsi alla magistratura per difendersi dalla decisione padronale di porli in cassa integrazione.
 

8 - La contrattazione articolata

L’asservimento dei sindacati alle esigenze produttive capitalistiche si rileva non solo dai contenuti della loro politica rivendicativa ma dalle posizioni nei confronti della struttura della contrattazione, questioni del resto strettamente collegate tra di loro. Questa questione è importante per capire l’evoluzione o, meglio, l’involuzione delle organizzazioni sindacali di oggi rispetto al periodo considerato, in particolare per quanto riguarda il riavvicinamento delle tre confederazioni e la loro marcia verso l’unità di azione e, successivamente, di organizzazione, che si fermò tuttavia a livello federale e mai si concretizzò nel ritorno al sindacato unico dell’immediato dopoguerra. Permette inoltre di capire l’evoluzione che in questo trentennio hanno subito le strutture organizzative del sindacato nelle fabbriche, questione a cui dedicheremo un capitolo a parte. La struttura della contrattazione, ossia il livello specifico a cui si può o si deve riferire l’azione rivendicativa del sindacato, è di grande importanza in quanto permette al capitale di diversificare il controllo sulla forza-lavoro a seconda delle caratteristiche dei settori in cui si esplica la sua valorizzazione. La contrattazione sindacale del periodo ora visto presenta un accentuato carattere di centralizzazione, nel senso che l’azione sindacale si svolgeva su questioni di carattere generale, a livello soprattutto di confederazione nazionale e tendeva a concludere con il padronato degli accordi generali che stabilivano norme e disposizioni valide praticamente per tutte le categorie e settori produttivi.

Tale sistema contrattuale aveva una precisa giustificazione nella situazione oggettiva del dopoguerra e rifletteva l’esigenza del capitale, e principalmente delle istituzioni dello Stato, di inquadrare nel modo quanto più regolato ed uniforme possibile tutta la forza-lavoro necessaria per rimettere in funzione l’ossatura produttiva della nazione: i problemi che bisognava affrontare avevano un carattere generale e coinvolgevano tutti i lavoratori; la situazione esistente nei diversi settori industriali presentava caratteri di omogeneità; si ponevano in tutte le aziende problemi di riconversione, di ricostruzione, di riorganizzazione degli impianti. Superato questo periodo, ed entrato in una fase di espansione produttiva in tutti i settori, il capitale avverte l’esigenza di organizzare la forza-lavoro in funzione della produttività specifica di ogni settore e in base all’organizzazione del lavoro in ciascuna azienda.

Interpretando con coerenza di sindacato bianco questa funzione, la CISL scoprì, a metà degli anni ’50, la "contrattazione articolata", che diverrà negli anni ’60 il cavallo di battaglia di tutto il sindacato che si atteggerà e si dichiarerà disposto a cogestire con le direzioni aziendali la forza-lavoro e i cicli produttivi.

La prima esplicita richiesta cislina in questo senso risale al Consiglio Generale tenutosi il 24-26 febbraio 1953 a Ladispoli. Si parla espressamente di "superamento del contratto nazionale di categoria" o meglio di una sua "integrazione a livello aziendale" per manovrare sui salari e le qualifiche, troppo appiattiti verso il basso dal contratto nazionale, ma assumendo come parametro di riferimento la produttività dell’azienda. Dionigi Coppo, segretario confederale, nella sua relazione introduttiva riassume cosi il significato di questa nuova tendenza:

     «Si è fissato un principio ispiratore che regge tutto il sistema, e cioè: le possibilità reali di miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro sono strettamente collegate allo sviluppo dell’efficienza e della redditività del sistema. Da cui discende: da una maggiore efficienza e redditività si può ottenere il miglioramento della posizione sociale dei lavoratori come gruppo in seno alla comunità nazionale, e la possibilità di aumentare la forza, la presenza, l’importanza del movimento sindacale».
In particolare il quinto punto della "Mozione conclusiva sulle linee di indirizzo della politica salariale" afferma: «L’adeguamento richiesto, fermo restando la piena validità della contrattazione collettiva intercategoriale e categoriale, richiede l’introduzione e lo sviluppo di una prassi di accordi integrativi di azienda, per ciò che si riferisce all’inserimento nella remunerazione dell’elemento che esprime l’indispensabilità dell’apporto dei lavoratori agli sforzi diretti ad accrescere la produttività delle aziende».

Come si vede la CISL non si curava nemmeno di mistificare in senso pseudoclassista questa precisa scelta, compito che, come sempre, si assumerà poi la CGIL, ed enunciava esplicitamente la tesi classica degli apologeti del capitale secondo cui gli operai avrebbero tutto l’interesse ad adoperarsi per aumentare la produttività del lavoro nelle fabbriche in quanto questo si rifletterebbe positivamente sulla possibilità di acquisire un miglior benessere salariale. Per la sua realizzazione la CISL proponeva la creazione delle Sezioni sindacali d’azienda, che tuttavia, come vedremo, non godettero mai di autonomia contrattuale.

Questa proposta, soprattutto per i termini espliciti in cui era posta, provocò un’iniziale avversione nella CGIL, che ovviamente rifletteva gli umori di una base combattiva che mai avrebbe potuto accettare il principio di ancorare il maggior salario alla intensificazione dello sfruttamento, e una certa cautela da parte della stessa UIL. Ma questa opposizione non durò molto. Sotto la pressione oggettiva degli avvenimenti, e in particolare della repressione padronale nelle grandi aziende che tende quasi ovunque a privilegiare l’elezione dei membri della CISL nelle Commissioni interne, l’apparato dirigente della CGIL capì ben presto che, per sopravvivere come organizzazione e soprattutto per continuare a svolgere il ruolo di sindacato nazionaldemocratico che le istituzioni borghesi le avevano assegnato, occorreva rivedere la propria strategia rivendicativa ed adeguarsi a quanto sosteneva la CISL.

A far rompere gli indugi ai capi della CGIL intervenne un fatto clamoroso che provocò un vero e proprio trauma nella base CGIL: nel marzo ’55 le elezioni per il rinnovo delle C.I. alla Fiat – dove la CGIL aveva sempre ottenuto senza problemi la maggioranza assoluta – diedero il 41% alla CISL, il 36% alla CGIL, il 23% alla UIL. Questi risultati furono senza dubbio frutto delle intimidazioni e delle lusinghe della Fiat per ridurre la rappresentanza della lista FIOM, in ossequio alle pressioni americane che minacciavano di ridurre le commesse alle aziende in cui i "rossi" avessero la maggioranza. Le sezioni elettorali erano state aumentate al fine di ridurre il numero dei votanti iscritti a ciascun seggio e permettere così un controllo più capillare da parte delle gerarchie dell’azienda mentre nelle buste paga degli operai erano stati inseriti volantini con una vignetta raffigurante un omino che usciva da una porta su cui era scritto CISL-UIL ed entrava trionfante nei cancelli Fiat.

Anziché reagire con l’appello alla mobilitazione operaia contro questa intimidazione e denunciare la palese natura padronale di CISL-UIL, rivendicata dalla stessa azienda, i bonzi CGIL, nonostante le pressioni in questo senso della sua base più combattiva, ne trassero la lezione opposta: era giunto il momento di cedere a queste pressioni e di riavvicinarsi alle posizioni dei "concorrenti". L’intero apparato direttivo del sindacato attribuì questa clamorosa sconfitta ad errori di strategia rivendicativa «superata dagli sviluppi intervenuti in questi anni nell’organizzazione del lavoro aziendale» e invocò la necessità del cambiamento.

La "svolta" fu il tema dominante del IV congresso nazionale del 27 febbraio - 4 marzo 1956 che, proprio per questo, fu chiamato il congresso della "riflessione autocritica".

Formalmente le giustificazioni addotte erano in polemica con la CISL in quanto al centro della contrattazione integrativa articolata la CGIL pretendeva di porre gli interessi dei lavoratori, ma il richiamo era soltanto formale in quanto questa strategia servirà a concludere con le aziende una infinità di accordi capestro in cui, sotto la facciata rivendicativa di contrattare "tutti gli aspetti del rapporto di lavoro", in realtà il sindacato dette il proprio avallo all’introduzione di tutte le innovazioni tecnologiche e organizzative che le aziende ritenevano proficue per estorcere agli operai la maggior quantità possibile di plusvalore.

La più grande abilità del sindacati asserviti nel secondo dopoguerra è stata proprio quella di essere riuscito a far leva sulla fiducia che milioni di proletari riponevano in esso per presentare le loro strategie rivendicative tendenti a mascherare gli interessi del capitale come interessi dei lavoratori, così da deviarne l’energia di lotta classista verso obiettivi che in realtà si ritorcevano contro di essi. Questa impostazione si rileva già seguendo i passi salienti del congresso, vera miscela, dosata ad arte, di demagogia pseudo-classista e obiettivi antioperai.

Nei "Punti sui temi congressuali", con abilità polemica tale da suscitare l’assenso dei lavoratori, si parte dalla critica alla famigerata politica borghese delle "relazioni umane": «I lavoratori non possono considerare le relazioni umane né come riflesso ineluttabile del progresso tecnico né come contributo al miglioramento del clima sociale e aziendale, essi – che rimangono i più coerenti assertori delle forme avanzate di produzione – ritengono che la normalità dei rapporti nelle aziende deve essere fondata sulla contrattazione collettiva di tutti gli aspetti della prestazione d’opera, sull’assoluto rispetto dei diritti dei lavoratori, nonché su una rigorosa delimitazione dei loro doveri».

Ma il vero scopo della contrattazione articolata è portare la pace sociale nelle fabbriche, inchiodando gli operai ai cosiddetti "loro doveri" nel ciclo produttivo. L’obiettivo viene così mistificato: «Ottenere che tutti gli aspetti del rapporto di lavoro siano oggetto di contrattazione, e precisamente: la retribuzione in tutte le sue forme, la durata del lavoro, la misurazione dei tempi e la intensità dei ritmi, le modalità dell’organizzazione del lavoro, le condizioni igieniche e la sicurezza, la disciplina, le prestazioni previdenziali obbligatorie e integrative, le attività culturali e ricreative, la corretta applicazione delle leggi e dei contratti, in modo che nessuno di questi aspetti venga lasciato alla discrezionalità padronale, e in definitiva, articolare la azione rivendicativa, adeguandola alle diverse situazioni». Più avanti:

     «Particolare attualità riveste la regolamentazione degli elementi della retribuzione comunque collegati alla intensità del lavoro: cottimo, salario a incentivo, premi di produzione e altri. Le retribuzioni a incentivo debbono essere stabilite in modo da compensare integralmente, sulla base della retribuzione complessiva inerente alla qualifica del lavoratore, ogni ulteriore risparmio di tempo rispetto ai tempi-base; i tempi-base e i ritmi di lavoro debbono essere determinati in modo da garantire un equo guadagno e di non provocare il logorio psico-fisico del lavoratore».
Ogni dubbio sulle vere intenzioni con cui viene formulata la strategia dell’articolazione contrattuale è dissipato da Fernando Santi nella sua relazione:
     «La lotta per l’occupazione e per migliori condizioni di vita e di lavoro sono in definitiva le lotte per il progresso sociale ed economico del paese. Non possiamo più adattarci a formulazioni e azioni rivendicative di carattere puramente generale, che non corrispondono più ai bisogni che nascono dalle profonde differenziazioni in atto, fra luogo di lavoro, fra regione e regione, fra un settore produttivo e l’altro che, in particolare, non affrontano i problemi sorti dalle nuove forme della prestazione di opera e di organizzazione della produzione e dai nuovi sistemi retributivi aziendali da esse conseguiti».
Più oltre:
     «Io penso che la base della nostra strategia è nel metodo da seguire: effettiva contrattazione dei ritmi di lavoro e della retribuzione. Retribuzione che deve sempre corrispondere allo sforzo che si chiede al lavoratore. Questa contrattazione significa anche discutere gli stessi organici e cioè il numero e la qualifica degli operai da adibirsi ad una determinata lavorazione, le misure di sicurezza, ecc. In sostanza questa contrattazione implica che il lavoratore deve essere cosciente della necessità di agire sullo stesso processo produttivo e sulla organizzazione del lavoro ad essa conseguente».
In effetti questa tesi della "contrattazione di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro" poteva apparire suggestiva in quanto poteva sembrare corretto, da un punto di vista di classe, che il sindacato contestasse alle aziende questi aspetti specifici, ma in realtà non si tradurrà, come esprimono coerentemente queste premesse contrattuali, che in una partecipazione del sindacato alla catalogazione e utilizzazione aziendale della forza-lavoro in rapporto alle esigenze produttive dei cicli di lavorazione e di montaggio delle singole imprese.

Ma la caratteristica più negativa di questa impostazione, che il nostro partito denunciò subito e propagandò negli anni seguenti, è che la contrattazione integrativa, su cui si innestava logicamente la tattica sindacale delle "lotte articolate", era il canale attraverso cui l’opportunismo infieriva un colpo mortale alle lotte unitarie della classe operaia, spezzandone la forza d’azione in mille rivoli paralleli e mai convergenti. Sostenendo che ogni settore, ogni fabbrica, ogni reparto, al limite ogni operaio, aveva degli "interessi particolari" da difendere contro il padrone e per questo doveva lottare separatamente dagli altri, il proletariato cessava di essere considerato una classe e diveniva un insieme informe di individui e gruppi, ognuno inchiodato al suo posto di lavoro, alla sua specificità produttiva, con un suo patrimonio "professionale" da salvaguardare e valorizzare. Non più salariati costretti a vendere la loro forza-lavoro per vivere, e perciò caratterizzati da interessi comuni e contrapposti a quelli della classe dominante a cui sono costretti a vendersi, ma singoli "produttori", caratterizzati dall’esplicare quel particolare lavoro.

La classica tendenza rivoluzionaria dei reparti dell’esercito proletario ad unirsi, generalizzando le loro lotte al di sopra degli interessi particolari del reparto, della fabbrica, della categoria, si rovesciava nel suo contrario. La strategia dell’articolazione delle lotte e della contrattazione articolata determinò, come vedremo, la tendenza dell’organizzazione sindacale di base a strutturarsi aderendo all’organizzazione di fabbrica e il conseguente smantellamento da parte della CGIL della struttura organizzativa territoriale, almeno come riferimento per la lotta e di incontro extra-categoriale dei lavoratori e segnerà il suo definitivo abbandono anche formale di ogni richiamo classista, per divenire una vera e propria burocrazia del lavoro, sullo stile delle organizzazioni scissioniste CISL e UIL.

Il processo di riavvicinamento delle tre confederazioni non a caso iniziò proprio sotto l’impulso di questa strategia sindacale dell’articolazione, che porterà i sindacati a ritrovarsi sul terreno dell’azione comune rivendicando il riconoscimento contrattuale della contrattazione integrativa da parte del padronato.
 

9 - Primi richiami all’unità sindacale

Non a caso i primi richiami all’unità sindacale vengono dalla CGIL e sono lanciati da Di Vittorio in questo stesso congresso. Il lento ma costante riavvicinamento della CGIL alle altre due confederazioni sarà infatti caratterizzato negli anni ’60 da continui cedimenti dei dirigenti confederali di questo sindacato nei confronti della strategia della CISL e UIL, tradizionalmente arrendevoli sul piano della lotta, produttivistiche e aziendalistiche sul terreno rivendicativo. Naturalmente questo processo non è lineare, subisce alti e bassi, sotto l’influsso di una base combattiva che mal sopporta l’idea di dover unire le proprie forze con i baciapile della CISL e i ruffiani dichiarati della UIL, che in quegli anni si presentano nelle fabbriche come i disfattisti di ogni pur debole lotta. Su questa iniziale avversione della base più combattiva della CGIL all’unificazione sindacale il nostro partito tenterà di fare leva propagandando l’avversione all’unità con CISL e UIL in nome del ritorno alla tradizione di classe della CGIL, esaltando la necessità del lavoro interno a questa confederazione, perché lì militavano con battagliera convinzione le schiere più combattive del proletariato. Negli anni successivi il riavvicinamento delle confederazioni viene caldeggiato con crescente fervore dai vertici confederali della CGIL, ansiosi di ricongiungersi con i sindacati beniamini del padronato. Questa spinta di vertice si incentrerà con quelle della base della CISL e, in forme più caute, della UIL. Questo secondo aspetto del processo unitario non è meno interessante e significativo del primo, perché permette di capire come gli sforzi di tutto il sindacalismo di regime, da allora in poi, siano diretti nel senso di pervenire alla costituzione in Italia di un moderno sindacato unitario, "moderno" ovviamente in senso capitalistico, cioè caratterizzato dallo svolgere efficientemente quella funzione di regolatore delle tensioni sociali di un sindacato di regime, avvicinandosi quanto più possibile in questo ai sindacati unitari delle democrazie occidentali più stabili: tedesco-federale e anglosassone. Per giungere a questo risultato tutte le organizzazioni sindacali dovevano operare nel senso di racchiudere in sé le due caratteristiche necessarie: da un lato offrire alla borghesia e alle sue istituzioni le migliori garanzie di saper contenere e controllare le più pericolose spinte operaie, di saper plasmare il movimento nella loro politica riformistica e collaborazionista, ancorarlo al carro dell’economia nazionale e aziendale, subordinando gli interessi di classe a quelli della produttività economica capitalista in generale; dall’altro questo poteva essere offerto solo alla condizione che i sindacati al tempo stesso potessero apparire alle masse lavoratrici come i reali e soli possibili difensori delle loro condizioni di vita e di lavoro.

Il periodo di lungo e relativamente costante sviluppo della produzione industriale che si stava aprendo andava preparando le condizioni oggettive perché potessero attenuarsi le contraddizioni implicite in una simile funzione. In un periodo di crescita gigantesca dei profitti si erano create effettivamente le condizioni perché strati crescenti di proletari potessero, a prezzo di duro lavoro, godere delle briciole di questa spasmodica accumulazione capitalistica e i sindacati, sotto lo stimolo delle spinte proletarie, accaparrarsi il merito del relativo miglioramento delle loro condizioni di esistenza. Questa situazione imponeva, da un lato, alla CGIL di compiere ogni sforzo per liberarsi dall’immagine di "sindacato rosso", dall’altro lato la CISL da quello di sacrestia, bigotto e arrendevole, come appariva agli operai della CGIL. Questa seconda necessità non era meno importante della prima.

Del resto i giovani operai cislini, che erano giunti in gran parte dall’oratorio al "sindacato bianco", portatori di una mentalità contadina e cattolica, in anni di sviluppo industriale rapido, non tardarono a rimanere influenzati da uno spirito più genuinamente proletario. All’impatto con la dura realtà della fabbrica la cautela contadina e le idilliache e fasulle illusioni moralistiche e "umanitarie" cattoliche finivano col cedere il posto ad aspirazioni non dissimili da quelle di ogni altro operaio. Il padrone cominciava ad essere visto non come il benefattore da rispettare, ma colui che cercava di ottenere il massimo profitto da chi era costretto ad entrare in fabbrica. Queste tensioni determinarono, agli inizi degli anni ’60, dei movimenti di base nella CISL che spingevano verso l’unità di azione con le forze della CGIL.

La stessa dirigenza nazionale cislina si rendeva conto che l’esplicita collaborazione con le direzioni aziendali non poteva superare certi limiti senza correre il pericolo di svuotare le sue organizzazioni di base, così come aveva dimostrato il citato intervento di Pastore alla Fiat, quando la quasi totalità della CISL-Fiat si staccò per dar vita al SIDA. Qualcosa di analogo successe alla OM di Brescia ma stavolta per iniziativa della base FIM i cui quadri aziendali sconfessarono la Commissione Interna appena eletta nel consueto clima di interferenze e pressioni aziendali. La corrente FIM di "sinistra" che si coagulò da questa esperienza riuscì a vincere il congresso locale del novembre ’58 e divenne maggioranza nella FIM locale, che rimase tuttavia ancora minoritaria nella CISL bresciana e nella CISL nazionale.

Tuttavia quell’episodio innestò tutto un fermento all’interno della FIM nazionale e lunghe polemiche e scontri specie con la CISL. Al congresso nazionale FIM del marzo-aprile ’62 lo schieramento dei cosiddetti "innovatori" riuscì ad imporsi a maggioranza. Questo processo di "modernizzazione" della CISL non è certo da confondersi con un preteso avvicinamento della Federazione metalmeccanica cislina a posizioni classiste nel campo delle lotte operaie, come pretenderanno di asserire certi ambienti gruppettari sinistroidi nel ’68, che in essa entrarono a militare. Gli "innovatori" entrati nella FIM erano i giovani che arrivavano dalla "scuola di Firenze", il serbatoio della formazione-quadri sindacali di base voluto dai dirigenti CISL per cercare di inviare nelle fabbriche dirigenti di provenienza operaia. La CISL da sindacato prevalentemente del Pubblico Impiego cercava di affermarsi anche come moderno sindacato industriale.

Giovani operai, provenienti in gran parte dal Veneto, per fare del sindacalismo senza uscire dall’ambito cattolico militavano nella FIM. Ma la dura realtà della fabbrica li avvicinava ai militanti di base della FIOM, tradizionalmente su posizioni formalmente classiste. Questa propensione a liberarsi dal peso del tradizionalismo cattolico e da un atteggiamento platealmente filo-governativo è raccolta dalle critiche che successivamente molti dei giovani bonzetti dirigenti rivolsero alla Scuola di Firenze, dove «i discorsi degli insegnanti – come dirà ad esempio Tridente, passato per quella esperienza – dimostrarono poi tutta la loro inadeguatezza culturale rispetto ai tempi di sviluppo dinamico della società italiana». «Del resto – dirà un altro bonzo CISL, Franco Bentivoglio – non dobbiamo dimenticare che, fino ad allora, il dirigente sindacale della CISL era il buon cattolico della parrocchia, il notabile locale, che si calava dall’alto. La Scuola di Firenze con il suo indottrinamento fondamentalmente interclassista e filo-capitalista, esprime ancora questa situazione ma dà agli operai cattolici la possibilità di diventare dirigenti e la stragrande maggioranza lo diventa dentro la FIM».

A questi fermenti pseudo-classisti del mondo cattolico operaio contribuì non poco l’atteggiamento della Chiesa che, come sempre abile nell’adeguare la sua propaganda al mutare delle situazioni, smorzò, come nell’enciclica «Mater et magistra» del maggio 1961, i toni grossolanamente anticlassisti e antioperai che l’avevano fino ad allora caratterizzata e si adoperò, con il pontificato di Giovanni XXIII, per mescolare le teorie fideiste cattoliche con la mistificazione liberalista e democratoide della "giustizia sociale", e con venature riformiste socialistoidi e umanitaristico-borghesi.

L’attivista "bianco" cercava perciò lentamente di scrollarsi di dosso l’etichetta di "servo del padrone" e cominciava a scioperare con una certa naturalezza al fianco del compagno di lavoro, anche se piciista. Alle dimostrazioni sindacali, e agli sconti con la polizia nei quali spesso in quegli anni finivano, cominciavano a partecipare anche i cislini. «Che la polizia ci menasse in maniera particolare, con gusto particolare – osservò il dirigente FIM Nino Pagani in una intervista in cui rievoca il periodo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 – significava non essere più privilegiati, rispetto agli altri lavoratori, che erano tradizionalmente menati tutti».

Questi fermenti di base suscitarono reazioni contrastanti e frenanti e costrinsero per diverso tempo queste forze ad una attività quasi cospirativa, come ancora testimonia Pagani: «Mi ricordo sempre della lotta ai cantieri del Mediterraneo per la difesa dell’occupazione. Erano anni duri, cose disgraziatissime, bisogna averle vissute per capirle. E arrivava la lettera che non sì doveva fare lo sciopero in comune. La manifestazione doveva avvenire sul marciapiede, da una parte i rossi, dall’altra i bianchi. Finiva che i lavoratori andavano nel mezzo, perché non accettavano la divisione (...) Costivani esce vincente da una dura lotta nei confronti della vecchia dirigenza. Da altre parti le vicende vanno meno bene. Tridente è licenziato dalla CISL di Torino, Carniti è trasferito da Milano a Legnano. Pagani viene escluso dal consiglio generale della CISL. E potrei continuare con questo elenco. Ci si parlava in clandestinità. Ci si vedeva in via Morosin a Milano, la casa di Carniti, in una decina di persone. Si mantenevano i collegamenti tra le provincie “in movimento” saltando la federazione nazionale».

Dal punto di vista dell’influenza borghese nel movimento operaio, questa trasformazione della CISL e in particolare della FIM, non fu meno negativa dello smantellamento anticlassista della CGIL; basti pensare come questi fermenti operaisti riuscirono ad influenzare frange operaie combattive nel ’68-’69 e proprio questi atteggiamenti socialistoidi e radicali costituirono la base di aggregazione di un certo sinistrismo gruppettaro di matrice cattolico-piccolo borghese che trovò in questa organizzazione un certo sviluppo fino a fargli assumere nei momenti di tensione sociale più acuta, atteggiamenti di "scavalcamento a sinistra" della CGIL. Sono le leve che andranno a costituire una frazione non trascurabile della cosiddetta "sinistra sindacale" che in anni più recenti, e ancora oggi, svolge un ruolo importante di copertura a sinistra del collaborazionismo sindacale, cercando di controllare e far rientrare nei ranghi le frange operaie che tentavano di opporsi alla linea ufficiale delle centrali sindacali. Un ruolo non indifferente in questo senso lo svolsero nei CUB e nei consigli di fabbrica negli anni ’68-’69 e seguenti.

Ma intanto, negli anni ’60-’63, queste spinte cisline di base servirono ad agganciare la CGIL e ad aggregarla nell’unità d’azione per le lotte articolate e alla contrattazione aziendale, in una situazione economico-sociale che segnerà le condizioni favorevoli per la ripresa della combattività operaia, unità che si dimostrerà preziosa ai fini del controllo della classe operaia. A questo aggancio si unirà in tempi successivi anche la UIL, mentre nelle lotte la CGIL assumeva sempre più atteggiamenti di cedimento verso le altre due confederazioni.

Ma non era un cedimento: in realtà si andavano incontrando le esigenze di CISL e UIL, preoccupate di apparire alla base come sindacati che difendevano gli interessi operai, e della CGIL, alla ricerca della considerazione del padronato come sindacato responsabile verso gli interessi dell’economia capitalistica. Alle prime due l’avvicinamento alla CGIL serviva per apparire ai lavoratori disponibile alla lotta, mentre l’alibi della unità d’azione serviva alla CGIL per costringere la propria base ad accettare le soluzioni rinunciatarie di quelle. Il codismo dei capi confederali della CGIL nei confronti di CISL e UIL sarà sempre giustificato ai propri iscritti per non arrivare alla rottura dell’unità "dei lavoratori". Tutti i peggiori accordi bidone furono sempre fatti ingoiare in nome dell’unità.
 

10 - La "unità d’azione" stronca le grandi lotte 1960-’62

Questi "atteggiamenti unitari" cominciarono ad esprimersi concretamente nei rinnovi contrattuali del ’59, dei quali la vertenza dei metalmeccanici fu la più significativa, in cui comparve per la prima volta la rivendicazione del riconoscimento del diritto dei sindacati alla contrattazione integrativa. Questa strategia comportava tuttavia dei pericoli per il padronato in quanto, se da una parte conteneva tutti i presupposti per coinvolgere i sindacati nella sottomissione della forza lavoro in fabbrica, dall’altra avrebbe potuto comportare l’esplodere incontrollato a livello aziendale di movimenti rivendicativi. Questo spiega l’iniziale avversione della Confindustria e dell’Intersind, l’accetteranno solo con i rinnovi contrattuali del ’62-63, e dietro precise garanzie. Gli scioperi unitari del ’59 trovarono scarsa adesione alla Fiat e la vertenza si trascinò per diversi mesi, tra alti e bassi e con scarsa convinzione di lotta da parte di CISL e UIL. Il 23 settembre, dopo un nuovo incontro senza esito, i sindacati finsero di dare un ultimatum, che però non ebbe alcuna conseguenza di lotta e fu archiviato negli incontri successivi.

Il 23 ottobre l’esecutivo della FIOM-CGIL (è da tenere presente che allora i rinnovi contrattuali non erano gestiti dai sindacati di categoria ma dalle segreterie confederali) votò per la ripresa della lotta, ma FIM e UILM preferirono continuare il negoziato (anche qui occorre ricordare che in quel periodo, e fino al ’69, vigeva il principio dell’interruzione della lotta mentre erano in corso le trattative). La FIOM evitò la rottura e l’accordo fu firmato il giorno stesso con risultati irrisori, quasi nulla sul piano normativo, poche briciole su quello salariale: aumenti inferiori al 5%. Questo provocò un diffuso senso di malessere tra i lavoratori che fu una delle cause dell’esplodere della rabbia operaia all’inizio degli anni ’60.

Si era ormai entrati nel periodo del cosiddetto "miracolo economico", un periodo di boom industriale dovuto essenzialmente all’entrata massiccia per la prima volta dell’Italia sul mercato mondiale: le esportazioni aumentarono da 1.341 miliardi di lire nel ’56 a 3.159 miliardi nel ’63; la produzione industriale, fatto 100 il 1953, toccava 128 nel 1956, 138 nel 1957, 142 nel 1958, sale a 158 nel 1959, a 182 nel 1960 e 240 nel 1963; l’occupazione nell’industria aumenta da 7.034.000 lavoratori nel 1958 a 7.986.000 nel 1963, cioè di 950.000 unità. L’esodo dalle campagne si intensifica e la mano d’opera agricola cade da 6.847.000 nel 1959 a 5.295.000 nel 1963, cioè di circa 1.500.000 lavoratori; una parte di essi trova assorbimento nell’industria, una parte nei servizi e nell’edilizia, una parte come sempre emigra all’estero.

Questa situazione favorevole si traduce in un rinvigorimento dei ranghi del proletariato, ma rende ancor più stridenti le contraddizioni tra l’incremento vertiginoso della produttività del lavoro, dei profitti capitalistici e i bassi salari e in genere le condizioni precarie di vita delle masse operaie. Questo si traduce in un impulso di lotta e in una generale ripresa dell’azione operaia, a stento controllata dalla CGIL. La scelta dell’articolazione delle lotte, ribadita ed anzi lanciata come unica strategia possibile nel congresso del ’60, si scontrò con un fermento crescente in quasi tutte le fabbriche, che tendeva oggettivamente, per istinto naturale di classe all’allargamento e all’unificazione dei conflitti locali.

Nel ’60 non si ebbero però scioperi particolarmente importanti: le statistiche affermano che fu l’anno relativamente più calmo del decennio, ma nelle fabbriche montava una profonda tensione.

Nel corso dell’estate si verificano violente manifestazioni antifasciste. La miccia si era innescata in seguito alla formazione del governo Tambroni, marcatamente di destra, che godeva dell’appoggio dei voti del MSI, e al tentativo di questo di tenere provocatoriamente il suo congresso a Genova, roccaforte dell’"antifascismo". Il radicalizzarsi delle polemiche politiche aveva fatto da catalizzatore sul malcontento operaio, determinato dagli squilibri di cui abbiamo detto, primo fra tutti quello tra Nord e Sud. Mentre il boom economico e il miraggio del "benessere" era concentrato al Nord le masse diseredate del Sud versavano in condizioni disperate.

Il 5 luglio ci fu a Licata una manifestazione cittadina contro la mancanza d’acqua con l’intervento della polizia che sparò sulla folla: un morto, molti feriti. A Roma una manifestazione antifascista fu travolta da una carica dei carabinieri a cavallo. Il 7 luglio l’episodio più tragico: a Reggio Emilia l’intervento della polizia provocò cinque morti.

Sull’onda della crescente tensione proletaria la CGIL si vide costretta a proclamare, per la prima volta dopo 10 anni, uno sciopero generale nazionale. La CISL non aderì, per la sua tradizionale avversione agli scioperi politici; la UIL partecipò solo in qualche provincia. In Sicilia, durante lo sciopero, ci furono altri interventi a fuoco della polizia e altri morti: tre a Palermo e uno a Catania.

La mobilitazione era tale che dall’aula di Palazzo Madama l’allora presidente del Senato Merzagora rivolse una "proposta al paese", suggerendo una "tregua" di 15 giorni durante i quali tutte le forze armate, di qualsiasi ordine e tipo, sarebbero rimaste consegnate in caserma, mentre partiti e sindacati si sarebbero adoperati per evitare scioperi e manifestazioni. L’appello pero cadde nel vuoto perché il governo, che evidentemente cercava di esasperare la situazione per poter colpire ancora più duramente il movimento operaio, impose all’agenzia Ansa, alla radio e alla televisione, di non darne notizia e gli scontri in Sicilia si manifestarono quando Merzagora aveva già formulato la sua proposta.

La preoccupazione per la situazione che si era creata non era meno forte tra i caporioni sindacali e i partiti opportunisti, al punto che lo stesso "sinistro" Terracini commentò su questo fatto:

     «La conoscenza della proposta di una tregua politica avrebbe forse potuto placare gli animi laddove questi erano ancora accesi. Chi ha vietato alla radio di diffondere l’appello di Merzagora può essere chiamato responsabile dei morti di Palermo e di Catania, caduti sotto il piombo della polizia».
11 - La rabbia operaia esplode in Piazza Statuto

Nell’autunno entravano in sciopero gli operai dei Cotonifici Valle Susa e gli elettromeccanici. Nei Cotonifici l’agitazione partì quasi spontaneamente da uno stabilimento e si allargò immediatamente agli undici stabilimenti del gruppo: i bonzi, pur mettendosi alla testa del movimento, svolgono un’intensa opera di pompieraggio e cercano di limitare l’ampiezza dello sciopero con l’articolazione della lotta; gli operai rivendicano aumenti salariali e giungono ad opporsi al regime di fabbrica, e ai ritmi di lavoro. Le agitazioni si protrarranno fino a metà del ’62, mentre entrano in sciopero i metalmeccanici che, il 27 dicembre, attuano una poderosa lotta che vede scendere nelle piazze più di 150.000 operai in tutto il paese. All’inizio del ’61 partivano i cotonieri, presto seguiti dai siderurgici e dai cantieri navali, mentre un po’ dovunque è tutto un proliferare di agitazioni aziendali, specie alla Saffa e alla Montecatini e mentre altre categorie si apprestano ad entrare in lotta. Questa crescita progressiva dei conflitti avrà l’effetto significativo di mettere in luce la propensione dei sindacati alla collaborazione. Il governo convocò nel gennaio ’61 il primo di quelli che furono poi chiamati gli incontri triangolari padronato-governo-sindacati, a cui mai questi ultimi si sottrassero e che anzi rimarranno da allora in poi simbolo significativo del blocco organico antioperaio di tutte queste forze e del ruolo insostituibile dei sindacati come regolatori delle tensioni sociali. Il tentativo del governo, su pressione del padronato, era quello di regolare tutta la dinamica delle strutture contrattuali per evitare il proliferare delle agitazioni. Pella, che presiedeva l’incontro, propose un accordo quadro che costringeva i sindacati a rintuzzare senza troppa diplomazia le spinte di base. Nella proposta veniva presentata una "clausola di tregua" che poi i sindacati accettarono di includere come "premessa contrattuale" in tutti gli accordi e nei quali rimase fino al ’69: «Le organizzazioni dei lavoratori si impegnano a non promuovere e a intervenire perché siano evitate azioni di rivendicazione intese a modificare, integrare, innovare quanto ha formato oggetto di accordo ai vari livelli». I sindacati si assumevano pertanto il compito di stroncare le lotte, e la loro azione si svolse, coerente, in questo senso. I lavoratori dei Cotonifici Valle Susa, dopo 145 giorni di sciopero, furono costretti a firmare un accordo con un modestissimo aumento salariale e un "premio", mentre nulla veniva deciso circa i ritmi di lavoro. Stessa sorte toccò agli elettromeccanici e ai siderurgici privati.

Nonostante questa sconfitta, la tensione operaia saliva e il ’61-’62 vide l’esplodere di tutto il movimento operaio: un fermento sociale che infondeva negli operai la consapevolezza della loro forza. Nel ’62 le agitazioni raggiunsero un’ampiezza senza precedenti, superata solo nel ’69: 181.732.000 ore di sciopero, il doppio del ’61. Caratteristica quasi comune a queste lotte era la rapidità con cui i movimenti locali si estendevano e la riluttanza con cui gli operai accettavano la strategia confederale delle lotte articolate. Questa strategia era invisa anche al padronato, che temeva il ramificarsi delle agitazioni. In realtà è proprio grazie a questa articolazione se le lotte del ’61-’62 non riuscirono mai a confluire in un unico poderoso movimento di classe. Gli operai percepivano col loro istinto di classe questa situazione e l’avversione alle lotte articolate assunse toni tali da costringere la CGIL, nel VI Congresso del ’64, a prendere ufficialmente posizione contro coloro che venivano definiti i "nostalgici del sindacalismo vecchia maniera", rivendicando la validità della scelta del congresso.

Questa cominciava peraltro a dare i suoi frutti collaborazionisti sul piano del controllo sindacale dei processi organizzativi aziendali: particolarmente significativa in questo senso fu la vertenza del gruppo Italsider, nel ’61. La direzione dell’azienda, per accrescere la produttività sulla base di criteri moderni, aveva introdotto il sistema di "job evaluation", consistente nel distribuire le mansioni tra i dipendenti secondo valutazioni estremamente calibrate della capacità dei singoli. Questo metodo consentiva uno sfruttamento razionale e scientifico della forza-lavoro, ed esaltava al tempo stesso la concorrenza tra operai in una frammentazione estrema delle qualifiche. Nella vertenza Italsider i sindacati metalmeccanici non respinsero il "job evaluation", ma si limitarono a rivendicarne una applicazione mitigata; questo si tradusse in un accordo, raggiunto unitariamente il 30 aprile 1961, in cui l’azienda riconobbe al sindacato un certo potere sull’attribuzione delle qualifiche e sulla politica salariale di incentivi legata al nuovo metodo. Attraverso la "contrattazione di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro" il sindacato avallava di fatto e gestiva con l’azienda i criteri di sfruttamento degli operai.

Su questo esempio la contrattazione integrativa trovò terreno favorevole nelle imprese a partecipazione statale. Ci furono vertenze alla Nuovo Pignone, alla Dalmine; all’Alfa Romeo fu siglato un accordo unitario che disciplinò il cottimo nelle lavorazioni di linea.

Nel ’61 furono rinnovati 34 contratti, tra cui gli edili, i petrolieri privati, i cementieri. La combattività operaia impose aumenti intorno al 7-12%, superiori quindi a quelli precedenti. Furono concordate anche riduzioni dell’orario di lavoro, in genere un’ora e mezzo la settimana, ma questa conquista rimase di fatto sulla carta perché si tradusse, tra la benevolenza del sindacati, in un aumento delle ferie annue o compensata in denaro.

L’anno di punta fu, come si è detto, il ’62 in cui fece spicco la vertenza dei metalmeccanici. La rabbia operaia sfociò all’inizio dell’anno quando, senza attendere la scadenza contrattuale, in singole fabbriche scoppiarono scioperi, contrariamente alle direttive sindacali. Degno di nota particolare quello alla Lancia in cui la lotta si avviò in alcuni reparti, invase rapidamente l’intero complesso e infine straripò sull’intera città. Dopo un mese di lotta, a cui partecipò anche lo stabilimento di Bolzano, gli 11.000 lavoratori della Lancia ottennero aumenti salariali discreti, giorni di riposo supplementari e un reingaggio contrattuale a fine contratto.

La situazione di fermento era tale che la stessa Confindustria era interessata ad aprire anticipatamente le trattative contrattuali per evitare l’esplodere incontrollato delle singole agitazioni. A questa esigenza padronale venne incontro la UILM che, mentre 50.000 metalmeccanici erano in sciopero a Milano, chiese ufficialmente l’apertura delle trattative. Dopo le solite polemiche di facciata, anche la FIM e la FIOM accettarono di trattare. I sindacati cercarono come al solito di centellinare gli scioperi, che tuttavia videro la partecipazione massiccia dei lavoratori; anche alla FIAT, superando gli sconquassi provocati negli anni passati dalla dura repressione padronale.

Col preciso intento di spezzare il fronte di lotta, il 5 luglio i sindacati firmarono unitariamente un accordo separato e preliminare con l’Intersind e l’ASAP in cui per la prima volta si riconosceva la legittimità della contrattazione articolata per settore e per azienda, sebbene con carattere "applicativo" e non "integrativo", quindi senza la possibilità di miglioramenti. Lo stesso capo in testa Lama, in una intervista del ’71, dirà: «Abbiamo fatto allora delle concessioni che, viste adesso, sono drammatiche».

Subito dopo l’intesa la UILM dichiarò la propria disponibilità a firmare un accordo separato con la Fiat nel caso in cui l’azienda torinese avesse accettato i contenuti dell’accordo raggiunto con le Partecipazioni Statali. La Fiat accettò e, due giorni dopo, siglò l’accordo con la UILM e il SIDA. Fu la scintilla dei famosi fatti di piazza Statuto. Nonostante UILM e SIDA avessero complessivamente il 63% dei voti nella Commissione Interna, allo sciopero indetto dalla FIOM aderì il 92% dei lavoratori e la gran parte degli operai più combattivi uscirono in manifestazione affluendo in piazza Statuto, sotto la sede provinciale della UIL per gridare la loro rabbia contro l’accordo separato. La tensione era al massimo e la polizia caricò i manifestanti. Alcune centinaia di operai accettarono la battaglia e si batterono contro le camionette della polizia; contusi, feriti e fermati non si contavano; gli scontri durarono tutta la notte, l’intera piazza venne disselciata e i cubi di porfido scagliati contro i poliziotti; quasi tutti i pali segnaletici divelti e usati come spranghe.

La segreteria provinciale della CISL e della CGIL subito condannarono gli avvenimenti, attribuendoli naturalmente ai soliti «teppisti estranei alla classe operaia» o alla presenza di «provocatori fascisti muniti di macchine lussuose» e lanciarono un appello agli operai affinché condannassero e respingessero «con fermezza ogni tentativo di compromettere l’unità e la disciplina democratica dello sciopero voluto dai lavoratori». Queste versioni forcaiole saranno poi coperte di ridicolo durante il processo ai fermati: tutti operai Fiat, due terzi giovani meridionali molti dei quali iscritti ai sindacati e alcuni addirittura con la tessera della UIL. Pochi giorni dopo la Fiat licenziò per rappresaglia 84 operai definiti in un comunicato «agitatori facinorosi e violenti»; per tutta risposta i sindacati proclamarono 10 minuti di sciopero a livello nazionale a cui la UILM non si associò.

La vertenza si trascinò tra notevole tensione per diversi mesi ancora finché i sindacati dettero il colpo di grazia al movimento accettando, questa volta unitariamente, compromessi separati, chiamati "protocollo di accordo sul futuro rinnovo". La vertenza si chiuse soltanto nel febbraio ’63 con miglioramenti molto modesti se rapportati alla grande combattività che gli operai avevano saputo esprimere. La fiammata operaia si trascinò per tutto il ’63 fino alle soglie del ’64.

Non vi sono dubbi che in quegli anni i sindacati, sull’onda di una combattività operaia espressione delle giovani generazioni entrate da poco nelle fabbriche e pervase da un notevole senso di frustrazione e insicurezza, si affermarono sul campo come indispensabili al regime capitalistico. Gli stessi settori di punta della grande borghesia se ne convinse sempre più, componente questa non secondaria a determinare la formazione, proprio allora, delle prime esperienze di coalizione governativa di centro-sinistra.

In questi anni roventi i sindacati traevano linfa vitale dai giovani proletari che avevano partecipato alle lotte e il processo di "modernizzazione" delle centrali sindacali giunto a maturazione a livello organizzativo vedeva un ampio ricambio dei quadri dirigenti. All’indomani delle lotte del ’62-’63, le federazioni dei metalmeccanici tennero il loro congresso e sostituirono i vecchi dirigenti del periodo della guerra fredda. Nel congresso FIOM di Rimini del ’63 ne assunsero la direzione gli esponenti della sinistra del PSI e delle nuove leve del PCI e la elezione di Bruno Trentin alla segreteria generale simboleggiò questo cambiamento. Negli anni seguenti questo processo si estese a livello locale e i cambiamenti in numerosi casi avvennero non senza traumi o defezioni. Lo stesso fenomeno si verificava nella FIM dove nello stesso periodo i quadri democristiani tradizionali furono sostituiti dai giovani militanti della sinistra cattolica. Nella UILM il rinnovamento si produsse nel ’65 in seguito alla fusione PSI-PSDI; un’ampia frazione di quadri socialdemocratici fu sostituita da una nuova generazione di militanti socialisti della sinistra del partito unificato. Dopo la nuova scissione la UILM resterà nelle mani di questi quadri e si inserirà più organicamente nel ruolo della triplice sindacale.
 

12 - La "crisi congiunturale" fra riformismo sindacale e repressione statale

Se i contratti conclusi in quegli anni, furono, grazie alla grande combattività operaia, meno peggiori di quelli precedenti, non per questo arrecarono in generale miglioramenti significativi alle condizioni operaie. Il relativo innalzamento del tenore di vita generale del proletariato era piuttosto dovuto alla continue immissioni nel processo produttivo, che sembrava espandersi senza fine, dei giovani e delle donne, per cui aumentava il numero delle famiglie in cui lavoravano due e anche più membri. Crescente diffusione ebbe poi la pratica del "secondo lavoro", relativamente facile da esercitare in una economia in espansione, e il ricorso sempre più frequente e incontrollato al lavoro straordinario, molto redditizio per le imprese, che potevano far fronte alla richiesta crescente di merci senza ricorrere ad ulteriori assunzioni. L’innalzamento del tenore generale di vita delle masse proletarie nelle zone industriali era dunque la conseguenza di uno sfruttamento estensivo, oltre che intensivo, della forza-lavoro, e su questo sfruttamento la propaganda borghese e riformista potrà seminare l’illusione di un benessere e di una sicurezza in continua e inarrestabile ascesa, purché il proletariato contenesse la sua combattività classista. L’illusione si infranse già nel ’64 con il sopraggiungere di quella che fu chiamata la "crisi congiunturale" e che toccò il suo culmine nel ’65. L’economia entro in una fase di recessione, la disoccupazione crebbe, gli investimenti si arenarono. Dal gennaio ’64 al gennaio ’65 tra i metalmeccanici l’occupazione calò di 100.000 unità, di 60.000 tra i tessili e di 150.000 fra gli edili; gli investimenti scesero del 20%; 500.000 lavoratori metalmeccanici erano in Cassa integrazione. Questo determinò massicce ristrutturazioni aziendali, irrigidimento nei confronti delle rivendicazioni operaie, misure governative tese a colpire i salari reali. Sotto la minaccia della perdita del posto di lavoro la combattività operaia diminuì. Brevi scioperi difensivi si produssero un po’ in tutto il paese, ma i sindacati attenuarono le loro iniziative cercando in molte occasioni di imbrigliare il malcontento operaio. Il catastrofismo e gli appelli del governo alla "ragionevolezza" trovarono i sindacati pronti a cogliere l’occasione per dimostrare la loro capacità di controllare la classe operaia. Le rivendicazioni salariali erano fatte passare in secondo piano e subordinate alle rivendicazioni riformiste. In particolare la CGIL inquadrava la difesa degli interessi operai nell’ambito delle cosiddette "riforme di struttura" e di una "politica di sviluppo e di programmazione". Questo sarà il tema dominante del VI Congresso nazionale di Bologna del 31 marzo - 5 aprile 1965. La CGIL cominciava ad inserirsi sempre più organicamente nelle istituzioni dello Stato e a regolare tutta la sua attività sindacale per divenire un "interlocutore valido" dei governi borghesi, fino ad accettare i contenuti sostanziali dei programmi governativi tesi a realizzare interventi coordinatori di tutto il sistema produttivo nazionale. È sintomatico come in ogni periodo di crisi questa tendenza naturale dell’opportunismo si rafforzi fino ad assicurare, come oggi, iniziative e atteggiamenti palesemente e apertamente antioperai e divenire uno dei protagonisti insostituibili del meccanismo istituzionale della società capitalistica.

In quel periodo la CGIL accettò di fatto i programmi economici del governo. Nella relazione congressuale, Agostino Novella dirà: «La CGIL, assieme a tutto il movimento sindacale, si trova di fronte al progetto di programma di sviluppo economico per il 1965-’69, approvato recentemente al Consiglio dei Ministri. È noto che questo progetto è stato sottoposto all’esame del CNEL, dove la CGIL ha propri rappresentanti diretti. In quella sede abbiamo detto che le finalità e gli obbiettivi che il progetto propone corrispondono, nel complesso, a finalità ed obiettivi che la CGIL ha prospettato nella sua linea di programmazione economica. La CGIL ritiene perciò che la presentazione del progetto di sviluppo economico per il quinquennio introduca nella dialettica delle forze sociali un nuovo terreno di confronto sul quale il sindacato intende essere incisivamente presente».

In questo spirito, i temi congressuali sono un vero e proprio progetto riformistico a cui aspira la stessa borghesia per bocca dei suoi partiti e a cui la CGIL proclama apertamente di voler subordinare la dinamica dei salari.

Le tesi indicano:

     «la riforma del fisco, del credito e della pubblica amministrazione, per dare allo Stato gli strumenti orientativi necessari per realizzare il passaggio di parti crescenti della accumulazione monopolistica all’accumulazione pubblica; incisivi interventi nel settore industriale; la riforma agraria per creare nuove forme di accumulazione (...) la formazione di una rete democratica (?!) di distribuzione per tutte le merci (...) la riforma urbanistica che elimini le rendite parassitarie (...) la formazione di una rete di trasporti funzionale allo sviluppo economico (...) l’adozione di un piano per la scuola consono alle effettive esigenze di diffusione della cultura e della preparazione professionale (...) la riforma della previdenza sociale».
Infine questi i passaggi chiave, ai punti 78 e 79:
     «La lotta per la programmazione democratica rappresenta per la CGIL un momento essenziale nello sviluppo della sua iniziativa. Questo momento trova nell’autonoma iniziativa rivendicativa e nella forza contrattuale dei lavoratori la sua saldatura organica con il complesso dell’azione sindacale nelle sue articolazioni di impresa e di settore. In tale prospettiva la CGIL e le sue organizzazioni valuteranno gli effetti delle loro scelte rivendicative (salari, orari, ecc.) graduandoli sulla base di un giudizio generale della situazione in rapporto ai ritmi e ai modi dell’effettiva realizzazione degli obiettivi e del programma democratico».
Più avanti, al punto 83:
     «Il contributo del sindacato dovrà svolgersi nella piena coscienza del fatto che le conquiste salariali, sociali e democratiche delle grandi masse lavoratrici concorrono a determinare uno slancio produttivo che favorisce l’innalzamento della produttività dell’intero sistema». Infine, al punto 91: «La CGIL ritiene che il suo compito nei prossimi anni sarà di rafforzare attraverso la lotta rivendicativa il potere sindacale a tutti i livelli e di trovare nuove forme di generalizzazione del movimento per gli obiettivi di riforma di struttura e di programmazione economica e le tappe graduali della loro realizzazione».
La strategia riformista della CGIL non era affatto dissimile da quella della CISL che, nel suo congresso tenuto poco dopo quello della CGIL, si manifestò anch’essa disponibile ad appoggiare il programma economico quinquennale del governo ed a subordinarne le rivendicazioni salariali. Rilanciò anzi in grande stile la proposta del "risparmio contrattuale" che aveva caratterizzato il suo congresso precedente e che consisteva nel devolvere agli investimenti produttivi una parte degli aumenti salariali contrattuali «nel quadro – come è detto in un documento del ’63 – di una razionale politica salariale e contrattuale armonizzata con la crescita della produttività ai diversi livelli del sistema».

Ancora una volta la supina arrendevolezza fece da corollario all’intensificazione della repressione governativa antioperaia, che nell’autunno 1965 ebbe un’impennata impressionante e colpì in particolare il pubblico impiego. A Bari, in settembre, Moro richiamò il governo a dare un esempio di fermezza: il famoso "diremo no". Nel pubblico impiego nel solo ’65 furono licenziati 50.000 lavoratori tra scioperanti e responsabili sindacali.

L’offensiva padronale e la crisi economica in sé non bastava tuttavia a smorzare la combattività operaia che nel ’65-’66-’67 condusse a lotte durissime in tutti i settori, come documentava in quegli anni il nostro foglio "Spartaco". Ricordiamo, solo a titolo di esempio, le lotte dei cantieri navali nel ’66, contro la minaccia di chiusura di alcuni stabilimenti che, dopo alcuni mesi di sciopero a singhiozzo, si trasformò in rivolta nel mese di ottobre nei principali centri: La Spezia, Livorno, Monfalcone, Genova e Trieste, con scontri durissimi contro la polizia, e la lotta dei braccianti, che raggiunse il momento più alto di mobilitazione nelle Puglie, a Bari, dove uno sciopero durò 17 giorni e fu sostenuto da forti manifestazioni popolari. La frantumazione delle lotte fu perseguita con tenacia dalla CGIL, ormai in piena combutta con CISL e UIL, ogni azienda, ogni settore, ogni categoria, veniva tenuta rigidamente isolata dal resto della classe in lotta.
 

13 - Le premesse degli scioperi del ’68

I rinnovi contrattuali di molte categorie, in testa anche stavolta i metalmeccanici, si trascinarono per mesi e mesi con scioperi di breve durata intervallati con lunghi periodi di tregua, fino alla conclusione con un vero e proprio contratto capestro che, oltre ad aumenti salariali che divennero proverbiali per la loro esiguità, prevedeva il blocco di fatto di ogni possibilità di miglioramento della retribuzione specifica aziendale, come i premi di produzione, per tutta la durata del contratto. Quell’accordo, significativamente sterile sul piano migliorativo, prevedeva per la prima volta la trattenuta dei contributi sindacali con l’adozione della delega annuale individuale nelle aziende private e di quella triennale nelle aziende pubbliche. Il padronato percepiva l’utilità di simile richiesta avanzata dai sindacati e non esitava a concederla nel novero dei "diritti sindacali". Così concedette l’istituzione dei "comitati tecnici paritetici", che comprendevano in pari numero rappresentanti dell’azienda e del sindacato, designati questi ultimi dal sindacato stesso tra i dipendenti dell’azienda, per la soluzione delle controversie individuali e plurime in materia di cottimi e di attribuzioni delle qualifiche, primo passo verso l’insediamento organizzativo del "sindacato in fabbrica", che si rivelerà molto efficiente dal punto di vista del suo coinvolgimento nella gestione tecnico-organizzativa dei cicli produttivi. In questo periodo i sindacati cominciarono anche a sperimentare le forme di lotta superarticolate, che diventeranno loro cavallo di battaglia negli anni successivi, la cui pretesa validità sarà significativamente condivisa anche dai "sinistri" sessantottini. Con la suggestiva quanto forcaiola parola d’ordine: "il maggior danno al padrone con il minor danno all’operaio" in numerose vertenze aziendali (diverrà famosa quella degli attrezzisti della Olivetti, sia sotto questo aspetto sia per essersi conclusa senza alcun miglioramento, nonostante la grande combattività dimostrata dagli operai) i sindacati frantumarono le ore di sciopero in modo che il ciclo produttivo complessivo non si interrompesse mai e rimanesse soltanto "perturbato" dagli scioperi. Il "maggior danno" si trasforma così in una maggiore capacità di resistenza padronale e in un conseguente irrigidimento delle trattative che in numerose aziende porteranno ad accordi bidone. Questi, andandosi ad aggiungere a quelli negativi dei contratti di categoria, determinarono un notevole malcontento tra i lavoratori e un crescente distacco dall’apparato sindacale esterno alla fabbrica.

Fu questa una delle cause principali dell’esplosione del ’68-’69. La compressione salariale di quegli anni si accompagnò ad un incremento notevole della produttività conseguente alle ristrutturazioni aziendali del ’64-65 e all’accresciuta produzione con nuovi occupati. Queste contraddizioni divennero acute nel ’67-’68 in cui si assisteva nuovamente alla ripresa dell’espansione industriale fondata sui bassi prezzi delle merci industriali italiane sul mercato mondiale, determinati soprattutto dai bassi salari. L’aspetto più appariscente di questo fenomeno fu il dilagare impressionante del lavoro straordinario che raggiunse in questo periodo livelli insuperati in tutto il dopoguerra (operai che hanno un contratto nazionale di 44 e anche 42 ore settimanali lavorano in pratica 10-12 o anche 15 ore al giorno).

Memori della caduta produttiva della "congiuntura", numerose aziende preferivano rispondere all’accresciuta domanda di merci con lo sfruttamento estensivo della forza-lavoro, piuttosto che con nuove assunzioni compensando con l’aumento della produttività del lavoro. A questo va ad aggiungersi l’introduzione di tecnologie di importazione USA sempre più avanzate che imprimono un’accelerazione impressionante alla produzione oraria e un’intensificazione bestiale dello sfruttamento operaio.

La combinazione tra introduzione di macchine sofisticate che rendono il lavoro operaio sempre più monotono, ripetitivo e semplice e la diffusione su vasta scala di quella che viene chiamata, in omaggio alla pretesa neutralità della scienza, "Organizzazione Scientifica del Lavoro", consistente nello sfruttamento razionale di ogni gesto del lavoratore secondo la tecnica cosiddetta della "parcellazione del lavoro", impressero un impulso crescente all’oppressione in fabbrica, portandola ai limiti della sopportazione.

Ecco, ad esempio, la risposta di un operaio torinese ad un’inchiesta condotta in alcune fabbriche nel ’68:

     «Con queste nuove macchine non si va a casa con le braccia stanche, si va a casa con lo testa che è un pallone. Bisogna mettere il pezzo nel morsetto e azionare la macchina al mattino, queste sono le due operazioni, poi stare attenti alle lampadine che indicano quando la testa lavora e quando ha finito, mentre il pezzo passa alla seconda testa per un’altra lavorazione, stringere un altro pezzo nel morsetto successivo e guardare le due lampadine, e così via. Io una volta quelle lavorazioni le facevo con diverse macchine e ci mettevo due ore, oggi le faccio in dieci minuti; per questo prima quando lavoravo un po’ svelto i dieci minuti per farmi la fumata li trovavo, oggi invece, su dieci minuti di lavoro anche se sposto la macchina sul "veloce" non guadagno niente».
Ciò che per l’operaio diventa un lavoro massacrante e degradante per l’azienda è una vera e propria manna. Ecco alcuni dati significativi: nell’officina 56 della Fiat, linea della 124 sport, si produssero 60 vetture per turno nel maggio ’67 e 112 nel mese successivo con lo stesso numero di operai; nelle officine di Villar Perosa, tra il ’65 e il ’66, la produzione aumentò del 18,7% mentre l’occupazione diminuiva del 3,1%. Tutto questo spiega perché, tra il ’64 e il ’68, in Italia la produttività del lavoro aumentò più che in ogni altro paese del MEC, con incrementi vistosamente superiori a quelli salariali.

L’intensificazione esasperante dei ritmi di lavoro va ad unirsi ad una crescente instabilità sociale nelle grandi città: gli immigrati, sradicati dal Sud, difficilmente riescono ad integrarsi nell’ambiente sociale che li ospita. Le contraddizioni e le tensioni della vita nelle megalopoli che crescono all’insegna del maggior profitto possibile, si sommano ad una vita in fabbrica che diventa ogni giorno più insopportabile. Ciò determina da un lato un aumento impressionante delle nevrosi e delle depressioni fisiche, nonché reazioni individuali di difesa tramite il ricorso all’assenteismo, che in quegli anni conosce un forte aumento: tra il ’63 e il ’68 passa dall’8% al 12%.

L’assenza di un’organizzazione di classe che raccolga queste tensioni e le indirizzi sul terreno della lotta, provoca in molte fabbriche reazioni individuali che si rivolgono contro ciò che all’operaio appare il responsabile immediato della sua condizione disperata: la macchina e la struttura organizzativa del ciclo produttivo; aumentano i sabotaggi, che significativamente saranno esaltati dai primi gruppuscoli come gesti "rivoluzionari", e le reazioni spontanee, violente quanto confuse, che suscitano la indignazione dei cosiddetti "benpensanti" e delle stesse bonzerie sindacali. In una fabbrica milanese – riferisce ad esempio un giornale locale all’inizio del ’68 – avviene uno sciopero improvviso all’insaputa dei sindacati, cosi descritto:

     «Gli operai si fermano come per un ordine arcano, nessuno sa bene ciò che sta per accadere, ma sui visi si legge una voglia comune di violenza, ed ecco passare lo voce: "Venga giù il direttore del personale". Per ordini superiori il nostro si rassegna a scendere, preparata al peggio, e succede questo; gli dicono di stare fermo, accanto a un tornio, e poi, quanti sono, gli sfilano davanti e ripetono, uno dopo l’altro: "Faccia di merda, faccia di merda"».
Questa situazione è indubbiamente una delle cause dell’esplosione dell’"autunno caldo", la stagione sindacale più caotica e combattiva del dopoguerra. Di fronte a quella situazione, la politica dei sindacati è sempre più lontana dagli interessi reali della classe operaia, ancorati ad un riformismo che pone al centro di ogni azione il "rilancio produttivo dell’economia nazionale" e a questo sacrifica le esigenze più elementari dei lavoratori. Appena usciti da una campagna contrattuale e di lotte aziendali fatta di accordi irrisori sul piano salariale e normativo e pieni di clausole vincolanti sul terreno dei ritmi di lavoro in fabbrica, in cui questa politica collaborazionista e rinunciataria si era espressa nei fatti, gli operai tendono ad allontanarsi dalle strutture locali dei sindacali o comunque a diffidare del loro operato.

Questo fenomeno è accentuato e in un certo senso favorito dalla stessa struttura organizzativa della CGIL. Lo smantellamento della rete dei collettori di fabbrica, che manteneva un rapporto diretto con gli iscritti di base e in genere con tutti gli operai dei reparti e delle officine in cui agivano, e il venir meno delle Camere del Lavoro come punto di riferimento esterno alla fabbrica, luogo d’incontro tra lavoratori di tutte le fabbriche della zona, unitamente alla tendenza storica del riformismo di trasformarsi in un ufficio del lavoro, hanno via via annullato la presenza dei sindacati in fabbrica; le strutture locali si sono burocratizzate. L’insensibilità politica propria dell’opportunismo nei confronti delle reali esigenze operaie, diviene anche insensibilità organizzativa. I sindacati sono presenti nelle fabbriche solo tramite le Commissioni Interne, organismi ormai sclerotizzati e ridotti per lo più a gestire singole questioni individuali dei lavoratori nei confronti delle aziende.

Questa situazione sarà alla base dell’espressione organizzativa pressoché spontanea del movimento operaio di fabbrica del ’68: i CUB.
 

14 - La vertenza sulle pensioni e sulle "zone salariali"

La tendenza comune alle tre centrali sindacali a farsi "interlocutori validi" dello Stato e dei padroni e ad essere da questi riconosciuti come unici rappresentanti legali dei lavoratori, aveva indotto una notevole spinta in tutte e tre le strutture sindacali verso l’unità sindacale e la CGIL, in questa prospettiva, accentuò la sua politica di cedimento nei confronti del padronato, allargando, per contro, nelle fabbriche, il distacco dei burocrati dalla base operaia più combattiva e dai suoi stessi iscritti. La generalizzazione del metodo dell’iscrizione per delega, contro la quale il Partito condusse una feroce battaglia, fu l’espressione più concreta di questa tendenza. Sul piano politico e rivendicativo l’unità d’azione si produsse in particolare nelle vertenze che si intrecciarono nel ’68-’69 sulle pensioni e sulle "gabbie salariali", in cui la posizione della CGIL si manifestò come un continuo adeguamento alla strategia rivendicativa di CISL e UIL. Nella prima, nonostante la combattività e la forte partecipazione operaia alle modeste lotte patrocinate dalla CGIL, questa, nella notte tra il 26 e il 27 febbraio ’68, dette il proprio consenso a uno schema di riforma del sistema pensionistico proposto dal governo e subito appoggiato da CISL e UIL, in cui, in cambio delle solite vaghe promesse per il futuro, che si limitavano ad ancorare le pensioni al 65% del salario medio degli ultimi tre anni per i lavoratori con almeno 40 anni di contributi, venivano sacrificati pesantemente gli interessi immediati dei già pensionati, con aumenti ridicoli e l’aumento dell’età pensionabile delle donne a 60 anni e il divieto di cumulare la pensione con lo stipendio.

La reazione negativa dei lavoratori e dei pensionati a questa intesa fu di tale portata che la CGIL si vide costretta ad una precipitosa marcia indietro nel giro di poche ore, a ritirare la sua adesione al progetto governativo e ad indire uno sciopero generale per il 7 marzo, che ebbe vastissima adesione ovunque. Ciononostante questa levata di scudi proletaria non impedì alla CGIL di ristabilire subito l’unità d’azione con CISL e UIL e di pervenire, un anno dopo, il 5 febbraio ’69, dopo altri due scioperi "generali" questa volta unitari, a un testo definitivo che, se era migliore rispetto a quello precedente per le pensioni future, lasciava sostanzialmente immutate le condizioni di vita dei pensionati.

L’altra vertenza, quella sull’abolizione delle "zone salariali" in cui i lavoratori italiani erano divisi, si svolse contemporaneamente a quella precedente, ma fu sempre tenuta nettamente separata dalla prima, a conferma di una strategia rivendicativa che intendeva l’unità sindacale tra le confederazioni come base per la "legittimazione" di un moderno sindacato di regime, la cui azione si fonda sulla frantumazione della vera unità di classe e il proletariato viene rigidamente diviso in pensionati, occupati, disoccupati, lavoratori del Nord e del Sud, ognuno con propri interessi specifici e non interdipendenti, da salvaguardare nell’ambito di un sistema sociale che li considera alla stregua di una qualsiasi "categoria" sociale: l’unità d’azione delle centrali tricolore trovava la sua forza e "legittimazione" istituzionale nella disgregazione dell’unità operaia. La strategia politica che faceva da supporto a questa frantumazione del fronte proletario si fondava sul produttivismo e sulla modernizzazione della società capitalistica anche dal punto di vista dello sfruttamento della forza lavoro, e in questo senso ogni rivendicazione di miglioramento della condizione operaia aveva per giustificazione non gli interessi esclusivi del proletariato ma quelli della produzione capitalistica.

Emblematica la dichiarazione di Vittorio Foa dell’aprile ’68, quando i sindacati denunciarono l’accordo in vigore sulle "gabbie salariali" che prevedeva 6 zone diverse in cui i minimi sindacali erano diversi e decrescenti da Nord a Sud: «L’Italia a fette – disse – è ingiustizia sociale che, non avendo giustificazioni produttive [perché qualora le avesse sarebbero sacrosante le "zone salariali"] fornisce un motivo in più alle lotte nelle zone arretrate e specialmente al Sud. È assurdo che, a parità di sfruttamento e di rendimento un operaio di Cagliari, di Siracusa, di Caserta, di Bari, di Chieti, e persino di Venezia debba partire da basi salariali inferiori». E ancora: «Perfino la scienza economica nega oggi che i bassi salari possano incentivare gli investimenti: è vero il contrario».

Gli scioperi per l’abolizione delle "zone salariali" furono articolati provincia per provincia e la vertenza si concluse il 18 marzo 1969 con il solito compromesso "mediato" dal ministero del lavoro che prevedeva l’abolizione delle zone salariali ma con una gradualità dilazionata in tre anni e mezzo. In realtà questo livellamento era fittizio, in quanto riguardava esclusivamente i minimi sindacali e non il salario reale. Di fatto i salari non hanno mai cessato di essere differenti non solo per categoria, ma per fasce produttive, più alti dove il capitale aveva necessità di attrarre forza-lavoro, più bassi nelle zone meno industrializzate.
 

15 - Nascita dei Comitati Unitari di Base

Queste due vertenze, sintomatiche della "nuova" strategia "unitaria", si svolgevano ormai nel pieno dell’esplosione spontanea del ’68-’69. Descrivere il pulviscolo di lotte e di avvenimenti di quei due anni di fermenti sociali e proletari nelle fabbriche richiederebbe troppe spazio, e non sarebbe nemmeno quello che ci proponiamo con questo lavoro. È indispensabile invece cogliere gli aspetti salienti più significativi ai fini dei risvolti sull’organizzazione dei sindacati tricolore e della loro ulteriore involuzione verso l’intreccio con le istituzioni economiche, politiche e sociali della società e dello Stato capitalistici, che è il dato più significativo e reale emerso dalla conclusione di questo famoso biennio di lotte. L’esplosione del ’68-’69 è caratterizzata nelle fabbriche dall’intrecciarsi tra il movimento di operai che tentano, sul piano strettamente aziendale, di sopperire organizzativamente alla carenza del sindacato, presente in fabbrica solo attraverso le Commissioni Interne, e l’iniziativa di un pullulare improvviso di gruppetti, gruppettini e partitucoli di impronta sinistroide e di varia matrice "ideologica", abbracciante tutto l’arco dei tradizionali filoni del deviazionismo antimarxista e tendenti a teorizzare i limiti spontanei dalle lotte di fabbrica di quel periodo.

L’analisi di questo è indispensabile per una valutazione completa del periodo, definito "storico" da tutto il ciarpame politico-culturale degli anni seguenti.

Nella primavera del ’68, in coincidenza con una fase che aveva visto un sensibile "scollamento" – per usare un termine alla moda – tra vertici sindacali e base operaia, come risultato della deprimente conclusione della tornata contrattuale del ’66-’67, in numerose fabbriche nascono i Comitati Unitari di Base, organismi aziendali formatisi per lo più su iniziativa degli strati operai più combattivi, inclusi quelli sindacalizzati. Sono caratterizzati dall’essere aperti a tutti i lavoratori indipendentemente dalle proprie posizioni politiche o dall’appartenenza ai sindacati, e da avere come scopo dichiarato quello di promuovere all’interno delle fabbriche lotte e rivendicazioni antipadronali a difesa e miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, in polemica, ma non in contrasto organizzativo, con i sindacati ufficiali.

Il fenomeno interessò in particolare le fabbriche delle città di Milano, Torino, Pavia, Trento, Porto Marghera, Bologna, Pisa, Firenze, Roma, Terni, Latina, Porto Torres ed espresse le esperienze più significative in alcune grandi aziende come la Pirelli, la FIAT, la FATME, la Breda, in generale là dove era più marcata la carenza organizzativa del sindacato.

Riponiamo un passo da un ciclostilato del CUB della Breda, intitolato significativamente: "Chi siamo e che cosa vogliamo":

     «Il CUB nasce nel corso di una lotta; è un organismo di massa con una sua propria autonomia, sia a livello della linea che al livello di organizzazione, ed è formato da tutti i lavoratori che si riconoscono, dapprima in maniera spontanea, poi a un livello sempre più elevalo di coscienza, in una linea chiaramente espressa di difesa degli interessi di classe dentro e fuori della fabbrica e in funzione anticapitalistica e anticollaborazionista.
     «Il CUB non è organizzato in modo burocratico ma, come organismo autonomo, possiede la più ampia articolazione; indirizza lo sua attività in diverse forme: assemblee, volantini, riunioni serali.
    «Per appartenere a un CUB non è necessaria l’iscrizione: basta partecipare e portare il proprio contributo alla difesa degli interessi dei lavoratori. I compiti del CUB sono dunque la discussione, l’agitazione e la propaganda di tutti i problemi che, nascendo dalle lotte di fabbrica, possono contribuire a elevare la coscienza di classe dei lavoratori, perché il patrimonio di unità e di esperienza maturato nelle lotte non vada perduto ma si accresca continuamente (...)
     «Il CUB, come organismo democratico di massa, dotato di autonomia, non vuole sostituire i consigli di fabbrica. Ma il consiglio di fabbrica deve definirsi sempre di più come difensore degli interessi fondamentali dei lavoratori e abbandonare il suo attuale collaborazionismo (...) Per questo è importante sottolineare che non c’è incompatibilità fra i CUB e il consiglio di fabbrica.
     «Nei confronti dei sindacati, il CUB vuol mantenere l’autonomia della sua linea perché convinto della necessità di denunciare ai lavoratori tutto quello che i sindacati fanno, tutti i cedimenti, per metterli di fronte alle loro responsabilità e anche per sviluppare tutti quei discorsi veramente di classe che ormai i sindacati hanno rinunciato a fare».
Il carattere classista e spontaneo di questi organismi è indubbio nella fase di costituzione, sull’onda della pressione operaia e, aldilà di quelli che saranno i loro limiti sul terreno della lotta di classe e soprattutto del confronto con la politica sindacale tradizionale, costituirono il segno più evidente che l’azione disfattista e devastatrice dei confederali non aveva spento la tradizionale combattività del proletariato italiano: la pressione oggettiva delle condizioni materiali di vita e soprattutto della esasperazione dello sfruttamento operaio nelle fabbriche superò la compressione soggettiva con cui l’opportunismo cercava di mantenere il malcontento operaio nell’ambito della propria politica rinunciataria e collaborazionista.

Significativamente le rivendicazioni su cui si muovevano i CUB e le lotte da questi patrocinate o dirette, oltre quelle tradizionali di tipo salariale e della riduzione dell’orario di lavoro, investivano le condizioni specifiche di sfruttamento dei lavoratori: i cottimi, le qualifiche.

Seguiamo ad esempio l’evoluzione del CUB della Pirelli Bicocca di Milano. Si formò nella primavera del ’68, dopo la firma del contratto aziendale, criticandone i risultati e proponendo di riprendere la lotta, dopo un’ampia consultazione operaia in tutti gli stabilimenti del gruppo, sulla base di una serie di rivendicazioni che si possono cosi sintetizzare: 1) aumenti salariali e del premio di produzione; 2) rivalutazione del cottimo; 3) passaggio di tutti gli operai nella categoria superiore; 4) blocco dei ritmi e loro determinazione da parte dei lavoratori; 5) abolizione della "nocività" del lavoro e formazione di comitati operai di controllo; 6) riduzione dell’orario di lavoro.

Ormai tutte le piattaforme rivendicative dei vari CUB ricalcavano questa impostazione: mentre in alcune fabbriche, tra cui appunto la Pirelli, il grado di mobilitazione degli operai intorno a queste rivendicazioni era tale da costringere la direzione aziendale a riconoscerli e a trattare con i CUB, in altre aziende i lavoratori, sull’onda di una rapida generalizzazione di queste esperienze di lotta, infrangevano tabù durati decenni, come alla Marzotto, in cui gli operai occuparono la fabbrica e abbatterono la statua del padrone, simbolo di un paternalismo duro a morire, o alla Rhodiatoce, dove si trattava, con una durissima lotta e con l’occupazione della fabbrica, sulle questioni delle condizioni di lavoro, della nocività, dei ritmi. Analoghi movimenti più o meno spontanei si verificarono nei settori chimico, tessile, edile.
 

16 - Limiti dei C.U.B e disfattismo dei gruppettari

Ma le caratteristiche che fecero dei CUB, nella loro iniziale rapidissima fase di affermazione in alcune grandi fabbriche, degli organismi classisti suscettibili di costituire un valido riferimento organizzativo alternativo ai sindacati ufficiali, ne costituirono al tempo stesso i limiti, non potendo superare i quali era inevitabile il loro scivolamento verso la politica tradizionale dei sindacati tricolore, o la loro scomparsa fisica, o l’involuzione verso forme di organismi pseudo politici, di "contropotere in fabbrica", così come erano teorizzati da quasi tutti i gruppi ultrasinistri di quel periodo, e dunque il loro isolamento nei confronti dei lavoratori. Il limite più grave fu quello dell’aziendalismo, conseguenza inevitabile della spontaneità con cui i CUB si erano formati. Chiusi nell’ambito dei confini aziendali, i CUB non ebbero la capacità, né del resto avrebbero potuto esprimerla, mancando una spinta generalizzata in questo senso e l’influenza in essi del partito rivoluzionario, di superare il loro ristretto ambito aziendale, per cui i rappresentanti sindacali territoriali ebbero buon gioco nel riproporre ai lavoratori il sindacato ufficiale come unica concreta possibilità di organizzazione a livello categoriale e nazionale. Affievolitasi la breve fiammata iniziale, questo limite si espresse con evidenza quando, tra l’autunno e l’inverno del ’68, fallirono gli unici due tentativi di alcuni CUB di coordinare la loro azione a livello nazionale, a Roma e a Milano: spinte in questo senso provenienti da alcuni settori operai in particolare del milanese si scontrarono con tutta 1’incrostazione intellettualoide e piccolo-borghese del "movimento studentesco" e del gruppettume sinistroide, proteso all’esaltazione dell’autonomia aziendale e del particolarismo di gruppo, vana ricetta alternativa alla soffocante burocrazia. Anziché incamminarsi verso il superamento della lotta spontanea, i CUB caddero viceversa preda della sua esaltazione, e questo fu altro limite strettamente connesso al primo. Come sempre, una reazione spontanea e quasi naturale a una grave deviazione finì per produrre l’errore contrario: nati come reazione al burocratismo asfissiante e paralizzante delle rappresentanze sindacali ufficiali, molti CUB caddero preda del mito del rifiuto di ogni forma di delega e nella esaltazione dell’assemblearismo operaio come strumento decisionale unico e valido, illusione alimentata dall’indubbia notevole partecipazione operaia alle lotte di quel periodo e alle assemblee, che spesso si tenevano durante le ore di sciopero. Il rifiuto di ogni forma di rappresentanza, insostenibile sul piano pratico dello sviluppo e della conduzione delle lotte, non poteva che sfociare, attenuandosi la spinta immediata che ne determinava la teorizzazione, nel ritorno alla rappresentanza realmente e concretamente esistente e operante: quella dei sindacati ufficiali.

Questi, dal canto loro, superata una primissima fase di sbandamento e di confusione, ebbero buon gioco ad inserirsi in queste debolezze e a riassorbire gradatamente, ed in un tempo anche relativamente breve, le spinte più pericolose, fino ad assimilare interamente queste forme organizzate, originate dalla loro stessa carenza organizzativa nelle fabbriche. La strategia sindacale fu abile, in nessun caso, tranne forse in alcuni episodi di maggiore esasperazione, i bonzi sconfessarono il movimento; si inserirono nelle lotte, proponendosi anzi attivamente, nel momento più opportuno, come le uniche organizzazioni capaci di imprimere una serietà organizzativa al movimento dei CUB e di concludere "positivamente" le lotte da essi intraprese.

Questa relativa facilità con cui l’opportunismo seppe controllare la situazione nuova si riscontrò nelle stesse posizioni rivendicative dei CUB e soprattutto nelle forme di lotta che essi proponevano. I limiti organizzativi aziendalistici dei CUB e dei movimenti di "delega spontanea" finirono per esprimersi nella loro stessa politica rivendicativa e di azione: lo spontaneismo, alimentato dalle teorizzazioni dei "sinistri" di allora, innalzò a propria bandiera d’azione la strategia della lotta articolata, già cavallo di battaglia dei sindacati ufficiali. Questa strategia era esaltata dagli "ideologi" piccolo-borghesi dello studentume e dello spontaneismo gruppettaro come utile ai fini della "acquisizione della coscienza politica" da parte degli operai, in quanto tenuti costantemente in mobilitazione. Come si vede l’estremismo in definitiva finiva per far proprie, estremizzate, le posizioni dei sindacati e per appoggiarli di fatto nell’opera di recupero del movimento.

Contrariamente a quanto sempre sostenuto dagli ambienti sinistroidi sopravvissuti al ’68 e da certa "storiografia" e pubblicistica "di sinistra", i gruppi estremisti non furono affatto i protagonisti di quel biennio di lotte. Nella fase di sviluppo del movimento spontaneo e di organizzazione dei CUB, la loro presenza fu modesta e sicuramente non determinante. Si fece sentire in senso negativo invece nella fase successiva di riflusso del movimento, quando alcuni gruppi si inserirono nei CUB teorizzando la loro trasformazione in organismi ibridi politico-sindacali di "contropotere". Quest’azione disfattista portò alla disgregazione degli organismi, consegnandone di fatto i residui in mano all’opportunismo sindacale, e gli stessi elementi di punta dell’estremismo infantile finirono ad ingrossare le file dei quadri della triplice. Tipica la fine del CUB della Pirelli in cui si inserì, nei primi mesi del ’69, "Avanguardia Operaia" che, tentandolo di egemonizzare, portò nel giugno ad una scissione con la formazione di due CUB in polemica tra loro con uno che accusava l’altro di verticismo mentre quello ispirato da A.O. accusava il primo di anarco-sindacalismo. Il risultato fu la successiva caduta di entrambi in mano all’opportunismo.
 

17 - Dopo l’ "autunno caldo" i Consigli di Fabbrica

In alcune fabbriche, in particolare la FIAT, pur senza il formarsi di veri e propri CUB, l’organizzazione spontanea degli operai si espresse attraverso l’elezione dei "delegati di reparto e di linea", in contrapposizione alla rappresentanza della Commissione Interna, che diedero vita a movimenti rivendicativi di notevole intensità, anche se sempre limitati all’ambiente aziendale. Le lotte gestite dai delegati di base alla FIAT, aprirono di fatto il famoso "autunno caldo" del ’69. Verso la fine di giugno, a seguito di una vertenza che aveva per oggetto principale i ritmi di lavoro e l’inquadramento delle varie categorie, era stato siglato un accordo tra FIAT e sindacati, in cui l’azienda si impegnava tra l’altro a promuovere dalla terza alla seconda categoria tutti quegli operai che avessero una anzianità non inferiore a due anni e una responsabilità di almeno quattro macchine. Dopo le ferie di agosto gli operai interessati si aspettavano i passaggi, ma quando i capi reparto trasmisero in direzione i nominativi degli aventi diritto, i dirigenti FIAT si accorsero che la lista era troppo lunga e cominciarono ad accorciarla escludendo numerosi lavoratori con il tradizionale sistema paternalistico e discriminatorio. Gli operai delusi si sentirono ingannati, non solo dall’azienda ma anche dal sindacato, e la rabbia esplose, raccolta dai delegati di base, e il primo settembre le officine 32 e 33 di Mirafiori entrarono in sciopero scavalcando i sindacati. Il giorno seguente l’agitazione si estese, provocando la reazione dell’azienda che sospese 6.700 operai, divenuti 25.000 il giorno seguente, ad ulteriore estensione della lotta. La tensione salì al punto tale che le confederazioni sindacali mobilitarono tutte le strutture torinesi e, mentre a Roma si susseguivano a ritmo frenetico al Ministero del Lavoro gli incontri tra governo e delegazioni della FIAT e dei sindacati, nelle officine torinesi i bonzi delle federazioni metalmeccaniche riuscirono in una serie di assemblee a stroncare il movimento e ad ottenere che i settori operai più battaglieri riprendessero il lavoro in modo che l’azienda potesse ritirare le sospensioni. Ma subito i sindacati si trovarono nelle condizioni, per non perdere la faccia, di chiedere l’immediata apertura delle trattative per il contratto dei metalmeccanici, che scadeva a fine anno.

Le tensioni e le lotte del ’68 e dei primi mesi del ’69 e la repressione statale che vedeva il ritorno della polizia a sparare contro gli scioperanti (eccidi di Avola e Battipaglia) avevano risvegliato in pieno la combattività operaia, per cui la stagione contrattuale dell’autunno ’69 fu caratterizzata da una larghissima partecipazione agli scioperi, con iniziative spesso violente e durissime di picchettaggi, cortei interni alle fabbriche, manifestazioni di piazza che mettevano a dura prova i servizi d’ordine dei confederali.

La stagione contrattuale del ’69 fu un continuo susseguirsi di agitazioni e di scioperi di tutte le categorie, in cui le confederazioni ebbero la funzione di impedire che il possente movimento di lotta confluisse in una unica agitazione travolgente e pericolosa per la stabilità sociale ed economica della società capitalistica. Le segreterie confederali erano costrette ad acrobazie col calendario per frantumare quanto più possibile gli scioperi e le manifestazioni. Tuttavia riuscirono a non perdere mai il controllo del movimento ed anzi proprio nell’autunno ’69 le centrali sindacali riassorbirono completamente gli organismi dei delegati, con l’aiuto esplicito delle aziende che si rifiutavano di riconoscere i delegati operai non a loro volta riconosciuti dai sindacati.

Non si può negare che il movimento di massa creatosi in quel periodo influenzò non poco la politica rivendicativa delle centrali tricolore, specie per quanto riguarda la definizione delle piattaforme contrattuali, in cui la novità più rilevante fu la richiesta di aumenti salariali non più in percentuale, come era stato fino ad allora, ma uguali per tutti, rivendicazione chiaramente imposta dalla base operaia contro la volontà dei sindacati, che avevano inizialmente proposto aumenti "parametrati", ossia legati alla categoria, e dunque più forti per le aristocrazie operaie. Una combattività come quella espressa dal proletariato in quei mesi non avrebbe potuto essere delusa, pena il riesplodere di movimenti al di fuori del controllo dei sindacati. Anche nelle conclusioni contrattuali sindacati e padroni furono costretti a tener conto di questo e ad accordarsi su miglioramenti sostanzialmente superiori a quelli dei precedenti contratti. Questo non impedì tuttavia che la riduzione dell’orario di lavoro da 44 a 40 ore settimanali fosse scaglionata in tre anni e mezzo, dando tempo al padronato di recuperare la perdita di produzione con le innovazioni tecniche e l’aumento dei ritmi.

Attribuire esclusivamente all’abilità dell’opportunismo l’aver riassorbito quelle spinte spontanee e controllato la combattività operaia sarebbe errato: questo processo, e le conclusioni contrattuali che ne scaturirono, fu reso possibile dal favorevole andamento dell’economia capitalistica di quel periodo, che poteva consentire al regime borghese di destinare parte degli ingenti profitti accumulati in quegli anni a sopire le tensioni sociali.

L’opportunismo sindacale uscì da quegli avvenimenti rafforzando notevolmente la sua presenza nelle fabbriche. L’aspetto fondamentale del biennio fu anzi proprio questo: un’ondata di lotte scaturita come reazione alla politica dei sindacati si tradusse in un loro rafforzamento. Questo conferma la nostra classica posizione secondo cui, in mancanza di una influenza politica del partito rivoluzionario, che sappia indirizzare i moti spontanei proletari verso il superamento del loro orizzonte inevitabilmente limitato, e in mancanza di condizioni materiali oggettive che spingano i proletari ad agire con determinazione e intransigenza, qualsiasi movimento operaio spontaneo, qualsiasi organizzazione proletaria nata sull’onda di un movimento rivendicativo sono destinati presto a cadere sotto influenza borghese.

Il rapido riassorbimento di queste spinte, che noi potevamo prevedere già durante il loro manifestarsi più intenso, fu reso più facile dal fatto che in nessun caso i CUB o i delegati di base assunsero l’atteggiamento di considerarsi organismi alternativi alle strutture sindacali.

Il 25-26 ottobre ’69 si tenne a Grugliasco un congresso dei delegati operai, gestito da quelle forze che poi si integreranno nei sindacati come "sinistra sindacale": fu l’ultimo tentativo di organizzarsi con una certa autonomia rispetto alle centrali sindacali Ma già la convocazione precisava che l’iniziativa non voleva assolutamente apparire «come un’azione che corra il minimo sospetto di concorrenza alternativa al sindacato»; i promotori affermavano: «siamo consapevoli della fortissima componente di sindacalismo che anima il sorgere dei delegati». Ma in quel periodo il controllo dell’apparato sindacale ufficiale sulle iniziative di base era già pressoché totale e ogni tentativo di autonomia era destinato a risolversi, come infatti si risolse quel convegno, in un oggettivo rafforzamento di questo controllo, che divenne definitivo con la conclusione dei principali rinnovi contrattuali tra il finire dell’anno e i primi mesi del ’70.

Nei mesi seguenti i sindacati istituzionalizzarono di fatto le nuove strutture di rappresentanza createsi nelle aziende, procedettero alla costituzione formale dei Consigli di Fabbrica, assorbendo definitivamente i CUB e i delegati di base e calando dall’alto questi organismi nelle fabbriche che erano rimaste estranee alla loro formazione spontanea. Riconosciuti formalmente dalle direzioni aziendali nei rinnovi contrattuali del ’72-’73, i CdF divennero la base dell’organizzazione sindacale ufficiale in tutti i luoghi di lavoro.

Questa trasformazione degli organismi di rappresentanza dei sindacati riveste una sostanza che supera di gran lunga l’aspetto puramente organizzativo, investendo la natura stessa del processo della loro integrazione nelle strutture economiche e politiche della società capitalistica. Esaltata dalla propaganda del riformismo ufficiale non meno che dall’estremismo gruppettaro come una grande conquista operaia, la formazione dei CdF segnò di fatto una tappa di notevole portata nell’involuzione antioperaia di tutta la impalcatura organizzativa delle tre centrali sindacali. Attraverso i CdF l’apparato dei funzionari riuscì a costruire una struttura capillare con cui trasmetteva nel tessuto più vitale del proletariato d’industria tutta l’essenza disgregativa della sua politica produttivistica, collaborazionista e riformista. Questo passaggio è fondamentale nella storia dei sindacale del secondo dopoguerra e va colto in tutto il suo significato più completo. Per meglio comprenderne la portata è indispensabile ricostruire brevemente l’evoluzione delle strutture rappresentative operaie di tutto questo periodo.
 

18 - L’organizzazione dei sindacati nelle fabbriche

Subito dopo la caduta militare del fascismo, la propaganda opportunista introdusse la formula del "sindacalismo costruttivo", che doveva superare il vecchio concetto di sindacato inteso come difensore esclusivo degli interessi immediati dei lavoratori e mettere al centro della propria azione rivendicativa i problemi della produzione industriale e dell’organizzazione del lavoro, attutire nel proletariato italiano il tradizionale istinto classista che lo aveva visto protagonista di stupende lotte nel primo dopoguerra e vivissimo nella memoria dei lavoratori che avevano vissuto direttamente, o di riflesso, quegli avvenimenti. Immediatamente i funzionari del CLN vararono i Consigli di Gestione, organi ereditati dal fascismo, al quale erano serviti in funzione della produzione di guerra, la cui costituzione suscitò l’approvazione di tutti i partiti di "sinistra" e di "destra" e di tutti gli economisti borghesi. Il proletariato doveva rinunciare alla lotta per il salario per molti anni mentre, allora come oggi, si anteponevano le presunte "conquiste politiche" al miglioramento delle condizioni di vita: con i CdG si cercherà infatti di far credere ai proletari di aver fatto un passo avanti nella conquista del "potere in fabbrica". I CdG sono di fatto i Comitati di lavoro fascisti con sostituiti nuovi funzionari ai vecchi; a base della loro struttura sta il classico concetto fascista della "pariteticità" tra rappresentanti dei lavoratori e dell’azienda, con garanzia a quest’ultima della maggioranza (metà più il Presidente). Lo spirito dei CdG è ben espresso nel documento che il direttivo della CGIL approvò la sera del 23 settembre ’45:

     «Soltanto attraverso la diretta partecipazione delle maestranze alla gestione dell’azienda, realizzabile ad opera dei Consigli di Gestione, è possibile suscitare la "febbre del lavoro", l’entusiasmo delle masse lavoratrici nello sforzo produttivo. I consigli di gestione, già in atto nelle più importanti officine dell’Alta Italia, hanno dato risultati pienamente positivi, giudicati tali anche dai datori di lavoro».
Quasi tutti i partiti "antifascisti" sostennero la necessità di regolare giuridicamente per legge i CdG. Nel novembre del ’47 fu decisa l’istituzione di una commissione speciale, composta da nove sindacalisti, nove esponenti della Confindustria, quattro rappresentanti dei ministeri interessati e cinque tecnici – ed è già tutto detto – che avrebbero dovuto elaborare la "carta" dei CdG. Il progetto fallì per l’aperta opposizione del grande padronato e degli organi rappresentativi degli Alleati, in particolare degli USA, che temevano che la rabbia operaia finisse per esprimersi attraverso di essi, stravolgendone i contenuti collaborazionisti su cui li si voleva costituire. Quelli già operanti finirono per perdere ogni funzione limitandosi a sopravvivere fino all’inizio degli anni cinquanta come semplici organismi fiancheggiatori dei sindacati.

Una forma di rappresentanza sindacale nelle fabbriche si doveva comunque organizzare, e si espresse nella riesumazione delle Commissioni Interne, abolite dai fascisti il 2 ottobre 1925 con il "patto di Palazzo Vidoni" che riconosceva unici legittimi rappresentanti dei lavoratori i sindacati fascisti, e rinate spontaneamente in alcune fabbriche del Nord nella estate del ’43. Questi organismi furono formalizzati con un accordo tra CGIL e Confindustria il 7 agosto 1947.

Eleggibili da tutti i lavoratori della azienda su liste presentate dai sindacati, i membri di C.I. avevano statutariamente il compito di «concorrere a mantenere normali i rapporti tra i lavoratori e la direzione dell’azienda, in uno spirito di collaborazione e di reciproca comprensione per il regolare svolgimento dell’attività produttiva». Ecco i punti in cui si doveva esprimere l’attività della C.I.:

     «1) Intervenire presso la Direzione per la esatta applicazione dei contratti di lavoro, della legislazione sociale, delle norme di igiene e di sicurezza del lavoro, salva la eventuale successiva azione presso i competenti organi ispettivi;
     «2) Tentare il componimento delle controversie collettive ed individuali di lavoro che sorgessero nell’azienda;
     «3) Esaminare con la Direzione, preventivamente alla loro attuazione, gli schemi di regolamenti interni da questa predisposti, la distribuzione degli orari di lavoro, dei turni, l’epoca delle ferie, l’introduzione di nuovi sistemi di retribuzione;
     «4) Formulare proposte per il migliore andamento dei servizi aziendali tendenti al perfezionamento dei metodi di lavoro onde conseguire un maggior rendimento ed una maggiore produttività, vagliando e trasmettendo quelle ritenute utili, suggerite dai lavoratori;
     «5) Contribuire alla elaborazione degli statuti e dei regolamenti delle istituzioni interne a carattere sociale (previdenziale, assistenziale, culturale e ricreativo), delle mense e spacci, e vigilare con propri rappresentanti per il migliore funzionamento delle istituzioni stesse».
Lo statuto proseguiva poi attribuendo in particolare alla C.I. il compito di avallare di fatto i licenziamenti collettivi o individuali richiesti dall’azienda, attraverso una rigida procedura di esame in comune con le Direzioni Aziendali «con spirito di mutua comprensione». Erano dunque di fatto organismi esplicitamente collaborazionisti, permeati dallo spirito produttivistico e responsabile tipico del "sindacalismo nazional-democratico". Questo accordo venne perfezionato l’8 maggio ’53, a sindacati divisi, ed ebbe estensione interconfederale, rimanendo immutato nella sostanza.

Presentandosi chiaramente come organismo di composizione pacifica delle tensioni di classe che sorgevano nelle aziende, il Partito rifiutò sempre di partecipare alle sue elezioni costitutive e ne denunciò con rigore il carattere antioperaio. Questo non era affatto in contraddizione con l’indicazione del lavoro all’interno della CGIL, la distinzione era nel fatto che le C.I. non erano strutture appartenenti organizzativamente al sindacato, anche se da esso controllate, ma organismi aziendali di rappresentanza di tutti i lavoratori nei confronti della Direzione, senza alcun potere contrattuale, che veniva demandato alle strutture territoriali del sindacato. L’organizzazione sindacale, e in particolare la CGIL dopo la scissione, era presente in fabbrica solo attraverso la rete dei collettori di reparto, che avevano funzione di tenere il collegamento tra gli iscritti e l’apparato dei funzionari esterni alle aziende, e compiti di proselitismo e diffusione del materiale del sindacato. L’organizzazione del sindacato rimaneva territoriale e faceva capo alle Camere del Lavoro.

Questa struttura ricalcava quella della CGL del primo dopoguerra, ma solo formalmente. I collettori di reparto erano di fatto i portavoce di decisioni operative e rivendicative estranee agli apparati di base e agli iscritti, maturate autonomamente dai dirigenti zonali, provinciali, regionali e nazionali, un apparato di stipendiati che sempre più andava rassomigliando a quelli già allora tipici del sindacalismo anglosassone, tedesco e americano.

Punto d’incontro dei collettori era la Camera del Lavoro della zona, che progressivamente si svuotava della originaria funzione di collegamento interaziendale e intercategoriale per assumere quella di ufficio di consulenza degli iscritti. Contro questa involuzione si batteva allora il Partito, rivendicando la validità dei collettori di fabbrica – poi soppressi con la progressiva introduzione dell’iscrizione tramite delega aziendale – come stimolo alla lotta e punto di riferimento attivo del sindacato in fabbrica.

Era anche classica rivendicazione della Sinistra la natura territoriale dell’organizzazione sindacale, esterna alla fabbrica, le cui sedi e la cui funzione dovevano essere espressamente votate al superamento dei limiti aziendali e categoriali. È una tendenza naturale negli operai acquisire nella lotta la coscienza delle loro condizioni e della necessità di battersi in difesa dei propri interessi di classe, ma per determinazione oggettiva sono propensi ad esprimere la loro combattività nei limiti angusti della fabbrica e della categoria, perdendo di vista gli interessi generali di classe.
 

19 - La "contrattazione integrativa"

La politica rivendicativa dei sindacati procedeva in senso opposto, fin dalla metà degli anni ’50 orientata verso la "contrattazione integrativa" di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, che in pratica significa la collaborazione con le direzioni aziendali per la migliore conduzione parametrica e tecnica della forza-lavoro. In rapporto all’organizzazione del lavoro questa struttura diviene col passare degli anni sempre più inadeguata. Divenuta insufficiente la C.I., che come compito statutario ha solo quello di gestire gli accordi sindacali e deve demandare ai sindacati provinciali la definizione e gestione dei problemi aziendali e di categoria, ecco il bisogno di organismi aziendali specifici e investiti di poteri rivendicativi. Il Sindacato lancia allora l’indicazione della costituzione delle Sezioni Sindacali Aziendali (SAS) strettamente collegate a queste necessità. In un rapporto del Comitato Esecutivo della CGIL sulle "questioni del rafforzamento organizzativo", in cui si lamenta la lentezza della formazione delle SAS, l’aspetto è ben messo a fuoco:

     «La mancata creazione delle Sezioni Sindacali Aziendali, non come strumento di decentramento del sindacato territoriale, ma come espressione della volontà e delle capacità di autogoverno dei lavoratori, non può che pregiudicare seriamente la possibilità di attuazione della linea di politica rivendicativa articolata che meglio risponde alla tutela degli interessi dei lavoratori. L’obbiettivo del diritto di contrattazione a livello aziendale da parte del sindacato è comune a tutte le organizzazioni (...) L’esistenza della Sezione Sindacale Aziendale diventa quindi fattore determinante per l’affermazione di questo diritto».
Ancora più significativo al riguardo l’intervento di Novella al V Congresso Nazionale della CGIL:
     «La contrattazione sindacale all’interno dell’azienda in tutti i suoi aspetti di fondo, così come la chiediamo noi, sappiamo che può essere fatta soltanto da un’organizzazione sindacale all’interno della azienda. Sappiamo cioè che l’avvenire della contrattazione aziendale integrativa riposa e ha tutta la sua fortuna nello sviluppo del sindacato nell’azienda. Dobbiamo perciò lavorare con tutte le nostre forze, con tutte le nostre energie, al fine di dare alla nostra lotta per ottenere il diritto di avere il sindacato nell’azienda anche quella certezza che deriva dalla convinzione che noi chiediamo l’affermazione di un istituto aziendale nuovo, completamente nuovo nella vita sindacale democratica del nostro paese, e che dobbiamo quindi dare a questo istituto la pienezza dei suoi compiti, la pienezza delle sue funzioni e delle sue prospettive. Il sindacato nella azienda non si deve contrapporre alla commissione interna, ma collaborare con essa e diventare insieme alla commissione interna strumento di azione e strumento di unità dei lavoratori di tutte le organizzazioni sindacali».
Le SAS tuttavia non tenevano conto della struttura produttiva aziendale in quanto il meccanismo di elezione dei loro membri avveniva su nominativi presentati dalle organizzazioni sindacali e questi organismi non furono mai dotati di effettivo potere rivendicativo; finirono col fiancheggiare il lavoro delle C.I. i cui membri d’altra parte vi appartenevano di diritto. Essendo comparse all’incirca nel periodo in cui si introdusse la famigerata iscrizione al sindacato tramite delega padronale, non fecero altro che sostituire le commissioni sindacali aziendali composte in precedenza dai collettori di fabbrica.

Non era ancora sufficiente. La contrattazione integrativa abbisognava di un organismo che aderisse strettamente all’inquadramento produttivo degli operai nei processi di produzione aziendali. Occorreva arrivate al reparto, alla linea di montaggio, al "gruppo omogeneo", sulla strada di quella progressiva organizzazione anticlassista del proletariato, a rovescio rispetto alla tendenza naturale di esso che consiste nel superamento di tutti i limiti specifici che il meccanismo produttivo borghese pone al totale affasciamento degli sfruttati.
 

20 - La funzione dei Consigli di Fabbrica e il giudizio del Partito

La ventata spontaneista del ’68-’69 aveva offerto ai sindacati l’opportunità di adeguare la loro struttura di base e di superare definitivamente il ruolo limitato delle C.I., del resto ormai scadute agli occhi dei lavoratori. Con l’istituzionalizzazione dei CdF, i sindacati integrano in una unica organizzazione i due aspetti degli organismi di fabbrica che fino ad allora erano rimasti separati: quello rappresentativo di tutti i lavoratori, prerogativa della C.I., e quello sindacale di fabbrica, che organizzava gli iscritti al sindacato nelle SAS. In tal modo il sindacato annullava definitivamente ogni funzione classista alla sua struttura territoriale esterna alla fabbrica ed centrava tutta la sua azione di base al suo interno tramite i CdF, che così diventarono organismi sindacali aziendali chiusi, nel senso che questa nuova struttura impedisce di fatto il contatto fra proletari di varie fabbriche e categorie. L’attività dei CdF si manifestò infatti tramite le assemblee di reparto e di stabilimento durante l’orario di lavoro, alle quali possono partecipare tutti gli operai. All’operaio, all’iscritto, non rimangono altre occasioni per partecipare alla vita sindacale; gli è impedito ogni rapporto con l’esterno della fabbrica. I CdF furono esaltati dall’opportunismo sindacale come la massima espressione democratica di base degli operai, in quanto l’elezione dei delegati avviene su scheda bianca e può essere eletto un operaio qualsiasi, indipendentemente dalla sua appartenenza al sindacato. In realtà questa era la copertura formale di un controllo ferreo che si esprimeva già nell’Esecutivo del CdF, composto in forma paritetica tra le varie organizzazioni sindacali e praticamente in mano ai funzionari designati dal sindacato. Ciò si manifestava fin dalle elezioni di base, dominate dai sotterfugi e gli intrallazzi tra le varie correnti sindacali impegnate a imporre agli operai i loro scagnozzi più fedeli.

La caratteristica più significativa dei CdF fu quella di realizzare il presupposto che più stava a cuore al riformismo: l’aderenza delle strutture rappresentative di base ai processi produttivi aziendali. Nacque così il "delegato di gruppo omogeneo". Al criterio classista dell’inquadramento sindacale dei salariati in quanto tali, e quindi aldilà delle condizioni di lavoro particolari in cui accidentalmente vengono a trovarsi, si sostituì la rappresentanza sulla base della divisione della forza-lavoro a seconda delle mansioni svolte, accentuando fino all’esasperazione gli interessi particolari di gruppo, di qualifica, di specializzazione, di settore produttivo. La tradizionale arma padronale della divisione dei lavoratori attraverso la concorrenza individuale per l’acquisizione di salari maggiori, legati al miglioramento qualitativo e quantitativo dello sforzo lavorativo, viene impugnata anche dai sindacati, giustificandolo per sottrarre o contendere al padrone il potere decisionale in merito ai passaggi di categoria e alle ristrutturazioni aziendali. La realtà dimostrerà ben presto, attraverso l’impostazione delle vertenze integrative aziendali, che questo sistema è congeniale alla produttività delle imprese e costituisce il mezzo più efficace per coinvolgere i delegati e il sindacato nella gestione dell’organizzazione dello sfruttamento dei salariati, interpreti delle esigenze tecniche del processo lavorativo in funzione della maggiore produttività del lavoro.

Riportiamo, a titolo di esempio valido per tutte le grandi aziende, la definizione delle funzioni dei delegati e del CdF contenute nell’accordo integrativo Olivetti dell’aprile ’70: «Il Consiglio di Fabbrica, assorbendo i compiti riconosciuti alle Commissioni Interne dell’accordo interconfederale del 13 aprile 1966, assume, nell’ambito dell’unità produttiva di cui è espressione, funzioni di controllo e di contestazione relative alle materie di competenza sindacale (cottimi, qualifiche, ambiente, ecc.). Più in particolare, i singoli componenti del Consiglio di Fabbrica, eventualmente assistiti dal Comitato Esecutivo, possono intervenire in prima istanza nei confronti dei rappresentanti della Direzione aziendale; è invece compito del Comitato Esecutivo proseguire le vertenze in seconda istanza.

«Spettano al Consiglio di Fabbrica di ciascuna unità produttiva, attraverso il Comitato Esecutivo o apposite delegazioni, i compiti di contrattazione per eventuali problemi di competenza sindacale tipici ed esclusivi di ciascuna unità produttiva. A sindacati provinciali e nazionali spettano la composizione delle controversie in terza istanza ed i compiti di contrattazione per le materie di competenza sindacale che superino, rispettivamente, l’ambito dell’unità produttiva e quello provinciale».
Va notato che ogni protesta operaia che si levi da un gruppo, da singoli, o anche dall’intera unità produttiva, ogni scintilla che scoppi da un qualunque reparto, da una qualunque linea di produzione è immediatamente incanalata in una rigida procedura di competenze che fa capo al sindacato provinciale e, nazionale, e in esso si spegne. Le spinte rivendicative e le lotte operaie, da noi riconosciute elementare "scuola di guerra", esercizio per temprare ed unire sempre più il fronte proletario sulla base di rivendicazioni che riflettono gli interessi generali della classe, in questa struttura seguono un processo esattamente capovolto. I CdF e il delegato risultano pertanto i canali attraverso cui le lotte operaie assumono quel carattere di migliaia di azioni parallele e mai convergenti, senza sbocchi di classe, partono dalla fabbrica, dal reparto, dal singolo posto di lavoro e in essi muoiono senza possibilità di estendersi, con i tragici risultati a tutti noti anche sul piano delle specifiche vertenze.

Tuttavia, dal punto di vista del nostro atteggiamento nei loro confronti, i CdF non potevano essere equiparati alle C.I. Erano organismi composti dai rappresentanti diretti dei lavoratori e in cui si riflettevano le tensioni sindacali che scaturivano nei luoghi di lavoro. Non tutti i delegati erano necessariamente scagnozzi del sindacato, specie nelle piccole e medie industrie in cui il controllo dell’apparato sindacale era tradizionalmente più debole e più difficile era ricondurre sotto suo controllo il CdF che, sotto la spinta della combattività operaia, rischiava di scavalcare il sindacato. Per queste ragioni l’indirizzo d’azione del Partito fu di lavorare nel loro seno, là dove i suoi militanti operai ne avevano la possibilità, di essere delegati dei lavoratori, mantenendo tuttavia una netta autonomia d’azione e di disciplina. Scrivemmo allora:

     «Vi si partecipa forti del fatto che vi si aderisce come espressione di una elezione operaia, nel tentativo di trascinare al nostro indirizzo altri delegati, nel tentativo di pervenire al controllo di tali organismi e contemporaneamente per utilizzarli, nell’immediato, ai fini della nostra propaganda e proselitismo e della nostra agitazione in mezzo agli operai, tenendo presente che tale compito ci è facilitato dal fatto di trovarci a contatto con elementi che, bene o male, costituiscono la parte degli operai più sensibili alle questioni del movimento proletario.
     «Sarebbe grave errore partire dalla considerazione che sono organismi estremamente limitati, che agiscono in una situazione di completo ristagno della lotta classe, e che quindi tale situazione riflettono, per concludere che inutile è la nostra partecipazione. La limitatezza aziendale della loro funzione esiste in quanto essi sono completamente dominati dall’opportunismo, ma nulla ci dice che, sulla scia della ripresa dello scontro di classe, essi non possano diventare il primo nucleo di organismi intermedi efficaci per innestare quel rapporto tra partito e classe, scopo principale a cui tende la nostra azione nel loro seno.
     «D’altra parte non possiamo essere contrari per principio al fatto che gli operai si organizzino per fabbrica, per stabilimento, al limite per reparti; spetta al sindacato di classe sradicare questa organizzazione elementare dall’angusto limite aziendale e farla confluire in organismi extraziendali e intercategoriali per pervenire e superare il corporativismo insito in questa struttura. Né dobbiamo dimenticare che se una particolare struttura elettiva e di rappresentanza non rende per la sua stessa natura sicuramente rivoluzionano un organismo, essa non lo rende per altro sicuramente controrivoluzionario: è una questione di indirizzo programmatico e di azione, non di organizzazione in sé».
21 - Verso un moderno sindacato di regime

Nella generale involuzione dei sindacati ad organismi funzionali al sistema produttivo capitalistico si inquadrano le modifiche alla struttura rappresentativa di base dei sindacati del ’68-’69, una modernizzazione dei sindacati italiani che compie passi da gigante in quegli anni e in quelli immediatamente successivi. Il poderoso impulso produttivo della macchina capitalistica, che sforna merci con ritmi crescenti e mai sufficienti a soddisfare le richieste di un mercato mondiale in fase di inarrestabile espansione, imponeva al capitale di poter contare su una organizzazione sindacale nazionale fortemente rappresentativa del proletariato, in grado di inquadrare la forza-lavoro nelle fabbriche, consapevole delle funzioni di stimolo di un sindacato responsabile inserito in tutti i gangli produttivi e istituzionali della società, capace di funzionare da valvola di sfogo della pressione operaia, incanalandone e contenendone le spinte di base verso obiettivi confacenti al miglior funzionamento del meccanismo produttivo e sociale: sul piano del riformismo e della compatibilità delle rivendicazioni con le esigenze dell’economia nazionale e aziendale. In quegli anni i settori più intelligenti e rappresentativi della borghesia industriale e agraria invocavano, tramite i partiti di governo e la stampa di regime, un "sindacato forte", e guardavano con favore al processo di unità sindacale tra le confederazioni che sembrava profilarsi con crescente insistenza.

La borghesia italiana si sforzava di plasmare le sue istituzioni sociali, politiche ed economiche su immagine di quelle dei paesi capitalisticamente più stabili ed evoluti – USA, Inghilterra, Germania – dove il proletariato è inquadrato in grandi associazioni sindacali unitarie legate a filo diretto con i governi e i grandi gruppi industriali, dove la legislazione regola i rapporti tra sindacati e imprenditori e definisce procedure e modalità dell’attività sindacale di fabbrica, dove l’assistenza statale verso il proletariato costituisce un efficiente ammortizzatore delle tensioni sociali.

Gli ingenti profitti che si vanno accumulando nelle casse statali e padronali rendono possibile l’attuazione di misure dirette alla "modernizzazione" dei rapporti sociali, all’imbrigliamento del proletariato in una rete di prebende assistenziali, giuridiche e normative che tendono a rafforzare le "catene dorate" con cui il capitale trascina la classe operaia dietro alle sue vicissitudini, uno sforzo teso a mitigare le contraddizioni sociali classiche del capitalismo e ad allontanare il proletariato dal suo istinto di classe. Si assiste ad una convergenza di tutti i settori che rappresentano gli interessi generali del capitalismo, primi fra tutti i partiti centristi, che si susseguono al governo attraverso le tradizionalmente ricorrenti crisi ministeriali, verso questo obiettivo. E verso di esso propende altresì l’opportunismo sindacale, accentuando le rivendicazioni riformiste entro cui racchiude tutte le spinte salariali che provengono dalle categorie.

Uno dei risultati più significativi di questo fervore "progressista" (termine che diviene di moda in tutta la cultura dominante dell’epoca, riflettente anch’essa le aspirazioni della classe dominante) fu l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, vero esempio di legislazione democratico-corporativa tendente ad elevare a legge di Stato i vincoli e le condizioni entro cui si rivolge lo sfruttamento del proletariato e che recentemente i sinistroidi sopravvissuti al ’68 hanno tentato di introdurre, tramite referendum, nelle aziende al di sotto dei 40 dipendenti, spalleggiati da pretesi ultrasinistri richiamantesi nientemeno che alla Sinistra Comunista.

Sul fronte sindacale l’aspirazione a pervenire al sindacato unico, pilastro delle istituzioni politiche e statali della società capitalistica, pervade tutte e tre le confederazioni e si intreccia con l’accentuazione dei temi riformistici delle loro rivendicazioni, che ormai non si differenziano più sul piano dell’azione. Chiuso il ciclo contrattuale dell’"autunno caldo", il principale impegno della triplice è ricondurre sul terreno strettamente riformistico la combattività operaia. Questa necessità è tanto comunemente sentita che tutte le correnti sindacali entrano in sintonia e propendono al superamento della unità d’azione, verso la cosiddetta "unità organica". In prima fila in questa spinta unitaria è la CGIL i cui vertici confederali accentuano gli sforzi per cancellare ogni residuo formalismo classista dell’organizzazione e per apparire agli occhi delle forze istituzionali borghesi come un sindacato responsabilmente proteso al miglioramento delle strutture sociali della macchina capitalistica. CISL e UIL vengono descritti ai lavoratori come sindacati che hanno in gran parte rifiutato le loro origini filopadronali e con le quali si può pertanto procedere alla ricongiunzione organizzativa nel nome dell’unità dei lavoratori.

Questa parola d’ordine fa leva sulla naturale propensione dei lavoratori all’unità nella lotta e trova terreno favorevole in una base memore dei fermenti combattivi delle recenti lotte contrattuali aziendali. L’unità di azione tra le tre centrali sindacali, realmente verificatasi nella gestione di queste lotte, sembra suffragare le tesi delle bonzerie della CGIL. Spinte all’unità giungono con insistenza dalle federazioni delle categorie che hanno avuto maggior peso nelle lotte: metalmeccanici, chimici, edili, tessili, e dai settori più sensibili alla propaganda riformista come la FLM, la sinistra CISL e anche la sinistra UIL. In queste correnti confluiranno gran parte dei gruppi estremisti che andranno a costituire le colonne portanti di quella "sinistra sindacale" la cui funzione di ingabbiamento delle spinte proletarie contro la politica delle confederazioni diverrà preziosa negli anni seguenti.

I congressi del ’69 delle tre centrali sindacali esaltavano la prospettiva unitaria, alla cui base ponevano la politica delle famigerate "riforme di struttura" che caratterizzeranno l’azione antioperaia della triplice nel triennio successivo alla conclusione delle vertenze contrattuali e che serviranno, tra l’altro, a deviare certe spinte di base che consideravano l’unità nel senso del rafforzamento della lotta di classe.

In quegli anni, fino ai primi sintomi tangibili di crisi economica del ’73-74, diventarono sistematici gli incontri e le consultazioni tra ministeri e sindacati sulle riforme rivendicate dalla triplice, relative all’edilizia, al servizio sanitario, al sistema fiscale (unica questa riforma realizzata effettivamente, con gran danno ai salari operai), ai trasporti, all’eterna questione del Mezzogiorno. Ben presto il polverone delle "grandi riforme" si manifestò null’altro che una grancassa propagandistica con cui l’opportunismo sindacale dimostrava la sua vocazione nazionale e costituzionale e l’aspirazione ad elevarsi al rango di "forza sociale" determinante ai fini della stabilità economica della società capitalistica e delle sue infrastrutture sociali.
 

22 - Progressiva involuzione

Il controllo corporativo-democratico, fondato sulla ricomposizione e il compromesso delle spinte e dei contrasti tra le classi suscitati dalle contraddizioni economiche e sociali del capitalismo, trova in quel periodo, favorito dalle condizioni floride dell’economia in espansione, la sua massima espressione istituzionale e costituisce un potente fattore di attenuazione delle tensioni sociali e della combattività operaia. Il miglioramento relativo delle condizioni di vita di larghi strati proletari – risultato di uno sfruttamento esasperato della forza lavoro e del saccheggio dei paesi sottosviluppati ad opera dell’imperialismo mondiale – e il formarsi di ampie sacche di aristocrazia operaia, che godevano di un patrimonio di "garanzie normative" ed assistenziali, fenomeno classico dei periodi di allargamento della produzione capitalistica, rinvigorisce la funzione collaborazionista e istituzionale delle centrali sindacali che trovano in queste condizioni oggettive favorevoli il terreno ideale per esaltare l’accresciuto benessere sociale come una conseguenza della loro politica riformistica. A migliaia di lavoratori entrati nelle fabbriche negli ultimi 15 anni, queste garanzie, effimera emancipazione dalla miseria degli anni dell’immediato dopoguerra, appaiono, e la propaganda opportunista e borghese le descrive come tali, "conquiste" irreversibili e definitive, mentre il fiorire della produzione capitalistica crea l’illusione della sicurezza del posto di lavoro e del continuo miglioramento delle condizioni di vita legati all’efficienza del sistema produttivo dell’azienda. La ventata "contestataria" del ’68-’69, che vede sullo sfondo delle lotte operaie l’agitazione degli strati studenteschi e piccolo-borghesi, ansiosi di accaparrarsi una fetta consistente di plusvalore operaio, trova facilmente sfogo nel convulso vulcano della produzione di merci. Molti protagonisti della "contestazione" entrano ad occupare posti di privilegio nel meccanismo produttivo o nelle sue strutture di supporto, mentre nelle fabbriche si assisteva a un repentino ritorno nei ranghi dell’opportunismo sindacale di molti di quei delegati di base, spesso più o meno influenzati dall’estremismo gruppettaro, che avevano partecipato alle lotte con atteggiamenti critici nei confronti dei sindacati. Gran parte, anzi, andranno a rinvigorire la struttura di rappresentanza, producendo in molti luoghi di lavoro un ricambio fra generazioni di funzionari intermedi.

Nelle fabbriche, i CdF diventano i portatori di base di una mentalità produttivistica che riflette gli indirizzi delle confederazioni e che si allontana ormai rapidamente da ogni presupposto classista, facendo leva sulla propensione dei lavoratori a veder migliorato il proprio salario attraverso i passaggi di categoria legati a quella che ormai è chiamata la loro "professionalità".

Le piattaforme rivendicative delle vertenze integrative aziendali successive ai contratti del ’69-’70 saranno incentrate prevalentemente su questi aspetti. Attraverso di esse i sindacati si faranno interpreti delle esigenze aziendali legate all’organizzazione del lavoro, ai cottimi, alle caratteristiche strutturali delle catene di montaggio e delle officine di produzione. In particolare trova attuazione la necessità delle grandi aziende di rendere l’organizzazione dell’apparato produttivo più flessibile alle esigenze dei mercato, che richiede prodotti sempre più rapidamente superati dalla frenetica evoluzione tecnica. I sindacati se ne fanno i portavoce presentando come rivendicazioni operaie i criteri di organizzazione del lavoro che meglio rispondono a queste evoluzioni produttive, come il passaggio dalle tradizionali catene di montaggio a cottimo individuale alle "isole di produzione" a cottimo collettivo, in cui ogni operaio diventa il controllore dei propri compagni. Questa rivendicazione, che verrà presentata dai sindacati come un superamento del taylorismo attraverso la cosiddetta "ricomposizione delle mansioni" e addirittura come un superamento della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, permetterà alle aziende di introdurre questi nuovi processi produttivi con la complicità e l’assenso contrattato dei sindacati.

I delegati, tra cui si distingueranno in zelo aziendalista i bonzetti del PCI, assumeranno ben presto la figura di cogestori con le gerarchie aziendali intermedie della distribuzione e del controllo della forza-lavoro nelle fabbriche e i CdF si fanno paladini, attraverso gli accordi aziendali, dei cosiddetti "inquadramenti professionali" in base alle "mansioni produttive" dei lavoratori. L’operaio non è più considerato come il salariato nel classico senso classista, ma è equiparato alla figura del piccolo borghese con la sua "professionalità" da difendere. La stessa terminologia del linguaggio sindacale si adegua progressivamente a questa impostazione produttivistica e aziendalistica e gli accordi sindacali assumono sempre più l’aspetto di complicatissimi manuali tecnici redatti da esperti in "organizzazion2 del lavoro".

Tutto l’apparato sindacale tende a chiudersi in questa logica produttivistica ed efficientistica e a presentarsi come "controparte istituzionale" a livello politico più generale, ove i sindacati sono ormai considerati "forze sociali" il cui parere viene sentito da tutti i governi in formazione in fase di stesura dei loro programmi.
 

23 - Cadono i presupposti per il lavoro interno alla CGIL

Ogni possibilità "virtuale e statutaria" di azione organizzata all’interno della CGIL da parte di correnti o frazioni sindacali, non solo comuniste ma semplicemente di proletari attestati su posizioni classiste, viene esclusa praticamente da uno stuolo di funzionari intermedi impregnati fino al midollo di riformismo e di fedeltà democratica alle istituzioni politiche borghesi e separati da una base di iscritti sempre più esclusi dalla vita reale delle organizzazioni sindacali e nella cui "memoria storica" diventa sempre più labile il ricordo della tradizione classista della CGIL di "sindacato rosso" del periodo pre-fascista. Il richiamo formale alla CGIL "sindacato di classe" scompare dai documenti confederali e dalla fraseologia dei bonzi. Dalle rappresentanze di fabbrica ai meccanismi di revisione e di partecipazione territoriale e aziendale alla vita e all’attività del sindacato è ormai cancellato ogni formalismo classista collegato al passato. Rientrata l’ondata di combattività operaia degli anni precedenti, anzi trasformatasi in un ingrossamento delle file dell’opportunismo sindacale, per la dirigenza CGIL l’unità sindacale deve suggellare la sua completa emancipazione da ogni collegamento con il passato, dalla "unità organica" deve emergere un sindacato votato alla piena maturità democratica e istituzionale. Ma le eterne polemiche nel tessuto politico italiano tra i partiti democratici prendono il sopravvento anche nelle loro correnti interne alle tre organizzazioni sindacali, legate per mille fili a quelle dei partiti che le controllano anche quando proclamavano di volersene rendere "autonome". La cosiddetta "unità organica" tra CGIL, CISL e UIL, minata dai contrasti tra i partiti, non andrà oltre la costituzione della federazione unitaria avvenuta il 25 luglio 1972.

Ma, come la scissione del ’48 non aveva modificato affatto il quadro generale del sindacalismo del periodo e non riqualificò la CGIL come "sindacato rosso" in antitesi a CISL e UIL, così la mancata unificazione organizzativa del ’72 non era il frutto di una opposizione classista di base alla ricongiunzione della CGIL con gli altri due e non mutava la sostanza politica del "sindacato unico", ossia una organizzazione sindacale che, seppur divisa da correnti intestine – che in vario modo riflettevano gli interessi dei vari strati piccolo-borghesi e medio-borghesi che si contendono la torta del plusvalore operaio – continuava a rappresentare un baluardo insostituibile per la classe dominante ai fini del controllo del proletariato.

Tuttavia le due situazioni non sono identiche tra di loro e non identico l’atteggiamento dei comunisti rivoluzionari nei loro confronti. Se è vero che non mutano la sostanza e i contenuti della politica della CGIL in questo quarto di secolo – riformista e collaborazionista è nel ’48 allo stesso modo che nel ’72 – diverso è l’atteggiamento della gran massa dei lavoratori verso queste organizzazioni, profondamente diverso nelle due situazioni.

Come abbiamo visto, nel ’48 nella CGIL militano milioni di lavoratori combattivi, che ne ricordano la tradizione di classe e in essa vedono l’organizzazione "rossa" in contrapposizione ai sindacati padronali e filo americani CISL e UIL. Il partito non può non tenere conto di questo atteggiamento e, mentre nelle sue analisi politiche confuta questa illusione e considera a giusta ragione la CGIL come "cucita sul modello Mussolini" come gli altri due, nell’azione pratica organizza i suoi deboli effettivi operai in questo sindacato e indica ai lavoratori la prospettiva della sua conquista, sulla scia della inevitabile futura ripresa della lotta di classe.

Dagli anni ’70 in poi la situazione è completamente diversa e non ha più senso distinguere tra le tre confederazioni nemmeno sul terreno dell’azione pratica. Per effetto delle vicende che abbiamo qui cercato di sintetizzare, nella base degli iscritti non esiste più una netta contrapposizione tra le tre confederazioni che richiami la tradizione del passato. Si assiste addirittura in molti casi ad una inversione dei ruoli che vede certe frange di base della CISL scavalcare a sinistra la base della CGIL ed anzi intere federazioni cisline, come la FIM, assumere atteggiamenti più radicali e demagogici della FIOM.

In una base sindacale, che ha subito un vero e proprio ricambio di generazioni negli ultimi 10-15 anni, che ha portato tra l’altro nei quadri sindacali di fabbrica all’esclusione e alla emarginazione di quelle figure di anziani dirigenti di base, combattivi anche se legati alla gerarchia sindacale esterna, che avevano costituito il punto di riferimento per l’azione della massa dei lavoratori e in prima fila nello scontro con il padrone, venivano a mancare le condizioni oggettive per il richiamo propagandistico alla tradizione rossa della CGIL contro i sindacati dichiaratamente padronali CISL e UIL. Tanto più che la dirigenza della CGIL si erano ormai disfatta di tutte le caratteristiche organizzative che potevano richiamare nella memoria e nell’istinto dei proletari i caratteri propri di un sindacato di classe così come si era manifestato negli anni precedenti al fascismo. Ormai nella CGIL non vi era più nulla da difendere e si era manifestata di fatto una situazione che indicava al partito la necessità di riaggiustare le sue indicazioni tattiche immediate.

L’indicazione della costituzione dei "Comitati di difesa del sindacato di classe" contro l’unificazione con CISL e UIL, che allora il partito dette come ultima applicazione, coerente al suo indirizzo tattico, che si rifaceva alla "tradizione rossa" della CGIL e chiamava su questa base i proletari più combattivi intorno ai propri gruppi comunisti, non fu raccolta dalla classe operaia e di fatto i Comitati si ridussero alle nostre sole forze.

Come abbiamo ampiamente documentato, negli anni successivi la questione fu intorbidita ed utilizzata al fine di provocare un grave sbandamento politico ed organizzativo del partito, al quale fu slealmente impedito lo studio sereno e il proseguire la valutazione della non facile questione. La degenerazione del partito infatti non ebbe origine dalla "questione sindacale", come certi cenacoli usciti dalla sua disgregazione continuano a ritenere, ma da una grave degenerazione sia per il rigetto del centralismo organico come suo metodo interno di lavoro sia per successive profonde deviazioni sui principi, politiche e di indirizzo tattico.

Tutto questo tuttavia non impedì alle forze sopravvissute a quel catastrofico sbandamento e riunitesi intorno al nostro giornale di analizzare anche l’aspetto più propriamente tattico che si poneva in quegli anni sul terreno dell’azione sindacale. Conseguentemente a quanto detto fu abbandonata la prospettiva della difesa della tradizione rossa della CGIL, e, senza tuttavia negare la validità dell’azione interna ai sindacati, si orientò l’indicazione verso la "rinascita ex-novo dei sindacati di classe", non come riedizione meccanica della "forma sindacato" del passato, ma come ricostruzione di un tessuto organizzativo classista che le vicende del secondo dopoguerra avevano ormai definitivamente distrutto, fedeli alla consegna di tutti i nostri corpi di tesi in base ai quali non vi potrà essere reale ripresa di un vero movimento di classe senza il ricostruirsi di organizzazioni di difesa proletaria a contenuto economico immediato. Gli avvenimenti successivi in campo sindacale confermarono e rafforzarono questa indicazione come esporremo nel prossimo numero a conclusione di questo lavoro.
 

24 - L’opportunismo sindacale di fronte alla crisi

Il periodo del ’72-’74 vede le confederazioni unitarie accentuare il riformismo del loro indirizzo generale e l’impostazione produttivistica negli integrativi aziendali. Intanto si manifestano i primi sintomi della crisi economica: l’incremento della produzione industriale rallenta e gli scambi internazionali cominciano ad incepparsi. La non convertibilità del dollaro in oro proclamata dagli USA nell’agosto ’71 è il primo effetto ufficiale dell’inizio di un ciclo di crisi e involuzione dell’economia capitalistica che, tra alti e bassi, ma con bassi sempre più profondi, dura e si prolunga tuttora. Primo riflesso politico della crisi è l’irrigidimento del fronte governo-padronato-partiti politici nei confronti del movimento operaio, PCI compreso, sempre più proteso a inserirsi nel gioco della "alternanza" democratico-parlamentare.

La responsabilità del rallentamento dell’economia nazionale e dell’affievolirsi dell’accumulazione capitalistica viene attribuita con crescente baccano propagandistico alle lotte operaie e agli "eccessive concessioni" economiche e normative degli anni precedenti. Il tradimento sindacale soggiace a queste accuse e, secondo la classica impostazione collaborazionista, ritorce l’accusa sulla "incapacità" delle direzioni aziendali ad investire proficuamente i loro capitali e sul fallimento della politica economica dei governi. Su questa base sarà impostata la "strategia" sindacale degli anni della crisi: rivendicazioni salariali sempre relegate su un piano secondario e subordinate alla "politica dei sacrifici", nella accettazione di dovere la classe operaia contribuire con tutte le sue forze alla "uscita dal tunnel" della crisi, politica da allora costante fino ad oggi.

Già le lotte contrattuali dell’inverno ’72-’73 sono così improntate e, nonostante le varie categorie esprimano una combattività tutt’altro che inferiore a quella dei rinnovi precedenti, si concludono con aumenti salariali molto bassi. In questa tornata contrattuale trova attuazione il famoso inquadramento unico operai-impiegati, che riflette sul piano normativo l’intreccio che si era ormai venuto a creare nei luoghi di lavoro tra queste due categorie fondamentali in cui era tradizionalmente divisa la forza lavoro nelle fabbriche. Presentata dai sindacati come una grande conquista, la normativa non faceva che prendere atto della progressiva semplificazione tecnica delle mansioni lavorative, che spinge figure aziendali prima considerate "privilegiate" verso salari e inquadramenti sindacali più bassi e alza relativamente il valore della forza-lavoro di certi strati operai specializzati, che lo stesso capitale ha interesse a pagare meglio del tradizionale impiegatuccio imbratta carte.

Con i contratti del ’72-’73 vengono istituzionalizzati e ufficialmente riconosciuti dalle aziende i CdF come organismi aziendali rappresentativi di tutti i lavoratori, ed inizia il loro sclerotizzarsi e il lento ma progressivo distacco dalla base formalmente chiamata alla loro elezione, diventando sempre più asfittici organismi destinati a ratificare passivamente le decisioni operative dell’apparato dei funzionari esterni alla fabbrica.

In questo periodo si definisce meglio la struttura del sindacato che dovrà affrontare gli anni della crisi e con cui tutt’oggi il proletariato si trova a dover fare i conti. Il miscuglio di correnti e frazioni più o meno facenti capo ai partiti ufficiali in cui si frastaglia tutta la schiera dei funzionari della triplice tricolore è quanto di meglio possa caratterizzare un moderno sindacato di regime. Vi è un "centro" maggioritario imperniato intorno alla CGIL e ai settori di ispirazione "socialista" della UIL che tratteggia e imposta i lineamenti fondamentali della politica collaborazionista e che permea di sé e controlla la grande maggioranza dei CdF nelle grandi aziende. Una "destra" fa riferimento alla minoranza UIL che, a seconda dei momenti, è impersonata anche da tutta l’organizzazione, a cui spetta il compito di andare allo sbaraglio in prima fila quando si tratta di calare la mano pesante verso i lavoratori e più apertamente prostrarsi davanti al padronato. Una "sinistra" più o meno radicale e parolaia, anche qui a seconda delle situazioni, costituita per lo più da quella consistente frazione del sinistrume sessantottista che, passata di moda la buriana contestataria, ha ritrovato tra le braccia del bonzume confederale la sua vera essenza opportunista, e che si preoccupa di far ritornare sotto l’egida e il controllo sindacale ufficiale quelle frange di lavoratori che la crisi tende a porre istintivamente sul terreno classista e a reagire alla tutela dei sindacati ufficiali.

Da allora in poi la sceneggiata tesa a far ingoiare i rospi sempre più amari della crisi rispecchierà lo stesso copione. Di fronte a qualsiasi attacco padronale i sindacati rispondono sempre in un primo tempo con un’opposizione parolaia più o meno unitaria; tutti deprecano, accusano, respingono le proposte padronali, si appellano alla mobilitazione operaia, che non va mai oltre il rituale simbolico delle due o quattro ore di sciopero o della "giornata di protesta"; salvata la faccia, la "destra" comincia a considerare non del tutto infondate le pretese padronali o governative; segue la solita roboante polemica verbale con il "centro" e la "sinistra", dopodiché tutti finiscono per presentarsi unitariamente ai lavoratori a far ingoiare il nuovo bidone, con la "sinistra" che si distingue in questo. Da ormai quasi un decennio il proletariato assiste a questa sceneggiata. Il suo ritorno alla vera lotta di classe spazzerà via questa recita e i loschi attori che la interpretano.
 

25 - Reazioni operaie fuori e contro le strutture

Nel ’74-75 la crisi capitalistica si manifesta in tutta la sua gravità e la politica rivendicativa dell’opportunismo la riflette spostandosi sul tema degli "investimenti produttivi". Di fronte ai primi attacchi padronali ai salari e all’occupazione si fanno scioperare gli operai con la pretesa di imporre al padronato "scelte produttive" diverse, quasi che il capitale non si orientasse spontaneamente verso gli investimenti più redditizi. Questa strategia antioperaia viene verniciata con teorie riformistiche assurde, come il "nuovo modo di lavorare e di produrre". L’accettazione della "politica dei sacrifici" da parte del PCI e dalle sue propaggini sindacali è inquadrata nella strategia della "austerità", che sottintende la piena disponibilità dei rappresentanti ufficiali dei lavoratori a giocare a fondo il loro storico ruolo di puntellatori dell’economia capitalistica. La storia sindacale di questi ultimi 5-6 anni è praticamente di una continua, lenta ma progressiva riduzione di una serie di quote salariali e assistenziali, attraverso una sequela di accordi sindacali che vanno dalla riduzione dell’incidenza salariale della contingenza sulle liquidazioni, all’eliminazione di alcune voci dal paniere della scala mobile, fino alla recente drastica riduzione di questo meccanismo sul salario. È la storia inoltre della continua cogestione triangolare governo-padroni sindacati, dell’espulsione della forza-lavoro esuberante dalle fabbriche, dell’accettazione dei sindacati a continue stangate governative tendenti a colpire direttamente e indirettamente i salari e le condizioni generali di vita e di lavoro di tutta la classe operaia, di piattaforme rivendicative contrattuali e aziendali stese e sbandierate col fine della "uscita dalla crisi" e di accordi conclusi su questa base. E storia recente e nota a tutti, le cui vicende particolari evitiamo di esporre per non appesantire una relazione già troppo lunga.

Ci interessa invece rintracciare gli aspetti essenziali della funzione delle strutture rappresentative sindacali e delle reazioni operaie al comportamento dell’opportunismo e agli attacchi padronali. In generale si è assistito ad un progressivo distacco della base operaia dall’organizzazione sindacale. Dal ’76-’77 in poi il seguito dei sindacati è andato calando, mentre sono parallelamente cresciute di intensità le contestazioni operaie nelle assemblee di ratifica di accordi e di contratti. La contestazione dei dirigenti nelle piazze, nelle manifestazioni, nelle assemblee di fabbrica è divenuta una costante nelle vertenze sindacali di questi ultimi anni. Si è trattato finora, nella gran parte dei casi, di reazioni e contrapposizioni che complessivamente non sono andate oltre il rifiuto passivo delle decisioni e della politica sindacale e che hanno avuto come conseguenza l’effetto di accrescere la sfiducia dei lavoratori nei confronti delle centrali sindacali. Da un lato si assiste nelle fabbriche all’allontanamento passivo di grandi masse di lavoratori dalle azioni di sciopero sempre più simboliche e di sapore beffardo proclamate dalle centrali, la cui ampiezza è sicuramente superiore a quella del calo delle iscrizioni ai sindacati e all’aumento delle disdette, di per sé già significativi. Dall’altro, all’incremento impressionante di un esercito di senza-lavoro, disoccupati, sottoccupati, cassintegrati, estranei alle organizzazioni sindacali ufficiali, completamente in balia di se stessi, tra cui non può che dominare la rassegnazione, l’apatia e il tentativo di risolvere individualmente le proprie situazioni.

Questo generale fenomeno di allontanamento delle grandi masse operaie dai sindacati, che si esprime nelle adesioni stentate agli scioperi e soprattutto alle sempre più rare manifestazioni di piazza, è significativamente più accentuato là dove, come alla FIAT, gli operai hanno subito sulla propria pelle le brucianti conseguenze della politica sindacale. Non sono però mancate in questi anni reazioni attive e organizzative all’azione disfattista dei sindacati, che hanno avuto vicissitudini diverse tra loro ma un univoco significato: l’impossibilità materiale di difendere anche le più elementari necessità di vita e di lavoro restando in qualche modo sotto la tutela delle centrali sindacali.
 

26 - I nuovi Comitati Unitari di Base

I primi significativi episodi risalgono al ’75, con la formazione di CUB, comitati operai di base, che sorgono in alcuni luoghi di lavoro o di categorie, in particolare tra i tranvieri milanesi, i lavoratori della scuola, i disoccupati napoletani, i ferrovieri di Napoli e Roma. Il 23 aprile ’75 il CUB dei tranvieri milanesi proclama uno sciopero di 24 ore a sostegno di rivendicazioni salariali e normative a cui aderisce tutta la categoria, paralizzando per l’intera giornata i trasporti pubblici della metropoli lombarda. La reazione dei sindacati, passato lo sbigottimento e lo stupore delle prime ore, è durissima: piovono sui lavoratori in sciopero gli epiteti di "provocatori, teppisti, irresponsabili, corporativi". I comunicati della CGIL e della direzione dell’ATM tuonano all’unisono contro lo sciopero. Il primo chiama apertamente al crumiraggio e invita i tranvieri a «rientrare nelle corrette forme di lotta finora portate avanti e che si inseriscono nella più generale azione del movimento sindacale: riforme, politica dei trasporti, ripresa produttiva». Il secondo proclama: «Chi organizza queste azioni, anche se si dichiara di sinistra, fa il gioco delle forze che vogliono imporre sull’ondata emotiva creata dal terrorismo di destra, soluzioni autoritarie di stato di emergenza». Questa reazione si ripeterà in tutte le situazioni analoghe successive, specie di fronte all’unione dei CUB ferrovieri di Roma e Napoli dell’agosto ’75, che vedono la stragrande maggioranza dei lavoratori entrare in sciopero apertamente contro le direttive sindacali.

Questi organismi di base differiscono nettamente da quelli del ’68-’69. Mentre quelli non hanno mai preteso di costituire un’alternativa al sindacato e sono sorti principalmente come reazione alla sclerosi burocratica e alle deficienze organizzative del sindacato, i comitati di questo periodo agiscono esplicitamente e dichiaratamente al di fuori dell’organizzazione sindacale di base, che pure è presente là dove si formano. Non solo, ma nel vivo dell’agitazione, nei momenti di maggior tensione e di lotta, sono portati dagli eventi a scontrarsi con gli organismi di base dei sindacati e soprattutto contro l’apparato organizzativo esterno.

Una caratteristica che li differenzia da quelli del ’68 è anche quella dei contenuti rivendicativi delle loro azioni, che tendono a rovesciare l’impostazione produttivistica e collaborazionista della politica sindacale e a puntare sull’affermazione dei reali interessi operai, attraverso rivendicazioni salariali e normative antitetiche a quelle sindacali.

Conseguentemente l’atteggiamento dei confederali nei confronti di questi organismi è opposto: non si tenta di fagocitarli o di cavalcare le agitazioni che essi riescono a indire e dirigere, ma si combattono apertamente. La diversa natura di questi CUB o gruppi operai e il diverso atteggiamento dei sindacati nei loro confronti è espressione della mutata situazione economica: il padronato e il suo Stato non possono più tollerare che nelle fabbriche e sui luoghi di lavoro si perturbi con azioni spontanee il ciclo produttivo e l’ordine sociale; ha più che mai bisogno di ordine e regolarità nella produzione che solo gli organismi sindacali ufficiali possono garantire. Le confederazioni non possono più tollerare o cavalcare lotte e agitazioni che si pongono esplicitamente contro la sua politica collaborazionista. L’approfondirsi della crisi economica non permette più nemmeno la parziale soddisfazione di ciò che gli operai spontaneamente chiedono, come era potuto avvenire nel ’68-’70 in piena espansione produttiva. Le loro lotte spontanee vanno stroncate sul nascere, o al massimo, assecondate, come avverrà alla FIAT con la lotta dei 35 giorni, nell’intento di soffocarle meglio nel momento in cui tendono ad assumere l’aspetto di veri scontri sociali.

La crisi economica spinge la classe operaia verso condizioni di vita sempre più precarie ed istintive reazioni si hanno nel pubblico impiego in genere, ferrovieri, scuola, ospedalieri, tranvieri, lavoratori dell’aria, categorie che, per la loro caratteristica di addetti ai "servizi", sono state particolarmente trascurate dal bonzume confederale, anche preoccupato di non inimicarsi la platea degli "utenti", delle mezze classi, a difesa delle quali affermerà di aver stilato le norme di auto-regolamentazione degli sciopero.

Proprio perché espressione di un malcontento generato principalmente dalla disillusione della crisi economica, questi organismi non si estendono velocemente come quelli del ’68 ma, per converso, il fenomeno non si esaurisce in una stagione contrattuale e presenta un andamento alterno, durevole e mutevole nel tempo, strettamente collegato alla spinta spontanea dei settori più combattivi e che si manifesta in modo discontinuo e che spesso, dopo magnifici quanto brevi slanci di combattività, si esaurisce senza lasciare traccia. Questa caratteristica, che conferisce carattere di classe ai CUB e organismi analoghi, è al tempo stesso causa della loro debolezza.

Quasi sempre, esaurita la spinta iniziale che li ha espressi, finiscono per chiudersi in se stessi, preda spesso della illusione che sia sufficiente sopperire alla mancanza del collegamento con la classe attraverso il "salto di qualità politico", verso l’avventurismo di minoranze che si illudono di poter agire sul piano politico, o in sostituzione della classe, o cadono nell’errore di contrapporre le "loro" lotte minoritarie alla stragrande maggioranza degli altri lavoratori.

A fomentare queste aberrazioni, che possono sorgere dopo l’euforia dei momenti migliori di lotta, contribuisce una infinità di gruppuscoli estremisti, in genere i residui del ’68 non confluiti nei ranghi ufficiali, ma anche "rivoluzionari" di antica data andati a male e richiamantesi nientemeno che alla sinistra comunista i quali, coerentemente al loro fondamentale opportunismo, interpretano l’espressione organizzata delle lotte operaie spontanee come una "moda", analoga a quella che li aveva visti 5-6 anni prima atteggiarsi a "contestatori". Il "comitato" o il "collettivo operaio" diventa così, nella concezione di questi mestatori, una mistica organizzativa di per sé "rivoluzionaria". Il rapporto tra classe e suoi organismi di lotta è capovolto, il comitato operaio diventa "costruttore" di lotte, fabbricatore di "avanguardie", un "riferimento obbligatorio". Così negli anni ’74-’78 si assiste a tutto un fiorire di "comitati" e "collettivi" fittizi e fasulli, appendici operaie di partitini e gruppetti che nascono, muoiono, si scindono e ricompongono secondo le vicissitudini dei loro "costruttori". Spesso organismi di base sorti da genuine spinte classiste, o anche solo dalla necessità in minoranze combattive di porsi il problema della reazione organizzata al tradimento sindacale, finiscono preda di questi mestieranti della bassa politica.

Una influenza distruttiva in questo processo di lento e travagliato ritorno di strati proletari alla difesa intransigente delle loro condizioni di vita è stata determinata in questi anni dai gruppi terroristici e dai loro fiancheggiatori più o meno attivi. L’ideologia piccolo borghese e avventurista dei fautori del "partito armato" ha finito per influenzare un certo numero di proletari schifati dall’opportunismo dei partiti ufficiali e dei sindacati tricolore e dalle loro propaggini di "sinistra", molti dei quali hanno ingenuamente creduto di trovare la risposta alla difesa dei loro primari bisogni nella disperazione del "gesto esemplare", nell’azzoppare o ammazzare borghesi, pennivendoli, magistrati e capetti di fabbrica.

Il risultato è stato, da un lato, quello di aver deviato decine di giovani proletari dal sano e naturale istinto classista, che tende non all’isolamento dai propri compagni di lavoro ma all’unione con essi nell’azione antipadronale e anticapitalistica, in cui conta non 1’"audacia" di singoli ma il peso del numero dei partecipanti sulla base del convincimento alla lotta di difesa, dall’altro, l’aver creato tra altri numerosi proletari la paura dell’intervento e dell’azione classista, nel terrore di essere bollati come "brigatisti" o "fiancheggiatori" dalla propaganda sindacale ufficiale, che con questi epiteti ha cercato sempre in questi anni di neutralizzare l’azione e le denunce dei proletari che contestavano attivamente la loro politica. La conseguenza è stata l’aver allontanato molti proletari più sensibili e combattivi dalla corretta strada della ripresa rivendicativa immediata, sul terreno economico difensivo classista. L’azione di costoro è dunque da ritenersi deleteria ai fini della ripresa di classe e oggettivamente (ma anche soggettivamente, non pochi, in fabbrica, essendo delegati o funzionari sindacali fedeli esecutori delle direttive) convergente con quella disfattista della politica ufficiale che hanno preteso, ma non troppo, di combattere.
 

27 - L’indirizzo del Partito

Questi fenomeni di disturbo non inficiano il significato importante di questi primi tentativi operai di scrollarsi di dosso la cappa di piombo del sindacalismo di regime. Già dal ’75 il nostro partito lo rileva, sottolinea i pericoli e gli errori a cui sono esposti questi organismi, prende le distanza da quelli fasulli. Il n.10 del giugno ’75 del nostro giornale scrive: «Il partito, mentre saluta con entusiasmo queste prime reazioni della classe operaia al tradimento opportunista ed impegna tutte le sue forze a sostenerle ed a potenziarle, riconoscendovi i primi sintomi della ripresa del moto di classe, indica la necessità che essi tendano a riunirsi e a fondersi in un movimento generale di opposizione sindacale che deve condurre al risorgere di organismi di difesa economica veramente legati agli interessi della classe, al risorgere dei sindacati di classe, armi della classe operaia nella lotta contro il padronato e contro lo Stato capitalistico, sia nel caso in cui l’opposizione operaia alla politica tricolore possa svolgersi all’interno delle organizzazioni sindacali attuali, sia nel caso che essa sia costretta a svolgersi al di fuori e contro di esse; l’organizzazione di tutti gli operai che si pongono contro il disfattismo opportunista è necessaria come è necessario il collegamento in una rete sempre più fitta ed estesa degli organismi operai di opposizione sindacale i quali devono, pur partendo dalle esigenze immediate degli operai in una fabbrica e di una categoria e proprio per poter efficacemente difendere queste stesse esigenze, elevarsi alla visione della necessità del risorgere alla scala generale della classe operaia di organismi economici veramente classisti, di indirizzare a questo scopo i loro sforzi e la loro azione. «Su questa strada il partito indica agli organismi operai che spontaneamente sorgono due pericoli concomitanti che devono essere evitati. Il primo è quello del loro chiudersi sulla base della adesione a determinati indirizzi politici, mentre è necessario che essi accolgano tutti quegli operai, a qualsiasi ideologia o posizione politica appartengano, che si pongono sul terreno della difesa senza quartiere delle loro condizioni di vita e di lavoro contro il padronato, lo Stato, e la politica tricolore dei sindacati attuali.

     «Il secondo pericolo è rappresentato dalla tendenza a concepire i propri compiti come un superamento della funzione sindacale stessa, a concepire se stessi come forme superiori e sostitutive della organizzazione sindacale operaia che potrebbe tranquillamente essere lasciata nelle mani dei bonzi opportunisti isolandosi così in una specie di spontaneismo trionfalistico. Mentre deve essere chiaro a tutti i lavoratori che si pongono su questo terreno che, se essi sono costretti ad organizzarsi al di fuori delle stesse organizzazioni sindacali ufficiali, è proprio perché l’essenziale funzione della difesa sindacale viene da queste organizzazioni tradita e si tratta di riaffermare la inderogabile necessità per tutti i proletari di lavorare a ricostruirla strappando all’opportunismo le sue posizioni in seno alle organizzazioni operaie».
Sul n. 17 del gennaio ’76, si precisa:
     «I gruppi comunisti operano all’interno del movimento ufficiale, in quanto sia possibile il loro inquadramento, in aperto contrasto con le dirigenze e la politica delle Centrali, sforzandosi di organizzare le forze operaie intorno ad una opposizione sindacale di classe, la quale operi anche dall’esterno dei sindacati ufficiali, in stretto collegamento con gli organismi spontanei degli operai, con lo scopo preciso di strappare l’iniziativa e la direzione delle lotte operaie alle bande dei dirigenti sindacali tricolore senza per questo sabotare gli scioperi promossi da questi messeri, pur criticandone ferocemente le intenzioni e gli scopi anticlassisti.
     «Di fronte ai Comitati o organismi operai dissidenti fuori dalle Confederazioni il partito indirizza i suoi militanti a lavorare dentro quelli "aperti", che non sono cioè emanazioni dirette di partiti o di gruppi politici, in grado quindi di non porre condizioni politiche di partito o di setta e di organizzare in principio ogni lavoratore, consentendo ai comunisti libertà di organizzazione e di diffusione del programma. In essi i comunisti si organizzano in gruppi contemporaneamente operanti nei sindacati ufficiali con lo scopo di prenderne la direzione, conducono una intensa propaganda e assumono atteggiamenti per promuovere e facilitare il collegamento tra i diversi organismi operai operanti sul terreno della lotta di classe, per la loro unificazione in una unica ed unitaria organizzazione su più vasto territorio.
     «Il partito non lavora con gruppi organizzati all’interno di altri organismi chiusi, nei quali gli sia impedito di esplicare la sua attività e sviluppare l’organizzazione dei suoi gruppi operai comunisti. Non partecipa in assoluto a organismi in cui confluiscano elementi di più classi e semi-classi, come comitati di quartiere, comitati per "l’autoriduzione", organi collegiali della scuola, consulte amministrative aziendali, ecc., né ad iniziative promosse da altri partiti "operai" anche se enunciano pretese azioni sindacali con organi interpartitici.
     «L’azione dei comunisti si sforzerà sempre di essere un coefficiente di attrazione delle forze proletarie, comunque siano politicamente e sindacalmente dislocate, su un terreno di classe al fine della rinascita di una organizzazione veramente proletaria e combattente con i mezzi della lotta di classe e dell’azione diretta, opponendo a tutte le iniziative centrifughe ed eccentriche rispetto all’unità di movimento l’azione coordinata e centralizzata degli operai in lotta per difendere i loro interessi economici immediati».
Questo indirizzo il partito avrà poi modo di esprimerlo direttamente e concretamente nella lotta degli ospedalieri del ’78 che ha visto in molte zone l’intera categoria scendere in sciopero, sotto la direzione dei comitati di base, non solo contro le direttive sindacali, ma contro le loro stesse organizzazioni di base locali.
 

28 - Verso la riorganizzazione di classe

Parallelamente a questi primi significativi episodi di ribellione organizzata alla politica dei sindacati si assiste a una progressiva chiusura dell’organizzazione di questi. Ogni forma di vita sindacale attiva e partecipativa degli iscritti, che non aveva mai brillato nel passato ma che aveva a volte permesso l’espletamento di un lavoro organizzato da parte dei comunisti nel loro seno, viene cancellata. L’apparato organizzativo di base è sempre più ridotto a uno stuolo di fedelissimi, staccati dalla base che pretendono di rappresentare e a cui spetta unicamente il compito di riportare pedantemente tra i lavoratori le linee ufficiali delle rispettive confederazioni di appartenenza, funzionari di mestiere impermeabili a qualsiasi stimolo classista. Approfittando dell’azione dei gruppi terroristici i sindacati hanno espulso dalle loro file i delegati operai che si sono rifiutati di sottoscrivere fedeltà alla democrazia. Questo atto cancella l’ultima espressione formale di sindacalismo libero: l’adesione di ogni proletario senza discriminazione politica. L’involuzione delle organizzazioni sindacali in apparati di regime è marcata dal rapporto prettamente corporativo che è venuto a determinarsi sul piano istituzionale, imperniato praticamente su un confronto continuo, stretto e consolidato del triangolo governo-padroni-sindacati in funzione antioperaia e con lo scopo esplicitamente dichiarato da tutti di operare nell’obiettivo della stabilità sociale. Di questo ruolo giocato dai sindacati è consapevole un numero crescente di lavoratori che ne provano sulla propria pelle gli effetti in termini di peggioramento delle condizioni di vita ed è reso più esplicito dall’atteggiamento sempre più rigido che le confederazioni sono costrette a tenere nei confronti delle esplosioni di rabbia operaia.

Ancora recentemente se ne è avuto un esempio: quando, nel gennaio scorso, migliaia di lavoratori scesero spontaneamente in sciopero in diverse località occupando per brevi periodi alcune stazioni e aeroporti, protestando contro l’ennesima stangata governativa in preparazione, per la prima volta nel dopoguerra le confederazioni hanno preso immediatamente le distanze da queste manifestazioni, pure di valore puramente simbolico e di portata limitata.

Da questa situazione generale, che abbiamo in sintesi cercato di descrivere, emerge con chiarezza un elemento fondamentale: il malumore operaio tende ad assumere, come fenomeno generalizzato, l’aspetto del crescente distacco passivo dall’azione dei sindacati mentre, ogni volta che gruppi più o meno consistenti di lavoratori tendono a superare questo atteggiamento verso l’organizzazione attiva per la difesa di loro esigenze immediate anche minime, sono costretti a farlo al di fuori del controllo organizzativo dei sindacati. Non è più possibile, come poteva esserlo negli anni ’50 e ’60, esprimere una qualsivoglia forma di organizzazione operaia classista, per piccola e debole che possa essere, che goda in qualche modo della copertura formale dell’organizzazione sindacale ufficiale e permetta di esprimere una opposizione classista nel suo seno. Non solo, quando questa opposizione organizzata esterna riesce a tradursi in lotta operaia consistente, o è direttamente la espressione di una lotta esplosa fuori dal controllo dell’opportunismo, gli operai che vi partecipano sono costretti a scontrarsi con l’organizzazione sindacale tricolore che tende a sbarrare loro il passo e a spezzare l’agitazione, in aperta combutta con il padrone o il governo, che riconoscono i sindacati ufficiali come i soli rappresentanti dei lavoratori.

È da questa situazione che il partito ha tratto la previsione che la ripresa futura dei moti proletari classisti a contenuto di difesa economica non potranno che esprimersi al di fuori delle strutture sindacali ufficiali e contro di esse ed è in conseguenza di questo che oggi abbiamo abbandonato l’indirizzo del lavoro organizzato all’interno della CGIL, nella prospettiva della sua conquista "magari a legnate", così come il partito l’aveva prospettato fino agli inizi degli anni’ ’70.

Oggi, quando masse crescenti di lavoratori si stanno rendendo conto della funzione antioperaia dei sindacati e molti di essi tendono a distaccarsene, specie quelli che con più fiducia negli anni precedenti avevano seguito le loro azioni, il partito non invita più gli operai ad aderire alla CGIL per lottare contro la politica riformistica e collaborazionista dei vertici. Questo indirizzo oggi non potrebbe che confondersi con quelli della "sinistra sindacale", che tende con i suoi atteggiamenti pseudo-radicali ad arginare l’emorragia dei lavoratori che abbandona queste organizzazioni e la loro politica.

Peggiore ancora sarebbe confinarci in una specie di limbo tattico, per cui ci dispensassimo da avere una tattica d’azione pratica, in attesa che gli sviluppi futuri della situazione esprimano tendenze ed elementi più tangibili e concreti di quelli odierni. Come abbiamo scritto mille volte, compito del partito è di determinare una tattica d’azione, sulla base dei propri cardini teorici e programmatici, integrati dall’analisi delle situazioni reali, e lavorare per favorire lo sviluppo reale coerente alle sue previsioni. L’abbandono di questo compito equivale alla cessazione del partito in quanto tale e alla sua trasformazione in cenacolo di intellettuali pago di difendere a parole la teoria e il programma, attraverso il richiamo cattedratico alla teoria marxista e ad astratti principi generali.

Certamente soltanto lo sviluppo del movimento operaio, la sua ricomparsa non episodica sulla scena della lotta di classe potrà confermare la nostra previsione e indirizzo tattico. Ma è proprio nel vivo dell’azione, a contatto col movimento reale della classe, non nella sfera delle elucubrazioni di opinioni, che il partito deve verificare questa conferma. Non da miraggi attivistici o da astratte formulazione intellettuali abbiamo tratto le linee fondamentali della nostra previsione, ma dall’applicazione del metodo marxista all’analisi dei fatti sociali reali, per quanto squallidi siano quelli di oggi, come qui abbiamo ancora una volta cercato di dimostrare.