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Il proletariato turco rifiuti l’inganno antifascista

["il Partito Comunista" n. 97 – settembre 1982]

Dopo il colpo di stato del settembre 1980, dopo lo “scandalo” di Pannella che inneggiava al senso di responsabilità dei militari turchi, che finalmente ristabilivano l’ordine nello Stato, provocando l’ipocrita sdegno dei partiti “dell’arco costituzionale”, dopo qualche denuncia della dittatura dei militari per tortura, è calato il silenzio sulla Turchia. Le notizie sulle manifestazioni e sugli scioperi sono sempre state scarse. Non si può dire nemmeno che la stampa di regime, nazionale ed europea, abbia dato il via a una qualche campagna per un ritorno alla democrazia nello Stato turco. Il motivo è forse semplice: come noi, anche la borghesia europea ha capito che i militari turchi non sono golpisti per passione, ma per necessità.

Non sappiamo se il ritorno alla democrazia sia nei piani della borghesia turca e nelle illusioni degli operai turchi emigrati e dei proletari rimasti in patria. Noi speriamo che non lo sia e che i proletari turchi riconoscano nei militari, come nei passati governi di Demirel e di Ecevit, lo stesso nemico di classe, la borghesia, il clero e i proprietari fondiari.

I proletari turchi, dopo una serie di colpi di Stato e altrettanti ritorni alla democrazia, hanno forse capito che non sta qui il nocciolo della questione. È necessario che non siano fuorviati dalla lotta di classe e portati a sprecare le loro energie per il ritorno alla democrazia o, ancora peggio, per la spacciata attuazione della rivoluzione borghese in questo paese: la rivoluzione borghese è già stata attuata e la democrazia non è altrimenti diversa dalla dittatura borghese, se non per la confusione in cui viene gettato il proletariato, mentre nel regime fascista il nemico di classe si manifesta a viso aperto: tortura, rappresaglie, repressione violenta dei più elementari bisogni del proletariato.

La cadenza men che decennale dei colpi di Stato è un segno della debolezza, soprattutto economica, della borghesia turca che non è riuscita a creare una potente industria nazionale, sia per le obbiettive arretrate condizioni di partenza sia per la spietata concorrenza dei paesi industrializzati occidentali che non hanno permesso a nessuno dei paesi sottosviluppati nella loro orbita di colmare le distanze.

I militari hanno rappresentato negli ultimi sessanta anni di storia della Turchia la parte più moderna del nemico di classe del proletariato: ancora oggi clero, proprietari fondiari e borghesia riconoscono nella dittatura militare l’ultimo e più efficiente mezzo per tenere a freno le masse proletarie, costrette a scendere in piazza dall’aggravarsi della crisi economica.

Sia il governo del Partito Repubblicano del Popolo, guidato da Ecevit e legato ai militari e alla borghesia, sia il governo del Partito della Giustizia, guidato da Demirel e legato al clero, ai proprietari fondiari e ai contadini, sono stati incapaci di svalutare la moneta turca nella misura richiesta dal Fondo Monetario Internazionale per ottenere ulteriori prestiti: il primo ha dichiarato “disumane” le condizioni imposte dal FMI, il secondo ha scelto una via di mezzo svalutando nel gennaio 1980 del 33%. In Turchia il fenomeno dell’inflazione è stato sempre presente e consistente.

Il compito di soddisfare alle richieste del capitalismo internazionale è toccato quindi di nuovo ai militari.

Una breve cronologia degli avvenimenti degli ultimi sessanta anni evidenzia come il compito dei militari è stato borghesemente rivoluzionario nel primo dopoguerra, mentre nel secondo è stato sempre quello di reprimere con la violenza le masse proletarie, quando i partiti politici borghesi si dimostravano incapaci di controllare la situazione.

Fu proprio un gruppo di militari, guidati da Mustapha Kemal, che riuscì a mantenere, dopo il disfacimento dell’Impero Ottomano, uno Stato nazionale ai proprietari fondiari e alla esigua borghesia turca, sconfiggendo militarmente gli eserciti invasori di Grecia, Italia, Francia e Inghilterra.

I militari turchi imposero a quel mondo musulmano una serie di riforme che da un punto di vista legislativo portarono la Turchia all’avanguardia: abolizione dell’Islam quale religione ufficiale, soppressione degli ordini religiosi, abolizione della poligamia, obbligo del matrimonio civile, voto alle donne, abolizione del copricapo tradizionale, introduzione dell’alfabeto latino. Come si vede tutta una serie di bocconi amari per il clero musulmano che, per esempio, la chiesa cattolica non ha mai dovuto inghiottire in Italia, né quella islamica in Iran.

I militari turchi, anche se ufficialmente affermavano che la nazione doveva cercare una “via propria”, senza “copiare” nessuno (ovviamente), emanarono nuovi codici civili, penali e commerciali elaborati su modelli svizzeri, italiani e tedeschi. Tutte queste riforme, dirompenti la tradizione islamica, non potevano essere messe in atto in presenza del “gioco democratico”. La dittatura militare kemalista venne attuata da un unico partito, il Repubblicano del Popolo. Dopo il 1933 fu effettuata la nazionalizzazione delle ferrovie, la riforma delle strutture bancarie e varato il primo piano quadriennale. Come si vede, da un punto di vista istituzionale, la Turchia era già nel primo dopoguerra uno Stato borghese e “occidentale”.

Il governo democratico fu una conseguenza della scelta di campo fatta dalla borghesia turca durante la Seconda Guerra mondiale. Dopo un sapiente ed ardito equilibrio tra Germania ed Alleati, fra i quali ripartiva equamente la sua produzione di cromo, il governo turco ruppe gli indugi ed il 23 febbraio 1945 (!) dichiarò guerra a Germania e Giappone. Il governo turco fu uno dei promotori dell’accordo che istituì l’ONU, aderì nel 1951 alla Nato e nel 1963 presentò domanda di adesione alla CEE. Con l’arrivo dei finanziamenti del piano Marshall arrivò anche l’ordine di far “sbocciare” la democrazia.

Nacque così il Partito Democratico, un partito molto più arretrato di quello al governo, che si appoggia al clero, sempre tenuto al margine della vita politica dai militari, e sui contadini. Nel 1946 il partito sostenuto dai militari, il Partito Repubblicano del Popolo, vinse le elezioni: sotto la pressione americana promosse delle riforme elettorali e permise la libertà di stampa.

L’unica accusa di lesa democrazia che gli opportunisti nostrani potrebbero muovere ai militari turchi è l’aver dichiarato fuori legge qualsiasi partito di “ispirazione marxista”. In ciò i militari turchi non sono arretrati ma alla pari con le democrazie occidentali. La nascita dei partiti comunisti come quello italiano, francese, spagnolo e portoghese fu il frutto di sanguinose lotte del proletariato e nel primo dopoguerra e non solo furono messi fuori legge ma nelle persone dei proletari che vi profondevano le loro energie vennero soffocati nel sangue. Rinati addomesticati dalla controrivoluzione stalinista non costituivano più un pericolo per il capitalismo: con il loro peso elettorale sono asserviti al capitalismo nazionale e con esso all’imperialismo internazionale. Il permettere al nostro partito di esistere legalmente è un segno della debolezza nostra e del proletariato: non appena il nostro partito avrà un significativo seguito tra il proletariato sarà messo fuori legge.

Quindi, quanto stiamo scrivendo sui militari turchi non vuole essere un omaggio al loro spirito democratico ma una dimostrazione per i proletari turchi che l’indicazione di lotta per la democrazia, o peggio ancora per la rivoluzione borghese, può solo venire da partiti opportunisti.

La mancata presenza nel dopoguerra di un partito comunista, e nemmeno opportunista, in Turchia non è segno della mancanza di “spirito democratico”, ma semplicemente della inesistenza del proletariato come classe. L’industrializzazione della Turchia, iniziata nel primo dopoguerra con grande lentezza, è proseguita saltuariamente nel secondo, ma il vero esercito proletario turco si è formato nelle industrie della Germania, della Svizzera e dell’Austria. Solo nel secondo dopoguerra, e molto tardi, nasce un partito che si definisce partito operaio turco.

Proseguendo nella cronologia elettorale, nel 1950, dopo la vittoria del Partito Repubblicano del Popolo, vinse il Partito Democratico con netto margine. Come si vede agli inizi fu una democrazia in perfetto “stile britannico” e tale si mantenne nel 1954 e nel 1957, quando il Partito Democratico al governo usò tutta una serie di frodi legali per mantenere il potere: alle elezioni del ’57 fu numericamente sconfitto ma riuscì ad ottenere ugualmente la maggioranza alle Camere.

In questo periodo, mentre nei paesi occidentali era ancora in corso la ricostruzione e la moneta era stabile, in Turchia l’inflazione era già di tipo sudamericano, le merci e i beni di consumo di origine straniera erano sempre più rari, anche nei settori di prima necessità, con i beni di lusso riservati solo ai padroni. Un calcolato prestito degli Usa e l’apertura di crediti da parte della RFT concessero tuttavia un po’ di respiro al governo turco, che naturalmente non si differenziava per corruzione e clientelismi dalle migliori democrazie occidentali.

Tuttavia la crisi economica già fin da allora non aveva sbocchi: nel 1960 ci furono le prime violente reazioni dei proletari. I militari risposero con un colpo di Stato, impiccarono l’ex primo ministro ed altri due. Certamente a questo passo furono costretti dalla gravità della situazione economica e dalla necessità di dare al proletariato alcuni colpevoli per ingannare i lavoratori con questo gesto demagogico.

I militari disciolsero il Partito Democratico, al quale vennero addossate tutte le colpe del dissesto economico, ma non ne impedirono la rinascita sotto il nome, non a caso resistenziale, di Partito della Giustizia, meglio identificato come partito degli impiccati. Dopo aver elaborato una nuova Costituzione, approvata con referendum il 9 luglio 1961, indissero nuove elezioni ma i risultati non furono loro favorevoli: il Partito Repubblicano del Popolo ottenne infatti solo 173 seggi su 450.

Nacque perciò il primo governo di coalizione che riuscì a sopravvivere a due tentativi di colpo di Stato. Alle elezioni del 1965 vinse con netto margine il Partito della Giustizia, che si appoggiava sempre di più al clero, ripristinando la totale libertà di insegnamento religioso. Nel 1969 il partito al governo ottenne ancora la maggioranza assoluta mentre per la prima volta il Partito Operaio guadagnò 6 seggi.

Nei due anni successivi il proletariato urbano, dopo il boom dell’edilizia, fu duramente colpito dalla disoccupazione e iniziò una serie di scioperi e manifestazioni alle quali la borghesia rispose, manco a dirlo, con un nuovo colpo di Stato. Il 12 marzo 1971 i militari emisero un comunicato: «Le forze armate turche sono decise a prendere il potere se un nuovo governo forte non verrà formato senza indugi per porre fine alla anarchia che minaccia lo Stato». Dopo due settimane il Partito Repubblicano del popolo propose un governo di unità nazionale, comprendente un folto stuolo di “civili”. Ristabilimento dell’ordine pubblico, riforme agrarie, fiscali e scolastiche i temi all’ordine del giorno.

Anche questo governo non riuscì a risolvere nulla e si dimise dopo otto mesi: il potere fu di nuovo in mano ai militari che nel 1973 indissero nuove elezioni. Nessuno dei partiti maggiori riuscì ad ottenere la maggioranza e nacquero perciò una serie di governi di coalizione con i partiti minori.

Repressione violenta di manifestazioni e scioperi, torture, assassini e galera diventarono una costante della vita politica turca. Solo la forte emigrazione in Germania, Svizzera e Austria permise ai vari governi di andare avanti, pareggiando con le rimesse degli emigranti la bilancio dei pagamenti.

La chiusura dell’emigrazione e il restringersi del mercato hanno probabilmente messo la parola fine a qualsiasi tipo di gioco democratico in Turchia. Sono infatti passati quasi due anni dall’ultimo colpo di Stato e i militari non sono riusciti a mettere in piedi nessun governo “civile” a cui passare la mano.

Come si vede da questo sintetico quadro la democrazia turca è stata senz’altro frutto della scelta di campo dell’allora partito unico, il Partito Repubblicano del Popolo, ma ha conosciuto tutte le forme in cui si è espressa nelle “perfette” democrazie occidentali. Il partito erede della dittatura ha ceduto il potere al partito d’opposizione; vi sono stati governi di unità nazionali e governi di coalizione.

I militari hanno tentato tutte le vie per soddisfare alle richieste, ormai non più pressanti, provenienti dalle “democrazie” americana e occidentale. Ciò che non ha permesso alla “democrazia” turca di svilupparsi in questi trent’anni come nei paesi occidentali è stata la difficile situazione economica del Paese.

Anche questo fatto non è frutto di incapacità ma di condizioni obbiettive. La borghesia turca non ha mai avuto i mezzi per concorrere con gli affermati e modernizzati apparati industriali dell’Europa. Non ha mai avuto i mezzi finanziari per corrompere il proletariato, creare una piccola borghesia intellettuale ed una aristocrazia operaia, con il seguito naturale di partiti opportunisti e apparati sindacali di regime. Ha potuto tirare avanti con i prestiti americani ed europei che le sono stati concessi per via della posizione strategica che la Turchia ha al confine con la Russia e per via degli Stretti, e anche per l’assoluta dipendenza alle direttive americane: adesione alla Nato, riconoscimento dello Stato di Israele, mantenimento della pregiudiziale “antimarxista” nella Costituzione.

L’industrializzazione turca è di tipo leggero: assemblaggio di autoveicoli, industria tessile, calzaturiera e pellami, produzione di materiale ferroviario; ricca di minerali manca di petrolio. L’agricoltura, alla quale è dedito ancora il 60% della popolazione attiva, è per la maggior parte di tipo mediterraneo con l’aggiunta di tabacco e cotone. Sia i prodotti agricoli sia quelli industriali sono soggetti ai contingentamenti da parte dei paesi della CEE; la difficoltà a trovare nuovi paesi importatori e ad adattarsi alle nuove “esigenze del mercato” è un fenomeno che affligge certamente anche la Turchia.

Questa nazione, che ha ormai raggiunto i 50 milioni di abitanti, non può puntare sulla produzione di alta tecnologia, sia perché manca di mezzi finanziari sia perché non risolverebbe il problema della disoccupazione. I militari turchi, facendo gridare allo scandalo i pacifisti europei, hanno ben pensato di creare una industria nazionale di armamenti. È probabile che i militari non riceveranno sostanziosi aiuti per realizzare questo progetto, non per l’opposizione dei pacifisti ma perché tutti i paesi industrializzati stanno già investendo cifre colossali per potenziare il proprio arsenale militare. Comunque la borghesia turca ha certamente fiutato il vento giusto e ha preso le proprie decisioni.

Ora sta al proletariato, e non solo a quello turco, prendere le proprie misure e di riorganizzare le sue file. Non sarà facile per i socialtraditori europei convincere le centinaia di migliaia di proletari turchi a lottare per la democrazia come rimedio ai loro mali, perché hanno già potuto vedere i democratici all’opera, sia contro di loro, nel tenerli divisi dalla classe operaia tedesca, svizzera e austriaca, sia contro gli operai europei. I proletari turchi emigrati dovranno essere la punta avanzata nel convincere i loro fratelli rimasti in Turchia del fatto che non vi sono e non vi sono mai state vie nazionali per risolvere i problemi della fame, della disoccupazione, della guerra.

In questi anni si giocherà la carta più difficile e per il partito e per i proletari: per il primo si tratterà di farsi riconoscere come l’unico partito di classe, per i secondi di riuscire ad individuare nella lotta di classe internazionale, sotto la guida di un unico partito comunista, la sola via per mettere fine al sistema dello sfruttamento e della guerra.