Partito Comunista Internazionale Stampa in lingua italiana
Marxismo e classe operaia inglese
(Sintesi dei rapporti pubblicati in Il Partito Comunista nn. 153, 168, 170, 179, 182, 186 e in Comunismo nn. 21, 23-28, 31, 35, 37 del 1986-1994)
1. Lezioni dal primo capitalismo della storia - 2. Percorso storico - 3. L’accumulazione originaria: nelle campagne - 4. La Società delle Gilde - 5. L’accumulazione originaria: nelle città - 6. La rivoluzione borghese - 7. La dittatura borghese - 8. Ascesa del capitale industriale - 9. Teorie pre-proletarie - 10. La rivoluzione industriale - 11. Nascita del movimento proletario - 12. La London Corresponding Society - 13. Gli ammutinamenti della flotta - 14. Il luddismo - 15. I primi sindacati - 16. Effetti della rivoluzione industriale - 17. Agitazioni politiche - 18. Il movimento radicale - 19. I primi sindacati nelle industrie - 20. Il riformismo utopistico di Robert - 21. Legalità sindacale - 22. Economia pre-marxista - 23. Hodgskin e la nuova classe operaia - 24. William Thompson: contro concorrenza - 25. Un piano per una nuova società - 26. Limiti e fallimento del socialismo utopico - 27. Fra utopia e cartismo - 28. Verso una organizzazione indipendente di classe - 29. Il movimento per la cooperazione - 30. E la sua fine - 31. Suffragio o Rivoluzione ? - 32. Una nuova Associazione - 33. La Convenzione Nazionale - 34. La ribellione di Newport - 35. L’Associazione Nazionale cartista - 36. Lo sciopero generale del 1842 - 37. Ritirata - 38. Crisi e ripresa economica - 39. Ultimo rigurgito di utopismo - 40. Origini del marxismo e l’Inghilterra - 41. Il 1848 in Inghilterra - 42. La Lega dei Comunisti - 43. Gli ultimi giorni del cartismo - 44. La critica del marxismo al cooperativismo - 45. Uno stabile funzionamento capitalista - 46. La Prima Internazionale - 47. Marx e i sindacati - 48. Il tradimento dei burocrati sindacali - 49. Marx e il cooperativismo - 50. Hyndman il Lassalle inglese - 51. Infine: i Fabiani - 52. Ricapitolando fino a qui.

 

1. Lezioni dal primo capitalismo della storia

Le condizioni del lavoro attuale dei comunisti in Gran Bretagna, ed in genere nei paesi di lingua inglese, possono essere comprese appieno solo se si tiene presente la storia del paese, in quanto le questioni di oggi vi sono state per più di un secolo al centro di accese lotte e polemiche.

Infatti il moderno capitalismo si è sviluppato per primo in Inghilterra, ove anche per prima è nata una sua necessaria espressione, l’opportunismo; e il proletariato inglese è stato il primo a darsi un partito, con il cartismo, e per primo ha subito una sistematica opera di corruzione, ideale e materiale, da parte della propria borghesia.

Fin dal lontano 1383 la Corporazione della Città di Londra proibì qualsiasi “congregazione, intesa o cospirazione tra i lavoratori”. Quattro anni più tardi i dipendenti di calzolai di Londra furono accusati di avere l’intenzione di costituire una confraternita permanente. Nel 1417 si chiese che “ai servi ed operai dei sarti londinesi sia impedito di vivere lontano dai loro padroni, in quanto tengono assemblee ed hanno formato una specie di associazione”. Così si evolveva il sistema delle gilde, delle corporazioni, in modo da impedire ai lavoratori di costituirsi in classe.

Nel corso dell’Ottocento l’invenzione delle macchine e la loro diffusione nelle fabbriche portò alla costituzione piena e matura della nuova classe, il proletariato industriale, del quale non si poteva evitare la concentrazione in grandi masse. Il vecchio sistema delle gilde si sfasciò e fu sostituito da nuovi rapporti sociali e da una nuova struttura di governo. La democrazia sempre più si dimostrò utilizzabilissima per combattere e controllare le già esistenti forme di organizzazione proletaria ed il loro sviluppo in forme più moderne. In occasione di un banchetto tenutosi a Liverpool l’8 ottobre 1838, Lord John Russel dichiarò:

     «Non è dalla incontrollata affermazione delle pubbliche opinioni che i governi hanno qualcosa da temere. La paura vi era quando gli uomini erano costretti a riunirsi in associazioni segrete; lì era la paura, lì il pericolo, e non nella libera discussione».
Alla capacità della borghesia di stabilire il suo controllo sul proletariato si adeguarono le istituzioni democratiche per perpetuarlo. La tradizionale debolezza della classe operaia inglese, la sua propensione all’empirismo, a visioni parziali ed alle mezze misure, possono in gran parte essere spiegati con tale imprigionamento ideologico imposto dalla borghesia.

* * *

Una delle caratteristiche più ripugnanti della società vittoriana fu la dominante ipocrisia, a tutti i livelli. In campo storico l’ideologia del tempo voleva la storia inglese come uno svolgersi indolore di avvenimenti fausti, nel nome del bene sia degli inglesi sia dei popoli con essi venuti a contatto, grazie naturalmente alla saggezza e magnanimità dei regnanti che vi erano succeduti. Era quindi un’esaltazione dello status quo, ed una giustificazione dei crimini compiuti dall’imperialismo inglese.

Così scriveva il famoso Macaulay nel 1848:

     «Si potrebbe facilmente dimostrare che nel nostro paese, per almeno sei secoli, la ricchezza nazionale si è accresciuta quasi senza interruzioni; che era maggiore sotto i Tudor che sotto i Plantageneti; che era più grande sotto gli Stuart che sotto i Tudor; che, nonostante battaglie, assedi e confische, era maggiore il giorno della Restaurazione che non quando si riunì il Lungo Parlamento; che, nonostante la cattiva amministrazione, sperperi, bancarotte pubbliche, due costose e inutili guerre, la Pestilenza e il Grande Incendio, essa era superiore quando Carlo II morì rispetto al giorno della Restaurazione. Questo progresso, continuato per generazioni e generazioni, divenne, verso la metà del secolo XVIII, portentosamente rapido, e la sua velocità è aumentata nel corso del XIX. A causa in parte della nostra posizione geografica ed in parte della nostra posizione morale, noi siamo stati esenti dai mali che altrove hanno reso vani gli sforzi e distrutto i frutti dell’industriosità.
     «Mentre qualsiasi punto del continente, da Mosca a Lisbona, è stato prima o poi teatro di sanguinose e devastanti guerre, mai si è alzata su di noi bandiera nemica, se non come trofeo. Mentre intorno a noi si sono succedute rivoluzioni, il nostro governo non è mai stato sovvertito con la violenza. Per oltre cento anni non vi è stato tumulto, nella nostra isola, che potesse essere considerato insurrezione; né mai legge è stata calpestata dalla furia popolare o dalla tirannia del re».


Una riconoscente classe dominante fece Macaulay barone.

Ma qualcosa manca da questo resoconto: tra Plantageneti e Tudor vi fu un secolo di lotte per il trono tra le case di Lancaster e York, conosciuto come la Guerra delle Due Rose; "mai bandiera nemica" probabilmente esclude quella scozzese, considerata interna britannica; per non parlare della mancanza di rovesciamenti violenti del governo: la Grande Ribellione, come è chiamata la guerra civile del 1644-48, forse è intesa qui come un’azione del Re contro il Parlamento, e non viceversa!

I nostri interessi di classe sono assai diversi da quelli del Macaulay, e poiché non abbiamo regine da far felici né ci aspettiamo comode sinecure dalla classe al potere, siamo in grado di studiare gli eventi che portarono alle grandi trasformazioni in Inghilterra riferendoci soltanto ai fatti ed al nostro sperimentato modello critico, quello del materialismo storico. Con ciò non invochiamo certo una patente di obiettività, mito del decadente storicismo borghese; alle verità di una classe che difende il suo potere opponiamo la verità della classe che la storia ha messo nelle condizioni e nelle necessità di attaccare, della classe che sola, con la presa rivoluzionaria del potere, può imprimere alla storia umana l’ultima, decisiva spinta verso una società senza sfruttati e senza sfruttatori, il proletariato.

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La storia dell’Inghilterra, delle vicende delle popolazioni che, a seguito dell’abbandono da parte degli eserciti della Roma imperiale, andarono a stabilirsi sull’isola, geograficamente emarginata rispetto al ribollente e assai più popolato continente, viene tradizionalmente presentata come separata, di un popolo particolare come origini, organizzazione, lingua e costumi; storia di un isolamento politico che, pur se di sovente interrotto, ha dato l’impronta determinante alle politiche dei governanti inglesi, confermato dalla inclinazione verso nuove terre, quando se ne presentò la possibilità, piuttosto che verso le interminabili guerre sul vecchio continente. Tale isolamento è assurto anche ad ideologia ufficiale delle classi dominanti inglesi.

Ma tale modo di intendere la storia inglese, solo in parte fondato, non può essere il nostro perché isolamento è stato tale solo in apparenza; l’Inghilterra ha sempre ricevuto le influenze più determinanti dall’Europa, e sull’Europa ha fatto ricadere le conseguenze più progressive dei propri avvenimenti politici ed economici.

L’Inghilterra si è data il primo grande Stato nazionale e per prima è uscita dal tunnel del feudalesimo e ha sviluppato fenomeni modernissimi quali il capitalismo mercantile, l’imperialismo, la presa del potere rivoluzionaria da parte della borghesia, lo sviluppo dell’industria su grande scala. Basterebbe questo, ed il fatto che tali fenomeni sono stati prima o poi esportati nel resto di Europa, a mostrare il ruolo che questo piccolo paese ha avuto nella storia. Ma ciò che lo rende a noi marxisti rivoluzionari di particolare interesse è il fatto che in Inghilterra è nato il moderno proletariato, i suoi primi sindacati, i suoi primi partiti politici. Dallo studio della storia inglese Marx trasse il materiale per il Capitale, dall’esperienza storica del proletariato di quel paese provengono alcuni dei principali insegnamenti che stanno alla base della dottrina politica comunista.
 
 

2. Percorso storico
 

La fortunosa invasione del 1066 permise ai normanni, avventurieri sempre in cerca di nuove prede, di mettere le mani su un paese che per secoli, dopo la partenza dell’esercito romano di occupazione, aveva seguito un percorso storico distinto da quello del resto di Europa.

Il secolo X aveva infatti visto un notevole accentramento del potere che, nonostante i continui alti e bassi delle invasioni danesi, sarebbe rimasto una caratteristica della struttura politica inglese. In Europa non esisteva ancora niente di simile a quanto era stato compiuto dalla monarchia anglosassone: nonostante l’esistenza dei feudatari, il paese era diviso in contee ben delimitate, e di nomina regia gli sceriffi che ne erano a capo e che al re soltanto giuravano fedeltà; la terra era divisa in unità catastali, gli hundreds, il che permetteva al potere centrale di contare su un minimo di entrate certe, anche per mantenere l’esercito direttamente dipendente dal re; dal re dipendeva, almeno in teoria, il sistema fiscale e l’amministrazione della giustizia.

Gli sceriffi, che esercitavano il potere regio localmente, costituirono sempre un limite allo strapotere dei feudatari; pur se talvolta potevano essi stessi detenere un notevole potere, restavano funzionari, e la loro carica non divenne mai ereditaria.

La dinastia plantageneta trovò quindi una situazione particolarmente favorevole all’esercizio diretto del potere centrale: pur se con i re normanni il feudalismo classico ebbe un risveglio, non fu mai ricondotto a livelli francesi o tedeschi.

Anche il Domesday Book fu in fondo una riaffermazione del diritto del re a riscuotere direttamente le imposte dai sudditi, che a quell’epoca, 1085, erano intorno al milione e mezzo. La nomina di feudatari continuò soprattutto nei territori non completamente "pacificati", Nord e Galles in particolare.

Nei secoli successivi, pur se in presenza di guerre all’estero e di carestie, la situazione economica in Inghilterra migliorò sensibilmente. La popolazione era a metà del ‘300 di circa 4 milioni. Parallelamente si era verificata una grandiosa trasformazione sociale: la commutazione dei servizi di villanato in pagamenti in contanti, dovuta all’estendersi dell’economia monetaria, accelerata dalle continue tassazioni. La spinta principale venne dall’interesse del feudatario più che dalla pressione del contadino, e nella prima metà del ‘300 già circa metà dei servigi si calcola fossero stati commutati; si badi però che ciò non significò all’immediato la liberazione dalla servitù della gleba, poiché il padrone poteva sempre esigere il servigio invece dell’affitto. Ma la condizione giuridica del villano, che restava sempre fortemente oppresso, stava lentamente migliorando.

La peste (la Morte Nera) risultò in un’accelerazione del processo. La popolazione passò in pochi decenni da 4 a 2 milioni e mezzo, e solo nel ‘500 tornò a superare 4 milioni. Molte terre furono abbandonate, i prezzi crollarono, nel paese aumentò l’anarchia. Una prima conseguenza fu che i proprietari ingaggiavano per il lavoro dei campi chiunque si presentasse, e i salari per la prima volta dopo secoli lievitarono notevolmente (anche di 2-3 volte). Diminuzione dei prezzi, contrazione della produzione, alti salari, portarono ad un crollo della rendita fondiaria: la terra non rendeva più ai proprietari – nobili, cavalieri, alto clero, abbazie, ecc. – e questi cercarono di rimediare alienando le terre, così facendo aumentare la classe dei piccoli proprietari e contribuendo al dissolvimento del feudalismo, oppure tentando di tornare indietro verso il feudalismo classico, il che riuscì soltanto a provocare ribellioni culminate nell’insurrezione del 1381.

Una prima reazione fu la promulgazione da parte del Parlamento dello Statuto dei Lavoratori (1351), in piena peste, nel quale si ordinava che nessuno potesse rifiutarsi di lavorare per i salari del 1347 (prima della Morte Nera). Si tratta del primo esempio di un intervento statale per fissare i salari, esempio che sarà seguito anche in altri paesi, e che in Inghilterra si ripeterà fino ai primi dell’800: si fissano i salari, ma non i prezzi.

Ma le leggi, se non sostenute da una forza effettiva almeno pari a quella contro la quale sono emanate, restano pezzi di carta. Così, anche se era prevista la marchiatura a fuoco per i trasgressori (naturalmente per chi riceveva il salario, non per chi lo pagava), le condizioni dei lavoratori migliorarono notevolmente; non solo: richiesti con offerte sempre più vantaggiose, divennero coscienti del loro peso economico nella società, mentre la pertinacia con la quale i padroni cercavano di non migliorare le loro condizioni cominciò a mettere in evidenza come la società fosse divisa in strati orizzontali, le classi, caratterizzate da interessi contrapposti. Da questa nuova situazione ebbero origine le prime associazioni di lavoratori (combinations), anch’esse, a maggior ragione, combattute da tutti gli Statuti.

La forza acquisita dalle classi subalterne fu ben visibile quando nel 1381 ebbe luogo una rivolta che vide Londra occupata da migliaia di insorti, ribellatisi contro una ennesima tassazione; la rivolta fu domata, ma la prontezza con la quale gli insorti si riunirono, la decisione con cui si mossero, il programma di riforme che avevano elaborato, tutto testimonia come la situazione sociale in Inghilterra stesse entrando a grandi passi nel mondo moderno.

È in questa occasione che le prime manifestazioni di eresia comunistica (lollardi) si manifestano negli strati più bassi del clero, fenomeno d’altronde non solo inglese. I lollardi resteranno, emarginati, per lungo tempo nella società inglese, e le loro dottrine, rese meno rivoluzionarie, asservite agli interessi borghesi, torneranno in auge con lo scisma prima, con il puritanesimo poi. L’avversione verso l’ingerenza del Papa negli affari inglesi è invece a quest’epoca già fatta propria dal re e dalla nobiltà a lui vicina. Negli anni successivi lollardismo significherà soprattutto movimento di pensiero per la laicizzazione dei beni ecclesiastici, che avrà quindi molti simpatizzanti tra la nascente borghesia, mentre il clero cattolico cercherà inutilmente di ridurlo al silenzio.
 
 

3. L’accumulazione originaria: nelle campagne
 

Il Quattrocento fu il secolo della dinastia Lancaster e della Guerra delle Due Rose; il risultato finale delle lotte intestine che insanguinarono l’Inghilterra fu l’affermarsi di una terza dinastia, la Tudor, che governerà il paese per tutto il Cinquecento.

In questi due secoli altri avvenimenti, i cui risultati furono ben più duraturi, si verificarono; il più importante di questi fu la grande rivoluzione agraria. Ecco come Engels, in L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza riassume il processo:

     «Fortunatamente per l’Inghilterra i vecchi signori feudali si erano massacrati reciprocamente durante la Guerra delle Due Rose. I loro successori, quantunque generalmente rampolli delle stesse vecchie famiglie, discendevano da linee collaterali così lontane che costituivano uno strato sociale completamente nuovo, con abitudini e tendenze molto più borghesi che feudali. Essi conoscevano perfettamente il valore del denaro, ed incominciarono immediatamente ad aumentare i loro introiti, espellendo centinaia di piccoli fittavoli e sostituendoli con le pecore. Enrico VIII, dissipando in donazioni e prodigalità le terre della Chiesa, creò una legione di nuovi grandi proprietari borghesi; allo stesso risultato portarono le innumerevoli confische di grandi domini, che si cedevano poi a piccoli o grandi nuovi venuti, continuate dopo di lui fino alla fine del XVII secolo. Per conseguenza a partire da Enrico VII, l’aristocrazia inglese non pensò affatto ad ostacolare lo sviluppo della produzione industriale ma cercò di ritrarne un beneficio. Allo stesso modo non è mai mancata una parte dei proprietari fondiari disposta, per ragioni economiche e politiche, a collaborare con i capi della borghesia industriale e finanziaria».
Lo scisma religioso verificatosi sotto Enrico VIII ebbe in realtà un significato teologico trascurabile, in quanto le differenze tra le due Chiese rimasero sottili e superficiali, se si esclude il fondamentale rifiuto dell’autorità papale; il suo significato economico fu invece profondo, sia per l’accelerazione del processo di formazione della borghesia terriera, sia per il definitivo affossamento del feudalesimo, del quale gli alti prelati erano parte integrante. La Chiesa ormai aveva perso il suo potere economico e politico, e non lo riacquisterà più; l’avversione dei secoli successivi verso il cattolicesimo sarà causata dal terrore della sorgente borghesia verso un’inversione di tendenza nel processo economico e quindi politico.

Nel capitolo del Capitale sulla Accumulazione originaria Marx ci offre un quadro analitico delle trasformazioni economiche occorse in quel periodo in Inghilterra:

     «Nell’ultima parte del secolo XIV in Inghilterra la servitù della gleba era di fatto scomparsa. L’enorme maggioranza della popolazione consisteva allora, e ancor più nel secolo XV, di liberi coltivatori diretti, sotto qualunque blasone feudale la loro proprietà potesse nascondersi. Sui maggiori fondi signorili, il bailiff (castaldo), un tempo anch’egli servo della gleba, era stato soppiantato dal libero fittavolo. Gli operai salariati dell’agricoltura consistevano in parte di contadini che impegnavano il loro tempo libero lavorando presso grandi proprietari fondiari, in parte di una classe indipendente, poco numerosa relativamente e in assoluto, di veri e propri salariati. Di fatto anche questi erano nello stesso tempo piccoli contadini indipendenti, perché oltre al salario ricevevano 4 o più acri di terreno coltivabile e un cottage. Inoltre, partecipavano coi veri e propri contadini all’usufrutto delle terre comuni sulle quali il loro bestiame pascolava e che fornivano loro il combustibile: legna, torba, ecc. In tutti i paesi d’Europa la produzione feudale è caratterizzata dalla ripartizione del suolo fra il maggior numero possibile di vassalli.
     «La potenza del signore feudale, come quella di ogni sovrano, poggiava non sulla lunghezza del suo registro delle rendite, ma sul numero dei sudditi, e questo dipendeva dal numero dei piccoli coltivatori indipendenti. Perciò, benché dopo la conquista normanna il suolo inglese fosse diviso in gigantesche baronie, ognuna delle quali spesso includeva 900 antiche signorie anglosassoni, esso era disseminato di piccole aziende contadine solo qua e là interrotte da vasti fondi signorili. Tale stato di fatto, unito alla contemporanea fioritura della città, che contraddistingue il secolo XV, permetteva la ricchezza popolare (...) ma escludeva la ricchezza capitalistica.
     «I primi albori del rivolgimento che creò la base del modo di produzione capitalistico si hanno nell’ultimo terzo del secolo XV e nei primi decenni del XVI. Lo scioglimento dei seguiti feudali (...) gettò sul mercato del lavoro una massa di proletari senza terra e dimora. Benché il potere regio, esso stesso un prodotto dello sviluppo della borghesia, nei suoi sforzi per conseguire la sovranità assoluta accelerasse con la forza lo scioglimento di questi seguiti, non ne fu l’unica causa.
     «È vero piuttosto che, nel più tracotante antagonismo con la monarchia e il parlamento, il grande signore feudale creò un proletariato incomparabilmente più numeroso, scacciando con la violenza i contadini dal suolo sul quale avevano il medesimo titolo di diritto feudale, ed usurpandone le terre comuni. A questi sviluppi in Inghilterra diedero impulso immediato principalmente la fioritura della manifattura laniera nelle Fiandre e il conseguente aumento dei prezzi della lana. Le grandi guerre feudali avevano inghiottito la vecchia nobiltà feudale; la nuova era figlia del proprio tempo, che vedeva nel denaro il potere di tutti i poteri. Trasformazione degli arativi in pascoli per ovini fu, quindi, la sua parola d’ordine (...) Le abitazioni dei contadini e i cottages dei lavoratori vennero forzosamente abbattuti, o abbandonati a lenta rovina (...) Dalla sua età dell’oro la classe lavoratrice inglese precipitò senza interruzione nell’età del ferro. Nella sua Utopia, Tommaso Moro parla dello strano paese, dove le "pecore (...) son diventate così fameliche da divorarsi anche gli uomini".
     «Ciò che il sistema capitalistico esigeva era la condizione servile delle grandi masse, la loro trasformazione in salariati, e la trasformazione dei loro mezzi di lavoro in capitale (...) Il processo di espropriazione violenta della massa del popolo ricevette un nuovo terribile impulso nel secolo XVI dalla Riforma e, in seguito a questa, dal colossale furto dei beni ecclesiastici. Ai tempi della Riforma, la Chiesa cattolica era proprietaria feudale di gran parte del suolo inglese. Le soppressioni dei conventi ecc. gettò i loro abitanti nel proletariato: i beni ecclesiastici vennero in larga misura donati a rapaci favoriti regi o venduti a prezzi irrisori a fittavoli e cittadini speculatori, che ne cacciarono in massa gli antichi subaffittuari ereditari e ne riunirono i poderi. La proprietà di una parte delle decime, garantita per legge ad agricoltori impoveriti, venne tacitamente confiscata. Pauper ubique jacet, esclamò la regina Elisabetta dopo un viaggio attraverso l’Inghilterra».
Fu necessario istituire un meccanismo di assistenza ai poveri che rimase una caratteristica costante del capitalismo inglese e che da solo svergogna qualsiasi pretesa di pacifica e progressiva evoluzione dello stesso capitalismo. Vale la pena di ricordare che al tempo vi furono proposte per la reintroduzione della schiavitù allo scopo di eliminare la piaga del pauperismo.
     «Era impossibile che gli uomini cacciati dalla terra con lo scioglimento dei seguiti feudali e un’espropriazione violenta attuata a sbalzi, che questi proletari senza terra e dimora, fossero assorbiti dalla nascente manifattura con la stessa rapidità con la quale venivano al mondo. D’altra parte, gli uomini improvvisamente scardinati dall’orbita consuetudinaria della loro vita non potevano adattarsi con altrettanta prontezza alla disciplina della nuova condizione; si trasformarono in massa di mendicanti, in predoni, in vagabondi, sia per inclinazione, sia, nella maggior parte dei casi, sotto la pressione delle circostanze.
     «Di qui, alla fine del secolo XV e per tutto il secolo XVI, in tutta l’Europa occidentale, una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia vennero in primo tempo castigati per la conversione loro imposta in vagabondi e paupers. La legislazione li trattò come delinquenti volontari e presuppose che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare o meno a lavorare nelle antiche e non più esistenti condizioni di vita (...) Così il contadiname espropriato con la forza, scacciato dal suolo e reso vagabondo, fu costretto con leggi fra il grottesco e il terroristico, frustandolo, marchiandolo a fuoco, torturandolo, a sottostare alla disciplina necessaria al sistema del lavoro salariato.
     «Non basta che le condizioni di lavoro si presentino a un polo come capitale, e all’altro come uomini che non hanno nulla da vendere fuorché la propria forza lavoro. Non basta neppure costringerli a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica si diffonde, si sviluppa una classe operaia che, per educazione, tradizione ed abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato infrange ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa mantiene la legge della domanda e dell’offerta di lavoro, e perciò il salario, entro confini rispondenti ai bisogni di valorizzazione del capitale; la muta pressione dei rapporti economici suggella il dominio del capitalista sull’operaio.
     «Alla violenza diretta, extraeconomica, si ricorre pur sempre, è vero; ma solo in casi eccezionali. Per lo stato ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle "leggi di natura della produzione", cioè alla sua dipendenza, nascente dalle stesse condizioni della produzione e da queste garantita ed eternata, dal capitale. Non così durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia in ascesa ha bisogno e fa uso del potere statale per "regolare" il salario, cioè per costringerlo entro i limiti convenienti alla caccia al profitto, per prolungare la giornata lavorativa e mantenere lo stesso operaio in un grado di dipendenza normale. È questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria».
Il processo di allontanamento dei contadini dalla terra non fu comunque privo di incertezze e di arresti; lo stesso potere statale si trovò costretto molte volte a tentare di arginare, con leggi comunque inefficaci, il dilagare del movimento per le enclosures. Ma la borghesia si rafforzò nel ‘500 proprio nel tentativo, riuscito, di imporre la sua volontà sull’esecutivo. Solo durante il regno di Enrico VIII furono giustiziati 72.000 vagabondi. Sotto i suoi successori si ripeterono rivolte contadine, delle quali la più importante ebbe luogo nel 1549, sotto la guida di un conciapelli del Norfolk, Robert Ket. Prima di essere sconfitto, il movimento era riuscito ad organizzare un piccolo esercito che inflisse severe batoste agli eserciti regi. Le rivendicazioni degli insorti erano moderate, ma non certo ispirate dai cattolici: si chiedevano affitti onesti e, fra l’altro, che i preti non potessero acquistare terra.

Le rivolte continuarono anche sotto il regno di Elisabetta (1558-1603), ma il diretto potere statale e le squadracce di lords e signorotti ne ebbero sempre ragione.
 
 

4. La Società delle Gilde
 

Il possesso di capacità artigianali, insieme a una piccola bottega, spesso all’interno o adiacente all’abitazione dell’artigiano, è una peculiarità del medioevo, ma che possiamo ancora oggi ritrovare fra la piccola borghesia. Anche il lavoro domestico ha molti elementi in comune con i mestieri e con le gilde.

Le categorie degli artigiani e dei lavoratori di mestiere, dei padroni e dei lavoranti a giornata potevano avevano una identità di interessi: la facoltà per un operaio specializzato di divenire un piccolo proprietario sfuggendo al duro lavoro nella bottega o nell’officina. Il lavoratore specializzato sarà davvero attirato all’interno del grande movimento dei salariati solo quando le possibilità di espletare appieno le sue capacità, di "migliorarsi", di "elevarsi", si dimostreranno oltremodo remote. Inoltre, anche una quota considerevole dei lavoratori non specializzati aveva, in alcuni periodi della vita, lavorato "in proprio", o poteva aver sperato di farlo.

Una descrizione di questo regime medioevale ce la danno Marx ed Engels nel primo capitolo de L’ideologia tedesca.

     «Alla organizzazione feudale del possesso fondiario corrispondeva nelle città la proprietà corporativa, l’organizzazione feudale dell’artigiano. Qui la proprietà consisteva principalmente nel lavoro di ciascun individuo. La necessità di associarsi contro la rapace nobiltà associata, il bisogno di mercati coperti comuni in un tempo in cui l’industriale era insieme mercante, la crescente concorrenza dei servi della gleba fuggitivi che affluivano nelle città fiorenti, l’organizzazione feudale dell’intero paese, portarono alle corporazioni (o gilde). I piccoli capitali risparmiati a poco a poco dai singoli artigiani e il loro numero stabile in seno a una popolazione crescente fecero sviluppare il rapporto fra garzone e apprendista, che dette origine a una gerarchia simile a quella esistente nelle campagne.
     «Nell’età feudale dunque la proprietà principale consisteva da una parte nella proprietà fondiaria, col lavoro servile ad essa legato, dall’altra nel lavoro personale, con un piccolo capitale che si assoggettava il lavoro dei garzoni. L’organizzazione dell’una e dell’altro era condizionata dalle ristrette condizioni della produzione: la limitata e rozza coltura della terra e l’industria di tipo artigianale. Durante il fiorire del feudalesimo la divisione del lavoro era assai limitata. Ogni paese portava in sé l’antagonismo di città e campagna; l’organizzazione in ordini era fortemente marcata, ma non esisteva alcuna divisione di rilievo al di fuori della separazione fra prìncipi, nobiltà, clero e contadini nelle campagne, e fra maestri, garzoni, apprendisti e ben presto anche plebei a giornata nelle città. Nell’agricoltura vi si opponeva la coltivazione parcellare, accanto alla quale sorgeva l’industria domestica degli stessi contadini; nell’industria il lavoro non affatto diviso all’interno dei singoli mestieri, pochissimo diviso fra un mestiere e l’altro. La divisione fra industria e commercio preesisteva nelle città più antiche, mentre nelle nuove si sviluppava lentamente, quando si stabilivano rapporti fra di esse (...)
     «La concorrenza dei servi fuggitivi che affluivano incessantemente nelle città, la guerra incessante della campagna contro la città e, di conseguenza, la necessità di una forza militare cittadina organizzata, il legame della proprietà comune in un lavoro determinato, la necessità di edifici in comune per la vendita delle merci in un’epoca in cui gli artigiani erano contemporaneamente commercianti, e la conseguente esclusione degli estranei da questi edifici, la necessità di una protezione del lavoro appreso con fatica e l’organizzazione feudale dell’intero paese furono la causa dell’unione in corporazioni dei lavoratori di ciascun mestiere (...)
     «La fuga dei servi nelle città continuò ininterrotta durante tutto il medioevo. Questi servi, perseguitati nelle campagne dai loro signori, arrivavano singolarmente nelle città, dove trovavano una comunità organizzata contro la quale erano impotenti e nella quale dovevano assoggettarsi alla posizione che ad essi assegnava il bisogno del loro lavoro e l’interesse dei loro concorrenti cittadini organizzati. Questi lavoratori che arrivavano uno per uno non poterono mai costituire una forza, perché, se il loro lavoro era regolato da una corporazione e richiedeva di essere appreso, i maestri della corporazione se li sottomettevano e li organizzavano secondo il loro interesse; ovvero, se il loro lavoro non doveva essere appreso e quindi non era regolato da una corporazione ma era lavoro a giornata, essi non arrivavano mai a costituire un’organizzazione e restavano plebe disorganizzata. La necessità del lavoro salariato nelle città creò la plebe (...)
     «In ciascun mestiere gli apprendisti erano organizzati nel modo che meglio rispondeva all’interesse dei maestri; il rapporto patriarcale in cui essi si trovavano rispetto ai maestri dava a questi un doppio potere: da una parte nella loro influenza diretta sull’intera vita dei garzoni; d’altra perché questi rapporti rappresentavano un vero legame per i garzoni che lavoravano presso lo stesso maestro, che li teneva uniti ma separati e opposti ai garzoni degli altri maestri; infine i garzoni erano legati all’ordinamento esistente se non altro per l’interesse che avevano a diventare essi stessi maestri. Quindi, mentre la plebe arrivava almeno a compiere delle sommosse contro l’intero ordine cittadino, che però restavano affatto inefficaci a causa della sua impotenza, i garzoni giungevano soltanto a piccole ribellioni all’interno delle singole corporazioni, com’è nella natura stessa del regime corporativo. Le grandi sollevazioni del medioevo partirono tutte dalla campagna, ma restavano ugualmente senza alcun effetto per la dispersione e per la conseguente rozzezza dei contadini.
     «Nelle città il capitale era un capitale naturale, che consisteva nell’abitazione, negli strumenti del mestiere e nella clientela naturale, ereditaria, e non essendo vendibile, per le relazioni non ancora sviluppate e per la mancanza di circolazione, doveva essere trasmesso di padre in figlio. Questo capitale non era valutabile in denaro, come quello moderno, per il quale è indifferente l’essere investito in questa o quella cosa; esso era invece direttamente legato al lavoro determinato del possessore, inseparabile da esso, e quindi era un capitale connesso con un ordine sociale.
     «Anche nelle città la divisione del lavoro tra le singole corporazioni era ancora assai poco sviluppata e all’interno delle corporazioni stesse, fra i singoli lavoratori non lo era affatto. Ogni lavoratore doveva essere abile in tutto un ciclo di lavoro, doveva saper fare tutto ciò che andava fatto con i suoi strumenti; le relazioni limitate e gli scarsi collegamenti tra le diverse città, la rarità della popolazione e la limitatezza dei bisogni non consentiva il sorgere di una divisione del lavoro più spinta, e perciò chiunque voleva diventare maestro doveva essere completamente padrone del suo mestiere».
In questo brano Marx ed Engels presentano per la prima volta il comunismo scientifico. Noi li citiamo senza risparmio – a dispetto di coloro che cercano l’originalità a tutti i costi – perché qui bene rappresentano il periodo più classico delle gilde, e cioè, in Gran Bretagna, il periodo che va da Guglielmo il Conquistatore alla rivolta dei contadini.

Lo sviluppo delle città in quel periodo è condizione storica specificamente inglese, e il rapporto di Londra con le provincie spiega i successivi episodi del movimento operaio.

All’epoca della conquista normanna (1066) le città erano ancora strettamente legate alla campagna. Nella città di Derby, per esempio, il Domesday Book riporta che vi erano 243 borghigiani; la terra comune intorno alla città era divisa tra 41 di questi cittadini, che in comune possedevano dodici aratri e un ugual numero di coppie di buoi. Delle tasse, dazi e imposte, al Re spettavano i due terzi, il resto andava al Conte. Ovviamente si trattava ancora di una comunità essenzialmente rurale.

Il termine burgess (borghigiano) aveva già assunto all’epoca della conquista normanna un contenuto abbastanza definito; non indicava tutti gli abitanti della comunità cittadina (già chiamata anche borough, borgo) ma solo coloro la cui proprietà esisteva sotto forma di burgage tenure o borough tenure, secondo la quale i loro possedimenti – cioè case, botteghe e capanne – pagavano una somma fissa in denaro legata alla rendita, erano ritenuti ereditabili e potevano essere liberamente ipotecati e venduti. Questo tipo di possesso era limitato alle città, ed era in aperto contrasto con quanto regolava le attività economiche del mondo rurale. Già si stava formando un corpo di leggi particolari, che sarebbe poi sfociato, qualche secolo più tardi, in una legislazione più completa ed ufficiale. Uno dei primi atti di Guglielmo II il Conquistatore fu la concessione di una "Carta", o legislazione particolare, alla città di Londra, che garantiva che i cittadini avrebbero goduto delle stesse leggi che avevano "ai tempi di Re Eduardo", che ogni figlio ereditava dal padre; e che egli non "avrebbe permesso ad alcuno di far loro del male".

A quest’epoca le città costituivano ancora un’anomalia, rispetto al sistema feudale fondato sulla terra e sull’agricoltura, e il tipo di tassazione cui erano sottoposte le diverse città era conosciuto col nome di tallage (taglia); era un termine questo associato alla mancanza di libertà, e i borghigiani, anche se liberi individualmente, erano posti in una posizione analoga a quella dei servi dei manieri nei possedimenti della Corona.

Londra, in posizione strategica per il commercio con le Lowlands, e sede del governo, fu sempre all’avanguardia degli sviluppi economici. All’estremo occidentale della grande via commerciale che proveniva da Costantinopoli e dal Medio Oriente, sui moli dal Tamigi ogni giorno si scaricavano merci le più varie, spezie, cotte di maglia, sete, biancherie, vini. Di tutto questo ben di Dio il sovrano aveva il "diritto di prima scelta", e uno dei compiti dello "sceriffo" era assisterlo mentre esercitava questo diritto. Poi venivano i londinesi, e solo successivamente erano ammessi agli acquisti i mercanti di Winchester e Oxford. I mercanti di Londra apprendevano così le ultime tecniche finanziarie dai commercianti del continente, e divenivano un prezioso sostegno per la monarchia, che era sempre più costretta a conceder loro condizioni favorevoli per potersene garantire il fedele appoggio.

Anche prima della Conquista, ma in modo molto più determinato ai tempi di Riccardo I e Giovanni Senzaterra, le città tentarono di creare quelle che sono oggi conosciute come gilde dei mercanti e che costituirono il primo passo in direzione di una amministrazione indipendente della comunità. Erano composte dai rappresentanti dei diversi mestieri, con scopo principale di proteggere gli interessi dei membri, escludere gli estranei e prevenire l’insorgere della concorrenza all’interno della comunità. Tutti i commerciati (commerciante e produttore erano in genere la stessa persona) dovevano appartenere alla gilda, e pesanti multe e punizioni venivano comminate ai cosiddetti "estranei". L’organizzazione si dava anche da fare per contenere le prepotenze dei funzionari del Re e dei nobili locali, che spesso si presentavano per raccogliere un dato tributo, e che altrettanto spesso cercavano di incamerare tangenti per se stessi, a spese dei borghigiani.

Un avvenimento chiave a questo riguardo si ebbe nel 1130 quando ai cittadini di Lincoln e Londra fu consentito da Enrico I di rendere conto per le tasse direttamente allo Scacchiere, e non più attraverso il locale funzionario governativo, lo Sceriffo (shire-reeve). La concessione di questa Carta diede a Londra il controllo non solo dei tributi della città, ma anche di quelli della contea nella quale si trovava, il Middlesex. I londinesi, recitava la Carta, non avrebbero avuto altro signore all’infuori del Re: i loro Sceriffi sarebbero stati eletti dai cittadini, invece che nominati dal Re o dai suoi successori.

Alla morte del Re, nel 1135, la guerra civile devastò il paese, e in questo periodo i mercanti di Londra riuscirono ad assicurarsi, anche se temporaneamente, un status di completa indipendenza, come comune libero. Ma al termine della guerra civile Londra aveva perduto la sua indipendenza, e tornarono le pesanti tassazioni.

L’ascesa al trono di Enrico II, nel 1154, significò tra l’altro un costante impegno da parte della Corona ad impedire il diffondersi del movimento per la costituzione di liberi comuni che proveniva dal continente: a Gloucester e a York il tentativo di costituire comuni fu soffocato con durezza, e alla fine del regno di Enrico solo cinque città, oltre Londra, erano direttamente responsabili verso la Corona per le loro tasse, e nessuna di esse poteva considerarsi certa di poter mantenere tale privilegio.

Riccardo e Giovanni, i successori di Enrico, restituirono numerosi privilegi alle città, almeno finché queste erano in condizioni di pagare ricche taglie. Ma in materia di tasse, come pure sotto altri aspetti, Londra godeva di una situazione particolare. Non corrispondeva una taglia, ma piuttosto "aiuti" e "donazioni", una forma di tassazione che contraddistingueva gli uomini liberi. La città raggiunse di nuovo la condizione di piena indipendenza durante le agitazioni del 1191, quando ricevette la "concezione del comune". Questo Communia, o corporazione governata da un sindaco, era un corpo giurato di borghesi e cittadini, che intendeva escludere qualsiasi interferenza esterna e governare la città in piena sovranità, mantenendo una forza armata, le Armed Bands, capace di difendere le mura. Anche se la condizione ufficiale di comune ebbe breve vita, la città di Londra, in quanto sede di interessi nazionali oltre che locali, riuscì ad assicurarsi in questo periodo un gran numero di vantaggi duraturi.

Londra fu sempre la prima corporazione municipale in Inghilterra, e sarebbe servita come modello per le ventotto minori città medioevali che in seguito avrebbero ricevuto a loro volta una Carta. Fu costituita la prima corte degli Aldermen, o degli Anziani, «venticinque dei più discreti uomini della città, che avevano giurato di prendere le decisioni per il bene della città», che sedevano insieme al Sindaco. Nel 1197 Sindaco e Corporazioni ricevettero il controllo di ampi tratti del Tamigi, e questo favorì un ulteriore sviluppo del commercio: ai Guardiani della Torre fu vietato di pretendere più dell’importo di legge per il pedaggio delle navi che risalivano il fiume, e tutte le pescaie vennero rimosse: seppure molto utili ai pescatori, creavano problemi alle navi commerciali. Nel 1208 la città aveva pagato la gran parte di un debito di 1.000 sterline che si era assunta nel 1204, in cambio dell’esenzione dall’obbligo della coscrizione per l’esercito del Re all’estero.

I cittadini erano considerati come baroni, e collettivamente pagavano tasse baronali; anche il sindaco, Mayor, dopo le rivolte contadine cominciò ad essere chiamato Lord Mayor. I privilegi di Londra, e di tutte le altre città, sarebbero stati confermati dalla Magna Carta del 1215, nella quale, oltre alla istituzione di un sistema nazionale di pesi e misure, venne stabilito un nuovo principio: l’ufficio di Sindaco non sarebbe più stato a vita, ed ereditario, ma elettivo.

Nel 1216 la concessione perpetua di questa firma burgi era stata fatta a numerose città, che così potevano pagare le tasse direttamente allo Scacchiere, ed una dozzina di queste avevano anche conquistato il diritto di eleggere i loro propri Mayors. Questi privilegi venivano dalla concessione di una specifica Carta della città, che di solito consentiva anche alla creazione di una gilda di mercanti. Le Carte concedevano altresì alla città il diritto di eleggere i loro funzionari e, cosa forse più importante di tutte, di costituire le sue corti di giustizia e di eleggere i suoi magistrati.

Inizialmente le gilde artigiane erano parte delle prime, onnicomprensive, gilde dei mercanti, ma presto ogni singolo mestiere cominciò ad organizzarsi autonomamente, con i suoi funzionari, impiegati, ecc. Con la crescita della città, nel XII, XIII e XIV secolo, le gilde dei mercanti si frammentarono in numerose associazioni più piccole, che diedero origine alle gilde di mestiere. I primi settori produttivo-commerciali ad organizzarsi in questo modo furono quelli legati alla lana, e già nel XII secolo apparvero nei principali centri gilde di tessitori e di follatori. A Londra la gilda dei tessitori divenne così importante che il governo della città tentò di farla sciogliere, offrendo denaro al Re; ma la città poi non riuscì a pagare, mentre i tessitori aumentavano i loro versamenti annuali, con grande soddisfazione della Corona, che vedeva sorgere una nuova ricca fonte di entrate. Presto vi furono gilde per la produzione di derrate, di attrezzi agricoli e dei mestieri legati all’equipaggiamento dei cavalieri e dei cavalli; ogni grande città aveva gilde di fornai, macellai, birrai, fabbri, ruotai, conciatori, calzettai, calderai, ecc.

Molte delle gilde di mestiere a quest’epoca, conosciute col nome di gilde "adultere", non erano registrate; ma un controllo più stretto sulle organizzazioni di mestiere conveniva sia al governo della città, per intestare le tasse e controllare i mestieri, sia alla Corona, per riscuotere entrate supplementari grazie alla concessione, a pagamento, delle Carte. Così sembra che nel 1180 Enrico II, rendendosi conto che numerose gilde non gli versavano alcun tributo, abbia fatto uno sforzo particolare per scoprire queste associazioni senza permesso e multarle. A differenza delle gilde delle altre città, i londinesi resistevano al pagamento dei tributi, tanto che ancora verso la metà del regno di Giovanni, nel 1208, dovevano all’erario tutte le 120 sterline delle quali erano già debitori nel 1180.

Più tardi, verso la fine del XIII secolo, con l’espansione dell’esportazione di stoffe e con i mercanti inglesi che sempre più ne prendevano in mano il commercio, la nuova classe dei mercanti cominciò a dominare il governo cittadino, che sempre meno si preoccupava di preservare i monopoli locali; questa classe gradualmente conquistò una posizione dominante sulle gilde dei produttori, ormai complessivamente asserviti ai suoi voleri.

Nel quaderno 5 del Grundrisse, Marx spiega come lo studio delle gilde non derivi da cause puramente storiografiche:

     «Ciò che qui ci interessa innanzitutto è quanto segue: il rapporto del lavoro col capitale, ossia con le condizioni oggettive del lavoro come capitale, presuppone un processo storico che dissolve le diverse forme in cui il lavoratore è proprietario o il proprietario lavora».
La prima fase consiste
     «nella dissoluzione del rapporto con la terra – col suolo – quale condizione naturale di produzione – alla quale egli si riferisce come alla sua propria esistenza inorganica, al laboratorio delle sue forze e al dominio della sua volontà».
La fase successiva, quella che a noi qui preme, è
     «la dissoluzione dei rapporti [in cui] la proprietà del lavoratore sullo strumento presuppone una forma particolare di sviluppo del lavoro manifatturiero come lavoro artigianale, a questo è connesso il sistema delle corporazioni ecc. (...) Qui il lavoro stesso è ancora per metà artistico, per metà fine a se stesso ecc. Maestria. Il capitalista è ancora il mastro. La particolare abilità nel lavoro assicura anche il possesso dello strumento ecc. ecc. Ereditarietà quindi, in un certo qual senso, del modo di lavoro, oltre che all’organizzazione del lavoro e dello strumento di lavoro. Assetto delle città medioevali. Il lavoro è ancora personale; un determinato sviluppo autosufficiente di capacità unilaterali ecc. (...) È implicito in entrambi i casi che prima della produzione il capitalista è in possesso dei mezzi di consumo necessari per vivere come produttore (...) Come proprietario fondiario egli appare direttamente provvisto del fondo di consumo necessario. Come mastro artigiano egli lo ha ereditato, guadagnato, risparmiato, e come garzone di bottega è dapprima apprendista, condizione questa in cui egli non figura ancora affatto come vero e proprio lavoratore autonomo, ma alla maniera patriarcale siede alla mensa del maestro. Come garzone (effettivo) sussiste una certa comunanza del fondo di consumo posseduto dal maestro. Sebbene questo fondo non sia proprietà del garzone, le leggi della corporazione, la loro tradizione ecc. prevedono almeno la sua partecipazione al possesso ecc.».
Più avanti Marx aggiunge:
     «Nel caso dei mestieri della città, anche se questi poggiano essenzialmente sullo scambio e sulla creazione di valori di scambio, lo scopo diretto e principale di questa produzione è la sussistenza come artigiani, come mastri-garzoni, e quindi il valore d’uso; non la ricchezza, non il valore di scambio in quanto tale. La produzione è quindi sempre subordinata a un dato consumo, l’offerta alla domanda, e si espande con lentezza».
Uno degli elementi che distrusse l’intero sistema artigianale feudale, fu il modo in cui si riproduceva il ruolo del maestro artigiano. Questa posizione divenne in genere ereditaria, trasmessa di padre in figlio, e dove questo non si verificava, per varie ragioni, si instaurava una competizione, che di solito si risolveva con l’emigrazione verso un’altra città dello sconfitto. In altre parole, il garzone da un certo momento in poi ebbe più la certezza di poter sopravvivere in modo accettabile in seguito al raggiungimento della condizione di maestro.

Nelle città si venne a creare un’altra categoria di salariati, intermedia, e talvolta in parte sovrapposta, tra la plebe senza mestiere e il garzone di bottega. In termini più generici, si trattava del lavoratore a contratto (Covenant man), o servitore. In genere si trattava di artigiani viaggianti che non avevano completato il loro apprendistato, o che avendolo pur fatto, e conseguito il rango di garzone, non trovavano lavoro e dovevano spostarsi in altre città. Questo "straniero" – in quanto non nato all’interno della città o del villaggio – era soggetto a regole diverse per lo svolgimento della sua attività, a seconda del mestiere, luogo e circostanze. Ai conciatetti che giungevano a Lincoln veniva semplicemente detto: «entra a far parte della corporazione, o lascia la città»; i cappellai che arrivavano a Londra venivano interrogati, per appurare se avessero abbandonato il loro ultimo maestro mentre gli dovevano del denaro.

In genere a nessuno era consentito di iniziare l’attività senza dare prova della sua capacità professionale: in genere vi era un periodo di prova, per il quale allo straniero si faceva pagare una piccola somma, di solito un penny (questo era per esempio il prezzo per poter lavorare tra i follatori di Lincoln nel 1330, e un secolo e mezzo dopo tra i calzolai di Norwich). Se lo straniero si dimostrava competente, allora si poteva stabilire un "patto" di dodici mesi, una garanzia di lavoro ad un salario cui il maestro è obbligato; questi lavoratori a contratto erano pagati al salario più basso possibile, che, nel caso della corporazione dei fornai, era la metà del salario locale. Il governo della città e le gilde si preoccupavano anche di regolare i salari del lavoro senza apprendistato, di attività che non richiedevano qualificazione.

Una volta che l’apprendista aveva compiuto il periodo prescritto presso il maestro, in teoria era pronto a mettere su una bottega in proprio, ma in realtà, di solito, continuava a lavorare per un altro periodo non definito come garzone (journeyman), pagato a giornata (journèe). Spesso il maestro aveva uno o due garzoni, del suo stesso grado sociale, e spesso era anche il figlio di un maestro dello stesso mestiere o di uno affine. Comune era anche che un garzone sposasse la figlia del maestro, mantenendo così la proprietà in famiglia. Emerge dalle nebbie del passato la "ditta familiare", così cara alla piccola borghesia dei nostri giorni.

Così, di tutti gli apprendisti e garzoni in una data bottega, solo uno, nel migliore dei casi, poteva avere un interesse diretto dell’andamento degli affari del maestro-padrone. Infatti a Londra, che fino al XVII secolo costituiva una specie di scuola di specializzazione per apprendisti, solo uno su cinque di loro era lì per diventare maestro, gli altri sarebbero partiti a cercare lavoro da qualche altra parte. Tutti si aspettavano di divenire maestri, ma quelli senza uno spazio ereditario nel mercato, o senza una bottega e strumenti ereditati, abbisognavano di un piccolo capitale per iniziare, e di conseguenza un salario sufficientemente alto. Così, anche se molti garzoni potevano essere pagati in natura, e "condividere il fondo di consumo" dei padroni, solo quelli che nutrivano aspettative ereditarie potevano permetterselo. Qui si comincia a intravedere la pressione sul sistema delle gilde. Il maestro poteva remunerare sufficientemente, in misura da consentire loro un giorno di mettersi in proprio, solo uno o due garzoni.

Era il maestro un capitalista? Il possessore di denaro o di merci si trasforma effettivamente in capitalista solo in dati casi. La somma minima da anticipare per la produzione tende a superare di gran lunga quella precedentemente necessaria. Aumenta il numero di lavoratori impiegati, e il numero che è possibile impiegare con una data quantità di capitale salari. Il tenore di vita del padrone-maestro nel medioevo non era di solito molto più alto di quello dei suoi garzoni e apprendisti, ma non vi è dubbio che il pagamento fatto principalmente in natura agli apprendisti, e spesso anche ai garzoni e ai lavoratori a contratto, significa che i consumi del lavoratore subivano un completo controllo da parte del padrone. Più tardi questo fenomeno si sarebbe cristallizzato in apprendistati sempre più lunghi, accettati nella tradizione, e nelle leggi, via via che il padrone considerava coloro che lavoravano nella sua bottega più come fonti di plusvalore che come coloro cui trasmettere "i segreti del mestiere".

Ma, a parte la questione del pagamento in natura, è importante comprendere quale sia la distinzione tra il piccolo padrone e il capitalista. Citiamo Marx, dal capitolo Saggio e massa del plusvalore del Capitale:

     «Il minimo di capitale variabile [capitale speso in salari, n.d.r.] è il prezzo di costo di una singola forza lavoro utilizzata tutto l’anno, di giorno in giorno, per ottenere plusvalore. Se questo operaio possedesse i suoi mezzi di produzione e si accontentasse di vivere da operaio, gli basterebbe il tempo di lavoro necessario per la riproduzione dei propri mezzi di sussistenza, diciamo 8 ore al giorno: quindi, avrebbe anche bisogno solo di mezzi di produzione per 8 ore lavorative. Il capitalista invece, che gli fa compiere, oltre a queste 8 ore (mettiamo), 4 ore di pluslavoro, ha bisogno di una somma di denaro addizionale per procurarsi i mezzi di produzione supplementari. Nella nostra ipotesi, tuttavia, dovrebbe già impiegare due operai per vivere, col plusvalore di cui si appropria quotidianamente, come vive un operaio, cioè per soddisfare i suoi bisogni necessari. In questo caso, la scopo della sua produzione sarebbe la mera sussistenza, non l’incremento della ricchezza, mentre proprio quest’ultimo è presupposto nel caso della produzione capitalista. Per vivere solo due volte meglio di un operaio comune, e riconvertire in capitale la metà del plusvalore prodotto, egli dovrebbe, insieme al numero di operai, aumentare di 8 volte il minimo di capitale anticipato. Certo, egli stesso può, come il suo operaio, mettere mano direttamente al processo di produzione, ma allora non sarà che qualcosa di mezzo fra il capitalista e l’operaio, un piccolo padrone».
Un esempio di questo ibrido sociale si può trovare tra i mestieri dell’edilizia medioevale. I lavoratori specializzati di questi mestieri erano nel medioevo senza dubbio i più combattivi, e in realtà molte delle prime leggi sul lavoro intendevano colpire proprio loro; una delle clausole dello Statuto del 1351 stabiliva il salario dei maestri carpentieri e dei conciatetti in tre penny al giorno, e in un solo penny per i loro "servi e garzoni" (una bella differenza, ma già nel 1500 i mastri muratori che riparavano la torre del municipio di Edimburgo ricevevano 10 penny la settimana, mentre i loro garzoni una somma quasi identica, 9 penny). Se pensiamo che nel medioevo furono costruiti circa 1.500 castelli, per non parlare delle stesse città, possiamo capire quanto importanti queste regole fossero per coloro che li assoldavano.

E il lavoro non mancava davvero. I muratori trattavano direttamente con il committente, che comprava tutti i materiali e assumeva, a prestabiliti salari giornalieri, sia i mastri muratori sia i loro apprendisti e manovali. Si trattava di produttori indipendenti, che vendevano nient’altro che lavoro, il loro lavoro specializzato.

Dal XV al XVIII secolo vi è una singolare mancanza di notizie su qualsiasi forma di associazionismo sindacale nel settore dell’edilizia, che contrasta con la combattività di quelle categorie nei secoli precedenti. La spiegazione sembra sia da ricercarsi nella crescente specializzazione dei mestieri di questo settore; i maestri venivano sempre più integrati nel sistema delle gilde, e i garzoni erano cointeressati in questo crescente corporativismo. Ma quando il costruttore capitalista, o a contratto, cominciò a fare a meno del maestro muratore, del maestro stuccatore, ecc., e questa categoria di piccoli imprenditori dovette cedere il passo a una gerarchia di lavoratori salariati, allora si ebbe l’inizio dei sindacati (Trade Unions) nel senso moderno della parola.

Dentro e fuori del sistema delle gilde il lavoro salariato si stava evolvendo. Nel capitolo La cosiddetta accumulazione originaria del Capitale, al paragrafo dal significativo titolo Legislazione sanguinaria contro gli espropriati, Marx ha da dire:

     «La classe degli operai salariati, sorta nell’ultima metà del secolo XIV, non formava allora e nel secolo successivo che una frazione esigua della popolazione totale, e la sua posizione era fortemente protetta dall’esistenza della piccola proprietà contadina autonoma nelle campagne e dall’organizzazione corporativa nelle città. In quelle come in queste, padrone e operaio erano socialmente vicini. La subordinazione del lavoro al capitale era soltanto formale, cioè il modo di produzione non aveva ancora un carattere specificatamente capitalistico. L’elemento variabile del capitale prevaleva nettamente su quello costante. Perciò la richiesta di lavoro salariato cresceva rapidamente con ogni accumulazione del capitale, mentre l’offerta di lavoro salariato la seguiva solo a lento passo. Una gran parte del prodotto nazionale, poi convertita in fondo di accumulazione del capitale, continuava allora ad entrare nel fondo di consumo dell’operaio».
La disponibilità di manodopera, nel frattempo, diveniva sempre più scarsa, a causa del gran numero di uomini richiesti nelle guerre delle Fiandre e in Francia, e per la devastazione portata dalla peste: la popolazione si ridusse di oltre un milione, su un totale stimato, prima del 1349, a tre milioni e mezzo.

Uno dei primi interventi legislativi sul lavoro salariato – sin dall’inizio tendenti allo sfruttamento del lavoratore, e da allora sempre ugualmente a lui ostili – fu l’ordinanza reale del 1349, di Edoardo III, poi confermata nello Statuto dei Lavoratori del 1351. Vi si fissa una tariffa salariale legale per città e campagna, per lavoro al pezzo e lavoro a giornata. I lavoratori agricoli devono affittarsi ad anno, quelli urbani "su mercato aperto". È vietato, pena il carcere, pagare un salario superiore a quello statuario, ma l’accettazione di un salario superiore è punita più duramente della sua corresponsione. Così anche nello statuto degli apprendisti di Elisabetta si commina una pena detentiva di dieci giorni a chi paga un salario superiore alla tariffa, di ventun giorni per chi lo riceve.

Diverse centinaia di ispettori furono nominati per spostarsi nel paese per punire gli operai che si rifiutavano di accettare i salari statuari. I casi che furono loro sottoposti furono decine di migliaia, ed il loro passaggio di contea in contea lasciava un segno di scontento e di rivolte; assalti organizzati furono portati contro tribunali in seduta nel 1351 nel Middlesex, nel 1352 nel Lincolnshire, nel 1359 a Northampton. È abbastanza significativo che nel 1364 e nel 1373 fu riaffermato nei tribunali che lo statuto doveva essere applicato agli artigiani dei mestieri, e non solo ai braccianti agricoli.

Fu concessa la detenzione di chiunque si trovasse "senza padrone" e rifiutasse un’offerta di lavoro, e di farlo lavorare alle tariffe prestabilite. Uno statuto del 1360 inasprì le pene e autorizzò il padrone a estorcere lavoro alla tariffa legale mediante costrizione fisica.

Nel 1361 una legge di Edoardo III aboliva e rendeva «nulli e invalidi tutte le combinazioni, i contratti, e giuramenti, ecc., coi quali muratori e falegnami si vincolano l’un l’altro», e ordinava «che ogni cotale artigiano sia costretto a servire il suo padrone e a compiere ogni lavoro di sua pertinenza» (guarda caso, nel 1359 ben 1.600 muratori erano stati ingaggiati, in seguito a coscrizione della Corona, per lavori di ingrandimento del castello di Windsor). Le cosiddette combinazioni erano già da tempo illegali, sin da uno statuto di Eduardo I del 1305, ma evidentemente si ritenne necessario emettere una legge speciale per meglio controllare muratori e carpentieri. Lo Statuto del 1351 sarebbe stato poi riesumato altre cinque volte prima della Rivolta dei contadini, e ogni volta le modifiche sarebbero state solo di aumento delle pene previste.

Marx:

     «La coalizione fra operai viene trattata come delitto grave dal secolo XIV fino al 1825, l’anno della revoca delle leggi contro le coalizioni. Lo spirito dello Statuto dei lavoratori del 1351 e dei suoi successori brilla di chiara luce nell’imposizione per intervento dello Stato di un massimo del salario, ma non, per carità!, di un minimo».
Queste prime leggi sul lavoro indebolirono direttamente la posizione favorevole nella quale il lavoratore salariato si era venuto a trovare grazie alla scarsità di manodopera. Sempre più erano ora i servi della gleba che pretendevano dal signore feudale pagamenti in denaro per le loro prestazioni di lavoro, fatto che la dice lunga su come si stava sviluppando una economia basata sulla moneta, e sempre più servi abbandonavano la tutela del castello per andare a vendere il loro lavoro al più alto offerente. In molti casi le leggi intendevano semplicemente preservare il vecchio sistema, ed espressamente proibivano di dare alcun denaro ai "vagabondi", "a titolo di pietà o carità". Le relazioni del Principe Nero sono piene di resoconti su come i suoi uomini cacciavano e punivano i "latitanti".

Assai interessante è il fatto che numerosi signori presentavano irose petizioni al parlamento, lamentando il fatto che spesso i contadini si mettevano insieme per assoldare avvocati e difendere in tribunale singoli casi, o che i servi formavano localmente organizzazioni per preparare scioperi, rifiutando di lavorare la terra del loro legittimo signore, e mettendo insieme il loro denaro per aiutare quelli di loro che avevano perduto casa e terra a causa di queste iniziative di lotta.

Nel 1377 fu imposto il primo testatico (poll tax), poi rivisto nel 1380 solo per essere reso tre volte più esoso. Questa tassa, studiata appositamente per sottrarre al sorgente contadiname indipendente la nuova ricchezza che stava accumulando, insieme ad una nuova epidemia di peste, fu la scintilla che innescò la Rivolta contadina del 1381. Obiettivo dei contadini e dei servi era distruggere gli archivi del castello: i resoconti scritti, e gli editti della corte del castello, o maniero, nei quali erano riportati i debiti e gli obblighi delle classi subordinate nei confronti del signore. Inoltre, la petizione che in seguito fu presentata al Re conteneva tre richieste, chiaramente rivolte alla modifica dello Statuto dei Lavoratori: 1) completa abolizione della servitù; 2) diritto alla vendita del lavoro attraverso libera contrattazione; 3) affitto della terra stabilito a quattro penny per acro. Il giorno successivo alla presentazione della petizione i contadini non incontrarono resistenza alla loro entrata nella Torre di Londra, dove, con calma, decapitarono l’Arcivescovo di Canterbury, il tesoriere del Re, il cerimoniere di Corte ed un sfortunato fraticello.

Molti artigiani sarebbero poi stati arrestati, dopo la fine della rivolta, e avrebbero rivelato in che modo una organizzazione nazionale si era formata per la preparazione della sollevazione. Numerosi apprendisti e garzoni di Londra si erano schierati con i ribelli durante l’occupazione della città, il che era anche venuto a proposito per poter massacrare i tessitori fiamminghi, cui erano stati concessi dalla Corona particolari privilegi, nella speranza che contribuissero a creare un commercio di tessuti.

Nella rivolta è anche possibile intravedere sprazzi di comunismo, nei discorsi di uno dei suoi capi, Ball. Il seguente esempio della sua predicazione ci è stato tramandato da Froissart, cronista francese dell’epoca:

     «Miei buoni amici, le cose non possono andare bene in Inghilterra, né potranno andare bene fino a quando tutte le cose non saranno in comune; quando non vi sarà vassallo né signore, e tutte le distinzioni scomparse; quando i signori non saranno più padroni che noi stessi».
Il comunismo a quei tempi poteva essere facilmente incanalato nel semplice anticlericalismo; la nobiltà feudale era fin troppo contenta di avere una base sociale per attaccare la Chiesa e toglierle tutte le proprietà – almeno finché queste nozioni dalla scomunica non si estendevano alle questioni secolari. Ci riferiamo al comunismo teologico di Wycliffe, e ai suoi legami con Giovanni di Gaunt (che dominava sul consiglio dei baroni, l’organo di gestione del governo nella prima parte del regno di Riccardo II). Di fatto diverse concessioni furono fatte, in seguito alla Rivolta, ai cittadini che avevano subìto l’interferenza nei loro affari dei locali baroni del Clero. A St. Albanz l’abbazia fu saccheggiata, a Bury priore e giudice furono messi alla berlina in piazza del mercato.

La Rivolta di fatto raggiunse gran parte dei suoi scopi nello spazio di pochi anni. Avrebbe accelerato la dissoluzione del feudalesimo, favorendo il passaggio della servitù della gleba, che contemplava la corresponsione di lavoro gratuito e altri servizi, nell’affitto in denaro (fatto che aveva dei precedenti fin dalla metà del secolo XII); questo permise a numerosi servi della gleba di comprarsi la libertà dai legami feudali, e divenire piccoli agricoltori affittuari. Nel 1429 i freeholders (piccoli proprietari) da 40 scellini l’anno si erano già conquistati il diritto di far parte delle locali Corti di Contea, e questo diritto e privilegio rimase valido fino alla Legge di Riforma del 1832. Nel 1422 il vecchio sistema dei signori del maniero era praticamente finito. Un’altra vittoria, senza dubbio, fu che la poll tax sarebbe stata cambiata, ed infatti nel 1382 una nuova poll tax fu promulgata, ma che riguardava solo i proprietari terrieri, dietro la giustificazione della "povertà del Paese". Nei nostri anni ’80 un’altra poll tax è riapparsa... ma nemmeno questa è durata.

Per quanto riguarda l’abolizione delle restrizioni sulla retribuzione dei salariati, nel 1390 fu introdotto un nuovo Statuto dei Lavoratori che dava autorità ai locali giudici di pace di fissare i livelli salariali nei loro distretti tenendo conto dei prezzi prevalenti; che poi i salari continuarono a salire sembra provato dalla raccomandazione fatta nel 1444, che essi non superassero il doppio dei livelli stabiliti nel 1390. Verso la metà del periodo Tudor i salari avrebbero cessato di essere soggetti a qualsiasi reale legislazione.

Questo proliferare di legislazione sul lavoro salariato segna l’ingresso in una nuova epoca: l’epoca del commercio e della manifattura, centrata sul commercio dei tessuti e delle materie prime.

Tra gli interessati al commercio dei tessuti troviamo un mercante, ricco in modo sbalorditivo, che divenne Sindaco di Londra 13 anni dopo la Rivolta dei contadini; così incredibilmente ricco da donare 2.000 sterline per finanziare gli arcieri nella battaglia di Azincourt, nel 1415; ancora oggi 400 pensioni di carità, vitalizi e sostegni vari sono pagati annualmente dalla sua proprietà: la Whittington Estate. Dick Whittington segna l’inizio di una nuova era. Membro della gilda dei commercianti di tessuti, l’anno successivo alla concessione alla gilda di una Carta reale (il 1394, anche se i primi riferimenti alla gilda risalgono al 1347), divenne il primo Lord Mayor di Londra. Questa gilda dei commercianti di stoffe avrebbe di fatto dominato l’attività commerciale dei mercanti avventurieri del XV secolo. Significativamente la sede delle sue riunioni sarebbe poi divenuta la prima sede della Banca d’Inghilterra – chiara prova di continuità sotto i cambiamenti. Si trattava in tutta evidenza di un nuovo tipo di gilda, e contrassegnava l’avvenuta separazione del commercio dalla produzione, fatto che avrebbe caratterizzato il periodo che stava allora iniziando.

I mercanti di stoffe (burrellears) si erano già frapposti tra tessitori e acquirenti fin dal 1300; ora compivano un ulteriore passo verso la loro trasformazione in padroni totali del settore, dei maestri e dei dipendenti di bottega. La compagnia dei merciai, mercanti che trattavano anche la vendita dei cappelli, riuscì ad assorbire la gilda dei cappellai nel corso del XV secolo. Nel 1511 solo una battaglia legale riuscì ad impedir loro di sommergere il mercato con copricapi importati a basso prezzo, e di rovinare di conseguenza i loro compagni di gilda più poveri, gli artigiani. È interessante notare che invece i tessitori, che lottarono contro i commercianti di stoffe tra il 1290 e il 1320 su una serie di questioni normative ed economiche, furono portati in tribunale, e persero la causa. E già allora dovettero subire una predica da parte del pubblico ministero, su quanto infame sia interferire col libero commercio.

Alla vigilia dell’ascesa della manifattura, appare già chiaro che commercio e produzione si stavano nettamente separando. Vale la pena di ricordare che una delle concessioni ottenute dalle classi mercantili in seguito alla Rivolta del 1381 fu la prima, e spesso ignorata, Legge sulla Navigazione, che decretava che per tutte le importazioni ed esportazioni per l’Inghilterra fossero utilizzate navi inglesi. Ma erano ancora prematuri i tempi, col commercio era ancora in gran parte nelle mani dei mercanti stranieri, che godevano della protezione della Corona, almeno fino a un certo punto: gli interessi della Corona e quelli delle città non erano a questo riguardo certamente coincidenti. Il Re traeva proventi dai dazi doganali, ed era quindi direttamente interessato ad incoraggiare il commercio con l’estero.

Ma se il funzionamento del mondo del commercio veniva modificandosi, il vecchio sistema produttivo delle gilde era ancora saldo. Le gilde mercantili, dominanti in termini di ricchezza, non potevano fare altro, in quasi tutti i campi della produzione, che comprare e vendere merci prodotte sotto il sistema lavorativo delle gilde, oppure, come spesso succedeva, partecipare alla compravendita delle materie prime e delle derrate provenienti dalla terra e prodotte all’interno del decadente sistema feudale.

Marx così riassume la situazione nel capitolo Divisione del lavoro e manifattura del Capitale:

     «La corporazione gelosa respingeva qualunque usurpazione del capitale mercantile, l’unica forma di capitale che le si ergesse di fronte. Il mercante poteva comprare tutte le merci, solo non il lavoro come merce. Era tollerato solo come agente del collocamento sul mercato dei prodotti artigiani. Se circostanze esterne provocavano una divisione crescente del lavoro, le corporazioni esistenti si frazionavano in sottospecie oppure nuove corporazioni si affiancavano alle antiche, senza tuttavia che diversi mestieri si raggruppassero nella stessa officina. L’organizzazione corporativa esclude la divisione manifatturiera del lavoro, per quanto la separazione, l’isolamento e l’ulteriore sviluppo dei mestieri che ne sono propri e caratteristici appartengano alle condizioni materiali di esistenza del periodo della manifattura. In complesso, il lavoratore e i suoi mezzi di produzione rimangono vicendevolmente legati come la chiocciola al suo guscio; manca quindi la prima base della manifattura, cioè l’autonomizzarsi dei mezzi di produzione, come capitale, di contro all’operaio. Mentre la divisione del lavoro nell’insieme di una società, sia o no mediata dallo scambio di merci, appartiene a una grande varietà di formazioni socioeconomiche, la divisione manifatturiera del lavoro è una creazione del tutto specifica del modo di produzione capitalistico».
Questo cambiamento ebbe luogo, e il sistema delle gilde sarà distrutto dalle imperative necessità del capitale.
 
 

5. L’accumulazione originaria: nelle città
 

Nelle città la situazione sociale sta cambiando. La vecchia struttura delle gilde si va frazionando: i giornalieri tendono ad associarsi per ottenere migliori condizioni, i maestri pongono ostacoli alla promozione a maestro. Questa scissione modifica anche l’organizzazione tecnica del lavoro: invece di lavorare tutti nell’antica bottega (shop) il maestro dà il lavoro a casa ai giornalieri, e paga a cottimo il lavoro finito; finisce per non lavorare più, per essere un imprenditore che acquista la materia prima, la distribuisce, e vende il manufatto ai mercanti, anzi tenta di sottrarsi a questi e di vendere direttamente, anche all’estero. Quindi la lotta di classe fra maestro-capitalista e lavoranti, attraverso scioperi e serrate; rivalità fra industriale e commerciante. Quest’ultima resta, ma per lo più mercante e imprenditore finiscono per identificarsi, almeno per il commercio interno. La prima invece si risolve in genere a favore dell’imprenditore.

La gilda così scompare, almeno come libera associazione corporativa, ed è sostituita per i suoi membri più ricchi dalle compagnie industriali e commerciali, nelle loro varie forme; ormai il quadro è definito; padroni, fisici o economici, da una parte, operai dall’altra. Né gli uni né gli altri hanno interesse a che la produzione avvenga nelle città. Per l’operaio la città non ha più l’attrattiva di un luogo dove può essere libero e appoggiato da una organizzazione. L’imprenditore poi preferisce, per poter sorvegliare meglio ed evitare il clima turbolento delle grandi città, radunare i suoi operai in qualche luogo di provincia, dove si va formando in tal modo un centro industriale. Gli operai vengono radunati in fabbriche, e così anche la distinzione fra lavoratori autonomi a cottimo e giornalieri scompare nella condizione comune di salariati.

Parallelamente lo Stato regola sempre più capillarmente i rapporti tra padroni e operai, sia nell’agricoltura sia nell’industria, fissando salari e condizioni di lavoro, sempre in modo da proteggere il padrone contro il lavoratore. La conseguenza più grave di questa politica è il crollo dei salari reali che si verifica sotto il regno di Elisabetta, la diffusa povertà e le leggi sull’assistenza ai poveri, peggiori della miseria stessa.

Lo sviluppo del capitale mercantile non avvenne in contrasto con quello terriero ma, come abbiamo visto, insieme ad esso, in quanto ormai entrambi erano in mano a puri borghesi, il cui unico scopo era quello eterno della borghesia, il raggiungimento del profitto.

Il potenziamento della flotta aveva ricevuto un impulso dai famosi cantieri navali di Enrico VIII e la perdita dei possedimenti europei, insieme all’apertura delle rotte atlantiche, diede all’Inghilterra una spinta definitiva verso i commerci, cui il paese era portato anche per la favorevole posizione geografica. Contrastata inizialmente dalle altre potenze, soprattutto dalla Spagna, l’Inghilterra non esitò a servirsi di pirati per combattere la concorrenza, e dei più ufficiali corsari, patentati a depredare dalla regina stessa.

La sconfitta dell’Invincibile Armada spagnola (1588) significò per gli inglesi un cambiamento di marcia nel loro cammino per la supremazia sui mari. Tolti di mezzo gli irregolari (pirati e corsari), i commerci (e le rapine) furono regolati direttamente dal governo con tasse e con la concessione a pagamento di monopoli. Tutto ciò ebbe una favorevole ripercussione anche sull’industria nazionale, ma non in misura tale ancora da favorirla in modo decisivo. Il potere economico restò ancora a lungo nelle mani dei proprietari terrieri capitalisti, da un lato, e delle grandi compagnie commerciali dall’altro.

Alla borghesia mancava ancora la possibilità di esercitare direttamente il potere politico, potere che sentiva di poter gestire grazie alla privilegiata posizione economica acquisita. D’altronde la monarchia assoluta cominciava a rappresentare un ostacolo ai liberi commerci, anche per la corruzione e i favoritismi che distinguevano la Corte. Infine la paura di una restaurazione della religione cattolica, con le conseguenze economiche che avrebbe comportato, costituì una caratteristica costante del periodo che precedette e seguì la Rivoluzione. Il contrasto, rimasto sopito per diverse ragioni sotto Elisabetta, venne in evidenza sotto i primi due Stuart.

I puritani costituirono il movimento borghese di opposizione alla Chiesa anglicana, prima, e alla monarchia stessa poi. Inizialmente introdotto dai protestanti che erano tornati dall’Olanda alla fine delle persecuzioni cattoliche di Maria la Sanguinaria, fece proseliti soprattutto fra le classi medie. Si trattava di una forma di calvinismo, «vero travestimento religioso degli interessi della borghesia del tempo». Erano puritane le città e quei distretti di campagna con industrie sviluppate; erano puritane le classi medie, le classi economicamente attive. Il puritanesimo andò progredendo nel corso del Seicento, identificandosi sempre più con gli interessi della borghesia commerciale.

Nella Evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza Engels così caratterizza l’intima connessione tra religione calvinista e capitalismo.

     «La dottrina di Calvino rispondeva alle esigenze della parte più ardita della borghesia dell’epoca. La sua dottrina della predestinazione era l’espressione religiosa del fatto che nel mondo commerciale della concorrenza il successo o il fallimento non derivano dall’attività o dall’abilità dell’uomo ma da circostanze indipendenti da lui. Non si tratta dunque della volontà e dell’azione del singolo ma della grazia di superiori, sconosciute forze economiche. Questo era particolarmente vero in un’epoca di rivoluzione economica, quando tutti gli antichi centri e le strade del commercio venivano sostituiti da altri, quando l’America e le Indie si aprivano al mondo e anche i più sacri articoli della fede economica – i valori dell’oro e dell’argento – cominciavano a vacillare e a crollare. Inoltre la costituzione della Chiesa di Calvino era assolutamente democratica e repubblicana; quando il Regno di Dio si faceva repubblicano come potevano i regni di questo mondo restare sotto il dominio di monarchi, vescovi e signori feudali? Mentre il luteranesimo tedesco diventava docile strumento nelle mani dei principati tedeschi, il calvinismo fondava una repubblica in Olanda e forti partiti repubblicani in Inghilterra e particolarmente in Scozia. Il secondo grande sollevamento della borghesia trovò nel calvinismo la sua dottrina di lotta bell’è pronta. Questo sollevamento ebbe luogo in Inghilterra».
Vedremo come anche in Inghilterra la borghesia non esiterà a fare del puritanesimo un "docile strumento" adattandolo alle sue mutevoli esigenze.

Con l’ascesa al trono di Giacomo I Stuart, nel 1603, le corone di Scozia ed Inghilterra sono riunite. Adesso la borghesia inglese ha a disposizione un grande Stato nazionale, un fiorente commercio sostenuto da una potentissima flotta, una posizione internazionale quasi alla pari di quella di Francia e Spagna; ha anche una ideologia per la quale i suoi partigiani potranno combattere e morire. Non le resta che prendere quel potere che le permetterà di strutturare la società secondo i suoi bisogni, spazzando via le ultime vestigia del feudalismo. Questo compito verrà assolto nel corso del secolo XVII.
 
 

6. La rivoluzione borghese
 

Il secolo XVII è decisivo nella storia inglese, l’epoca in cui si chiude il medioevo. Il secolo precedente aveva assistito alla apertura di nuove vie commerciali verso l’Estremo Oriente, ma anche alla "scoperta" di possibilità coloniali in America, mentre in Europa la crescita demografica si era accompagnata alla inflazione monetaria. Solo l’Olanda, unico paese europeo ove la borghesia era salita al potere, superò con facilità la crisi e conobbe una considerevole prosperità. Il suo predominio commerciale durò però solo finché altri paesi, più ricchi di risorse naturali e popolazione, riuscirono anch’essi a liberarsi dei vincoli feudali. Tra le varie potenze europee, l’Inghilterra fu quella che compì il balzo più prodigioso; quanto si verificò in quel paese lo mise in grado di divenire la prima grande potenza industrializzata, con un ruolo di primo piano nella politica e nell’economia del globo che sarebbe durato tre secoli.

I due campi avversi che all’inizio del secolo XVII si fronteggiavano in Inghilterra si erano formati nel secolo precedente in seguito a quella che Marx chiama “accumulazione originaria”.

La monarchia, sicura del controllo politico e militare sul paese ma sempre in cerca di finanziamenti, aveva dalla sua la tradizionale grande nobiltà feudale, da tempo in crisi, ed il Clero ufficiale, dotato di ben poco potere nel Paese e la cui autorità spirituale era sempre più minata dal sorgere di sette per lo più calviniste, "non conformiste".

Quella che chiameremo borghesia era, al contrario, un insieme di strati e figure sociali in espansione, attivi nell’accumulare denaro e nel pretendere il diritto di decidere come spenderlo. Si trattava, da un lato dei grandi commercianti ed armatori, soprattutto londinesi, e dei banchieri, dall’altro della gentry, cioè della media e grande borghesia agraria nata dalla dissoluzione dei conventi, spesso di piccola o media nobiltà, ma con una mentalità puramente borghese e commerciale.

     «Il grande enigma per il signor Guizot, che riesce a spiegarsi solo ricorrendo alla superiore intelligenza degli inglesi, l’enigma del carattere conservatore della rivoluzione inglese, è l’alleanza permanente in cui la borghesia si trova con gran parte dei latifondisti, alleanza che differenzia sostanzialmente la rivoluzione inglese da quella francese, la quale con la parcellizzazione ha eliminato il latifondo. Questa classe di latifondisti, sorta del resto già sotto Enrico VIII e legata alla borghesia, non si trovava, come la proprietà feudale francese del 1789, in contrasto con le condizioni di vita della borghesia, anzi in perfetto accordo con esse. La proprietà fondiaria di costoro in realtà non era di tipo feudale, ma borghese. Da una parte mettevano a disposizione della borghesia industriale la popolazione necessaria per l’esercizio della manifattura, e dall’altra seppero conferire all’agricoltura uno sviluppo conforme al livello dell’industria e del commercio. Di qui derivano i loro comuni interessi con la borghesia e l’alleanza con essa» (Recensioni, Guizot, 1850).
Naturalmente la linea divisoria tra le fazioni che si scontreranno negli anni ’40 non è netta, e non mancheranno transfughi dall’uno o dall’altro campo. Esisteva anche una divisione geografica, più realiste le zone del Nord e dell’Ovest inglese, mentre il Sud e l’Est e gran parte dei porti (tutte zone commerciali, manifatturiere e minerarie), con Londra, erano prevalentemente parlamentari.

La truppa alla rivoluzione fu principalmente fornita dalle campagne, ove risiedeva ancora la maggioranza della popolazione. Va però notato che tra i parlamentari, e questa fu la grande forza della borghesia, erano numerosi i figli dei piccoli contadini, degli affittuari, degli artigiani, della piccola e piccolissima borghesia che, nata dal crollo del feudalesimo, riteneva di difendere il proprio futuro lottando contro l’aristocrazia.

     «Eppure fu solo per la partecipazione di questa yeomanry e dell’elemento plebeo delle città che la lotta venne combattuta fino alla vittoria e Carlo I fatto salire sul patibolo. Perché fossero assicurate almeno quelle conquiste della borghesia che erano mature e pronte ad essere mietute era necessario che la Rivoluzione andasse molto oltre il suo scopo – esattamente come in Francia nel 1793 e in Germania nel 1848. Sembra davvero che questa sia una delle leggi della evoluzione della società borghese (...) La borghesia delle città si lanciò per prima nel movimento, i contadini medi yeomanry dei distretti rurali lo fecero trionfare. È abbastanza curioso il fatto che in tutte le tre grandi rivoluzioni della borghesia i contadini forniscano l’esercito per la lotta, mentre dopo la vittoria sono proprio la classe che viene immancabilmente rovinata dalle conseguenze economiche della vittoria stessa. Un secolo dopo Cromwell, la yeomanry inglese era quasi scomparsa» (Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza).
I proletari (braccianti, operai, servi, poveri ed altri strati nullatenenti) non costituivano nel Seicento una classe se non in senso statistico, anche se sembra rappresentassero circa la metà della popolazione; non ebbero quindi peso politico nella Rivoluzione, ma indirettamente spesso condizionarono le scelte delle parti in lotta, che temevano tumulti quando la situazione economica diventava insostenibile. Sono di questo periodo (e anche anteriori) le prime segnalazioni di associazioni operaie, di società di mutuo soccorso, di cooperative, soprattutto nei rari casi in cui si verificano concentrazioni operaie, come nelle miniere di stagno della Cornovaglia.

La cronaca dei regni di Giacomo I e Carlo I è quella di un continuo braccio di ferro tra la Corona, costretta a governare in un mondo che per qualsiasi impresa richiede somme sempre crescenti di denaro, ed i detentori di questa ricchezza, le emergenti classi medie, che prima di slacciare i cordoni della borsa pretendono che sia loro riconosciuto il diritto di partecipare alle decisioni di come sarà speso il loro denaro. Di conseguenza il Parlamento, che sempre più rappresenta tali classi, tende ad arrogarsi il potere di decidere nel campo della spesa pubblica, della politica estera, del commercio, della politica interna, della religione, per modellare il paese alla loro immagine.

La monarchia, dotata di scarse finanze (era una delle più straccione d’Europa), campava su occasionali tassazioni, la puntuale esazione delle quali richiedeva l’appoggio del Parlamento, cioè dei borghesi. La loro renitenza a pagare spinse i re a governare senza il Parlamento, e quindi ad un crescente dispotismo. Giacomo I riaffermò la teoria del regale diritto divino, e quindi dell’indipendenza dall’esecutivo; ma in pratica col Parlamento riuscì a convivere. Carlo I non dimostrò altrettanta saggezza: con gli arresti arbitrari e le prigioni riuscì ad imporre tasse senza il consenso del Parlamento, e senza il Parlamento cercò di regnare.

Anche sul piano religioso il dispotismo cercò di difendere la Chiesa di Inghilterra contro le "eresie" puritane: proibire i predicatori, innalzare le decime, una teologia che tendeva a rendere l’anglicanesimo assai simile al cattolicesimo ebbero, tra l’altro, la conseguenza di favorire l’emigrazione puritana verso l’America (famoso è l’episodio del Mayflower).

Dal 1629 al 1640 il Parlamento non fu convocato; mentre Carlo I era costretto ad una serie di misure impopolari per far soldi, misure che sempre più inviperivano la borghesia, impotente perché non organizzata, con l’eccezione forse di Londra. Il regime vivacchiava, nonostante le crescenti difficoltà a riscuotere tasse che i borghesi giudicavano illegali; ma su un fragile equilibrio che si sarebbe rotto alla prima occasione.

L’occasione venne con la guerra contro la Scozia: nel 1640 Carlo I fu costretto a convocare il Parlamento; lo sciolse dopo tre settimane (Breve Parlamento), ma nel novembre dello stesso anno dovette convocarlo di nuovo (Lungo Parlamento).

Stavolta, grazie anche a tumulti nelle campagne contro le recinzioni e a dimostrazioni di massa a Londra, la borghesia riuscì ad essere meglio rappresentata in Parlamento, ed impose al re le sue prime misure: distruzione dell’apparato burocratico, negazione della formazione di un esercito controllato dal re, abolizione delle tassazioni illegali, controllo del Parlamento sulla Chiesa.

La rivolta irlandese del 1641 fece precipitare la crisi. Il rifiuto del Parlamento di affidare un esercito a Carlo I causò al suo interno una spaccatura tra progressisti e realisti, quest’ultimi rappresentanti delle classi che temevano di perdere tutto con un rovesciamento dell’ordine costituito. Altri tumulti popolari a Londra (mercanti, artigiani, apprendisti) diedero al partito progressista il coraggio di denunciare il re nella Grand Remonstrance, atto di accusa che fu poi pubblicato e diffuso. Il re tentò di fare arrestare i capi parlamentari, poi col seguito fuggì verso nord.

Era la guerra civile; i puritani, senza un programma rivoluzionario, avevano scatenato la rivoluzione. L’unico modo di difendere le loro conquiste in Parlamento era di farne di nuove, finché divenne chiaro che l’assetto socio-economico che si stava formando era incompatibile con l’ordine costituito. Tornare indietro sarebbe stata la fine, e si andò avanti, senza coscienza ma con la irrefrenabile spinta delle gigantesche forze economiche in gestazione, che senza compromessi pretendevano un mondo a loro misura. Lo stesso Cromwell confidò ad un amico che non sapeva dove si stava andando, ma che si doveva andare.

Le operazioni militari iniziarono nell’estate 1642, dopo che le due parti furono riuscite a mettere su i loro eserciti; impresa inizialmente più difficile per il Parlamento, che mancava di un numero sufficiente di ufficiali (nobili), ma che aveva un’arma che si dimostrerà invincibile, il denaro. Inoltre quasi subito i porti e la flotta si schierarono con la borghesia, e ciò rese difficile per il re ricevere aiuti dall’esterno. Dopo le prime incertezze il Parlamento riuscì a dotarsi di un esercito forte, non solo numericamente, un esercito sotto molti aspetti di tipo nuovo (New Model Army).

Trotzki ha descritto molto bene questa fase della Rivoluzione in Dove va la Gran Bretagna.

     «Nella Gran Bretagna degli anni Quaranta del secolo XVII abbiamo un Parlamento basato sulla legge elettorale più curiosa, ma al tempo stesso considerato come il più rappresentativo. La Camera Bassa era composta di gente che rappresentava la borghesia e quindi la ricchezza nazionale. Durante il regno di Carlo I si era calcolato, non senza sorpresa, che la Camera dei Comuni era tre volte più ricca della Camera dei Lord. Il re prima sciolse il parlamento, poi, sotto la pressione delle necessità finanziarie, lo convocò di nuovo. Il parlamento si creò un esercito per la propria difesa. L’esercito concentrò gradualmente in sé tutti gli elementi più attivi, più coraggiosi e risoluti. Come conseguenza immediata, il parlamento capitolò di fronte all’esercito. Diciamo: come conseguenza immediata. Con ciò vogliamo dire che il parlamento non capitolò semplicemente dinanzi alla forza armata (non aveva capitolato dinnanzi all’esercito del re) ma dinanzi all’esercito puritano di Cromwell, che esprimeva le esigenze della rivoluzione più coraggiosamente, più risolutamente e più conseguentemente del parlamento.
     «I seguaci della Chiesa Episcopale o Anglicana, semicattolica, erano il partito della corte, della nobiltà e, non c’è bisogno di dirlo, dell’alto clero. I Presbiteriani erano il partito della borghesia, il partito della ricchezza e della cultura. Gli Indipendenti, e specialmente i Puritani, erano il partito della piccola borghesia e dei piccoli proprietari indipendenti. I Levellers erano il partito uscito dall’ala sinistra della borghesia, dai plebei. Dietro la cortina fumogena delle polemiche religiose, dietro le forme di lotta per l’organizzazione della Chiesa si poneva il problema dell’autodecisione delle classi e della loro riorganizzazione su nuove basi borghesi. Sul piano politico il partito Presbiteriano era favorevole a una monarchia controllata, gli Indipendenti, che allora erano chiamati Riformatori o, per dirla con linguaggio odierno, radicali, erano per la repubblica. Il settorialismo dei Presbiteriani corrispondeva perfettamente agli interessi contraddittori della borghesia che si poneva tra la nobiltà e i plebei. Il partito degli Indipendenti, che aveva il coraggio di portare le sue idee e parole d’ordine sino alle logiche conclusioni, soppiantava naturalmente i Presbiteriani nelle città e nelle campagne, che erano i centri delle masse piccolo-borghesi ridestate, forza principale della rivoluzione (...)
     «Alle analogie storiche si deve ricorrere sempre con la massima cautela, specialmente con analogie tra i secoli XVII e XX. Ciononostante è impossibile non essere colpiti da certe precise caratteristiche della vita e della natura dell’esercito di Cromwell che richiamano quelle dell’Esercito Rosso. Certo, nell’un caso tutto era basato sulla fede nella predestinazione e in una severa morale religiosa, nell’altro sulle norme di un ateismo militante. Ma dietro la forma religiosa del puritanismo c’era la proclamazione della missione storica di una nuova classe, mentre la dottrina della predestinazione era un tentativo di tipo religioso di procedere a una sistematizzazione storica. I combattenti di Cromwell si consideravano prima di tutto puritani e poi soldati, come i nostri combattenti si consideravano anzitutto rivoluzionari e comunisti e poi soldati. Tuttavia, gli elementi di diversità sono più grandi degli elementi di analogia. L’Esercito Rosso, creato dal partito proletario, resta lo strumento armato del partito stesso. L’esercito di Cromwell, che racchiudeva in sé il partito, diveniva di per sé stesso la forza decisiva».
Ma non si trattava di un esercizio confessionale: al suo interno la tolleranza religiosa era molto maggiore che nella società. «Lo Stato, nello scegliere gli uomini destinati a servirlo, non sta a guardare alle loro opinioni: se sono fedelmente disposti a seguirlo, tanto basta!» dirà Cromwell.

Gli ufficiali spesso venivano da ceti infimi, e facevano carriera secondo i loro meriti. Ma la disciplina e l’addestramento erano ferrei, e gli Ironsides divennero la punta di diamante dell’esercito di Cromwell, il quale rivoluzionò anche le tecniche di combattimento della cavalleria.

Dopo una serie di brillanti vittorie, che resero la sua posizione sempre più forte (e nelle quali la Provvidenza prendeva sempre le parti dei battaglioni più grossi), Cromwell nel 1646, poco prima della fine della guerra, tornò ad essere un semplice parlamentare.

Con la vittoria in Parlamento i Presbiteriani, la destra della borghesia, dopo aver subito per anni la volontà della sinistra e dell’esercito, si ritennero paghi dei risultati. Era ora di tornare a fare affari in tranquillità, e ciò richiedeva, tra l’altro, la smobilitazione almeno parziale dell’esercito, il quale, oltre ad essere costoso, era divenuto un covo di estremisti e di settari.

Ma la manovra, condotta con arroganza e taccagneria (non si voleva pagare il soldo arretrato), causò in tutti i reparti una sollevazione di quei veterani che per quattro anni avevano combattuto per i grossi mercanti di Londra. Prima nella cavalleria, poi nella fanteria, vennero eletti consigli di agitatori, una specie di Soviet ante-litteram. In questi Consigli fu determinante l’influenza di un movimento che ebbe la sua forza proprio nell’esercito, i livellatori. Questi furono forse il primo vero partito dell’età moderna, che attraverso un numero di eminenti capi e teorici (Lilburne, Walwyn, Winstanley, ecc.), si diede un programma politico democratico assai avanzato, che non avrebbe sfigurato come programma di un partito borghese dell’ottocento.

I livellatori furono la voce della piccola e media borghesia artigiana e contadina, che inconsciamente rappresentava l’anima veramente rivoluzionaria della guerra civile. Oltre a richieste contingenti, nel programma del partito livellatore figuravano suffragio universale per i maschi maggiorenni che non fossero "di condizione servile" (questo il confine di classe del moto popolare inglese: di condizione servile erano tutti i dipendenti da un padrone, i salariati); l’autogoverno locale; la più completa tolleranza religiosa; libertà di parola, stampa e riunione; fine degli eserciti permanenti e della coscrizione obbligatoria; separazione tra Stato e Chiesa; abolizione della pena capitale; tassazione proporzionale del reddito; abolizione delle decime; ecc. Winstanley andò anche più lontano, auspicando l’abolizione delle dogane interne, l’educazione universale, il monopolio statale sul commercio estero (una delle prime misure del governo sovietico nel 1917), fino a teorizzare una società di tipo socialista.

All’interno del movimento si scatenarono potenzialità ed idee fino ad allora represse; vi fu chi teorizzò l’ateismo (indice dell’estrema libertà di pensiero del decennio rivoluzionario 1642-1653), vi furono movimenti per la riappropriazione delle terre incolte e espropriate (i Digers), isolato esempio di organizzazione (di breve vita) cui parteciparono proletari; vi furono (e forse fu uno dei fatti più scandalosi) donne battagliere che apparvero sulla scena politica. Quest’anima conseguente della rivoluzione borghese conobbe una breve, esaltante stagione; il gruppo al potere dovette allora tenerne conto, e lo stesso Cromwell si schierò nel 1647 con l’esercito ribelle, che in quel momento costituiva una forza invincibile.

Cromwell ed il suo gruppo di Indipendenti tennero in quegli anni un atteggiamento tale da impedire alla rivoluzione di prendere una strada troppo radicale, ma allo stesso tempo difendendola dalle forze disgregatrici interne dei Presbiteriani, timorosi di essersi spinti troppo oltre e di trovarsi davanti a un precipizio. Il movimento nell’esercito fu portato su binari meno sovversivi, ma senza battere ciglio si lasciò catturare il re dagli agitatori; Cromwell si mise alla testa di una marcia su Londra nell’estate del ’47, ma non esitò a reprimere gli esponenti più radicali della truppa. Lo stesso Cromwell fino al 1648 fu favorevole a un ritorno del re sul trono, ma alla fine dello stesso anno epurò il Parlamento e poi condusse una campagna spietata che terminò con la decapitazione di Carlo I, dopo che la guerra era ripresa contro realisti e scozzesi.

Sistemato il problema del re, tagliati i ponti (almeno provvisoriamente) con il passato, apparve evidente a Cromwell che l’interesse della borghesia era quello dei Presbiteriani, ed è a questi che si riavvicinò nel 1649 mentre, con un altro capovolgimento di fronte, sistemò definitivamente i conti con i Livellatori nell’esercito, che cominciavano ad accusarlo di essere un dittatore. Gli arresti e le esecuzioni del maggio ’49 furono il segnale per la grande borghesia che la proprietà privata era salva, e che Cromwell poteva essere considerato il loro uomo.

Pacificato il paese, Cromwell si dedicò alla politica estera, cioè alla conquista dell’Irlanda, eterna palla al piede del proletariato inglese. L’argomento è troppo ampio per trattarlo in questa sede; basti ricordare quanto scriverà Engels nel 1869 a Marx: «Le cose avrebbero preso un’altra piega anche in Inghilterra se non vi fosse stata la necessità in Irlanda di governare militarmente e di creare una nuova aristocrazia»; e Marx «La repubblica inglese sotto Cromwell naufragò sulle coste dell’Irlanda. Non bis in idem», cioè non succederà lo stesso alla nostra rivoluzione.

L’Irlanda fu la prima colonia inglese: la sua esistenza ebbe sempre, nella storia dell’Inghilterra, l’effetto di castrare tutti i movimenti progressisti, quello democratico prima, quello proletario poi. «Dalla storia irlandese si vede quale calamità sia per un popolo l’averne soggiogato un altro» scriverà Engels a Marx; e Marx: «La classe operaia inglese non riuscirà mai a nulla prima che si sia liberata dall’Irlanda». Più tardi Engels generalizzerà: «Nessun popolo che ne opprima un altro potrà essere libero».

In patria solo i Livellatori (Walwyn) si opposero all’intervento militare, facendo propria la causa indipendentista degli irlandesi.
 
 

7. La dittatura borghese
 

Nel 1653 Cromwell rappresentava ormai solo gli interessi dei Presbiteriani, mentre il parlamento epurato (Rump) si considerava il depositario della continuità della rivoluzione puritana. A questo dualismo di poteri Cromwell mise presto fine facendo cacciare dai soldati i membri del parlamento, che ne intendevano continuare ad esercitarne le funzioni. La cacciata a pedate dei “rappresentanti del popolo”, fatto che non ci scandalizza perché il nostro rispetto dei parlamenti “liberamente eletti” non è superiore a quello di Cromwell, mostrò infine quale era il vero volto della rivoluzione borghese in Inghilterra: fu la rivoluzione dei ceti mercantili, finanziari e agrari-capitalistici, che non volevano andare più in là di quanto a loro serviva. Se utile ai loro fini, anche l’assolutismo andava bene, fosse esso sotto forma di monarchia o di dittatura personale; l’importante era che, con qualsiasi governo, fosse la loro classe quella che guidava le scelte di politica economica.

Cromwell divenne Lord Protettore, ed i cinque anni successivi videro una dittatura militare governare il paese, nel nome del più stretto conservatorismo nella Chiesa e nello Stato; i radicali furono epurati dai posti chiave, fu stabilita una censura (1655).

Alla morte di Cromwell fu chiaro che la desiderata stabilità avrebbe potuto essere mantenuta solo con un’altra dittatura (alle condizioni della grande borghesia) e Carlo II, figlio del decapitato monarca, fu invitato a tornare sul trono; pur se la scure lavorò per qualche tempo, il suo regno fu la logica e indolore continuazione del Protettorato.

Trotzki, nel suo scritto sulla Gran Bretagna, si sofferma su Cromwell, e sulla sua “semidittatura bonapartista”. Vale la pena di riportare quanto scrive su quel “pesante martello sull’incudine della guerra civile”, nella cui persona “Lutero dà la mano a Robespierre”, e sulla dittatura in generale:

     «Se si deve paragonare Lenin a qualcuno, non è certo a Bonaparte e ancor meno a Mussolini, ma a Cromwell e a Robespierre. Si potrebbe dire con un certo fondamento di verità che Lenin è il Cromwell proletario del secolo XX. Una simile definizione sarebbe al tempo stesso il più grande complimento al piccolo borghese Cromwell del secolo XVII.
     «La borghesia francese prima ha falsificato la Grande Rivoluzione, poi l’ha adottata e, dopo averla ridotta in spiccioli, l’ha messa quotidianamente in circolazione. La borghesia britannica ha spazzato via persino il ricordo della Rivoluzione del secolo XVII, dissolvendo tutto il suo passato nel “gradualismo”. Gli operai britannici d’avanguardia devono aprire la storia della rivoluzione britannica e riscoprire, entro il guscio clericale, la poderosa lotta delle forze sociali.
     «Cromwell non è stato in nessun modo un “pioniere del movimento operaio”. Ma nel dramma del secolo XVII il proletariato britannico può trovare indicazioni di grande interesse per l’attività rivoluzionaria. Si tratta anche di una tradizione nazionale, ma del tutto legittima e del tutto conveniente per l’arsenale della classe operaia.
     «Il movimento proletario ha nel cartismo una seconda grande tradizione nazionale. La conoscenza di queste due epoche è indispensabile per ogni operaio britannico cosciente. La illustrazione del significato storico della rivoluzione del secolo XVII e del contenuto rivoluzionario del cartismo è uno dei maggiori doveri dei marxisti britannici».
Il compito di Cromwell consisteva nello sferrare il colpo più micidiale possibile alla monarchia assoluta, alla nobiltà di corte e alla chiesa semicattolica, adeguata ai bisogni della monarchia e della nobiltà. Per sferrare un simile colpo Cromwell, naturale rappresentante della nuova classe, aveva bisogno della forza e dell’entusiasmo delle masse. Sotto la guida di Cromwell, la rivoluzione acquistava tutto lo slancio necessario. Nella misura in cui, tramite i Levellers, andava al di là delle esigenze della società borghese che si ridestava, Cromwell procedeva spietatamente contro gli “eccentrici”. Dopo la vittoria, cominciò a fissare una nuova legge dello Stato, combinando testi della Bibbia con le picche dei “santi” soldati, l’ultima parola spettando sempre alle picche. Il 19 aprile Cromwell disperdeva quello che era rimasto del Lungo Parlamento. Riconoscendo la propria missione storica, il dittatore puritano incitava i dispersi ad andarsene con accuse bibliche: “Ubriacone!” gridava a uno, “Puttaniere!” diceva all’altro.

Cromwell formò poi un parlamento con rappresentanti della gente timorata di Dio, cioè, in sostanza un parlamento di classe; i timorati di Dio erano gli elementi della classe media che, grazie a una ferrea moralità, avevano assolto il compito dell’accumulazione e con versetti delle sacre scritture sulle labbra si accingevano a depredare il mondo intero.

Ma anche questo strano Barebone’s Parliament ostacolava il dittatore, togliendogli la libertà di manovra necessaria in una difficile situazione interna e internazionale. Alla fine del 1653 Cromwell ripuliva una volta di più la Camera dei Comuni con la forza dei soldati. Se quello che rimaneva del Lungo Parlamento disperso nell’aprile aveva avuto la colpa di deviare a destra, di tendere a un accomodamento con i Presbiteriani, il Barebone’s Parliament era disposto su certe questioni a procedere direttamente secondo le norme della virtù puritana, rendendo così difficile a Cromwell il compito di stabilire un nuovo equilibrio sociale. Il rivoluzionario realista Cromwell costruiva una nuova società. Il parlamento non è un fine in sé, la legge non è un fine in sé, e, se Cromwell stesso e suoi “santi” consideravano che la realizzazione dei divini insegnamenti era un fine in sé, in realtà questi ammaestramenti furono solo uno strumento ideologico per la costruzione della società borghese».

Per il marxismo non sono singoli individui, per quanto eminenti e geniali, a determinare il corso della storia, ma movimenti di classi e di masse che, spesso in seguito a maturazioni durate anche secoli, rivolgono, infrangono, riformano condizioni economiche, sociali e politiche che erano rimaste immutate per lunghi periodi. È merito del marxismo l’aver svelato i motori fondamentali di questi rivolgimenti, e sempre la nostra dottrina ha irriso ai sedicenti “capi”, “condottieri”, “duci”, al folto gruppo di pretesi “uomini fatali”; al contrario, gli abbiamo sempre ritenuti povere “marionette della storia”, capaci meno di qualsiasi altro mortale di gesti volitivi, di scelte radicali nell’uno o nell’altro senso, spesso nemmeno nei confronti della loro vita privata.

Cromwell rientra nel gruppo a pieno titolo, con in più la nota di merito di esserne stato (sembra) cosciente. Non fu mai legato direttamente ad alcun movimento definito, né membro di una particolare setta religiosa; non pretese di scrivere testi sacri, né di ispirare dottrine imperiture, ma di fare il lavoro cui pensava la “Provvidenza” lo avesse chiamato. Cromwell fu un vero e onesto opportunista: quando gli chiesero di impegnarsi nella scelta tra monarchia, aristocrazia o democrazia rispose: «Una qualunque d’esse può essere buona in sé, o per noi, a seconda di come la Provvidenza la indirizza». In effetti, il rinvio alla Provvidenza era in lui segno infallibile di cambiamento politico di fronte.

Questo fu il segreto della sua vittoria, e con essa della vittoria della grande borghesia: non legarsi le mani con formule prefissate, ma gestire la situazione tenendo presenti pochi obiettivi minimi, per creare una società nella quale né classi inferiori né aristocrazia avrebbero mai potuto prendere il sopravvento. A differenza della Rivoluzione francese, in Inghilterra le due anime della rivoluzione, quella radicale e quella reazionaria, Robespierre e Napoleone, si fusero nella continuità del potere di Cromwell, e la Restaurazione, anche se impiccò il corpo senza vita del Protettore, non ne modificò la politica, se non nel senso di applicarla peggio.

Non vi è miglior epitaffio per questo servitore dello Stato borghese di una delle sue frasi più famose: «Nessuno arriva così in alto come chi non sa dove sta andando».

Tra gli storici inglesi classici e filistei, la Rivoluzione del 1642-1648 è considerata come uno strano fenomeno, difficilmente conciliabile con la pretesa correttezza legalitaria del popolo britannico; è chiamata spesso con disprezzo “Grande Ribellione”, e messa in secondo piano rispetto ai fatti del 1688-89, quando la borghesia inglese licenziò gli Stuart e chiamò una dinastia olandese, gli Orange. Questa è per loro la “Rivoluzione Gloriosa”, che scacciò un re inetto e poco patriottico, che ebbe luogo senza spargimento di sangue. Si trattò in realtà dell’assestamento finale di una società borghese che non sarebbe esistita senza il doloroso parto di quaranta anni addietro.

La “Rivoluzione Gloriosa” portò al potere gli affaristi, che non vedevano di buon occhio la decadenza del prestigio inglese che si stava verificando sotto gli Stuart, i quali d’altronde non erano riusciti a rassegnarsi alla esautorazione dell’istituto monarchico.

Ma gli Stuart non avevano fatto niente per cancellare le vere conquiste della rivoluzione, l’abolizione dei diritti feudali, le sfrenate recinzioni, l’abolizione dei monopoli e di tutti i controlli economici mal accetti dalla borghesia, una politica estera che poneva in primo piano gli interessi commerciali, la perdita di potere dei vescovi ed una maggiore tolleranza religiosa (relativamente al resto dell’Europa), un eccezionale risveglio del pensiero scientifico e filosofico.

La stessa imposizione fiscale (cresciuta con la rivoluzione a livelli ragguardevoli) era divenuta permanente e progressiva, e le antiche entrate dei feudali non esistevano più.

Alcune misure estreme naturalmente furono revocate (l’abolizione della monarchia e della Camera Alta, che comunque da allora in poi contarono ben poco), ma la società inglese del 1689 si distingueva da quella del 1660 soprattutto per la definitiva affermazione del controllo parlamentare (gentry e oligarchia mercantile) e su un forte esecutivo.

Con pochi, vigorosi tratti Marx darà una chiara sintesi del processo rivoluzionario e del suo determinismo:

     «Benché il signor Guizot non perda mai di vista la rivoluzione francese, non riesce a giungere neppure alla semplice conclusione che il passaggio dalla monarchia assoluta a quella costituzionale avviene dappertutto solo dopo lotte violente, e si compie solo dopo una fase repubblicana, e che, persino allora, la vecchia dinastia, non più in grado di governare, deve cedere il posto a una linea collaterale usurpatrice. Riguardo al rovesciamento della monarchia nella restaurazione inglese, non sa far altro che ricorrere ai più triti luoghi comuni. Non indica neppure le cause più immediate: la paura, da parte dei nuovi latifondisti creati dalla Riforma, dell’instaurazione del cattolicesimo, nel qual caso avrebbero dovuto restituire tutti gli antichi beni della Chiesa da loro usurpati, per cui sette decimi di tutto il territorio inglese avrebbe dovuto cambiare proprietario; il timore della borghesia industriale e commerciale di fronte al cattolicesimo, tutt’altro che comodo per i loro affari; la noncuranza con cui gli Stuart, a esclusivo vantaggio proprio e della loro corte, avevano venduto industria e commercio inglesi alla Francia, cioè proprio all’unico paese che facesse all’Inghilterra una concorrenza pericolosa e, alcune volte, vittoriosa; ecc.
     «Del fatto che le guerre contro Luigi XIV fossero vere e proprie guerre di concorrenza per l’annientamento del commercio e della potenza navale francese; che sotto Guglielmo III, la supremazia della borghesia finanziaria abbia ricevuto la sua prima sanzione con l’istituzione della banca e l’introduzione del debito pubblico; che, con la conseguente applicazione del sistema protezionistico, si sia dato nuovo impulso alla borghesia manifatturiera – di tutto ciò il signor Guizot ritiene non valga la pena di parlare» (Recensioni, Guizot, 1850).
Sempre da Marx:
     «La vittoria della borghesia fu allora la vittoria di un nuovo ordine sociale, la vittoria della proprietà borghese su quella feudale, della nazionalità sul provincialismo, della concorrenza sulle corporazioni, della divisione sul maggiorasco, del dominio del proprietario della terra sulla dominazione della terra sul proprietario, dell’illuminismo sulla superstizione, della famiglia sul nome della famiglia, dell’industria sulla nobile pigrizia, del diritto civile su privilegi medievali». (La borghesia e la controrivoluzione, 1848).
Con l’avvento di Guglielmo III un’altra frangia della borghesia si affacciò alla soglia del potere, la borghesia manifatturiera: ancora giovane, portava in sé i segni di un grande avvenire, insieme ad un protagonista di quell’avvenire, quello che Engels chiamerà la sua “ombra”, il proletariato industriale.
 
 

8. Ascesa del capitale industriale
 

L’espansione del capitalismo industriale fu resa possibile dalla crescita del capitale mercantile, dopo che questo ebbe portato a termine la rivoluzione borghese. Fu lo sviluppo del commercio a creare le condizioni, o meglio a imporre l’applicazione delle macchine alla produzione manifatturiera.

Marx descrive lo scenario dell’epoca in un articolo del 1853, La Compagnia delle Indie Orientali:

     «Fu dopo l’ascesa al trono di questo principe olandese – quando i Whig divennero gli appaltatori dei redditi dell’Impero, quando apparve la Banca d’Inghilterra, quando il sistema doganale protezionistico venne formalmente istituito in Gran Bretagna e definitivamente assicurato l’equilibrio delle potenze in Europa – fu allora che il parlamento riconobbe l’esistenza di una Compagnia delle Indie Orientali.
     «Quest’èra di libertà apparente fu, in realtà, un’èra di monopoli, non creati da graziose concessioni sovrane come ai tempi di Elisabetta I e Carlo I, ma autorizzati dalla sanzione delle Camere (...) In questo vediamo la prima decisiva vittoria della borghesia sull’aristocrazia feudale (...) L’unione fra la monarchia costituzionale e l’interesse finanziario monopolistico, fra la Compagnia delle Indie Orientali e la Gloriosa Rivoluzione del 1688, fu promossa dalla stessa forza che, in tutti i tempi e in ogni paese, avvicinò e combinò gli interessi liberali e una dinastia liberale: la forza della corruzione».
Per quanto riguarda i mezzi di produzione, a quel tempo in Inghilterra non si erano ancora verificati mutamenti rivoluzionari di nessun tipo. Riguardo all’agricoltura, nel 1685 i prodotti della terra superavano in valore di gran lunga tutte le altre produzioni messe insieme. Ciononostante, l’agricoltura si trovava in condizioni che oggi definiremmo primitive; gli studiosi del tempo calcolavano che la terra arabile e i pascoli coprivano poco più della metà della superficie del regno.

Engels, descrivendo l’Inghilterra del secolo XVIII ne La situazione dell’Inghilterra, del1844, scriveva dei contadini che “si trovavano ancora in condizioni preistoriche”. Del secondo aspetto della produzione, l’industria, aggiungeva:

     «La situazione delle città non era molto diversa. Soltanto Londra era un importante centro commerciale; Liverpool, Hull, Bristol, Manchester, Birmingham, Leeds, Glasgow erano ancora insignificanti. I rami principali dell’industria, la filatura e la tessitura, venivano per lo più esercitati nelle campagne o, al massimo, nel circondario delle città; la produzione di metalli e ceramiche era ancora allo stadio artigianale; cosa poteva dunque accadere nelle città? (...) Le miniere erano ancora poco sfruttate; il ferro, il rame e lo stagno giacevano ancora per lo più indisturbati nelle viscere della terra, ed il carbone veniva utilizzato soltanto per scopi domestici. In breve, l’Inghilterra si trovava allora nella condizione nella quale per disgrazia si trovano ancora la massima parte della Francia e la Germania in modo particolare, in un condizione di apatia antidiluviana verso ogni interesse universale e spirituale, in una infanzia sociale nella quale non ci sono ancora né società, né vita, né attività. Questa condizione è de facto la prosecuzione del feudalesimo e della ottusità intellettuale Medievale».
Quali erano le condizioni dell’industria britannica rispetto al resto del mondo? Se si prende come esempio il cotone, che sarebbe divenuto così importante per la potenza commerciale inglese, il settore era nelle condizioni produttive dell’India, che era in procinto di essere conquistata. Nel 1680 un membro del parlamento affermò che gli alti salari pagati nel paese rendevano impossibile ai tessuti inglesi sostenere la concorrenza dei telai indiani; un meccanico inglese, invece di svendersi come un bengalese per una monetina di rame, pretendeva uno scellino al giorno. In realtà, anche se uno scellino era il salario ritenuto giusto dai lavoratori, essi erano spesso costretti a lavorare per molto meno. Ma vale la pena notare che le lamentazioni dei borghesi su salari troppo alti, la perdita di competitività e simili sono vecchie quanto la borghesia, che non esita a ripropinarceli ad ogni occasione.

La popolazione inglese, ed in particolare quella parte coinvolta nella produzione manifatturiera, non nuotava nell’oro, e, pure se i capitalisti non avrebbero esitato a spremerla fino all’ultima goccia di sangue, appariva chiaro che per sfuggire ad una recessione si rendeva necessaria un’altra soluzione. La prima mossa del governo fu il ricorso al protezionismo.

     «L’intervento della Camera nella questione dell’East India fu nuovamente richiesto alla fine del secolo XVII e per gran parte del XVIII, non dalla classe mercantile ma da quella industriale, quando si sostenne che l’importazione di cotonerie e seterie indiane rovinava i poveri manifatturieri britannici (...) Con le ordinanze 11 e 12 di Guglielmo III, cap. 10, si vietò di portare tessuti di seta e cotone stampati o tinti in provenienza dall’India, dalla Persia e dalla Cina, e si comminò una multa di 200 sterline a chiunque li usasse o rivendesse. Analoghe leggi furono emanate sotto Giorgio I, Giorgio II e Giorgio III, in seguito alle ripetute lamentele di quegli stessi fabbricanti britannici che in seguito si dimostreranno tanto “illuminati”, cosicché, per la maggior parte del secolo XVIII, in genere i prodotti indiani vennero importati in Inghilterra per essere rivenduti in Europa e restare esclusi dal mercato metropolitano».
La manifattura del cotone era una delle più arretrate in Inghilterra. Il livello tecnico, cioè un artigianato primitivo basta su semplici filatrici e telai arcaici, indicava come la produzione avveniva ad opera di lavoratori sparsi che con essa integravano le entrate della loro fonte principale di sostentamento, l’agricoltura su piccola scala. Entrambe le attività saranno presto cancellate dagli sviluppi di agricoltura e industria. Fino al 1750 l’industria rimase principalmente concentrata nel Sud e nelle Midlands, per due buone ragioni, la vicinanza alle materie prime e ai porti; questi potevano trovarsi anche molte miglia all’interno su di una rete di fiumi e canali navigabili, che costituivano le vie di comunicazione più importanti per il trasporto delle merci. Le industrie principali, per l’interno e per l’esportazione, erano quelle della lana, del ferro e del cuoio, in ordine di importanza. La crescente abbondanza di lana e cuoio erano il risultato della rivoluzione avvenuta nell’agricoltura, non solo a causa delle recinzioni ma anche per i nuovi metodi intensivi di coltivazione.

Nei centri principali dominava ancora la figura del mercante-capitalista, che organizzava la produzione sia fornendo lavoro a domicilio sia sub-appaltando o concentrando lavoratori in opifici, ma sempre all’interno del sistema corporativo delle gilde. Non solo i capitalisti non avevano alcun incentivo a rinnovare le tecniche produttive, la stessa rigida struttura del sistema delle gilde basato su apprendisti vincolati per contratto e operai-artigiani altamente specializzati costituiva un freno a qualsiasi progresso.

I prodotti della siderurgia erano molto richiesti, ma la produzione di ferro del paese stagnava nonostante il continuo concentrarsi delle industrie del settore. La carenza di legname e carbone causò inoltre forti importazioni di ferro lavorato dalla Svezia e altri Paesi Baltici, finché non furono scoperti nuovi metodi di produzione. Il carbone fossile fornì la soluzione, ma i primi tentativi fallirono e solo verso il 1780 la tecnica era sufficientemente perfezionata da essere utilizzabile; grazie a questa innovazione l’industria riuscì a compiere enormi progressi, gettando le basi della rivoluzione industriale. Il centro dell’industria siderurgica passò dal Sussex al Galles del Sud ove, oltre ad esserci abbondanti giacimenti di carbone, era assente l’influenza delle gilde; per la stessa ragione l’industria laniera si trasferì in blocco dallo Yorkshire ad Halifax ed in altre zone. In questo settore produttivo nuovi metodi di produzione, pure se primitivi a confronto dei telai a vapore di qualche decennio più tardi, avrebbero posto fuori dal mercato la tradizionale industria dell’East Anglia, in particolare Norwich.

Le grandi possibilità di enormi profitti erano ormai chiare a tutti, ma mancava ancora una rivoluzione nel campo dei trasporti. La soluzione venne dalla costruzione di canali, inizialmente usati per trasportare grandi quantità di carbone; successivamente aprirono allo sviluppo industriale zone prima trascurate, tra cui Birmingham.

Nel 1750 la produzione di carbone era di 4,5-5 milioni di tonnellate, trasportate via mare o su carri che percorrevano le strade insicure della campagna. Il prezzo era alto, non solo a causa del trasporto, ma anche per i metodi di estrazione e per la difficoltà di liberare le miniere dai continui allagamenti. Il rivoluzionamento dei trasporti ridusse enormemente il prezzo del carbone, che poté essere alla portata di tutti nelle città; ciò particolarmente importante in un momento in cui la legna da ardere cominciava a scarseggiare. L’uso del carbone in grandi quantità liberò grandi superfici forestali già destinate a produrre legna, così indirettamente favorendo anche la produzione agraria. L’industria carbonifera avrebbe nei decenni avvenire liberato le forze titaniche – che avrebbero consentito la rivoluzione industriale – della macchina a vapore e delle ferrovie.
 

ESTRAZIONE DEL CARBONE IN GRAN BRETAGNA
Anno Produzione (migliaia t)
1700 2.148
1750 4.774
1770 6.205
1790 7.619
1795 10.080 Periodo dei canali
1854 64.700 Periodo delle ferrovie
1913 287.412

Lo sviluppo di queste forze produttive determinò il nascere di altre, nuove industrie: l’industria chimica cominciava solo allora a muovere i primi passi, mentre carbone e argilla determinarono il concentrarsi di capitali nell’industria delle ceramiche e terrecotte.
La possibilità di spostare carbone e materie prime con facilità aiutò il formarsi di concentrazioni industriali in aree particolarmente adatte, che non si erano potute utilizzare in precedenza; contemporaneamente, avvennero graduali ma costanti movimenti di grandi masse di popolazione, che dalla campagna andavano a stabilirsi nelle nuove metropoli industriali del Nord, Midlands, Galles del Sud e Scozia Occidentale. Mai nel passato si era assistito a migrazioni di tale portata, che segnarono definitivamente la morte del vecchio, pigro sistema medioevale, in cui si nasceva, viveva e moriva nello stesso posto. La struttura della società cambiava, per non tornare più indietro; ma non abbastanza velocemente per adeguarsi alle trasformazioni dei successivi decenni.
 
 

9. Teorie pre-proletarie
 

Prima di continuare nella descrizione dello sviluppo industriale, e quindi dell’emergere dei due distinte e contrapposte classi, capitalisti industriali e lavoratori salariati, vale la pena di soffermarsi sulle idee che sorsero in concomitanza con questi cambiamenti sociali. Tra queste, il Manifesto dei Comunisti cita il cosiddetto socialismo piccolo-borghese, sorto nella seconda metà del diciottesimo secolo:

     «Questo socialismo, nel suo contenuto affermativo, o intende ripristinare i vecchi mezzi di produzione e di traffico, e insieme ad essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure intende rinserrare nuovamente, con la forza, i mezzi di produzione e di traffico moderni negli schemi dei vecchi rapporti di proprietà, che essi hanno infranto e che necessariamente dovevano infrangere. In entrambi i casi è al medesimo tempo reazionario e utopistico. Corporazioni nella manifattura ed economia patriarcale nelle campagne, queste sono le sue ultime parole. Infine, quando i testardi fatti storici ebbero cacciato ogni ebbrezza di illusione, questa forma di socialismo degenerò in un miserabile piagnisteo».
In questo paragrafo del Manifesto Sismondi è indicato come la personalità più eminente di questa tendenza; in realtà egli esprimeva soltanto in forma “sviluppata” le idee che si erano diffuse in Inghilterra molto tempo prima, erano poi state riordinate e perfezionate in Francia, e quindi riportate in Inghilterra per essere “messe in pratica”.
     «Il materialismo passava nel frattempo dall’Inghilterra alla Francia, dove incontrò un’altra scuola filosofica materialista, sorta dal cartesianesimo, con la quale si fuse. Anche in Francia esso rimase dapprincipio una dottrina esclusivamente aristocratica; ma il suo carattere rivoluzionario non tardò a manifestarsi. I materialisti francesi non limitarono la loro critica alle questioni religiose; criticarono tutte le tradizioni scientifiche, tutte le istituzioni politiche dei tempi loro. Per dimostrare che la loro dottrina aveva una applicazione universale presero la via più corta: l’applicarono coraggiosamente a tutti gli oggetti della scienza, in un’opera da giganti dalla quale presero il nome, nell’Enciclopedia. Così, nell’una o nell’altra delle sue forme – come materialismo dichiarato o come deismo – il materialismo diventò la concezione del mondo di tutta la gioventù colta della Francia; a un punto tale che, durante la Grande Rivoluzione, la dottrina filosofica covata in Inghilterra dai monarchici diede un vessillo teorico ai repubblicani e terroristi, e fornì il testo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo» (Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza).
Poiché la Francia si stava preparando per la sua rivoluzione borghese era logico che assorbisse le idee del paese più sviluppato economicamente, l’Inghilterra. Ma le stesse idee, adatte per una rivoluzione in un paese come la Francia, quando erano applicate dai pratici, non-teorici inglesi divenivano reazionarie, poiché essi erano contrari ai rivolgimenti della storia, il cui andamento speravano di invertire! I “Diritti dell’uomo” in Inghilterra, nell’interpretazione data da Spencer, Ogilvie e Paine, divenivano nient’altro che un appello per una repubblica di piccoli contadini proprietari (Yeomen), proprio quello strato che nel paese stava rapidamente scomparendo. Questa scuola riesumò tutti gli argomenti della “Legge naturale”, in voga durante la rivoluzione borghese di un secolo prima, sostenendo che tutta la terra avrebbe dovuto appartenere alle parrocchie, alle quali i contadini avrebbero pagato affitti non esosi, che avrebbero costituito le sole entrate della comunità (Commonwealth). In tal modo la “Legge naturale” non contrastava con il sacro rispetto degli inglesi per l’affitto, chiunque ne sia il beneficiario. Ma, più importante, ciò avrebbe legato la popolazione ancora di più alla terra in una moderna forma di vassallaggio, come è anche dimostrato dalla richiesta di assegnare gli appezzamenti in perpetuità: così la terra avrebbe posseduto gli uomini, e non gli uomini la terra. Per il resto questa scuola riconosceva la perenne funzione dello Stato come fattore regolante i rapporti sociali.

Una reazione a queste teorie furono le posizioni anarchiche di William Goodwin. Queste idee non richiedono più di qualche commento, perché la demolizione di Proudhon operata da Marx in Miseria della filosofia è per noi più che sufficiente. Condannando lo Stato come cosa malefica, Goodwin riteneva però “naturale” la società basata sull’agricoltura primitiva. Il male poteva essere superato dalla... virtù. Non sorprende che Goodwin fosse un predicatore calvinista e che quindi tutto ciò non dovesse provenire altro che dalla Divina Provvidenza; piccole unità erano preferibili a strutture sociali ampie, ed i villaggi erano in qualche modo rappresentativi della Terra Promessa. Ognuno doveva avere una alimentazione frugale ma completa; l’evoluzione della società umana doveva quindi completarsi con l’uomo che vive di pane e noci! Una evoluzione di queste enunciazioni fu il Saggio sul Principio della Popolazione di Malthus.

Nonostante un’apparenza di linguaggio rivoluzionario usato nei suoi libri, Goodwin prese subito le distanze da coloro che vedevano ogni cambiamento solo come portato della violenza; insistette sull’uso della ragione e della persuasione come strumenti del cambiamento sociale. Durante la Grande Rivoluzione francese Goodwin pubblicò nel 1795 un opuscolo anonimo (sotto lo pseudonimo di “Amante dell’ordine”), nel quale si approvavano le misure repressive del governo e si denunciavano gli agitatori ed i democratici, cioè i suoi vecchi amici. Non c’è proprio niente di nuovo nell’anarchismo!

Passare in rassegna queste idee di riforma agraria non è un esercizio di ricerca storica: le stesse idee risorgeranno con il movimento cartista negli anni ’30 del secolo successivo, e più tardi furono riprese da Hyndman. Spacciate come una specie di punto di partenza ideologico del movimento operaio inglese, di fatto sono solo un ulteriore monumento di spazzatura reazionaria e opportunista, che serve a confondere e travisare le vere questioni con le quali la classe operaia aveva a confrontarsi. Il problema di quei tempi non erano più i Diritti dell’uomo, ma i Diritti dei lavoratori.

Le idee sopra descritte fecero un gran servizio alla borghesia francese, ma non furono di nessun aiuto per le classi dominanti in Gran Bretagna, ove la borghesia era già al potere. Anzi, come fattore potenzialmente destabilizzante, erano viste come pericolose per l’ordine costituito, al cui mantenimento la borghesia aveva allora grande interesse. Era l’eredità del compromesso del 1689, in base al quale

     «la borghesia diventò una frazione, modesta ma ufficialmente riconosciuta, delle classi governanti dell’Inghilterra, con le quali aveva in comune l’interesse a mantenere in stato di soggezione la grande massa lavoratrice del popolo. Il commerciante o il manifatturiere occupò, nei confronti dei suoi commessi, dei suoi impiegati, dei suoi domestici, la posizione del padrone che dà da mangiare, o, come si diceva ancora poco tempo fa in Inghilterra, del “superiore naturale”. Egli doveva cavarne quanto più e quanto miglior lavoro era possibile; e per arrivare a questo risultato doveva abituarli alla necessaria sottomissione. Egli per primo era religioso; la religione era stata il vessillo sotto il quale avevano combattuto il re e i Lords; non gli occorse molto per scoprire i vantaggi che si potevano trarre da questa stessa religione per agire sullo spirito dei suoi inferiori naturali, e per renderli docili agli ordini dei padroni che all’imperscrutabile volere di Dio era piaciuto di porre sopra di loro. In una parola, la borghesia inglese doveva prendere ora la sua parte nell’oppressione dei “ceti inferiori”, della grande massa produttrice del popolo, e uno dei mezzi usati a questo scopo di oppressione fu l’influenza della religione» (L’evoluzione...)
10. La rivoluzione industriale
 

Le origini della rivoluzione industriale risalgono al 1750 circa, quando apparvero le prime innovazioni nella produzione. La sua importanza non risiede nei tassi di crescita iniziali, ma nel suo impatto sulla società, poiché i cambiamenti più significativi furono proprio quelli sociali. Così scrisse anche Engels, nel 1844, ne La situazione dell’Inghilterra. Il secolo diciottesimo:

     «La rivoluzione sociale è la vera rivoluzione nella quale devono necessariamente sboccare la rivoluzione politica e la rivoluzione filosofica; questa rivoluzione sociale è già in atto in Inghilterra da settanta o ottant’anni e si avvia adesso a grandi passi verso il suo punto critico».
In ogni modo, il balzo produttivo fu impressionante; una idea abbastanza chiara della sua portata la si può avere dalle cifre sull’importazione di cotone grezzo nel diciottesimo secolo.
 
IMPORTAZIONE DI COTONE GREZZO
Anno Libbre (migliaia)
1720 1.793 Insieme a lana e lino
1730 1.545
1741 1.645
1751 2.977
1764 3.870
1781-85 10.942 Media dei 5 anni
1786-90 25.443 Media dei 5 anni
1800 56.101

Il filatoio meccanico, inventato nel 1764, permise ad una macchina servita da un operatore di aumentare la produzione di 16 volte. Quattro anni più tardi apparve il filatoio continuo di Arkwright, disegnato per funzionare con una forza meccanica diversa da quella dell’uomo. Nel 1776 queste due macchine furono combinate nel filatoio intermittente di Crompton. Nel 1787 Cartwright inventò il telaio meccanico, che però poté essere utilizzato solo a partire dal 1801.

Una cosa è inventare la macchina a vapore, un’altra è farla funzionare efficacemente. In assenza di appropriate fonderie e di macchine utensili, ogni pezzo della macchina era fatto su misura, ogni bullone fatto a mano; i macchinisti venivano istruiti individualmente sul posto di lavoro, ed anche i processi di lavorazione dovevano essere messi a punto con gradualità e quindi con gran dispendio di tempo. Per divenire la "officina del mondo" l’Inghilterra dovette prima fabbricare "le officine"; la trasformazione produttiva più rivoluzionaria della storia fu compiuta nella maniera più conservatrice possibile.

Nell’articolo del 1844 citato Engels scrisse, prendendo in esame l’industria cotoniera:

     «Queste invenzioni diedero l’impulso al movimento sociale. La loro conseguenza più immediata fu il sorgere dell’industria inglese e, prima fra tutte, quella della trasformazione del cotone. La Jenny aveva bensì abbassato il costo del refe ed aveva impresso la prima spinta all’industria con l’allargamento del mercato che ne derivò; ma non aveva portato cambiamenti di rilievo nell’organizzazione sociale dell’azienda industriale. Il movimento fu avviato dalla macchina di Arkwright e Crompton e dalla macchina a vapore di Watt, che crearono il sistema della fabbrica. Dapprima sorsero delle piccole fabbriche azionate dall’energia dei cavalli o dell’acqua, ma furono ben presto rimpiazzate da fabbriche più grandi, azionate dall’acqua o dal vapore. La prima filanda a vapore fu impiantata nel 1785 da Watt nel Nottinghamshire; ne seguirono delle altre finché presto il sistema non si generalizzò.
     «L’estensione della filatura a vapore, come tutte le altre riforme industriali contemporanee e posteriori, andò avanti con incredibile velocità (...) Adesso il telaio a vapore trovò applicazione pratica dando nuovo impulso al progresso industriale; tutte le macchine subirono innumeri miglioramenti, in sé di poca entità, ma assai importanti se considerati nel loro complesso, ed ogni nuovo miglioramento ebbe un’influenza favorevole sull’espansione di tutto il sistema industriale. Tutti i rami dell’industria del cotone vennero rivoluzionati; la stampatura fu infinitamente migliorata in seguito all’applicazione di ausili meccanici e i progressi della chimica perfezionarono i procedimenti di coloritura e candeggio; la fabbricazione di calze fu attratta nella corrente; dal 1809 si produssero a macchina prodotti fini di cotone, tulle, merletti, ecc. Mi manca qui lo spazio per seguire il progresso della lavorazione del cotone nei dettagli della sua storia; posso darne solo il risultato, che non mancherà di fare il suo effetto in confronto con l’industria antidiluviana, con i suoi quattro milioni di libbre di cotone importate, contro il filatoio, il cardo ed il telaio a mano».
Nello stesso articolo Engels descrive anche gli sviluppi delle altre branche dell’industria, della lana, della seta e del lino, la chimica, la siderurgia, ecc., nelle quali la rivoluzione dei mezzi di produzione ebbe un notevole impatto. Questo progresso non fu considerato una minaccia per le classi dominanti inglesi, bensì un mezzo per accrescere la ricchezza totale del paese e per mantenere la posizione di supremazia nel mercato mondiale.

L’unica seria concorrenza che si profilava nella seconda metà del secolo XVIII era quella della Francia che, mentre si rafforzava come potenza coloniale e marittima, stava sviluppando un suo potenziale industriale. La Guerra dei Sette anni – di Successione austriaca, 1740-1748 – fu voluta dalla classe dominante inglese proprio allo scopo di contrastare l’ascesa di questa potenza; il bilancio della guerra fu assai positivo per la Gran Bretagna, che acquisì il Canada, mentre la Francia dovette rinunciare alle sue zone di influenza in India, vide la forza navale ridimensionata e l’industria costretta ad accontentarsi di un mercato assai ristretto. Ma la Francia industriale rimase a lungo una minaccia dalla quale difendersi vietando la diffusione delle nuove tecniche industriali, l’emigrazione degli operai specializzati e perfino l’esportazione della lana.

Prima che questo pericoloso concorrente venisse a scomparire dalla scena internazionale per quasi cinquanta anni, altri scontri ebbero luogo; la guerra era in primo luogo commerciale, nel senso più squisitamente moderno del termine; per l’Inghilterra il dominio del mercato mondiale significava anche un ruolo di primo piano in Europa, e a questo scopo si creò nuovi alleati sul continente.

     «La rivoluzione francese procurò al nostro borghese inglese una splendida occasione di rovinare, con il concorso delle monarchie continentali, il commercio marittimo francese, di annettersi le colonie francesi e di farle cessare le ultime velleità di rivaleggiare sui mari. Questa fu una delle ragioni per cui combatté contro la Rivoluzione. L’altra ragione fu che i metodi di questa Rivoluzione gli ripugnavano, non soltanto detestava il suo “esecrabile” terrorismo, ma anche il suo tentativo di spingere all’estremo il dominio della borghesia. Che ne sarebbe stato del borghese inglese senza la sua aristocrazia che gli insegnava le belle maniere (degne del maestro), che inventava per lui le mode, che, custode dell’ordine all’interno, gli forniva gli ufficiali all’esercito e la flotta, conquistatrice di colonie e di nuovi mercati all’estero?
     «C’era anche una minoranza progressista della borghesia, è vero: gente i cui interessi erano usciti male dal compromesso. Questa minoranza, reclutata principalmente nella classe media meno ricca, simpatizzò con la Rivoluzione, ma era impotente nel parlamento.
     «Così, quanto più il materialismo diventava il credo della rivoluzione francese, tanto più il borghese inglese timorato di Dio si aggrappava tenacemente alla sua religione. Il regno del terrore a Parigi non aveva dimostrato a quali eccessi si arriva quando le masse perdono la religione? Quanto più il materialismo si propagava dalla Francia ai paesi vicini e veniva rinforzato da analoghe correnti dottrinali, specialmente dalla filosofia tedesca, quanto più il materialismo e il libero pensiero diventavano sul continente le qualità richieste da ogni spirito colto, tanto più tenacemente la classe media inglese si aggrappava alle sue svariate credenze. Queste credenze potevano differire le une dalle altre, ma tutte erano fortemente religiose e cristiane».
Infine, un altro fattore ebbe un ruolo fondamentale nella rivoluzione industriale: le banche. Nel 1750 il sistema creditizio era poco sviluppato, e al di fuori di Londra esistevano soltanto dodici Uffici bancari. Nel 1757 la conquista inglese dell’India significò un massiccio afflusso di ricchezza, e già nel 1796 si poteva trovare un Ufficio bancario in ogni città che avesse un mercato. Il contante abbondava nelle tasche dei banchieri, che si potevano permettere di investire nelle nuove imprese industriali, anche se gli interessi potevano impiegare diversi anni per ritornare. Una nuova fonderia costava 50.000 sterline, una somma enorme a quei tempi, ma il denaro era prontamente reperito perché il profitto era certo; in questo modo il capitale finanziario rese possibile il rapido sviluppo delle forze produttive, e quindi una virtuale conquista del mondo.

Alla fine del secolo XV la Spagna cattolica, che rappresentava il feudalesimo in declino, si era data il compito di conquistare il mondo con l’aiuto della Santa Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; tre secoli più tardi l’Inghilterra protestante rinnovò l’assalto al mondo con la nuova Trinità: vapore, cannone e sterlina. Mentre rivoluzionava le forze produttive e metteva il mondo sottosopra, trasformandolo in un immenso mercato, l’Inghilterra diveniva la roccaforte della reazione in Europa, e fece del suo meglio per mantenerla sottosviluppata da un punto di vista industriale.

Quando la Francia rivoluzionaria fu definitivamente sconfitta nel 1815, l’Inghilterra già meritava appieno l’appellativo di officina del mondo. Ma il suo predominio nel corso della prima metà del secolo XIX vide il prodursi di sintomi nuovi, di crisi commerciali e finanziarie di portata mondiale; alla lunga queste crisi avrebbero causato indirettamente l’ondata rivoluzionaria del 1848 europeo, quando un nuovo e ben più pericoloso avversario sarebbe apparso sulla scena della storia: il proletariato rivoluzionario.
 
 

11. Nascita del movimento proletario
 

Abbiamo descritto le varie fasi economiche-storiche che hanno interessato l’Inghilterra: ascesa e declino del feudalesimo, ascesa del capitale terriero e poi di quello mercantile, ed infine affermazione del capitale industriale. Si è visto come la fase industriale inizi nel 1750, ma che abbia una diffusione sociale di rilievo solo a partire dal 1780 quando le macchine cominciano ad essere perfezionate ed adattate all’uso industriale. Possiamo chiamarla fase di “gestazione”, per adeguarci alle fasi del capitalismo come definite da Marx e Engels, secondo i quali fino al 1825 il capitale inglese si trovava nella sua infanzia; l’inizio delle crisi cicliche in quello stesso anno segna il principio della fase giovanile, che si protrae fino al 1848, quando il capitalismo entra nella sua età matura.

Engels scrive in La situazione dell’Inghilterra – Il secolo diciottesimo:

     «Questo rivoluzionamento dell’industria è la base di tutti i moderni rapporti inglesi, la forza motrice dell’intero movimento sociale (...)
     «Contemporaneamente alla rivoluzione industriale sorse il partito democratico. Nel 1769 J. Horne Tooke fondò la Society of the Bill of Rights, nella quale, per la prima volta dalla repubblica, si discussero princìpi democratici. Come in Francia, i democratici erano uomini di pura cultura filosofica, che però si avvidero ben presto che le classi elevate e quelle medie erano loro avversarie e solo la classe lavoratrice prestava orecchio ai loro principi. In questa trovarono presto un partito, e questo partito era già abbastanza forte nel 1794, ma non tanto forte da poter agire diversamente che a sussulti. Dal 1797 al 1816 non se ne sentì più parlare; negli anni tempestosi fra il 1816 e il 1823 ridivenne molto attivo, ma poi, fino alla Rivoluzione di Luglio, ripiombò nell’immobilità. Dalla Rivoluzione di Luglio in poi ha mantenuto la sua importanza accanto agli altri antichi partiti e, come vedremo, lo si considera in costante ascesa.
     «Il risultato più importante del secolo XVIII per l’Inghilterra fu la creazione del proletariato ad opera della rivoluzione industriale. La nuova industria esigeva una massa sempre disponibile di lavoratori per gli innumerevoli nuovi rami del lavoro, e tanti quanti mai prima ve n’erano stati (...) L’industria concentrò il lavoro nelle fabbriche e nelle città; la convivenza dell’attività industriale con quella agricola fu resa possibile e la nuova classe di lavoratori venne resa dipendente esclusivamente dal suo lavoro. La tradizionale eccezione divenne la regola e si estese man mano anche al di fuori delle città. La coltura parcellare della terra fu eliminata dai grandi fittavoli, dando così origine ad una nuova classe di agricoltori salariati. Le città triplicarono e quadruplicarono la loro popolazione, e quasi tutto l’incremento consisteva in lavoratori. L’espansione dell’attività estrattiva richiedette parimenti un gran numero di nuovi lavoratori, ed anche questi vivevano del solo salario giornaliero».
Dal 1769 al 1780 il movimento democratico, che consisteva in una alleanza tra magnati cittadini e artigiani, fu guidato da John Wilkes. Re Giorgio III riusciva a dominare il governo insediando nelle posizioni più eminenti suoi uomini di fiducia; i “ceti inferiori” tentavano in ogni modo di contrastarlo in queste manovre. In effetti, l’influenza del re fu rapidamente ridotta dagli scontri con le colonie del Nord America che portarono alla Dichiarazione d’Indipendenza e da una serie di conquiste a favore del popolino ottenute a Londra dal movimento.

Agli inizi del 1780 passò in parlamento una risoluzione che lamentava che «l’influenza della Corona è aumentata, sta aumentando, e deve essere ridotta». La tensione era alimentata dalla paura di quanto il re aveva la possibilità di fare, soprattutto a riguardo del reclutamento di truppe cattoliche da porsi sotto il comando di ufficiali cattolici in Canada, per la guerra contro gli Stati Uniti. Questo minimo accenno a ignorare la legislazione anti-cattolica, da secoli in Inghilterra simbolo della democrazia borghese e della indipendenza nazionale, servì a richiamare lo spettro dell’assolutismo monarchico, anche se in realtà Giorgio III era protestante bigotto.

La situazione si infiammò, ed esplose per futili motivi: un deputato, certo Duca di Gordon, vide un complotto dietro un tentativo di promuoverlo ammiraglio di Scozia; una piccola folla di facinorosi lo sostenne entrando in parlamento e malmenando deputati e Lords, e sulla via del ritorno si diede a saccheggiare chiese cattoliche, il tutto indossando le coccarde caratteristiche del movimento di Wilkes. Nei giorni successivi i disordini crebbero di ampiezza e gravità, con chiese date alle fiamme, incursioni in quartieri cattolici, assalti alle prigioni: in una notte furono contati trentasei incendi. Per due settimane i rivoltosi furono padroni di Londra, e fu lo stesso Wilkes che costrinse un terrorizzato sindaco a dargli il permesso di organizzare volontari per fermare i suoi ex-sostenitori. Wilkes in persona difese, con un pugno di volontari, la Banca d’Inghilterra. Ma salvando l’ordine costituito si distrusse come capo dell’opposizione radicale.

L’alleanza che si era formata intorno a Wilkes si frantumò: i ricchi mercanti si schierarono in gran parte con i Tories, mentre gli appartenenti alle classi più basse seguirono le direzioni più disparate. Le riforme difese dal movimento di Wilkes avrebbero ritrovato il loro paladino nel partito Tory, con Pitt, che avrebbe contribuito a ridurre ulteriormente il potere della monarchia. Per quanto riguarda i ceti inferiori, le loro passioni sarebbero state risvegliate solo molto più tardi, purtroppo in nome del Re e della Patria e contro i simpatizzanti della Rivoluzione Francese.

Il movimento democratico riapparve solo negli anni ’90, per la riforma in Scozia e con la fondazione della London Corresponding Society. Nel dicembre 1792 fu convocata a Edimburgo una Convenzione da parte del movimento scozzese; nei mesi successivi il lavoro di agitazione ed i contatti diretti con la Francia rivoluzionaria (la guerra era scoppiata il 1° febbraio 1793) portarono ad arresti, processi-farsa, deportazioni in Australia. Un’altra Convenzione fu convocata nell’ottobre 1793, alla quale parteciparono anche i delegati inglesi della London Corresponding Society. I capi, inglesi e scozzesi, furono arrestati e, dopo aver subito il solito tipo di giustizia, deportati: pochi di loro sopravvissero alla dura punizione, anche per i giovani delinquenti, con i quali il governo di Sua Maestà Britannica stava iniziando a popolare l’Australia.

Il perdurare della guerra con la Francia, ed il rifiuto da parte del Parlamento di prendere in considerazione le petizioni per la riforma, portarono ad un indebolimento del movimento legale, mentre nascevano organismi di tipo cospirativo, come gli United Scotsmen e gli United Englishmen. Lo Stato da parte sua, non perdeva certo tempo, e si rafforzava sul fronte interno con mercenari tedeschi, usati con successo anche contro truppe ammutinate, e con truppe scelte a cavallo, i famosi Yeomen, che provenivano dalla piccola e media borghesia. Che questi corpi militarizzati avessero funzioni specificamente anti-operaie lo si vide subito, nel 1797 a Tranent, quando caricarono la popolazione riunita pacificamente in piazza, uccidendo decine di inermi lavoratori, e, alla mietitura, altri corpi furono trovati nei campi, dimostrando che la violenza repressiva dello Stato era anch’essa una caratteristica che faceva dell’Inghilterra della rivoluzione industriale una società “moderna”, all’avanguardia in un mondo che ancora stentava ad uscire dal medioevo.

Il colpo di grazia agli United Scotsmen fu dato da provocatori e da spie, e l’organizzazione scomparve nel 1798.
 
 

12. La London Corresponding Society
 

Questa organizzazione fu fondata nel 1792 da militanti di sinistra del movimento radicale. Il suo primo dirigente fu un calzolaio scozzese, Thomas Hardy, e ne entrarono a far parte intellettuali come John Thelwall (oratore poeta e giornalista) ed ex-seguaci di Wilkes, come Horne Tooke. Si trattava della prima organizzazione di lavoratori che difendevano i loro interessi senza confonderli con quelli della borghesia, e come tale costituisce l’inizio della storia della classe operaia in Gran Bretagna. Hardy costituì sicuramente la mente organizzativa della Società, composta principalmente di artigiani e di operai specializzati (tessitori, orologiai, carpentieri, calzolai, ecc.); in poco tempo vi si iscrissero in oltre tremila, divisi in “sezioni” di trenta membri che versavano una piccola quota settimanale; la democrazia interna prevedeva la revoca del mandato concesso ai delegati eletti.

Al centro del programma della Società era il suffragio per gli adulti, ma auspicava anche misure parlamentari tese a migliorare le condizioni delle classi meno abbienti. Anche se le sue principali attività erano la stampa di opuscoli e l’organizzazione di riunioni e dibattiti, nel pieno della legalità, esse allarmavano il governo. A causa di agitazioni verificatesi tra i lavoratori di Londra e delle Midlands, fu ordinato l’arresto di tre capi della L.C.S., Hardy, Thelwall e Tooke. Il loro processo si concluse però in una assoluzione e lo stesso avvenne in occasione di altri processi successivi.

La L.C.S. godette di una certa popolarità per qualche anno, ma il mutare della situazione interna ed esterna ed i suoi metodi strettamente legali ne causarono il declino, ed il Combination Act del 1799 fu solo l’ultimo colpo ad una struttura ormai morente. Il Combination Act, o legge contro le associazioni, che impediva in pratica qualsiasi lotta concertata tra lavoratori a scopi sindacali, era solo l’ultima di una serie di leggi emanate a partire dal 1793, anno di inizio della guerra contro la Francia. Altre leggi vietavano giuramenti di tipo illegale, oppure rendevano illegali i giornali non registrati presso il Governo, e punibili editori, tipografi e lettori, ecc.
 
 

13. Gli ammutinamenti della flotta
 

La massiccia espansione della Royal Navy portò sulle navi migliaia di nuovi marinai, la maggior parte dei quali era stata reclutata contro la propria volontà, o per leva obbligatoria o con il sistema della botta in testa.

In aprile e maggio 1797 vi furono due ammutinamenti nella flotta alla fonda a Spithead; si trattava di uno sciopero contro i bassi salari, non pagati da due anni, il cibo cattivo e insufficiente, la disciplina fatta rispettare con brutalità, ecc. Lo sciopero si estese anche alla flotta di Nore. L’ammiraglio fu rimandato a terra insieme agli ufficiali più odiati; alla fine furono strappate delle concessioni, insieme ad un’amnistia per i capi della rivolta, e lo sciopero terminò a Spithead. Ma la flotta di Nore rifiutò di accettare le concessioni, fu eletto un capo, certo Parker, col titolo di “Ammiraglio”, fu redatto un manifesto e sui pennoni furono issate bandiere rosse. Entro pochi giorni ai rivoltosi si unì anche la flotta che stava imponendo un blocco navale all’Olanda. Al governo restarono fedeli solo due navi, ed il paese si trovò per un breve ma pauroso lasso di tempo alla mercé di una possibile invasione francese, il che avrebbe dato un bel calcio in avanti alla storia.

Le navi degli ammutinati arrivarono fino a bloccare l’estuario del Tamigi, interrompendo la navigazione e facendo prigionieri. Ma con un colpo di mano alcuni ufficiali fedeli tolsero dal fiume le boe di segnalazione e le navi si trovarono nell’impossibilità di manovrare per timore di incagliarsi nelle acque basse. Le navi, anche grazie a dissidi sorti tra gli ammutinati, furono riconquistate una per una e ammainate le bandiere rosse, forse le prime nella storia del movimento operaio. Molti insorti si misero in salvo sulle lance, ma l’Ammiraglio Parker fu esemplarmente impiccato. Gli ammutinamenti furono una delle giustificazioni per la legislazione repressiva degli anni 1797-1800.
 
 

14. Il luddismo
 

Le condizioni operaie all’inizio del secolo peggiorarono rapidamente, sia per la guerra sia per l’adozione di macchine sempre più sofisticate sia per altri eventi economici sfavorevoli, soprattutto nel settore tessile nel quale le paghe scesero di oltre la metà nel periodo 1800-1818. Le due strade che restavano ai lavoratori per reagire a questo stato delle cose erano entrambe assai pericolose: la prima era l’azione fisica contro i padroni ed i loro stabilimenti, per terrorizzarli e distruggere le macchine; la seconda l’organizzazione di tipo sindacale.

I distruttori di macchine, o luddisti, apparvero nel 1802 nel Somerset, ma il movimento luddista più organizzato e duraturo ebbe inizio solo nel 1811 nel Nottinghamshire. I luddisti furono attivi fino al 1817 e in molti casi riuscirono ad ottenere importanti successi. Né il trasferimento di 12.000 soldati nel Nottinghamshire – un esercito maggiore di quello affidato a Wellington in Spagna – né l’approvazione, nel 1812, di una legge che rendeva la distruzione di macchine punibile con la morte (una legge contro la quale lord Byron pronunciò un famoso discorso alla Camera dei Lords) poterono fermarli: anche se la legge fu applicata, come a York nel 1813, quando 18 operai furono impiccati.

Ma anche la borghesia ebbe le sue vittime, come nel caso dell’assassinio di un odiato imprenditore dello Yorkshire, un certo Horsfall, che aveva proclamato di voler «spingersi a cavallo nel sangue luddista fino alla cinghia della sella». A più riprese, e per periodi di mesi, i distretti tessili furono in stato di allarme: vi furono marce e contromarce dell’esercito e di luddisti armati. Le autorità non riuscirono a penetrare nemmeno con le spie nelle strutture segrete del movimento; si sapeva che i soldati fraternizzavano con i luddisti, invece di dare loro la caccia.

Il periodo dell’attività sindacale illegale tra il 1799 e il 1825 fu di ricca esperienza per la classe operaia. I lavoratori acquisirono nuove tattiche, la combinazione di metodi illegali con quelli legali, svilupparono una forte solidarietà e la disposizione a combattere nonostante gravi rischi; ma soprattutto impararono che lo Stato, lungi dall’essere neutrale, è uno strumento della classe dei padroni.

Il Combination Act fallì nel suo obiettivo di distruggere il movimento operaio, ma è certo che nel 1824, quando finalmente fu abrogato, vi fu una vera e propria esplosione di attività sindacale.
 
 

15. I primi sindacati
 

Le prime associazioni di lavoratori, dette Trade Clubs (Club di mestiere), erano composte di operai qualificati, che erano stati apprendisti, e di artigiani, talvolta ex-padroncini proletarizzati. Nel diciottesimo secolo questi club erano poco estesi, di solito non valicavano i confini della città; solo più avanti club dello stesso mestiere e di città diverse avrebbero iniziato a federarsi e a formare Unioni, Trade Unions; e ciò avrebbe anche significato un salto di qualità del movimento. Ma all’inizio del secolo XIX queste società di lavoratori avevano ancora le caratteristiche di confraternite, i cui membri erano ammessi solo se dello stesso mestiere, dopo complicati cerimoniali di iniziazione, simili a quelli della Massoneria. Le sedi dei club erano di solito taverne (i “pub”) e la loro attività era articolata: in primo luogo si beveva birra in compagnia, come ricreazione dopo il duro lavoro quotidiano; si iniziavano gli apprendisti che entravano a pieno titolo nel club; si raccoglievano fondi da accantonare e da utilizzare nell’eventualità di malattie o sepolture dei membri (quest’ultima attività sarà un’ottima copertura legale nel periodo in cui i sindacati saranno illegali); lavoratori si rivolgevano al club per trovare occupazione (una specie di Borsa del Lavoro ante litteram); infine il club si interessava agli aspetti normativi del mestiere (apprendistato, condizioni di lavoro, ecc.), attività che presto diverrà predominante, e che trasformerà i club in veri e propri sindacati.

I club, che avevano quindi più le caratteristiche di società di mutuo soccorso, erano inizialmente visti dai padroni, che talvolta ne facevano parte, come iniziative non pericolose, e raramente venivano disturbati. Ma quando cominciarono ad unirsi, a livello nazionale o di aree abbastanza estese, per ragioni diverse dalla birra o dalle sepolture, formarono organizzazioni formidabili e la repressione iniziò ad abbattersi su di esse. Pur nella poca chiarezza della legislazione del Settecento e nell’erraticità della sua applicazione, in genere erano ritenute di dubbia legalità. Esistevano circa quaranta leggi che le proibivano in specifici mestieri, e qualsiasi giudice era pronto a giudicare illegale ogni associazione tesa a far aumentare i salari. D’altro canto, organismi padronali che chiedevano la regolamentazione dei salari da parte del Parlamento o il rispetto di leggi esistenti a tale riguardo ricevevano ben altro trattamento: il Parlamento ascoltava con comprensione petizioni che gli inviavano, e di solito li accontentava.

Ciononostante, i sindacati continuarono a fiorire fino alla fine del secolo, perché la farraginosità del meccanismo repressivo e la confusione legale rendevano la repressione delle lotte sociali, se non impossibile, spesso tardiva; e poco importava al padrone che qualche operaio fosse messo in galera o mandato ai lavori forzati quando il danno era già stato fatto. Ma nel 1799, in seguito ad una petizione dei padroni dei mulini, in parlamento passò una legge che rendeva illegale qualsiasi associazione per conseguire interessi economici. L’animatore dell’iniziativa fu Lord Wilberforce, il cui impegno per la liberazione dei negri dalla schiavitù in America era l’altra faccia del suo impegno per mantenere gli operai bianchi quasi nelle stesse condizioni in Inghilterra.

Anche grazie all’effetto di questa legge, il Combination Act, il periodo 1800-1815 fu in genere un periodo di sconfitte per questi primi sindacati. In alcuni settori economici la repressione fu maggiore che in altri, soprattutto dove i magistrati locali erano sotto l’influenza diretta dei padroni, come nelle industrie cotoniere e minerarie dell’Inghilterra settentrionale. I minatori, che in Scozia erano rimasti servi della gleba fino al 1755, subivano continue repressioni. Per quanto riguarda i lavoratori cotonieri, basta citare quanto scrisse Francis Place:

     «Le sofferenze di coloro che lavoravano nella manifattura del cotone andavano al di là dell’incredibile; erano attirati in false associazioni, che erano poi tradite, perseguitate, e gli operai imprigionati, condannati a punizioni mostruosamente severe; le loro condizioni di esistenza divennero terribili».
Non è quindi sorprendente che il Nord dell’Inghilterra, nel secondo decennio del secolo, fosse un grande campo di battaglia sindacale. Ed è quasi inutile aggiungere che alla testa del movimento si trovavano i filatori di cotone e i minatori. Le lotte culminarono nello sciopero del Lancashire del 1818, nel quale i lavoratori tessili lottavano non solo per salari più alti, ma soprattutto per le condizioni di lavoro ed in particolare per la regolamentazione del lavoro femminile ed infantile. La lotta si estese alla Scozia, dove i tessitori fecero tesoro dell’esperienza dei loro fratelli inglesi, costituendo sindacati e gettandosi con passione nella lotta.

La fine della guerra con la Francia avrebbe segnato l’inizio di nuove ondate di lotte, su una scala assai più vasta.
 
 

16. Effetti della rivoluzione industriale
 

Prima di parlare della ripresa delle lotte di classe che seguì la fine delle guerre napoleoniche nel 1815, vale la pena di fare qualche richiamo sulla fase di sviluppo raggiunta dal capitalismo. Una chiara sintesi di questi aspetti si può trovare nella prefazione che Engels scrisse nel 1892 all’edizione inglese del suo opuscolo L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza:

     «Dividiamo la storia della produzione industriale a partire dal Medioevo in tre periodi. 1. Artigianato, piccoli capi artigiani con pochi garzoni e apprendisti. Ogni operaio elabora il prodotto completamente; 2. Manifattura, in cui un gran numero di operai, riuniti in un grande opificio, elaborano il prodotto secondo i principi della divisione del lavoro, facendo ogni operaio solo una operazione parziale, cosicché il prodotto è terminato solo dopo esser passato attraverso le mani di tutti; 3. Industria moderna, in cui il prodotto viene elaborato dalla macchina messa in movimento da una forza, e il compito dell’operaio si riduce alla sorveglianza e alla correzione dell’azione del meccanismo».
Ognuno di questi periodi è il prodotto delle fasi che l’hanno preceduto, che nella nostra narrazione si identificano con quelli che abbiamo chiamato del capitale terriero (1), del capitale mercantile (2), e del capitale industriale (3). Il periodo di cui ci occupiamo è di infanzia del capitale industriale, dell’industrialismo moderno, ma rappresenta anche l’apice raggiunto dal secondo periodo, quello della manifattura, e l’inizio del suo declino a causa dell’introduzione dei moderni macchinari. È nel corso del trapasso tra l’uno e l’altro che si viene a formare il moderno proletariato industriale.

Lasciamo ancora a Engels il compito di delineare i tratti essenziali di questa transizione:

     «Mentre in Francia l’uragano della rivoluzione aveva ripulito il paese, in Inghilterra avveniva una rivoluzione più silenziosa ma non perciò meno poderosa. Il vapore e le nuove macchine utensili trasformarono la manifattura nella grande industria moderna e rivoluzionarono così tutta la base della società borghese. Il sonnolento processo di sviluppo del periodo della manifattura si trasformò in un vero periodo di sviluppo tempestoso della produzione. Con velocità sempre crescente si compì la scissione della società in grandi capitalisti e proletari nullatenenti: tra queste due classi, invece del ceto medio ben definito di una volta, una massa instabile di artigiani e di piccoli commercianti, la parte più fluttuante della popolazione, conduceva ora un’esistenza malsicura. Il nuovo modo di produzione divenne il modo di produzione normale e, date le circostanze, l’unico modo possibile. Ma già allora produceva inconvenienti sociali stridenti: assembrarsi di una popolazione senza sede nei peggiori quartieri delle grandi città; dissolversi di tutti i legami tradizionali, della subordinazione patriarcale, della famiglia; sopralavoro, specialmente delle donne e dei fanciulli, in misura spaventosa; enorme demoralizzazione della classe operaia gettata improvvisamente a vivere in condizioni del tutto nuove: dalla campagna alla città, dall’agricoltura all’industria, da condizioni stabili a condizioni malsicure e mutevoli di giorno in giorno».
La situazione descritta da Engels era quella delle città, nelle quali la rivoluzione industriale si sviluppava febbrile. Ma nel 1815 la gran parte degli inglesi lavorava ancora la terra, o in attività collegate all’agricoltura, anche se entro una generazione il rapporto agricoltura/industria si sarebbe invertito: già nel 1830 circa metà della popolazione lavorava in settori dell’industria. Nel paese grandi concentrazioni urbane si stavano formando nell’Inghilterra del Nord-Ovest, nel Galles del Sud, e tra gli estuari del Forth e del Clyde. Nei primi trenta anni del secolo Birmingham e Sheffield raddoppiarono di popolazione, Liverpool, Leeds, Manchester e Glasgow crebbero in misura ancora maggiore. Londra contava nel 1815 circa un milione di abitanti, che raggiunsero la cifra di 1.274.000 nel giro di soli cinque anni.

I sopravvissuti tra i 30.000 inglesi che avevano partecipato alla battaglia di Waterloo fecero ritorno in un paese che stava rapidamente cambiando d’aspetto, e la cui ricchezza cresceva di giorno in giorno, grazie ai nuovi metodi di produzione e trasporto. Trovarono che le zone industriali erano ancora una piccola parte del paesaggio, e che la gran parte delle città inglesi erano ancora pittoreschi paesini di campagna. Gran parte di essi fece ritorno in villaggi che erano ancora il baricentro della vita inglese, ma avevano ormai quasi completato la trasformazione iniziata nei secoli precedenti; le campagne erano adesso completamente bonificate, lavorate, delimitate e recintate in una misura che avrebbe sbalordito i loro nonni. Quasi tutti i campi aperti erano stati recintati; e gli erbai e le paludi che erano stati della comunità erano anch’essi tutti recintati. Ciò significava, tra l’altro, che l’agricoltura era divenuta più efficiente: erano ormai ben conosciuti i nuovi metodi di aratura, di rotazione delle colture, di allevamento del bestiame, anche se non ancora adottati ovunque.

Più terra era ora in mano ad un numero minore di ricchi proprietari, che l’affittavano a fittavoli; gran parte dei piccoli contadini avevano perduto la terra, ed i braccianti ed altre categorie nullatenenti si erano trasferiti nelle nuove città. Chi restava era privo dei vecchi diritti feudali sulle terre comuni (legnatico, caccia, pascolo, ecc.) e doveva accontentarsi di una dieta sempre più magra. Il bracconaggio, ormai una necessità, poteva significare una pena di sette anni di deportazione. La fame era uno spettro che quotidianamente aleggiava su un grandissimo numero di focolari.

Per chi aveva terra da coltivare la situazione era meno grave, anche perché alla fine della guerra furono approvate leggi che stabilivano prezzi minimi per i cereali, le Corn Laws, in modo da frenare le importazioni; così i piccoli e medi agricoltori, fittavoli e proprietari, il cui numero era stato in costante declino, tirarono un respiro di sollievo. Ma i principali beneficiari furono naturalmente i grandi proprietari, che innalzarono prontamente gli affitti; ed i più danneggiati, altrettanto naturalmente, furono gli appartenenti alle classi povere di città e campagna, operai e braccianti.

Nonostante ciò non vi furono nelle campagne rivolte da parte degli strati più poveri della popolazione, come era da aspettarsi, soprattutto grazie al cosiddetto “sistema Speenhamland”, che non era altro che un meccanismo di sussidi per gli indigenti, l’ultimo di una serie iniziata ai tempi della regina Elisabetta: i poveri venivano mantenuti in vita, anche se nella più nera miseria, con fondi provenienti dalle tasse locali; in questo modo i ricchi agricoltori ed i padroni delle manifatture potevano corrispondere salari infimi, che bastava superassero di poco i sussidi. Talvolta erano addirittura inferiori, e la parrocchia si faceva carico della differenza. Entro qualche lustro il proletariato inglese si renderà conto che questo tipo di “assistenza” per quanto terribile, poteva ancora essere peggiorato.
 
 

17. Agitazioni politiche
 

Alla fine della guerra le agitazioni operaie, che non erano mai realmente cessate, esplosero in una miriade di dimostrazioni e adunate. La lotta sindacale si fuse immediatamente con la lotta per la Riforma parlamentare, Hunt e Cobbett fraternizzarono con i dirigenti sindacali, ed i lavoratori organizzati divennero i loro più fedeli lettori e ascoltatori.

Le donne formarono le loro associazioni femminili per la Riforma: alle loro riunioni non si parlava solo delle posizioni e del pensiero di Cobbett, ma anche dei problemi peculiari del mondo del lavoro. Il 5 luglio 1818 la Female Reform Association indisse un raduno di massa di lavoratori di entrambi i sessi, nel quale l’oratore principale era una donna. La risoluzione espressa dai partecipanti fu la seguente:

     «Grazie ai progressi meccanici, i mezzi per produrre la maggior parte degli articoli agricoli ed industriali sono progrediti in modo stupefacente; ne segue necessariamente che i lavoratori industriali dovrebbero ricevere una quantità di prodotti di gran lunga maggiore che prima di tali miglioramenti; invece, a causa di tasse e di leggi restrittive, sono ridotti alla miseria. Brogli elettorali e tirannia devono essere tolti di mezzo. Se non si fa così, migliaia dei nostri compatrioti dovranno morir di fame in mezzo all’abbondanza. Nessun uomo può avere il diritto di sfruttare il lavoro di un altro uomo senza il suo consenso. Osserviamo con orrore la quantità di sinecure e di redditieri mentre noi viviamo nella povertà, nella schiavitù e nella miseria. Protestiamo contro tutte le imposizioni ingiuste e contro natura, contro le leggi sul grano e quelle contro le coalizioni operaie. Domandiamo: suffragio universale, assemblee annuali e scrutinio segreto».
Una settimana dopo cittadini di Birmingham si riunirono in una pubblica assemblea e, come protesta contro i brogli e il diritto di voto ristretto, “elessero” il maggiore Cartwright e Sir Charles Wolseley al Parlamento.

Il momento culminante di tali dimostrazioni fu Peterloo (16 agosto 1819). Né la repressione né i tradimenti erano riusciti a fermare la crescita del movimento. Grandi comizi tenuti a Londra, Birmingham e altrove furono seguiti da preparativi per una riunione di tutto il Lancashire a St. Peter Fields presso Manchester, località che fu ribattezzata dai lavoratori Peterloo come analogia spregiativa con Waterloo. Il lavoro di preparazione si svolge accuratamente in tutte le città e villaggi circostanti. Il 16 agosto gruppi con bande e bandiere, dei quali facevano parte numerose donne, si avviarono verso il luogo della riunione in perfetto ordine, con una disciplina che agli occhi delle autorità appariva più terrificante di ogni precedente disordine. Mentre l’oratore si apprestava a parlare un reparto di ussari e la yeomanry di Manchester furono scagliati contro la folla. Sembra che i soldati si siano limitati ad obbedire agli ordini ricevuti, la yeomanry invece, rappresentante più diretta della borghesia, si gettò contro il popolo disarmato con eccezionale violenza: presto si contarono undici morti e circa 400 feriti. Il governo cercò di giustificare il massacro asserendo che il comizio era un tumulto che probabilmente preludeva alla rivoluzione, i dirigenti furono condannati a lunghi anni di prigione e il governo sfruttò l’occasione per far approvare i cosiddetti Siv Acts, che portarono la repressione legalizzata al massimo mai raggiunto.

In Scozia l’agitazione continuò con ritmo accelerato. I radicali inglesi del Sud e i capi della Trade Unions del Lancashire e dello Yorkshire si guadagnarono le simpatie dei lavoratori e dei commercianti scozzesi, specialmente di Paisley, Glasgow e Carlisle, e costituirono delle organizzazioni nella maggior parte dei distretti industriali.

     «Il diavolo sembra scatenato fra di noi urlando dietro la sua preda – scriveva in una lettera un terrorizzato Walter Scott, uno dei pochi intellettuali che sostenevano il governo – A Glasgow, i Volontari si esercitano di giorno e i Radicali di notte e soltanto la forza militare tiene il popolo sottomesso».
Il 2 aprile 1820 fu affisso un proclama che invitava il popolo a chiudere le fabbriche e le officine e ad astenersi dal lavoro finché non fosse concesso il suffragio universale. Il proclama, che le autorità considerarono “profondamente sedizioso e proditorio”, era firmato da “Il comitato per l’organizzazione di un governo provvisorio”. Circa 60.000 operai, di cui molti minatori, sospesero il lavoro. Entrambe le parti in conflitto pensavano che ciò preludesse a una insurrezione armata, ma nessun ordine di insurrezione fu mai impartito. Tuttavia una piccola schiera di scioperanti, spinti con l’inganno a un’azione prematura dal solito agente provocatore, ingaggiò una scaramuccia con un distaccamento del decimo Ussari a Bonnymuir; gli insorti furono sconfitti, e molti feriti e fatti prigionieri. Numerosi arresti in altre parti del paese misero presto fine alla rivolta. Molti furono i condannati, dei quali tre alla pena capitale.

Lo Stato usciva vincitore da questi primi scontri con un proletariato che ancora doveva imparare a organizzarsi e a lottare, anche se la passione dimostrata nelle rivolte non ha niente da invidiare a quella di altre lotte che seguiranno, in altri paesi e in altri tempi. La borghesia invece aveva appreso in fretta come utilizzare al meglio le sue energie, concertando sapientemente l’uso della polizia e degli agenti provocatori, dell’esercito, di corpi di volontari antesignani delle squadre fasciste, della legislazione antioperaia.
 
 

18. Il movimento radicale
 

Dopo la scomparsa indolore della London Corresponding Society deve passare qualche anno prima che altre ideologie e dottrine si occupino dei cambiamenti sociali che si stanno verificando.

Nel 1805 Charles Hall pubblica Effetti della Civiltà, un’opera che, pur se poco conosciuta dai contemporanei, influenzerà Spence e gli owenisti. Il libro di Hall è basato su osservazioni personali degli effetti della rivoluzione industriale in particolare e della proprietà privata in generale, ma mostra anche chiare tracce di ampie letture della letteratura economica e socialista, specialmente di Adam Smith, di David Hume, di Thomas Paine e di Goodwin. L’autore è un deciso avversario dell’industria, degli scambi e del commercio, e considera l’agricoltura come l’occupazione più utile e benefica. Perfeziona la dottrina dell’antagonismo di interessi fra capitalisti e classi lavoratrici, dottrina che si trova in embrione in La Ricchezza delle Nazioni di Smith, ma che è sviluppata in modo rivoluzionario da Hall, che fu il primo socialista che tenta una dimostrazione statistica dell’enorme “ingiustizia” del profitto, che egli considera come sottratto in modo “illecito” dal prodotto del lavoro e dal “naturale” compenso del lavoro.

La posizione di Hall nella storia del socialismo è qualcosa di mezzo fra il "diritto naturale", o "socialismo etico", e il socialismo proletario o rivoluzionario. Costituisce la prima interpretazione delle opinioni del nascente lavoro organizzato. Mostra come lo sviluppo della civiltà porta da un lato ad una fioritura di scienza, tecnologia, commercio e manifattura, e dall’altro all’esistenza di una grande maggioranza della popolazione in condizioni di povertà, o che preludono alla povertà, estromessa dai godimenti che questa società potrebbe elargire. La divisione della società in ricchi e poveri è il marchio più sconvolgente della civiltà. Il costituirsi delle industrie ha provocato un peggioramento spirituale e materiale della vita dei lavoratori; sono stati tolti alla terra, che quindi produce meno, ed i prodotti agricoli costano sempre di più, e ciò deprime ulteriormente le condizioni dei poveri.

Gli economisti sono accusati di vedere solo gli effetti del capitale sulla produzione, ma non quelli sulla struttura e il benessere della società. Il cosiddetto libero contratto di lavoro è una finzione, poiché i poveri possono scegliere soltanto tra morte per fame e schiavitù. Gli interessi del capitale e del lavoro, dei non-produttori e dei produttori, sono irrimediabilmente opposti gli uni agli altri. Le situazioni del ricco e del povero, come i segni algebrici più e meno, sono in diretto contrasto, e si annullano a vicenda.

Hall dimostra con calcoli precisi che gli otto decimi della popolazione (quelli che lavorano e producono) riceve un ottavo di tutta la ricchezza prodotta nel paese, mentre i due decimi nullafacenti incassano i sette ottavi della ricchezza; insomma, già all’inizio dell’Ottocento, un lavoratore lavorava sette giorni per il capitalista, e solo un giorno per sé e la sua famiglia.

Poiché, secondo Hall, tutti i mali derivano dalla divisione diseguale della terra, la soluzione sarebbe la nazionalizzazione e redistribuzione delle terre da coltivare. Ma il significato della sua opera va cercato essenzialmente nella critica del sistema produttivo. Come Hall conferma in tarda età in una lettera a Spence, il suo progetto vale poco, perché lascia il capitale e il lavoro salariato inalterati. Il sistema capitalistico ha caratteristiche così dannose ed incorreggibili che non lo si può emendare, ma solo distruggere.

Il movimento radicale conobbe una ripresa a partire dal 1812. Una delle prime manifestazioni di questa rinascita fu la fondazione dei cosiddetti Hampden Clubs, il primo dei quali nacque a Londra ad opera di ricchi riformatori. Con il tempo ne entrarono a far parte sempre più proletari, che non avevano più fiducia nelle sporadiche rivolte che qua e là ancora si verificavano, seguite però sempre da puntuali e spietate repressioni, e che riponevano ormai le loro speranze in metodi di lotta legali. Le rivendicazioni del movimento, anche se tale non poté mai realmente essere a causa delle leggi vigenti, si estesero al suffragio universale, all’abolizione delle leggi sul grano e dei Combination Acts. Gli Hampden Clubs, anche se organizzarono in certi momenti un buon numero di lavoratori, non possono però essere considerati come parte integrante del movimento operaio.

Un altro segno della ripresa fu la fondazione, da parte di Thomas Spence, socialista utopistico, di una associazione poi chiamata dei “Filantropi spenceani”. Si trattava di abili propagandisti e agitatori, molti dei quali ex membri della London Corresponding Society, che invocavano una “rivoluzione della proprietà”, che restituisse la terra al popolo, come unico mezzo per eliminare la misera causata dalla guerra. Il popolo, con il possesso della terra, sarebbe stato in grado di consumare i prodotti industriali e l’aumento dei consumi avrebbe promosso la produzione. Questa soluzione, oltre ad essere utopistica, non teneva assolutamente conto dello sfruttamento dei lavoratori dell’industria.

Gli spenceani – non risparmiati dalla repressione dello Stato – furono molto attivi nell’organizzare dimostrazioni popolari per riforme politiche e sociali; tra queste vi furono i raduni a Spa Fields (novembre-dicembre 1816), che portarono a tumulti ed al processo per alto tradimento di tre membri dell’associazione. I tre furono però assolti perché il difensore dimostrò che il principale testimone dell’accusa era una spia. Ad ogni buon conto, nel marzo 1817 il Parlamento approvò un decreto per la soppressione dell’associazione, perché aspirava alla confisca e redistribuzione della terra e ripudiava il debito pubblico. Contemporaneamente, fu rinnovato il Corresponding Act del 1799, che proibiva ogni comunicazione tra società politiche.

L’unico gruppo che rimase attivo fu quello di Arthur Thistlewood, che, in base alle esperienze maturate ed in particolare dopo il massacro di Peterloo, abbandonò i metodi pacifici e si diede ad attività cospiratorie; ma alcuni dei suoi compagni si rivelarono spie del governo, e la congiura di Cato Street, che prevedeva l’assassinio dei membri del governo come premessa ad un’insurrezione, costò la vita a lui ed a tre suoi compagni, che furono impiccati a Negate il primo maggio 1820, data che sarebbe divenuta storica nel movimento operaio in avvenire.

Questo periodo ebbe come risultato la trasformazione del socialismo utopistico in un più deciso movimento per la Riforma, e in una agitazione per il cooperativismo; entrambi intendevano porsi come alternative agli effetti brutali del nuovo modo di produzione. La scuola che ebbe inizialmente più successo fu quella guidata da Robert Owen.
 
 

19. I primi sindacati nelle industrie
 

Abbiamo visto come i Trade Clubs dei lavoratori delle manifatture, composti principalmente di lavoratori specializzati, più artigiani che operai nel senso moderno della parola, non poterono essere soppressi dal governo e dal padronato, e divennero una componente inevitabile della vita sociale inglese dalla fine del Settecento. Ma anche i nuovi proletari, gli operai delle grandi fabbriche che stavano sorgendo, che disponevano solo della loro forza lavoro, a differenza dei primi che erano proprietari dei loro attrezzi, iniziarono a costituire associazioni a difesa dei loro bisogni e rivendicazioni. Essendo questi operai non qualificati, le loro organizzazioni accettavano tutti coloro che partecipavano al processo della produzione come salariati. Così nascevano i sindacati nella loro forma moderna, pur se ancora clandestina a causa delle persecuzioni borghesi.

Gli inizi furono difficili e le sconfitte frequenti: la debolezza delle organizzazioni e la loro necessità di clandestinità le costringeva a non disdegnare alcun mezzo per la difesa degli interessi degli iscritti. Engels ne parla nella sua insuperabile opera La situazione della classe operaia in Inghilterra:

     «Già prima si erano avute associazioni segrete tra operai, le quali però non avevano potuto ottenere grandi risultati. In Scozia (...) nel 1812 tra l’altro si era svolto uno sciopero generale tra i tessitori di Glasgow, organizzato da un’associazione segreta. Lo sciopero si ripeté nel 1822, e in tale occasione due operai che non avevano voluto aderire all’associazione, ed erano quindi considerati dagli associati come traditori della loro classe, vennero colpiti in viso con il vetriolo e perdettero la vista. Anche l’associazione dei minatori scozzesi era abbastanza forte da poter effettuare nel 1818 uno sciopero generale. Queste associazioni, le quali esigevano dai loro membri un giuramento di fedeltà e di segretezza, avevano registri, casse e contabilità regolari e diramazioni locali. Ma la clandestinità in cui tutto si svolgeva ne impediva lo sviluppo. Quando invece, nel 1824, gli operai ottennero il diritto di associarsi liberamente, queste società si rafforzarono e si diffusero ben presto in tutta l’Inghilterra».
Parlando più avanti delle attività e dell’organizzazione interna di questi sindacati Engels prende come esempio i filatori di Glasgow:
     «Dai dibattiti risultò che l’associazione dei filatori di cotone, che esisteva qui fin dal 1816, era eccezionalmente forte e bene organizzata. Gli associati erano vincolati da un giuramento alle decisioni della maggioranza, e durante ogni sciopero entrava in funzione un comitato segreto, sconosciuto alla grande maggioranza degli iscritti, il quale poteva disporre liberamente dei fondi. Il comitato stabiliva taglie sulla testa dei crumiri, di fabbricanti odiati, e premi per incendi nelle fabbriche. Venne così incendiata una fabbrica nella quale erano state assunte per la filatura crumiri donne al posto degli uomini».
Le lotte di difesa delle condizioni di lavoro e per i salari avevano in quel periodo caratteristiche di vera guerriglia. Ma una copertura legale era indispensabile. Le organizzazioni sindacali difendevano i fondi raccolti necessari alle lotte truccandosi da Società di Mutuo Soccorso, che servivano a provvedere a spese che il proletario non avrebbe potuto affrontare, per lunghe malattie, le onoranze funebri di un familiare, una pensione quando il meccanismo produttivo lo avrebbe espulso. Pur se parte dei fondi erano realmente utilizzati per gli scopi dichiarati, molto serviva per l’agitazione e come fondo per gli scioperi. La vita non fu facile nemmeno con la copertura legale, che i padroni cercavano continuamente di smascherare, considerando coloro che si organizzavano per difendersi dalla loro avidità come pericolosi rivoluzionari, se non addirittura veri e propri criminali.

Nel 1818, in seguito allo sciopero del Lancashire, vi fu il primo tentativo di superare i limiti della fabbrica e della categoria, unendo diversi sindacati in una organizzazione più ampia, una General Union of Trades.

Nel Lancashire si erano verificati scioperi nell’industria cotoniera, con l’obiettivo di eguagliare i salari al livello dei proletari meglio pagati. L’obiettivo sembrava possibile perché l’economia era in una fase di ripresa, ed i salari dovevano semplicemente recuperare il potere d’acquisto che avevano nel 1810. I primi a muoversi furono i filatori, in gran parte disorganizzati, che raggiunsero un compromesso e tornarono al lavoro; poi fu la volta degli addetti ai telai meccanici, che scendevano in lotta per la prima volta nella loro storia, ma il loro sciopero fu stroncato dall’uso combinato di crumiri trasportati da Burton-on-Trent e delle truppe, con conseguenti rivolte e arresti. Qualche mese dopo gli scioperi ripresero in altre categorie (fabbriche di mattoni, tintorie, falegnami), che invece riuscirono a vincere la resistenza padronale. Nel frattempo i tessitori a mano si organizzavano e convocarono una conferenza della Contea allo scopo di unire gli sforzi di tutte le categorie. L’iniziativa si estese alle Contee confinanti, e ricevette sostegno finanziario da numerose associazioni di mestiere, anche da Londra.

L’entusiasmo per il successo delle lotte condotte in modo concertato portò all’iniziativa di riunire per la prima volta tutti i lavoratori, appunto alla General Union of Trades, o Philantropic Hercules, che era il nome della copertura ufficiale. Delegati inviati a Londra presero contatto con gli operai dei cantieri navali, allora i meglio organizzati della metropoli, che erano molto interessati all’iniziativa. Ma il tentativo precorreva i tempi e naufragò insieme alle grandi lotte sindacali che l’avevano ispirato, mentre il padronato riprendeva il controllo della situazione (l’epoca coincide con quella del massacro di Peterloo, dell’agosto 1819).

Ma l’idea di un sindacato generale rimase tra gli operai dei cantieri navali di Londra, e sicuramente contribuì alla fondazione dell’analogo Metropolitan Trades Committee del 1831. Nel 1819 un’altra società “filantropica” fu fondata a Londra sulla falsariga di quella precedente di Manchester; un giornale, “The Gorgon”, ne divenne la voce, così distinguendosi da tutti i giornali radicali dell’epoca.
 
 

20. Il riformismo utopistico di Robert Owen
 

Negli anni successivi le energie migliori del movimento furono concentrate su tentativi di riformare la vita di fabbrica per via legislativa, nei quali spiccò la capacità organizzativa di Robert Owen e di altri uomini politici, come Peel il Vecchio. Riprendiamo il nostro Engels:

     «Apparve come riformatore un industriale ventinovenne, un uomo dal carattere di fanciullo, semplice sino al sublime e ad un tempo dirigente nato. Robert Owen aveva fatta sua la dottrina dei materialisti dell’illuminismo, secondo la quale il carattere dell’uomo è, da una parte, il prodotto dell’organizzazione in cui nasce e, dall’altra, delle condizioni che lo circondano durante la vita, e specialmente durante il periodo del suo sviluppo. La maggior parte degli uomini del suo ceto vedevano nella rivoluzione industriale solo confusione e caos, che permettevano di pescare nel torbido ed arricchirsi rapidamente. Egli vide in essa invece l’occasione per applicare il suo principio favorito e così mettere ordine nel caos. Lo aveva già tentato con successo a Manchester come dirigente di una fabbrica di più di cinquecento operai; dal 1800 al 1829 diresse in qualità di condirettore le grandi filande di New Lanark in Scozia seguendo gli stessi principi, ma solo con maggior libertà di azione e con un successo che gli procurò rinomanza europea.
     «Una popolazione, che salì a poco a poco a 2.500 unità e che originariamente si componeva degli elementi più svariati e per la massima parte fortemente demoralizzati, fu da lui trasformata in una perfetta colonia modello, nella quale l’ubriachezza, la polizia, il giudice penale, i processi, l’assistenza ai poveri, il bisogno di beneficenza erano cose sconosciute. E tutto questo semplicemente per il fatto che egli mise quella gente in condizioni più degne dell’uomo e, soprattutto, fece educare accuratamente la generazione nuova. Egli fu l’inventore degli asili d’infanzia e li introdusse qui per la prima volta. A partire dal secondo anno di vita i bambini venivano a scuola dove tanto si divertivano che a stento potevano essere ricondotti a casa. Mentre i suoi concorrenti facevano lavorare da tredici a quattordici ore al giorno, a New Lanark si lavorava solo dieci ore e mezza. Allorché una crisi cotoniera costrinse a fermare il lavoro per la durata di quattro mesi, agli operai in ferie fu corrisposto il pieno salario. E, così stando le cose, lo stabilimento aveva più che raddoppiato il valore e corrisposto sino all’ultimo ai proprietari un lauto profitto (...)
     «In una tale maniera, tipica del mondo degli affari, e, per così dire, frutto del calcolo commerciale, sorse il comunismo di Owen. E mantenne sempre lo stesso carattere orientato verso la pratica. Così nel 1823 Owen propose di eliminare la miseria irlandese mediante colonie comuniste e allegò al progetto calcoli perfetti sulle spese di impianto, sulle spese annue e sui redditi prevedibili. E così nel suo piano definitivo per l’avvenire, l’elaborazione tecnica dei dettagli, compreso lo schizzo, la planimetria e la vista in prospettiva è condotta con tal cognizione di causa che, una volta ammesso il metodo di riforma sociale proposto da Owen, anche dal punto di vista di uno specialista ben poco si può dire contro quella particolare organizzazione».
Ma quando Owen, inizialmente da tutti lodato come filantropo, iniziò a teorizzare una forma utopistica di comunismo, ebbe modo di scoprire quale trattamento la classe dominante può riservare a chi mette in dubbio e combatte i fondamenti stessi della sua esistenza.
     «Messo al bando dalla società ufficiale, sepolto nel silenzio dalla stampa, impoverito dal fallimento di esperimenti comunisti in America ai quali aveva sacrificato tutta la sua fortuna, si volse direttamente alla classe operaia e rimase a lavorare nel suo seno per altri trent’anni. Tutti i movimenti sociali, tutti i veri progressi che in Inghilterra sono stati realizzati nell’interesse degli operai, sono legati al nome di Owen. Così nel 1819, dopo una lotta quinquennale, riuscì a fare approvare la prima legge per la limitazione del lavoro delle donne e dei fanciulli nelle fabbriche. Così presiedette il primo congresso in cui le Trade Unions di tutta l’Inghilterra si riunirono in un’unica grande organizzazione sindacale. Così introdusse, come misure di transizione verso l’organizzazione completamente comunista della società, da una parte le società cooperative (di consumo e di produzione), che da allora hanno per lo meno fornito la prova pratica che tanto il mercante quanto il fabbricante sono persone delle quali si può benissimo fare a meno, dall’altra parte gli empori del lavoro, istituzioni per lo scambio dei prodotti del lavoro per mezzo di una carta-moneta-lavoro la cui unità era costituita dall’ora lavorativa; istituzioni che necessariamente dovevano fallire, ma che anticipavano in modo perfetto la banca di scambio proudhoniana di molto posteriore, e se ne distinguevano proprio perché non volevano rappresentare la panacea di tutti i mali sociali, ma solo un primo passo per una trasformazione molto più radicale della società.
     «Il modo di vedere degli utopisti dominò a lungo le idee socialiste del secolo XIX e in parte le domina ancora. Ad esso, fino a poco tempo fa, si inchinavano tutti i socialisti francesi e inglesi, ad esso appartiene anche il comunismo tedesco degli inizi, compreso quello di Weitling. Il socialismo è per tutti loro l’espressione della assoluta verità, della assoluta ragione, della assoluta giustizia e basta che sia scoperto perché conquisti il mondo con la propria forza (...)
     «Così stando le cose, non poteva allora venir fuori altro che una specie di socialismo medio eclettico, quale effettivamente regna sino ad oggi nella testa della maggior parte degli operai socialisti in Francia e in Inghilterra, una miscela che ammette un’infinita molteplicità di sfumature, e che risulta da ciò che hanno di meno cospicuo le invettive critiche, i principi di economia e le rappresentazioni della società futura dei vari fondatori di sette; miscela che si ottiene tanto più facilmente quanto più ai singoli elementi componenti, nel corso della discussione, vengono smussati gli angoli acuti della precisione, come ciottoli levigati nel torrente. Per fare del socialismo una scienza, bisognava anzitutto farlo appoggiare su una base reale».
Il giovane proletariato inglese, dopo i primi tentativi di organizzazione e di lotte, che spaziavano dalle associazioni legali alle ribellioni armate, aveva subito una serie di dure sconfitte che lo spinsero a cercare nuove vie per migliorare le sue condizioni di vita e di lavoro. Fu in questo periodo che il riformismo di Owen ricevette maggior seguito.

Ma questo tentativo non era però capace di risolvere i problemi della classe operaia. L’owenismo non avrebbe resistito né alla critica dei fatti di un giovane capitalismo in crescita, la cui espansione inarrestabile minava la vita delle cooperative, né alla critica dell’economia di Ricardo, che faceva crollar i sogni operai di possedere il loro prodotto, né ai cicli commerciali che, alimentando la lotta di classe, distruggevano qualsiasi visione di pace sociale. L’utopismo inglese era già stato fatto a pezzi dall’espansione capitalista prima di essere superato dalla critica marxista.
 
 

21. Legalità sindacale
 

Mentre il capitalismo continuava la sua crescita inarrestabile e non si intravedevano strade per por sollievo al terribile sfruttamento del proletariato, la lotta sindacale apparve infine come l’unica via per la difesa quotidiana della classe. Le società di mestiere ripresero forza e la loro vitalità, pur nella necessaria clandestinità, convinse anche i circoli radicali a mettere nei loro programmi l’abrogazione del Combination Act.

Le agitazioni del 1824-25 sostennero l’azione parlamentare di Francis Place e di altri radicali. Place e i suoi sostenitori benthamisti ed economicisti sostennero che gli effetti della legalizzazione sarebbero stati di freno e non di stimolo dell’azione dei sindacati; fermamente convinti che i salari fossero determinati dalle leggi inesorabili della economia politica, e che l’azione dei sindacati fosse incapace di modificarli se non entro margini insignificanti, sostennero che la libertà di associazione avrebbe presto insegnato ai lavoratori la futilità delle lotte e li avrebbe indotti piuttosto a collaborare con i padroni per incrementare il “fondo salario”, strettamente legato al profitto dell’impresa, che non a condurre una inutile guerra contro il capitalismo.

Con questo Place non intendeva dire che le associazioni operaie sarebbero scomparse; al contrario credeva fermamente nell’utilità dei Trade Clubs di operai specializzati nel regolare le condizioni di lavoro. Sarebbero stati i grandi sindacati a scomparire, e i lavoratori si sarebbero resi conto della sostanziale comunità di interessi tra Capitale e Lavoro.

In realtà, la legge di abrogazione del 1824 fu immediatamente seguita da una massiccia ondata di scioperi. Trade Clubs e Trade Unions, fino a quel momento conosciuti come Società di Mutuo Soccorso, uscirono alla luce del sole, pubblicando i loro statuti e appelli agli operai perché si iscrivessero ai sindacati; e gli scioperi si diffusero quasi istantaneamente in gran parte delle aree industriali.

La ripresa delle lotte era però legata solo in parte all’abrogazione delle leggi contro le associazioni; nel 1824 la crescita del commercio stava raggiungendo l’euforia, con la conseguenza di accresciuti investimenti interni ed esteri, inflazione del credito, nascita di enormi e subitanee fortune legate a speculazioni industriali e di Borsa. Categoria dopo categoria il proletariato industriale si lanciò nella lotta per recuperare il livello di vita degradato da lustri di “austerity”.

Come stava avvenendo per gli schemi utopistici di Owen, i progetti dei riformisti borghesi per conquistare e tener sottomessa la classe operaia svanirono all’improvviso e sarebbero stati necessari diversi decenni prima che tali idee di collaborazione tra le classi potessero iniziare a farsi strada in quella che sarà chiamata aristocrazia operaia. Ma negli anni ’20 del secolo scorso la classe operaia aveva ormai acquisito le armi essenziali della lotta contro l’eterno palese nemico, e la chiarezza nel saper distinguere i nemici dissimulati; la crisi della seconda metà del decennio non ne avrebbe fiaccato la forza, al contrario alla lotta sindacale si sarebbero affiancate forme di lotta precedenti ma non sopite, come il luddismo nelle zone industriali ed il terrorismo di “Capitan Swing” nei distretti agricoli.

Questa classe operaia avrebbe ispirato a Marx il famoso discorso dell’aprile 1856:

     «Questo antagonismo fra l’industria moderna e la scienza da un lato e la miseria moderna e lo sfacelo dall’altro; questo antagonismo fra le forze produttive e i rapporti sociali della nostra epoca è un fatto tangibile, macroscopico e incontrovertibile. Qualcuno può deplorarlo; altri possono desiderare di disfarsi delle tecniche moderne per sbarazzarsi dei conflitti moderni, o possono pensare che un così grande progresso nell’industria esiga di essere integrato da un regresso altrettanto grande nella politica. Da parte nostra non disconosciamo lo spirito maligno che si manifesta in tutte queste contraddizioni. Sappiamo che per far funzionare le nuove forze della società occorrono semplicemente degli uomini nuovi – e questi sono gli operai. Essi sono l’invenzione dell’epoca moderna, come lo sono le macchine (...) Gli operai inglesi sono i primogeniti dell’industria moderna. Perciò non saranno certo gli ultimi a dare una mano alla rivoluzione sociale generata da questa industria; una rivoluzione che significa l’emancipazione della loro classe in tutto il mondo e che sarà altrettanto universale quanto il dominio del capitale e la schiavitù del salario. Conosco le eroiche lotte sostenute dalla classe operaia inglese dalla metà del secolo scorso in poi – lotte meno famose perché lasciate nell’oscurità e passate sotto silenzio dagli storici borghesi» (Opere, vol. XIV, p. 656).
Gli anni che seguiranno saranno contrassegnati dai tentativi della classe operaia di darsi una guida politica tutta loro, il fattore soggettivo della lotta di classe, il partito.
 
 

22. Economia pre-marxista
 

Engels, commentando i diversi tipi di sviluppo del movimento proletario in Europa, scrisse:

     «Gli inglesi sono giunti alla conclusione [della necessità della rivoluzione comunista] praticamente, per il rapido aumento della miseria, della degradazione e del pauperismo nel loro paese; i francesi politicamente, reclamando dapprima la libertà e l’eguaglianza politiche e poi, visto che ciò non bastava, aggiungendo alle loro rivendicazioni politiche la libertà sociale e l’eguaglianza sociale; i tedeschi sono diventati comunisti filosoficamente, ragionando sui primi principi» (Progresso della riforma sociale sul continente, Opere, Volume III).
Di fatti, una serie di scuole di pensiero ha avuto un peso non trascurabile nel movimento operaio inglese.

Ben presto le opere di studiosi come Adamo Smith sul capitale finanziario ed industriale, ed in particolare sulle questioni della ricchezza e del valore, furono riprese ed utilizzate per una critica del meccanismo esistente di distribuzione della ricchezza. Già abbiamo parlato delle prime intuizioni di Charles Hall; altro fu Thomas Spence, che scrisse un testo dal sintomatico titolo Perich Commerce, Muoia il commercio, ripreso da James Mill.

All’improvviso la borghesia si sentì attaccata, non più solo sul fronte rivendicativo sul livello dei salari; l’attacco era adesso diretto a mettere in discussione i fondamenti stessi dell’economia borghese. Questa pericolosa tendenza doveva essere combattuta a tutti i costi, per non perdere posizioni nella guerra di contenimento della classe operaia.

La borghesia non poteva quindi fare a meno di prendere in considerazione e studiare la natura dei nuovi rapporti economici, sia come funzionamento del sistema di fabbrica e della sua economia, sia nelle conseguenze di questo sistema sulla società nel suo insieme.

L’identificazione del valore con il lavoro dimostrata da Ricardo costituì ulteriore materiale di polemica per gli “economisti del lavoro“.

Nel 1821 apparve in un opuscolo anonimo la frase “plusprodotto o capitale“, espressione più tardi ripresa e sviluppata da Marx nel Capitale. Persino la “grande prova“ di Bentham, la massima felicità per il più grande numero di uomini, fu utilizzato per attaccare il giovane sistema capitalistico.

Nella prefazione al secondo volume del Capitale, Engels ricorda:

     «Il nostro opuscolo è solo l’estremo avamposto di tutta una letteratura che fra il 1820 e il 1830 volge la teoria ricardiana del valore e del plusvalore nell’interesse del proletariato contro la produzione capitalistica e combatte la borghesia con la sue proprie armi. Tutto il comunismo di Owen, in quanto si presenta sotto un aspetto economico-polemico, si fonda su Ricardo. Accanto a lui, però, si trova tutta una schiera di scrittori, dei quali Marx già nel 1847 cita soltanto alcuni contro Proudhon (Miseria della filosofia), Edmonds, Thompson, Hodgskin, ecc., ecc., e ancora quattro pagine di ecc.
     «Da questa congerie di scritti, ne scelgo solo uno a caso: An inquiry into the principles of the distribution of wealth, most conducive to human happiness, di William Thompson (1822): ”L’aspirazione costante di ciò che noi chiamiamo società consisteva nell’indurre, con l’inganno o la persuasione, la paura o la costrizione, il lavoratore produttivo a compiere il lavoro, dietro compenso della più piccola parte possibile del prodotto del suo stesso lavoro“».
Facciamo parlare Marx:
     «L’epoca successiva, dal 1820 al 1830, si distingue in Inghilterra per la vitalità scientifica nel campo dell’economia politica. Fu il periodo tanto della volgarizzazione e diffusione della teoria ricardiana, quanto della sua lotta contro la vecchia scuola. Si celebrarono brillanti tornei. Al continente europeo le imprese di allora sono poco note, perché la polemica è in gran parte dispersa in articoli di riviste, scritti di occasione e pamphlet.
     «Il carattere spregiudicato di questa tenzone – sebbene, eccezionalmente, la teoria ricardiana vi sia utilizzata già come arma di attacco all’economia borghese – si spiega con le circostanze dell’epoca. Da un lato, la stessa grande industria usciva appena dalla sua infanzia, come basterebbe a dimostrarlo il fatto che solo con la crisi del 1825 essa inaugura il ciclo periodico della sua vita moderna; dall’altro, la lotta di classe fra capitale e lavoro era messa in ombra, politicamente dal contrasto fra governi e feudatari, schierati intorno alla Santa Alleanza, e le masse popolari sotto la guida della borghesia, economicamente dalla contesa fra capitale industriale e grande proprietà aristocratica che, celata in Francia dietro l’antagonismo fra piccola e grande proprietà fondiaria, in Inghilterra scoppiò in forma aperta dopo l’introduzione delle leggi sul grano. La letteratura economica inglese durante questo periodo ricorda l’epoca di Sturm und Drang economico seguita in Francia alla morte del dottor Quesnay, seppur soltanto come l’estate di San Martino ricorda la primavera. Col 1830 intervenne una crisi per sempre decisiva.
     «La borghesia aveva conquistato il potere in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta di classe, sul piano pratico come sul piano teorico, assunse forme sempre più nette e minacciose. Essa suonò la campana a morto per l’economia scientifica borghese. Il problema non era più se questo o quel teorema fosse vero, ma se fosse utile o dannoso, comodo o scomodo per il Capitale, lecito o illecito dal punto di vista poliziesco. Alla ricerca disinteressata subentrò la rissa a pagamento, alla indagine scientifica obiettiva subentrarono la coscienza inquieta e le cattive intenzioni dell’apologetica. Eppure, perfino gli importuni trattatelli lanciati per il mondo dall’Anti-Corn-Law League, con in testa i fabbricanti Cobden e Bright, offrivano ancora, con la loro polemica contro l’aristocrazia terriera, un interesse, se non scientifico, almeno storico. La legislazione libero-scambista inaugurata da Sir Robert Peel tolse anche quest’ultimo pungiglione all’economia volgare» (Poscritto alla seconda edizione del I Libro del Capitale, 1873).
Le critiche degli economisti anticapitalisti (o “del lavoro“) inglesi degli inizi dell’Ottocento costituiscono parte integrante della visione marxista, proletaria, del mondo.

La borghesia fu costretta sulla difensiva proprio dall’organizzarsi delle masse operaie. Il vero inizio della politica di classe si ebbe quando queste cominciarono a rendersi conto che i loro interessi erano differenti ed opposti a quelli delle altre classi. L’opposizione dei proletari non si limitò solo al piano sindacale, ma sconfinò ben presto in quello politico ed economico. La borghesia, che era stata poco tempo prima una classe rivoluzionaria, cedette questa posizione al proletariato, per trincerarsi in posizioni di conservazione.

Il periodo dal 1825 al 1830 vide proseguire, nella legalità di recente conquistata, l’attività sindacale, anche se nel 1825-26 si ebbe una crisi commerciale. Si trattava della prima manifestazione della serie dei cicli commerciali: alcuni anni di boom, seguiti da un crollo, disperazione, disoccupazione finché il commercio riprendeva, iniziando un nuovo ciclo.

Gli economisti si affannavano cercando di spiegare il significato di quanto stava accadendo, che anche all’interno del movimento della classe operaia (lo chiameremo così d’ora in poi, piuttosto che movimento radicale, all’interno del quale la classe operaia con le sue lotte era riuscita ad esprimersi) provocava discussioni su questioni come sfruttamento, valore del lavoro, natura del commercio, ecc..

Marx elogia in numerosi scritti le opere di economisti inglesi. Tra i tanti (elencati anche da Engels nella introduzione al Libro II del Capitale) prende particolarmente in considerazione alcuni, quali Hodgskin e Thompson. Nei loro lavori fu presa in esame la natura del capitalismo, ed ebbe spazio anche la lotta di classe. Non si trattava di attività di intellettuali fine a se stessa, gran parte di quel lavoro raggiungeva il movimento operaio sotto forma di conferenze, alle quali partecipavano molti di coloro che sarebbero divenuti dirigenti del movimento cartista.
 
 

23. Hodgskin e la nuova classe operaia dell’industria
 

La grande differenza tra le polemiche in Francia e in Germania negli anni ’40 del secolo passato e quelle in Inghilterra degli anni ’20 è che nel primo caso si tentava di arginare il nuovo sistema economico, mentre nel secondo le lotte al suo interno erano considerate inevitabili e necessarie. Gli economisti anticapitalisti inglesi cercavano strade per risolvere i problemi a vantaggio dei lavoratori dell’industria, e non per far tornare indietro la storia, come nel caso di Proudhon, ecc.

Poiché quotidianamente intorno a loro si svolgeva la lotta di classe, era ovvia la necessità di perseguirla fino alle sue ultime conseguenze. Fu in questa situazione che si tentò di erigere costruzioni teoriche e piani per la futura riorganizzazione della società. Ma il capitalismo si trovava solo alla soglia della sua fase giovanile, e il soggetto per la soluzione delle contraddizioni sociali, il proletariato industriale, non si era ancora completamente formato. Fu questa la sola ragione per cui i progetti rimanevano limitati, basati più su speranze che su forze materiali, il che ce li fa definire come utopistici. Ciò però niente toglie al valore della critica al capitalismo nel suo insieme allora condotta, che si dimostrò spesso superiore a quella di numerosi socialisti successivi.

Marx avrebbe dimostrato che queste critiche del capitalismo erano divise in due gruppi, quelli che erano per la lotta di classe come Hodgskin e Thompson, e quelli che caddero in errori simili a quelli di Proudhon, predicando l’introduzione di buoni-lavoro come forma di moneta, come Bray e Gray.

I due gruppi erano divisi principalmente sul dove si trovasse la soluzione: all’interno dei rapporti di produzione, cioè riducendo il prelievo di plusvalore, o nel campo della distribuzione. Nella tendenza rivoluzionaria si verificherà un’ulteriore spaccatura, tra una forma di sindacalismo ed un socialismo in embrione. Tra le idee più difese e combattute fu la errata rivendicazione del diritto all’intero prodotto del lavoro da parte del produttore.

Thomas Hodgskin è conosciuto soprattutto per la sua opera Difesa del lavoro, pubblicata nel 1825, nel momento più caldo delle lotte per la legalizzazione dei sindacati. Tenne inoltre una serie di conferenze per i lavoratori al London Mechanics’ Institution, in seguito pubblicate sotto il nome di Economia Politica Popolare.

Hodgskin non aveva dubbi sul fatto che vi fosse una lotta di classe fra capitale e lavoro e persino l’agitazione per la riforma democratica non era altro che un tentativo di deviare la classe operaia dal suo scopo rivoluzionario, quello di appropriarsi dell’intero prodotto del suo lavoro, abolendo i capitalisti. Per Hodgskin il capitale, sia fisso sia circolante, non ha un’esistenza indipendente; esso non è altro che un segno cabalistico usato da alcuni uomini per istupidire le masse lavoratrici e meglio privarle del loro plusprodotto. Thompson prevedeva anche l’agitazione per i diritti delle donne.

Difesa del lavoro esordisce rammentando che in tutto il paese è in corso una violenta lotta tra capitale e lavoro. A causa della inconciliabilità di interessi tra le due classi, i lavoratori sono costretti ad organizzarsi in sindacati per perseguire i loro scopi. Mentre i padroni pagano salari appena sufficienti ad assicurare la sopravvivenza, Hodgskin sostiene che, secondo calcoli da lui stesso fatti, grazie alle nuove macchine ed ai progressi della scienza, ogni lavoratore produce dieci volte di più rispetto a due secoli innanzi, ma di questo aumento non vede niente ed è costretto a vivere agli stessi livelli di sussistenza dei suoi predecessori. Tutti i miglioramenti sono appannaggio dei capitalisti e dei proprietari terrieri.

Per Hodgskin ciò è da combattere: il valore creato dal lavoratore dovrebbe tornare a lui e non al capitalista, in quanto la produzione ha luogo solo grazie all’uso del lavoro vivo, senza il quale il meccanismo della produzione si ferma. Il capitale, in quanto lavoro morto o accumulato, non può produrre niente senza l’apporto del lavoro vivente, che lo mette in movimento per produrre oggetti utili. In quanto possessori di capitale, i padroni sono solo un peso sulle spalle degli operai.

Ma non è solo il suo diretto padrone ad essere un peso morto per l’operaio: se un lavoratore compra un vestito, paga assai di più di quanto la natura richiede per la sua produzione, in quanto del prezzo fanno parte somme che vanno al proprietario della pecora, al grossista della lana, ai capitalisti dei filatoi e della tessitura, al mercante di stoffe ed al padrone della sartoria. Quanto questi sfruttatori riescono a mettere insieme dalla vendita del vestito finito è difficile da quantificare, ma può facilmente equivalere a sei volte il prezzo dei salari necessari in tutti i processi che portano alla produzione del vestito.

Ma Hodgskin non fa sua la tesi per cui il prodotto finale debba divenire proprietà dei singoli lavoratori:

     «Ogni operaio produce soltanto una parte di un tutto e poiché ogni parte non ha valore e utilità per se stessa, non c’è nulla che l’operaio possa prendere dicendo: ”questo è il mio prodotto e voglio conservarlo per me“. Tra l’inizio della collaborazione di differenti operai, supponiamo per la fabbricazione di panno, e la divisione del loro prodotto fra chi se ne è occupato, i cui sforzi riuniti l’hanno fabbricato, si deve intromettere ripetute volte l’abilità di uomini; si tratta allora di sapere quale parte di questo lavoro comune dovrebbe andare ad ognuno degli individui che hanno concorso a produrlo».
Hodgskin continua affermando che decidere della ripartizione del valore andrà affidato ai lavoratori che hanno partecipato al processo. É a questo punto che vengono formulate ipotesi insufficienti: mentre si difendono appassionatamente le lotte degli operai contro l’appropriazione capitalistica del loro lavoro, non si riesce a proporre nuove forme di distribuzione, nuove forme di rapporti sociali. Anche quando si auspica che i lavoratori riescano ad ottenere l’intero frutto del loro lavoro, si conclude che non è possibile fare a meno completamente dei capitalisti. Ci si augura che si verifichi la drastica riduzione dei profitti dei capitalisti, ma si conclude che toglierli di mezzo completamente sarebbe un fatto negativo, che comporterebbe il crollo dei rapporti economici. Alla fine tutto si riduce a onorevoli ideali, nel senso che se tutte le decisioni fossero prese sulla base dell’onore e di principi più sani tra tutti coloro che entrano nel processo produttivo il “giusto salario“ sarebbe stabilito dalla concorrenza sul mercato.

Non si riuscì quindi a liberarsi dalla nozione di unità produttive libere ed in concorrenza tra loro. In scritti successivi Hodgskin arriverà a sostenere che la proprietà individuale è naturale ed indispensabile al benessere ed all’esistenza stessa della società; la più equa distribuzione dei prodotti del lavoro, in Difesa del lavoro la affida alle classi lavoratrici, mentre nelle opere successive la considera un compito della borghesia: conclusioni che sono il triste prodotto del sindacalismo.
 
 

24. William Thompson: contro concorrenza e mercato
 

Thompson rimprovera Hodgskin per la difesa della concorrenza e del mercato – “l’infame mercanteggiare” – vero nemico della lotta dei lavoratori; mentre rende i dovuti omaggi all’”amico e compagno-lavoratore“,l’avverte che quando si fa difensore della concorrenza tra le imprese si trova in compagnia dei paladini del capitale e contro i lavoratori.

In William Thompson è una transizione dalle teorie borghesi ad una prima forma di socialismo, che attinge a Bentham, Ricardo e Owen. Inizialmente Thompson era stato un seguace della scuola utilitaristica che esaltava il “test“ di Bentham della più grande felicità al numero più grande di uomini. Ma questo non lo si può ottenere senza la disponibilità della ricchezza; una abbondante produzione ed una giusta distribuzione appaiono così indispensabili per realizzare la massima felicità.

Ma, le condizioni esistenti nella società non soddisfacendo questi requisiti, ne esaminò le cause nella sua Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth most conducive to Human Happines (Inchiesta sulla distribuzione della ricchezza). Si tratta di un’opera complessa nella quale numerose idee e concetti allora proposti sono valutati e trovati per qualche verso carenti. Thompson arrivò alla conclusione che la sola abbondanza di ricchezza non poteva garantire la felicità, in quanto nel 1822 si era già in presenza di un paese ricco quanto a mezzi di produzione, ma ancora infelice, e povertà e degradazione erano il destino della grande maggioranza dei produttori. L’unica maniera di superare questa situazione era affiancare alla ricchezza una giusta ed equa distribuzione; la ricchezza va distribuita a tutta la popolazione affinché ognuno possa soddisfare i suoi bisogni, invece di permettere che la ricchezza resti nelle mani di pochi.

Tra i concetti che Thompson sviluppa è che l’operaio e l’artigiano sono gli effettivi produttori di valore e di beni utili, e non il capitale e il capitalista. Il sistema di proprietà privata non dà sicurezza al produttore, in quanto gran parte del valore che produce gli è tolta sotto forma di profitto e di rendita; la mancanza di sicurezza per il produttore impedisce alle forze produttive di produrre a sufficienza per soddisfare tutti i desideri umani. È una iniqua distribuzione che limita la produzione. Inoltre, il poco che viene prodotto è monopolizzato da pochi: esagerata ricchezza e lusso da un lato, abiezione e miseria dall’altro. È l’esistente forma sociale che risulta insufficiente.

Nel prendere in considerazione tutti gli aspetti della produzione e della distribuzione, alla luce del concetto di valore, Thompson non riesce a trovare nessun modo, all’interno dei rapporti economici esistenti, per modificare la distribuzione della ricchezza a favore dei produttori.

Sono queste constatazioni che lo indirizzano verso soluzioni alternative; la conclusione è che non vi è forza più potente che agisca sul carattere dell’uomo e sulla felicità del meccanismo di distribuzione della ricchezza. In considerazione delle giganti possibilità del nuovo sistema di produzione, non vi può essere esitazione nell’intraprendere una redistribuzione della ricchezza. La massa di ricchezza accumulata esistente è in realtà insignificante al confronto delle possibilità di creazione di nuova ricchezza che una giusta ed equa distribuzione può consentire. Tutto ciò può essere ottenuto solo se: 1) il lavoro sarà libero e prestato volontariamente; 2) i prodotti del lavoro saranno distribuiti tra i produttori; 3) tutti gli scambi di questi prodotti saranno liberi e volontari.

Nel 1825 Thompson si spinge ancora oltre nel suo Appeal of One Half of the Human Race, Women, against the Pretensions of the Other Half, Men (Appello di una metà della razza umana, le donne, contro le pretese dell’alta metà, gli uomini), indicando modi per eliminare oppressione e sfruttamento. Nel lavoro in mutua cooperazione

     «le donne possono avere la possibilità di utilizzare e migliorare tutte le loro facoltà come l’uomo: in simili circostanze possono ricevere da tutte le fonti possibili – dei sensi, dell’intelligenza, della simpatia  – tanta felicità quanta ne ottiene l’uomo, in relazione al tipo di organizzazione ed alle caratteristiche personali; possono così trovarsi ad essere in condizioni di perfetta uguaglianza di diritti, doveri e godimenti secondo le capacità di operare, soffrire e godere».
Continua poi sostenendo che, anche se nella produzione i maschi possono essere capaci di eseguire lavori pesanti meglio delle donne, come farebbero gli uomini senza le sofferenze, le privazioni, la dedizione che sono a tutto carico delle donne nella loro attività di procreazione e allevamento dei bambini? Cosa è importante, produrre qualche metro di stoffa in più o allevare la prossima generazione?

Thompson conclude affermando che

     «nessuno che con buona volontà eserciti le sue capacità, quali che esse siano, per il bene comune, può essere punito per la limitatezza di tali capacità, soprattutto quando per metterle in atto è necessario sottoporsi a sofferenze e privazioni».
25. Un piano per una nuova società
 

Nel 1827 Thompson pubblicò la sua opera maggiore, Lavoro ricompensato, in cui prese in esame alcuni dei limiti dello scritto di Hodgskin, In difesa del lavoro.

Le società precedenti si distinguevano per la scarsità di mezzi; l’attuale ricchezza ha scatenato la concorrenza tra gli uomini, che ricevono ricompense assai diverse per il loro lavoro. In realtà pochi oziosi hanno accesso alla gran parte della ricchezza prodotta, mentre il bisogno e l’abiezione sono il destino della massa lavoratrice; di questa situazione si è avvantaggiata l’industria manifatturiera. Questa disuguaglianza remunerativa è assurta al rango di divinità per opera dei detentori della forza bruta, i “signori del mercato “, ed è consacrata e adorata come tale dall’opinione pubblica, dalla legge, dalla superstizione; finché questo stato di concorrenza perdura la situazione non potrà cambiare.

Non vi sono ragioni che giustificano le differenze di remunerazione tra le categorie di lavoratori. Queste peggiorano le condizioni dei poveri, a spese dei quali sono premiati il superfluo ed il vano. Per quanto riguarda le diverse attività lavorative, quelle che forniscono i prodotto di prima necessità sono in genere le peggio pagate, mentre quelle che producono oggetti superflui, soprattutto se novità, sono meglio retribuite. All’interno di una data categoria, l’uso invalso del cottimo, oltre a rendere il lavoro sempre più duro, ne abbassa al minimo la retribuzione, assai diversa tra un operaio e l’altro.

Qualcuno riesce, attraverso l’apprendistato, le corporazioni e le ghilde, ecc. ad elevarsi al di sopra della massa; ma in genere la concorrenza costringe i lavoratori a semplicemente sopravvivere per quel breve periodo che è la loro vita media, ed a lasciare dietro di sé soltanto una nuova generazione di operai che continui la routine di una fatica grave e mal ricompensata.

Quegli strati o categorie che sono maglio remunerati costituiscono semplicemente una aristocrazia tra i lavoratori, senza meriti particolari ma con tutti i vizi di tutte le aristocrazie, che una serie di favorevoli circostanze ha messo in condizioni di ottenere più dei loro fratelli. Thompson sottolinea che il prezzo più alto che il regime di libera concorrenza permette ai sindacati di ottenere per il lavoro degli operai è niente al confronto del suo reale valore, e comunque mai superiore a livelli che permettono al capitalista di ottenere lauti profitti. Ne discende che i benefici che queste volontarie associazioni possono portare alle classi lavoratrici sono limitati ai tempi di prosperità nei vari settori economici. Quando questi sono in crisi, e soprattutto quando la crisi è generalizzata, i sindacati sono incapaci di impedire agli operai di mettersi vendita sul mercato del lavoro a prezzi sempre più bassi e in concorrenza tra loro.

Nell’esaminare le possibilità di dare al lavoro il prodotto totale dei suoi sforzi, e salari eguali per tutti i lavoratori, Thompson si rende conto che ciò non è possibile in condizioni di concorrenza individuale, ma lo può essere in condizioni affatto diverse. Come è possibile creare tali condizioni? La soluzione risiede nel passaggio della proprietà dei mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori.

     «Abbiamo visto che, in tutte le società che seppure di poco si distinguono dalla barbarie, è quasi impossibile discernere quale parte del prodotto del lavoro collettivo – e qualsiasi lavoro per essere economico deve provenire dall’associazione di piccole suddivisioni del lavoro in numerose attività specializzate – è stata l’opera di un singolo lavoratore, ed è quindi impossibile conferire all’individuo, separatamente, il prodotto del suo lavoro. Quello che non si può fare individualmente, può farsi collettivamente; ed il nostro dovere è chiaramente quello di assicurare al lavoro tutto il suo prodotto, fatto salvo quanto spetta alla società per la sua sopravvivenza».
I progetti di Thompson prevedono la riorganizzazione delle industrie esistenti; dovrebbero essere raccolti dei fondi con cui compensare il lavoro dei disoccupati e delle altre vittime del capitalismo; edifici e macchine andrebbero a costituire nuove unità produttive. Niente del prodotto del lavoro sarebbe trattenuto all’infuori dei costi di gestione e dell’ammortamento dei capitali (confrontare quanto sopra con la “Critica al programma di Gotha” di Marx).

La forma in cui i progetti di Thompson sono formulati mostra quanto non si sia ancora del tutto emancipato dalla scuola utopistica di Owen. Si parla ancora nei termini del lavoratore che possiede una quota dell’impresa. Questa funzionerebbe ancora secondo le vigenti leggi economiche, ma Thompson comincia a separare valore d’uso e valore di scambio. Nel suo linguaggio appare sempre più la parola remunerazione al posto di salario, con i lavoratori che collettivamente hanno accesso a tutto quanto è prodotto, previdenze per gli inabili al lavoro, ecc. A Thompson va il merito di aver legato il valore al tempo di lavoro e, in conseguenza di quanto sopra enunciato, ciò potrebbe essere fatto solo riferendosi alla media dell’attività di tutti coloro che sono coinvolti nel processo collettivo di produzione. Thompson, mentre restava legato a concetti quali l’illuminazione morale ed un progressismo graduale,stava in realtà avanzando in direzione del socialismo scientifico.

Ma, anche in presenza della più perfetta organizzazione immaginabile nell’industria – e ammesso che i lavoratori riescano a raggiungerla – i loro problemi non sarebbero superati. Resterebbero alla mercé degli affitti dovuti ai proprietari terrieri, della concorrenza con imprese similari condotte da capitalisti, delle speculazioni sulle materie prime e delle oscillazioni del commercio determinate dai mercati. Thompson propone quindi anche l’acquisto di terre e la fondazione di associazioni agricole, nonché la creazione di comunità di produzione cooperativa per soddisfare tutti i bisogni esterni all’impresa manifatturiera.

I problemi generali del mercato continuarono a dominare il suo pensiero. Nel 1830 fece delle proposte per il superamento del mercato o la sua sostituzione grazie alla generalizzazione della produzione cooperativa:

     «La mancanza o l’incertezza del lavoro costituiscono il male principale delle classi lavoratrici nella società come è ora costituita. Quale è la causa immediata della mancanza di lavoro? La mancanza di vendita o di mercati. Le merci prodotte non possono essere vendute o non lo sono al prezzo che compenserebbe il costo di produzione; perciò gli industriali non possono offrire lavoro costante e remunerativo. Il rimedio evidentemente consiste nel trovare un mercato sicuro per tutti i tipi di prodotti utili. Il regime dell’industria cooperativa soddisfa a questa necessità, non con la vana ricerca di mercati esteri per il mondo, che appena trovati vengono sovraccaricati o saturati dall’incessante concorrenza di famelici produttori, ma con la volontaria unione delle classi operatrici in gruppi così numerosi da poter costituire un mercato gli uni per gli altri, lavorando insieme gli uni per gli altri, per fornirsi direttamente e scambievolmente tutti i generi più indispensabili: vitto, vestiario, abitazioni e mobilia».
26. Limiti e fallimento del socialismo utopico
 

Gli scritti degli “economisti del lavoro” inglesi giungono a quel massimo possibile senza porsi con decisione sul terreno della critica dell’economia borghese. Esprimevano anche la ripresa della lotta della nascente classe operaia, in quell’epoca ancora principalmente sul piano economico. Numerosi aspetti dei rapporti economici borghesi, che in quegli anni si manifestavano appieno, restavano ancora da analizzare, in sé e nei loro effetti; lo stesso valeva per le idee proposte per il progresso della società. Come lo storico Max Beer mette in evidenza

     «gran parte delle controversie che sarebbero sorte all’interno delle scuole di pensiero tedesco e dell’Europa dell’Est sul Capitale di Marx si erano viste, nella sostanza, in Inghilterra negli anni tra il 1820 e il 1830 su Ricardo».
Questi “economisti del lavoro” non si limitarono alle teorie economiche ma parteciparono al nascente movimento del proletariato, che proprio allora cominciava a prendere coscienza del nuovo mondo del quale si trovava a far parte. La loro attività consisteva principalmente in conferenze e discussioni con i primi capi del movimento operaio contribuendo alla preparazione per le lotte. Mancando la forza materiale per il rovesciamento politico ed economico della società, non poterono acquisire una prospettiva rivoluzionaria ma riflessero, sul piano scientifico e politico, la lenta e difficile battaglia per gettare le fondamenta della prima organizzazione operaia indipendente, la National Union of the Working Classes, formatasi dei primi anni Trenta. La loro opera rimane una potente critica degli aspetti fondamentali dell’economia borghese, e costituì una miniera per Marx ed Engels quando questi si accinsero a dare una spiegazione materialistica e dialettica dell’economia e della storia.

I limiti del periodo in cui le idee di questi precursori si formarono non permise loro di spingersi oltre l’utopismo. Ma aprirono la strada ad altri, anticipando le basi di una conoscenza della transizione dal capitalismo ad ingenue forme di socialismo. Cristallizzare una compiuta scuola di pensiero sarà possibile solo con la nascita del marxismo. Marx ed Engels recuperarono l’opera degli “economisti del lavoro”, non solo per combattere teorie a-proletarie come quelle di Proudhon, ma come materiale utile alla loro opera storica tanto che le conquiste di questi economisti utopistici trapassarono, riordinate, nel corpo teorico del marxismo.

Il dibattito sulla questione della cooperazione negli anni 1831-34 si svolgeva tra coloro che difendevano e perseguivano la lotta di classe, da un lato, e quelli che sostenevano la forma sociale esistente, dall’altro. È una linea di confine tra movimento rivoluzionario e difensori dell’ordine borghese, oggetto dell’opera di falsificazione borghese della storia, attività in cui si distinsero in particolare Sidney e Beatrice Webb. Nella loro Storia del sindacalismo infatti si difende la tesi secondo cui Owen fu sviato da idee utopistiche e “poco pratiche” da loschi estremisti socialisti per nefasti ed oscuri motivi. È una falsificazione affermare che la forma utopistica del socialismo, una volta provato il suo fallimento, sarebbe stata sostituita da una dottrina, il marxismo, meno rivoluzionaria e più “pratica”.

È vero che i progetti industriali di Hodgskin e Thompson non furono mai attuati e che erano effettivamente "poco pratici", escludendo il completo rovesciamento politico della società da parte delle “classi industriose”. Quanto realizzato nei Labour Bazars di Owen, che erano semplicemente espedienti per la sopravvivenza di artigiani che lavoravano in proprio, incontrava l’approvazione dei radicali borghesi, come Francis Place, che volevano che la classe operaia restasse sotto il controllo politico della borghesia. I prodotti scambiati erano il risultato di produzioni su piccolissima scala, come cappelli, abiti e stivali, tutte attività nelle quali la meccanizzazione non era ancora penetrata. Le speranze di autosufficienza basate sullo scambio di questi oggetti erano infondate perché la gran parte di quello che la popolazione consumava era prodotto su grande scala, come i tessuti, di cotone e di lana, il ferro, il carbone, gli alimenti, ecc., e di conseguenza controllato dalla classe dei capitalisti. I capitalisti, i padroni dei mezzi di produzione, accettavano in pagamento solo la valuta corrente del Regno, e non curiosi pezzetti di carta, imponendo così nella pratica la legge del valore.

Un altro punto importante merita qualche parola. I Labour Bazars non misuravano lo scambio secondo il calcolo del tempo di lavoro, ma in maniera contraria. Prima veniva stabilito un prezzo massimo, in denaro, dedotto da quanto il mercato avrebbe potuto pagare per una data merce, da questo si deduceva il salario, dedotte materie prime ed usura macchine, quindi il numero di ore che l’operaio avrebbe dovuto impiegare per ottenere quella data produzione. Se poi questi in realtà ci metteva di più, peggio per lui: per quale ragione il cliente avrebbe dovuto finanziare gli operai infingardi? Così ragionavano i difensori dei Labour Bazars. Un discepolo di Robert Owen avrebbe più tardi affermato che l’Equitable Labour Exchange (equa borsa del lavoro) fallì perché “coloro che ne usufruivano erano troppo ignoranti”. I partigiani di Owen preferivano dare la colpa alla mancanza di coscienza delle masse piuttosto che all’economia del mercato, l’unica e vera causa del fallimento. Un altro problema dei Labour Bazars fu l’accumularsi nei momenti di crisi di grandi quantitativi di merci che potevano essere vendute solo con una certa lentezza; l’accumularsi di prodotti che il mercato non assorbiva portò a casi di vendita sottocosto.

Per il marxismo non sono prevedibili nella società futura né sovrapproduzione né "dumping", da un lato, né caos del mercato, dall’altra. Supereremo, assieme alla produzione devota al profitto, lo spreco di risorse umane e materiali che comporta.

Nel denunciare le falsificazioni dei Webb non intendiamo difendere gli utopistici come scuola di pensiero, e le critiche che ad essa muoviamo non le abbiamo mai nascoste. Ma quei primi utopisti erano avversi ai rapporti di produzione capitalisti e si battevano per porre davanti al mondo una opposto progetto di società. Sconfessare questo ingenuo anelito fa parte dell’offensiva ideologica della borghesia, che pretende negare che vi sia alcuna alternativa “realistica” ai suoi rapporti sociali. I falsari come i Webb non solo vogliono derubare i proletari del loro futuro, ma anche privarli del loro passato. Sperano che i lavoratori, convinti che non vi è alternativa al capitalismo, meglio ne apprezzino la meravigliosa natura. I veri utopisti sono oggi i tipi alla Webb, i “pratici” e i “realisti”, sempre a sognare qualche inesistente "realtà" del capitalismo che possano dichiarare progressiva, libera, democratica, ordinata in un piano controllato dallo Stato, ecc. Noi rispondiamo e concludiamo con le parole di Thompson: «chiunque difende la concorrenza ed il mercato si trova dalla parte capitale e contro i bisogni del proletariato».
 
 

27. Fra utopia e cartismo
 

Gli anni in cui queste prime critiche all’economia cominciarono a diffondersi, ed in particolare il periodo 1825-1830, costituirono anche il periodo di incubazione del cartismo. Furono anni in cui la Gran Bretagna perse il suo carattere agricolo e passò all’industrialismo su vasta scala. Alla rivoluzione della produzione si affiancò quella del commercio e dei trasporti. Grazie alla revoca del Bubble Act nel 1825 il capitale poté da allora in poi costituire società per azioni e inaugurare l’era delle imprese estensive e collettive rivoluzionando commercio e trasporti. Le classi medie furono ubriacate dalla prospettiva di infinite possibilità, e i lavoratori ebbero la percezione che come classe avevano una parte anche più importante del capitale nel processo della produzione.

Nello stesso tempo gli operai dovettero rendersi conto che non era per loro possibile diventare anch’essi capitalisti per la dimensione della produzione industriale con cui nessun artigiano poteva competere. La borghesia andava rapidamente verso la vittoria politica e le classi lavoratrici cominciarono la loro lotta di classe, consce del loro valore economico, ma esitanti da un punto di vista politico. Un esempio di questo sentimento è l’ordine del giorno di una riunione di disoccupati a Leeds, del 23 novembre 1829:

     «Noi operai non desideriamo in alcun modo di essere posti in una situazione che non ci si addice, ma sappiamo bene che il lavoro è l’unica sorgente della ricchezza e che noi siamo il sostegno delle classi medie e delle classi superiori della società».
Il primo settimanale politico delle classi lavoratrici del Lancashire enunciava nel suo programma:
     «Il lavoro è la sorgente della ricchezza; i lavoratori sono il sostegno delle classi medie e alte; sono i nervi e l’anima del processo di produzione e perciò della nazione».
Lo stesso giornale tuttavia si dichiarava nello stesso tempo per un’azione comune con i liberali.

L’alleanza tra le classi lavoratrici e la borghesia rappresenta il primo stadio del cartismo. Ma anche durante il periodo dell’alleanza vi fu una piccola minoranza di lavoratori che con estrema violenza sosteneva il punto di vista della lotta di classe e si opponeva ad ogni alleanza con i capitalisti. Lo scontro generalizzato sarebbe divenuto inevitabile solo dopo la conquista della Riforma.

Il breve periodo di espansione dell’economia iniziato nel 1826 portò alla depressione del 1829. La crisi commerciale causò scioperi e disordini in misura maggiore rispetto al passato, anche perché nelle campagne l’introduzione delle macchine aveva aumentato il numero dei proletari che erano rimasti senza lavoro.

Nel 1825 minatori della costa del Nord-Est ricostituirono il loro sindacato, la Northumberland and Durham Colliers’ Union, dopo che la precedente organizzazione era stata distrutta durante lo sciopero del 1810. Rimasero quieti fino al 1830, quando uno sciopero molto esteso fu indetto e vinto contro gli effetti della crisi commerciale.

Nel 1829 vi furono tentativi di riorganizzare un sindacato generale, fondato sui lavoratori cotonieri; John Doherty, uno dei capi dello sciopero del 1818, ne fu uno dei fautori. Finalmente ad una conferenza di delegati che si tenne nell’isola di Man verso la fine del 1829, i rappresentanti dei filatori di cotone di Inghilterra, Scozia e Irlanda fondarono la Grand General Union of All the Spinners of the United Kingdom. Le prime lotte sindacali che seguirono alla sua fondazione videro i padroni rispondere con una serrata, in seguito alla quale le sezioni scozzese e irlandese si staccarono dal sindacato; ma la sezione inglese rimasta sola riuscì a mantenere un minimo di organizzazione al punto di riuscire ad aiutare gli operai di altri settori dell’industria a organizzarsi; al sindacato si iscrissero inoltre i minatori del Lancashire e del Galles.

Meno fortunati furono i tentativi di estendere il movimento tra i lavoratori lanieri del Yorkshire; pur se in parte la ragione fosse che ancora preferivano servirsi delle organizzazioni di mestiere locali, grande influenza su questo temporaneo fallimento la ebbero i padroni, che non risparmiarono pressioni di ogni tipo per impedire o ostacolare qualsiasi forma di organizzazione tra gli operai. In realtà la situazione nello Yorkshire era tale che l’organizzazione dei lavoratori della lana dovette praticamente funzionare come una società segreta, finché dovette chiudere i battenti dopo una serrata nel 1834.

Il sindacato generale che si era frattanto formato dal movimento dei cotonieri, la National Association for the Protection of Trades, ebbe anch’essa una vita relativamente breve, soprattutto a causa della sconfitta subita dai filatori del Lancashire dopo un lungo sciopero. Le sconfitte sul piano sindacale stimolarono così l’interesse dei lavoratori verso le agitazioni politiche per la Riforma del Parlamento.

A differenza delle azioni organizzate dai lavoratori dell’industria, nelle campagne i braccianti agricoli, in condizioni più disperate di fame e di condizioni di vita, non poterono far altro che combattere in una maniera più diretta, in brevi ma dure azioni che non escludevano distruzioni di macchine e incendi. Pur se la disorganizzazione di queste lotte non poteva consentire di modificare i rapporti di forza, i braccianti non avevano altra scelta se non una testarda e disperata guerriglia.

Ciò perché la situazione, già grave, era stata esacerbata da tagli ai sussidi per i poveri che, come abbiamo descritto parlando del diabolico “Sistema Speenhamland”, servivano a mantenere in vita i disoccupati ed i lavoratori peggio pagati. Il crollo dei prezzi agrari e l’aumento della disoccupazione nelle campagne per le trasformazioni colturali fece aumentare il numero dei bisognosi aventi diritto al sussidio, mentre le autorità locali intendevano spendere sempre meno per questa voce passiva; così dal 1815 al 1834 i sussidi venivano sempre più ridotti ed il concetto di minimo per la sopravvivenza modificato continuamente verso il basso; si arrivò a rimproverare ai poveri di volersi concedere lussi smodati quali mangiare pane di frumento, mentre avrebbero potuto benissimo cibarsi di patate e fiocchi di avena. Nel 1830 la situazione esplose in rivolte generalizzate nelle campagne, cui è associato il nome di Capitan Swing, una persona immaginaria che firmava i proclami dei rivoltosi. Dimostrazioni e riunioni si moltiplicarono in quasi tutte le aree agricole dell’Inghilterra, e il governo dovette inviare truppe e sedare tumulti.

Questa rivolta delle campagne è stata ben descritta come L’ultima rivolta dei braccianti, un libro che ben illustra la miseria e le sofferenze in cui versavano i ribelli:

     «Nel 1795 e nel 1816 vi erano stati gravi tumulti in diverse parti dell’Inghilterra. Pur se repressi col pugno di ferro, negli inverni più duri violenze sporadiche e fienili in fiamme avevano mostrato che la ribellione non era vinta. La rivolta del 1830 fu molto più generalizzata e profonda; numerose Contee del Sud dell’Inghilterra si trovarono sull’orlo di una vera e propria insurrezione. Londra era nel panico, e molti di coloro che avevano voluto dimenticare il prezzo a cui era stato pagato lo sfarzo dei ricchi, il messaggio del cielo arrossato dalle fiamme, dei molini distrutti e delle buone maniere delle masse suonava come una campana a morto. Il terrore dei proprietari terrieri in quelle settimane ben si rispecchia nelle dichiarazioni di personaggi come il Duca di Buckingham, che lamentava che il paese fosse nelle mani dei ribelli, o di uno dei Boring, che disse in Parlamento che se i disordini fossero continuati per altri tre o quattro giorni sarebbe divenuto impossibile per qualsiasi potere controllarli.
     «Questo capitolo della storia sociale è stato messo in ombra dai disordini che seguirono alla bocciatura in Parlamento della legge sulla Riforma; tutti sanno della distruzione del municipio di Bristol, o dell’incendio del castello di Nottingham, ma pochi sono a conoscenza della distruzione degli odiati opifici di Selborne e di Headley. I tumulti di Nottingham e Bristol erano un preludio alla vittoria, un selvaggio grido di forza. Se la rivolta del 1830 avesse trionfato e riconquistato al bracciante il suo perduto tenore di vita, il giorno in cui la fabbrica di Headley fu fatta crollare sarebbe ricordato dal diseredato come il giorno della presa della Bastiglia. Ma la ribellione fallì, e gli uomini che guidarono questa ultima lotta per i braccianti finirono nell’oblio della morte e dell’esilio» (J.L. e B. Hammond, The village labourer).
Lo Stato non lesinò alcuna delle sue risorse per schiacciare la rivolta nelle campagne. Il risultato fu che nove uomini furono impiccati, 457 deportati e quasi altrettanti imprigionati per periodi vari. Forse proprio questi fatti, insieme alla incessante agitazione tra i lavoratori dell’industria, convinsero la classe dominante ad accettare la Riforma del Parlamento, con la quale i capitalisti industriali accedevano finalmente al potere; così il loro schieramento si sarebbe rafforzato contro il doppio nemico di città e campagna. Questa evoluzione avrebbe però anche sgombrato il campo per l’organizzazione operaia come forza a sé, sola contro tutti i capitalisti, fossero questi agrari, mercantili o industriali.
 
 

28. Verso una organizzazione indipendente di classe
 

Nel periodo dal 1825 al 1832 gli operai si erano accodati alla guida politica della borghesia industriale nella battaglia per la Riforma, pur continuando a lottare aspramente contro i loro padroni da un punto di vista economico. Con il varo del Reform Act nel 1832 questa scomoda alleanza ebbe fine, ed i vari gruppi di operai più o meno organizzati iniziarono a esaminare tutte le possibilità di costituire una organizzazione indipendente, per trovare soluzioni politiche ai problemi che la classe operaia si trovava ancora davanti. Pur se la borghesia industriale non entrò direttamente nel governo, l’aristocrazia al potere, anch’essa ormai completamente borghese, fece numerose concessioni nell’interesse dei capitalisti delle manifatture. Il passaggio “pacifico” del Reform Act, come disse Engels, «salvò l’Inghilterra dalla rivoluzione».

Trattandosi della prima classe operaia industriale apparsa sulla scena storica, il proletariato inglese passò attraverso innumeri varietà di organizzazioni e di idee, fino al costituirsi del movimento cartista nel 1837.

Prima di descrivere gli eventi che precedettero e produssero il cartismo, vale la pena di leggere quanto Trotzki ne ebbe a scrivere, nel 1925:

     «L’epoca del cartismo è immortale perché nello spazio di dieci anni ci ha fornito in forma condensata e schematica tutta la gamma delle lotte proletarie – dalle petizioni in parlamento alla insurrezione armata. Tutti i processi fondamentali del movimento di classe del proletariato – i rapporti reciproci tra attività parlamentare e attività antiparlamentare, la funzione del suffragio universale, dei sindacati e delle cooperative, il significato dello sciopero generale e il suo rapporto con l’insurrezione armata e persino i rapporti reciproci tra proletariato e contadini – non solo si sono cristallizzati nella pratica del movimento cartista, ma hanno anche avuto delle risposte in linea di principio. Teoricamente, queste risposte sono lungi dall’essere sempre coerenti, i fili del ragionamento non sempre si ricollegano, nel movimento generale nel suo complesso e nei suoi riflessi teorici ci sono molte immaturità, molte incompletezze. Ciononostante le parole d’ordine e i metodi rivoluzionari del cartismo, se analizzati criticamente, sono tutt’oggi infinitamente al di sopra dell’eclettismo dolciastro di MacDonald e della stupidità economica dei Webb.
     «Se si volesse azzardare un paragone, si potrebbe dire che il movimento cartista è come un preludio che riassume in forma sintetica il motivo musicale di tutta l’opera. In questo senso il proletariato britannico può e deve vedere nel cartismo non solo il suo passato, ma anche il suo futuro. Come i cartisti hanno respinto i predicatori sentimentali dell’ ”azione morale”, unendo le masse attorno alla bandiera della rivoluzione, così il proletariato britannico dovrà assolvere il compito di buttar fuori dalle sue file riformisti, democratici e pacifisti e di mobilitarsi sotto la bandiera della trasformazione rivoluzionaria. Il cartismo non ha vinto non perché i suoi metodi fossero sbagliati, ma perché è arrivato troppo presto. Si tratta solo di una ouverture storica» (da Dove va la Gran Bretagna?).
L’alleanza che nel 1830-32 era esistita tra operai e industriali, che già nel 1831 iniziò a dare segni di cedimento, non era stata accettata con lo stesso entusiasmo da tutta la classe operaia; al contrario, ampi settori proletari le erano sempre stati contrari. Tra questi una minoranza di lavoratori, in quegli anni, iniziò a propagandare la guerra di classe, contro qualsiasi alleanza con la borghesia; questa minoranza si distinse soprattutto a Londra, e la organizzazione che ne scaturì perse il nome di National Union of the Working Classes (Sindacato nazionale delle Classi lavoratrici). L’antagonismo economico tra classe operaia e classe capitalista veniva così trasferito anche sul piano politico, sostenendo senza equivoci che capitale e lavoro non possono che trovarsi su posizioni antagonistiche.

Il Nuwc apparve nel 1831 con il suo settimanale, il Poor Man’s Guardian che aveva come slogan: “Pubblicato contro la legge a riprova del potere del giusto contro il potente”; lo slogan era dovuto al fatto che il prezzo del giornale era di un penny, di molto inferiore al bollo che una legge da poco approvata voleva fosse apposto su ogni copia. La legge, evidentemente creata per boicottare la stampa proletaria, veniva quindi infranta ogni volta, e vendere il giornale significava spesso la prigione.

Il Nuws si originò da una associazione per la cooperazione, da cui uscì la Metropolitan Trade Union. Via via che si svuotavano le organizzazioni che erano sotto il controllo della borghesia industriale, come la Political Union di Birmingham, il movimento crebbe velocemente e presto vantò un grande numero di adesioni. Era organizzato in sezioni territoriali, dette "classi", di 25 membri ognuna, che si riunivano regolarmente per dibattiti educativi; ogni sezione eleggeva un capo, che era delegato a partecipare al Comitato che controllava il movimento.

Una delle prime campagne dell’organizzazione fu proprio quella del giornale che, a dispetto della legge, informava sull’attività delle sezioni. L’editore, Henry Hatherington, fu ben presto gettato in carcere per essersi rifiutato di porre il bollo sul giornale. Fu quindi sostituito alla direzione da Bronterre O’Brien, che sarebbe poi stato riconosciuto come il maestro dei dirigenti del movimento cartista.

La maggior parte dei pensatori sociali rivoluzionari di quegli anni collaborò anonimamente o sotto un pseudonimo al giornale e lo rese un arsenale di idee rivoluzionarie. Fra i collaboratori anonimi ve ne fu uno che sostenne l’idea della lotta di classe con una decisione non comune per quei tempi. A lungo gli articoli dell’anonimo collaboratore furono attribuiti al direttore, ma in seguito fu rilevato che erano dovuti alla penna di un tessitore autodidatta, probabilmente un tessitore di telaio a mano rovinato dalle macchine. Polemizzava violentemente contro l’alleanza fra le classi medie e le classi lavoratrici. I suoi articoli migliori, più tardi ristampati, iniziarono lo scisma fra i lavoratori e la borghesia ed ebbero una grande influenza sugli intellettuali della classe lavoratrice in Gran Bretagna.

L’anonimo tessitore dava spesso saggi avvertimenti agli operai, firmandosi “uno degli oppressi”. In uno di questi articoli, del 19 marzo 1832, calcolò come, nella eventualità dell’abolizione di tutto il governo, Re compreso, il risparmio sociale, e quindi la riduzione di tasse che ne sarebbe derivata, non avrebbe superato il mezzo penny a testa per ogni lavoratore: cioè non era con le riforme istituzionali borghesi che si potevano alleviare le condizioni dei poveri. La povertà andava invece vista come la conseguenza di «affitti esorbitanti, decime, interessi sui prestiti, profitti sul lavoro e profitti sul commercio». L’estensione del voto ai borghesi, se i proletari ne fossero stati esclusi, avrebbe avuto effetti devastanti sulle loro condizioni di vita.

     «Mi è stato detto che non potreste star peggio di come state. Io dico di si. Gli irlandesi stanno tre volte peggio di voi, per quanto voi stiate male, e voi avete certamente la possibilità di star male come loro. Perciò vi consiglio di prepararvi le bare, se potete: morirete di fame a migliaia, se il Bill passa, e altrimenti sarete gettati nel letamaio o per terra, nudi come cani».
Per quanto cruda, si tratta di una quasi profetica descrizione degli effetti seguiti all’introduzione degli emendamenti alla Legge sui Poveri nel 1834, e alla creazione delle Case di Lavoro.

L’anonimo scrittore conclude:

     «Non vedete dunque che tutto ciò di cui avete bisogno sono salari elevati e profitti bassi? Voi dovete far salire i vostri salari, e allora quelle rendite, decime, interessi ed altri profitti dovranno diminuire. Il Reform Bill non ha nulla a che fare con la politica dei lavoratori».
Nello stesso periodo dalle pagine del Poor Man’s Guardian veniva propagandata l’idea dello sciopero generale. Esortando a un attacco generalizzato contro la classe dominante, William Benbow proprietario di caffè e editore, non faceva che dare voce ai sentimenti che dominavano le sezioni del Nuwc. Questa strategia di attacco prevedeva di ridurre alla sottomissione la classe dominante in virtù di una prolungata holiday, o vacanza dal lavoro, anteprima dell’anarchico "sciopero espropriatore".

Nel 1833 la Nuwc era all’apice della sua forza, e costituiva la organizzazione proletaria più combattiva ed efficace del periodo. Costituì la transizione tra la fase di alleanza con la borghesia industriale a quella di conflitto aperto tra gli ex alleati, che portò alla formazione del partito dei lavoratori, il movimento cartista.

Non furono in quel periodo affrontate solo questioni sindacali: la Nuwc stabilì contatti con il movimento indipendentista irlandese, allora guidato da O’Connel; nell’invitare il popolo irlandese a lottare con quello inglese contro il comune nemico, era chiesta l’abrogazione dell’unione dell’Irlanda con l’Inghilterra. Un’altra importante rivendicazione era la separazione della Chiesa dallo Stato.

Nello stesso anno fu convocata una riunione pubblica alla Colthorpe Estate, a Londra, per il 13 maggio, per preparare una Convenzione Nazionale. Ma tutti i programmi che includevano la convocazione di una Convenzione, parola che a quei tempi faceva subito pensare all’illustre precedente della Rivoluzione francese, mettevano il governo in agitazione; e, poiché la legge allora vigente in pratica proibiva qualsiasi manifestazione di opposizione e ogni assembramento, ancorché pacifico, costituiva un reato, le autorità proibirono la riunione. Questa fu tenuta ugualmente, e nei tafferugli seguiti all’intervento della polizia vi furono numerosi feriti e un poliziotto fu pugnalato a morte. Ne seguì un’inchiesta ma la giuria popolare emise un verdetto quasi unanime di “omicidio giustificato”; il giudice non riuscì a convincere la giuria a modificare il verdetto; il governo in seguito offrì anche una taglia per informazioni utili a scoprire il colpevole, ma non se ne seppe più niente.

Nell’estate del 1833 la forza numerica del Nuw iniziò a decrescere, e le sezioni chiudevano. Nacquero difficoltà interne, divergenze sulle prospettive e sulla strategia da seguire che, insieme a problemi finanziari, causarono una certa apatia e disinteresse. La situazione fu aggravata da inchieste interne su infiltrazioni della polizia, che effettivamente smascherarono qualche informatore.

Manifestazioni e comizi furono indetti per tentare di fermare il declino, ma la Union continuò gradualmente a disintegrarsi, finché fu assorbita dalla Radical Association, guidata da Feargus O’Connor; questa arrivò a prendere il nome della ormai defunta Nuwc, ma il grosso dei membri non aderì alla nuova organizzazione. Alcuni dei più attivi avrebbe costituito, qualche anno più tardi, la London Working Association, ma nel frattempo la maggior parte delle energie fu dedicata alla creazione e al rafforzamento dei sindacati.
 
 

29. Il movimento per la cooperazione
 

I numerosi esperimenti oweniani sulla cooperazione degli anni ’20 continuarono con notevole vigore nel decennio successivo per poi perdere forza e scomparire definitivamente nella seconda metà degli anni ’40. Questo movimento costituì un tentativo utopistico di ignorare e superare il capitalismo industriale, e può essere definito come prima fase del cooperativismo, ben diversa da quella di natura totalmente borghese che ebbe inizio con i Pionieri di Rochdale nel 1844, della quale ci occuperemo più avanti.

Il periodo 1828-1834 può considerarsi come il periodo “morale” del cooperativismo, nel quale si puntava soprattutto su aspetti educativi e morali, e si pretendeva affrontare i problemi da un punto di vista razionale e scientifico.

Il commercio al dettaglio di prodotti acquistati in grande quantità era uno dei principali sistemi per raccogliere fondi per finanziare comunità agricole. Sul n. 22 del giornale Cooperator, del 2 gennaio 1830, si legge:

     «Il grande fine delle società cooperative non è quello di unirsi per innalzare i salari dei soci (...) ma, al contrario, di raccogliere sufficiente capitale per acquistare e coltivare la terra, e creare manifatture».
Nel 1832 fu lanciato l’esperimento di una Borsa del Lavoro, nella quale si potevano scambiare merci con il valore del lavoro necessario per la loro produzione; tale valore era calcolato in base al numero di ore necessarie alla produzione e al costo delle materie prime a prezzi di mercato, con l’aggiunta di una commissione per coprire i costi di gestione. La moneta di scambio era costituita da buoni-lavoro. Inizialmente l’iniziativa riscosse consensi entusiastici, ma il meccanismo presto si ingolfò a causa di merci che si vendevano lentamente, mentre gli alimentari si potevano acquistare solo in parte con i buoni lavoro, e per il resto era necessario denaro corrente; il primo anno vi fu un profitto netto, ma verso la fine del secondo la Borsa subì un tracollo finanziario.

La scomparsa della Borsa del Lavoro rimase allora praticamente ignorata, perché altri importanti eventi attiravano l’attenzione popolare, ma il successo iniziale del progetto e la reputazione che i suoi promotori acquistarono come riformatori conferì loro una notevole influenza e autorità nel movimento sindacale negli anni che seguirono.

Con la rinascita del Sindacato dei Filatori di Cotone del Lancashire, diretto dall’indomabile John Doherty, il 1832 fu l’anno della ripresa dell’offensiva sindacale. Contemporaneamente si costituì ad Huddersfield il Sindacato Lavoratori Edili, la prima e unica volta che in Gran Bretagna gli edili si trovarono uniti in un solo sindacato. Altre società di mestiere che erano sopravvissute agli anni ’20 ripresero a crescere e a darsi da fare per concentrarsi, allo scopo di costituire sindacati nazionali nei rispettivi settori dell’industria, mentre nascevano sindacati del tutto nuovi.

Questa nuova offensiva si mantenne vitale fino al 1840 e, nonostante le pressioni continue e spregiudicate del padronato, non fu mai completamente sconfitta. Al contrario, l’organizzazione dei lavoratori specializzati in numerose industrie fu caratterizzata da una continuità e da una tendenza a formare sindacati sempre più ampi, fino al livello nazionale; in quel periodo il numero totale degli iscritti ai sindacati aveva raggiunto la rispettabile soglia degli 800 mila.

L’anno successivo, il 1833, vide la costituzione della Grand National Consolidated Trade Union, che riuscì a riunire sindacati, gruppi cooperativi e leghe varie, da Londra ad Exeter, dalla Scozia all’Irlanda. Le professioni e industrie rappresentate, direttamente o indirettamente, coprivano in pratica tutti i possibili settori del lavoro dipendente. Vi fu determinante l’influenza di Robert Owen, che ne redasse anche il programma.

Owen non aveva rinunciato alle sue teorie, che rilanciò nella nuova organizzazione: parlando al Parlamento degli Edili (il Convegno annuale del sindacato) nel novembre 1833, li convinse a formare una loro Gilda per la costruzione cooperativa di case, ma anche li esortò a concentrare le loro energie sulla lotta per le otto ore. In una conferenza pubblica, poco tempo dopo, tracciò a grandi linee un progetto per una società futura. Tutte le società locali di mestiere avrebbero formato logge “parrocchiali”; che avrebbero eletto loro delegati per logge “provinciali”; queste avrebbero inviato delegati a Londra; delegati da ogni settore dell’industria avrebbero riferito della produzione di loro pertinenza, e allo stesso tempo controllato, assieme ai delegati delle altre industrie, gli affari dell’economia del paese. In un articolo su The Pioneer, l’organo del Gnctu, Owen così sintetizzava il progetto: «I delegati formano il Parlamento Annuale; il Re d’Inghilterra diviene Presidente dei Sindacati». L’ingenuità di pensare che il Re, al di sopra delle parti, si potesse porre a capo dei sindacati trova ancora oggi dei seguaci, ma per questi è arduo concedere l’attenuante della buona fede!

Robert Owen lavorò per due decenni nella convinzione che le masse avessero principalmente bisogno di essere illuminate. Arcisicuro che i sindacati, attraverso la cooperazione, sarebbero stati lo strumento della trasformazione sociale, convertendosi agli ideali della produzione indipendente, sia con le manifatture esistenti sia con opifici da creare ex-novo, si pose come il fondatore del consiliarismo e dell’autogestione. Secondo i suoi piani cinque anni sarebbero stati sufficienti per una totale trasformazione della società.

Ne bastarono meno di due per far crollare il suo grande disegno. Ma prima che questo avvenisse le sue teorie furono condannate e combattute proprio dall’interno della classe operaia. Le prime dure critiche verso l’utopia cooperativistica di Owen vennero dai membri del Nuwc nel corso del 3° Congresso della Cooperazione che si tenne a Londra nell’aprile del 1832; questi invece difesero la lotta di classe come unico strumento utile di difesa e di trasformazione sociale. Numerosi cooperatori in quel Congresso sostennero che operai e padroni sono entità separate e in lotta tra loro, ciononostante nella risoluzione del Congresso si leggeva: «lo scopo finale di tutte le società cooperative, sia che si occupino di commercio, di manifattura o di agricoltura, è la comunità della terra»; queste dichiarazioni inoltre riflettevano la convinzione di Owen che sia i capitalisti sia gli operai fossero produttori. Queste idee furono in blocco adottate dal Gnctu che nel primo numero del The Pioneer, in un’editoriale oweniano, affermava: «I membri della Gnctu non hanno intenzione di fare la guerra contro nessuna classe, ma non permetteranno a qualsiasi classe di usurpare i loro diritti».

Le idee di Owen erano contrastate però anche sugli organi di stampa vicini all’organizzazione; uno di questi era lo stesso The Pioneer con direttore James Morrison, un muratore. Come Morrison anche J.E. Smith, il direttore del giornale di Owen, The Crisis, conduceva sul suo giornale una lotta senza compromessi contro la collaborazione di classe. Entrambi propagandavano una strategia di astensione dalle discussioni banali, per riunire le energie in vista di un attacco generalizzato contro il padronato; la loro prospettiva si può riassumere nello slogan: “uno sciopero lungo, uno sciopero duro, uno sciopero tutti insieme”. Smith inoltre si distinse per una serie di analisi economiche pubblicate sotto lo pseudonimo di Senex, di eccezionale chiarezza e con contenuti così avanzati da non sembrare scritte ben 15 anni prima della pubblicazione del Manifesto dei Comunisti.
 
 

30. E la sua fine
 

Noi marxisti riteniamo che in regime di dittatura borghese la cooperazione operaia, nella produzione e nella distribuzione, non cessa d’essere uno strumento di sfruttamento e quindi un pilastro della forma sociale e produttiva esistente.

Il cooperativismo, abbandonata ogni velleità di trasformazione sociale e datosi alle gioie della gestione dell’"esercizio", trapassò dal “commercio dei principi ai principi del commercio“.

Owen, la cui mente sembra cominciasse a vacillare, reagì rabbiosamente a questa contestazione interna, chiudendo The Crisis e facendo espellere The Pioneer dalla Consolidated, in favore di un nuovo giornale che sarebbe rimasto entro i limiti del suo pensiero, e fece cacciare tutti coloro che esprimevano idee rivoluzionarie, perseguendo la sua visione di riformismo utopico (tra l’altro dichiarò che il 1° Maggio 1833 iniziava il millennio, anche se non fu mai chiaro cosa intendesse).

Mentre era indaffarato a raccogliere fondi per la costruzione cooperativa di edifici (non sempre immediatamente necessari, come la Guild Halls), la Consolidated si trovò a scontrarsi con una offensiva concentrata dal padronato, tesa a spezzare qualsiasi organizzazione sindacale. L’iniziativa più importante dei padroni fu quella del famigerato “Document”, un impegno scritto che il lavoratore doveva firmare se voleva mantener il posto, in base al quale si impegnava a non iscriversi al sindacato né a svolgere qualsiasi attività di solidarietà a favore di iscritti al sindacato. Pur se alcuni sindacati riuscirono a reagire, nella maggior parte dei casi l’attacco ebbe successo e le sezioni sindacali si sfasciavano. Il riformismo, interessato a tutto meno che alla lotta di classe, aveva consegnato il proletariato su un piatto d’argento.

Un altro fatto, anch’esso del 1832, costituì un ulteriore esempio per i lavoratori organizzati. I braccianti del Dorset (che indubbiamente avevano partecipato ai tumulti di Capitan Swing di quattro anni prima) avevano iniziato a costituire un’organizzazione sindacale permanente, su basi di classe. Anche se non erano ancora arrivati a federarsi con la Consolidated, la minaccia di una estensione dell’organizzazione classista nelle campagne non era cosa che i proprietari terrieri potessero accettare. Per la sola colpa di far parte di un sindacato sei braccianti furono arrestati, processati e deportati e, visto il significato di tale condanna, sono rimasti nella storia del movimento operaio inglese come i martiri di Talpuddle. Le marce e le dimostrazioni che seguirono, per lo più organizzate da Owen, non sortiranno alcuno effetto se non quello di provare ai proletari che il governo nato dalla Riforma, per cui anch’essi avevano lottato, non era nemico migliore dei governi tory del passato; e di toccare con mano l’eredità dell’ormai superato utopismo.

Senza una strategia e un coordinamento centrale per affrontare l’offensiva padronale, localmente i lavoratori cercarono di difendersi come potevano; qua e là riuscivano a conseguire vittorie, i cui effetti positivi scomparivano in un anno o due, ed anche la solidarietà con i proletari colpiti era limitata dalle scarse risorse di cui disponevano.

Una diffusa tendenza fu quella di tornare a forme e metodi più primitivi di lotta, come nel Galles del Sud, ove la scomparsa della Consolidated fece rinascere la Scotch Cattle, una società segreta che annoverava tra i suoi sistemi anche l’assassinio; un’organizzazione segreta di filatori di cotone di Glasgow fu sbaragliata dalla polizia solo nel 1837, accusata di essere responsabile di venti anni di terrore, attraverso uccisioni e incendi.

Altrimenti, l’unico modo per esprimere la solidarietà di classe erano collette e petizioni organizzate dalle società di mestiere un po’ dappertutto; il denaro dei magri fondi e le petizioni spesso riuscivano ad alleviare qualche pena, ad esempio togliere una condanna a morte che, con un buon avvocato ed una buona campagna d’opinione, poteva essere trasformata in deportazione.

Una ripresa generalizzata dell’attività sindacale si ebbe solo nel 1836, soprattutto a Londra, Birmingham, Newcastle, Leeds e Glasgow.

Con qualche ritardo, uno o due anni, le lotte ripresero anche in Irlanda, con gli operai edili che formarono la loro prima lega. Queste organizzazioni operaie irlandesi, pur abbandonando certi aspetti pittoreschi del passato, quali giuramenti e simboli vari, furono violentemente perseguitate dai padroni. Non ebbero nessun aiuto dai nazionalisti irlandesi: O’Connel, che era stato felice di allearsi con la Nuwc contro il comune nemico, lo Stato borghese inglese, non era per niente disposto ad accettare una organizzazione indipendente degli operai irlandesi. Gli attacchi padronali non cessarono finché questi embrioni di sindacati non furono scomparsi dalla scena, sia a Dublino sia a Cork.

Il crollo della Consolidated, e l’assenza di altre paragonabili associazioni lasciò senza guida la maggioranza del proletariato inglese, cioè coloro che non facevano parte di leghe di mestiere abbastanza solide, che fu quindi preda dell’attacco organizzato dei padroni.

Nel frattempo gli industriali avevano acquisito una maggiore influenza politica, e ritennero che fosse arrivato il momento per apportare modifiche sostanziali alla legge dei poveri (Poor Laws); questo sistema di assistenza era stato utile nel passato, quando lavoratori temporaneamente disoccupati venivano spediti alle parrocchie di origine, ove erano mantenuti dai contribuenti locali; era un modo di rimediare in parte agli sconvolgimenti della rivoluzione industriale, con una mano d’opera cronicamente carente, e quindi gli assistiti in genere non erano molti. Ora, dopo una tendenza a ridurre sempre più i sussidi, come abbiamo visto, gli industriali volevano abolire questo sistema “troppo generoso” che permetteva ai disoccupati di vivere “in ozi di lusso”. In realtà gli sventurati vivevano in condizioni pietose, ogni giorno col problema di mangiare a sufficienza. D’ora in poi gli operai vivranno vendendo la loro forza-lavoro nelle Case di Lavoro, vere galere per i poveri, oppure saranno “liberi” di morire di fame se ciò meglio gli aggrada. Nessun maschio abile al lavoro riceverà più aiuti dallo Stato ed andrà inevitabilmente a far parte di quello che Marx definisce l’esercito di riserva del lavoro. Il risultato inevitabile fu quello di aumentare la concorrenza tra operai per i posti di lavoro, e quindi di abbassare i già bassi salari a livelli di fame; le odiate Case di Lavoro furono ribattezzate Bastiglie, simboli di miserie e di oppressione. Fu in questo ambiente e in seguito a queste esperienze che venne a formarsi il movimento cartista.
 
 

31. Suffragio o Rivoluzione ?
 

Lasciamo a Marx il compito di riassumere la questione come si poneva in quel periodo difficile, confuso, ma generoso e ricco di speranze. Scriverà, molto tempo dopo:

     «Gli abitanti del continente tendono facilmente a sottovalutare l’importanza e il significato della “Carta” inglese. Dimenticano che la società francese è composta per 2/3 di contadini e per 1/3 abbondante di cittadini, mentre in Inghilterra più di 2/3 degli abitanti risiedono nella città e meno di 1/3 in campagna. Perciò in Inghilterra i risultati del suffragio universale staranno in un rapporto inverso ai risultati francesi così come è inverso nei due paesi il rapporto fra città e campagna. Questo spiega il carattere diametralmente opposto che la rivendicazione del suffragio universale ha assunto in Francia e in Inghilterra.
     «Lì era la rivendicazione degli ideologi politici, a cui ogni “persona colta” poteva più o meno aderire a seconda delle sue convinzioni. Qui costituisce la grossa linea di demarcazione fra l’aristocrazia e borghesia da un lato e le classi popolari dall’altro. Lì è una questione politica; qui sociale. In Inghilterra l’agitazione per il suffragio universale ha attraversato uno sviluppo storico prima di diventare la rivendicazione delle masse. In Francia essa fu prima introdotta e solo dopo intraprese il suo corso storico. In Francia naufragò la prassi, in Inghilterra l’ideologia del suffragio universale.
     «Nei primi decenni di questo secolo, con Sir Francis Burdett, col maggiore Cartwright e con Cobbett, il suffragio universale aveva ancora quell’indeterminato carattere idealistico che ne faceva il pio desiderio di tutti gli strati della popolazione che non appartenessero direttamente alle classi dominanti. Per la borghesia in realtà era soltanto un’espressione che riassumeva eccentricamente ciò che essa ha rivendicato nella riforma parlamentare del 1831. Anche dopo il 1838 la rivendicazione del suffragio universale non aveva ancora assunto il suo specifico carattere reale; come dimostra il fatto che tra i firmatari della “Carta” figurassero Hume e O’Connel.
     «Nel 1842 svanirono le ultime illusioni. A quell’epoca Lovett fece un estremo ma inutile tentativo di fare del suffragio universale la comune rivendicazione dei cosiddetti radicali e delle masse popolari. Da allora non c’è più alcun dubbio sul vero senso del suffragio universale né sul nome che esso ha. È la “Carta” delle classi popolari e significa l’appropriazione del potere politico come mezzo per realizzare i loro bisogni sociali. Il suffragio universale, che nella Francia del 1848 era la parola d’ordine della fratellanza universale, è perciò inteso in Inghilterra come grido di guerra. Lì il significato più immediato della rivoluzione era il suffragio universale; qui il significato più immediato del suffragio universale è la rivoluzione. Se si ripercorre la storia del suffragio universale in Inghilterra si scoprirà che esso depone il suo carattere idealistico nella stessa misura in cui si sviluppa nel paese la società moderna con le sue infinite antitesi quali le produce il progresso dell’industria» (Marx-Engels, Opere, XIV, 239-240).
Marx ci dice che il proletariato in Gran Bretagna di allora aveva ben presente che la rivendicazione del suffragio universale avrebbe potuto attuarsi solo con metodi rivoluzionari ed avrebbe significato la rivoluzione. Questo non contraddice ma dialetticamente conferma il nostro giudizio secondo il quale, nella situazione attuale dell’Inghilterra, e di ovunque, il parlamento e l’elettoralismo oggi significano la conservazione. Nel prendere in considerazione quel periodo non dobbiamo dimenticare che il parlamento era ancora poco adatto ai bisogni della borghesia in ascesa, che solo cinquanta anni prima questa classe ancora lottava contro i tentativi di Giorgio III di restaurare il potere assoluto della monarchia, e che, infine, essa era ancora in lotta con l’aristocrazia terriera.
 
 

32. Una nuova Associazione
 

Il 6 giugno 1836 un gruppo di artigiani e operai di Londra si incontrarono allo scopo di riunire lavoratori della capitale in un embrione di partito del lavoro, la London Working Men’s Association. La riunione era stata convocata da veterani delle lotte radicali e di classe, gran parte dei quali di ispirazione owenista, e seguiva altri tentativi fatti l’anno precedente.

La classe operaia si stava ancora riprendendo dalla batosta del tradimento della borghesia ai tempi della legge sulla Riforma del 1832: dopo aver utilizzato le classi lavoratrici per l’agitazione per il suffragio, una volta raggiunto lo scopo si era prontamente mostrata come nemico degli ex-alleati. Che questo fatto fomentasse ancora molto risentimento è testimoniato da un brano di un Indirizzo diffuso dalla nuova organizzazione:

     «Si assiste attualmente ad una disputa tra i due grandi partiti, sia dentro sia fuori del parlamento, tra le classi agrarie e privilegiate da un lato e le classi commerciali e finanziarie dall’altro. Noi possiamo aspettarci ben poco da entrambe. Tra i magnati della finanza ve ne sono che indossano il mantello della Riforma; molti si riempiono la bocca di libertà mentre fanno di tutto per renderci schiavi, predicano la giustizia mentre ci opprimono».
Verso la fine dell’Indirizzo si notava:
     «Nel Regno Unito vi sono 6.023.752 maschi di più di 21 anni di età, ma solo 840.000 hanno il voto, e a causa della diseguale rappresentanza circa un quinto di questi ha il potere di eleggere la maggioranza dei deputati».
L’Associazione allargò rapidamente la sua influenza, e ben presto furono fondate sezioni in tutta l’Inghilterra. Per molti, appartenenti ad altre classi, il fatto stesso che dei lavoratori avessero un’organizzazione diretta e amministrata da essi soli costituiva di per sé una dichiarazione di indipendenza, perché era sempre stata ritenuta necessaria la presenza di qualcuno più "competente" o "rispettabile" e di qualche ben conosciuto "leone" politico o parlamentare come portavoce. Invece la London Working Men’s Association affermava la classe operaia possedeva un bagaglio di saggezza, riguardo alle scienze sociali, superiore alle altre classi.

Nel 1837 l’Associazione, con il sostegno dei radicali, stilò una petizione in forma parlamentare, contenente i seguenti Sei Punti: 1) Eguale rappresentanza; 2) Suffragio universale; 3) Parlamenti annuali (per rendere più difficile la corruzione); 4) Nessun requisito di censo per essere eletti deputati; 5) Voto segreto (per proteggere l’elettore); 6) Stipendio ai deputati (per permettere ai lavoratori eletti di sedere in parlamento).

Nel corso della sua prima riunione pubblica l’Associazione invitò tutti coloro che erano per le riforme a sostenere solo quei candidati che nelle elezioni del 1837 avessero incluso nel loro programma la "Carta del Popolo", come ormai venivano chiamati i Sei Punti. Il suffragio per le donne fu però ritirato, per timore di pregiudicare la possibilità di ottenerlo per gli uomini. La Carta sarebbe stata sostenuta anche da una Petizione, e "missionari" furono inviati per tutto il paese per difenderne i Punti. Il risultato fu che un po’ dappertutto si ebbe la fondazione o l’affiliazione di oltre cento società. Anche la Birmingham Political Union diede presto il consenso. Questa società era stata molto attiva nella lotta per il Reform Bill del 1832, ed il suo sostegno si sarebbe dimostrato vitale per conquistare séguito per la Carta nei Midlands e per permettere all’agitazione cartista di diffondersi nel resto del paese. Nel frattempo la Carta fu redatta in corretta forma parlamentare, ed il disegno di legge prese il nome ufficiale di The Peoples Charter; fu pubblicato il 18 maggio 1838.

I sindacati scozzesi organizzarono una grande dimostrazione per il 21 maggio a Glasgow, nella quale marciarono oltre settanta società operaie, con lo scopo di convincere il popolo scozzese ad adottare e firmare la petizione nazionale per la Carta. La Birmingham Political Union nel frattempo aveva riesumato l’idea dello sciopero generale e di una "Convenzione Nazionale", nonostante la controversa accoglienza che questa aveva ricevuto nel 1833 a causa dei suoi richiami alla Rivoluzione francese. La dimostrazione divenne il segnale per adunate di massa in tutto il paese. A Manchester 300.000 dimostranti manifestarono con bandiere e striscioni di tono minaccioso: "L’assassinio chiede giustizia" era il motto sotto una raffigurazione del massacro di Peterloo; su di un altro una mano brandiva una spada con una pergamena: "Oh tiranni! A questo ci costringete". Le dimostrazioni divennero parate militari, con i lavoratori che marciavano inquadrati tra bande e striscioni verso i luoghi di assembramento. Poiché le dimostrazioni diurne significavano decurtazioni di salario e le autorità ostacolavano le riunioni in sale pubbliche, verso la fine dell’anno si trasformarono in minacciosi assembramenti notturni, con cortei al lume delle torce.

In genere l’inaugurazione formale del movimento cartista viene fatta risalire ad una grande adunata tenutasi a Newhall Hill, Birmingham, il 6 agosto 1838, nel corso della quale fu formalmente convocata una "convenzione nazionale" per presentare la Carta, sostenuta dalla Petizione in parlamento. Subito dopo si procedette ovunque alla elezione di delegati all’imminente congresso ed alla raccolta di fondi; quest’ultima trovò non poche difficoltà, perché doveva essere condotta a livello cittadino per non infrangere la legge che proibiva le alleanze tra organizzazioni.

Prima di continuare a narrare degli eventi politici, sarà bene soffermarsi a considerare il contesto in cui agiva il Cartismo, ed i suoi principali personaggi.

Erano tempi assai duri, in cui ad una esplosione demografica senza precedenti, verificatasi nel periodo a cavallo tra i due secoli, si erano accompagnati eventi politici ed economici sfavorevoli alla classe operaia, coronati dal crollo borsistico del 1836 e dalla più ampia crisi del 1837-42. Masse di operai di fabbrica e di tessitori a domicilio furono costrette a cercare sostegno nell’assistenza delle parrocchie, proprio mentre la borghesia faceva approvare, nel parlamento riformato, la nuova Legge sui Poveri, che solo i proprietari terrieri rifiutavano perché contraria ai loro interessi. La reazione contro la Legge fu pronta e decisa, e generò un movimento i cui capi, Richard Oastler ed il reverendo Stephens, non esitarono a predicare la violenza come strumento di lotta. Il movimento da un lato preparò un terreno favorevole per il cartismo, dall’altro arrivò a collaborare con esso in modo diretto.

La forza lavoro britannica era a quel tempo assai diversificata, in una misura che non trovava riscontro né nel passato, né nel secolo successivo. Negli anni ’30 i tessitori a mano stavano ancora a quelli delle macchine a vapore in un rapporto di 5 a 2, e non erano solo minacciati dall’avanzare delle macchine, ma anche da una sovrabbondanza di manodopera; questo fatto era dovuto a due ragioni principali: in primo luogo, il benessere di cui avevano goduto molti tessitori negli anni di guerra aveva spinto un flusso continuo di manodopera verso questa professione, anche perché si trattava di uno dei mestieri più facili da imparare, bastavano poche settimane; secondariamente, un tessitore a mano aveva notevoli difficoltà a impiegarsi nella tessitura a macchina, in quanto le nuove macchine potevano essere fatte funzionare con facilità da donne e bambini, notoriamente peggio pagate. Una situazione analoga si stava verificando nelle zone laniere dello Yorkshire.

Tra questi lavoratori i tentativi di sindacalizzazione erano destinati al fallimento a causa della loro dispersione in una miriade di posti di lavoro e per il fatto che il loro mestiere era condannato. Questi tessitori, ed in genere i lavoratori a domicilio e dei mestieri rovinati dalla meccanizzazione, avrebbero rappresentato un elemento combattivo ma reazionario all’interno del cartismo. W. Cooke Taylor, nel corso del suo viaggio per le zone industriali del Lancashire, restò impressionato dalla estrema disperazione degli artigiani di Padiham, che superava di gran lunga tutto ciò che aveva visto sino a quel momento. «Attendiamo che il mondo abbia inizio» era la frase che gli veniva ripetuta da tutti i tessitori e artigiani che incontrava.

La London Working Men’s Association, composta principalmente di calzolai, tipografi, falegnami, sarti e carrai, rappresentava interessi molto diversi. Questi lavoratori, insieme alle nuove categorie di meccanici e tecnici nate con le macchine, costituivano una aristocrazia del lavoro. Godevano di condizioni di vita considerevolmente migliori di quelle della gran parte degli operai, ed erano socialmente vicini ai negozianti e ai quadri intermedi delle fabbriche, categorie anch’esse coinvolte nelle attività del cartismo. Tuttavia anche la posizione degli operai specializzati era stata intaccata seriamente dalla abrogazione, nel 1813, di alcune clausole dello Statuto degli Artieri elisabettiano, che prevedeva un apprendistato di sette anni: ora i lavoratori senza esperienza e senza apprendistato potevano accedere a professioni tradizionalmente protette.

L’attività di organizzazione sindacale era per questa ragione ancora in uno stadio assai rudimentale, e ogni settore del mondo del lavoro aveva richieste spesso in contrasto con quelle degli altri. Per l’operaio dell’industria, che lottava per la sopravvivenza contro il padrone, il «dandy rileccato che è stato istruito a caro prezzo, nelle migliori scuole e collegi, e che non intende guadagnarsi il pane lavorando», il contrasto tra salariato e padrone era molto più netto che per l’artigiano; per quest’ultimo, che rappresentava l’aristocrazia del lavoro, l’obbiettivo era di mantenere i privilegi del suo mestiere e la sua indipendenza, a fianco del padrone, contro la massa dei lavoratori non specializzati.

Entrambi i settori erano però accomunati dalla preoccupazione dell’accesso ai mestieri: gli artigiani cercavano di proteggersi cercando di salvaguardare la tradizione, le leghe di operai di fabbrica creando un sistema artificiale di apprendistato. A entrambe le conferenze nazionali dei filatori di cotone, del 1829 e del 1830, fu concordato che ai filatori sarebbe stato permesso di addestrare solo membri delle loro famiglie e parenti poveri degli industriali; i filatori di Glasgow, nel tentativo di impedire la mobilità, arrivarono ad escludere dal mestiere chiunque non avesse fatto la gavetta in città.

Nelle parole degli stessi William Lovett e Francis Place – entrambi coinvolti sia nella stesura della Carta sia nell’attività sindacale – l’obbiettivo principale dei sindacati era di «ottenere decenti livelli salariali». Ma Bronterre O’Brien, il maestro del cartismo, già domandava ai suoi lettori:

     «Esiste una speranza che senza una trasformazione totale del sistema un manovale riesca ad imporre un salario decente per una giornata lavorativa decente? Si tratta di una cosa che, a mio giudizio, è impossibile».
Una drammatica conferma della capacità della classe operaia a muoversi al di là del sindacalismo, pur restando all’interno delle organizzazioni di mestiere, e a scrollarsi di dosso la sovrastruttura corporativa in tempi particolarmente duri la avremo durante le agitazioni del 1842.

L’influenza dominante in quegli anni 1837-42 fu senza dubbio l’owenismo, che si stava riprendendo dopo il fallimento delle General Unions, e sicuramente su tutti i capi cartisti tanto che nei vari episodi del cartismo può scoprirvi ovunque, dall’inizio alla fine, il marchio del socialismo utopistico. Così commenta Beer:

     «Le masse della classe operaia che aderirono al cartismo condividevano la critica sociale dell’owenismo, ma ne rifiutarono il dogma della salvazione, che Owen invece considerava proprio la parte più importante del suo sistema; egli considerava quindi il cartismo come un passo indietro».
Vi furono numerose altre influenze. O’Brien, anch’esso seguace di Owen, subì l’influenza di Bray e Hodgskin e della loro critica dell’economia borghese. O’Brien era anche un ammiratore di Buonarroti, e ne tradusse in inglese la Congiura degli Eguali. Pensava che
     «con la Carta, e la proprietà pubblica di terra, denaro e credito, il popolo presto scoprirà quali meraviglie nella produzione, distribuzione e scambio possono essere ottenute dal lavoro associato, a confronto con gli sforzi del lavoro isolato. Ne nascerà così gradualmente il vero stato sociale, ovvero la realtà del socialismo, ben diversa da come oggi la si sogna. E senza dubbio la conseguenza finale sarà la prevalenza universale di un tipo di società non diverso nella sostanza da quello delineato da Owen. Ma l’idea di saltare subito dall’attuale società iniqua e corrotta nel paradiso sociale di Owen, senza alcun previo riconoscimento dei diritti umani e senza stabilire nemmeno una legge o istituto per salvare il popolo dalla sua attuale, brutale condizione di ignoranza e vassallaggio, è una chimera» (National Reformer and Manx Weekly Review, 30 gennaio 1847).
O’Brien avrebbe in seguito esercitato una notevole influenza su Julian Harney, che ambiva a emulare i rivoluzionari francesi e che avrebbe fondato organizzazioni internazionali, le quali a loro volta avrebbero costituito le fondamenta per la Prima Internazionale.

Un’altra influenza importante fu quella di gruppi irlandesi come gli United Irishmen e gli Whiteboys, principalmente attraverso Feargus O’Connor, che apparteneva ad entrambe le organizzazioni. La seconda era una organizzazione cospirativa formata da contadini poveri per resistere alle recinzioni dei grandi allevatori, che si accaparravano sempre più terra per allevare il più redditizio bestiame, mentre la prima era stata costituita da un movimento nazionalista irlandese, attraverso una alleanza di coloni scontenti e di parte della popolazione cattolica. O’Connor costituì poi una organizzazione parallela alla London Working Men’s Association denominata Great Northern Union. Fu questa organizzazione che avrebbe poi definito una serie di norme di comportamento per coloro che si chiameranno cartisti della "forza fisica". Nel suo programma si afferma che

     «si ricorrerà alla forza fisica, ove necessario, per garantire l’eguaglianza della legge e la benedizione di quelle istituzioni che costituiscono il diritto di nascita degli uomini liberi (...) Il sindacato non deve riconoscere altra autorità salvo quella che emana dalla fonte legittima di ogni onore, e cioè dal popolo».
Harney e O’Connor lavorano in stretto contatto, e nel 1842 Harney divenne il direttore del giornale di O’Connor.
 
 

33. La Convenzione Nazionale
 

Il 4 febbraio 1839 si riunì a Londra per la prima volta quella Convenzione Nazionale che da anni il movimento auspicava; prese il nome di "Convenzione Generale delle Classi Industriali della Gran Bretagna"; vi furono eletti 56 delegati; e Lovett segretario.

Nella prima settimana furono raccolte 700 sterline, eminenti oratori furono nominati "missionari" nelle province per illuminare le masse, e fu eletto un comitato per trattare con i membri del parlamento. Il giorno dopo l’inizio dei lavori della Convenzione vi fu la cerimonia di apertura del Parlamento, con un discorso della regina in toni assai minacciosi. La Convenzione rispose che non si sarebbe esitato a ricorrere alla resistenza armata ove fosse stato necessario. La Convenzione continuò i suoi lavori, senza interruzione, pur se ridotta nei ranghi per le assenze dei "missionari" e per i numerosi comitati, fino al 14 settembre 1839.

In questo periodo i principali argomenti in discussione furono due: libero commercio e "ulteriori misure". La discussione sul libero commercio serviva a definire l’atteggiamento della Convenzione nei confronti della Lega Contro la Legge sul Grano (Anti-corn law League). Questa era una organizzazione irrimediabilmente gradualista, e sosteneva che fosse necessario far abrogare la legge sul grano prima di poter lottare per il suffragio. Si trattava di idee, provenienti da un gruppo munificamente finanziato dagli industriali, che di sicuro non ispiravano gran fiducia agli operai e non fu una sorpresa che fosse approvata all’unanimità una mozione di O’Brien che raccomandava una opposizione totale ed una critica della Anti-corn law. La questione era discussa un po’ dappertutto, ed era evidente che grano a basso prezzo avrebbe significato nel breve termine un abbassamento dei salari. I cartisti si diedero a intervenire con le loro critiche ai comizi della Lega, propagandovi invece la Carta, il che spesso diede luogo a tafferugli.

Le "ulteriori misure" consistevano sul da farsi nel caso che la Carta non fosse accettata dal Parlamento. Qui le posizioni si differenziavano in una ampia gamma di proposte che andavano da sistemi pacifici e costituzionali fino allo scontro fisico ed alla aperta insurrezione; tali differenze si riassumono nelle posizioni delle due fazioni che si originarono, i cosiddetti partiti "della forza fisica" e "della forza morale". L’inclinazione verso l’una o l’altra dipendeva dai diversi gradi di prosperità nelle aree del paese. Mathers commentò:

     «Il cartismo in Scozia sicuramente propendeva per la forza morale, in quanto si stava verificando un boom economico nelle industrie metallurgiche, e la Legge sui Poveri non aveva validità per la Scozia. Inoltre i lavori più sporchi e peggio pagati erano appannaggio degli emigrati irlandesi che, a causa dell’isolamento in cui vivevano, erano nella grande maggioranza del tutto estranei al movimento cartista. Al contrario, il distretto di Bradford del West Riding, ove migliaia di operai della lana venivano espulsi dalla produzione perla concorrenza delle macchine, era forse l’area più importante dell’Inghilterra in favore della forza fisica, in quella primavera del 1848» (Un opuscolo della Historical Association).
L’intera questione delle "ulteriori misure" fu ritenuta prematura dalla Convenzione, ma a causa dell’insistenza sulla sua importanza da parte dei rappresentanti della "forza fisica" fu demandato ad un Comitato di studiare il problema. Si determinò una polarizzazione ai due stremi: Harney, grandemente influenzato dalla rivoluzione francese, continuò a sostenere l’insurrezione ovunque e comunque, in ciò appoggiato dal maggiore Beniowski, un profugo della insurrezione polacca del 1831, che scriveva sul London Democrat sull’inutilità della Convenzione, sulla rivoluzione polacca e su tattica e strategia della rivoluzione. Il partito "della forza morale" e la destra in generale ritennero queste attività pregiudizievoli per la "ripettabilità" della Convenzione, e fecero passare un voto di censura su Harney.

Questo non impedì la convocazione di una riunione in un pub, nel corso della quale Frost, O’Connor, Harney e altri invitarono alla preparazione dell’imminente scontro. Nel frattempo il governo disponeva esercito e polizia per combattere la marea crescente delle agitazioni. Ciò costituì il segnale della mobilitazione armata per i capi cartisti. La Convenzione si trasferì a Birmingham, ove il 13 maggio 1939 i delegati furono accolti da una folla di operai.

Il giorno seguente, mentre arrivavano la fanteria e l’artiglieria in assetto di guerra, fu pubblicato sotto forma di Manifesto il rapporto del Comitato sulle "ulteriori misure". Vi osservava:

     «La maschera della libertà costituzionale è gettata per sempre, ed il volto del dispotismo ci è orrendamente davanti: a noi ormai non si può più nascondere che il governo d’Inghilterra è un dispotismo, ed i suoi milioni di lavoratori, schiavi (...) Abbiamo con pazienza accettato un sopruso dopo l’altro, finché le ultime vestigia del diritto sono cadute nella mistificazione delle leggi, e la forza armata del paese trasferita ai soldati e ai poliziotti».
Veniva quindi proposto di tenere una serie di comizi di massa per saggiare la volontà del popolo, nei quali ad esso sottoporre una serie di proposte tese a sostenere la Carta. Occorreva verificare se il popolo fosse pronto, su richiesta della Convenzione, a correre in massa nelle banche per convertire il denaro in oro; sostenere uno sciopero degli affitti e delle tasse, uno sciopero generale; sostenere soltanto i commercianti cartisti; e armarsi per difendere i loro diritti. Quando, il primo luglio, la Convenzione riprese i lavori, molte di queste misure furono approvate, e fu espresso il bisogno di una organizzazione più efficiente. Taylor, della sinistra, in vista della futura insurrezione fece seppellire cinque cannoni di ottone. Seguirono numerosi arresti e rivolte a Birmingham, dove la polizia dovette spesso rifugiarsi nelle case. I disordini continuarono e numerosi cartisti furono arrestati.

L’8 luglio la Convenzione si risolse a tornare a Londra per la seconda lettura della petizione, il 12, nella Camera Bassa. La petizione fu sconfitta, pur se ricevette i voti di radicali e liberoscambisti, con 235 voti contro 46.

I preparativi per uno sciopero generale continuarono, anche grazie alle notizie di uno sciopero di 25.000 minatori causato dall’arresto di dirigenti cartisti, ed alle manifestazioni di massa a Birmingham in seguito alla ulteriore delusione parlamentare. La Convenzione era adesso vista come una specie di comitato centrale in embrione, poiché la maggior parte dei delegati era convinta che uno sciopero generale sarebbe stato immediatamente seguito da una generale insurrezione e dalla guerra civile.

Il 10 luglio fu approvata una mozione che fissava la data dello sciopero, o "mese sacro", per il 12 agosto. La questione non era però definitivamente risolta, e nei giorni successivi i dubbi e le incertezze di molti portarono all’approvazione di una mozione di O’Brien, che ammetteva libertà di coscienza nell’adesione allo sciopero. Ciononostante i bottegai del regno si spaventarono e invocarono l’aiuto del governo, che riprese la repressione, fino all’arresto di 130 capi cartisti in agosto. Il fatidico 12 agosto si dimostrò una delusione: in tutte le città vi furono comizi e manifestazioni, con qualche tafferuglio, ma il sostegno dei sindacati fu minimo e non vi fu alcuna possibilità di uno sciopero generale.

Il 26 agosto la Convenzione si riunì in assemblea, ma senza prendere alcuna misura a seguito del fallimento della petizione e dello sciopero generale. Il 6 settembre la Convenzione si sciolse; uno dei suoi ultimi atti fu la stesura di una "Dichiarazione dei redditi costituzionali dei britannici", che sarebbe stata oggetto di avida lettura tra i cartisti istruiti, e citata in numerose occasioni nel corso di processi.
 
 

34. La ribellione di Newport
 

L’8 ottobre 1838, in occasione di un banchetto a Liverpool, Lord John Russel, in un discorso a sostegno dell’agitazione cartista, aveva detto:

     «Io penso che il popolo abbia il diritto di riunirsi. Se non vi sono lamentele, il buon senso non può che prevalere e non è da metter fine a queste riunioni».
Questo era precisamente l’orientamento governativo.

Ma, nell’estate del 1839, in seguito al fallimento della petizione ed alla massiccia ondata di arresti, ad opera della sinistra cartista si formò una associazione segreta. Il gruppo si costituì intorno a cinque delegati della sciolta Convenzione, dandosi come scopo l’emancipazione delle classi lavoratrici attraverso l’insurrezione armata. La successiva confessione di uno dei capi, tale Zephaniah Williams, rivelò un piano per rovesciare il governo e istituire una repubblica. La cospirazione era organizzata per cellule, nello stile degli United Irishmen, ma ancor oggi non se ne sa molto di più, tranne che a Heckmondwike sedeva una Conferenza nazionale, ed in Conferenze di rango inferiore, e che l’area interessata dall’agitazione cartista era divisa in distretti, nei quali i cartisti erano raggruppati in unità di 10, 100 e 1.000 uomini, con dirigenti e capitani. Le zone ritenute mature per la rivolta erano molte, e spesso i fatti erano decisi da circostanze contingenti.

Una rivolta ebbe luogo a Newport, in Galles. I minatori ed i siderurgici del Galles del Sud avevano partecipato a innumeri lotte sin dal 1829, quando le paghe dei minatori erano state ridotte. Nel 1831 gli operai di Merthyr Tydfil distrussero l’ufficio in cui si teneva l’archivio dei debiti che dovevano ai negozi dei padroni, e furono poi attaccati selvaggiamente dai soldati, lasciando sul terreno ventuno morti e circa settanta feriti. I padroni si affrettarono a licenziare chiunque appartenesse a un sindacato. La rappresaglia degli operai fu la costituzione di un’organizzazione segreta chiamata Scotch cattle, che si dedicò a bastonare i dirigenti delle officine e gli operai che accettavano tagli dei salari. Nel 1839 la Scotch cattle era cartista.

L’arresto ed i maltrattamenti cui in prigione fu sottoposto Henry Vincent – il capo cartista più eminente nell’Ovest e in Galles – la proibizione del porto di armi e delle assemblee, e le dure condanne detentive contribuirono a creare una situazione di grande mobilitazione con l’obbiettivo di liberare Vincent con la forza. Al centro del movimento era un certo John Frost, commerciante di tessuti, sindaco, magistrato e giudice di pace, che era stato un difensore delle dottrine radicali sin dal 1817 e che si era convertito al cartismo nel 1838, quando Henry Vincent giunse in Galles. Alla riunione di Heckmondwick i quaranta delegati furono informati dell’intenzione dei gallesi di insorgere, e fu deciso di aiutare la ribellione con un sollevamento del Nord; a O’Connor fu chiesto di guidare la ribellione, e lui accettò. A partire da questo momento gli storici non sono d’accordo su quanto avvenne; è però evidente che O’Connor, dopo aver maneggiato per trovarsi in una posizione vantaggiosa, fece di tutto per bloccare l’insurrezione. Disse ai gallesi che al Nord non erano pronti a insorgere e che si trattava di una provocazione del governo, mentre a quelli del Nord disse che erano i gallesi a non essere pronti. Nello Yorkshire si decise ugualmente di passare all’azione. Ma a questo punto il loro capo, Peter Bussey, commerciante, cadde improvvisamente "ammalato"; in seguito a questo inconveniente Bussey dovette vendere tutto e partire in tutta fretta per l’America. O’Connor ritenne invece che fosse il momento giusto per visitare l’Irlanda, dalla quale non tornò che dopo la fine delle sommosse.

Il Galles restò quindi solo. Verso la fine di ottobre un comitato che comprendeva Frost decise di marciare su Newport con una colonna di mille uomini per togliere Vincent di prigione. Gli uomini furono mobilitati, armati di moschetti, picche e bastoni, e il 4 novembre fatti marciare su Newport; al loro arrivo, dopo qualche scaramuccia con la polizia, il contingente si recò all’Hotel Westgate per affrontare il magistrato e chiedere il rilascio dei prigionieri. Non sapevano che nell’Hotel erano appostati soldati, che accolsero le loro richieste con un fuoco incrociato che causò ai cartisti venti morti e circa cinquanta feriti. L’insurrezione era finita; ne seguirono numerosi arresti e molti capi furono condannati a morte o alla deportazione. Solo nel 1856 sarebbe stata concessa una completa amnistia.

Questi fatti ebbero uno strano seguito: fu organizzata una riunione a Londra per discutere i modi di liberare Frost. O’Connor fu eletto nel comitato, ma non sembra abbia mai partecipato ad alcuna riunione; partecipò però ad una riunione segreta nella quale fu decisa la data dell’insurrezione, il 12 gennaio, nel caso Frost non fosse stato rilasciato. A tale data rivolte ebbero luogo a Sheffield e in altri posti.

Le rivolte furono condannate dal giornale di O’Connor, The Northern Star. Questo comportamento non sorprese Marx, che così descrive O’Connor:

     «È di natura un conservatore e nutre un odio feroce sia contro il progresso industriale sia contro la rivoluzione. I suoi ideali sono in tutto patriarcali e piccolo-borghesi. In sé assomma un’incredibile quantità di contraddizioni, che si armonizzano e si risolvono in un piatto buonsenso e lo mantengono, anno dopo anno, in grado di scrivere ogni settimana le sue lunghissime lettere sul Northern Star, l’ultima delle quali è sempre in perfetto contrasto con la precedente (...) Persone come lui servono a togliersi di dosso tutta una serie di antichi e radicati pregiudizi: quando il movimento le avrà finalmente superate, si sarà anche liberato, una volta per tutte, anche dei pregiudizi che esse rappresentano» (Neue Rheinische Zeitung, maggio-ottobre 1850).
Entro il giugno 1840, 380 capi cartisti in Inghilterra e 62 in Galles erano stati arrestati e giudicati. Dei 442 arrestati, 425 appartenevano alla classe operaia: operai tessili, metalmeccanici e minatori erano i più rappresentati. Le spese sostenute per tutti questi processi crearono un vuoto pauroso nelle casse dei cartisti, la cui stampa subì inoltre persecuzioni che costrinsero alla chiusura, nello stesso anno, di otto periodici.
 
 

35. L’Associazione Nazionale cartista
 

Le esperienze dei primi anni di cartismo avevano insegnato ai capi del movimento che il problema da risolvere era quello dell’organizzazione. Iniziò così una intensa corrispondenza, cui parteciparono i cartisti incarcerati, che fu seguita da una conferenza, il 20 luglio 1840 a Manchester, che diede vita alla National Chartist Association. Suo scopo era la riforma radicale del parlamento, oltre a tutte le vecchie richieste della Carta; l’organizzazione che doveva sostenere questo programma era concepita come una federazione di sezioni locali, con a capo un esecutivo di sette membri stipendiati. L’organizzazione nazionale che ne risultava era però strutturata in forma contraria ai dettati del Corresponding Societies Act del 1799, una legge che vietava le associazioni composte di sezioni. Si dovette quindi aggirare la legge istituendo un Consiglio Generale eletto da tutti i membri, il quale poi nominava i funzionari e rappresentanti locali.

Il primo atto della nuova organizzazione fu la stesura di un Indirizzo, che invitava i cartisti a farne parte, che sottolineava la sua natura costituzionalista, e che espressamente rinnegava i metodi cospirativi, preferendo le attività di diffusione della conoscenza e di incoraggiamento della temperanza. Il nome National Charter Association fu mantenuto dal movimento per tutto il resto della sua storia. Molte opinioni furono espresse in quella conferenza e, tra i vari richiami alla temperanza, McDouall – coinvolto nei fatti di Newport – chiese che l’organizzazione cartista penetrasse anche nei sindacati, che avrebbero potuto al momento giusto costituire la base per l’organizzazione. Entro il 1842 questo si verificò in numerose categorie, con la costituzione delle Associazioni Cartiste dei cappellai, dei falegnami, dei calzettai, ecc.; questa linea di azione si sarebbe dimostrata azzeccata in occasione dello sciopero generale di quell’anno.

Nel 1841 Sir Robert Peel, sfruttando lo scontento diffuso nel paese, ottenne un voto di censura nei confronti del governo Wright (liberale) per costringerlo alle dimissioni. La manovra riuscì, dopo di che la tattica elettorale divenne il principale argomento di dibattito tra i cartisti, che produssero un numero inverosimile di opinioni e di tattiche. Il Northern Star in un articolo raccomandava: «Ovunque separarsi dai Tories significa far tornare il tuo uomo, fallo; ovunque separarsi dai Wrights significa far tornare il tuo uomo, fallo». Lo stesso giorno, in un altro articolo, si raccomandava invece di non sostenere in alcun modo i Wrights. Le posizioni sulla questione erano grosso modo due, una che sosteneva i liberali, che sembrava avessero idee più radicali, l’altra che riteneva fosse meglio sostenere i Tories, perché un nemico dichiarato è meglio di un falso amico.

Vi era tuttavia un’altra linea di pensiero, rappresentata da O’Brien, che credeva nell’utilizzazione delle elezioni a scopo solo di agitazione. I candidati cartisti sarebbero saliti sulle tribune per tenere comizi, e per essere eletti ufficiosamente per alzata di mano. Essi avrebbero poi costituito il "Consiglio Nazionale del popolo non rappresentato", fino alla dissoluzione del parlamento. O’Brien riteneva questo atteggiamento più serio che non farsi adescare sul terreno dell’intrigo borghese, anche perché avrebbe ulteriormente mostrato che i cartisti erano dalla parte dei lavoratori. Il suo pensiero fu violentemente criticato dalla corrente più forte, rappresentata da O’Connor, il quale gestiva il suo potere nel partito attraverso il Northern Star e la sua rete nazionale di corrispondenti, e che, quasi come punto d’impegno, difendeva a spada tratta la tattica delle manovre tra i partiti parlamentari esistenti.

I liberali furono sconfitti nelle elezioni, cosa che fece un gran piacere alla classe operaia. La Nca preparò subito un’altra petizione da presentare al parlamento per la Carta del popolo; questa Carta, pur se simile alla prima, conteneva una serie di rimostranze, tra cui la richiesta di abrogazione dell’unione legislativa tra Gran Bretagna e Irlanda. Fu formata una Convenzione, come nel 1839, per presentare in parlamento una petizione, che stavolta aveva raccolto ben 3.317.752 firme (erano state 1.280.000 nel 1839). L’iniziativa fu di nuovo sconfitta, e Macaulay così spiegò il perché in parlamento: «Il suffragio universale sarebbe fatale per tutti gli scopi per cui il governo esiste (...) ed è del tutto incompatibile con l’esistenza stessa della civiltà». Ma presto si sarebbe usciti dal campo dell’intrigo elettorale, dietro le convincenti pressioni della fame e della miseria; il prossimo futuro dei cartisti sarebbe stato il loro coinvolgimento in un poderoso movimento di sciopero.
 
 

36. Lo sciopero generale del 1842
 

Verso la fine del luglio 1842 i lavoratori di Ashton, Stalybridge e Hyde, in seguito ad una serie di riduzioni di salario, organizzarono riunioni per decidere su come meglio difendersi. Lo scenario di quel mese era già stato caratterizzato da numerosi scioperi dei minatori nello Staffordshire, che avevano portato nell’azione politica i disoccupati organizzati. A una riunione dei minatori disoccupati a Hanley fu letta una risoluzione: «È opinione della riunione che niente all’infuori della Carta del Popolo può darci il potere di ottenere “un giusto salario per una giusta giornata lavorativa”». Presto a loro si sarebbero aggiunti i lavoratori del cotone, in risposta ad un attacco ai salari portato dai padroni del settore. Anch’essi si riunirono, con atteggiamenti che riecheggiavano quelli dei minatori, «allo scopo di prendere in considerazione la soluzione di fermare il lavoro finché non si ottenga un giusto salario per una giusta giornata lavorativa».

La riunione era presieduta da un cartista del luogo che era anche membro dell’esecutivo della Nca, il quale parlò in favore degli scopi della Carta, mentre un certo Richard Pilling, anch’esso capo cartista del luogo ed uno di coloro che avrebbero guidato la sciopero attraverso le sue varie vicissitudini, parlò in favore della decisione di scioperare se i padroni delle fabbriche avessero messo in atto la minaccia di tagli ai salari. Si ebbero altre riunioni simili in quel periodo, seguite da scioperi isolati che spesso riuscirono a bloccare l’attacco padronale.

Nella fabbrica Bayley una riduzione del 25% del salario era stata annunciata per il 5 agosto; il 4 i tessitori e altri dipendenti di Bayley scioperarono, ed il giorno successivo un comitato di operai si incontrò con la direzione, la quale disse loro che se non erano d’accordo con i tagli «avrebbero fatto meglio ad andarsene a spasso». Un’assemblea di due giorni più tardi, il 7 agosto, diede il primo annuncio dello sciopero generale. «Domani ci sarà una riunione a Stalybridge alle 5 del mattino, e poi andremo di fabbrica in fabbrica; chi non verrà di sua volontà lo faremo comunque uscire. E, amici, una volta fuori resteremo fuori finché la Carta, che è la sola garanzia che avete per i vostri salari, diviene la legge del paese». I padroni si affrettarono a promettere non avevano intenzione di applicare i tagli minacciati, ma poiché le voci di una serrata di un mese continuavano a circolare, lo sciopero continuò. Ormai le sue rivendicazioni erano quelle dell’intera classe operaia.

L’8 la prevista riunione ebbe luogo, e presto si formò un imponente corteo, poi diviso in due parti per coprire una zona più ampia, che marciò di fabbrica in fabbrica, ovunque fermando il lavoro ed improvvisando comizi di massa. Su una delle bandiere era scritta l’ormai famosa frase: «Gli uomini di Stalybridge andranno ovunque il pericolo indica la via. Meglio morir di spada che di fame». Il 9 agosto, dopo essere passata da Ashton e Oldham, la manifestazione diresse su Manchester. Entrando in città si divise in numerosi gruppi più piccoli che toccarono tutte le fabbriche, propagandando lo sciopero ed invitando tutti i lavoratori a farne parte, cosa che solo raramente comportò intimidazioni. Ben presto furono affrontati dalle truppe e dalla polizia in numerosi scontri di strada. Entro il secondo giorno di sciopero a Manchester tutti avevano incrociato le braccia, e lo stesso avvenne a poca distanza di tempo nell’intera area urbana, per tutte le categorie, ivi compresi i ferrovieri, i meccanici, gli operai manifatturieri – tutti insomma.

Si trattava di una reazione "spontanea" della classe operaia, di un riflesso condizionato? Quasi tutti gli storici borghesi che hanno trattato dello sciopero generale del 1842 vorrebbero farcelo credere, ma questa non è assolutamente la verità. L’iniziale abbandono del lavoro era stato l’oggetto di interminabili delibere e partecipate assemblee, e costituiva la risposta a una serie di attacchi che si erano intensificati al punto che non restava altra scelta. Quando lo sciopero raggiunse Manchester, la sua organizzazione dovette assumere una forma più efficiente sia a livello locale sia centrale, unificando gli sforzi dei lavoratori dei vari mestieri per mezzo di una Conferenza dei Mestieri, che operava in stretto contatto con il Partito Cartista. In altre parole si stava creando la stessa struttura che con tutta probabilità la lotta rivoluzionaria ricreerà nel futuro – sindacati operai unificati al di sopra delle professioni e delle categorie, in stretto contatto con il partito della classe.

Le basi di questa forma di organizzazione che si stava delineando erano già state gettate dagli operai metalmeccanici di Manchester e del Sud Lancashire i quali, dopo il crollo della Grand National Consolidated di Owen, avevano continuato nella lotta per creare un sindacato che unificasse cinque dei mestieri di quell’industria: montatori, motoristi, fonditori, fabbri e meccanici. I primi in questo tentativo furono i lavoratori della Sharp, Roberts & Co. di Manchester, che a quei tempi produceva le macchine più progredite del mondo e che era duramente colpita dal protezionismo inglese che proibiva l’esportazione di macchine tessili e di altri tipi. Questi tentativi produssero un giornale chiamato Trades Journal e una organizzazione chiamata United Trades Association.

Ad una delle tante riunioni di quel periodo Alexander Hutchinson, owenista e operaio cartista, nonché promotore di questi tentativi di organizzazione, dichiarò: «Si dice che sindacato significa forza; e se una società da sola può far bene, cinque possono essere ben più efficienti. Voi siete tutti coinvolti nello stesso lavoro, spesso nella stessa officina; i vostri interessi sono inseparabilmente gli stessi. Quando è tempo di oppressione i vostri padroni non attaccano i vostri salari tutti insieme, nello stesso momento; è meglio per loro farlo gradualmente, e quando una o due categorie sono state sconfitte le altre sono ormai facile preda. Invece di piccole vertenze in una officina o posto di lavoro, che queste si generalizzino, e in questo modo eviteremo quei piccoli conflitti e rancori che possono sorgere tra di noi».

Questi tentativi non ebbero un successo immediato – anche se furono tali da suscitare gli interessi della polizia locale, dell’esercito e del Ministero degli Interni – ma dalle loro ceneri sarebbe sorta dieci anni più tardi la Amalgamated Society of Engineers, il sindacato dei metalmeccanici di Gran Bretagna e Irlanda.

Fin dai primi giorni in cui lo sciopero raggiunse Manchester, vi furono attivi sforzi per costituire una direzione centrale del movimento. Furono approvate diverse risoluzioni, praticamente all’unanimità, a favore dello sciopero e della Carta, ed una risoluzione «che una riunione generale dei delegati dei diversi mestieri di Manchester si tenga lunedì pomeriggio alla Carpenters’ Hall». Nei due giorni successivi si tennero grandi e piccole riunioni per eleggere i delegati alla conferenza principale del 15 agosto. Questa conferenza è conosciuta come la Great Delegates Trades Conference, il presidente fu Alexander Hutchinson; vi fu deciso: «che i delegati riuniti in pubblica riunione raccomandano alle varie costituenti che rappresentano, di adottare tutti i mezzi legali per portare a buon fine la Carta del Popolo; raccomandano altresì che siano inviati delegati per tutto il paese per tentare di ottenere la cooperazione delle classi medie e lavoratrici per far fede alla risoluzione di cessare il lavoro finché la Carta divenga legge».

Fu inoltre passata una mozione tendente a mantenere in primo piano la questione salariale, ed una che dichiarava: «Siamo anche dell’opinione che finché la legislazione di classe non è completamente distrutta (...) il lavoratore non sarà nelle condizioni di godere dei pieni frutti del suo lavoro».

Il giorno successivo fu stampato un Manifesto in grandi caratteri rossi che fra l’altro prometteva di «continuare nei nostri sforzi fino al raggiungimento della completa emancipazione dei nostri fratelli delle classi lavoratrici dalla schiavitù del monopolio e della legislazione di classe, per mezzo della affermazione legale della Carta del Popolo. Il mondo del lavoro britannico ha ottenuto il Reform Bill. Lo stesso mondo del lavoro di Gran Bretagna otterrà la Carta».

Il mattino successivo la Conferenza si riunì ancora ed elesse un comitato esecutivo di dodici membri, più il presidente. Invitarono i comitati locali ad organizzarsi e a guidare lo sciopero, e a trattare con le classi medie e con i bottegai, tenendoli a bada con buoni di credito, ecc. Questa ultima mossa diplomatica verso i bottegai non era casuale perché, parallelamente a quelle degli operai, c’erano state riunioni dei negozianti. Essi avevano anche cercato di versare olio sulle acque agitate, col comportamento tipicamente tentennante, inviando delegazioni a incontrare i padroni; dopo una di queste dichiararono che avrebbero ritirato il loro sostegno agli operai «se la questione fosse divenuta politica».

Il governo non ci mise molto a comprendere il significato di queste Conferenze. Il 15 agosto Sir James Graham, Segretario di Stato per gli Interni, scrisse al Maggiore Generale Sir William Warre, Comandante dell’esercito per il Nord: «È abbastanza evidente che questi delegati costituiscono il corpo dirigente; essi formano il collegamento tra sindacati e cartisti, e un colpo portato a questa confederazione andrà al cuore del male e ne taglierà le ramificazioni».

Quattro giorni più tardi cinque dei più eminenti delegati erano stati arrestati, ed il giorno successivo anche Alexander Hutchinson ed i principali funzionari della Conferenza si trovarono dietro le sbarre.

Nel frattempo lo sciopero si allargava a Lancashire, Yorkshire, Warwickshire e Staffordshire, raggiungendo anche Galles e Scozia, dove entrarono nella lotta anche i minatori. A Middleton seterie, cotonifici, tintorie e stamperie di tessuti aderirono allo sciopero; a Rochdale, il 12, «tutte le braccia dei cotonifici e lanifici, e operai di tutti i mestieri per miglia e miglia dintorno, avevano cessato di lavorare, e tutte le fabbriche erano ferme», e questa città divenne un centro per l’organizzazione di marce e cortei nel prosieguo della lotta.

Mentre il governo raccoglieva le forze, ad Ashton gli operai entrarono in azione e si impadronirono della locale stazione ferroviaria, per impedire gli spostamenti di truppe; le autorità locali reagirono raccogliendo in tutta fretta centinaia di guardie giurate. Truppe e polizia venivano spostati per il territorio, e spesso aprivano il fuoco, come a Preston il 12, quando numerosi operai rimasero uccisi. Ma l’apparato repressivo statale in molti punti cedeva, numerosi lavoratori furono portati in giudizio per aver rifiutato di prestare giuramento di fedeltà alla Corona come guardie giurate, mentre molti di quelli che erano stati reclutati erano del tutto inaffidabili. Inoltre dei contingenti composti di veterani dell’esercito, in particolare i pensionati di Chelsea, furono accusati da uno dei loro comandanti – dopo azioni assai poco entusiastiche – di «non essere in alcun modo affidabili in una emergenza come quella attuale» (dal Guardian di quei giorni).

Un altro segno rivelatore di come le lotte della classe operaia stessero distruggendo le barriere artificiali della società fu il numero eccezionale di donne che parteciparono allo sciopero, combattendo con la stessa tenacia e coraggio degli uomini, maneggiando pietre, bastoni e sciabole. Dopo tutto erano proprio le donne e i bambini a costituire il grosso del proletariato industriale originario. In una fabbrica dove era in corso un picchettaggio di massa il Guardian sottolineò che: «gli assalitori più attivi erano le donne, con i loro grembiuli pieni di pietre». E non si trattava di un incidente isolato. In un altro articolo dei primi di settembre lo stesso giornale riferì che «nel pomeriggio si è tenuta una assemblea di operaie a Ashton, nella quale è stata approvata una risoluzione in cui si impegnavano a non andare al lavoro, né di permettere ai loro mariti di farlo, finché le loro richieste non fossero state accettate».

Vi furono anche fabbriche distrutte, ed i lavoratori minacciati di violente ritorsioni se non scioperavano; altrove gli scioperanti spensero i fuochi sotto le caldaie e ne portarono via i portelli (plugs), da cui il nome Plug plots.

Ovunque nascevano comitati di operai di fabbrica e comitati di sciopero, ai quali i padroni si rivolgevano perché concedessero il completamento di lavori urgenti, o di salvare materiali che rischiavano di restare danneggiati. Ovunque questa "gente normale" ebbe modo di mostrare una eccezionale capacità organizzativa ed una disciplinata azione di classe, e va notato che in nessun posto si ebbero casi di saccheggio. Per una settimana la classe operaia mantenne il controllo del centro più ricco dell’industria del cotone, a parte occasionali scontri con i soldati; i lavoratori di Manchester in particolare avrebbero continuato la lotta per ben sette settimane.

Fino a che punto i cartisti furono coinvolti nell’agitazione? Sin dal marzo precedente era stata fissata una riunione, da tenersi in Manchester, della National Charter Association per discutere sul dissenso all’interno del movimento e per commemorare il massacro di Peterloo; la data di inizio era il 16 agosto, il giorno successivo a quello della Grand Delegates Conference. La riunione era stata proposta da Alexander Hutchinson, e se questo fatto lo si collega con l’altro, che Peter McDouall – il principale sostenitore della organizzazione dei cartisti all’interno dei sindacati – aveva le sue basi nel Lancashire e nel Cheschire (le contee che circondano Manchester) ed era stato coinvolto nell’insurrezione di Newport, è difficile non pensare che lo sciopero generale fosse stato almeno in parte organizzato già da qualche mese. Ed in realtà, quando l’esercito arrestò i delegati alla conferenza, furono sequestrati documenti che dimostravano l’esistenza di una estesa cospirazione che datava sin dal luglio 1841.

La presenza della Conferenza della Nca consentì allo sciopero un salto qualitativo, in quanto questa organizzazione, ben più estesa su scala nazionale, poté essere utilizzata per allargare i confini della lotta. Alla conferenza fu deciso che «tutti i funzionari dell’Associazione sono tenuti ad aiutare ed assistere la pacifica estensione dello sciopero». Thomas Cooper, presente alla conferenza, scrisse che i delegati erano convinti che «era giunto il momento di tentare, confidando nel successo, di paralizzare il governo». Mick Jenkins, autore del libro The General Strike of 1842, dal quale abbiamo ampiamente attinto informazioni sullo sciopero, commenta:

     «Dal momento di questa proclamazione lo sciopero diviene pienamente nazionale. In tutto il paese tutte le sezioni della Nca si dedicarono a organizzare la solidarietà per lo sciopero. Aree che in precedenza erano rimaste tranquille, come la Merthyr Valley nel Galles del Sud, certe zone della Scozia, l’industria tessile di Dorset e Somerset, ora aderivano allo sciopero».
O’Connor, all’epoca capo riconosciuto del movimento da parte di praticamente di tutti i cartisti, e quindi in una posizione tale da poter incidere grandemente sugli avvenimenti, ancora una volta, come aveva fatto ai tempi dell’insurrezione di Newport, se la batté al momento più critico, nonostante a più riprese avesse proclamato di essere pronto a vincere o morire. La scusa fu che l’intero movimento di sciopero era stato orchestrato dagli industriali per appoggiare la Anti-corn Law League; indubbiamente qualche padrone aveva l’intenzione di chiudere a causa della crisi, ma questo non poteva certo giustificare le dimensioni, senza precedenti, della ribellione. Purtroppo, anche numerosi cartisti "della forza fisica" in questa occasione esitarono.
 
 

37. Ritirata
 

Piano piano, oppressi dalla fame, gli operai cominciarono a far ritorno nelle fabbriche, alla spicciolata. O’Connor tornò a Londra a elucubrare su un nuovo progetto di riforma agraria, Peter McDouall fuggì per non essere arrestato. Seguì un’ondata di circa 1.500 arresti di sindacalisti e cartisti, da ragazzi di 15 anni fino a un vecchio di 101! Inizialmente le condanne furono assai dure, poi, con il passare dei mesi, e con l’allontanarsi del pericolo di una nuova insurrezione, la furia vendicatrice della magistratura si placò un poco.

Jenkins dà quattro ragioni per il fallimento dell’insurrezione:

     «Il successo di Graham nell’unificare le forze della classe dominante in una macchina efficiente sotto la guida di lui stesso e dei suoi collaboratori; l’arresto dei capi della rivolta; lo scioglimento della Trades Conference; la chiusura e lo scioglimento della Conferenza cartista. Questi fattori ebbero un effetto profondo sul movimento, e furono determinanti per la sua sorte. Anche se le due rivendicazioni principali – gli aumenti salariali e la Carta – rimasero tali, era inevitabile che il fallimento nel mantenere una direzione centrale avrebbe posto in maggiore evidenza la questione dei salari».
Quale fu quindi il bilancio della lotta? Sicuramente positivo, se si guarda dal punto di vista dei salari. Nella gran parte dei casi la minaccia di tagli delle paghe fu ritirata, ed in alcune zone vi furono addirittura aumenti. Negli anni successivi (1844 e 1847) furono approvati regolamenti che limitavano la giornata lavorativa nelle fabbriche, e nel 1843 una legge che consentiva l’esportazione dell’industria meccanica. Ma l’assalto al potere politico da parte della classe operaia fallì, e la Carta non riuscì a divenire la legge del paese.

Engels, che si trasferì a Manchester solo due mesi più tardi, comprese perché la lotta per il suffragio universale era così importante e perché le classi dominanti inglesi non l’avrebbero concesso per altri 76 anni. In una lettera da Londra del novembre 1842 scrive:

     «La borghesia non si lascerà mai estromettere, mediante l’approvazione del suffragio universale, dal suo dominio sulla Camera bassa, poiché essa, come conseguenza necessaria dell’accettazione di questo punto, sarebbe poi sopraffatta dagli innumerevoli voti dei non possidenti (...) Il “progresso legale” e il suffragio universale porterebbero con sé infallibilmente, nella situazione attuale dell’Inghilterra, ad una rivoluzione».
Ancora una volta la classe operaia, sconfitta ed in ritirata, ripiegò sui vecchi obiettivi riformistici, mentre tornava di attualità la riconciliazione con la borghesia.

A questo scopo Joseph Sturge convocò una conferenza della "Unione per il suffragio integrale" per il dicembre 1842. Alla conferenza erano rappresentate tutte le correnti di pensiero cartista e radicale, ma verso la fine della conferenza la fragile unità iniziale si sbriciolò nella iniziale miriade di componenti. Fu quindi proposta un’altra convenzione, che si sarebbe poi riunita solo nel settembre 1843, nella quale O’Connor avrebbe tentato di costituire un governo ombra, "Il Consiglio dei 13 di Londra", da lui controllato per perseguire i suoi propri, e sempre incerti, scopi; avrebbe poi rinunciato a questa iniziativa in favore del suo "progetto per la terra".

In questo periodo, caratterizzato da una relativa prosperità, il cartismo continuò a declinare, ed il numero degli iscritti scese a 3-4.000, mentre i lavoratori si volgevano alle leghe di mestiere ed alla cooperazione. Fu un periodo di aspri dissensi e di polemiche tra le varie correnti. Dure critiche furono rivolte da più parti al comportamento dell’esecutivo della Nca ed all’uso fatto da O’Connor del principale organo di stampa cartista The Northern Star, allo scopo di favorire la sua persona e le sue opinioni tentennanti e contraddittorie. R.C. Gammage, all’epoca assai attivo nel movimento cartista, commentò:

     «Non è un compito piacevole quello di muoversi in quella palude di tradimenti, falsità e follie, che si innestarono su uno dei più nobili movimenti cui si siano dedicate le energie dell’uomo» (Storia del movimento cartista, 1839-1854).
38. Crisi e ripresa economica
 

Prima di passare a fatti più specificamente politici, vale la pena di dare un’occhiata agli eventi economici di quegli anni, e per questo utilizzeremo ampiamente un articolo di Marx del 1850.

Gli anni 1843-45 furono di prosperità industriale e commerciale, che permisero speculazioni su larga scala. Queste erano concentrate soprattutto sulle ferrovie: nel solo 1845 furono presentati ben 1.035 disegni di legge per la costituzione di compagnie ferroviarie; ma anche il cotone, con l’apertura dei commerci verso la Cina e l’India, ed i cereali, dopo il crollo della produzione di patate che aveva colpito soprattutto l’Irlanda, ma anche l’Inghilterra ed il continente, furono oggetto di pesanti speculazioni.

Nell’aprile 1847 la concomitanza di sovrapproduzione e di cattivi raccolti determinò un crollo delle tre attività, ed una crisi creditizia. La bancarotta, poco pubblicizzata nei testi di storia del commercio, colpì allo stesso modo aziende vecchie e nuove, diffondendosi dalle ditte commerciali alle banche private e alle società per azioni.

     «Il panico creatosi a Parigi dopo il febbraio e diffusosi con le rivoluzioni in tutto il continente ebbe un decorso molto simile a quello londinese dell’aprile 1847. Improvvisamente sparì il credito e le transazioni si bloccarono quasi del tutto: a Parigi e Amsterdam fu tutto un correre in banca per cambiare le banconote in oro (...) In ogni caso è però certo che la spinta data dalle crisi commerciali alle rivoluzioni del 1848 è stata infinitamente maggiore di quella data dalla rivoluzione alla crisi commerciale. Tra marzo e maggio l’Inghilterra traeva già un vantaggio diretto dalla rivoluzione, che vi faceva affluire molti capitali continentali. Da quel momento per l’Inghilterra la crisi era da considerarsi conclusa: si riscontrò un miglioramento in ogni ramo degli affari, e il nuovo ciclo industriale inizia con una chiara tendenza alla prosperità. Quanto debole sia stato il freno esercitato dalla rivoluzione continentale sulla ripresa dell’industria e del commercio inglesi è dimostrato dal fatto che la quantità del cotone lavorato è salita dai 475 milioni di libbre del 1847 ai 713 milioni del 1848».
In quegli anni i raccolti furono buoni, e lo sviluppo del sistema ferroviario si riportò su livelli normali.
 
 

39. Ultimo rigurgito di utopismo
 

Alla conferenza di Birmingham del settembre 1843 O’Connor presentò uno schema per far tornare gli operai alla terra, «per la loro redenzione sociale; si trattava di uno dei progetti più azzeccati per dividere e spezzare il movimento cartista che una mente geniale, o folle, potesse concepire» (Gammage, op. cit). Il progetto, dichiaratamente non socialista, può essere riassunto dalle parole dello stesso O’Connor: «La proprietà contadina è la migliore base della società». Questo sogno utopistico avrebbe dominato il movimento della classe operaia per i seguenti 7-8 anni. Fu utilizzato allo scopo lo stesso nome della National Charter Association; successivamente, nel 1845, O’Connor fondò la Società Cooperativa Cartista per la Terra.

In pratica lo schema consisteva in una speculazione sulla proprietà terriera, che richiedeva una lunga serie di ipoteche successive. Il denaro fu raccolto grazie a sottoscrizioni di militanti cartisti che versavano soldi in cambio di azioni. Tra questi azionisti sarebbe poi stato estratto a sorte un numero di vincitori che avrebbero ricevuto piccole proprietà. Attratti dalla immagine della casetta di campagna e di una idilliaca vita bucolica, lontano dalle preoccupazioni delle squallide città, infestate dal colera, 70.000 azionisti parteciparono allo schema, formando ben 300 sezioni della Land Society. Migliaia di "compagni" avrebbero quindi dovuto insediarsi nelle campagne come piccoli contadini proprietari, e lì si sarebbero guadagnati il pane come agricoltori. Secondo O’Connor ciò avrebbe ridotto la concorrenza per il lavoro nell’industria, ove i salari sarebbero saliti e la disoccupazione diminuita.

Il primo lotto fu acquistato nel 1846 a Heronsgate, vicino Watford, ove i novelli contadini furono sollecitati – antesignani degli odierni apostoli dell’agricoltura biologica – a usare più la vanga che non gli orrendi aratri meccanici. Erano sorte anche cooperative di distribuzione che fornivano alimenti non adulterati. Verso la fine dell’anno una lotteria decise i nomi dei primi 35 fortunati vincitori; l’insediamento, tanto per non dimenticare il grande benefattore, fu denominato O’Connorville. Poco dopo altre tre proprietà furono acquistate, per la felicità di altri 250 azionisti. L’ultima di queste però, Charterville, fu ipotecata da O’Connor per mettere insieme il denaro per altri acquisti; presto però non fu più in grado di pagare gli interessi, e nel 1850 gli strozzini cacciarono dalla terra tutti i coloni meno due. Nel 1851 la Società fu fatta chiudere da un provvedimento parlamentare, ma ormai i tre quarti dei coloni se ne erano già andati, e gli azionisti erano praticamente scomparsi. Così finiva il progetto per la terra, sei anni dopo che l’ultimo progetto di Robert Owen, Harmony Hall, era perito, nel 1845, a causa di cattive gestioni e di mancanza di fondi.

La classe operaia non poteva più sognare il campicello, e le macchine non se ne sarebbero più andate; l’agricoltura si meccanizzava sempre più, e sempre più si concentrava la proprietà. Pochi erano ormai i piccoli agricoltori che difendevano le tradizioni delle feste di campagna e la vita patriarcale. La classe operaia non avrebbe più potuto guardare indietro, ma solo in avanti.

Il progetto non rimase senza critiche: O’Brien, attraverso il suo giornale The National Reformer lo irrideva sostenendo che saltava a piè pari la questione della conquista del potere politico, dalla quale tutto dipendeva. Il giornale oppose alla piccola proprietà la nazionalizzazione della terra. Ma propugnava anche come unità di misura del valore la sostituzione del tallone aureo con il quarto di bushel di grano, e col lavoro necessario per produrlo. Sosteneva inoltre lo scambio equo ed i negozi cooperativi. In queste dispute teoriche già si vede il tentativo di smascherare l’economia capitalista mostrando come l’unica fonte di ricchezza sia lavoro. Ma, come il movimento operaio avrebbe avuto modo di constatare, un capitalista cooperativo, o anche un capitale nazionalizzato, è capace di sfruttare il lavoro proprio come l’amministratore delegato di una società per azioni. Solo dopo che Marx e Engels svelarono i misteri dell’accumulazione il movimento operaio riuscì a comprendere quale fosse la sua missione – distruggere l’economia di mercato su scala internazionale, e con essa il lavoro come merce.

Dalla disintegrazione del cartismo, un’ala sinistra cominciò a volgersi verso l’internazionalismo, a collegarsi e a trasformarsi in organizzazioni comuniste.
 
 

40. Origini del marxismo e l’Inghilterra
 

Il portato al marxismo della componente inglese coinvolge qualcosa di più delle opere di Smith, Ricardo, ecc. Il capitalismo si è sviluppato per primo in Inghilterra, ed è stato questo fatto, e la lotta di classe che ne è derivata, che ha risolto i problemi posti dalla filosofia tedesca, ha dato sostanza alle idee francesi sul socialismo e al proletariato una prospettiva internazionale. Che il marxismo abbia anche origini specificatamente inglesi è un fatto indiscutibile. La favola attentamente intessuta secondo cui il marxismo sarebbe una specie di peste continentale che mai poté né potrà affermarsi in Inghilterra senza subire modifiche, divenire più “realistico”, adattarsi alle “condizioni inglesi” è solo un mito diffuso dall’industria della falsificazione borghese.

Ma, purtroppo, un’altra costante è da contare, cioè che l’Inghilterra è stata la patria dell’opportunismo.

La "ideologia marxista" non esiste, è una contraddizione in termini, né esistono categorie a parte come economia marxista, filosofia marxista. Il marxismo è la prospettiva teorica di una classe, il proletariato, ed il suo compito è la preparazione del proletariato per portare alla fine della lotta di classe attraverso l’abolizione del capitalismo. Senza la prospettiva di organizzare il proletariato in classe per la presa del potere, il marxismo cessa di svolgere il suo ruolo, e le ideologie e gruppi che negano o trascurano tale prospettiva si sclerotizzano e finiscono per divenire misere sette, ostacoli alla lotta di classe e ulteriori nemici per la classe operaia.

Il marxismo prende atto del fatto che il proletariato industriale è una classe rivoluzionaria perché, in un certo senso, rivoluzionario è il capitalismo: è infatti la natura stessa della sua economia, che periodicamente getta tutta la società in profonde crisi, che rende il proletariato rivoluzionario, questo e non tanto lo sfruttamento cui sono sottoposti gli operai. Come Marx indicò agli operai inglesi, in un discorso per l’anniversario del People’s Paper, il 19 aprile 1856,

     «Le cosiddette rivoluzioni del 1848 furono soltanto dei poveri episodi, piccole fratture e crepe nella dura crosta della società europea. Eppure esse resero visibile una voragine, rivelarono, al di sotto della superficie apparentemente solida, un mare di materia fluida, che aveva solo bisogno di sollevarsi per mandare in frantumi continenti di roccia compatta. Rumorosamente e confusamente annunciarono l’emancipazione del proletariato, vale a dire il segreto del XIX secolo e della sua rivoluzione. Questa rivoluzione sociale non fu certamente una novità inventata nel 1848. Il vapore, l’elettricità e la filatrice automatica erano rivoluzionari ben più pericolosi che non i cittadini Barbès, Raspail e Blanqui.
     «Ma anche se l’atmosfera in cui viviamo grava su ciascuno di noi col peso di 20.000 libbre, ce ne accorgiamo? Né più né meno di quanto la società europea prima del 1848 percepisse l’atmosfera rivoluzionaria che la circondava e la premeva da tutte le parti.
     «C’è un grande fatto, significativo per questo nostro XIX secolo e che nessuno osa contestare. Da un lato sono nate forze industriali e scientifiche di cui nessuna epoca precedente della storia umana ebbe mai presentimento. Dall’altro esistono sintomi di decadenza che superano di gran lunga gli orrori tramandatici sulla fine dell’impero romano».
Alla riunione per l’anniversario del giornale del movimento operaio inglese Marx era presente in rappresentanza degli operai del continente, con grande scorno degli altri “esuli”. Era in realtà paradossale che in quella fase di isolamento di Marx e di Engels dagli operai di tutta l’Europa occidentale, seguita al dissolversi della Lega dei Comunisti, fosse il periodo di massima influenza del marxismo sugli operai inglesi. La situazione si sarebbe ribaltata già negli anni seguenti, prima della fine del secolo.

Il legame tra Marx ed Engels e il movimento operaio era a quell’epoca già vecchio di di oltre dieci anni, in quanto in gioventù Engels era vissuto in Inghilterra ed aveva appreso molto dalle lotte della classe operaia; era stato attivo nel movimento cartista, del quale aveva conosciuto molti dirigenti. Verso la fine degli anni ’40 Engels era anche divenuto un emissario dell’ala rivoluzionaria del cartismo. Da studente della lotta di classe Engels, con Marx, sarebbe presto divenuto un maestro per gli operai inglesi.
 
 

41. Il 1848 in Inghilterra
 

Abbiamo esaminato la situazione sociale ed economica che fece da sfondo all’ascesa del Cartismo, ed il fallimento dell’utopismo, miseramente confluito nella ideologia borghese del mutuo soccorso con il "Progetto per la Terra". Il poderoso attacco al potere da parte della classe operaia nel 1842 aveva sofferto della mancanza di un chiaro programma politico e di una altrettanto chiara distinzione dei suoi scopi da quelli della borghesia. Nell’ultima sua fase l’organizzazione ed il programma del Cartismo attinsero ad una maggiore chiarezza sulla natura e gli scopi del movimento, ad una visione del mondo indipendente e di classe: il comunismo scientifico ed il materialismo dialettico.

Lasciamo ad Engels il compito di rappresentare l’Inghilterra verso la fine del 1847:

     «La crisi commerciale alla quale l’Inghilterra si vede esposta in questo momento è in realtà più seria di qualsiasi crisi precedente. Né nel 1837, né nel 1842 la depressione era stata così generale come nel momento attuale. Tutti i settori dell’estesa industria inglese si sono fermati nel pieno del loro ritmo; dappertutto c’è stagnazione, dappertutto si vedono soltanto operai gettati sul lastrico. Inutile dire che un simile stato di cose comporta un’agitazione straordinaria tra gli operai che, sfruttati dagli industriali nel periodo di prosperità commerciale, ora si vedono licenziati in massa e abbandonati al loro destino. Così le assemblee degli operai malcontenti si moltiplicano rapidamente» (Opere, VI, 326).
Sullo stesso giornale, La Réforme, il 22 novembre 1847 tornò a scrivere sulle elezioni dell’estate, conseguenza della crisi parlamentare che seguì la vittoria della agitazione per il libero commercio:
     «L’apertura di un parlamento di nuova elezione, che conta tra i suoi membri rappresentanti eminenti del partito popolare, [O’ Connor era stato eletto, mentre anche Owen e Harney si erano candidati] non può non suscitare un’agitazione straordinaria tra le file della democrazia. Le associazioni locali dei cartisti si riorganizzano dappertutto. Il numero delle assemblee si moltiplica; in esse si propongono e si discutono i mezzi d’azione più diversi. Il comitato esecutivo dell’associazione cartista ha preso ora la direzione di questo movimento e in un messaggio alla democrazia britannica ha tracciato il piano di campagna che il partito seguirà durante la sessione attuale. “Tra pochi giorni – vi è detto – si riunirà un’assemblea che, di fronte al popolo, osa chiamarsi assemblea dei Comuni d’Inghilterra. Tra pochi giorni quest’assemblea, eletta da una sola classe della società, comincerà i suoi lavori iniqui e odiosi per rafforzare, a danno del popolo, gl’interessi di questa classe. Bisogna che il popolo protesti in massa fin da principio contro l’esercizio delle funzioni legislative usurpato da questa assemblea”».
Engels, più avanti commenta:
     «Ora anche la società dei Fraternal Democrats, composta da democratici di quasi tutte le nazioni europee, ha aderito apertamente e completamente all’agitazione cartista (...) I Fraternal Democrats si sono pronunciati apertamente contro ogni atto d’oppressione, chiunque sia a tentarlo. Così i democratici di Londra, inglesi e stranieri, si sono uniti ai Fraternal Democrats, dichiarando in pari tempo che non si faranno sfruttare a vantaggio dei fabbricanti liberoscambisti inglesi» (Opere, VI, 404-405).
I Fraternal Democrats erano parte di una rete più ampia di organizzazioni formatesi per l’influenza del massiccio afflusso di esiliati dall’Europa rivoluzionaria. Questa “importazione” di idee rivoluzionarie avrebbe svolto un ruolo notevole nei fermenti legati alle ultime mobilitazioni di massa suscitate dai cartisti, ed avrebbe altresì influenzato il corso futuro del movimento operaio.

Le prime notizie che riguardavano la Rivoluzione di Febbraio in Francia furono proprio quello che ci voleva per rimettere tutto in movimento:

     «Un’ondata di entusiasmo febbrile si diffuse tra le file dei lavoratori. Riunioni e dimostrazioni si svolsero in tutto il paese. A Londra non vi erano sale abbastanza grandi da contenere le masse che desideravano partecipare alle riunioni. La folla si riuniva all’aria aperta nel Clerkenwell Green, nel Kennington Common, a Trafalgar Square, ecc., per ascoltare i capi cartisti e approvare le loro proposte. Gravi disordini si verificarono in provincia: a Glasgow i disoccupati marciarono per le strade gridando: Pane o rivoluzione! A Manchester la folla circondò il penitenziario e chiese la liberazione dei reclusi. A Bridgetown i soldati fecero fuoco sui lavoratori e ne uccisero parecchi» (Max Beer, Storia del socialismo britannico, pag. 149).
Fu lanciata l’iniziativa per un’altra petizione cartista e per una Convenzione da tenersi a Londra, e fu deciso che nel caso la petizione fosse stata respinta sarebbe stata convocata una Assemblea Nazionale – in pratica una minaccia di attacco al potere costituito. Fu anche progettata una dimostrazione di massa nel Kennington Common per il 10 aprile.

Nel frattempo il governo faceva i suoi contro-preparativi. In una cronaca del tempo si legge:

     «Gli edifici pubblici del West End, di Somerset House e della City furono abbondantemente riforniti di armi, e luoghi come la Banca d’Inghilterra erano strapieni di soldati e artiglieria e protetti tutto intorno con sacchi di sabbia, mentre le finestre chiuse con assi nelle quali erano praticate feritoie per i moschetti dei difensori. Oltre alle forze regolari di polizia e all’esercito, secondo una stima degna di credito almeno 120.000 funzionari speciali furono fatti giurare e quindi organizzati in tutta la metropoli, sia per la difesa locale dei loro distretti sia come corpi mobili per cooperare con i soldati e la polizia» (Annual Register, 1848).
Tra questi funzionari speciali erano presenti nientemeno che due famosi voltagabbana del tempo, Luigi Napoleone e William Gladstone.

Alla Convenzione che si riunì il 3 aprile, cui parteciparono Harney, Jones e O’Brien, fu deciso di raccogliere armi; il governo intanto in un proclama dichiarava la Convenzione una organizzazione illegale.

La folla che partecipò alla dimostrazione era assai più ridotta di quanto atteso, ciononostante non le fu permesso di attraversare il Tamigi per presentare la petizione al parlamento. Finalmente la petizione fu portata in parlamento da una carrozza riccamente addobbata tirata da quattro cavalli, seguita da un’altra carrozza sulla quale aveva preso posto il comitato della National Charter Association.

Invece dei cinque milioni e mezzo di firme vantate da O’Connor ve ne erano meno di due milioni, tra le quali, con gran sorpresa di tutti, spiccavano quelle del Duca di Wellington e della regina Vittoria.

La petizione fu come prevedibile respinta, e la Convenzione Nazionale fu riconvocata come Assemblea Nazionale per il 1° maggio. Questa organizzazione durò poco più di una settimana, e fu sciolta il 13 maggio.

     «I cartisti più decisi continuarono nei preparativi per la ribellione. In seguito ad una conferenza locale del Lancashire e Yorkshire fu istituita una Guardia Nazionale; sembra che a Wisden si riunissero in tremila, sotto una bandiera nera, per gli addestramenti. Forti contingenti esistevano a Bingley e Bradford; in quest’ultima città i cartisti sconfissero in una vera battaglia la polizia, che lasciò un morto e diversi feriti, ma si ritirarono poi all’arrivo dell’esercito. Fatti simili si verificarono a Ashton-under-Lyme e a Liverpool; sembra inoltre che contingenti armati cartisti esistessero anche a Leicester, Aberdeen e Glasgow (...) Ma il centro dell’insurrezione era Londra, ove Blackaby, un fabbro che era a capo dei cartisti di Croydon, sollevò tumulti nella periferia per tenere occupato il più gran numero possibile di poliziotti, mentre, il lunedì di Pentecoste, M’Douall marciava da Bishop Bonner’s Fields su Whitehall. Blackaby fece bene la sua parte, ma il piano trapelò e le uscite dai Fields furono occupate in tempo da forti contingenti militari. Sotto una pioggia incessante, i cartisti non protestarono quando M’Douall diede l’ordine di tornare a casa. I cartisti ritenevano di essere almeno 80.000 organizzati nella sola Londra; erano inoltre in contatto con i rivoluzionari irlandesi, e non intendevano colare a picco senza combattere. Cuffay, un mulatto nominato commissario dall’esecutivo cartista, ebbe la responsabilità della piazza di Londra, e con altri sei riorganizzò la rivolta per il 15 agosto» (Cole e Postgate, The Common People).
Un gran numero di sabotatori, col compito di distruggere marciapiedi per costruire barricate, fu inviato nelle varie parti della città; era una tattica che, come altre, si era dimostrata assai valida nella recente rivoluzione vittoriosa di Parigi. Ma i cartisti non ebbero modo di misurare la loro forza, perché il governo si era preparato all’evenienza fin troppo bene; attraverso una elaborata rete di spie della polizia si seppe tutto in anticipo, e l’intero esecutivo rivoluzionario fu deportato a vita. Nel periodo maggio-ottobre seguì in Inghilterra un’ondata di reazione, e novanta capi cartisti furono condannati a varie pene detentive. Jones, che ritroveremo più avanti, fu condannato a due anni di isolamento, senza il permesso di poter scrivere.

I cartisti furono sconfitti, come era avvenuto ai loro compagni del continente, ma senza i bagni di sangue che avevano caratterizzato le repressioni negli altri paesi. Periva il cartismo come movimento di massa della classe operaia.

Però sopravvisse come rappresentanza delle "masse popolari" indistinte, con scopi e tattica sempre più confusi. Le anime principali del movimento erano: 1) la borghesia, contro gli interessi terrieri e il privilegio dell’aristocrazia (i radicali); 2) gli artigiani, contro il moderno sistema di fabbrica (i tessitori a mano, ecc.); 3) la nascente classe operaia dell’industria (i cartisti di sinistra). In questa babele di interessi diversi e talvolta contrastanti furono di solito gli operai a prendere l’iniziativa, ma le loro prospettive di classe erano offuscate e contraffatte dalle mire reazionarie delle altre classi.

Queste opposte prospettive si facevano sempre più chiare, e nella lotta per separarsi dalla borghesia e dalle mezze classi i lavoratori iniziarono a forgiarsi una propria dottrina. Quello che ancora mancava era una chiara comprensione di quali fossero i veri interessi della nuova classe – persino i membri della Lega dei Comunisti erano nella gran parte artigiani – in quanto la moderna classe operaia avrebbe dovuto emergere come classe con interessi distinti da quelli di tutte le altre, ma questo sarebbe dipeso dallo sviluppo delle moderne forze di produzione. La combinazione di mobilitazioni di massa e di raggruppamenti con tendenza insurrezionale andava bene, ma mancava qualcosa. Di fatto, proprio grazie alle lezioni del cartismo, gli elementi mancanti alla teoria di classe del proletariato venivano allora forgiati all’interno del movimento operaio: una visione delle condizioni operaie che avrebbe svelato i misteri dell’economia borghese e del meccanismo dell’estorsione di plusvalore dall’operaio. Da questa sarebbero emerse le basi di un chiaro programma di classe e di un partito di classe impegnato nella sua realizzazione; un partito che avrebbe superato l’insurrezionismo blanquista ed il democraticismo generico, un organo dialetticamente coerente con le sue origini di classe.
 
 

42. La Lega dei Comunisti
 

Nelle condizioni arretrate della Germania degli anni ’40 si verificò la strana situazione per cui i lavoratori specializzati tedeschi erano più numerosi fuori del paese che in Germania; la sola Parigi contava 85.000 emigrati, e comunità analoghe di operai tedeschi esistevano a Londra e a Bruxelles, mentre la ridotta classe operaia indigena era concentrata tra i lavoratori del cotone della Renania settentrionale. La direzione politica della classe operaia tedesca assunse quindi sin dall’inizio caratteristiche internazionali, in questo favorita anche dal regime poliziesco dominante in gran parte del paese.

In questa situazione, da una precedente organizzazione denominata Lega Fuorilegge, sorse la Lega dei Giusti. Di questa Engels ebbe a dire, nella sua Storia della Lega dei Comunisti, che costituì «il primo movimento operaio internazionale di tutti i tempi». Si trattava di una società segreta formata da emigrati tedeschi a Parigi nel 1836; strettamente collegata alla Societé des Saisons di Blanqui, con questa soffrì della sconfitta dell’insurrezione del 1839. Nel 1840 il centro di gravità effettivo dell’organizzazione si spostò a Londra, ove fu fondata la Associazione per l’Educazione dei Lavoratori Tedeschi quale copertura per le attività della Lega. Qui, in seguito alle influenze delle organizzazioni dei cartisti (Engels presentò alla Lega i capi cartisti), dei sindacati inglesi e dell’owenismo, la Lega avrebbe gradualmente preso le distanze dal blanquismo, e ricercato nuovi metodi per conseguire gli scopi del comunismo.

Nel frattempo, a Bruxelles, Marx diede vita ad una organizzazione denominata Comitato Comunista di Corrispondenza, con lo scopo, come spiegò in una lettera a Proudhon, di occuparsi

     «sia della discussione di questioni scientifiche, sia di fornire un panorama critico degli scritti popolari, sia, infine, della propaganda socialista che è possibile svolgere in Germania con questo mezzo. Lo scopo principale della nostra corrispondenza sarà, tuttavia, quello di stabilire il collegamento dei socialisti tedeschi con i socialisti francesi e inglesi, di tenere al corrente gli stranieri sui movimenti socialisti che si svilupperanno in Germania e informare i tedeschi in Germania sul progresso del socialismo in Francia e in Inghilterra. In questo modo potranno venire alla luce le divergenze di opinioni, e si giungerà ad uno scambio di idee e ad una critica imparziale» (Opere, XXXVIII, 444).
Nel maggio 1846 il Comitato Comunista di Corrispondenza iniziò dei tentativi per influenzare la Lega dei Giusti, che tra le numerose sette di sinistra, per numero e per caratteristiche organizzative, appariva quella più degna di considerazione. Marx avrebbe scritto:
     «Pubblicammo allora una serie di opuscoli, in parte a stampa, in parte litografati, nei quali sottoponemmo a critica spietata il miscuglio di socialismo franco-inglese o comunismo e di filosofia tedesca, che allora costituiva la segreta dottrina della Lega. Al suo posto ponemmo la comprensione scientifica della struttura economica della società borghese come unica, valida base teorica. Spiegammo anche in forma popolare che il nostro compito non era il raggiungimento di un qualche sistema utopistico, ma la partecipazione cosciente al processo storico della rivoluzione sociale che si stava verificando sotto i nostri occhi».
Fu allora che Marx avvicinò Julian Harney, membro della Lega e cartista di sinistra, per proporgli la costituzione di un ufficio di corrispondenza comunista come collegamento con Bruxelles. Harney fece notare che Shapper, il capo effettivo della Lega, avrebbe dovuto essere consultato, e che quest’ultimo non si fidava molto delle personalità di Bruxelles. In ogni modo si riuscì a concertare un incontro per il luglio 1846, nel quale fu proposto di appianare le divergenze. Nel frattempo Marx e Engels cominciarono a mal sopportare alcuni aspetti della Lega, ed Engels preferì tentare di influenzare Harney separatamente dai "londinesi".

Nel novembre di quell’anno il Comitato Centrale della Lega si trasferì a Londra; ciò implicò una serie di riforme organizzative che, insieme al più chiaro rifiuto dell’utopismo di Cabet e Weitling, la resero aperta a idee che l’avrebbero dotata di migliori fondamenta teoriche. Marx divenne improvvisamente importante, e fu invitato ad aderire alla Lega. Di quei fatti avrebbe più tardi scritto:

     «Moll rassicurò i nostri dubbi e le nostre esitazioni, rivelando che il comitato centrale aveva intenzione di convocare un congresso della Lega a Londra, dove le istanze critiche che noi avevamo espresso sarebbero state formulate in un manifesto pubblico come la dottrina della Lega. Egli affermò però che, anche se la nostra partecipazione personale era indispensabile per sconfiggere gli elementi antiquati e recalcitranti, questo sarebbe stato possibile solo se noi fossimo diventati membri della Lega» (Opere, XVII, 80).
Marx, Engels e numerosi altri membri del gruppo di Bruxelles decisero quindi di aderire.

La promessa conferenza ebbe effettivamente luogo nel giugno 1847, con la partecipazione di Engels e di Wilhelm Wolff; vi si decise di trasformare la Lega dei Giusti in Lega dei Comunisti. In seguito a ciò Marx fece in modo che il Comitato Comunista di Corrispondenza di Bruxelles divenisse una sezione della nuova Lega; inoltre creò un’associazione operaia sulla falsariga di quella costituita con successo dalla Lega a Londra. A Bruxelles avrebbe lavorato per la Deutsche-Brüsseller Zeitung e all’interno di una Associazione Democratica per l’Unificazione di Tutti i Paesi, una organizzazione che, a detta di Engels, era «una specie di cartello dei democratici di Bruxelles». In questo ambito prefigurava una alleanza tra proletari e borghesia contro il feudalesimo, contro la visione utopistica che riteneva che gli operai potessero prendere il potere in Germania da soli, nonostante che sia la classe operaia sia le forze produttive in senso moderno in Germania in pratica non esistessero ancora.

Alla seconda conferenza della Lega del 30 settembre, secondo Engels,«Marx difese la nuova teoria nel corso di estenuanti dibattiti; tutte le opposizioni ed i dubbi furono infine superati e i nuovi principi accettati all’unanimità» (Per la storia della Lega dei Comunisti). Nel nuovo statuto era adesso chiaramente affermato:

     «Lo scopo della Lega è il rovesciamento della borghesia, il dominio del proletariato, l’abolizione della vecchia società borghese basata sugli antagonismi di classe e la fondazione di una nuova società senza classi e senza proprietà privata» (Opere, VI, 620).
Al termine della conferenza, a Marx ed Engels fu affidato l’incarico di redigere un Manifesto per rendere pubblica la dottrina della Lega. Marx quindi, al suo ritorno a Bruxelles, si mise al lavoro, pur non abbandonando la sua attività di conferenziere presso gli operai e nella Associazione Democratica. Il 12 marzo Marx scrisse a Engels a Parigi per informarlo che «qui si è costituito un Comitato Centrale [della Lega dei Comunisti] dato che Jones, Harney, Schapper, Bauer e Moll si trovano qui» (Opere,XXXVIII, 126). Da ciò si può dedurre che i capi della sinistra cartista erano ormai comunisti.

Mentre Marx continuava a lavorare nella Associazione Democratica di Bruxelles, Harney e Jones rimasero attivi tra i Fraternal Democrats. Questa organizzazione fu proposta per la prima volta, in una riunione del luglio 1845, come associazione democratica internazionale di collegamento tra i cartisti inglesi ed i rifugiati europei in Inghilterra, dei quali una buona parte erano esuli politici; tra questi erano componenti della Lega dei Giusti. Si trattava, soprattutto come continuità di persone, di una filiazione diretta della London Democratic Association fondata nel 1837 da Harney. Questa a sua volta proveniva da una scissione della London Working Men’s Association – la organizzazione che per prima aveva steso e propagandato la Carta – a causa di divergenze sulla questione della "forza fisica". Essa si distinse per il tentativo di fornire al partito della "forza fisica" una base ideologica, fatta derivare principalmente dalla dottrina di Buonarroti, il discepolo di Babeuf, il cui libro, La congiura degli uguali, O’Brien aveva tradotto in inglese.

Marx presenziò alla riunione nella quale fu discussa la formazione dei Fraternal Democrats, che effettivamente nacque nel settembre successivo. Vi partecipò anche Schapper, il quale volle chiedere a William Lovett, vecchio militante che tra l’altro aveva redatto la Carta originale, di scrivere un appello ai cartisti perché aderissero ai Fraternal Democrats. Harney, Jones e Cooper aderirono, ed il primo consentì all’organizzazione di accedere alle colonne del Northern Star. L’organizzazione ebbe così modo di esaltare le lotte in Europa e di fare appello al popolo inglese affinché le sostenesse e le emulasse. Citiamo da Principi e regole della Società dei Democratici Fraterni, piuttosto ingenuo:

     «Questa società composta di cittadini di Gran Bretagna, Francia, Germania, Scandinavia, Polonia, Italia, Svizzera, Ungheria e altri paesi (...) conviene di adottare la seguente Dichiarazione Di Principi (...) Noi rigettiamo, ripudiamo e condanniamo l’eredità politica legata a diseguaglianze e distinzioni in “caste”; consideriamo quindi i re, gli aristocratici e quelle classi che monopolizzano i privilegi grazie alle proprietà che possiedono come usurpatori e violatori del principio della fratellanza umana. Il nostro credo politico risiede nei governi eletti dal popolo intero e verso questo responsabili (...) Noi condanniamo gli odi "nazionali" che hanno sinora diviso il genere umano, in quanto sciocchi e malvagi; sciocchi perché nessuno può da sé decidere il paese in cui nascerà; e malvagi, come lo provano a sazietà le sanguinose lotte e guerre che hanno devastato la terra in seguito a tali vacuità nazionalistiche».
Uno dei primi impegni dei Fraternal Democrats fu nei confronti della questione dei confini dell’Oregon, nel 1846. Julian Harney condannò il modo in cui il governo americano intendeva condurre la questione; con toni da disfattismo rivoluzionario sulle colonne del Northern Star rispondeva al governo, che chiedeva «alle masse impoverite e non rappresentate» di combattere «per la patria»: «Se volete monopolizzare tutto, combattete voi». Più tardi, a proposito della rivolta della giunta portoghese contro Donna Maria, rovesciata con l’aiuto di Gran Bretagna, Francia e Spagna, affermò, ad una riunione dei Fraternal Democrats: «Il popolo cominciava a comprendere che i problemi interni ed esteri hanno importanza per le sue condizioni; questo colpo vibrato alla libertà sulle rive del Tago ferisce anche gli amici della libertà che vivono lungo il Tamigi». Ancora più esplicita fu la posizione presa in occasione del secondo anniversario dell’insurrezione di Cracovia: «Che i lavoratori dell’Europa avanzino insieme e colpiscano in difesa dei loro diritti come un sol uomo, e vedrete che tutti i governi tirannici e tutte le classi usurpatrici avranno abbastanza daffare in casa loro, senza doverselo cercare assistendo altri oppressori».

Marx ed Engels mantennero stretti contatti con questa organizzazione attraverso il Comitato di Corrispondenza di Bruxelles, ed in particolare con il suo nucleo proletario, che avrebbe poi aderito alla Lega dei Comunisti nel 1847; ne criticarono però l’ideologia nei suoi aspetti più immaturi. In una lettera di Engels a Marx di quei tempi si legge: «In questi giorni ho mandato a Harney un articolo moderatamente polemico, contro la mansuetudine dei Fraternal Democrats, e per il resto gli ho scritto che deve restare in corrispondenza con voi» (Opere, XXXVIII, 72).

Dopo la sconfitta dei cartisti nel 1848 l’attività della società subì un graduale declino, fino a disintegrarsi nel 1853. Fu però grazie a questa organizzazione che Marx ed Engels stabilirono i primi legami con i cartisti, specialmente con Ernest Jones ed Harney, che lavoravano entrambi per il giornale cartista Northern Star, il principale organo di stampa dell’organizzazione. A questo Engels trasferì la sua collaborazione abbandonando il New Moral World, di ispirazione owenista.

L’esperienza della Germania portò Marx a concludere circa le possibilità immediate di una rivoluzione:

     «Non si può parlare di una vera rivoluzione. Una rivoluzione siffatta è possibile solamente in periodi in cui entrambi questi fattori, le forze produttive moderne e le forme borghesi di produzione, entrano in conflitto tra di loro (...) Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra» (Opere, X, 522).
A questa analisi si contrapponeva, all’interno della Lega, quella della frazione Willich-Schapper, nell’ambito del dibattito sulla "posizione del proletariato tedesco nella prossima rivoluzione", della quale si discusse anche alla riunione del Comitato Centrale del 15 settembre 1850, da cui le citazioni che seguono sono tratte (Opere, X, 626-629).

Schapper sosteneva che l’attività dei comunisti aveva significato solo se vi era per il proletariato una possibilità immediata di andare al potere, altrimenti sarebbe stato meglio lasciar perdere. Marx invece parlò, come arco di tempo, di

     «15, 20, 50 anni di guerre civili», perché, «se il proletariato andasse al potere, non prenderebbe provvedimenti direttamente proletari, ma piccolo-borghesi».
Condannò inoltre lo sciovinismo per cui
     «al posto della concezione universale del “Manifesto” è stata introdotta la concezione nazionale tedesca e si è lusingato il sentimento nazionale dell’artigiano tedesco», nonché il fatto che «si è dato rilievo, come fatto fondamentale nella rivoluzione, invece che ai rapporti reali, alla volontà». Notò quindi con disgusto che «la parola “proletariato” è usata adesso come semplice frase vuota, così come fanno i democratici con la parola “popolo”. Per dar sostanza a questa frase tutti i piccoli borghesi dovrebbero essere dichiarati proletari, quindi di fatto si rappresenterebbero i piccoli borghesi e non i proletari».
Marx era allora contrario alla scissione e propose che entrambe le frazioni continuassero a lavorare nella Lega e nel partito, ma in due sezioni separate per «eliminare la tensione». Schapper si mostrò invece per la scissione:
     «Sciogliamo la Lega e incontriamoci poi di nuovo in Germania, allora forse potremo andare di nuovo insieme (...) Noi andiamo da soli e voi andate da soli. Devono essere fondate due Leghe. Una per coloro che operano con la penna, l’altra per coloro che operano con qualcosa d’altro. Non ritengo che la borghesia debba andare al potere in Germania, e sono fanaticamente entusiasta di questa opinione».
La Lega dei Comunisti quindi si scisse, Marx ed i comunisti scientifici trovarono le basi definitive su cui dividersi dai rappresentanti dell’utopismo attivista blanquista (al quale successivamente Willich e Schapper aderirono apertamente), che poneva l’accento sulla volontà di una avanguardia, nel disprezzo della teoria, per finire nei classici atteggiamenti operaisti.

Presto Schapper si sarebbe dedicato a progettare complotti senza speranza con democratici piccolo-borghesi. Marx nel frattempo spostò il Comitato Centrale a Colonia, dove continuò il lavoro di propaganda. Nel 1851 entrambi i gruppi suscitarono le attenzioni della polizia, e dopo l’incarcerazione degli accusati al processo ai comunisti di Colonia dell’ottobre 1852, Marx sciolse formalmente la Lega.

A quell’epoca erano già stati fatti i primi passi in direzione della formazione di una Internazionale Comunista, perché nel 1850 il Comitato Centrale della Lega aveva fondato, insieme ai blanquisti ed ai cartisti di sinistra, una organizzazione segreta internazionale, la Associazione mondiale dei Comunisti rivoluzionari, basata sull’aspettativa di una esplosione rivoluzionaria e sull’impegno al mutuo aiuto. I primi due articoli della sua costituzione, firmata da Adam e Vidil (blanquisti), da Harney (cartista), e da Marx, Engels e Willich (Lega dei Comunisti), specificavano:

     «Art. 1. Scopo dell’associazione è il rovesciamento di tutte le classi privilegiate, la loro sottomissione alla dittatura del proletariato, durante la quale sarà mantenuta la rivoluzione in permanenza sino a che non si sarà realizzato il comunismo, che sarà l’ultima forma di organizzazione dell’umana famiglia.
     «Art. 2. Per contribuire alla realizzazione di questo scopo, l’associazione stabilirà vincoli di solidarietà fra tutte le frazioni del partito comunista rivoluzionario, mentre, conformemente al principio della fraternità repubblicana, farà cadere tutte le barriere di nazionalità» (Opere, X, 617).
Affermazioni che esprimono un risultato apicale della dottrina comunista. Ma presto i capi blanquisti abbandoneranno la Lega e Marx, Engels e Harney scrissero loro per informarli che già «da molto tempo avevano considerato l’associazione di fatto sciolta».

Anni più tardi la costituzione della Prima Internazionale vedrà una sua ben maggiore estensione orizzontale, scontata da una minore intensità programmatica in verticale.
 
 

43. Gli ultimi giorni del cartismo
 

Dopo lo scioglimento della Lega dei Comunisti, convinto che una profonda comprensione delle opere sull’economia fosse uno strumento indispensabile per la classe operaia, Marx tornò agli studi che gli avrebbero permesso di redigere Il Capitale. Nonostante questo sforzo gigantesco, continuò a lavorare con i cartisti di sinistra.

Harney, dopo essere stato costretto da O’Connor a dare le dimissioni dal Northern Star per l’appoggio dato alla causa repubblicana, nel 1850 iniziò a lavorare ad un suo nuovo giornale, il Red Repubblican. Il giornale, poi ribattezzato Friend of the People (Amico del popolo), nel novembre di quell’anno pubblicò la prima traduzione inglese del Manifesto, «dei cittadini Carlo Marx e Federico Engels».

Engels e Marx avrebbero voluto continuare a collaborare con Harney, ma divenne presto impossibile: Harney aprì le pagine del Friend of the People a praticamente qualsiasi gruppo di esuli politici e si schierava sempre più con i blanquisti e Schapper. Presto Marx avrebbe avuto difficoltà a difendere Harney, che aveva soprannominato «cittadino Hip Hip Urrà!». Di quegli anni è anche la triste fine del vecchio cartista O’Connor, il "leone della libertà", che in parlamento «creò confusione avvicinando numerosi deputati e stringendo la mano a chiunque incontrava». Poco dopo fu ricoverato in una casa di cura ove morì nel 1855. Il suo giornale, il Northern Star, nel 1842, per ragioni economiche, fu messo in vendita; fu inizialmente acquistato dai tipografi per cento sterline, divenendo un giornale dei riformatori borghesi. Jones cambiò nome al suo giornale da Notes to the People a People’s Paper, il quale sopravvisse fino al 1858 prendendo il posto del Northern Star come portavoce del movimento operaio in Gran Bretagna.

Mentre Marx gradualmente si allontanava Harney i suoi rapporti con Jones, l’altro capo della sinistra cartista, si intensificavano. Engels scrisse a Marx, in occasione della morte di Jones avvenuta nel 1869, che questi era stato «tra i politici, l’unico inglese colto completamente dalla nostra parte». Agli inizi degli anni ’50 Jones, a differenza di Harney, aveva sostenuto la dottrina della lotta di classe, della incompatibilità di interessi tra capitale e lavoro, e della necessità della conquista del potere da parte della classe operaia, posizioni che non poterono essere che rafforzate dal sodalizio con Marx, il quale arrivò a definire Jones come «il più dotato tra i rappresentanti del cartismo». Vi fu qualche disaccordo, come nel caso del rifiuto di Jones di pubblicare una traduzione inglese del Diciotto Brumaio, ma Marx mantenne sempre stretti contatti, partecipando a riunioni organizzate da Jones e scrivendo sovente sul People’s Paper (anche se spesso inorridito dalla quantità di errori tipografici). Fu proprio in collaborazione con Jones che Marx scrisse quello che più tardi avrebbe definito il suo miglior lavoro di critica del movimento cooperativo.

Oltre che nell’attività editoriale, Jones aveva tentato di creare un partito indipendente della classe operaia, denominato "Il Movimento di Massa". Questa organizzazione, costituita sotto la spinta di un’ondata di scioperi, tendeva ad unire i lavoratori organizzati nei sindacati con i non sindacalizzati, principalmente allo scopo di coordinare gli scioperi nelle diverse zone del paese. L’organizzazione sarebbe stata diretta da un "Parlamento del Lavoro" da convocarsi periodicamente, composto da delegati eletti da assemblee sindacali e dei lavoratori non organizzati. La prima ed ultima riunione di questa organizzazione ebbe luogo il 6-18 marzo 1854. Tuttavia Marx diede grande importanza a questa iniziativa, che costituiva un tentativo di far uscire la classe operaia dall’ambito ristretto del sindacalismo di mestiere. Ma, nonostante le sue speranze, il sindacalismo di mestiere ebbe la meglio, e la maggioranza dei delegati dei sindacati si espressero contro le lotte politiche e l’organizzazione di massa.

Jones avrebbe in seguito rivisto alcune posizioni, come la rinuncia alla critica del movimento cooperativo, finché nel 1854 arrivò a raccomandare la costituzione di nuove cooperative.

Nel 1855 Marx si lasciò persuadere da Jones a partecipare ad una riunione del Comitato Internazionale Cartista, per la preparazione di un banchetto per celebrare la rivoluzione del 1848. Ma «le sciocche chiacchiere dei francesi, l’imbambolamento dei tedeschi ed il gesticolare degli spagnoli» gli diedero la sensazione di trovarsi nel mezzo di una farsa, e Marx si limitò ad osservare in silenzio fumando un sigaro dopo l’altro. La riunione fu comunque importante, in quanto faceva parte di una serie di iniziative tendenti a fondare una Internazionale Operaia come reazione alla guerra di Crimea, sotto l’egida della Associazione Internazionale che era sorta nel 1854 dai resti dei Fraternal Democrats. L’Associazione tentava di riunire la sinistra di tutta Europa, mettendo insieme, anche se con legami non strettissimi, la Commune Révolutionnaire, l’Associazione Operaia Tedesca, i Cartisti ed i Socialisti Polacchi. I capi di parte inglese erano Ernest Jones e George Holyoake, il cooperatore.

Nel frattempo (1854) l’Esecutivo Cartista "ufficiale" della National Chartist Association cessò definitivamente di esistere. Si trattò di un risultato inevitabile, in una organizzazione che era degenerata in un salotto di chiacchiere, nel quale interminabili riorganizzazioni burocratiche, ristrutturazioni, elezioni, convenzioni e riunioni – insieme a dosi massicce di distruzioni di reputazioni e di scandali personali – servivano solo a nascondere la realtà: che cioè era ormai un guscio vuoto privo di qualsiasi collegamento reale con la classe in nome della quale pretendeva di operare. Presto organizzazioni cartiste di tutte le forme e dimensioni cominciarono a nascere come funghi un po’ dappertutto; tra queste la National Reform League, la National Regeneration League, la People’s Charter Union, La Sociale Reforme League, ecc., in genere con l’unico scopo di annacquare la Carta con emendamenti riduttivi quali limitare il voto ai capofamiglia, ecc.

A uno di questi comizi, nel 1858 – l’ultimo a prendere il nome di “cartista” – Jones propose di formare una alleanza con i riformatori borghesi, tanto odiati negli anni precedenti. Così commentò i fatti Marx:

     «La storia di Jones è molto sporca. Ha tenuto qui un comizio e ha parlato completamente nel tono della nuova alleanza. Dopo questa storia verrebbe davvero la voglia di credere che il movimento proletario inglese nella vecchia forma tradizionale cartista abbia bisogno di sfasciarsi del tutto prima che possa svilupparsi in una nuova forma vitale. E tuttavia non si riesce a vedere quale sarà questa nuova forma. Mi sembra del resto che il nuovo passo di Jones, in relazione coi precedenti, più o meno fortunati, tentativi di un’alleanza simile, in realtà sia collegato con l’effettivo progressivo imborghesimento del proletariato inglese, di modo che questa nazione che è la più borghese di tutte, sembra voglia portare le cose al punto da avere un’aristocrazia borghese e un proletariato borghese accanto alla borghesia. In una nazione che sfrutta il mondo intero, ciò è in certo qual modo spiegabile» (Opere, XL, 373).
Il comizio costituì l’ultimo rantolo del cartismo, e l’inizio formale del prevalere della aristocrazia operaia inglese. Ma si può anche tracciare una linea di continuità tra la scomparsa del cartismo e la fondazione della Prima Internazionale, sei anni più tardi. Tutte le forze che Jones aveva tentato di affasciare, i cooperatori, i sindacati e la sinistra, avrebbero finito per far parte dell’Internazionale; in particolare, molti aderenti dell’Associazione Internazionale, che sarebbe stata sciolta nel 1859, avrebbero poi fatto parte della Prima Internazionale.

I fallimenti del cartismo avevano contribuito a definire meglio il marxismo, e costituirono una preziosa eredità per il movimento della classe operaia, soprattutto contrapponendo la sua organizzazione di massa ai metodi blanquisti di cospirazioni di élite. Ma del cartismo rimase un’altra, importante lezione: dal suo inizio sino allo scioglimento, il movimento affrontò un dilemma che venne dibattuto ovunque, in tutti i comizi e in tutte le conferenze, un dilemma che ebbe un ruolo importante nel dar forma allo stesso movimento e che solo il marxismo risolse in modo definitivo: deve la classe operaia allearsi con una parte della borghesia per raggiungere i suoi scopi, o fare ricorso alla forza fisica?

La scomparsa del Cartismo segnò per la classe operaia la fine della partecipazione di massa alla vita politica. Non restava che il sindacato, che allora rappresentava soltanto gli operai specializzati e gli artigiani, strati conservatori che si trascinavano dietro le forme e gli atteggiamenti tipici delle gilde. Questo strato, o meglio il gruppetto che ne era a capo, era facilmente corruttibile; ma quando la massa dei lavoratori avanzava richieste per condizioni di vita e di lavoro umane, allora quello che riceveva erano i manganelli dei poliziotti e le baionette dei soldati. L’imborghesimento poteva essere esteso solo ad una minoranza della classe operaia, anche perché la borghesia inglese, pur operando il suo sfruttamento a scala mondiale, era sempre soggetta a crolli e crisi.

Sei mesi dopo la lettera di Engels a Marx sopra citata, Marx scriveva a Lassalle circa una ripresa della lotta di classe, lamentando di non poter disporre di un giornale inglese su cui scrivere.

La classe operaia in Gran Bretagna ha sempre costituito forti organizzazioni economiche, ma dal punto di vista politico non è più stata capace di sfuggire al controllo della borghesia e di darsi un suo partito che assimilasse a livello politico e teorico le esperienze ed i significati dei trascorsi episodi della lotta di classe. Al proletariato è stata così negata la comprensione teorica e politica, sostituita dal malanno dell’empirismo, che innalza ad arte la pratica di annaspare nel buio. La ripresa del movimento difensivo operaio in Inghilterra tornerà ad intrecciarsi con la critica di tutti gli aspetti dell’attuale sistema sociale e dei riflessi politici ed ideologici che emanano dai rapporti borghesi e dallo sfruttamento della classe operaia. Tale critica sradicherà tutte le assurdità così apprezzate dalle accademie borghesi, le formule più recenti e alla moda nei circoli universitari, celle di coltura di pesti bubboniche con cui infettare il mondo.
 
 

44. La critica del marxismo al cooperativismo
 

Il Movimento Cooperativo ha attraversato due fasi, la prima delle quali può essere denominata utopistica, la seconda borghese. Nella prima fu uno strumento della lotta di classe, nella seconda è parte integrante del sistema capitalistico. La prima fase arrivò ad alcuni esperimenti, dei quali nessuno ebbe una esistenza più che effimera, mentre la seconda ancora ci appesta.

Questa criticò Ernest Jones negli anni 1851-52, epoca in cui era discepolo di Marx ed Engels ed il movimento cartista era in via di riorganizzazione. La corrispondenza del periodo fra Marx ed Engels mostra come approvassero l’attacco di Jones al movimento cooperativo. Diversi anni più tardi, il 4 novembre 1864, Marx scriveva ad Engels questo commento:

     «Per caso mi sono capitati di nuovo tra le mani un paio di numeri di E. Jones, Notes to the people (1851, 1852), in cui si trovano gli articoli economici che, nelle linee principali, vennero scritti sotto la mia direzione e in parte con la mia collaborazione diretta. Well! Che vi trovo? Che noi conducevamo allora – ma in modo migliore – contro il movimento cooperativistico, in quanto pretendeva nella sua limitata forma attuale di presentarsi come un non plus ultra, la stessa polemica che Lassalle condusse 10-12 anni più tardi contro Schulze-Delitzsch in Germania».
Non si trattava soltanto di discutere argomenti a favore e contro il movimento cooperativo del momento, ma sopratutto di dare un indirizzo alle forze che allora si stavano dividendo. Si trattava di affrontare tutte le questioni importanti che il movimento operaio si trovava dinanzi, tra cui quella fondamentale: competizione all’interno del sistema capitalistico o lotta di classe contro la società divisa in classi? Quei dibattiti e quegli scontri prefiguravano le questioni che avrebbero animato il movimento socialista nei decenni successivi. Il movimento cooperativo di nuovo tipo non pretendeva di attaccare la società borghese ma solo il capitalismo privato.

Nel secondo numero di Notes to the people Jones dedicava una lettera aperta ai difensori della cooperazione e della Società cooperative nel loro insieme. In primo luogo affermava che, pur ammesso che tutti i partecipanti fossero onesti ed in buona fede, alcuni fatali difetti erano stati sottovalutati.

     «Sostengo fermamente che la cooperazione, così come è oggi realizzata, non può che risultare nel fallimento per la maggioranza di coloro che vi sono coinvolti e che non fa che perpetuare i mali che pretende di sradicare (...) Scopi che la cooperazione si dà: porre fine alla corsa ai profitti, emancipare le classi lavoratrici dalla schiavitù salariata, mettere i proletari in condizione di divenire i padroni di sé stessi; distruggere il monopolio e contrastare la centralizzazione della ricchezza diffondendola in modo equo e generalizzato. Mezzi adoperati per raggiungere tali risultati: per gli scopi suddetti le classi lavoratrici sono esortate a sottoscrivere il loro penny, nella convinzione che così facendo riusciranno presto a levare di mezzo il monopolista e a divenire operai e bottegai per proprio conto».
Che, per altro, tutto questo fosse impossibile era dimostrato dal fatto che tutti i penny dagli operai non riuscirono mai a sconfiggere le sterline dei padroni. Nel corso dei 50 anni precedenti i risparmi degli operai erano stati di 43 milioni di sterline (in realtà gran parte di questi apparteneva alla piccola borghesia), mentre le classi dominanti avevano incrementato il loro capitale di ben 56 volte tanto.
     «È quindi un errore dire che – capitale contro capitale, penny contro sterlina – la cooperazione delle classi lavoratrici può sconfiggere l’alleanza dei ricchi, se la capacità dei primi di vincere è fatta risalire al fatto che questi posseggono collettivamente più danaro».
Anche se le risorse di tutti i lavoratori potessero essere utilizzate al massimo, la potenza finanziaria della borghesia sarebbe comunque di gran lunga superiore. Inoltre essa può anche permettersi di perdere danaro pur di boicottare le iniziative imprenditoriali dei proletari, cosa che questi ultimi non possono fare.
     «È divertente notare che molti di coloro che sono per una alleanza con la borghesia sono anche strenui sostenitori dell’attuale sistema cooperativo; mentre ritengono inevitabile il sostegno dei borghesi, gridano al mondo che la loro “cooperazione“ distruggerà i bottegai! Si tratta di una distruzione che in verità procede ad un passo assai lento; la cooperazione da loro prefigurata è ormai sperimentata da un pezzo, anzi si è piuttosto diffusa, e ci dicono che localmente ha un grande successo, eppure mai come ora i monopolisti hanno accumulato giganteschi profitti o esteso in modo paragonabile le dimensioni delle loro operazioni finanziarie. Vediamo forse Moses e Hyram piagnucolare davanti ai sarti, o Grissel e Peto rabbrividire di terrore al passaggio dei muratori, o Clawes Odell inginocchiarsi al cospetto dei tipografi? Ovunque, gli affari vanno meglio che mai».
Jones continua ricordando che i fondi così raccolti sono destinati a tre principali iniziative: 1. acquisto di terra; 2. acquisto di macchine a scopo industriale; 3. acquisto di negozi per la distribuzione. In dettaglio:

1. La terra: a) costa più di quanto gli operai possano permettersi; b) se gli operai cominciano ad acquistare, l’aumento della domanda ne farà lievitare il prezzo; c) mentre il prezzo della terra cresce i salari continuano a scendere; d) la borghesia non è tenuta a vendere la terra e può negarla ai proletari, con tutte le leggi ed il potere politico in difesa della sua proprietà.

2. Macchine e manifattura: i cooperatori sono certi del fatto che creando nuove manifatture cooperative costringeranno gli imprenditori privati a chiudere le loro, poiché gli porteranno via i lavoratori ed i mercati. Questo non è vero, afferma Jones, perché i capitalisti non dipendono esclusivamente dai mercati interni. E, in generale, sono sempre in grado di vendere a prezzi più bassi di quelli dei cooperatori. Inoltre il mercato del lavoro è tale che essi avranno sempre la possibilità di trovare nuova manodopera.

Quali gli effetti della accresciuta concorrenza per la presenza dei cooperatori?

     «Se, quindi, le fabbriche non vengono chiuse, noi creiamo solo guai maggiori sovrasaturando il mercato. Ci troviamo in un mercato che è in equilibrio con la produzione, e non in una situazione di carenza di prodotti. Se la produzione aumenta i prezzi si abbassano; se si abbassano i prezzi scendono anche i salari (che spesso si riducono in modo più che proporzionale), e aumenta ancor più la miseria della popolazione lavoratrice. “Ma – voi potete obbiettare – noi faremo un mercato, creeremo un commercio interno e daremo prosperità alla classe operaia”. Vi manca però il punto di partenza: è la prosperità della classe operaia che è necessaria perché la vostra cooperazione abbia successo, mentre, secondo il vostro ragionamento, è necessario il successo della cooperazione per rendere prospera la classe operaia! Non vi accorgete di esservi messi in un circolo vizioso e di girare a vuoto. Voi avete bisogno di una terza forza per assicurarvi il successo, cioè di un potere politico che ricostituisca le basi della società. Sotto l’attuale regime politico, e con le vostre prospettive politiche, tutti i vostri sforzi si mostreranno vani – si sono dimostrati vani – per l’ottenimento di un risultato nazionale».
3. Negozi cooperativi:
«Vostro intento è far diventare il lavoratore il proprio bottegaio e rendergli possibile di tenersi in tasca i profitti prima appannaggio del bottegaio».
Il risultato finale sarà che, o i lavoratori finiranno col dover sostenere finanziariamente i negozi cooperativi, o, se nel lungo termine le merci si dimostreranno più a buon mercato, allora questo contribuirà a far abbassare il livello dei salari. In ogni caso gli operai ne usciranno perdenti.

Jones conclude:

«Il sistema cooperativo come è attualmente praticato porta in sé i germi della dissoluzione, infliggerà ulteriori malanni alle masse popolari ed è sostanzialmente nemico dei veri amici della cooperazione. Invece di abrogare la corsa ai profitti esso la ricrea; invece di contrastare la concorrenza esso la favorisce; invece di impedire la centralizzazione esso la rinnova – semplicemente trasferendo i ruoli da un gruppo di attori ad un altro».
1. Dovrebbe distruggere la lotta per il profitto. Invece tutti i bilanci delle prime società cooperative riportavano tassi di profitti che avrebbero fatto arrossire il più avido imprenditore capitalista! «Stanno calcando le orme dei profittatori, solo che cominciano a fare ora ciò che quelli facevano secoli fa».

2. Dovrebbe por fine alla concorrenza. «Ma sfortunatamente la ricrea. Ogni negozio o associazione è una struttura a sé, con interessi particolari. Dapprima competono con il bottegaio, ma prima o poi si trovano a farsi concorrenza fra loro».

3. Dovrebbe contrastare la centralizzazione della ricchezza. «Ma la rinnova. I passi successivi del fenomeno potrebbero essere: si combatte una lotta fratricida in una città – una associazione trionfa sulle altre e ne assorbe la clientela – il potere cooperativo passa da molte in poche mani – la ricchezza viene centralizzata. Riflettiamo un poco: cosa sono le grandi compagnie coloniali, le società per azioni, le società bancarie, le compagnie ferroviarie, le società commerciali – cosa se non associazioni cooperative in mano ai ricchi? Quali sono stati i loro effetti sul popolo? Centralizzare la ricchezza e impoverire i lavoratori. Dove sono le differenze di sostanza tra loro e le attuali cooperative? Alcuni uomini mettono in comune i loro mezzi finanziari. Anche loro fecero così. Che tali mezzi siano tanti o pochi non significa molto per il funzionamento dell’impresa se non per la rapidità o lentezza del suo sviluppo. Pochi uomini avviano l’impresa, e accumulano profitti. Così fecero loro. I profitti crescono sui profitti, il capitale si accumula sul capitale – sempre prendendo la strada delle tasche di quei pochi. Lo stesso è successo ai loro più ricchi prototipi. Che razza di cooperazione è mai questa (...) Un sistema che permette a alcuni nuovi bottegai e capitalisti di sostituirne i vecchi, e che accresce la grande maledizione della classe operaia, l’aristocrazia del lavoro».

Jones passa quindi a esaminare quello che potrebbe e dovrebbe essere fatto come alternativa all’ordine stabilito:

     «Allora quale sarebbe l’unico terreno valido per l’industria cooperativa? Quello nazionale. Tutta la cooperazione non dovrebbe essere fondata su forzi isolati che fruttano, quando hanno successo, ricchezze per sé, ma su una associazione nazionale che distribuisca la ricchezza prodotta. Affinché queste associazioni siano sicure e benefiche si deve fare in modo che sia nel loro interesse assistersi l’una con l’altra, invece di farsi la concorrenza – bisogna dare loro unità di azione, e identità di interessi (...) Questo è il punto cruciale: devono i profitti accumularsi nelle mani di club isolati o devono essere destinati alla elevazione del popolo intero? Deve la ricchezza accumularsi in luoghi particolari o essere diffusa da una apposita agenzia di distribuzione? Questa alternativa racchiude le sorti del futuro. Da un lato si ha la corsa ai profitti, la concorrenza, il monopolio, e la catastrofe; dall’altro può sorgere la rigenerazione della società. Se quindi voi volete rigenerare la società, distruggere il sistema del profitto, sostituire alla concorrenza la benefica influenza della fratellanza, e contrastare la concentrazione della ricchezza e tutti i mali che ne discendono, estendete la cooperazione alla nazione».
45. Uno stabile funzionamento capitalista
 

Sul numero 21 di Notes to the People Jones riprende la critica della cooperazione, prendendone in esame il funzionamento come organizzazione.

Fondamento del commercio cooperativo è l’acquisto all’ingrosso per poi vendere ad un prezzo maggiorato. Solo in parte gli acquirenti sono gli azionisti, la maggior parte della clientela è esterna. Nel caso in cui la vendita sia limitata agli azionisti non vi è niente da dividere ed il modo in cui intendono gestire i loro affari riguarda solo loro: quello che un numero di famiglie può fare organizzandosi per l’acquisto all’ingrosso lo fa la cooperativa costituendo una società formalizzata. La borghesia già compra all’ingrosso facendo grossi risparmi, perché non lo dovrebbero poter fare i lavoratori?

     «Per questo si può essere in venti o trenta, ma anche in due o tre. In ciò si hanno i vantaggi del negozio cooperativo, senza le relative spese e difficoltà, non si devono pagare affitti, tasse o interessi né stipendi agli impiegati; non c’è da spendere per banchi e arredamento, né per insegne e pubblicità; niente spese per avvocati; niente registrazioni, iscrizioni o certificazioni; nessun tipo di corsa ai profitti... C’è già tutto il necessario».
La situazione è diversa dove le società cooperative si sono costituite con lo scopo principale di vendere al pubblico. Qui si tirano fuori le giustificazioni più complicate per giustificare il rapporto con la clientela: dopo tutto i soldi si devono fare per sviluppare l’attività cooperativa, ed è meglio prenderli da qualcuno che non siano i soci stessi.
     «Il cooperatore compra sul mercato meno caro, e vende al prezzo più alto possibile; nel frattempo ci informa che tutto ciò viene fatto con lo scopo di distruggere l’orribile sistema dei profitti della negoziocrazia. Il povero cliente gli paga il profitto, che alla fine dell’anno spartisce con i fratelli cooperatori! Poi si vantano di aver fatto un guadagno netto di 2.000 sterline in un anno! differenza tra il prezzo all’ingrosso a cui hanno acquistato e il prezzo al dettaglio al quale hanno venduto, dopo aver tolto le spese».
Alcune delle società cooperative dividevano tutto il profitto tra i soci, altre, anche per non essere accusate di "inseguire il profitto", ne reinvestivano parte. Ma alla fine le somme accantonate per investimenti non facevano che aumentare ancora i profitti futuri, e l’impresa si allargava.

Nel 1844 un’accozzaglia di sindacalisti delusi, owenisti ed ex-cartisti aprì un negozio per la vendita di generi alimentari. Questi, benché poi assurti a modello con l’altisonante denominazione di “Pionieri di Rochdale“, si limitavano al commercio di verdure e non si illudevano certo di stare fondando un nuovo tipo di socialismo o di sfidare il modo capitalistico di produzione. Fu solo molto più tardi che l’etichetta di “socialismo” fu apposta su questo esperimento, prima ad opera di Beatrice Potter Webb poi da tutti i revisionisti fino agli attuali eurocomunisti di Italia, Francia e, assai più modestamente, d’Inghilterra. Tali iniziative mai costituiranno una alternativa al capitalismo e questo vale tanto per le prime forme di commercio cooperativo quanto per quelle "eque" o “alternative” tanto di moda al giorno d’oggi, che scimmiottano esperimenti borghesi che vantano oltre un secolo di vita.

La speculazione non si limitava al commercio.

     «A Rochdale e Padiham la ”cooperazione” ha assunto una forma ancora più nemica degli interessi dell’umanità e del progresso. A Padiham è stata costruita una fabbrica “cooperativa”, con azioni da 25 sterline pagabili in rate da 5 scellini. È una fabbrica di lavoratori che si vendicherà sui suoi padroni! Qui, come in quasi tutti gli esperimenti cooperativi in Inghilterra, tutti i profitti sono spariti tra gli azionisti, e la quantità di profitti da estorcere dal pubblico è lasciata alla coscienza dei profittatori stessi».
46. La Prima Internazionale
 

Le lotte operaie del 1859-60, in particolare lo sciopero degli edili, che avevano dimostrato la capacità dei proletari inglesi di difendere le loro condizioni di vita e nel contempo di lottare per impedire l’intervento britannico nella guerra civile americana, contribuirono a favorire la fondazione della Prima Internazionale. Marx commentò come segue, nell’Indirizzo Inaugurale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori:

     «Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848 sul continente tutte le organizzazioni e i giornali di partito della classe operaia furono schiacciati con pugno di ferro, i più avanzati figli della classe operaia fuggirono disperati nella repubblica al di là dell’Atlantico, ed i sogni effimeri di emancipazione svanirono, mentre si preparava un’epoca di febbre industriale, di marasmi sociali e di reazione politica. La sconfitta delle classi lavoratrici del continente, in parte dovuta alla diplomazia del governo inglese, allora come adesso fraternamente solidale con i governanti di Pietroburgo, presto diffuse i suoi effetti contagiosi su questa sponda del della Manica.
     «Mentre la disfatta dei fratelli sul continente scoraggiava la classe operaia inglese e minava la sua fede nella causa, per converso restituiva ai signori della terra e della finanza una fiducia già per molti versi incrinata. Questi con arroganza si rimangiarono le concessioni accordate. La scoperta di nuovi giacimenti auriferi causò un immenso esodo, lasciando un vuoto irreparabile nei ranghi del proletariato britannico. Altri membri, già combattivi, furono conquistati dalla temporanea corruzione di maggiore lavoro e salario, e si trasformarono in “negri politici“. Tutti gli sforzi condotti per mantenere, o riformare, il movimento cartista fallirono miseramente; gli organi di stampa della classe operaia furono soffocati uno dopo l’altro dall’apatia delle masse, e la classe operaia inglese si trovò in uno stato di totale pacificazione, in una totale nullità politica che non aveva precedenti. Se mai si era verificata una solidarietà nell’azione tra le classi operaie del continente e quella inglese, ora si assisteva alla loro solidale sconfitta.
     «Ma il periodo passato dopo le rivoluzioni del 1848 non era stato privo di aspetti positivi. Qui vogliamo sottolinearne due di grande importanza. Dopo una lotta di trenta anni, combattuta con la più ammirevole perseveranza, le classi lavoratrici inglesi, approfittando di una profonda spaccatura fra i signori della terra e i signori del denaro, riuscirono a conquistare il Ten Hours Bill. Gli immensi benefici fisici, morali ed intellettuali che da allora sono conseguiti per i lavoratori di fabbrica, descritti da sei mesi nei rapporti degli ispettori di fabbrica, sono adesso ovunque riconosciuti (...) Il Ten Hours Bill non fu soltanto un grande successo pratico, fu la vittoria di un principio, fu la prima volta che platealmente l’economia politica della borghesia fu sopraffatta dall’economia politica della classe operaia.
     «Ma vi era in serbo una vittoria ancora più grande dell’economia politica dei lavoratori sull’economia politica della proprietà: parliamo del movimento cooperativo, in particolare delle fabbriche cooperative create dai soli sforzi di poche ardite mani. Non si rischia di sopravvalutare il valore di questi grandi esperimenti sociali. Con i fatti invece che con le parole essi hanno mostrato che la produzione su larga scala, e secondo i dettami della scienza moderna, è possibile senza l’esistenza di una classe di padroni che impieghi una classe di prestatori d’opera».
Qui Marx dimostra con quanta dialettica si debbano interpretare i progressi, per quanto contraddittori e disparati, del movimento operaio. Infatti prosegue:
     «Allo stesso tempo l’esperienza del periodo dal 1848 al 1864 ha provato al di là di ogni dubbio quanto i più intelligenti capi della classe operaia inglese già sostenevano nel 1851-52 nei confronti del movimento cooperativo, e cioè che per quanto utile in pratica, il lavoro cooperativo, se mantenuto all’interno dell’ambito di sforzi separati di privati lavoratori individuali, non riuscirà mai ad arrestare la crescita in progressione geometrica del monopolio né a liberare le masse e nemmeno ad alleggerire in modo percepibile il peso delle loro miserie (...)
     «La conquista del potere politico quindi divenuta il grande scopo delle classi lavoratrici. Queste sembrano averlo compreso poiché in Inghilterra, Germania, Italia e Francia si è avuta una simultanea ripresa del movimento, sforzi simultanei vengono condotti verso la riorganizzazione politica del partito dei lavoratori. Un elemento del successo è nelle loro mani, il numero; ma i numeri pesano sulla bilancia solo se uniti in modo organizzato e guidati dalla conoscenza».
Posizione fondamentale mai abbastanza ribadita!
     «L’esperienza passata ha mostrato che trascurare il legame di fratellanza che dovrebbe esistere tra gli operai di diversi paesi e incitarli a stare fianco a fianco in tutte le loro lotte per l’emancipazione, provoca ovunque la sconfitta dei loro sforzi incoerenti. Questo pensiero ha spinto i lavoratori di diversi paesi riuniti il 28 settembre 1864, in pubblica riunione alla St.Martin’s hall, a fondare l’Associazione Internazionale».
47. Marx e i sindacati
 

La sola espressione della classe operaia che in Gran Bretagna era sopravvissuta con una certa consistenza, i sindacati, si inserì nella Prima Internazionale. Nel formulare un indirizzo e delle prospettive per il lavoro dei sindacati Marx scrisse le “Istruzioni per i delegati al congresso di Ginevra“ nel 1866. Nel capitolo 6, “Il sindacato: passato, presente e futuro“, si legge:

     «A) Passato. Il capitale è una forza sociale concentrata, mentre l’operaio dispone solo della sua forza lavoro. Il contratto tra capitale e lavoro non si stipula in termini equi in una società che pone la proprietà dei mezzi materiali di vita e di lavoro da una parte e le energie produttrici vitali dalla parte opposta. Il solo potere sociale dei lavoratori è il loro numero; ma la forza del numero può comunque essere spezzata dalla mancanza di unità. La divisione dei lavoratori è creata e perpetuata dalla inevitabile competizione al loro interno.
     «I sindacati in origine sorsero dagli spontanei tentativi dei lavoratori di eliminare o perlomeno controllare tale competizione, per conquistare condizioni contrattuali tali da poterli innalzare perlomeno al di sopra delle condizioni di puri schiavi. L’oggetto immediato dei sindacati era quindi confinato alle necessità quotidiane, ad espedienti per contrastare l’incessante arroganza del capitale, in una parola a questioni di salari e orari di lavoro. Questa attività dei sindacati non è solo legittima, essa è necessaria; non se ne può fare a meno finché perdura il presente sistema di produzione. Al contrario essa deve essere generalizzata dalla formazione e dal coordinamento dei sindacati di tutti i paesi.
     «D’altra parte, senza che se ne rendessero conto, i sindacati stavano formando centri di organizzazione della classe operaia come era avvenuto in precedenza per la borghesia con i municipi medioevali ed i comuni; la loro importanza risiede nel ruolo di agenzie organizzate per il superamento dello stesso sistema di lavoro salariato e del dominio capitalistico.
     «B) Presente. Troppo ed esclusivamente concentrati sulle lotte locali ed immediate con il capitale, i sindacati non hanno ancora ben compreso le loro potenzialità di azione contro lo stesso sistema di schiavitù salariale. Si sono tenuti troppo a distanza dai movimenti sociali e politici. Recentemente, però, sembrano aver compreso in parte la loro grande missione storica, come per esempio appare dalla loro partecipazione in Inghilterra ai recenti movimenti politici».
Questo distacco dalla politica da parte dei capi sindacali si sarebbe presto trasformato in sostegno per la politica borghese, fino alla partecipazione attiva alle sue guerre. Quello che a quel tempo, 1866, veniva portato come un esempio, il Trade Union Congress, è divenuto una sentina di corruzione e nazionalismo; vale la pena di ricordare che da strumento di difesa della classe operaia, questa organizzazione ha partecipato attivamente a due guerre mondiali e che alla fine dell’ultima ha riorganizzato sindacati in Germania per conto dell’imperialismo americano.
     «C) Futuro. Al di là dei loro scopi originali, essi adesso devono imparare ad agire deliberatamente come centri di organizzazione della classe operaia nel suo più ampio interesse: la sua completa emancipazione. Devono sostenere qualsiasi movimento sociale e politico in quella direzione. Considerandosi ed agendo come i difensori e i rappresentanti dell’intera classe lavoratrice, non possono mancare di accettare nei loro ranghi i diseredati. Devono occuparsi assiduamente degli interessi dei mestieri peggio pagati, come i braccianti agricoli, indifesi quando occorrono periodi sfavorevoli. Devono convincere il mondo intero che i loro sforzi, lungi dall’essere ristretti ed egoistici, hanno come scopo l’emancipazione dei milioni di oppressi».
La situazione non è molto cambiata da allora in Gran Bretagna. I sindacati sono basati sui mestieri o sulle branche di industria e solo in un paio di casi vi sono dei sindacati generali. In questo contesto per un lavoratore la scelta del sindacato cui iscriversi è limitata, e ancor più difficile è il passaggio da un sindacato all’altro. Esiste addirittura un accordo, il Bridlington Agreement, che vieta il passaggio di iscritti da un sindacato all’altro e quindi la formazione e l’accrescersi di sindacati con posizioni combattive e di classe. Altro aspetto della situazione in Inghilterra è il famoso closed shop in forza del quale tutti i dipendenti di un’azienda devono essere iscritti ad un sindacato affiliato T.U.C. Il closed shop ha anche la funzione di controllare i lavoratori più combattivi perché, ove è in vigore, essere espulsi dal sindacato significa automaticamente perdere il posto di lavoro.

L’unità sindacale di oggi non è altro che lo strangolamento di qualsiasi lotta che minacci di infrangere la attuale compartimentazione della classe operaia.
 
 

48. Il tradimento dei burocrati sindacali
 

Nella sezione inglese della Prima Internazionale la lotta per la Riforma, una questione politica, fu posta al centro della strategia dei sindacati. Dopo l’approvazione del Reform Act del 1867, che aveva concesso il voto a un piccolo strato della classe operaia, i capi sindacali si precipitarono a sostenere i partiti borghesi, e in particolare il partito liberale. La Lega per la Riforma, che era stata sotto l’influenza dell’Internazionale, passò sotto quella di politicanti borghesi. Marx nel 1872 dovette denunciare tutti questi traditori al congresso dell’Aia della Prima Internazionale, affermando di ritenere un onore non essere considerato un dirigente sindacale inglese. Poco dopo Marx scriveva a Sorge il 4 aprile 1874:

     «Per quanto riguarda i lavoratori urbani qui (in Inghilterra) è un peccato che tutti i suoi capi non finiscano in Parlamento, questo sarebbe il modo migliore di liberarcene in blocco».
L’agitazione dell’Internazionale si spostò nella Land and Labour League, che si era fatta carico di inquadrare i proletari disorganizzati, sia i semi-specializzati e manovali, come i portuali (il che porterà dei frutti anni dopo nel famoso sciopero dei portuali del 1889), sia i disoccupati. Qui gli iscritti più conservatori delle unioni di mestiere furono scavalcati dall’arrivo sulla scena di nuovi strati proletari già non organizzati rovesciando così la situazione.

Ma, per quanto riguarda l’Internazionale, l’ondata della lotta di classe stava in quel tempo rifluendo. Per quanti sforzi disperati si facessero con azioni di retroguardia, l’Internazionale si trovava di fronte alla scelta tra il soccombere o l’essere conquistata da forze ostili al proletariato. Le lotte contro gli anarchici sono ben documentate, meno la resistenza in Inghilterra alla penetrazione borghese nei sindacati.

L’Inghilterra era allora l’unico paese maturo per una rivoluzione proletaria, con un proletariato sufficientemente forte per mantenere il potere da solo. E la rivoluzione, in una economia di capitalismo così sviluppato, dominante il mercato mondiale, avrebbe potuto avere un profondo effetto sugli altri paesi. Ma in Inghilterra una grande maturità economica si vedeva capovolta in un minimo del movimento politico della classe operaia.

Forse vale la pena di aggiungere, quale maggior follia, quanto maggior crimine sarebbe stato lasciar cadere la stessa Internazionale in mano inglese, cioè borghese!

     «Gli inglesi hanno tutti i requisiti materiali per la rivoluzione sociale, quel che a loro manca è il senso della generalizzazione ed il fervore rivoluzionario. È solo il Consiglio Generale che glielo può fornire, così accelerando il movimento veramente rivoluzionario in questo paese e quindi ovunque. Il grande successo che abbiamo già avuto in questo senso è testimoniato da quei giornali che mostrano più acume e che più degli altri godono della fiducia della classe dominante (...) Essi ci accusano pubblicamente di aver avvelenato e quasi spento lo spirito inglese della classe operaia e di averla spinta verso il socialismo rivoluzionario».
È indubbio che i burocrati sindacali erano completamente d’accordo con questa diagnosi, che cioè erano state le influenze esterne a spingere gli operai a lottare, a creare disordine, in contrasto con l’atteggiamento "tipicamente inglese" di sviluppo pacifico, di compromesso, di rispetto per l’aristocrazia e la monarchia, per la democrazia e l’accordo nazionale. I burocrati sindacali erano divenuti i migliori difensori della borghesia, vedevano il futuro inseparabile da quello del capitalismo e si rendevano conto che l’abolizione della schiavitù salariata avrebbe significato anche la scomparsa dei loro strati privilegiati.

Fin dagli anni ’80 dell’Ottocento molti capi sindacali sono divenuti parte integrante di uffici e commissioni governative, le loro opinioni richieste, invitati alle cerimonie a corte; un segretario generale di un sindacato arrivò ad ottenere un posto governativo di quello che sarebbe poi divenuto il Ministero del Lavoro.

A partire dal 1895 i capi sindacali, sopratutto quelli che contavano nel T.U.C., avevano un tale controllo dei sindacati da poter escludere dalle sue riunioni qualsiasi rappresentante sindacale locale, così evitando ogni influenza della massa degli iscritti sullo svolgersi della politica del sindacato. Già allora i dirigenti del T.U.C. non sono altro che una massa di funzionari pagati come agenti della borghesia.
 
 

49. Marx e il cooperativismo
 

Aziende il cui scopo è il profitto hanno un nome: capitalistiche! non diverse da qualsiasi banca o impresa commerciale o industriale. La cooperazione post-capitalista per Jones, allora marxista, avrebbe dovuto significare l’abolizione del profitto e del lavoro salariato, sostituto del lavoro emancipato e associato. Qui si intravvedono i fondamenti delle critica marxista del capitalismo mentre già si accennava alla necessità del potere politico del proletariato.

     «Ho tentato di dimostrare che rimane nei poteri della classe dei grandi ricchi la facoltà di impedire o di distruggere il movimento associativo in qualsiasi momento – a meno che la cooperazione non sia sostenuta dal potere politico».
Il comunismo si distingue ormai dal cooperativismo e sui fini e sui mezzi, in una opposizione ormai di classe e di interessi di classe.

Jones, in polemica con un certo Neale, continua approfondendo sui concetti di valore e di profitto, certamente frutto di dense conversazioni nella modesta stanza di soggiorno di Marx. I cooperatori non potevano accettare che il valore fosse prodotto del lavoro, per la condanna del profitto che implicava, e sul quale fondavano la loro esistenza. Neale rispose che mentre lui era per la vera carità cristiana e per affasciare insieme classi fino a quel momento contrapposte, Jones stava proponendo la lotta di classe ”come una azione dei poveri contro i ricchi”, il che “ha un nome ben noto, Comunismo”; un comunismo che vorrebbe sopprimere concorrenza e valore. Seguì la replica finale di Jones:

     «Riguardo al Comunismo il Signor Neale ci dice che è giusto in teoria, ma che è errato prendere quelle misure pratiche atte a trasformare quella teoria in pratica: una cosa giusta in principio ma sbagliata nella pratica!
     «Il Signor Neale non controbattere la mia affermazione, secondo la quale la Cooperazione, in mancanza di sostegno del potere legislativo, sarebbe alla merce dei ricchi, ma ci assicura che dalla pietà e gentilezza dei ricchi è stata stesa una mano caritatevole verso la cooperazione operaia ed ha ben pochi dubbi che ciò non debba continuare (...) E osate ancora dirci che l’agitazione politica non c’entra? Osate consigliarci, come fanno Whigs e Tories, di non confonderci con la politica? (...)
     «L’attuale movimento cooperativo (perfettamente antisociale in tutte le sue tendenze) è reazionario al massimo grado. Non si tratta di altro che di un tentativo di un gruppo di aristocrazia operaia di salire sul palco della borghesia, inizialmente seguito da alcuni dei più poveri, sulle cui spalle questi signori sperano di issarsi, per poi prenderli a calci».
Per il movimento proletario, in via di riorganizzazione nella riformata National Chartist Association, la critica dei nemici del momento era una necessità e non si poteva evitare di affrontare il movimento cooperativo. Chi aveva abbandonato il socialismo in direzione riformista, tra cui Julian Harney, gravitava intorno al cooperativismo e lo difendeva. Lo stesso Jones defezionò dal movimento rivoluzionario per un’alleanza con la borghesia industriale e nel 1855 fece marcia indietro proprio a riguardo del movimento cooperativo. Saranno poi i fabiani a dichiarare quel movimento socialista, con grande sorpresa dei cooperatori stessi, e anche di tutti gli altri.

In questa situazione Marx, nel delineare la strategia della Prima Internazionale nelle sue “Istruzioni per i delegati del consiglio centrale provvisorio“ al Congresso di Ginevra del 1866, scrisse quanto segue nel punto sul lavoro cooperativo:

     «È compito dell’Associazione Internazionale degli Operai di unificare e generalizzare i movimenti spontanei delle classi lavoratrici, ma non di imporre loro un qualsivoglia sistema dottrinario. Di conseguenza il Congresso non deve proclamare un sistema speciale di cooperazione, ma deve limitarsi a enunciare alcuni principi generali.
     «A) Riconosciamo il movimento cooperativo come una delle forze trasformatrici della società presente, basata sull’antagonismo delle classi. Il suo grande merito è mostrare praticamente che il sistema attuale di subordinazione del lavoro al capitale, dispotico e pauperizzante, può venir soppiantato dal sistema repubblicano e benefico dell’associazione di produttori liberi ed eguali.
     «B) Ma il sistema cooperativo limitato alle forme microscopiche che i singoli schiavi salariati riescono a produrre grazie ai loro sforzi personali, non riuscirà mai a trasformare la società capitalistica. Per convertire la produzione sociale in un largo e armonioso sistema di libero lavoro cooperativo sono indispensabili cambiamenti sociali generali, trasformazioni delle condizioni generali della società, realizzabili soltanto con il passaggio delle forze organizzate della società, cioè del potere governativo, dalle mani dei capitalisti e dei proprietari a quelle dei produttori.
     «C) Raccomandiamo agli operai di interessarsi della cooperazione di produzione piuttosto che di quella di consumo: infatti, la seconda tocca soltanto la superficie del sistema economico attuale, l’altra lo attacca nella sua base.
     «D) Raccomandiamo a tutte le società cooperative di consacrare una parte dei loro fondi alla propaganda dei principi con la parola e con l’azione, di prendere l’iniziativa per la costituzione di nuove associazioni cooperative di produzione e di diffondere il loro insegnamento.
     «E) Allo scopo di impedire alle società cooperative di degenerare nelle solite società per azioni borghesi, ogni operaio occupato, azionista o meno, dovrà partecipare ai guadagni in maniera uguale agli altri. Come compromesso meramente temporaneo, acconsentiamo ad ammettere interessi minimi per gli associati» (M-E, Opere, XX, 194-195; correggiamo la pessima traduzione degli impiegati del PCI tale in qualche punto da stravolgere il significato del testo).
Ma le iniziative sostenute dalla Prima Internazionale ricevettero un sostegno assai scarso da parte del movimento cooperativo, in genere ostile nei confronti di qualsiasi soluzione politica dei problemi della società.

Successivamente il movimento cooperativo arrivò a darsi proprie istituzioni politiche e poi un suo partito. Questo movimento era così conservatore che ancora nel 1905 il Congresso delle Cooperative rifiutò una proposta di affiliazione perfino al Partito Laburista.

Il movimento cooperativo borghese alle origini idealmente si era fondato sul socialismo cristiano, fondato nel 1848 allo scopo di contrastare la tendenza all’ateismo manifestatasi sia all’interno del movimento cartista in Inghilterra sia tra i socialisti rivoluzionari in Francia. Esperimenti di cogestione, nei quali padroni e sindacati si univano in una forma di società per azioni, furono poi tentati a partire dagli anni ’60. Un esempio che sembrava particolarmente ben riuscito fu quello di una società tra il proprietario di una miniera dello Yorkshire, di nome Briggs, ed i sindacati; il sodalizio però ebbe termine in seguito ad uno sciopero, nel 1875: agli scioperanti fu infatti chiesto di scegliere tra la società ed i sindacati, e questi si schierarono compatti col sindacato.

Ma pilastro più solido del movimento cooperativo borghese fu lo Stato, non ancora nel senso di sostegno finanziario ma con modifiche nella legislazione per consentire a questa forma di impresa di muoversi nella piena legalità. Il primo di questi interventi si ebbe nel 1852 quando fu approvata la legge sulle Industrial and Provident Societies la quale, e con i successivi emendamenti, permetteva alle cooperative di divenire enti pienamente legali: potevano avere più di 25 soci, possedere quote azionarie di altre cooperative, perseguire legalmente i soci che scappavano con la cassa, ecc. Nel 1862, mentre tutta la forza della legge ancora si spiegava contro i sindacati, un’altra legge veniva a permetteva alle cooperative di federarsi. Questo provvedimento consentì il decollo del commercio all’ingrosso delle cooperative, che ora potevano fare acquisti di grande portata ed aumentare in proporzione i profitti.

I cooperatori commerciavano tutti i tipi di prodotti ed erano ormai divenuti anche “datori” di lavoro salariato. Beatrice Potter, nel suo insipido libricino sul movimento cooperativo, che definisce addirittura “uno Stato nello Stato”, riporta come ai dipendenti fosse interdetto l’accesso alle posizioni dirigenziali. Nel 1891 le condizioni di lavoro dei dipendenti delle cooperative erano talmente dure da spingerli a costruire dei propri sindacati per combattere i loro "soci" padroni.

La corsa al profitto in cui si erano gettati i cooperatori li portò in tutte le attività tipiche degli affaristi borghesi: compravendite di fabbriche, navi, miniere, ecc. Queste attività non si fermavano certo ai confini della madrepatria e non esitarono ad investire nei più vari e remoti angoli dell’Impero. Fattorie e latterie in Irlanda, stabilimenti commerciali in Nigeria e Sud Africa, piantagioni di tè in India e a Ceylon erano solo alcuni dei numerosi investimenti di queste società, che mostravano di quanto “internazionalismo“ erano capaci, naturalmente sotto la protezione delle truppe di Sua Maestà. Nel 1914 conteranno quasi 150.000 dipendenti salariati. Quando Miss Potter arrivò ad affermare con trasporto che l’intero affare era nientemeno che socialista, a sorprendersi furono per primi i cooperatori stessi.
 
 

50. Hyndman il Lassalle inglese
 

Gli storici tendono ad iniziare la storia del British Socialist Movement con la conversione di Henry Mayers Hyndman al socialismo. Agente di cambio, ricco e conservatore, è ritratto come "fondatore" del BSM perché ribadisce il mito che la classe operaia, specialmente inglese, sarebbe incapace di esprimere alcunché con le proprie forze.

Anche la stragrande maggioranza degli storici staliniani concorda che il moderno movimento socialista in Gran Bretagna comincia con Henry Mayers Hyndman e la sua Democratic Federation. E il Communist Party of Great Britain, di breve vita, rivendicava le sue radici direttamente in questo periodo.

Permane il mito di un "marxismo nazionale" separato, associato ad Hyndman, e sul quale si sarebbe costituita la SDF e il BSP. Tali partiti non hanno percorso una loro strada parallela fino alle posizioni del comunismo rivoluzionario, ma sono arrivati a falsificare il marxismo dopo una lunga marcia attraverso tutte le sbilenche e reazionarie ideologie del politicantume inglese. La tradizione di Hyndman non è di certo una variante nazionale del marxismo ma un tentativo di rapinare alcune delle sue idee per distorcerle nell’interesse della borghesia. Hyndman fu combattuto da Marx e da Engels per il danno che stava facendo nell’ostacolare lo sviluppo di un movimento rivoluzionario in Gran Bretagna.

Hyndman fu il Lassalle inglese. Non vi troviamo una forma autoctona di marxismo ma uno sviluppo inglese del lassallismo. Marx ed Engels, che avevano tanto combattuto il lassallismo in Germania ben difficilmente lo avrebbero abbracciato in Gran Bretagna.

Come Lassalle teorizzava un’alleanza con Bismarck contro i liberali tedeschi, Hyndman tentò un’alleanza con Disraeli contro i liberali inglesi. La morte di Disraeli dopo poche settimane impedì il nuovo blocco diretto dal partito conservatore che avrebbe salvato il paese da tutti i malanni. Questo insuccesso ad attrarre un capo Tory nel suo progetto non impedì ad Hyndman di lanciare una campagna stampa per avvertire le classi dominanti dei pericoli della rivoluzione dei lavoratori, senza speranza se non si fosse aperta loro la via costituzionale.

Il nuovo partito di Hyndman avrebbe voluto raccogliere i liberali scontenti; reclutò numerosi club radicali, ed idee radicali si sarebbero espresse nel nuovo organismo. Ma non tollererà alcuna slealtà nei confronti della Corona. Avrebbe concesso qualche autonomia federale alle colonie ma sovrano sarebbe stato un "Parlamento Imperiale".

Alla fine la Democratic Federation fu fondata su questo accordo di base:

     «Obiettivo: unire la varie organizzazioni di democratici e di lavoratori in Gran Bretagna ed Irlanda allo scopo di assicurare uguali diritti per tutti e di formare un centro di organizzazione in occasione di particolari agitazioni politiche. Aiutare tutti i movimenti sociali e politici nella direzione di queste riforme. Programma: 1. Suffragio per gli adulti. 2. Parlamenti triennali. 3. Distretti elettorali egualitari. 4. Pagamento dei deputati. 5. Corruzione, minacce e pratiche compromissorie da punire come fellonia. 6. Abolizione della Camera dei Lord come corpo legislativo. 7. Legislazione indipendente per l’Irlanda. 8. Parlamenti nazionali e federali. 9. Nazionalizzazione della terra».
I primi quattro punti (con la modifica dei parlamenti triennali) era ciò che rimaneva delle famose richieste della Carta, che non erano state soddisfatte: punti sui quali la borghesia stava già per arrivare per proprio conto, nei suoi tempi e per i suoi scopi.

Lassalle avrebbe voluto adottare le richieste della Carta per la Germania ma Marx puntava invece ad un movimento pienamente socialista.

Una cosa era avanzare la prima volta la Carta negli anni 1830 e 1840, quando la porta era saldamente chiusa in faccia alla classe operaia, erano allora richieste rivoluzionarie. Diverso è quando la porta è pronta ad aprirsi colla maniglia del riformismo. La differenza è essenziale.

Molto tempo era passato, la classe aveva costruito le sue organizzazioni economiche, molti al suo interno erano stati corrotti, ma era in piedi un esteso sistema di organizzazioni proletarie. Anche era stata vissuta l’esperienza della Prima Internazionale. Non si trattò quindi di tornare alle origini ma di un tentativo di incatenare la classe operaia al riformismo borghese.
 
 

51. Infine: i Fabiani
 

I fabiani, gruppo di giovani intellettuali, si impegnò nella ricerca, all’interno della società borghese, di un qualcosa capace di "migliorarla", ma senza la sgradevole lotta di classe, la violenza né alcunché minimamente turbasse l’ordine prestabilito. Vennero così alla ribalta un numero di istituzioni sociali fino allora trascurate: oltre al movimento cooperativo, perché no il Consiglio Regionale di Londra? perché non dire "socialisti" i Consigli Comunali (lo chiamarono "Socialismo Municipale"), i Boards of Guardians, enti che amministravano l’assistenza ai poveri, e altri organismi del genere. Ora sì che si aveva socialismo a perdita d’occhio!

I fabiani nell’Inghilterra tardo-vittoriana stabilirono record insuperati (allora!) di melensaggine e spudoratezza: nessuno ancora aveva avuto il coraggio di spacciare simili istituti borghesi per socialismo. Questo falso socialismo si diffuse, pezzo dopo pezzo, in altri paesi; lo stesso revisionismo che sorse all’interno del Partito Socialdemocratico tedesco ricevette uno stimolo determinante dall’influenza dei fabiani su Bernstein, che ne riprese in pieno anche il concetto di gradualismo nel passaggio da capitalismo a socialismo. Il contagio a tutta la Seconda Internazionale fu solo una questione di tempo. Taciamo sull’oggi.

Il rifiuto della lotta rivoluzionaria di classe per porre termine alla società di classe si basava sul sofisma: se lo stesso sviluppo tecnico e sociale del capitalismo, sebbene con lo sfruttamento del lavoro salariato, crea le basi del socialismo, perché dunque gli operai, o, come preferiscono, il popolo in genere, devono combatterlo, quando quello si trova già di per sé in un processo di trasformazione verso una forma sociale migliore? I sedicenti partiti “comunisti“ e “socialisti” di oggi di simile impotente "progressismo" sono i continuatori e i peggioratori.

Noi marxisti facile rispondemmo che finché la borghesia disporrà del potere statale quello sviluppo andrà a vantaggio della borghesia e non del socialismo. Questi errori hanno fatto presa sulla classe operaia di Occidente da allora e per più di un secolo perché il capitalismo è riuscito a corromperne larghi strati con le briciole del saccheggio imperialista. Ne spieghiamo e non ne sottovalutiamo quindi la presa e l’effetto disorientante sul movimento operaio di ieri e di oggi.
 
 

52. Ricapitolando fino a qui
 

L’Inghilterra era riuscita a svilupparsi con grande anticipo rispetto al resto dell’Europa soprattutto grazie alla vittoriosa rivoluzione borghese condotta verso la metà del secolo XVII; il capitale mercantile, alleato della proprietà terriera ormai completamente borghese, aveva così raggiunto un traguardo storico che la successiva restaurazione della monarchia non riuscì ad intaccare. Al contrario, gli eventi dimostrarono che da allora in poi l’istituzione monarchica rimase una forma della quale la borghesia disponeva a suo piacere.

Uno Stato pienamente borghese si impiantò su di una struttura che si era costantemente trasformata fin dai tempi feudali, vantando così una apparente continuità, sconosciuta al resto di Europa. Il consolidarsi del potere del capitale mercantile permise l’ambiente economico per la rivoluzione industriale e l’emergere della moderna borghesia industriale. La più rivoluzionaria delle trasformazioni tendeva ad assumere una forma stabile e conservatrice.

La borghesia inglese adempì al suo compito rivoluzionario in patria mentre già si impegnava in funzione di conservazione nel resto di Europa e vi combatteva per la sconfitta dei cambiamenti rivoluzionari. La moderna lotta di classe, fra borghesia e proletariato, si svolgeva nelle forme classiche in Gran Bretagna mentre ancora la borghesia stava lottando per il potere in Europa. In Inghilterra la rivoluzione industriale aveva totalmente spazzato via ogni possibilità di vita indipendente per le masse lavoratrici mentre Proudhon ancora rivendeva le sue soluzioni parziali per trattenere in vita l’industria artigiana.

Nel periodo delle guerre contro la Francia di Napoleone e successivo, l’Inghilterra svolgeva, nei confronti del resto del continente europeo, un ruolo rivoluzionario da un punto di vista economico, e conservatore e controrivoluzionario da un punto di vista politico. Le guerre che gli inglesi mossero alla Francia rivoluzionaria cancellarono lo sviluppo della borghesia in Europa per mezzo secolo, mentre si rafforzava la supremazia manifatturiera e commerciale della Gran Bretagna.

La trasformazione dell’Inghilterra da una società prevalentemente agricola, quale essa era nel 1815, nell’officina industriale del mondo fu un processo per niente indolore e pacifico; fu invece doloroso e violento, spesso sanguinoso. Vi erano più truppe di stanza nell’Inghilterra del Nord, la principale area industriale, di quante ve ne fossero a combattere alla battaglia di Waterloo. La borghesia non poteva trascurare il nemico in casa.

Nel corso delle prime fasi del movimento operaio tutte le azioni appaiono potenzialmente rivoluzionarie, perché erano lotte per l’organizzazione, lotte per l’esistenza. Seguirono le battaglie per le riforme, che spesso erano contro gli interessi della borghesia. È esattamente quando le riforme divengono superate che il riformismo si consegna al conformismo, alla difesa degli interessi borghesi. Questo processo si è verificato in tutti i paesi, pur se in tempi e fasi diverse.

Le rivoluzioni del 1848 furono una reazione alla crisi economica che emanava dall’Inghilterra. Il paradosso è che le rivolte causarono un accresciuto afflusso di capitali e di rifugiati verso l’Inghilterra, mentre la borghesia inglese riusciva ad infliggere una sconfitta schiacciante alla propria classe operaia.

Il movimento cartista sorse e fu sconfitto quando le rivoluzioni borghesi erano ancora sul calendario nel resto di Europa. La Prima Internazionale anche mostrò una differenza fra il continente e le isole inglesi, dove dominavano le Trade Unions, separate dalle organizzazioni socialiste. Però da questo momento, con l’emergere del movimento socialista in Europa – e in particolare con la formazione della Seconda Internazionale – i tempi del movimento cominciarono a collimare.

Ma l’emergere di vivaci economie nazionali in tutto il mondo non poteva essere impedito all’infinito.

Marx così scriveva in "I partiti politici in Inghilterra" pubblicato nella New York Daily Tribune del 28 giugno 1858:

     «L’Inghilterra in questo momento offre un curioso spettacolo di dissoluzione evidente all’apice dello Stato, mentre alla base della società tutto sembra immutabile. Non si percepisce agitazione tra le masse, ma un cambiamento palese sta avvenendo tra coloro che comandano. Dobbiamo credere che gli strati superiori si stanno liquefacendo, mentre quelli più bassi restano della stessa imbelle solidità? (...) Il fatto è che i due partiti oligarchici dominanti d’Inghilterra si trasformarono molto tempo fa in semplici fazioni, senza nessun principio che li distinguesse. Dopo avere invano tentato una coalizione prima, e una dittatura poi, sono arrivati al punto in cui ognuno di loro può pensare di ottenere un po’ di vita solo tradendo i loro interessi comuni per mano del comune nemico, il partito radicale delle classi medie, rappresentato con forza alla Camera dei Comuni da John Bright (...) L’assorbimento della fazione Whig nella fazione Tory, e la loro comune metamorfosi in un partito dell’aristocrazia, opposta al nuovo partito delle classi medie, con i suoi capi, le sue bandiere, le sue parole d’ordine questo è l’avvenire cui stiamo assistendo in Inghilterra».
Le trasformazioni che si verificarono in quel periodo all’interno dei partiti di governo e dei circoli inglesi riuscirono a svolgersi in modo ordinato, soprattutto grazie alla storica sconfitta del movimento cartista nel 1848. Il movimento operaio fu annichilito, e le conseguenze della disfatta perdurarono diversi decenni. Un tentativo di stabilire una continuità di lotta si ebbe sotto la direzione di Ernest Jones (con il diretto coinvolgimento di Marx e Engels), tentativo che ebbe la sua fine nel 1858. La massiccia espansione della produzione industriale, i fantastici profitti che la classe dominante si vedeva arrivare come per magia, le briciole di questi profitti che ogni tanto cadevano in direzione della classe operaia, tutto ciò dava forza e sicurezza alla borghesia tutta.

Il principale antagonismo che si era verificato all’interno delle classi dominanti fin dall’inizio del diciottesimo secolo era stato tra l’aristocrazia (che basava il suo potere sulla produzione e sul commercio di derrate e di prodotti agrari, con un minimo di attività finanziaria) e la nuova classe capitalista manifatturiera. I primi scontri si ebbero sulle questioni della riforma del sistema elettorale e della abolizione delle tutele sull’agricoltura, conosciute come "Corn Laws". Ne uscì infine vittoriosa la borghesia industriale, e con questa vittoria le classi dominanti si arricchirono di una nuova classe, ricca e potente, il cui obiettivo era la trasformazione dello Stato in uno strumento funzionale alla sua strategia, quella del libero scambio. Le istituzioni dello Stato britannico divennero esattamente quello di cui la borghesia industriale aveva bisogno, una monarchia ammodernata, una Chiesa di Stato (insieme alla tolleranza religiosa), attraverso le quali si sarebbe sviluppata la nuova religione, quella del far soldi, mentre il Parlamento diveniva il terreno di scontro di tutti i settori delle classi sfruttatrici.

La lenta, ordinata trasformazione dello Stato borghese fu compiuta attraverso una serie di riforme condotte attraverso lo stesso Parlamento. Così la borghesia riuscì a trasformare il suo Stato senza dover ricorrere a nessuna rivoluzione di tipo continentale. Ogni settore della borghesia era pronto a prendere il suo posto. Snobbati inizialmente come parvenus, i nuovi ricchi, i grassi capitalisti impiegarono solo un paio di generazioni per fondersi completamente con l’aristocrazia in bancarotta, pronta a tapparsi il naso di fronte ai soldi freschi e abbondanti. Così, una volta che la fedeltà e la lealtà della nuova classe allo Stato fu garantita, gli si aprirono le porte del Parlamento, nel quale entrarono con i rappresentanti di parte della classe operaia, la cosiddetta aristocrazia del lavoro. Il vecchio Stato venne in questo modo trasformato in un moderno Stato borghese, uno Stato, cioè, corrispondente a tutti i bisogni della borghesia, pur continuando a mostrarsi esteriormente paludato nel ridicolo degli splendori e della pompa medievale. Può sembrare paradossale, ma per l’Inghilterra ciò ha costituito, ed ancora è, un modo sicuro ed in fondo poco costoso di governare.

Il barcamenarsi tra le esigenze dei diversi settori della classe dominante, commercio, capitale finanziario, industria, spiega un altrimenti indecifrabile e apparentemente contraddittorio comportamento, tenuto dal governo britannico per proteggere tutti i suoi interessi. Occorre tenere a mente che la "perfida di Albione" si fonda su di una solida base economica.

Un esempio è dato dal comportamento nei confronti della Guerra Civile Americana. Settori della classe dominante inglese, e specialmente l’aristocrazia, simpatizzavano per il Sud e tentarono di spingere il governo all’intervento per rompere il blocco navale del Nord. In questo trovarono un forte ostacolo nel comportamento degli operai delle fabbriche del Nord dell’Inghilterra, che sopportarono duri periodi di privazioni, in attesa della caduta degli Stati del Sud, pur di non essere intruppati come forza d’intervento militare. Nel frattempo la borghesia mercantile e industriale (per niente contenta del monopolio della produzione di cotone del Sud) si era sbrigata a piantare cotone un po’ dappertutto nell’Impero, in pratica preparandosi alla sconfitta dei sudisti, che ovviamente auspicava. Importante per la borghesia inglese non era eliminare la schiavitù, ma il prezzo del cotone!

Nel corso della gran parte dell’Ottocento l’Inghilterra mantenne un monopolio mondiale senza precedenti, inizialmente un sostanziale controllo del commercio, poi un quasi monopolio della produzione manifatturiera. Fu questo potere finanziario e industriale a darle una forza inimmaginabile oggi – e anche allora era sorprendente come un’isola al largo dell’Europa potessero influenzare tanto gli eventi del resto del mondo, e controllare un enorme Impero esteso a tutti i continenti. Fu questa forza finanziaria e industriale che a più riprese protesse la società civile dalla ribellione e dalla sovversione, una caratteristica della lotta di classe nelle isole britanniche che si mantenne, in un modo o nell’altro, per tutto il secolo.

Marx ed Engels, attraverso la Prima Internazionale, avevano sperato di cambiare la situazione, in primo luogo cercando di collegare alle lotte di classe del tempo le agitazioni della "Land and Labour League", poi sperando nell’Irlanda, una spada puntata al cuore dell’onnipotenza inglese. Purtroppo entrambe le speranze furono deluse.

Marx più volte analizzò la traiettoria dello sviluppo dell’Inghilterra: la sua comprensione era necessaria per prevederne il declino. In particolare, nello scritto Il Consiglio Generale al Consiglio Federale della Svizzera Francese del 1870, Marx fa alcuni commenti:

     «Anche se l’iniziativa rivoluzionaria probabilmente verrà dalla Francia, solo l’Inghilterra può costituire la leva per una seria rivoluzione economica. È il solo paese nel quale non vi sono più contadini, e la proprietà terriera è concentrata in poche mani. È il solo paese nel quale la forma capitalistica, cioè lavoro associato su larga scala sotto padroni capitalisti, comprende praticamente la totalità della produzione. È il solo paese in cui la grande maggioranza della popolazione consiste di lavoratori salariati. È il solo paese in cui la lotta di classe e l’organizzazione della classe operaia in sindacati ha raggiunto un certo grado di maturità e di universalità. È il solo paese in cui, a causa del suo dominio sul mercato mondiale, ogni rivoluzione in questioni economiche immediatamente ha ripercussioni sul mondo intero. Se la grande proprietà terriera e il capitalismo sono caratteristiche classiche dell’Inghilterra, d’altra parte, le condizioni materiali per la loro distruzione sono qui le più mature. Ora che il Consiglio Generale è nella felice posizione di avere la sua mano direttamente su questa grande leva della rivoluzione proletaria, che follia, potremmo anche dire che crimine, sarebbe lasciare cadere questa leva in mani soltanto inglesi! Gli inglesi hanno tutto il materiale necessario per la rivoluzione sociale. Quel che loro manca è lo spirito di generalizzazione e l’ardore rivoluzionario. Solo il Consiglio Generale è in grado di fornirglieli, accelerando in tal modo il movimento veramente rivoluzionario in questo paese, e di conseguenza ovunque (...) L’Inghilterra non può essere trattata come un paese come tanti altri. Deve essere trattata come la metropoli del capitale».
A quell’epoca l’Inghilterra era l’unico paese nel quale esistevano i requisiti per una rivoluzione. Si potrebbe arrivare a dire che allora, in Inghilterra, vi erano uniche le condizioni per l’esistenza del "socialismo in un solo paese". La sua forza economica, il suo quasi monopolio della produzione industriale la proteggevano da qualsiasi tempesta militare o finanziaria che percorresse il mondo. Certo non era immune dalle crisi, che in effetti si ripresentavano a devastare l’economia nazionale ogni dieci anni; le conseguenze peggiori però le sopportava la classe operaia, aiutata in questo da un abbondante numero di fucili e baionette.

Della questione si sarebbe trattato più tardi all’interno del gruppo dirigente russo del Comintern. In Russia era stato facile iniziare una rivoluzione, ma difficile sarebbe stato concluderla; in Inghilterra sarebbe stato difficile cominciare, ma molto più facile arrivare in fondo. È un problema che ancora attende soluzione. Senza una profonda crisi le prospettive rivoluzionarie non sono favorevoli; il desiderio di superare con la tattica problemi pratici può essere comprensibile, ma il mondo reale richiede qualcosa di più dell’entusiasmo e della volontà.

Le classi dominanti inglesi, con lievi e graduali mutamenti all’interno delle strutture statali e mantenendo la forma parlamentare, hanno evitato l’esplodere di rivoluzioni in patria e sul continente. Modernamente questa apparentemente quieta trasformazione è stata possibile soprattutto grazie alla loro capacità di controllare gli sviluppi del movimento operaio.

Quando compresero che non potevano evitare di convivere con almeno qualche sindacato, poiché tutti i tentativi di bandire permanentemente le organizzazioni economiche operaie erano falliti, decisero che la cosa migliore era cercare di usarle. La gran parte dei dirigenti delle leghe di mestiere (in genere di vecchia data) accettarono di farsi comprare dalla borghesia e presto divennero una forza di conservazione all’interno del movimento operaio. Ma i sindacati continuarono a svolgere il loro ruolo, e ad essere trattati come tali. Furono accettati nella Prima Internazionale, ma non è un caso che non fu mai consentita la creazione di una sezione inglese indipendente dell’Internazionale, per timore che questi burocrati la potessero dominare. Si può ragionevolmente ritenere che il Consiglio Generale della Associazione Internazionale dei Lavoratori fu trasferito a New York per non rischiare, non solo che cadesse nelle mani degli anarchici, ma anche che subisse l’influenza dei dirigenti sindacali inglesi e dei loro ispiratori radicali.

La corruzione politica dei dirigenti operai ebbe luogo attraverso due diversi processi. Il primo consisteva nella loro corruzione diretta affinché sostenessero il Partito Liberale, organizzazione politica della borghesia industriale, i diretti nemici della classe operaia.

L’altro fu una strada indiretta, il tentativo di sostenere il nemico del nemico: alcune sezioni locali di sindacati si guadagnarono la reputazione di conservatori perché i padroni localmente sostenevano il partito liberale. Questo tentativo di favorire lo scontro dell’un partito borghese contro l’altro ebbe come conseguenza finale la trasformazione di ampi strati della classe operaia in pupazzi per giochi parlamentari.

Descrivendo come la borghesia stava rendendo "sicuro" il movimento della classe operaia, Engels così commentava le elezioni del 1874:

     «Tutte le volte che, recentemente, gli operai hanno preso parte alla politica in modo organizzato lo hanno fatto quasi esclusivamente come l’estrema ala sinistra del “grande partito liberale”, ed in questa veste sono stati truffati ad ogni elezione dal grande partito liberale, secondo tutte le regole del gioco. Poi, all’improvviso, arrivò la legge sulla Riforma, che d’un colpo cambiò lo status politico dei lavoratori. In tutte le grandi città adesso costituiscono la maggioranza dei votanti, ed in Inghilterra sia il governo sia i candidati al Parlamento si sono abituati a fare la corte all’elettorato. Presidenti e segretari dei sindacati e delle associazioni politiche operaie, come pure tanti altri noti come rappresentanti dei lavoratori, ritenuti influenti all’interno della loro classe, dalla sera alla mattina sono divenuti persone importanti. Lord, deputati, e altra gentaglia ben nata, fanno a gara nel visitarli e nel discute con loro, preoccupandosi accoratamente dei desideri, dei bisogni della classe operaia. Con essi trattano di argomenti che solo poco tempo prima avrebbero al massimo causato un sorriso sprezzante, ma che più facilmente sarebbero stati condannati come sovversivi; e non disdegnano contribuire a raccolte di fondi per i mutuo soccorso operai» ("Le elezioni inglesi").
Marx ed Engels ben conoscevano la sistematica corruzione del movimento operaio in tutta la Gran Bretagna, il principale ostacolo all’affermarsi di un movimento rivoluzionario tra i lavoratori, tale da consentire loro di prendere il loro posto nel movimento internazionale. Inizialmente si trattava della corruzione dei dirigenti sindacali, che venivano trasformati in appendici del partito liberale. Poi sarebbe stata la volta dello sviluppo di un movimento "socialista" borghese. Fu creato un falso movimento socialista, in particolare quello di Hyndman, per servire gli interessi della borghesia.

Engels, dopo la morte di Marx, continuò a lavorare per l’aggregazione di un genuino movimento rivoluzionario e internazionalista in Gran Bretagna. Guardando alla situazione mondiale, e alla storia, pensava ai possibili futuri sviluppi: se il monopolio dell’industria era l’origine della forza della borghesia inglese, allora il crollo di questo monopolio poteva essere la premessa per la nascita di un partito comunista in Inghilterra. Questo Engels sottolineava in articoli scritti agli inizi degli anni ’80:

     «Ecco il punto vulnerabile, il tallone di Achille, per la produzione capitalistica. La sua base è la necessità di una costante espansione, e questa costante espansione adesso sta diventando impossibile; finisce in un vicolo cieco. Ogni anno l’Inghilterra deve affrontare faccia a faccia la questione: o va in pezzi il paese o la produzione capitalista. Quale dei due? E la classe operaia? Se anche nel corso di una espansione commerciale e industriale senza precedenti, dal 1848 al 1868, hanno dovuto vivere in tanta miseria, se anche allora la maggioranza di loro ha vissuto al massimo un temporaneo miglioramento delle condizioni di vita, mentre solo una minoranza piccola, privilegiata, “protetta”, era beneficiata in modo permanente, che succederà quando questo effervescente periodo avrà il suo termine? Che sarà di loro quando l’attuale stagnazione produttiva non solo si intensificherà, ma diverrà la condizione permanente e normale del commercio inglese?
     «La verità è questa: durante il periodo del monopolio industriale dell’Inghilterra la classe operaia inglese ha partecipato, entro certi limiti, ai benefici del monopolio. Questi benefici erano tra loro spartiti in maniera assai diseguale: la minoranza privilegiata ottenne molto di più, ma anche la grande massa riuscì a raccogliere, di tanto in tanto, qualcosa. E questa è la ragione per cui, a partire dall’estinzione dell’owenismo, in Inghilterra non si è avuto più socialismo.
     «Con la distruzione di quel monopolio la classe operaia inglese perderà questa condizione di privilegio; essa si troverà più o meno – e non farà eccezione la minoranza dirigente e privilegiata – sui livelli degli operai degli altri paesi. Questa è anche la ragione per cui il Socialismo tornerà ad esistere in Inghilterra» (L’Inghilterra nel 1845 e nel 1885).
[ Vedi anche, in Comunismo n. 36, Schema per una storia dei sindacati in Gran Bretagna ]