Partito Comunista Internazionale Stampa in lingua italiana
La “distensione”, aspetto recente della crisi capitalistica
(Il Programma Comunista, nn. 1-6, 1960)
Il Programma Comunista, n. 1, 1960
Cause della “guerra fredda”
Il Programma Comunista, n. 2, 1960
Alle origini della “distensione”
Il Programma Comunista, n. 3, 1960
Ribattendo il chiodo
Si chiude la fase eruttiva del moto anticolonialista
Il Programma Comunista, n. 4, 1960
La Russia, nascente potenza finanziaria
Il Programma Comunista, n. 5, 1960
Epopea usuraia del dollaro
La crisi economica mondiale
Il Programma Comunista, n. 6, 1960
La storia si ripete

 


[Il Programma Comunista, n. 1, 1960]

Sulla “fine della guerra fredda” circolano decine di teorie che pretendono di spiegarne le cause. La più idiota di tutte ci appare quella – affastellata dalla stampa americana e rilanciata da quella italiana – che tira in ballo il vecchio trito argomento del “pericolo cinese”. Secondo gli autori, l’accostamento russo-americano, reso evidente dal viaggio di Krusciov in America, sarebbe imposto dalla necessità di predisporre un argine su scala mondiale alle future spinte espansionistiche... della Cina. La potenza cinese, ci vengono a raccontare codesti scrittori di fantapolitica, non mancherà di dilatarsi, sia sul piano industriale che demografico, e inevitabilmente nel prossimo futuro costituirà un grave pericolo, non solo per l’Occidente, ma per la stessa Russia. Non sarà spinta la grande marea gialla sino a travolgere le frontiere russe e straripare nel grande spazio siberiano? Non vorranno i cinesi rivendicare a sé l’attuale Asia russa, già appartenuta a popoli asiatici e in parte all’Impero cinese, e colonizzata dallo zarismo? E chi può ignorare che già altra volta, nel Medioevo, l’Europa ha subito gli orrori dell’invasione mongola? E via di questo passo.

I signori della stampa democratica e atlantica intendono spaventarci, come già tentò a suo tempo un altro inventore di romanzacci politici, Mussolini, dandoci a intendere che Russia e America sarebbero spaventate del “pericolo cinese”, cioè di una minaccia che potrebbe maturare al massimo tra due o tre decenni – ammesso che l’industrializzazione dello spazio cinese non subisca inversioni di marcia – più che da una minaccia attuale costituita dagli spaventevoli arsenali che rispettivamente posseggono e senza posa riforniscono. Ma c’è di più. Lor signori pretendono di farci bere la più assurda delle fandonie, e cioè che gli Stati possano pianificare una azione comune, predisporre una meta da raggiungere e scegliere la via più adatta per arrivarci. Quando mai è successo qualcosa del genere, non diciamo nella fase dell’imperialismo, ma in tutta la storia del capitalismo e dello Stato nazionale? C’è un solo modo per riuscire a mettere d’accordo gli Stati del mondo: sopprimerli tutti e impiantare sulle loro macerie uno Stato mondiale, governato dal partito comunista. Ma non di ciò intendiamo parlare e nemmeno sulla nuova edizione da “giallo” politico che riporta sulle prime pagine dei giornali il “mistero cinese”.

I lettori già conoscono le nostre opinioni circa la “guerra fredda” e la “distensione”. Essi ricorderanno che nemmeno nei momenti più impressionanti della storia di questi anni abbiamo creduto che Russia e Stati Uniti fossero in procinto di porre mano alle armi e dare il via alla terza guerra mondiale. Ci siamo rifiutati di crederlo, non perché siamo convinti che l’enorme potere distruttivo delle armi moderne abbia reso evitabile la guerra imperialistica, ma perché le risultanze del nostro studio sulle condizioni della economia capitalistica mondiale escludevano l’ipotesi dell’avvicinarsi della grande crisi catastrofica che in futuro porrà il dilemma: guerra mondiale o rivoluzione proletaria.

Né abbiamo escluso, quando tutta la stampa benpensante cianciava di “cortine di ferro” e di “mondi diversi e opposti”, una svolta nelle relazioni russo-americane. Anzi, abbiamo insistito nella tesi che le due super-potenze tendevano in realtà ad un condominio mondiale. Inconciliabili e non idonei alla coesistenza sono, secondo noi, il capitalismo e il socialismo, lo Stato nazionale e imperialista borghese e lo Stato della classe operaia. Ma non si può definire, alla luce dei principi marxisti, l’economia sovietica come socialista, e lo Stato di Mosca come Stato della classe operaia. Da questa analisi economico-sociale scaturiva la tesi nostra, secondo la quale non sono da escludere, nei rapporti tra la Russia e gli altri Stati, né il conflitto politico-militare, né la coesistenza o addirittura la coalizione.

La rivalità e il conflitto non si possono estirpare nei rapporti tra gli Stati nazionali, guardiani e gendarmi al servizio di macchine produttive fondate sullo sfruttamento. La coesistenza pacifica dei popoli, che non consista in una tregua tra una guerra e l’altra, è possibile unicamente in un mondo da conquistare, nel quale la macchina produttiva sia costruita in modo da eliminare lo sfruttamento di una classe sull’altra e lo squilibrio tra produzione e consumo determinato inevitabilmente del fatto che i frutti del lavoro umano, e lo stesso lavoro umano, siano merci da scambiare e da accumulare. Nel capitalismo la guerra è inevitabile, perché la stessa società, in ogni giorno, in ogni minuto della sua esistenza, è teatro di una guerra atroce delle classi dominanti contro le classi sfruttate e oppresse. Non ci può essere pace, ma soltanto tregue armate, tra gli Stati, perché dentro i confini di ogni Stato è perennemente in atto la guerra sociale, che è sempre guerra anche quando le classi sfruttate sanno reagire agli sfruttatori soltanto con i mezzi impari della lotta rivendicativa e della inane competizione elettorale.

Fortemente ancorati a questi principi, siamo passati attraverso la “guerra fredda” senza lasciarci convincere nemmeno per un istante che il conflitto, politico e militare che ha opposto i due blocchi, fosse una traduzione in forme nuove della lotta di classe tra capitalismo e comunismo. Per le stesse ragioni, il profilarsi della “distensione” non ci ha fatto perdere la bussola. Tale accadimento era stato posto da noi, fin da quando si cominciò a parlare di “guerra fredda”, nel novero delle concrete eventualità. Quanti articoli abbiamo pubblicato, nei quali sostenevamo la tesi che il conflitto russo-americano avesse per oggetto, non la maniera di cambiare il mondo, ma di spartirselo!
 

Cause della “guerra fredda”

Praticamente non diremo nulla di nuovo, ripresentando le nostre opinioni circa la tanto strombazzata “distensione”. Sarà però utile, mentre la stampa al servizio dei blocchi militari propala interpretazioni menzognere dell’odierno trapasso della politica mondiale, ricapitolare quanto già detto sull’argomento in altre occasioni. Come e perché si è arrivati alla fine della “guerra fredda”? A tali interrogativi si può rispondere, ovviamente, cercando anzitutto di assodare perché la “guerra fredda” ebbe inizio.

1) Il conflitto post-bellico che ha portato alla formazione delle grandi coalizioni politiche e militari del Patto Atlantico e del Patto di Varsavia, non ha tratto origine dalla lotta di classe fra proletariato e borghesia. La seconda guerra mondiale fu la conseguenza inevitabile del riflusso dell’ondata rivoluzionaria che nel primo dopoguerra portò alla costituzione della Internazionale comunista e alla dittatura del proletariato in Russia. Il ripiegamento della rivoluzione comunista, ad opera soprattutto delle socialdemocrazie traditrici che in Europa riuscirono a deviare l’impeto delle masse, e la ancora più micidiale ondata di opportunismo e di rinnegamento rappresentata dallo stalinismo straripante, che le immobilizzò mentre il fascismo internazionale puntava verso la guerra, furono all’origine della seconda guerra imperialistica. Era assurdo pensare che lo stalinismo, sotterratore della sinistra rivoluzionaria della Terza Internazionale, unica erede del movimento marxista e del leninismo, potesse riprendere la guerra di classe contro le Potenze capitalistiche, che aveva avuto alleate nel corso del conflitto.

È vero, invece, che nel dopoguerra l’enorme pressione esercitata sulla Russia da tutto il restante mondo borghese ebbe l’effetto di accelerare il processo di degenerazione e di involuzione sociale già iniziato ad opera dello stalinismo, portandolo alle fasi finali che oggi osserviamo. Non è il luogo di rifare la storia della marcia a ritroso della Russia stalinista – dalle prime rudimentali forme di comunismo all’attuale stadio di grande industrialismo che è di indiscutibile natura capitalista, perché fondato sul mercantilismo, sul salariato, sulla divisione aziendale del lavoro ecc. È chiaro, però, che il passaggio dallo stalinismo al krusciovismo decentralizzando la direzione dell’apparato produttivo, ricostituendo sostanzialmente la piccola proprietà contadina nelle forme pseudo collettivistiche dei colcos, gonfiando a dismisura la sfera delle attività commerciali, ha liquidato le residue forme di controllo sociale delle attività economiche che un potere rivoluzionario operaio deve esercitare in vista della trasformazione in senso socialista della società.

In sintesi, la “guerra fredda”, esaminata dal punto di vista sociale, non ha intaccato il potere del capitalismo fuori della Russia e dei suoi alleati, mentre ha accelerato e portato a compimento il più che trentennale processo di imbastardimento capitalista della struttura sociale russa. Ai kruscioviani è riuscito ciò che ancora non era riuscito agli staliniani. La “guerra fredda” ha cancellato ogni residua differenziazione sociale tra Occidente e Oriente, ha fatto la Russia “più simile” ai paesi capitalistici. E ciò, anticipando le nostre conclusioni, rappresenta uno dei fattori della chiusura della guerra fredda.

2) Il conflitto che, poco dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, ha messo di fronte gli Stati Uniti e la Russia, non ha avuto per oggetto l’Europa. Tale affermazione può essere respinta da coloro che ancora credono, essendo vittime di pregiudizi nazionalistici o razziali, che l’Europa, la vecchia Europa che diede alla luce il capitalismo e il colonialismo, possa rimanere oggetto di contesa. In realtà, l’Europa non è più da spartire dall’epoca delle Conferenze di Yalta e di Potsdam (1945), cioè da quando fu irrimediabilmente spartita. Ad onta degli aspetti spettacolari, assunti dalla crisi di Berlino (quella del “ponte aereo”) o dalla recente rivolta ungherese; ad onta delle grottesche fatiche di Sisifo della diplomazia russa e americana che periodicamente inscenano ipocrite trattative sulla “questione tedesca”, che regolarmente si concludono con un nulla di fatto, Mosca e Washington non hanno nulla da dirsi circa l’Europa. Hanno interessi convergenti, in quanto hanno da lottare quotidianamente, nel vecchio continente, contro un nemico comune: il neutralismo, o per essere precisi, le tendenze terzaforziste locali.

La passata politica del Dipartimento di Stato che, per bocca di Foster Dulles, propugnava la “liberazione dei paesi dell’Europa orientale”, era in realtà un capolavoro di ipocrisia. Gli Stati Uniti, anche se potessero ottenerlo costringendo care [sic] un conflitto mondiale, non farebbero una buona politica (dal loro punto di vista) costringendo i russi a ritirarsi entro i loro confini statali. E si capisce il perché. La “liberazione” delle democrazie popolari colpirebbe alle radici il Patto Atlantico che fu fondato, cioè imposto dagli Stati Uniti ad una Europa sconquassata dalla guerra e bisognosa degli “aiuti” americani, sotto il pretesto di erigere una “diga” contro il “comunismo sovietico”. In fondo, ogni legnata che uno dei padroni imperialistici dell’Europa assesta al nazionalismo europeo, riesce vantaggiosa anche per l’altro padrone. A riprova di ciò sta il fatto che ad opporsi alla “distensione”, cioè ad una stretta collaborazione tra Mosca e Washington, sono proprio le forze politiche espresse da borghesie – quali quelle di Francia e di Germania – che hanno o credono di avere maggiori possibilità di realizzare una “terza forza” continentale, inserita tra i colossi di Occidente e di Oriente.

Se la “guerra fredda” realmente finirà, ciò non accadrà perché Stati Uniti e Russia abbiano raggiunto un accordo circa la sistemazione da dare all’Europa. Tale accordo esiste, ripetiamo, dall’epoca di Yalta e Potsdam, e nessuna delle parti ha interesse a modificarlo. Una cosa è certa: che i contrasti che oppongono gli Stati europei gli uni all’altro (vedi le opposte coalizioni commerciali capitanate rispettivamente da Londra e dall’asse Parigi-Bonn, le rivendicazioni territoriali che hanno per nome Alto-Adige, linea Oder-Neisse ecc.) sono denunciati da fatti concreti, mentre i contrasti russo-americani in Europa sono soltanto verbali e cartacei.

Naturalmente, non pretendiamo negare quanto è accaduto negli anni passati in Europa, e soprattutto ignorare ciò che i popoli europei hanno dovuto soffrire per lo scoppio della rivalità post-bellica tra America e Russia. Se la gente ha sopportato la miseria, il terrore, le persecuzioni, le repressioni sanguinose, ciò è successo anche perché alle già dure condizioni sociali che il capitalismo perpetua, in guerra come in pace, si è sovrapposto il conflitto imperialistico, che localmente ha servito alle borghesie dominanti per rafforzare i propri apparati statali di repressione. D’altra parte lo spettro della guerra atomica, costantemente evocato dalla stampa e dalla radio, non ha impedito il riarmo, ma riusciva a gettare le masse in un vile pacifismo sociale.

Si comprende bene che alle incancrenite contraddizioni europee spetta un posto di relativa importanza tra le cause profonde del conflitto russo-americano, se si tiene presente che soltanto in Europa, cioè proprio nel continente che aveva dato l’avvio alla seconda guerra mondiale, fu possibile procedere ad un assetto politico, a ostilità cessate. Naturalmente si trattò di un assetto che assomigliava molto ad una camicia di forza che i vincitori del conflitto – e si tratta di vedere se tra questi può figurare la Gran Bretagna, considerando le enormi mutilazioni inferte al suo impero finanziario e coloniale – applicavano ai popoli europei sottomessi o “liberati”. Ma uno assetto comunque ci fu. Il vulcano fu messo a tacere. Era da più di quattro secoli, cioè dal tempo in cui i “conquistadores” e i negrieri della cristiana e civile Europa iniziarono il grande capitolo della colonizzazione, che esso eruttava morte e distruzione nel mondo.

3) La “guerra fredda” fu determinata dalla profonda influenza che sulle relazioni russo-americane esercitò il grandioso sconvolgimento sociale che certo rappresenta il fatto più importante di questo secolo dopo la Rivoluzione Socialista Russa: la rivoluzione anticoloniale dei paesi dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina. Un ferreo determinismo regola, nelle società di classe, il corso della storia. Le armate americane e russe, incontrandosi nel cuore della Germania nazista, mettevano fine al primato imperialistico dell’Europa borghese. L’occupazione militare mirava a mettere sotto chiave la Rivoluzione e ci riusciva. Ma quale forza umana avrebbe potuto immobilizzare gli altri continenti che si levavano contro il colonialismo? I governi degli Stati vincitori già avevano prestabilito dei piani per la messa sotto controllo del Vecchio Continente, ed ebbero solo bisogno di perfezionarli. Applicarli non fu difficile, anche perché le decrepite borghesie europee, prive ormai di fiducia in se stesse, non chiedevano di meglio che porsi sotto la protezione dei vincitori.

Ma per il non previsto scoppio della rivoluzione anticoloniale i vincitori non avevano, né avrebbero potuto predisporre, dei piani. Esisteva, invero, nella mente degli imperialisti americani il disegno di sostituirsi al Giappone nel controllo dell’Asia orientale, come provano i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki: né il corrotto regime di Ciang Kai-scek costituiva certo un ostacolo alle mire espansionistiche americane. Per non diverse ragioni era scoppiato nel 1904 il conflitto russo-nipponico. Tuttavia, Mosca aveva dovuto, almeno apparentemente, rassegnarsi alla infiltrazione americana in Cina. Chi ha dimenticato il tempo in cui Ciang, creatura degli americani, figurava come il Quinto Grande? Ma il popolo cinese, tormentato da una crisi che da oltre cento anni sconvolgeva il paese, non accettava di subire passivamente una nuova forma di colonialismo. E non l’accettarono gli indiani, gli indonesiani, i birmani, i malesi, gli arabi, i malgasci, i negri, cioè la stragrande maggioranza degli abitanti della Terra.

Non era bastato, per risolvere la crisi mondiale, imporre all’Europa un regime di occupazione, che pure era necessario (dal punto di vista imperialistico) se dura tuttora. E come poteva bastare, se ben tre continenti, finora soggetti al colonialismo e al semi-colonialismo, si alzavano contemporaneamente in piedi? La rivoluzione anticoloniale poteva trovare consensi sia a Mosca che a Washington, perché entrambe ambivano a soppiantare nelle colonie gli antichi padroni. Ma poneva problemi tremendi, specialmente agli americani, i quali dovevano badare non solo a contrastare l’operato dei russi, ma altresì a fronteggiare le velleità di rivolta dei propri alleati, che ferocemente lottavano per conservare i loro traballanti imperi coloniali. Bisogna pensare all’enorme posta in gioco, alle ingentissime risorse naturali rinserrate nel sottosuolo dei paesi coloniali come ai prodotti delle piantagioni, ai territori di importanza strategica, alle enormi riserve di mano d’opera a bassissimo costo, per comprendere la portata dello sconvolgimento che la rivoluzione anticoloniale determinava nell’equilibrio tra le potenze imperialistiche.

Bisogna immaginare in quali condizioni si troverebbe oggi la Russia se fosse riuscito il piano americano di espansione nell’immenso spazio cinese. E in quali condizioni si troverebbe l’America se i mutamenti apportati dalla rivoluzione nazionale in Asia avessero consentito allo Stato Maggiore di stringere alleanze militari e installare basi aeronavali nei territori relativamente vicini alle frontiere asiatiche della Russia. Identiche considerazioni si potrebbero fare per quanto riguarda il Medio Oriente, l’Africa del Nord, l’America Latina.

Ciascuno dei due rivali imperialistici temeva come la morte un eccessivo ingrandirsi dell’altro; e di questi reciproci terrori si sono avvalsi certamente i popoli ex coloniali per arrivare all’indipendenza. Per rendersi conto dello stato di odio, e di paura, nel quale l’imperialismo era piombato, bisogna riandare con la mente all’ondata maccartista che sommerse gli Stati Uniti, ai processi che gettarono nel terrore le “democrazie popolari”, e soprattutto alla orribile guerra di Corea. Che il primo scontro militare tra americani e russi sia avvenuto in Corea, benché i russi non partecipassero con proprie truppe al conflitto, sta a provare che la “guerra fredda” fu provocata dalla necessità di procedere ad una nuova divisione del mondo a seguito della dissoluzione degli imperi coloniali. Quali sono le cause che ne stanno provocando la fine?
 
 


[Il Programma Comunista, n. 2, 1960]

Nell’articolo precedente abbiamo sostenuto che la fase di aperta rivalità politica e militare succeduta nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la Russia all’alleanza del tempo di guerra, cioè il pericolo indicato col termine di “guerra fredda”, scaturì dall’enorme sconvolgimento sociale e politico causato dalla rivoluzione anticoloniale, del resto ancora in atto entro l’immenso spazio geografico che comprende l’Asia, l’Africa, e l’America Latina. La guerra, ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, risolve temporaneamente i problemi cruenti dell’imperialismo trasferendo sul piano militare gli insanabili conflitti economici che lo sfruttamento di classe, l’ineguaglianza dello sviluppo storico dei vari paesi capitalistici, e le rivalità nazionali che da essa conseguono, inarrestabilmente accumulano.

Ma, se per due volte il capitalismo ha messo il mondo a ferro e fuoco, per altrettante volte un terremoto sociale ha percorso il pianeta sradicando e abbattendo secolari baluardi della reazione. Fu nel primo dopoguerra, anzi durante ancora il primo conflitto, che la rivoluzione proletaria esplose gagliardamente in Russia e nell’Europa orientale, schiantando il reazionario impero degli Zar; e se la rivoluzione comunista, scoppiata in Russia, non poté espandersi fino a travolgere l’Europa borghese, lo si deve al vergognoso tradimento dei partiti socialdemocratici che, nel momento decisivo della crisi sociale, si schierarono al servizio del nemico capitalista.

La seconda guerra mondiale, voluta e provocata dall’imperialismo internazionale, nemmeno essa, pur in assenza di un movimento rivoluzionario del proletariato, si è risolta in una mera divisione del mondo, in una nuova redistribuzione del predominio imperialistico. È stato fatto, da parte delle grandi potenze egemoniche uscite vittoriose dal conflitto, un tentativo di coagulare il moto sociale in uno stampo prefabbricato. Ma l’idillio internazionale celebrato alle Conferenze di Yalta e Potsdam è durato appena qualche anno.

Sarebbe tuttavia antidialettico supporre che la “guerra fredda” ad esso seguita sia nata da un “ripensamento” dei politici americani o, peggio ancora, da una ripresa dei metodi della lotta di classe da parte dello stalinismo allora regnante. La “rottura dell’alleanza di guerra” tra l’America (e i suoi satelliti occidentali) e la Russia non avvenne certo perché, come pretendeva la stolida propaganda atlantica negli anni passati, il capitalismo americano intendesse porre riparo agli “errori” commessi da Roosevelt nei confronti dell’alleato russo. L’imperialismo americano aveva già fatto prima dei timidi passi di assaggio, impossessandosi delle Filippine (1898) e dando fuoco alla “guerra di Cuba” (1897-98). Ma è storicamente incontrovertibile che soltanto ad opera del rooseveltismo gli Stati Uniti si sono trasformati da potenza economica in super-Stato imperialistico, centro di una sfera di influenza politica e militare che abbraccia l’intero pianeta. Che cosa erano gli Stati Uniti prima dell’incidente di Pearl Harbour, che non certamente per dabbenaggine Roosevelt e i suoi collaboratori deliberatamente provocarono? Non soltanto la politica rooseveltiana mettendo a tacere l’isolazionismo permise agli Stati Uniti di assurgere al rango di prima potenza imperialistica dando alle forze armate americane il controllo dell’Europa occidentale e l’assoluta egemonia marittima, ma ne fondò le premesse indispensabili, riformando lo Stato americano. Quella struttura eminentemente totalitaria, a mala pena coperta dalla mascheratura democratico-parlamentare, che è oggi lo Stato americano, è opera, tutti lo sappiamo, delle... slittate a sinistra del New Deal.

C’è di più. La favola cretina secondo cui Roosevelt sarebbe rimasto vittima dei raggiri di Stalin va in mille pezzi non appena si tenga presente che, per ingraziarsi l’alleato americano, il governo di Stalin procedette alla soppressione della Internazionale Comunista. In verità, Roosevelt si dimostrò un mercante di straordinarie capacità se riuscì a comprare per pochi miliardi di dollari fiumi di sangue russo e, per sovraprezzo, la liquidazione di quello che ancora restava di un organismo che aveva fatto tremare le ossa della borghesia internazionale. Ciononostante, ci sono grandi firme del giornalismo che guadagnano con un articolo quanto guadagna un operaio in un mese di lavoro, scrivendo che la “guerra fredda” fu causata dagli “errori” di Roosevelt..!

Altrettanto falso è che la “guerra fredda” sia stata provocata da una ripresa rivoluzionaria del “comunismo” russo. È vero anzi il contrario. La “guerra fredda” ha favorito enormemente la degenerazione dei partiti comunisti legati a Mosca. Infatti, una volta entrati in conflitto con l’ex alleato americano, il governo di Mosca e il partito comunista russo si guardarono bene dall’impugnare le armi “superate” della lotta di classe. Imitati scimmiescamente dai partiti comunisti infeudati, essi si diedero anima e corpo alla politica, del tutto borghese, delle alleanze tra gli Stati. Obbiettivo di Stalin, fin quando visse, fu, non la rivolta della classe lavoratrice contro le borghesie americana ed europea, ma lo sgretolamento della coalizione politica e militare capeggiata dagli Stati Uniti, da ottenere mediante la seduzione delle borghesie nazionali. Non altro significato ebbe, e conserva tuttora, la politica dei partiti comunisti, che tende a staccare una parte della borghesia locale dalle alleanze militari e politiche imposte dall’imperialismo americano. Questo e non altro significano i programmi politici dei partiti comunisti che si fondano sui capisaldi della “ricerca del dialogo con le forze progressive”, della “apertura a sinistra”, e simili infamie opportunistiche.

A riprova di quanto sosteniamo stanno le sanguinose epurazioni che si abbatterono sulle “democrazie popolari” dopo il tradimento di Tito (1948), la rivolta di Berlino-Est (1953), l’insurrezione ungherese (1956). Tutte queste tragedie sociali non furono affatto causate dall’applicazione di una politica rivoluzionaria antiborghese da parte dei partiti comunisti legati a Mosca. Al contrario, furono il risultato necessario dell’inaudito sfruttamento del lavoro salariato giustificato con le esigenze di megalomani piani di produzione, o si alimentarono delle micidiali rivalità nazionalistiche, che soltanto la soppressione per via rivoluzionaria delle economie nazionali può eliminare.

Al tramonto della “guerra fredda” non v’è nel blocco russo-orientale più socialismo, o meno capitalismo, di prima. Né può dirsi certo arrestata la cancrena opportunistica che divora i partiti “comunisti”. Tutt’altro. Ad onta dell’assenza di una classe proprietaria dei mezzi di produzione, l’economia russa appalesa sempre più la sua natura capitalistica, cioè salariale e mercantile. D’altra parte, e non a caso, mai come oggi l’ideologia dei partiti comunisti, che apertamente inneggiano, sotto il pretesto della conservazione della pace, all’abbraccio delle classi, e apparsa più marcia. Ciononostante, la stampa comunista continua a ripetere su tutti i toni che all’origine della “guerra fredda” ci fu la decisione americana di impedire la “costruzione del socialismo” in Russia e nelle democrazie popolari. In realtà, a demolire le ultime vestigia, non già del socialismo, ma dello stesso capitalismo di Stato, ci stanno pensando i krusciovisti!

Procedendo per esclusione, scartando le interpretazioni tendenziose che delle origini della “guerra fredda” propongono i propagandisti affittati ai blocchi imperialistici, si perviene alla conclusione cui già avevamo accennato. Potevamo passare all’argomento che più ci preme, lo studio delle cause che stanno determinando la svolta della politica internazionale definita col termine di “distensione”, ma abbiamo preferito, anche a costo di ripetere concetti fondamentali, allargare alquanto il discorso. Accettare le tesi degli avversari, spiegare il perché della “guerra fredda” e della “distensione” con motivi interni ai blocchi in contrasto – pretesa “costruzione del socialismo” all’est e riforma antirooseveltiana all’Ovest – equivarrebbe, oltre che a subire passivamente una deformazione della realtà storica, ad alimentare una concezione pessimistica dell’imperialismo. Il mondo intero è sotto il tallone di ferro dell’imperialismo, sotto la minaccia della guerra. Chi lo negherebbe? Ma l’imperialismo non è onnipotente.

La seconda guerra mondiale non si è risolta, come dicevamo all’inizio, in una mera divisione del mondo, progettata e attuata dalle centrali imperialistiche. Il piano di divisione del mondo, foggiato a Yalta e Potsdam, doveva saltare in aria di lì a poco. Il magma sociale si rimetteva in moto. In contrasto con una Europa immobilizzata nelle maglie di ferro dell’occupazione militare, gli altri continenti si mettevano a ribollire. La stampa di lor signori può continuare a diffondere le più assurde teorie sulle origini della “guerra fredda”. Noi continueremo a sostenere che sono fatti come la caduta di Mukden nelle mani di Mao Tse-dun nell’ottobre 1948, come la cacciata della monarchia dall’Egitto, come la rivolta del Madagascar costata decine di migliaia di morti ai malgasci, come la rivolta dei “kukuiu” del Kenia, la sedizione dei Ciang-kai-sceh indonesiani, i movimenti indipendentisti di Marocco, di Tunisia, dell’Africa Nera, la rivolta di Algeria, la fine dell’epoca delle feroci dittature militari pro-americane nell’America Latina, insomma il generalizzato, incontenibile movimento di rivolta delle popolazioni più povere, più oppresse, più affamate del mondo, ciò che doveva far sprofondare l’assetto internazionale venuto fuori dagli accordi tra le massime potenze imperialistiche. Furono tali rivolgimenti, di cui non possiamo ancora calcolare tutta la portata, che determinarono nel mondo appena uscito dal conflitto la crisi generalizzata dell’imperialismo che va sotto il nome di “guerra fredda” di cui avvenimenti come il distacco della Iugoslavia titoista dal blocco orientale, o il blocco di Berlino, sono da considerare effetti, peraltro secondari, e non cause.

Di certo v’è che, nei dodici anni che ci separano dalla caduta di Mukden, il mondo ha subito un travaglio immenso. Sotto i nostri occhi, sono crollate costruzioni politiche che resistevano da secoli. Sono sorti al loro posto decine di Stati nuovi, alcuni piccoli e privi di prospettive; altri vastissimi e destinati a uno sviluppo inaudito. L’economia mondiale ne è risultata sconvolta. Gli ex Stati colonialisti hanno dovuto attraversare una crisi profonda, che tuttora dura. Le centrali imperialistiche hanno dovuto elaborare nuove strategie politiche, ordire nuove alleanze militari. Tutto ciò, in una società di classe e nel regime dello Stato nazionale, poteva accadere senza scosse? Non poteva. Si comprende, allora, il perché della cosiddetta guerra fredda.
 
 

Alle origini della “distensione”

Non certo a caso, il profilarsi della “distensione” viene a coincidere con l’esaurirsi, vorremmo dire, della fase eruttiva della rivoluzione anticoloniale. Naturalmente, il problema della liberazione dal colonialismo è tuttora aperto per non pochi paesi, primo tra tutti l’Algeria. Ma è chiaro che nulla potrà ormai arrestare la marcia in avanti dei “popoli di colore”. Nessuno dubita che tra non molto l’Africa sarà completamente “decolonizzata”, come l’Asia.

Ma, allo stesso modo che sarebbe semplicistico ridurre le cause della “guerra fredda” alla sola crisi provocata dalla rivoluzione anticoloniale – nessuno vorrà accusarci di ignorare i permanenti motivi di contrasto che sono alla base della economia capitalistica e dello Stato nazionale, così aspri e micidiali soprattutto nella vecchia Europa – sarebbe inadeguata e unilaterale la tesi che spiegasse la sopravvenuta “distensione” unicamente con la nuova fase della medesima rivoluzione anticoloniale.

Molteplici e di diverso ordine sono gli accadimenti che hanno generato la presente svolta nella politica mondiale. Diciamo subito che, usando il termine “svolta”, rifuggiamo da qualsiasi pregiudizio gradualistico. Quello che pensiamo della distensione, l’abbiamo riassunto nel titolo di questo articolo. La “distensione” è l’aspetto recente assunto dalla crisi capitalista. Essa non porta affatto una soluzione alla crisi del capitalismo, che è ineliminabile. I comunisti internazionalisti sanno bene che il capitalismo genera costantemente contraddizioni e cataclismi sociali e che questi non accettano terapie riformistiche. Soprattutto, la “distensione” non è l’alternativa alla guerra. Unica, insostituibile alternativa alla guerra sono la rivoluzione e la dittatura proletaria. Il capitalismo stesso è guerra, guerra delle classe dominante borghese contro le classi lavoratrici. La guerra degli eserciti non è che una forma della guerra sociale che la borghesia capitalistica conduce con tutti i mezzi per impossessarsi della forza-lavoro delle classi lavoratrici e tenerle schiave sotto il tallone dello sfruttamento. La stessa parola “pace” è in contrasto stridente con la realtà. Sotto il capitalismo, mai regna la pace. Un mondo in pace deve ancora venire: e sarà il mondo senza classi. La “distensione” è la forma nuova assunta dalla crisi capitalistica.

Non si può pretendere che si faccia qui un censimento completo delle cause che stanno determinando la distensione. Possiamo tuttavia esaminare quelle ci sembrano le fondamentali:
 1) Riassestamento dell’equilibrio mondiale in seguito alla formazione dei nuovi Stati afro-asiatici e ai rivolgimenti verificatisi nell’America Latina, fenomeni che hanno posto fine ad un periodo di profondo sconvolgimento politico e sociale.
 2) Esaurimento della estrema fase della degenerazione russa che, sotto il krusciovismo, ha bruciato tutte le tappe, per cui la Russia appare oggi, sotto l’aspetto economico sociale, politico e ideologico, del tutto “occidentalizzata”.
 3) Crisi generale dell’imperialismo americano.
 4) Aggravamento dell’anarchia capitalistica europea, che si accompagna alla minacciosa ripresa del nazionalismo e delle tradizionali rivalità egemoniche continentali, e determina, all’interno dello stesso blocco militare del Patto Atlantico, dei blocchi commerciali rivali quali la CEE e l’EFTA.
 5) Rivoluzione tecnica negli armamenti che ha posto fine alla invulnerabilità dall’esterno degli Stati Uniti, e impone di elaborare adeguate riforme per quanto riguarda la struttura delle industrie di guerra e delle stesse forze armate degli Stati.
 
 


[Il Programma Comunista, n. 3, 1960]

Nei due articoli precedenti abbiamo cercato di individuare, volendo renderci conto delle cause determinanti della svolta della cosiddetta distensione, i fattori obbiettivi della “guerra fredda”. Il nostro assunto è che la “guerra fredda” ha rappresentato, o meglio ha reso evidente, l’insopprimibile crisi dell’imperialismo capitalista, rimasta insoluta nonostante il massacro della seconda guerra mondiale. Ma noi sosteniamo che anche la “distensione” è un aspetto della crisi permanente del capitalismo, un nuovo modo di porsi delle ineliminabili contraddizioni della società borghese. La “guerra fredda” scaturì da un generalizzato sconvolgimento sociale e politico che, nell’immediato dopoguerra e negli anni seguenti, ebbe per teatro i paesi meno sviluppati e gli immensi imperi coloniali posseduti dalle potenze imperialistiche dell’Europa Occidentale. La rivoluzione afro-asiatica, cui si affiancarono i moti antimperialisti dell’America Latina, costrinse le potenze imperialistiche uscite vincenti dalla guerra – gli Stati Uniti e la Russia staliniana soprattutto – a rimettere in discussione i piani di divisione del mondo varati a Yalta e Potsdam nel 1945. I trattati firmati in quelle sedi avevano per oggetto un mondo che, almeno per quanto riguarda l’Asia, l’Africa e gran parte della stessa America, cominciò a cambiar radicalmente fin da quando gli eserciti russo e americano si incontrarono nel cuore della Germania hitleriana.
 

Ribattendo il chiodo

Il terremoto sociale e politico prodotto dalla rivoluzione anticoloniale – che sopprimeva all’interno dei paesi ex coloniali le strutture semi-feudali lasciate in piedi dal colonialismo, mentre alterava profondamente l’equilibrio internazionale creando numerosi Stati indipendenti – doveva essere per gli Stati Uniti e la Russia, alleati di guerra e depositari del nuovo ordine postbellico, fonte di gravissimo dissidio. Gli imperi coloniali erano oramai delle enormi e sterili appendici per le metropoli – la Gran Bretagna come l’Olanda, la Francia come il Belgio o il Portogallo – che la guerra aveva economicamente rovinate e ridotte ad una posizione di secondo e terzo ordine. Ma era difficile immaginare per la Russia di Stalin a quale grado di strapotenza produttiva, militare, e politica sarebbero assurti gli Stati Uniti, qualora fosse riuscito all’imperialismo americano, già rigurgitante di capitali in cerca di impiego, di saldare alla macchina produttiva metropolitana i vasti spazi vuoti che la rivoluzione anticoloniale andava aprendo all’industrializzazione? E come potevano gli imperialisti americani non presagire che l’espandersi dell’influenza economica e politica dell’alleato-rivale russo, a seguito della nascita dei nuovi regimi nazional-democratici in Asia e in Africa e dei sussulti anti-statunitensi nell’America Latina, avrebbe favorito la crescita della potenza russa?

Non dai “ripensamenti” dei politici americani desiderosi di porre rimedio agli “errori” di Roosevelt e non dal presunto “ritorno” di Stalin e del “comunismo moscovita” alla lotta rivoluzionaria di classe scaturì dunque la “guerra fredda”, ma dal turbamento prodotto nei rapporti russo-americani dalla dissoluzione degli imperi coloniali, che decretava la fine inappellabile della vecchia Europa colonialista, introduceva nella giungla internazionale nuovi Stati con origini e interessi diversi e spesso contrastanti e comportava una revisione profonda (e di qui le lotte interne nei blocchi, come il maccartismo in America e la repressione anti-titoista nelle “democrazie popolari”) della strategia politica degli opposti imperialismi.

Se ne deve dedurre che il mondo borghese, pervenuto alla “distensione”, è riuscito con ciò a superare una crisi profonda? È certo che la “guerra fredda” rappresentò una crisi profonda del capitalismo e, se non ebbe sbocchi rivoluzionari, ciò accadde perché mancò un vero partito internazionale comunista fondato sui principi rivoluzionari del marxismo. Ma la “distensione” mentre sana una crisi, ne apre una altra, più profonda e insanabile. È anzi più realistico affermare che la “distensione” si presenta come la incubatrice della futura crisi universale della società borghese, e questa riporrà alle masse sfruttate di tutto il mondo il dilemma: rivoluzione o terza guerra mondiale. Sì, non la “guerra fredda”, ma proprio la “distensione”, prepara la guerra mondiale.

Finché erano rivali, Stati Uniti e Russia lavoravano accanitamente per limitare l’uno lo sviluppo dell’altro. Da “coesistenti pacifici”, essi potranno, ammesso che riescano ad accordarsi a danno delle potenze minori, esaltare vieppiù la loro potenza economica e militare, crescere smisuratamente, dilatare sempre più le rispettive sfere di influenza, infittire di maglie sempre più strette la rete del commercio estero. Ma non occorre essere marxisti per sapere che la guerra tra gli Stati deriva dagli squilibri di potenza. La “competizione pacifica”, che dovrebbe assicurare la pace al mondo, favorirà al contrario solo le grandi potenze approfondendo il solco che le divide dalle piccole. Farà crescere ancor di più gli Stati Uniti, la Russia e le potenze lanciate nella rivoluzione industriale, come la Cina. Ma accrescerà le difficoltà delle potenze in declino; la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, il Giappone. La guerra fra Stati è permanentemente generata dallo sviluppo ineguale del capitalismo alla scala mondiale. Sotto le ipocrite formule umanitarie e pacifiste la “distensione” russo-americana tende proprio a sviluppare inegualmente le potenze capitalistiche.

Ecco perché è così importante studiare le cause della “distensione”. Nell’articolo precedente le abbiamo raggruppate in cinque gruppi; vediamo ora di parlarne in maniera meno schematica. Naturalmente non si pretenderà che esauriamo l’argomento. Discutere delle cause della distensione significa passare in rassegna tutta la politica mondiale, perché la “distensione” è un fatto di portata mondiale.
 

Si chiude la fase eruttiva del moto anticolonialista

1) Esaurimento della fase “eruttiva” della rivoluzione anticoloniale: ecco il gruppo di avvenimenti che abbiamo messo al primo posto del nostro elenco. Non occorre spendere molte parole affinché il lettore si convinca che tra il 1948, anno che la pubblicistica borghese pone come inizio della “guerra fredda”, e il 1959, corre la stessa differenza, per stare al paragone, che tra la fase di eruzione e di quiescenza di un vulcano. Nel nostro caso, il vulcano è rappresentato dalla rivoluzione anticoloniale scoppiata (a dire il vero sin dal 1945) in Asia e in Africa.

Al momento dell’annuncio da parte di Eisenhower della ripresa di contatti diretti con Mosca, inaugurata dai viaggi di Nixon in Russia (estate 1959) e di Krusciov in America, l’Asia aveva da tempo conclusa la grande battaglia per l’indipendenza, il colonialismo essendo rimasto abbarbicato solo a possessi isolati come Singapore, Hong-Kong, Goa e Formosa. L’alleanza russo-cinese, la rivale coalizione della Seato, il trattato Nippo-Americano, il neutralismo di Paesi come l’India, l’Indonesia, la Birmania, la Cambogia, Ceylon ecc. stavano e stanno tuttora a provare che un nuovo equilibrio di forze si era raggiunto in quel continente. I lettori ricordano attraverso quali lotte le potenze imperialistiche trovarono un equilibrio in Asia: guerra di Corea, guerra di Indocina, guerra partigiana di Malesia, guerra di Formosa, guerra civile di Indonesia.

Gravissimo problema rappresentava negli anni scorsi il Medio Oriente, regione del petrolio e soprattutto ponte di passaggio tra l’Africa e l’Asia. Con le note forniture di armi all’Egitto, la Russia si introduceva nella regione, dove il fallimento dell’aggressione franco-britannico-israeliana all’Egitto (1956) segnava la fine dell’influenza europea. Con l’occupazione militare del Libano e della Giordania (1958) gli Stati Uniti minacciavano di succedere indisturbati agli antichi padroni. Ma la rivoluzione nazional-democratica iraqena, che involontariamente aveva fornito all’imperialismo americano il pretesto per intervenire nel Medio Oriente, veniva a distruggere quel paziente lavoro della diplomazia anglo-americana che era stato il Patto di Bagdad. Tutti sanno che questa alleanza militare mirava a coalizzare gli Stati dell’Asia occidentale e sud-occidentale che confinano con l’URSS (Turchia, Iraq, Iran, Pakistan), allo scopo di tenere l’influenza russa fuori del Medio Oriente. Con la soppressione della monarchia hascemita dell’Iraq, tradizionalmente legata all’imperialismo britannico, e l’instaurazione della repubblica democratica, la coalizione antirussa veniva a sgretolarsi, visto che il nuovo governo di Bagdad si orientava subito verso Mosca. Tale svolta determinante aveva l’effetto di placare le acque di quel tempestoso mare politico: segno evidente che ciascuno dei rivali imperialistici sentiva di esser riuscito a controbilanciare l’influenza degli altri.

Analoghe considerazioni suggeriscono le condizioni dell’Africa al momento del lancio della “distensione”. Qui il conflitto russo-americano non ha assunto forme aperte e inequivocabili perché la presenza del colonialismo europeo ha impedito agli Stati Uniti di giocare a carte scoperte. L’imperialismo americano anela ad estendere il suo protettorato finanziario e politico sulle nazioni che lottano per scrollarsi di dosso la dominazione coloniale, ma deve badare nello stesso tempo a suturare le crepe che si producono nella compagine del Patto Atlantico, di cui gli Stati colonialisti europei sono membri importanti. Maggiore libertà di manovra gode la Russia, che in questi anni non si è lasciata sfuggire nessuna occasione favorevole, se oggi fornisce “aiuti concreti e disinteressati” sia all’Egitto per la costruzione della diga di Assuan, che al Sudan, all’Etiopia, alla Guinea, e ne ha offerto agli altri Stati africani indipendenti alla seconda sessione della commissione economica dell’ONU per l’Africa (gennaio 1960).

Di certo v’è che la rivoluzione nazional-democratica in Africa ha fatto passi da gigante. Esistono oggi undici Stati indipendenti: RAU-Egitto, Etiopia (con l’Eritrea), Ghana, Guinea, Liberia, Libia, Camerun, Marocco, Sudan, Tunisia, Unione Sudafricana. Entro quest’anno avranno l’indipendenza la Nigeria, la Somalia, il Congo Belga. Ricordando che tutti questi Stati e possedimenti in via di emancipazione radunano più della metà della popolazione africana (circa 136 milioni su 224.577.000), si comprende come la rivoluzione anticoloniale può dirsi vicina alla vittoria. Naturalmente, non si è chiuso affatto il capitolo delle convulsioni sociali con cui si manifesta la lotta contro il colonialismo, come lo dimostrano le ignobili gesta dell’oltranzismo razzista dei coloni bianchi in Algeria, nel Sud-Africa, nella Rhodesia, nel Kenia. Ma ciò che a noi preme di rilevare, per l’argomento specifico che stiamo trattando, è che anche per l’Africa, come per l’Asia, appartiene al passato l’epoca dei grandi sconvolgimenti politici che coincisero con la “guerra fredda”. Al vecchio equilibrio fondato sui capisaldi degli imperi coloniali si va sostituendo un nuovo equilibrio, fondato sugli Stati nazionali indipendenti.

Anche per l’America Latina, il periodo della “guerra fredda” è coinciso con una serie di rivolgimenti che hanno comportato per l’imperialismo americano seri rischi, e a volte un’effettiva diminuzione di influenza. Non sarebbe necessario ribadire che è falsa la tesi secondo cui la presunta “infiltrazione” russa avrebbe provocato la generalizzata rivolta nazional-democratica contro l’imperialismo americano, succeduto all’Inghilterra, alla Francia, al Belgio, alla Germania nel dominio finanziario sui popoli latino-americani. È vero, invece, che l’inaudito sfruttamento da parte dei monopoli americani ha prodotto negli anni scorsi i noti movimenti anti-americani che vanno dalla guerra del Guatemala del 1954 alla recente rivolta castrista a Cuba.

Naturalmente, l’imperialismo russo non si lasciò sfuggire nessuna occasione per intervenire negli affari delle repubbliche latino-americane. Il fatto che il comunismo legato a Mosca funzionasse non da fattore della rivoluzione proletaria, ma da collaboratore della borghesia “nazionale” locale sotto le parole d’ordine nel fronte antifascista, non poteva certo lasciar tranquilli gli Stati Uniti. Washington rimprovera a Mosca non già di capitanare la rivoluzione comunista mondiale, ma solo (anche se i politici della Casa Bianca parlano in altro modo) d’intralciare l’espansionismo del dollaro.

Certo è che, negli anni scorsi, l’imperialismo americano ha visto in pericolo le conquiste ottenute dalla fine del conflitto nell’America Latina. Ad una ad una, le dittature militari che assicuravano la continuità della dominazione del capitale statunitense hanno dovuto cedere il posto a regimi democratici, sostenuti da movimenti di chiara intonazione anti-americana. Spesso il trapasso è avvenuto violentemente, come per la cacciata dei luridi tiranni Jimenez dal Venezuela e Batista da Cuba.

* * *

Riassumendo, la fine della “guerra fredda” ha coinciso col riassetto dell’equilibrio mondiale profondamente sconvolto dai processi rivoluzionari che misero fine al colonialismo capitalista – la più oscena forma di colonialismo della storia – e sboccarono nella fondazione dei nuovi Stati indipendenti afro-asiatici. Altra causa di perturbamento dell’equilibrio mondiale – cioè del nudo e crudo rapporto tra le forze materiali delle potenze imperialistiche – furono nello stesso periodo le scosse telluriche che percorsero il mondo sociale e politico dell’America Latina. Ma quale influenza eserciteranno in avvenire queste aree geo-politiche, che oggi appaiono riassestate ma sono preda dell’ossessione industrializzatrice? Il mondo è già troppo angusto per i pirati della finanza internazionale. Che cosa accadrà quando altri giganti produttivi sorgeranno per l’accelerata industrializzazione delle aree ex-coloniali o semi-coloniali, oggi assurte al rango di Stati indipendenti? Si vedrà allora di che stoffa e la decantata “distensione”...

Nel prossimo articolo illustreremo gli altri aspetti delle “cause della distensione” ora in corso.
 
 


[Il Programma Comunista, n. 4, 1960]

2) Il secondo gruppo di avvenimenti che hanno dato origine alla “distensione”, comprende i cambiamenti verificatisi negli ultimi anni all’interno della Russia krusceviana e degli Stati che politicamente la affiancano.

All’inizio di questo articolo si è smantellata la ridicola teoria secondo cui l’accostamento della Russia all’Occidente si spiega col timor panico che i progressi della industrializzazione cinese susciterebbero nei dirigenti di Mosca. È l’inguaribile mentalità finalistica che produce siffatte idiozie. Bisogna essere ciechi per non capire che la politica delle potenze, piccole o grandi ed anche grandissime, obbedisce ad un ferreo determinismo che si beffa della “volontà” e delle intenzioni degli “uomini di Stato”. Certo, per effetto della industrializzazione a tappe forzate che il regime “comunista” cinese va conducendo, la Cina, tra qualche decennio, diventerà la prima potenza asiatica. Esistono tutte le condizioni affinché tale previsione si tramuti in realtà: l’immenso territorio, la sterminata popolazione, i giacimenti minerari e, quel che soprattutto conta, la ventata di spirito rivoluzionario che anima le moltitudini popolari. Un’altra condizione obbiettiva merita un cenno: le radicate tradizioni collettivistiche di un popolo antichissimo che la millenaria lotta contro i giganteschi rivolgimenti della natura (soprattutto, le inondazioni dei fiumi) ha abituato al lavoro di massa. Del resto, la Cina è sempre stata, nei secoli, la maggiore potenza asiatica. Se, dopo cent’anni di eclisse, essa giungerà sotto il regime “comunista” a riprendere il posto che il Celeste Impero occupava tra le potenze asiatiche e mondiali, di ciò potranno stupirsi soltanto gli sprovveduti.

Certo i dirigenti russi si figurano benissimo che in un avvenire non remoto avranno da fare i conti con la rinata potenza cinese. Ciò rientra nella dialettica politica degli Stati a base nazionale. Di che meravigliarsi? Forse che il blocco occidentale atlantico non e minato dalle insanabili contraddizioni nazionalistiche che oppongono gli Stati membri gli uni agli altri?

Previsione più realistica è che la “distensione” russo-americana potrà tradursi, per quanto riguarda l’estremo oriente, in una normalizzazione dei rapporti cino-americani. Non si dimentichi che la tendenza alla espansione in Cina è una “costante” della politica imperialistica americana. Anzi, la “questione cinese” condiziona tutta la politica americana nel Pacifico, e quindi rappresenta per gli Stati Uniti una questione di primaria importanza. C’è di più. L’intervento americano nella “questione cinese” segna, più che la guerra di Cuba e la conquista delle Filippine (1898), il vero atto di nascita della politica mondiale degli Stati Uniti. Tale significato racchiude, a parer nostro, la mediazione del presidente Teodoro Roosevelt nelle trattative di pace dell’autunno 1905 tra i governi giapponese e russo, a conclusione della fulminea guerra che vide l’Impero zarista soccombere sotto i colpi delle armate del Mikado. Il trattato di pace fu difatti sottoscritto a Portmouth (USA) il 5 settembre 1905 e ratificato a Washington il 25 novembre.

Ciò significa non tanto che gli Stati Uniti intervenivano nelle rivalità fra la Russia zarista e l’Inghilterra di allora, senza l’aiuto della quale la fortuna militare dei nipponici certamente avrebbe subito un grave colpo, quanto che il nascente imperialismo americano stava chiarendo a se stesso gli obbiettivi posti dal suo stesso sviluppo storico e che sarebbero stati raggiunti più tardi: l’egemonia nel Pacifico, la neutralizzazione della potenza nipponica, la colonizzazione della Cina. Tale tendenza prese corpo a seguito degli avvenimenti succeduti alla rivoluzione antimonarchica cinese e soprattutto all’epoca dell’annessione della Manciuria da parte dei giapponesi, che nel 1931 proclamarono la fondazione dello Stato-fantoccio del Man-ciu-kuo, di fatto possedimento giapponese. Certo che il conflitto cino-nipponico, scoppiato nel 1937, vide il pieno appoggio americano alle armi cinesi: gli Stati Uniti, benché formalmente in pace con Tokyo, rifornirono il governo di Ciang-kai-sceh di ogni sorta di aiuto, non escluse formazioni aeree guidate da “volontari”.

La vittoria militare sul Giappone nell’estate atomica del 1945 sembrò realizzare integralmente i piani egemonici americani nel Pacifico, ma subito dopo la fine del conflitto mondiale, la guerra civile cinese, che durava dal 1927, rimise tutta la posta in gioco. Il regime di Ciang-kai-sceh, che nelle intenzioni degli imperialisti USA doveva funzionare da veicolo della espansione americana, cominciò a vacillare. Il resto è storia di ieri. Quando, nel febbraio 1950, cadde Si-chang, ultima base del Kuomintang sul continente, e Ciang fu costretto a rifugiarsi a Formosa, già da almeno due anni il sogno americano della conquista della Cina poteva dirsi svanito.

Ciò non significa che l’imperialismo americano abbia rinunciato alla Cina. L’immenso spazio cinese resta pur sempre una preda agognata per l’imperialismo del dollaro, il rifornimento del mercato cinese un sogno dorato per i finanzieri “yankee”. Mostra di non avere capito le ragioni della guerra nippo-americana chi non riesce a comprendere che lo smantellamento della potenza militare nipponica e l’occupazione delle isole metropolitane dell’Impero del Sol Levante tendevano soprattutto alla conquista della Cina. Per il capitalismo americano la produzione nipponica rappresenta, date le sue capacità concorrenziali, un pericolo o almeno un grave disturbo. Tutt’altra cosa rappresenta per l’esportazione americana il mercato cinese, affamato di articoli industriali.

Orbene, se fino ad oggi gli Stati Uniti hanno dovuto rassegnarsi alla cessazione di ogni rapporto commerciale e finanziario con la Cina – il blocco commerciale americano contro la Cina ricorda la favola della la volpe e dell’uva, altro che storie sulla “moralità internazionale”! – ciò è accaduto proprio per effetto della “guerra fredda”. Adesso tutte le grandi firme del giornalismo occidentale mostrano di dimenticare che la più grave tensione verificatasi nella storia dei rapporti tra Stati Uniti e Cina venne a situarsi nel pieno della “guerra fredda”. Forse che la guerra di Corea, che vide i “volontari” cinesi ricacciare le armate americane fino alla testa di ponte di Fusan, non scoppiò nell’estate del 1950 e si trascinò fino all’estate del 1953? E non fu nell’agosto del 1953 che ebbe inizio l’attacco cinese alla isola di Quemoy tenuta, insieme con Formosa e le Pescadores, dai mercenari di Ciang-kai-scek? E non fu nel gennaio del 1955 che il governo americano proclamò la decisione di difendere con la forza queste isole?

È evidente allora che, seguendo alla “guerra fredda”, la “distensione” inevitabilmente avrà per effetto il riaccostamento – se prima diplomatico e poi commerciale o viceversa poco importa – tra Stati Uniti e Cina. E che significherà tutto ciò? Chiaro: la Cina finalmente uscirà dal parziale isolamento in cui oggi si trova. E allora non è difficile prevedere che tale cambiamento gioverà allo sviluppo in tutti i sensi della potenza cinese. Accadrà infatti che non più soltanto la Russia, ma anche gli Stati Uniti, siatene certi, saranno felici di... aiutare la Cina.

In altre parole, è proprio la “competizione economica” tra gli Stati Uniti e la Russia, sotto il cui segno si sta varando la “distensione”, che gioverà alla potenza cinese. Bisogna allora essere dei deficienti inguaribili per sostenere la tesi secondo la quale (vedi tutta la stampa occidentale atlantica) la Russia tende ad accostarsi all’Occidente per paura della Cina.

Ma se la paura dei russi verso la Cina è una favola, l’accostamento della Russia all’Occidente capitalistico è un innegabile dato di fatto. Bisogna spiegarlo. E per riuscirvi bisogna prendere in esame i rivolgimenti sociali che la politica riformistica di Krusciov ha provocato all’interno della Russia sovietica. Allora si comprenderà che, tra le cause del riaccostamento russo-americano, figura in primo piano il fenomeno della galoppante “occidentalizzazione” della società russa dell’era di Nikita Krusciov.

Noi non abbiamo bisogno di fornire le prove del nostro anti-stalinismo. Fin da quando la tirannia di Stalin era un fatto, e non ancora un ricordo come oggi, la sinistra comunista italiana combatté, incurante delle scomuniche laiche del Cremlino, le mostruose degenerazioni causate dallo stalinismo nella dottrina e nella politica dei partiti comunisti. Non possiamo certo riassumere in questa sede le nostre fondamentali stroncature critiche delle false teorie economiche e politiche messe in giro dallo stalinismo a copertura del tradimento perpetrato a danno della rivoluzione comunista e del proletariato mondiale. I lettori conoscono il “Dialogato con Stalin” e il “Dialogato coi morti” che rivestono nella lotta contro la degenerazione stalinista la stessa importanza dei testi di Lenin e di Trotzki nella lotta contro il tradimento opportunista di marca socialdemocratica. Per avere avuto il coraggio di sfidare apertamente lo stalinismo in tempi in cui avvenimenti come il XIX Congresso del P.C. russo, il congresso della “destalinizzazione”, erano ancora nel regno delle utopie, il nostro partito può oggi tranquillamente affermare che la degenerazione stalinista era una fase non ancora conclusiva della più che trentennale degenerazione russa, cui doveva succedere la fase kruscioviana, e ancora non si vede il fondo che sarà raggiunto quando apertamente i capi di Mosca romperanno con il marxismo. Ciò non significa che giudichiamo lo stalinismo preferibile al krusciovismo, ma solo che riteniamo il krusciovismo un fenomeno degenerante peggiore dello stalinismo.
 

La Russia, nascente potenza finanziaria

Alcuni scienziati sostengono la teoria della espansione dell’universo, secondo la quale i corpi celesti si allontanerebbero reciprocamente a velocità fantastiche. Tale teoria andrebbe meglio applicata allo studio della società russa. Sì, la società russa si espande! In tutti i sensi: industriale, militare, commerciale, tecnico, ecc. Ma si espande allontanandosi a velocità sempre crescente dal nucleo di comunismo, politico e sociale, fondato dalla Rivoluzione socialista dell’ottobre 1917. Si tratta innegabilmente di una espansione, ma che si effettua in senso retrogrado rispetto al comunismo dei gloriosi soviet di Pietroburgo e Kronstadt. La Russia di Krusciov è tutta tesa nello sforzo, non di distruggere il lurido mondo borghese che sopravvive alla sua putrefazione in Occidente, ma di imitarlo. E come potrebbe essere diversamente? Gareggiare possono solo coloro che tendono ad una medesima mèta, non coloro che perseguono scopi diversi. Come potrebbero “competere” il capitalismo che tende a conservare il mondo borghese e il comunismo che tende a distruggerlo? Se fatti come l’introduzione della vendita a rate, che sotto il capitalismo non è che schiavizzazione del consumatore e ribadimento del monopolio capitalista dei mezzi di produzione, vengono salutati nella Russia di Krusciov come “passi innanzi”, è chiaro che la Russia si espande tuttora entro il capitalismo.

Ma l’accostamento della Russia all’Occidente, l’“occidentalizzazione” massiccia della società russa, è denunciata non tanto dalle riforme apportate dal krusciovismo nella gestione dei mezzi di produzione (decentralizzazione della direzione delle aziende, abolizione delle stazioni statali di macchine e trattori e trasferimento del macchinario ai colcos, allargamento della sfera del commercio interno ed estero, ecc.), quanto dall’atteggiamento politico dei capi del Cremlino, dagli orientamenti della classe intellettuale, dalla evoluzione del costume. Da tutti i fatti della vita quotidiana della società russa che da qualche tempo la stampa “comunista” si compiace di riportare, si ricava la desolante certezza che la società sovietica, lungi dall’essere giunta alla fase di trapasso dal socialismo al comunismo – come pretende, senza convincere ormai più nessuno, la bolsa propaganda kruscioviana – si va largamente infettando di occidentalismo, anzi di americanismo. Se i piani quinquennali staliniani introdussero nell’arretrato corpo sociale russo l’inferno del lavoro salariale e della produzione di massa, lo spurio liberalismo economico dei kruscioviani ha completato il quadro inconfondibile della società capitalistica, traducendo sul piano sociale le conseguenze dell’industrialismo capitalistico instaurato e condotto avanti, con metodi tipicamente borghesi, dallo stalinismo.

La Russia è oggi socialmente più vicina al modello capitalistico-borghese che al momento della morte di Stalin. Ormai è diventata impresa vana il ricercare nella struttura sociale russa dei tratti originali non rintracciabili nel corpo delle vecchie società borghesi di Occidente. La liquidazione dell’opposizione molotoviana, che ereditava le residue tradizioni antioccidentali dello stalinismo, tolse di mezzo, nel 1957, ogni ostacolo alla politica krusciovista. Da allora il krusciovismo rappresenta nella storia contemporanea della Russia ciò che rappresenta nella vita familiare il rampollo che eredita le fortune accumulate ferocemente dal genitore. Lo stalinismo distrusse il bolscevismo che aveva compiuto la Rivoluzione d’Ottobre, e imborghesì la Russia coprendosi dietro le realizzazioni industriali dei piani quinquennali, i quali ebbero l’effetto sicuro di trasformare in operai salariati una gran parte della popolazione russa. Adoperava però ancora un fraseologia para-rivoluzionaria che ne mascherava la degenerazione teorica e politica. Né esitò a misurarsi, sia pure indirettamente, con gli Stati Uniti sul terreno militare.

Con la “destalinizzazione” il krusciovismo rigettò la parte meno degenere dello stalinismo – l’ostilità verso l’Occidente, che resta pur sempre il baluardo della conservazione e della controrivoluzione borghese. Ma occorre riconoscere che al krusciovismo non restava da seguire altra via, pena la dilapidazione della sostanza dell’eredità dello stalinismo. Conseguenza inevitabile dell’alto industrialismo, a base salariale e quindi capitalistica, alimentato dai piani quinquennali, collaudato dalla guerra mondiale e definitivamente trionfante nella vittoria militare ottenuta dalla Russia, era la conquista di un posto adeguato nel mercato mondiale. Non diversamente vive l’altro industrialismo capitalista. Anzi, caratteristica essenziale di ogni economia capitalistica è la tendenza a liberare il traffico commerciale dalle pastoie del localismo.

Ciò che rende la Russia kruscioviana socialmente più vicina al modello capitalistico-borghese, se confrontata alla Russia staliniana, è appunto la “coscienza mondiale” dei dirigenti russi. Se si studia la formazione delle potenze capitalistiche di occidente, si trova che la borghesia nazionale, ad un certo punto della sua evoluzione, scopre in se stessa una tale coscienza. Contemporaneamente, la classe borghese dominante mitiga i metodi drastici di sfruttamento della manodopera fin allora spietatamente impiegati (vedi l’Inghilterra dell’epoca del movimento cartista) e concede regimi liberal-democratici. Tale trapasso si situa nel periodo in cui la costruzione della macchina industriale è ormai compiuta, uno strato di “aristocrazia operaia” si è enucleato dalle masse lavoratrici, il ceto medio si è pecorescamente lasciato inquadrare dal grande capitale, la burocrazia statale ha avuto tutto il tempo di trasformarsi in una casta inamovibile. Orbene tutto ciò si è sostanzialmente ripetuto in Russia, sotto i nostri occhi. Non altra differenza è possibile cogliere storicamente tra lo stalinismo e il krusciovismo.

La politica della “distensione”, della “competizione pacifica”, rappresenta per il krusciovismo l’unica maniera possibile di mettere a frutto l’eredita stalinista. Perciò sbagliano profondamente coloro che tendono a scorgere una contraddizione fra krusciovismo e stalinismo. Per accorgersene, basta dare un’occhiata alle statistiche e constatare quali e quanti progressi ha compiuto, sotto Krusciov, la politica di investimenti esteri etichettati eufemisticamente come “aiuti”; come si è infittita la rete del commercio estero dell’URSS; come, in una parola, si è ingrandita la sfera di influenza economica di Mosca.

L’accostamento della Russia all’Occidente non è appalesata dal contatto fisico delle bandiere nazionali, che a festoni e ghirlande incorniciano i teatrali incontri tra i “vertici” russo e occidentali. Tutto ciò è coreografia. La vera sostanza dell’accostamento all’Occidente sta nell’inarrestabile maturare, all’interno della società russa, dei fenomeni tipici della dominazione del capitale finanziario, che è la base dell’imperialismo. Ciò che rende il krusciovismo più ripugnante che lo stalinismo è proprio il fatto che la politica internazionale dello Stato russo non si affida più soltanto alla forza bruta delle armi, ma al potere del Danaro. La Russia sta diventando sotto Krusciov un centro della finanza mondiale: ecco il fatto decisivo che accomuna il preteso “paese del socialismo” alle potenze borghesi. Bisogna avere uno stomaco assolutamente refrattario alla nausea, per digerire le pseudo-teorie che fanno di uno Stato, che tratto con altri Stati da creditore a debitore, nientemeno che il centro motore della rivoluzione anticapitalistica!

Ma è proprio tale attitudine affaristica dello Stato russo che induce i grandi pirati del capitalismo internazionale a trattare con esso, ad onta dell’orripilante etichetta di “comunismo”. A Washington, Krusciov non si è incontrato con avversari, ma con colleghi; nel caso peggiore, con concorrenti. Lo stesso toccherà a Eisenhower, allorché visiterà la Russia.

Facciamo il punto. Se fosse dipeso dalla volontà dei russi, la “guerra fredda” non sarebbe mai scoppiata. Non fu Mosca, ma la rivoluzione anticoloniale, che sconvolse il mondo subito dopo la seconda guerra mondiale. La “distensione” coincide oggi con la fase di assestamento dei paesi sorti dalla decomposizione del colonialismo, e di ristabilimento dell’equilibrio mondiale. Essa d’altra parte risponde alle esigenze di espansione dell’influenza russa nel mondo e al bisogno di normalità internazionale dei nuovi Stati afro-asiatici, per i quali la tensione internazionale comporta gravi rischi (come già si vide all’epoca della fallita spedizione franco-anglo-israeliana contro l’Egitto), mentre ostacola la realizzazione dei piani di industrializzazione. Bisogna adesso illustrare gli altri potenti fattori obbiettivi che sono all’origine della “distensione”: la crisi generale dell’imperialismo americano, le lacerazioni in seno all’alleanza atlantica, la rivoluzione tecnica apportata dalla introduzione delle tele-armi.
 
 


[Il Programma Comunista, n. 5, 1960]

3) Crisi generale dell’imperialismo americano: con tali termini abbiamo indicato il terzo gruppo di avvenimenti (dopo la fine dell’esplosione anticolonialista e all’inizio del grande avvicinamento politico e sociale dell’URSS agli USA) che occorre analizzare per scoprire le cause della “guerra fredda” e, di conseguenza, della “distensione”, che ad essa è seguita.

Per rendersi conto dell’imperialismo americano, come di ogni fenomeno storico, occorre ripercorrerne all’indietro le tappe, e risalire alle sue origini. Naturalmente non si tratta di un lavoro di mera cronologia. Al contrario, è necessario un vaglio critico del materiale costituito dagli avvenimenti par sceverare i caratteri comuni, che la storia dell’imperialismo capitalista americano ha con quella degli altri imperialismi mondiali, dai suoi caratteri originali ed esclusivi. Anticipando le conclusioni, si può affermare che il connotato fondamentale dell’imperialismo americano è una estrema instabilità, una condizione di crisi permanente e di lotta disperata contro i pericoli mortali insiti nelle convulsioni mondiali che esso stesso fomenta.

L’essenza dell’imperialismo americano è la colonizzazione finanziaria. Nella più generale accezione il colonialismo è l’assoggettamento di una struttura economico-sociale di livello inferiore da parte di una potenza politica basata su una struttura economico-sociale più evoluta. Il colonialismo capitalista, che ebbe inizio all’epoca delle scoperte geografiche, aveva in comune col colonialismo classico (fenicio, greco, romano) l’occupazione materiale del territorio da sottoporre a sfruttamento. Avvenne difatti che interi continenti furono assoggettati alla forma capitalistica di produzione, e il trapianto di questa sulle vecchie strutture locali, che in non pochi casi erano rimaste ferme al comunismo primitivo, si effettuò coi metodi di estrema crudeltà che contraddistinsero i “conquistadores”. In altre parole, la colonizzazione capitalistica per poter operare le sue gigantesche razzie di manodopera dovette procedere all’occupazione dei territori di oltremare. Non per altre ragioni, masse di uomini, che per l’imprenditore capitalista rappresentavano esclusivamente dei serbatoi di forza-lavoro da vuotare fino all’ultima goccia, furono gettate nella morsa del colonialismo.

Lo svolgimento storico mostra che l’imperialismo americano non batté le vie tradizionali del colonialismo. Naturalmente, ciò non prova che ai capitalisti americani ripugnassero i metodi seguiti dai colleghi europei o giapponesi. Anzi, venne un periodo, alla fine del secolo scorso, che vide la bandiera della repubblica del dollaro piantarsi su territori d’oltremare conquistati con le armi, come dimostra la guerra contro la Spagna, che fruttò agli Stati Uniti il possesso delle Filippine. Che la borghesia americana abbia ereditato dalla rivoluzione antinglese della fine del XVIII secolo un’avversione morale per ogni forma di colonialismo, è pura leggenda ideologica, alla quale non credono neppure i giornalisti atlantici che quotidianamente ne cianciano. La verità è che proprio ad opera della borghesia americana, ipocrita e bigotta quanto altre mai, la colonizzazione capitalistica raggiunse la sua forma genuina, cioè borghese al cento per cento.

A conti fatti, il vecchio colonialismo, che altre volte abbiamo definito il colonialismo “storico”, veniva a costare troppo. Impiantare un regime coloniale in territori di oltremare significò fino alla prima guerra mondiale – seguita di poco all’ultima grande impresa del vecchio colonialismo, la conquista francese del Marocco (1912) – rizzare sul posto una macchina statale di coercizione che obbligasse gli indigeni ad abbandonare le vecchie forme di produzione locali e a lasciarsi schiavizzare nella galera del lavoro salariato. Insomma, lo scopo esclusivamente capitalistico della cattura di masse enormi di uomini da trasformare in schiavi salariati era perseguito con mezzi che la colonizzazione capitalistica condivideva con quella di altre epoche storiche: occupazione del territorio, immigrazione in esso di un’aliquota della popolazione metropolitana, costruzione di un apparato burocratico locale.

Questo tipo di colonialismo capitalista si perpetuò a lungo mediante ogni sorta di prepotenze e scelleratezze. Basti ricordare la tratta dei negri, che costò all’Africa, sia per le stragi operate dai negrieri che per le conseguenze economiche, ben 200 milioni di morti, come ha ricordato a Roma in un convegno di intellettuali africani il poeta senegalese Leopoldo Senghor, leader della Federazione del Mali. Ma esso conteneva ancora, forse appunto perché mitigata da elementi non esclusivi del capitalismo, una certa carica di umanità. Alla fine, i coloni bianchi che sciamavano come cavallette dietro le armate conquistatrici o si installavano nel possedimento dopo averne scacciato gli indigeni, si esponevano, se non altro, ai disagi connessi al cambiamento di clima. Se agli indigeni, esemplari di razze “inferiori”, toccava pagarsi col sangue i benefici della “civilizzazione”, a lorsignori si chiedeva almeno il sacrificio del sudore. Ma tale tipo di colonialismo cominciò nei decenni a cavallo del secolo a non collimare più con le tendenze della nuova fase storica capitalista, cioè l’imperialismo. L’avanzata irresistibile del capitale finanziario rendeva superati i vecchi schemi del colonialismo “storico”. Cominciava a delinearsi una nuova forma di dominazione capitalistica: l’assoggettamento delle economie più deboli da parte delle potenze finanziarie per mezzo dell’indebitamento.

La prima guerra imperialistica 1914-18 fu il banco di prova delle due tendenze che si opponevano nel seno del capitalismo internazionale. Gli imperi coloniali parvero uscire rafforzati dalla prima carneficina mondiale. I rottami dell’Impero Ottomano – territorio ora appartenente alla Siria, all’Iraq, alla Palestina, all’Arabia – andarono ad ingrossare, sotto forma di “mandati”, il già gigantesco bottino coloniale delle potenze dell’Intesa. Ma un fatto di enorme importanza emerse dalla catastrofe bellica: i possessori di colonie risultarono tutti fortemente indebitati verso gli USA. Che era accaduto? I colonizzatori erano stati colonizzati! La potenza finanziaria americana, l’unica del mondo che si dichiarasse anticolonialista, aveva iniziato la caccia grossa procedendo innanzitutto a ridurre a proprie colonie finanziarie i più avanzati Stati capitalistici d’Europa!

Altro che anticolonialismo americano! Altro che eredità della rivoluzione liberale americana! Non la “coscienza morale” della borghesia americana, ma il determinismo storico, che aveva costretto le potenze dell’Intesa a farsi clienti di guerra della produzione statunitense, consentiva agli imperialisti del dollaro di ripudiare le vecchie forme di dominazione economica fino allora adoperate dalle potenze colonialiste europee. L’impiego di simili metodi non aveva permesso alla borghesia americana di andare oltre l’annessione delle Filippine: le porte di accesso all’America Latina e all’Asia restavano pur sempre sbarrate, ferocemente custodite dai pirati rivali. Poco meno di 10 anni prima dello scoppio della guerra mondiale, l’America di Teodoro Roosevelt non era costretta a fare da mero intermediario nel conflitto scoppiato tra il Giappone (sostenuto dalla Inghilterra) e la Russia per il possesso delle ferrovie mancesi e di Port Arthur? Ma, nel 1918, gli Stati Uniti erano i creditori delle maggiori potenze del mondo.

Che significava ciò? Tutta un’epoca crollava, quella che aveva visto la dominazione capitalistica affidarsi ai sistemi del colonialismo storico, della divisione del mondo in enormi imperi. Sorgeva la nuova forma di dominazione, la dominazione finanziaria, che scavalcava le frontiere, soggiogando le economie più deboli non più col peso dell’occupazione militare, ma con l’invisibile nodo scorsoio dell’indebitamento. La incetta di lavoratori da gettare nel meccanismo dello sfruttamento, che i vecchi colonialisti perseguivano nei paesi coloniali con l’ausilio del negriero e dell’aguzzino, si poteva fare adesso negli stessi paesi civili indebitando i governi locali, costringendoli a farsi intermediari delle banche del super-Stato imperialista che prestava i capitali e ne esigeva gli interessi.

Accadeva proprio questo: paesi progrediti come la Germania erano ridotti a colonie finanziarie cui si permetteva di produrre e vivere a patto di lasciarsi taglieggiare dall’usura d’oltrefrontiera.

Tale forma di dominazione, che è un vero super-colonialismo, toccò proprio alla bacchettona America dei Teodoro Roosevelt e dei Wilson d’introdurla nella storia già colma di infamie del capitalismo. Toccò a quegli “anticolonialisti” congeniti il glorioso compito di mondare di ogni elemento spurio il colonialismo capitalistico, di epurarlo al cento per cento, e applicarne i metodi nuovi, non più soltanto ai paesi arretrati, ma a tutti gli Stati del mondo. In tal modo il capitale finanziario vedeva aprirsi davanti a sé uno sterminato territorio di caccia, il rapido realizzarsi di accumulazioni di profitti che gli antiquati sistemi del colonialismo storico non consentivano. Era il trionfo della nuova fase storica del capitalismo. Ma gli antichi imperi a base coloniale erano dei fattori di conservazione di primo ordine, erano dei formidabili baluardi della controrivoluzione. Perciò, il sorgere del primato imperialistico degli Stati Uniti coincise con l’aprirsi della epoca delle grandi convulsioni rivoluzionarie, di cui la Rivoluzione Socialista Russa diede nel 1917 il segnale.
 

Epopea usuraia del dollaro

Al Congresso dell’Internazionale Comunista, nell’estate del 1920, Lenin traccia un quadro della situazione cui è bene riferirsi, in quanto ne emerge nitidamente il fenomeno dello esplodere, grazie alla guerra mondiale, dell’imperialismo americano. A Lenin, mentre gli avvenimenti erano ancora allo stato di incandescenza, già appare chiaro ciò che soltanto oggi comincia ad entrare nei cervelli borghesi: la fine del primato imperialistico dell’Inghilterra a favore degli Stati Uniti, la retrocessione dell’Europa borghese, proprietaria imprenditoriale e commerciale, di fronte all’America banchiera e finanziaria. Lenin enumera gli Stati che, al lume della critica marxista, appaiono i veri vincitori del primo conflitto imperialistico e al primo posto colloca, non l’Inghilterra che nel 1914 era la potenza egemone, ma gli Stati Uniti, i nuovi arrivati nella giungla imperialista. E al secondo posto il Giappone, il grande profittatore delle guerre provocate in Asia dall’imperialismo europeo.

La chiave del mistero di questa trasformazione sta nel fatto che, come doveva ripetersi durante la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti erano divenuti l’“arsenale delle democrazie”. Ma essi non si limitarono a fabbricare le armi del massacro e a venderle ai belligeranti. Oltre che da fabbrica d’armi, la libera repubblica stellata funzionò da cambusa degli eserciti in guerra. L’Europa aveva fame di armi con cui alimentare la carneficina, e di viveri per sostentare gli eserciti. Ma milioni di uomini erano stati strappati alle fabbriche e ai campi e gettati nelle trincee, sicché le forze del “fronte interno” non bastavano a portare la produzione all’altezza dei bisogni impellenti degli Stati Maggiori. Così l’Europa divenne cliente degli Stati Uniti, collocò colossali ordinazioni sul mercato americano e chiese di ottenere la vendita a credito a chi, fino a poco tempo addietro, era stato suo debitore. Infatti, fino al 1914 gli Stati Uniti erano indebitati presso vari paesi europei, più di tutti verso la Gran Bretagna.

Così, mentre la guerra svenava le nazioni europee, l’economia americana faceva un balzo gigantesco. Non solo l’industria, di cui i nuovi clienti europei chiedevano famelicamente prodotti, ma la stessa agricoltura vedeva arrivare il tempo della cuccagna. Gli impianti industriali subivano una profonda trasformazione sia nel campo tecnico che in quello della gestione, mentre le industrie europee segnavano il passo. In agricoltura, eguali grandi progressi: vengono incrementate le colture industriali; grandi estensioni di terra incolta vengono dissodate e messe a coltura; fiumi di prodotti industriali e di derrate si riversano dalle rive atlantiche degli Stati Uniti in Europa, dove la grande fornace della guerra inghiotte le ricchezze acquistate, ma non pagate. Il saldo dei debiti si rimanda alla fine delle ostilità. In tal modo, mentre l’economia europea languisce, la macchina produttiva americana si slancia freneticamente innanzi. La corsa procede ininterrotta fino al tragico 1929, quando gli USA cadono nel baratro della crisi, trascinandosi seco l’Europa e il resto del mondo.

Ma, subito dopo la guerra, chi oserebbe prevedere la crisi? Gli Stati Uniti appaiono il baluardo invincibile del capitalismo, rigurgitante di ricchezze, corteggiato e blandito da tutti i governi del mondo che, pur di ingraziarsi le grandi banche che ormai vantano crediti presso tutti, mostrano di inchinarsi alle fantasie pacifiste di Wilson. Ma in quali condizioni si trova il resto del mondo?

Dalle parole di Lenin emerge nettissima la piramide sociale quale era costituita nel primo dopoguerra, dal miliardo e 750 milioni di uomini che formavano allora la popolazione mondiale. Gli Stati Uniti con 100 milioni di abitanti, il Giappone con 50 milioni e l’Inghilterra – «che, dopo questi due paesi, ha guadagnato più di tutti dalla guerra» – con 50 milioni, e gli Stati neutrali arricchitisi col macello, formano una popolazione di 250 milioni di uomini. Naturalmente, questa massa umana non si può considerare indifferenziata, essendo divisa in classi sociali. Tuttavia, essa forma il campo dei veri profittatori sul massacro.

La base della piramide, la moltitudine che barcolla sotto il peso dell’oppressione sociale, è rappresentata da un miliardo e 250 milioni di uomini che vivono nelle colonie o nei paesi in “via di spartizione”, come la Persia, la Turchia, la Cina. Appartengono ad essi anche le popolazioni dei paesi vinti o ridotti a colonie. Restano 250 milioni di uomini che vivono nei paesi rimasti nella posizione precedente la guerra ma caduti sotto l’influenza economica e militare americana. In totale 250 milioni nel campo dei vincitori, un miliardo e 500 milioni nel campo dei vinti, degli oppressi, dei soggetti a regime coloniale.

Ciò che colpisce più di ogni altra cosa e denuncia la svolta radicale compiuta dal capitalismo è il fatto del tutto inedito che la guerra imperialistica, e per essa la dominazione del capitale finanziario, riduce allo stato di colonia non solo paesi semicivili, ma perfino le più progredite nazioni del mondo. «La guerra – dice Lenin  – ha rigettato di colpo circa 250 milioni di uomini in una situazione che equivale a quella di una colonia. Essa vi ha rigettato la Russia, la quale conta 130 milioni di abitanti, l’Austria-Ungheria, la Germania, la Bulgaria, che hanno non meno di 120 milioni di abitanti. Duecentocinquanta milioni di uomini appartenenti in parte a paesi come la Germania, che sono tra i più civili, i più progrediti, i più colti, e che, dal punto di vista tecnico, sono all’altezza del progresso moderno. La guerra, per mezzo del Trattato di Versailles, ha imposto a questi popoli progrediti delle condizioni che li hanno precipitati in una situazione di soggezione coloniale, di miseria, di fame, di rovina, di mancanza di diritti, poiché il trattato li ha incatenati per numerose generazioni e li ha ridotti a vivere in condizioni nelle quali non era mai vissuto nessun popolo civile».

Ecco il vero volto del super-colonialismo capitalista, sorto dalla prima guerra imperialista e impersonato dagli Stati Uniti: la soggezione coloniale estesa ai popoli civili; i popoli colonizzatori trasformati in colonizzati non meno che gli abitanti delle colonie. E, al vertice della sanguinosa piramide, tre super-Stati imperialistici: Stati Uniti, Giappone, Inghilterra. Ma nella stessa triade piratesca, al di sopra di tutte le potenze del mondo e della stessa Inghilterra, o del Giappone, si aderge la potenza finanziaria degli Stati Uniti, il mostro plutocratico che, sfruttando la carneficina, ha legato al suo carro i maggiori Stati del mondo. Essi sono incatenati per numerose generazioni, avverte Lenin, e mai profezia si dimostrò più esatta. Lenin non ebbe bisogno di assistere allo svolgersi degli avvenimenti, per capire che la pace americana, la pace degli usurai, imposta col Trattato di Versailles, avrebbe gravato sulle spalle delle generazioni future, provocando tremende catastrofi. Conosciamo la truce catena di infamie iniziatasi con quell’autentico terremoto sociale che provocò la crisi economica del 1929-30; l’avvento del nazismo in Germania, la guerra di Etiopia, la guerra di Spagna, la guerra cino-giapponese, le aggressioni di Hitler all’Austria, alla Cecoslovacchia, alla Polonia, e l’ultima, la seconda carneficina mondiale.

Il super-colonialismo imperialistico produceva il suo complemento dialettico: il super-nazionalismo, la patologia politica del fascismo e del nazismo che non rifuggivano dall’impiegare nel cuore della progredita Europa metodi una volta adoperati dai negrieri nelle colonie, quali la tratta, la deportazione forzata, l’eccidio in massa dei prigionieri.

Ma proseguiamo. Conviene fermarci sulla crisi economica 1929-31 che ebbe per epicentro gli Stati Uniti, ma travolse quasi tutti gli Stati del mondo. La crisi scoppiò per mutamenti intervenuti, a seguito della ricostruzione economica europea, nelle relazioni finanziarie e commerciali tra vecchio e Nuovo Mondo. Studiando le cause e le conseguenze di quel grande sconvolgimento internazionale, può darsi che riesca più facile analizzare le cause del fenomeno politico in atto: la “distensione” fra Stati Uniti e Russia.
 

La crisi economica mondiale

Alla fine della prima guerra imperialistica, tutti i maggiori Stati sono indebitati: «solo gli Stati Uniti vengono a trovarsi in una situazione assolutamente indipendente». La stessa Inghilterra, che vanta ingenti crediti presso la Francia l’Italia la Russia, è debitrice nei confronti degli Stati Uniti per la cifra astronomica di 21 miliardi di lire-oro. Nei confronti della Francia essi sono creditori, insieme con la Gran Bretagna, di 26 miliardi e mezzo; nei confronti dell’Italia, insieme con Inghilterra e Francia, di 20 miliardi e mezzo. Se si considera che tutte queste potenze, così indebitate verso gli Stati Uniti, erano i vertici d’immensi imperi coloniali e controllavano, per mezzo delle loro organizzazioni bancarie, la gran parte del mondo abitato, ci si accorge come gli USA all’indomani della prima guerra imperialista facessero già passi decisivi sulla strada dell’egemonia mondiale, in seguito conquistata mediante la seconda carneficina.

Un’altra considerazione si impone. Solo nel secondo dopoguerra, ci è stato dato di assistere al crollo del vecchio colonialismo. Ma, è chiaro, la sua condanna era stata scritta nei fatti all’epoca della prima guerra mondiale, al momento in cui le banche statunitensi videro le maggiori potenze colonialiste della vecchia Europa accorrere ai loro sportelli. Le rivoluzioni non avvengono mai prima che il vecchio edificio sociale da abbattere sia imputridito per le sue contraddizioni interne: in tale senso, i grandi sommovimenti che portarono alla cacciata dei colonialisti dall’Asia sono da considerarsi avvenimenti di portata rivoluzionaria. Volendo seguire un classico ragionamento di Lenin, esistevano le condizioni rivoluzionarie per l’abbattimento del colonialismo: da una parte, la coscienza delle masse sfruttate di non poter continuare a vivere come in passato e la loro ferma volontà di mutar condizione; dall’altra, la coscienza degli sfruttatori di non poter continuare a governare, come in passato.

Ma è altrettanto chiaro che la disgregazione degli imperi coloniali vedeva coincidere la spinta eversiva delle masse, oppresse da un giogo intollerabile, con le finalità storiche dell’imperialismo americano cui si affiancava, in posizione di rivale, quello russo. Il saper ciò ci ha impedito di cadere nell’orrore opportunista di scambiare per qualcosa di diverso dalla rivoluzione demo-nazionale, o addirittura per socialismo, il contenuto e le finalità delle rivoluzioni anticolonialiste

Per comprendere appieno le cause della crisi economica mondiale e le sue conseguenze, bisogna soffermarsi sulla particolare situazione in cui il Trattato di Versailles aveva gettato la Germania. I vincitori avevano imposto ai vinti di pagare le cosiddette “riparazioni di guerra”, cioè di risarcire i vincitori dei danni “patiti” in una guerra la cui responsabilità si decise, da parte dei Wilson, dei Lloyd George, dei Clemenceau, degli Orlando fosse attribuita esclusivamente alla Germania e alleati. Ma lo stesso disposto del trattato poneva la Germania nell’impossibilità di rimettere in sesto la propria macchina produttiva sconquassata dalla guerra e saccheggiata dai vincitori.

Allora intervenne, come deus ex machina, il genio finanziario dei banchieri americani, che partorì l’idea, compatibile unicamente con la follia usuraia borghese, di permettere alla Germania di pagare le riparazioni di guerra, vale a dire un enorme debito, obbligandola ad accettare un prestito destinato a rimettere in marcia la produzione nazionale. Nulla di più squisitamente borghese! Tu mi devi rimborsare un prestito e non guadagni abbastanza per pagarmi? Niente paura: io ti anticipo una somma supplementare che ti servirà a sfruttare un maggior numero di operai e quindi ti permetterà di rimborsarmi il prestito antico e quello nuovo, oltre agli interessi su entrambi. In fondo, lo strapotente banchiere si comporta, dall’alto dei suo mucchio di miliardi e attorniato dagli scienziati dell’economia borghese, all’identico modo dello strozzino da quartiere cui ci ha abituati la letteratura mondiale.

L’11 aprile 1924 la Commissione per le Riparazioni fa proprio il Piano elaborato dal generale nordamericano Charles P. Dawes, uomo di fiducia della finanza americana e abile finanziere egli stesso. La Germania, che avrebbe ricevuto un prestito di 800 milioni di marchi-oro per la ricostruzione economica del paese, si obbligava a versare per il primo anno un miliardo di marchi; entro quattro anni la rata sarebbe salita a due miliardi e mezzo. Responsabile dei pagamenti era considerata la Reichsbank. Ma in che modo quest’ultima avrebbe reperito i fondi necessari?

Il lancio del Piano Dawes provocò un vero ciclone in tutto lo schieramento politico tedesco. Le proteste più violente e le minacce più atroci provennero dalla fungaia di partiti, movimenti e associazioni dell’estrema destra, tra cui il partito nazional-socialista di Hitler, notoriamente finanziati dagli agrari, dagli industriali, dai banchieri, e sostenuti dai mai dissolti quadri dell’ex esercito imperiale. Ciò indurrebbe a pensare che il colpo vibrato dalla finanza anglo-americana (giacché inglesi e soprattutto americani erano i banchieri che offrivano il prestito) fosse diretto alla borghesia tedesca: tutt’altro. Lupo non mangia lupo. La furiosa campagna xenofoba e revanchista della estrema destra era pura demagogia. In realtà, erano le masse lavoratrici tedesche che il sig. Dawes destinava a svenarsi perché la Reichsbank potesse far fronte agli impegni. Infatti, i fondi necessari a pagare le rate si stabilì che fossero realizzati mediante l’esazione di imposte sui trasporti, sui tabacchi, sull’alcool, sulla birra, sullo zucchero. Inoltre i creditori stranieri assumevano il controllo delle ferrovie che venivano sottratte allo Stato e organizzate in azienda privata; eguale sorte subivano le dogane, e la stessa Reichsbank. E se un finanziere americano era stato l’ideatore del Piano, la carica di ispettore generale per la sua esecuzione venne affidata ad un altro finanziere americano, Parker Gilbert.
 
 


[Il Programma Comunista, n. 6, 1960]

Nell’articolo precedente, a illustrazione di uno degli aspetti del corso storico che ha portato alla fine della “guerra fredda” – la crisi interna dell’imperialismo americano – si è brevemente rifatta la storia dell’egemonia USA sul mondo durante e subito dopo la prima guerra imperialistica.

Parole profetiche di Lenin! I finanzieri americani, che ipocritamente professavano la religione dell’isolazionismo e rifiutavano l’idea di Wilson, secondo cui gli USA avrebbero dovuto assumere la direzione della Lega delle Nazioni, riuscivano non solo a investire magnificamente i capitali accumulati, speculando sul macello: ottenevano altresì di ridurre la Germania a una semicolonia. Il Piano Dawes riduceva drasticamente la sovranità dello Stato e metteva nelle mani degli uomini di Wall Street la direzione economica del paese. Che l’affare riuscì lo prova il fatto che la Germania, essendo riuscita a restaurare la macchina produttiva, poté versare i giganteschi tributi fino allo scoppio della crisi del 1929 e riuscì anche a pagare le riparazioni. Vera colonia della Borsa di New York, essa divenne ben presto il paradiso della finanza internazionale. Nei 1928, era indebitata per 25 miliardi di debiti esteri!

Il Piano Young, che prese il nome da un altro finanziere americano, fu varato poco prima che scoppiasse la crisi a Wall Street, nella primavera del 1929. Esso sostituiva il Piano Dawes, e i suoi obbiettivi furono: la fissazione del debito complessivo dovuto dalla Germania per le riparazioni rimasto fino allora indeterminato e la rimozione dei controlli stranieri sull’economia tedesca. L’intera somma veniva ripartita in 52 annualità, con una media di 2050 milioni di marchi l’anno! In quanto a ipocrisia, il Piano Young era un progresso di fronte al Piano Dawes: i controllori stranieri abbandonarono la Germania, le ferrovie e la Reichsbank tornarono nelle mani dello Stato, l’Intesa si impegnò a evacuare la Renania, il che avvenne nel 1930. Parve che la Germania tornasse ad essere padrona di sé stessa. In realtà, più schiava che mai, essa era obbligata a versare le rate annuali previste dal Piano, fino al 1988. Né avrebbe potuto rifiutarsi di sottostare alla spoliazione, giacché oramai l’economia tedesca respirava nella atmosfera dei prestiti esteri, cioè anglosassoni, e più americani che inglesi.

Infatti, allorché i finanzieri americani, colpiti dalla crisi, richiamarono a precipizio i capitali investiti all’estero, e la Germania non ricevette più denaro estero, una tremenda catastrofe economica si abbatté sul paese. Le industrie furono colte dalla paralisi. Moltitudini di disoccupati furono gettati sulle strade: 3 milioni e mezzo nel 1929-30, ben 6 milioni nel 1931. L’uragano devastatore, con epicentro nella metropoli della finanza mondiale, raggiunse fulmineamente gli Stati europei e il contraccolpo fu incomparabilmente più micidiale nei paesi che, come la Germania, erano stati ridotti al livello di una colonia.

Ma quali circostanze avevano provocata la crisi negli Stati Uniti? Le stesse che, negli anni della guerra e del dopoguerra, avevano favorito il crescere elefantiaco della produzione americana, e cioè gli stretti legami finanziari e commerciali stabilitisi tra l’Europa e l’America. Ma questa volta la situazione si rivolge contro l’America.

La storia della crisi del 1929-31 ha sapore tragico e comico nello stesso tempo, come del resto tutte le follie del mercantilismo capitalistico. All’indomani della guerra, il capitalismo americano non si era arrestato nella sua corsa: in crescente aumento erano la produzione industriale, la produzione agricola, i profitti, gli investimenti, le vendite. Il paese rigurgitava di capitali che si offrivano in prestito all’interno e, come abbiamo visto, all’estero. Nel 1928, la bilancia commerciale registrava un attivo straordinario: le esportazioni superavano le importazioni per un valore di 800 milioni di dollari. Nel 1929, la produzione dell’acciaio aveva toccato la quota dei 50 milioni di tonnellate annue. Per le strade dell’Unione scorrazzavano 5 milioni di automobili! I prestiti all’estero raggiunsero l’astronomica cifra di 1 miliardo e 126 milioni di dollari. Dollari 1928!

Ebbene codesta massa enorme di danaro provoca la crisi. Mentre la tregenda delle vendite a rate, delle aperture di credito, della speculazione mantiene alti i costi di produzione provocando fenomeni inflazionistici, all’estero maturano ben più gravi accadimenti.

Fertilizzate dalla pioggia torrenziale di dollari, le sconquassate economie europee si riprendono. La produzione raggiunge i livelli d’anteguerra e li supera, si riannodano i fili spezzati del commercio estero, ma non si dimentica che occorre pagare gli interessi sui prestiti americani. Di qui, la tendenza a ridurre le importazioni dall’America, affinché non cresca vieppiù il montante del debito. Anzi, le importazioni americane finirebbero col danneggiare l’agricoltura e l’industria dei paesi europei, che pure i prestiti americani avevano rimesso in piedi; quindi contro di esse si lavora ad erigere gli sbarramenti dei controlli statali sul commercio estero, del protezionismo. La grande fiumana delle esportazioni americane comincia a rifluire. Primi ad essere respinti... al mittente sono i prodotti agricoli, le cui eccedenze cominciano, ad ammucchiarsi nei magazzini. Dalle campagne, tradizionalmente la zona di minore resistenza dell’economia capitalistica, la crisi si estende alle industrie. Chiudono le fabbriche di automobili, le acciaierie, i cantieri edili, le officine.

La catastrofe esplode allorché il morbo attacca il cuore dell’economia americana: la finanza, l’impero plutocratico delle grandi banche private, gli enti di credito pubblici, la Borsa. Quando queste potenze colte dal panico decidono di tirare i remi in barca, esigendo il rimborso, all’interno del paese e all’estero, la crisi si allarga al mondo intero. Ma chi è in grado di restituire i capitali da imprese languenti? Abbiamo già visto il caso della Germania. Ma nessun paese dell’Europa e si può dire del mondo, sfugge al terremoto: l’Inghilterra, la Francia, l’Italia. La stessa Russia Sovietica che, secondo la falsa teoria staliniana dovrebbe costruire il socialismo nel chiuso delle sue frontiere, subisce gravissime perdite nel commercio estero ed è costretta a ripristinare le tessere annonarie!...

Tragiche appaiono subito le conseguenze politiche della crisi economica mondiale. Due avvenimenti di estrema importanza vengono a situarsi, certo non a caso, nel periodo della grande crisi, anzi possiamo dire che vengono determinati direttamente da essa. Primo, la pratica annessione della Manciuria da parte del Giappone che, rompendo gli indugi, procede a distaccare l’agognata regione della Cina camuffando a mala pena l’atto di sopraffazione con la proclamazione di un fantomatico Stato indipendente, il Manciuko. Ciò accade il 18 settembre 1932, ma già nello scorcio dell’estate dell’anno prima il Governo di Tokyo ha fatto occupare dalle sue armate gran parte della Manciuria. Fin dalla cessazione della prima guerra mondiale, il Giappone aveva bramato i territori cinesi, reclamando lo Shantung, ex possedimento tedesco. Se il capitalismo nipponico si decide ora al gran passo, pur sapendo di tirarsi addosso l’ostilità delle potenze anglo-sassone, ciò accade perché la crisi economica mondiale ha preso alla gola il commercio estero giapponese. Nel generale rifugiarsi dei governi dentro le trincee del protezionismo, le merci nipponiche vedono restringersi i mercati di sbocco ad opera dell’Inghilterra, dei “dominions” e degli stessi Stati Uniti. Si aggiunga il fatto che il Governo cinese ha proceduto da poco alla costruzione di linee ferroviarie “parallele” alla Ferrovia del Sud-Manciuria, gestita dai giapponesi, e a partire dal 1929-30 le nuove ferrovie cinesi praticano una forte concorrenza a danno delle linee giapponesi e del porto di Dairen.

L’annessione della Manciuria porta ad un’aspra controversia tra Lega delle Nazioni e Tokyo, che il 24 febbraio 1933 si ritira clamorosamente dal consesso ginevrino. Viceversa, gli Stati Uniti, che non fanno parte della Lega avendo rifiutato sin dall’epoca della sua fondazione di aderirvi, si gettano nella mischia diplomatica che ferve sul Lemano, mostrando uno zelo insospettato nella difesa a spada tratta dei diritti della Lega nei confronti del Giappone. E ciò è assai importante. Sorge infatti in questo periodo quell’antagonismo nippo-americano, che avrà un’influenza enorme sul corso degli avvenimenti e si concluderà col bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki nella fatale estate del 1945.

L’altro avvenimento di importanza mondiale è l’ascesa al potere del regime nazista in Germania. La storia di comodo degli apologeti di accatto, che pretesero di spiegare le cause della seconda guerra mondiale con lo “spirito demoniaco” della nazione tedesca, non riuscirà mai a cancellare il fatto che il nazismo salì al potere sfruttando due condizioni obbiettive: la disperazione delle masse che la paralisi delle industrie già alimentate dal dollaro gettava nella miseria e nella fame; il tradimento dello stalinismo internazionale che, di fronte al montare della marea fascista, rifiutò di chiamare le masse operaie all’azione rivoluzionaria, imprigionandole nella camicia di forza della competizione elettorale.

Se è vero, che le imprese aggressive del nazi-fascismo in Europa e del militarismo imperialistico nipponico in Asia accesero la miccia della seconda conflagrazione mondiale, è altrettanto vero che l’uno e l’altro rappresentarono, dal punto di vista della conservazione del capitalismo, le uniche soluzioni all’insanabile dissesto provocato dalla crisi economica d’Oltre Atlantico.
 

La storia si ripete

Orbene, quanto accadde ieri ci aiuta a comprendere quanto accade oggi. Il secondo dopoguerra ha riprodotto in gran parte la situazione del primo. Ancora una volta gli Stati Uniti hanno guadagnato dalla guerra, si sono arricchiti sul massacro mentre gli altri belligeranti risultano fortemente impoveriti, bisognosi dei prestiti americani. Richiamare in vita le ombre del passato, come il piano Dawes o il piano Young, non è più possibile, anzi è superfluo. Infatti, le armate americane, contrariamente a quanto accaduto alla fine della prima guerra mondiale, presidiano praticamente non solo il territorio dei vinti, ma l’intera Europa occidentale. In altre parole, a garanzia dei colossali prestiti che si accingono a praticare all’Europa, i banchieri americani tengono in pugno le sedi stesse dei debitori.

La nuova mastodontica operazione finanziaria che lega le economie nazionali europee alla centrale finanziaria americana prende il nome ancora una volta di un generale statunitense, George Marshall. Il 16 aprile 1948 entra in funzione l’ERP (European Recovery Program), la denominazione ufficiale del Piano Marshall, con la firma dei sedici Stati partecipi delle convenzioni che istituivano l’OECE (Organizzazione Europea di Cooperazione Economica) a sua volta dipendente dall’ECA (Economic Cooperation Administration), l’organismo che amministra gli “aiuti” elargiti dalle banche americane alla sorella Europa. I paesi che “beneficiano” della nuova pioggia di dollari sono: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Svezia, Svizzera e Turchia. Nel settembre dello stesso anno l’ERP accoglie sotto l’ombrello protettore il Territorio Libero di Trieste e, boccone più di ogni altro agognato, la Germania Occidentale, che il 23 maggio dell’anno successivo si sarebbe costituita, per volere degli Alleati, in Repubblica Federale.

A dimostrazione dell’intima amicizia fra dollari e cannoni, così bene simboleggiata dalle persone dei generali-finanzieri statunitensi, i clienti dell’ERP, tranne alcuni vantaggiosamente sostituiti dal Canada, firmarono il 4 aprile 1949 la NATO (North Atlantic Treaty Organization). Vi partecipavano: Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Portogallo, Stati Uniti. Il patto andò in vigore nello stesso anno, e nel settembre del 1951, vi aderirono la Grecia e la Turchia; più tardi, la stessa Germania Federale.

Come interpretare questi avvenimenti? Le conseguenze del ciclone finanziario del 1929 rafforzarono negli Stati Uniti il cosiddetto isolazionismo. Esso non era altro che il riflesso della grande paura della borghesia americana al crollo del “boom” postbellico, e la consapevolezza dei terribili pericoli provenienti dalla conseguenze della espansione finanziaria americana nel mondo. Assoggettare le economie straniere, mediante l’indebitamento, rappresentava un affare inebriante, che realizzava masse di profitti con una rapidità sconosciuta prima. Ma non privava l’economia americana della indipendenza necessaria a ripararla dalle convulsioni del mercato mondiale?

In realtà, l’isolazionismo americano non andò mai oltre il limbo delle ideologie politiche. Abbiamo visto come, in piena crisi, gli Stati Uniti si impegnavano a fondo nella politica asiatica, levandosi contro le annessioni giapponesi in Manciuria, mentre le Potenze europee, Inghilterra compresa, reagivano a suon di parole nelle riunioni della Società delle Nazioni. Orbene, la diretta partecipazione degli Stati Uniti ad una serie di coalizioni intercontinentali (dopo la NATO, fu la volta dell’ANZUS e della SEATO), nel seno delle quali il governo di Washington assumeva funzioni di guida (fatto assolutamente nuovo, se si tiene presente che gli Stati Uniti rifiutarono nel primo dopoguerra di aderire alla Società delle Nazioni), si può considerare come la componente di due forze, che sono alla origine della crisi permanente dell’imperialismo americano: la incoercibile spinta del capitale finanziario all’investimento estero e la tendenza della borghesia a salvaguardare la propria esistenza di classe e quella del capitalismo internazionale rafforzando il baluardo americano.

Il Piano Marshall e il Patto Atlantico miravano ad allargare la sfera di influenza del capitale finanziario americano creando le premesse di massicci investimenti, e nello stesso tempo a impedire che tra gli Stati clienti sorgessero movimenti centrifughi. Ora, alla luce dei fatti, appare chiaro che il tentativo americano di portare avanti la ricostruzione economica dell’Europa, in maniera da rendere l’economia dei paesi “assistiti” complementare di quella americana, è certamente fallito. Le irrorazioni di dollari americani indubbiamente hanno permesso all’Inghilterra, alla Francia, ai paesi del Benelux, all’Italia e soprattutto alla Germania e al Giappone di risalire dal baratro economico postbellico.

Naturalmente, ciò non è accaduto senza vantaggio dei finanziatori americani. Ma, proprio come alla vigilia della crisi del ’29, la ricostruzione economica europea ha provocato, non già il rinsaldamento delle relazioni euro-americane, ma una situazione di crisi. E ancora una volta l’economia americana ha subito duri contraccolpi, sia pure non paragonabili alla catastrofe del ’29. Basti ricordare la “recessione” che colpì l’industria americana alla vigilia della guerra di Corea. Attualmente, la situazione è ben più grave, visto che i paesi che nel 1948 diedero vita all’OECE e nelle intenzioni dei capitalisti statunitensi, avrebbero dovuto costituire il complemento economico dell’America, sono divisi in opposti campi commerciali, e la stessa concorrenza tedesca e giapponese riprende a disturbare il commercio statunitense. Quanto alla situazione economica USA, questo giornale ne ha fornito ripetutamente il quadro. Non a caso, dunque, la “distensione” coincide con un periodo di serie difficoltà economiche americane. Non siamo certo alla crisi, e nemmeno alla “recessione”, ma indubbiamente l’orizzonte è oscurato.

A questo punto viene spontaneo un raffronto storico. Non è la prima volta, infatti, che un accostamento russo-americano si attua in una situazione di disagio per l’imperialismo yankee. Gli Stati Uniti, come è noto, rifiutarono sempre di riconoscere “de jure” la Russia Sovietica, e rimasero l’unica potenza, tra i maggiori Stati capitalistici del mondo, che non tenesse relazioni diplomatiche con Mosca fino all’autunno del 1933. Fu un caso che ciò accadesse mentre, per effetto della crisi economica, la reazione ultranazionalistica esplodeva in Europa, la Germania sfuggiva dalle mani dei banchieri americani e tutti gli Stati europei, i clienti delle banche americane, si affrettavano a rinchiudersi nelle casematte del protezionismo antiamericano e mentre scoppiava la controversia nippo-americano nel Pacifico? Certamente no. È un fatto che l’amicizia russo-americana, che poi si sarebbe tramutata in alleanza di guerra, nasceva nel momento in cui si delineava in Europa e in Asia, ad opera delle borghesie più provate dalla guerra, la “crociata antiplutocratica”, cioè il movimento di opposizione alla egemonia finanziaria anglo-sassone.

Anche oggi, sotto il segno della “distensione”, il riavvicinamento russo-americano avviene mentre gli Stati dell’Europa Occidentale, gli ex beneficiati del Piano Marshall, i membri attuali della NATO, danno chiari segni di insofferenza dell’egemonia americana. Della sedizione nazionalistica antiamericana discuteremo nel prossimo articolo. Qui basterà accennare a fatti come l’ascesa al potere di De Gaulle in Francia, la scissione commerciale che oppone l’Inghilterra alla Francia-Germania e costringe gli Stati Uniti ad una pericolosa politica di compromesso, la rinascita dello spirito imperialistico tedesco (è di oggi la rivelazione dei piani dello Stato Maggiore tedesco tendenti a procurare alla Germania basi militari in Spagna, in aperta concorrenza con gli Stati Uniti cui a suo tempo il governo di Madrid concesse appunto tale privilegio!).

Naturalmente, non occorre dire che dalla “distensione” Russia e America traggono un vantaggio reciproco giacché, se l’imperialismo americano fosse costretto dal rinascente nazionalismo europeo a rinunciare ai suoi interessi sul Vecchio Continente, verrebbero meno le giustificazioni alla presenza delle armate russe al di là dell’Elba.

Concludendo l’argomento odierno, si può sostenere che a promuovere potentemente la svolta politica per cui America e Russia depongono le armi della “guerra fredda” sia, oltre all’evoluzione verificatesi nelle ex colonie, oggi presentantisi come un mercato capace di assorbire capitali eccedenti dei paesi industrializzati, e oltre ai cambiamenti in senso sempre più occidentalizzante imposti al governo di Mosca dalla prorompente mercantilizzazione della economia russa, il riprodursi della classica situazione di crisi dell’imperialismo americano.