Partito Comunista Internazionale

ALGERIA, IERI ED OGGI
Apparso su Il Partito Comunista n. 283-286, 288-291, 293-301, 304, 305, 307, 309, 311



 
 
 
 
 
 
 
 

Premessa
I.
GEOGRAFIA E STORIA
1. Una peculiare morfologia del suolo
2. La questione berbera
3. Come la geografia determina la storia
4. Storia del Maghreb
5. La dominazione turca (1561-1830)
6. La colonizzazione francese (1830-1962)
7. Fasi successive della colonizzazione
8. Distruzione della proprietà indivisa delle tribù
II.
IMPIANTO MARXISTA E TESI DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA SULLA QUESTIONE NAZIONALE E COLONIALE
1. La dissoluzione del Comunismo primitivo
2. Precondizioni storiche della situazione algerina
3. La prognosi di Engels
4. Da Engels all’Internazionale comunista
5. Basi economiche della rivoluzione algerina
III.
L’INSURREZIONE ALGERINA, RIVOLUZIONE TRADITA DEL PROLETARIATO AGRICOLO E DEI FELLAH (1954-1962)
1. Storia moderna del proletariato algerino
2. Dal Fronte popolare alla guerra antifascista
3. L’Algeria e la Seconda Guerra mondiale
4. "Liberazione" e massacro
5. L’insurrezione (1954-1962)
6. Fronte "pigliatutto"
7. La battaglia di Algeri
8. L’uomo della Provvidenza
9. Gli interessi in gioco
10. Il tradimento: gli accordi di Evian
IV.
BILANCI E PROSPETTIVE MARXISTE DELL’INSURREZIONE ALGERINA
1. La mancata prospettiva rivoluzionaria
2. Il proletariato e la borghesia imperialista
3. Il proletariato e il movimento nazional-rivoluzionario
4. Riassumendo
5. L’economia urbana
6. I compiti della rivoluzione algerina
7. Gli accordi di Evian o della collaborazione dell’FLN con la borghesia francese
8. Una prima conclusione
8.1. Il passato
8.2. Il presente
8.3. L’avvenire
V.
LO STALINISMO ALL’ALGERINA O DELLA DITTATURA ANTI-PROLETARIA (1962-1978)
1. 1962-1965: Il regno Boumédiène-Ben Bella
1.1. La riforma agraria
1.2. L’industrializzazione
1.3. Governo a partito unico
1.4. La caduta di Ben Bella
2. 1965-1978:   L’Era Boumediene
2.1. La dittatura militare 
2.2. Capitalismo di Stato ed economia fondata sulla rendita petrolifera
VI.
CAPITALISMO A VISO SCOPERTO
1. Degrado economico e sociale (1978-1988)
2. Ottobre 1988: la ribellione delle masse
3. "Liberalizzazione" politica ed economica
4. Le vittorie elettorali del FIS
5. Ritorno alla dittatura in nome della democrazia
VII.
TERRORISMO CONTRO LE MASSE POVERE
1. La dittatura dei creditori imperialisti e la spirale infernale del debito
2. Il governo militare
3. Terrorismo islamico e terrorismo statale
4. Farsa democratica fra massacri e crisi economica.
CONCLUSIONE

 
 

Premessa

La tragedia che da quasi due secoli va in scena in Algeria ha trovato nell’ultimo decennio del ’900 un nuovo impresario: una guerra civile feroce e interminabile che ha fatto oltre centomila morti. Gli osservatori politici internazionali, e con essi i media di massa, non sono andati oltre la descrizione di una situazione caotica, indecifrabile. All’incertezza se gli assassini provenissero dalla galassia terroristica islamica o fossero un’emanazione di gruppi legati al potere ha fatto sempre riscontro la certezza che le vittime erano invariabilmente proletari.

Chi uccide chi, e perché si uccide? Questa la lancinante domanda che intellettuali di tutte le sponde hanno inutilmente rilanciata a un pubblico ridotto a spettatore passivo e disorientato, per non dire terrorizzato, di fronte allo spettacolo di guerre, massacri e carestie che gli vengono servite all’ora di cena.

Il muro di Berlino è caduto nel 1989, ma il ritmo dei conflitti mondiali, peraltro mai cessati dopo la sedicente vittoria della democrazia nel 1945, non conosce tregue. Il vecchio antagonismo Usa-Urss, ovvero democrazia-stalinismo, ha ormai cessato di essere la foglia di fico che serviva a nascondere la "guerra fredda" contro il proletariato, dopo il tradimento almeno semisecolare dei suoi presunti rappresentanti ufficiali. Nel frattempo, il numero delle "guerre calde" cresce a dismisura. Il mostro capitalista, come ben sanno i comunisti, è in realtà vittima delle sue proprie leggi di sviluppo: la crisi economica mondiale non dà tregua e prepara la resurrezione del suo nemico storico, il proletariato rivoluzionario, anche se questo è oggi ancora sotto il giogo della controrivoluzione. La storia è sempre in movimento – e la nostra Vecchia Talpa ha fiato da vendere.

Disgraziatamente, la borghesia ha oggi in mano l’iniziativa e sferra colpi sempre più tremendi che non solo aggravano le condizioni di vita dei proletari in tutti i paesi del mondo, ma diffondono a macchia d’olio i conflitti politici e militari, mascherando la guerra di classe sotto la forma di scontri etnici, regionali, razziali, religiosi, tribali. L’Algeria è solo un esempio tra molti altri di questo processo di mistificazione della lotta, in cui i contendenti si attaccano dissimulando la loro reale identità.

L’odierna situazione dell’Algeria, a quarant’anni dall’indipendenza, si inscrive a pieno titolo tra le classiche lezioni della controrivoluzione, a conferma delle tesi del marxismo rivoluzionario lungo l’ininterrotto filo rosso che collega Marx-Engels al nostro partito. È tesi di Lenin che i piccoli paesi relativamente poco popolati, che arrivano tardi all’indipendenza nazionale nell’agone capitalista, hanno poche probabilità di sottrarsi al dominio delle grandi centrali imperialiste e raggiungere una reale indipendenza. Con un’aggravante: la classe dominante che si mette alla testa della rivoluzione borghese nei paesi coloniali nasce già reazionaria, prendendo immediatamente coscienza della minaccia mortale che proletariato e contadiname povero rappresentano per la sua sopravvivenza.

In questi paesi, il primo obiettivo del Partito comunista sta nella difesa degli interessi del proletariato; pur partecipando attivamente alla lotta per l’indipendenza nazionale, il proletariato deve preservare sempre la sua autonomia programmatica e organizzativa, come stabilito nelle tesi del III Congresso dell’Internazionale Comunista. Da parte sua, il Partito comunista della metropoli deve aiutare i comunisti del paese coloniale a difendere la propria indipendenza adottando un atteggiamento intransigente verso la borghesia imperialista, denunciando ogni eventuale irresolutezza del movimento rivoluzionario e mirando incessantemente all’unità dei due proletariati.

All’epoca della guerra d’indipendenza algerina il Partito Comunista Francese, all’apice della sua parabola stalinista, insieme alla sbirraglia della CGT , si guardò bene dal seguire questa via, preferendo invece imboccare la strada della difesa interclassista del movimento "democratico" algerino e francese "contro il fascismo". In questo modo venne liquidata la corrente marxista algerina, mentre le masse furono definitivamente tradite con la firma degli accordi di Evian, che sancirono il passaggio delle redini delle manovre antiproletarie dalle mani della borghesia francese in quelle della borghesia algerina.

Ripercorrendo i testi classici marxisti e i numerosi articoli apparsi sulla nostra stampa a partire dagli anni ’50, il lavoro di partito di oggi vuole dimostrare come la nostra previsione del 1962 si sia dolorosamente avverata nell’Algeria "indipendente". Ecco quanto scrivevamo sul nostro Il Programma Comunista (n.9/1962): «Il risultato di una insurrezione abbandonata a se stessa, venduta dalla sinistra democratica legata ai suoi interessi nazional-borghesi, non sostenuta dal proletariato tradito e disorientato, il risultato della lunga lotta eroica del popolo algerino non è se non una rivoluzione borghese abortita, la rivoluzione di una borghesia che ha ottenuto un successo politico ma che è incapace di elevarsi all’altezza dei compiti sociali elementari che le incombono (...) La borghesia algerina, associata o no alla Francia, è incapace di intraprendere questa metamorfosi rivoluzionaria, è inetta a risolvere anche solo in modo borghese la terribile crisi della società algerina; non può dare la terra ai milioni di uomini strappati al loro villaggio, ne può loro fornire neppure un lavoro salariato. In Algeria si vedono spinte all’estremo le contraddizioni che, nell’era dell’imperialismo, ostacolano fin dall’inizio la rivoluzione borghese (...) Non vedete l’atroce miseria che li spingeva atta lotta? Ma questa miseria e sempre lì; la borghesia indigena non potrà rimediarvi e i milioni di uomini sradicati e senza lavoro non si lasceranno nutrire di parole. Essi costituiscono una gigantesca forza esplosiva contro la quale la borghesia algerina affila già le sue forze dell’Ordine. Tremino, essa e tutti i cantori della pace: non vi sarà pace sociale nell’Algeria indipendente!». La seconda parte della previsione prosegue nell’invarianza marxista: «Il solo vantaggio dell’ "indipendenza" è di togliere un’ipoteca. Sebbene sempre legata alla Francia in virtù degli accordi di Evian, la borghesia algerina non potrà più contrapporre alle rivendicazioni sociali la "premessa necessaria" dell’indipendenza nazionale, e i problemi si porranno sul loro vero terreno: il terreno di classe. Spinti alla lotta dalla disperazione, le masse algerine presto o tardi infrangeranno l’Unione nazionale e daranno fuoco alle polveri della lotta di classe in tutta l’Africa. Il proletariato africano potrà allora trovare la sua saldatura con il proletariato internazionale e, per suo mezzo, la soluzione di tutti i problemi dei paesi del Terzo Mondo. Perché nessuna dominazione borghese, qualunque sia il colore della sita pelle, potrà mettere fine alla crisi sociale in cui li ha precipitati l’irruzione del capitalismo. Solo la dittatura internazionale del proletariato, liberata dalle contraddizioni e dagli imperativi dell’economia capitalistica, vi riuscirà!».

Questo il nostro partito proclamava nel lontano 1962 e noi, comunisti internazionalisti, vigorosamente lo ribadiamo oggi di fronte ai massacri perpetrati contro le masse algerine dal terrorismo borghese.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

I.

GEOGRAFIA E STORIA

1. Una peculiare morfologia del suolo

L’Algeria, Sahara compreso, copre una superficie di 2.381.741 kmq, all’incirca otto Italie, con una popolazione che si aggira intorno ai 29 milioni di abitanti. Ma la parte abitabile, corrispondente grosso modo alla fascia costiera, ha una superficie di appena 210.000 kmq e la sua lunghezza non supera la distanza che separa Torino da Venezia. Del resto, in tutto il Nordafrica la parte abitabile si riduce alla sottile striscia di terra racchiusa tra il Mediterraneo e il deserto del Sahara, il mare di sabbia che in arabo prende il nome di Djezirat El Maghreb: isola del sole che tramonta, ossia isola dell’Occidente. Dal Marocco fino alla Tunisia, la zona costiera è percorsa dall’Atlante Telliano settentrionale e dall’Atlante Sahariano meridionale, due catene montuose che, collegate dal Medio Atlante marocchino, prendono la forma di una A rovesciata con la base a Tangeri e Agadir e il vertice a Tunisi. L’Atlante Telliano cade a picco sul mare, senza golfi profondi né porti naturali né fiumi navigabili che offrano accesso verso l’interno: una costa inospitale, se si eccettuano tre brandelli di pianura a Orano, Algeri e Annaba.

Per la natura delle sue coste, l’Algeria non è mai stata un paese di pescatori, ma piuttosto di coltivatori e di nomadi. Tra le due catene si estende la grande depressione del Tell, corrispondente a quella fascia utile larga 80-120 km e lunga oltre mille che, da ovest a est, comprende gli altipiani calcarei di Tlemcen, Saida, la regione dell’Ouarnese e gli altipiani costantinesi, terre di pascoli e di colture cerealicole. Gli altipiani algerini, estesi per 150 mila kmq (il 6,7% della superficie totale del paese), sono costituiti da due insiemi ineguali: a ovest gli altipiani costantinesi (42.000 kmq) che ospitano circa il 12,5% della popolazione algerina, a est i semi-aridi altipiani algero-oranesi, adatti all’allevamento del montone alfatier. Ai piedi dell’Atlante Sahariano, che fiancheggia il versante meridionale di questo corridoio, si trova la regione pedemontana sahariana e il deserto vero e proprio, dominato a Sud-Est dal massiccio vulcanico dell’Ahaggar, la cui cima più elevata tocca i 2.918 metri. Sulla fascia costiera le precipitazioni raggiungono i 1.000 mm annui con punte fino a 1.500 mm, corrispondenti grosso modo alla media europea, mentre sugli altipiani interni, con l’Atlante Telliano che blocca i venti umidi del Nord-Ovest, la pioggia raramente supera i 500 mm annui, che sono però più che sufficienti per le coltivazioni di grano, orzo, artemisia e alfa (una graminacea le cui fibre vengono usate per la confezione di panieri, utensili, carta, ecc.). Ma il clima del Nord Africa è capriccioso e le piogge non sono ripartite in maniera omogenea: con l’eccezione del nord, l’Algeria è complessivamente un paese a clima secco. Nel sud l’Atlante Sahariano fa da scudo all’immenso Grand Erg occidentale e al Sahara desertico, mentre violente piogge non risparmiano la catena dell’Ahaggar. Anche sulla costa, a periodi di siccità seguono piogge torrenziali che provocano smottamenti e alluvioni. Numerose dighe sono state costruite a sbarramento delle valli dell’Atlante Telliano. L’agricoltura non potrebbe sopravvivere senza grandi opere idrauliche per la regolazione delle acque e senza un costante lavoro di drenaggio. Per questa ragione Marx includeva l’Algeria nella vasta area orientale che dall’Africa si estende fino alle steppe dell’Asia centrale.

L’Algeria è terra di invasioni e di transito, ma a causa della sua conformazione fisica che ne rende difficile l’attraversamento nella direzione est-ovest, gli invasori sono arrivati sempre dal mare, specie da dove l’accesso è più agevole, dalle due estremità dell’Atlante, attraverso il Marocco e soprattutto dalla Tunisia. Fu così per i Fenici, fondatori di Cartagine (Tunisi), fu così per i Romani, che prima di volgersi ad ovest occuparono la parte orientale del Maghreb, e fu così infine per i Francesi. Unica eccezione gli Arabi, che nel VI secolo invasero il Nordafrica dall’interno.

Oltre 24 milioni di algerini, pari all’84% della popolazione, si affollano nel nord del paese, nella stretta fascia costiera che accentra la parte essenziale delle infrastrutture industriali, mentre il Sahara, pur occupando i 4/5 del territorio (2 milioni di kmq), è popolato da meno di 3 milioni di persone. La conurbazione nella baia di Algeri e nella piana della Mitidja è inarrestabile. La popolazione del governatorato della Grande Algeri, che dal 1987 gode di uno statuto speciale rispetto alle altre 48 wilaya (dipartimenti), in vent’anni è passata da novecentomila a due milioni e mezzo di abitanti (dati del 1998). La capitale costituisce un polo d’attrazione per decine di migliaia di contadini in fuga dalle campagne, con le conseguenze che si possono immaginare: la città è assediata da baraccopoli cronicamente prive di acqua potabile, di trasporti, di scuole, di ospedali.

La Mitidja è una vasta piana sub-litoranea larga dieci chilometri  e lunga cento, stretta fra le colline del Sahel di Algeri e l’alta catena del Tell di Blida, che a sud forma una vera e propria barriera naturale, innevata una parte dell’anno e tagliata soltanto da profonde gole. La piana è coltivata prevalentemente a vigneti e agrumeti, colture ad alta redditività finite ben presto nelle grinfie dei coloni. Dopo l’indipendenza, le 1660 fattorie coloniali presenti nella regione e l’80% delle terre furono accorpate in 175 grandi aziende cooperative "autogestite", che a partire dal 1985 sono state a loro volta frantumate in una miriade di piccole aziende collettive la cui privatizzazione ha fatto la fortuna della speculazione immobiliare cittadina. Lo sviluppo della Mitidja è del resto legato a filo doppio con quello della capitale: ad una zona occidentale tipicamente rurale si contrappone una regione centrale costituita da agglomerati urbani (Blida, Boufarik, Sidi Moussa) e campagne poverissime, mentre verso oriente il grande arco industriale compreso tra Baraki e Ruiba-Reghaia confina direttamente con l’agglomerato di Algeri. All’inizio degli anni ’90 in questo distretto si concentrava il 40% dell’occupazione industriale e ancora oggi, nonostante la recente de-industrializzazione, esso resta il principale centro industriale del paese. Il reticolo urbano, costituito da una ventina di agglomerati, è dominato da Algeri, ma un ruolo non secondario lo svolge la città storica di Blida, che è un importante centro industriale, amministrativo e universitario. Con i suoi 970mila abitanti (censimento del 1987) la piana della Mitidja conta il tasso di urbanizzazione più elevato tra i distretti algerini, con una densità di 720 abitanti per kmq – erano 285 nel 1966 – anche se il suo dinamismo economico e demografico, già messo a dura prova dalla crisi economica generale, è stato ulteriormente compromesso dal terrorismo che qui ha colpito in modo particolarmente virulento e diffuso spingendo all’esodo ampi strati della popolazione.

Nel periodo coloniale lo sviluppo economico e demografico interessò soprattutto il litorale, dove sorsero i primi insediamenti stranieri che diedero impulso alle città portuali – Algeri, Orano, Annaba – mentre città storiche musulmane come Costantina e Tlemcen andarono progressivamente incontro alla decadenza. In compenso una fitta rete di nuovi centri urbani – Sidi Bel Abbes, Setif, Batna – è sorta nell’interno, secondo le esigenze dell’economia coloniale. L’esodo rurale iniziato sotto la colonizzazione francese è stato ulteriormente accelerato dall’industrializzazione "selvaggia" post-1962. Nell’antichità i massicci dell’Aurés erano prosperi e abitati dai berberi chauia dediti alla pastorizia. Oggi la superficie del paese è invasa per due terzi da dune, steppe e massicci desertici. Le fertili terre dell’Oranese assurgono a simbolo di una agricoltura in abbandono. Nella valle dello Cheliff, tra la catena del Dhara e il massiccio dell’Ouarsenis, le colture agricole si susseguivano per centinaia di chilometri: la regione era in mano ai pied-noirs di origine spagnola – il termine pied-noirs che negli anni ’20 designava gli arabi d’Algeria sarebbe passato negli anni ’60 a indicare i francesi d’Algeria. Dopo l’indipendenza i grandi possedimenti nazionalizzati furono rimodellati sull’esempio delle aziende sovietiche sacrificate sull’altare della monocultura. Oggi le campagne sono in abbandono e lo Stato cerca di disfarsene. Pur non avendo l’Algeria un catasto degno di questo nome né una vera e propria istituzione notarile, il mercato immobiliare e fondiario è fiorente grazie ai traffici favoriti dalla guerra. Basta che un massacro colpisca un villaggio per far crollare i prezzi della terra, mentre nelle zone "normalizzate" i prezzi lievitano. Una "carta bollata", ovvero un semplice modulo municipale firmato dalle parti, naturalmente con i dovuti timbri, è più che sufficiente per le transazioni. Ma i contenziosi sono all’ordine del giorno perché la maggioranza della popolazione non sempre possiede il titolo di proprietà dell’atavico pezzo di terra e per evitare la vendita "selvaggia" è costretta a ricorrere alla legge.
 
 

2. La questione berbera

Una caratteristica tipica dell’Algeria è l’insediamento, a fianco della predominante popolazione arabofona, di popolazioni di ceppo berberofono, la cui contrapposizione, cinicamente alimentata dalla classe dominante, è uno dei tanti ostacoli alla ripresa della lotta di classe.

Il termine "berbero" è preso dalla lingua araba, che a sua volta l’ha derivato dal latino "barbaro", termine con cui gli invasori romani chiamavano gli autoctoni. Di fatto, non esiste una vera e propria razza berbera, ma piuttosto un miscuglio di tipi etnici. La tradizione araba identifica i berberi con l’insieme delle tribù che abitavano il Maghreb al tempo delle invasioni fenicia, romana, araba ecc. L’arabizzazione si è imposta gradualmente a partire dal XII secolo, dopo il trionfo definitivo dell’Islam. Ma molte di queste tribù, in special modo quelle abitanti le regioni montagnose dell’Aurès, della grande Cabilia, del Rif e dell’Atlante, benché musulmane e più volte reislamizzate dai marabuti, hanno continuato a conservare le loro lingue e i loro costumi non coranici. Il diritto berbero si basa sul giuramento collettivo quale mezzo di prova e prevede un codice di tariffe di penalità. La giustizia viene esercitata da giudici arbitri o da assemblee di villaggio. Tuttavia costume berbero e diritto coranico non sono mai entrati in conflitto perché, di fatto, arabi e berberi hanno tradizioni comuni (organizzazione sociale basata sui legami di sangue, pratiche di corvées collettive, granai comunitari, culto dei santi). La lingua berbera non è una lingua scritta e si apparenta all’egiziano antico, al cuscitico e al semitico: corrisponde a una miriade di parlate locali – da 4 a 5 mila. Contrariamente all’arabo che si irradia a partire dalle città, la lingua berbera prevale nelle zone montane. L’arabo classico o letterario, quello del Corano, viene parlato in Egitto e in Siria ma non in Algeria, anche se dal luglio 1998 esso è stato reso obbligatorio nell’amministrazione pubblica e nel settore bancario e commerciale, a spese del francese ed evidentemente del berbero. In Algeria, oltre all’arabo non letterario si parla il tamazigh nel nord (Cabilia), il tamacheq al sud e il chaoui nell’est, mentre il francese è usato dai cabili come seconda lingua. Considerato che metà della popolazione di città come Algeri, Costantina, Bejaia, Setif, Annaba è di origine cabila, la lingua più parlata risulta essere proprio il tamazigh.

Attualmente in Nordafrica si contano almeno 12 milioni di persone la cui prima lingua è la berbera, così distribuiti: 7-8 milioni in Marocco (che corrispondono grosso modo al 40% della popolazione se si contano i berberi del Sous, gli allevatori del massiccio centrale e gli abitanti del Rif); 3-4 milioni nel nord dell’Algeria; alcuni villaggi in Tunisia (Djerba), Libia ed Egitto; 750mila tuareg nel Niger e nel Mali. I gruppi berberi maggiori sono costituiti dagli schleuhs, dai tuareg e dai cabili. In Algeria i berberofoni, principalmente cabili, costituiscono il 30-40% della popolazione, ma non bisogna dimenticare che la maggioranza delle persone la cui prima lingua è l’arabo è di origine berbera. La Cabilia corrisponde grosso modo alla wilaya di Tizi Ouzozu (la cosiddetta Grande Cabilia, ad est di Algeri, che comprende le città di Setif, Bejaia e il massiccio del Djurdjura), alla parte settentrionale della wilaya di Setif e a quella nord occidentale della wilaya di Costantina. Il termine "cabilo" è la forma europeizzata di quello arabo "Kbayl" (tribù). Tradizionalmente i cabili non hanno mai avuto un governo centrale perché la geografia della regione richiedeva un’organizzazione in tribù più che in uno Stato unico. La Cabilia è sempre servita da rifugio per le popolazioni delle pianure in fuga di fronte agli invasori, ed ha quindi avuto una estensione variabile nelle diverse epoche, spesso ridotta alle sole montagne inaccessibili. Nell’XI secolo, ad esempio, il dominio cabilo si estendeva da Annaba a Cherchell nel nord e lungo l’Atlante sahariano al sud, mentre nei secoli successivi sotto la pressione degli Arabi provenienti dall’Egitto e delle altre dinastie berbere esso si restringerà sempre di più.

La Cabilia moderna è una regione accidentata percorsa da occidente a oriente da due catene montuose, senza pianure vere e proprie. L’insieme è una massa compatta, una piattaforma alla quale si accede attraverso poche fenditure che ne formano le valli più larghe. Si tratta di una regione agricola povera, ma il suolo è ricco d’acqua e ogni fazzoletto di terra viene coltivato da una numerosa popolazione di agricoltori stanziali. Proprio a causa di questa densità relativa, la Cabilia fin dall’epoca coloniale ha conosciuto una costante emigrazione di lavoratori verso la Mitidja di Algeri. L’economia rurale venne squilibrata dalla vasta confisca di terre attuata dalla colonizzazione francese dopo l’insurrezione del 1871, che privò la Cabilia del suo territorio di pianura, costringendo i cabili ad importare il 90% del loro fabbisogno di orzo, grano e legumi. Un ulteriore spopolamento fu provocato dalla repressione coloniale negli anni dal 1954 al 1962 che spinse oltre un terzo degli uomini in età attiva ad emigrare all’estero. Ancora oggi le rimesse di questi lavoratori costituiscono la maggiore risorsa economica della regione. All’atto dell’indipendenza la Cabilia contava 1.665.000 abitanti, il 77% dei quali berberofoni.

Data la conformazione del suolo i cabili sono per la gran parte coltivatori di olivi, di fichi e di querce da sughero, mentre l’allevamento è limitato a qualche gregge di capre. L’artigianato (tessitura e gioielleria) è pressochè scomparso. Gli abitanti vivono ancora raggruppati in grossi villaggi sui picchi delle montagne o sulla sommità dei mammelloni, concepiti per la difesa. Base dell’organizzazione sociale berbera è la tribù, i cui membri sono uniti da legami di consanguineità e in cui vige l’endogamia. Il douar riunisce la famiglia agnatica, quella costituita dai discendenti di uno stesso capostipite. La tribù forma una entità sociale e politica. I problemi della tribù e della comunità di villaggio (distribuzione dell’acqua, repressione dei delitti, ecc.) sono regolati dal diritto consuetudinario, contrariamente al diritto musulmano che concede lo statuto personale. Per un secolo e più il villaggio ha costituito una unità politica e amministrativa autosufficiente, amministrata da un’assemblea, fino a quando l’organizzazione comunale non ha messo fine a questa "democrazia diretta". Nel 1963 gli ufficiali della terza wilaya (Cabilia) si opposero al governo centrale, ingaggiando feroci scontri armati che fecero centinaia di morti. Questo episodio provocherà una lacerazione all’interno della popolazione cabila accentuando la sua lotta identitaria in contapposizione agli "arabi". Oggi il regionalismo ribelle e aggressivo manifestato dalle popolazioni cabile nei confronti degli arabi costituisce un serio ostacolo alla solidarietà di classe, nonostante il glorioso passato degli emigranti cabili, che a partire dagli anni ’20 del Novecento furono all’avanguardia delle lotte proletarie.
 
 

3. Come la geografia determina la storia

Le strutture sociali e di produzione esistenti in Algeria vanno spiegate situando il paese nella sua area geografica. Inoltre, poiché esse risalgono spesso ad un passato millenario, è perfettamente "attuale" descriverle risalendo nei tempi. Scriveva Engels a Marx il 6 giugno 1853: «L’assenza di proprietà della terra è la chiave di volta per tutto l’Oriente, della sua storia politica e anche religiosa. Per quale motivo gli orientali non sono giunti alla proprietà fondiaria, neanche a quella feudale? Io credo che la ragione risieda soprattutto nel clima, assieme alla natura del suolo, e al fatto che l’irrigazione è la premessa necessaria dell’agricoltura specialmente con le grandi zone desertiche che si estendono dal Sahara attraverso l’Arabia, la Persia, l’India e la Tartaria, fino ai più alti altipiani dell’Asia».

La produzione agricola sfrutta due elementi naturali, la terra e l’acqua. Negli stadi primitivi della produzione, il carattere dell’agricoltura è determinato dal problema: la pioggia cade in quantità sufficiente e al momento voluto? In Oriente è lo sviluppo dell’irrigazione artificiale (lavoro comunitario) che permette di regolare le acque e rende possibile l’agricoltura. Quando l’agricoltura è favorita dalla pioggia essa può utilizzare strumenti di lavoro efficaci per mobilitare le risorse della terra e per i campi di grande estensione richiede gli animali da tiro. Invece, nelle zone irrigue il lavoro può svolgersi con attrezzature relativamente più primitive, ma deve essere completato da tutto un arsenale di installazioni idrauliche spesso molto perfezionate: più il lavoro diventa intensivo grazie all’irrigazione, più le superficie necessarie alla riproduzione dei produttori immediati diminuiscono, meno vantaggioso diventa l’impiego delle bestie da soma. Nelle zone irrigue la produzione dipende perciò nel più alto grado dallo zelo del lavoratore, i raccolti possono essere numerosi, l’agricoltura prende un carattere orticolo e non vi si mostra adatta la manodopera servile in senso proprio, cioè priva di ogni proprietà e famiglia e operante su fondi privati immensi (come a Roma).

In Oriente non si trovano che schiavi di lusso, domestici. In un articolo scritto per il New York Daily Tribune Marx riprende la lettera di Engels: «Il clima e le condizioni geografiche, particolarmente le vaste distese di deserto estendentisi dal Sahara attraverso l’Arabia, la Persia, l’India e la Tartaria fino ai più elevati altipiani asiatici, fecero dell’irrigazione artificiale per mezzo di canali e opere idrauliche la base dell’agricoltura orientale. Come in Egitto e in India, anche in Mesopotamia, in Persia, ecc., le inondazioni sono utilizzate per fertilizzare il suolo; si sfruttano le piene per alimentare i canali d’irrigazione. Questa necessità primaria di un uso economico e comunitario dell’acqua, che in Europa spinse l’iniziativa privata ad associazioni volontarie, come nelle Fiandre e in Italia, richiese in Oriente, dove il processo di civilizzazione era troppo arretrato e il territorio troppo esteso, l’intervento del potere accentratore del governo. Quindi a tutti i governi asiatici si impose una funzione economica, la funzione di provvedere ad opere pubbliche. Questa fertilizzazione artificiale del suolo, che dipende dal governo centrale e che immediatamente decade quando l’irrigazione e il drenaggio sono trascurati, spiega il fatto, altrimenti strano, che oggi sono aride e desertiche intere distese di territorio che un tempo furono splendidamente coltivate, come Palmira, Petra, le rovine nello Yemen e vaste zone dell’Egitto, della Persia e dell’Indostan; spiega anche come poté accadere che una sola guerra devastatrice ha potuto spopolare un paese per secoli e spogliarlo di ogni traccia di civiltà» ("La dominazione britannica in India", 25 giugno 1853).

Evidentemente le condizioni climatiche di cui parla qui Marx indicano solo la possibilità di un tale sviluppo, non la sua realtà. Le zone di irrigazione e di nomadismo presentano gli stessi tratti fondamentali: mancanza d’acqua, sia in quantità sia al tempo voluto. Nello stadio primitivo dell’agricoltura è inoltre determinante l’esistenza di una flora e di una fauna specifiche: l’assenza di queste condizioni ha prodotto una stagnazione in Australia e una coltura unilaterale nelle Ande. Ma pur avendo una base naturale comune queste due economie di produzione hanno diverse strutture delle forze produttive e tratti specifici diversi. Esse sono collegate da zone di frontiera che hanno conosciuto le invasioni, le cosiddette dinastie nomadi, il fenomeno delle Grandi Muraglie e di altri grandi lavori eseguiti da masse di uomini. Per la stessa ragione le grandi società nomadi si svilupparono in Africa e in Asia ai margini delle società agrarie che praticavano l’irrigazione, imponendo loro dall’esterno un elemento militare e politico di inquietudine sociale. In Africa, l’insieme di queste zone confina con la regione tropicale, in cui le economie primitive non possono regolare le acque in vista dell’agricoltura (ostacolo che neppure l’economia capitalistica, privata e mercantile, ha superato).

Accanto al fattore qualitativo naturale delle precipitazioni interviene un fattore quantitativo economico e sociale, l’ordine di grandezza dei lavori idraulici – fattore decisivo per determinare le strutture della produzione agricola e dell’insieme dell’economia. Quando occorre domare l’acqua e canalizzarla su grande scala (Fiume Giallo, Nilo, Eufrate, ecc.), costruire dighe e sbarramenti o scavare canali, diventano necessarie grandi opere idrauliche. La tecnica degli individui e gruppi allora non basta: la regolazione delle acque deve avvenire socialmente, il che favorisce inevitabilmente lo sviluppo dello Stato. L’unità economica è – come si vede in Algeria – più piccola quando può essere organizzata da gruppi locali (specialmente nelle zone di allevamento e di nomadismo). La proprietà non è qui mai individuale, ma statale o comunale, perché l’appropriazione individuale non può bastare a se stessa. Inoltre, in queste forme di economia legate alla natura, la piccola agricoltura e l’allevamento sono strettamente legati all’industria domestica o, nelle unità di produzione più estese, alle caste.

L’Algeria non ha grandi fiumi paragonabili al Nilo o all’Eufrate: non ha perciò conosciuto una forma di produzione e di proprietà così vasta e accentrata come i paesi dotati di grandi corsi d’acqua, né si è reso indispensabile un potente Stato centrale che provvedesse al governo delle acque. Lo Stato sarà imposto dall’esterno ad opera degli invasori romani, turchi e francesi. Sotto la dominazione araba lo Stato centrale si frammenterà rapidamente in una miriade di staterelli nessuno dei quali avrà la forza sufficiente per imporsi. D’altronde l’Algeria non dispone delle province interne intorno alle quali, nei paesi rivieraschi del Mediterraneo, l’unità nazionale si è compiuta, e sotto questo aspetto è ancor meno favorita che la Tunisia e il Marocco. Essa non ha dietro di sé che un’estensione infinita di steppe e deserti. L’irrigazione è realizzata localmente ad opera di unità relativamente ristrette (tribù o gruppi di tribù), mentre nel resto del territorio prevale il nomadismo. La fascia costiera, più stretta ad ovest, si allarga procedendo verso oriente dove l’Atlante ruba spazio alla steppa. Questa caratteristica si ripercuote sulla natura del popolamento, sul modo di vita e sull’attività economica: mentre nella parte orientale l’agricoltura stanziale si estende fino all’Atlante sahariano, in quella occidentale essa è limitata alla fascia costiera per la presenza degli Altipiani sud-oranesi. Lo squilibrio tra est e ovest è ulteriormente accentuato dal contrasto esistente fra il litorale coltivato e il retroterra ad economia nomade. Le due zone potrebbero completarsi armoniosamente avendo bisogno l’una dell’altra – il meridione più del settentrione – per non regredire: gli abitanti delle oasi del deserto e i pastori nomadi delle steppe in cambio di orzo e grano potrebbero fornire lana, carne, latte, formaggi e datteri. Per non spezzare questo collegamento i re berberi sceglievano sempre per capitale una città dell’interno. Gli invasori invece, limitandosi ad occupare e sviluppare la fascia costiera, hanno finito per squilibrare completamente l’economia del paese a svantaggio del sud.
 
 

4. Storia del Maghreb

La storia del Maghreb è una ininterrotta teoria di dominazioni straniere: fenici, romani, vandali, bizantini, arabi, turchi e, infine, francesi. I primi invasori furono i cananei, giunti 3.200 anni fa dalla terra che sarà poi chiamata Palestina, i quali occuparono la costa fino a Tangeri, mentre la popolazione locale (berberi, cabili e amarigh) continuò ad abitare soprattutto gli altipiani. Dai contatti con gli invasori la popolazione autoctona berbera apprese l’alfabeto, la coltivazione della vite nonchè il culto di Baal e di Astante, dando così inizio all’ancoraggio culturale dell’Africa del Nord con l’Oriente.

Nell’VIII secolo a.c. nell’antica Numidia – corrispondente all’attuale Tunisia e a parte dell’Algeria orientale – abitata allora da tribù di pastori berberi, arriveranno i fenici che vi fondarono Cartagine. I fenici occuparono soprattutto la parte orientale della regione lasciando sottopopolata la zona occidentale. L’amministrazione del territorio interno fu affidato invece alla nobiltà militare berbera che finì per adottare la lingua e la religione dei conquistatori. Cartagine tentò invano di annettersi la Sicilia scontrandosi prima con i Greci (460-260 a.c.) e poi con i Romani – guerre puniche – che nel 146 a.c. la rasero al suolo. A partire dal 42 d.c. Roma assunse il controllo di tutto il Nord Africa che verrà diviso in due parti: la Mauritania ad ovest e la Numidia ad est. L’idioma latino si affiancò ovunque ai dialetti punico e berbero. I romani trasformarono profondamente l’area fondando numerose città e pavimentando oltre 20 mila chilometri di strade. Vi esportarono inoltre il sistema produttivo basato sullo schiavismo e sulla proprietà individuale, facendo dell’Africa del Nord uno dei granai dell’Impero, in concomitanza col crollo del sistema agrario in Italia. La zona fu protetta dalle incursioni delle tribù nomadi mediante un cordone sanitario militare, il limes. Ma fino alla conquista francese la proprietà privata individuale nata sotto l’influenza del diritto romano – ancora oggi presente fra i berberi autoctoni, oltre che presso i mauri e gli ebrei, che formano il principale contingente della popolazione urbana – rimase minoritaria rispetto alla proprietà collettiva (tribale e comunitaria), la cui persistenza avrebbe potuto consentire all’Algeria di saltare il girone infernale dell’economia capitalista, SE l’Europa avesse compiuto nel frattempo il salto al comunismo.

Kautsky spiega che in tutta l’area mediterranea la prima forma di società di classe diede un colpo terribile alla vegetazione, alla fauna e allo stesso suolo: la famosa "macchia mediterranea" è un prodotto dell’uomo. Persino in Italia e in Francia gli effetti furono disastrosi provocando una degradazione della natura che da allora ha assunto aspetti pressoché cronici – il capitalismo, malgrado gli sviluppi della tecnica, ha aggravato ulteriormente la situazione lungo tutte le rive del Mediterraneo.

Nel I e II secolo il credo cristiano venuto dalla Palestina si diffonde in tutto il Nord Africa. Gli africani abbracciano entusiasti la nuova fede orientale, che per primi contribuiscono a latinizzare imponendo il latino come lingua ufficiale ai cristiani di occidente. Ma ben presto il cristianesimo latinizzato del litorale "civilizzato" non coinciderà con quello indigeno ed indigente delle zone montane dell’interno (djebel). Qui le masse rurali, spremute dal fisco, covano focolai di resistenza anti-romana. Repressa senza pietà da Roma, la ribellione rurale nell’anno 347 si collega al movimento del vescovo Donato, un numida che rifiuta ogni legittimità alla chiesa d’Africa. A questo movimento si opporrà con decisione un altro berbero, Agostino, vescovo di Ippona e futuro santo, quale rappresentante della Chiesa romana. La guerriglia donatista, che dalle montagne scende a devastare le pianure, sancisce il divorzio tra l’elite occidentalizzata e la plebe berbera orientalizzata, tra la città e il bled, tra la costa e il djebel, tra la chiesa legalista e la chiesa integralista. Il potere e la ricchezza si concentrano nell’est, soprattutto a Costantina, che ancora oggi tradizionalmente fornisce l’élite del regime. Il Concilio di Cartagine del 411 condanna definitivamente il donatismo. Ma nel 427, sbarcati dalla Spagna, i Vandali, adepti del vescovo egiziano Ario, assestano un colpo mortale alla chiesa locale. Un secolo dopo, con la presa di Cartagine, i bizantini soppiantano i romani.

Il Maghreb cadrà sotto il dominio arabo già nel VII secolo, non senza una lunga resistenza da parte degli autoctoni. Nel 647 l’invasore arabo, con l’esercito di Maometto, attraverserà gli altopiani fino ad Agadir. La resistenza si organizzerà nei massicci dell’Aurès ma terminerà con la sconfitta della regina berbera giudeizzata Kaena. Nel 695 gli arabi conquisteranno Cartagine e tutto il Maghreb. Ma una massiccia immigrazione araba avrà luogo solo tra il XII e il XIV secolo, dopo la cacciata definitiva degli arabi dalla Spagna. Maestri nell’arte dell’irrigazione, gli invasori arabi tentarono di reagire agli effetti della proprietà individuale. Mentre i vasti pascoli sugli altipiani rimarranno possesso indiviso delle tribù nomadi, nelle pianure il sistema fondiario sviluppato dai cabili sotto l’influenza araba si differenzierà considerevolmente da quel tipo primitivo di proprietà tribale. La resistenza degli autoctoni durò più di settant’anni. In seguito le rivalità in seno al pletorico impero arabo e gli attacchi dall’esterno ebbero ragione dei tentativi di unificazione di tutta l’area islamica. Nella stessa Algeria né i nomadi (che bisogna distinguere dagli invasori arabi) né i sedentari riusciranno ad imporre la propria egemonia su tutto il paese, sebbene gli ultimi vi si avvicinassero fra il 947 e il 984.

I fatimidi, di confessione sciita, sottometteranno l’Algeria nel 947 dopo aver devastato gli altipiani. Le città andranno in rovina, l’opulento suolo numida diventerà un deserto. Il grosso della popolazione berbera si assimilerà agli arabi mentre una minoranza riparerà nel djebel. Il territorio finirà per stratificarsi in tre fasce ben distinte: litorale cosmopolita, altopiano arabofono e montagna berberofona.

Nel 969 l’intraprendente impero sciita-fatimida si impadronirà del Cairo, della Sicilia e del Vicino Oriente. Dal Cairo arriveranno la dottrina Drusa, la setta degli Assassini (da hascisc, di cui erano consumatori) e il culto Ismaelita. Gli sciiti (da shia, scissione) riconoscono come capi religiosi solo i discendenti diretti di Alì, il genero di Maometto, assassinato nel 661, mentre al loro interno i fatimidi, che pretendono di discendere da Fatima, la figlia di Maometto, sono una dinastia di califfi che regnerà sul Maghreb e sull’Egitto dal X al XII secolo. Ma la tendenza maggioritaria classica è costituita dai sunniti (da Sunna, tradizione). Nel 1160 l’impero degli Almohadi unificherà il Maghreb e l’Islam sunnita trionferà ovunque. I regni arabi domineranno il Maghreb fino al XIV secolo, ma l’instabilità degli emirati arabo-berberi e la pauperizzazione del mondo rurale devastato dalla tribù Beni-Hillel esporranno molto presto il Maghreb alla cupidigia straniera.
 
 

5. La dominazione turca (1561-1830)

Alla fine del XV secolo la Spagna mette piede a Bougie, Algeri e Orano (quest’ultima viene fondata proprio dagli spagnoli) dopo la cacciata dei mauri dalla Spagna. Sollecitati dall’emiro della Mitidja i turchi inviano Kheyr-el-Din e suo fratello Aruj, noti popolarmente come i fratelli Barbarossa, i quali nel 1516 respingono gli spagnoli. Carlo V tenterà nel 1541 di ristabilire il potere della Spagna, ma i turchi, padroni di un vasto impero con una popolazione numericamente ben superiore a quella spagnola, finiranno per prevalere. Il Maghreb resterà sotto la dominazione turca fino al XVIII secolo.

La regione di Algeri viene così sottomessa alla milizia turca che impone, in nome del sultano ottomano, un bey (governatore) con potestà sui pascià della Tunisia e della Tripolitania. A partire dal 1671 i comandanti di Algeri, eletti dalla milizia turca, non vengono più scelti tra i corsari bensì tra i militari, e il potere del sultano ottomano si esprimerà attraverso l’istituzione della carica elettiva del dey ("protettore") di Algeri, la cui autorità non va oltre la capitale e la fascia costiera e che è assistito da un suo consiglio privato (divano). Il governo del dey si appoggia sulla milizia turca e su qualche tribù indigena alleata. Il resto del paese è affidato a tre bey di stanza a Orano, Medea e Costantina, tributari del dey di Algeri. I bey designano i caid, che a loro volta investono gli sceicchi delle tribù sottomesse. Dopo il 1587 l’Algeria diventa una Reggenza, amministrata da un pascià a nomina triennale. Malgrado l’allentarsi dei legami con Constantinopoli, i turchi di Algeri hanno sempre riconosciuto la sovranità dei sultani. I capi, i bey turchi e i caid indigeni, gli emiri e i bachaga, hanno sempre spremuto la popolazione autoctona per pagare i tributi imposti dal governo della Reggenza.

I turchi, sempre poco numerosi (erano 15 mila all’inizio del XIX secolo), riuscirono a controllare l’Algeria sfruttando le alleanze o fomentando le rivalità tra le varie tribù. Vaste regioni montagnose non sono mai cadute sotto il dominio turco. Le tribù dell’interno, soprattutto nella Cabilia, hanno sempre mantenuto la loro indipendenza. Solo nel XVIII secolo il governo del dey raggiunse un certo livello di sicurezza. Comunque, nel corso dei tre secoli di dominazione turca il paese si è islamizzato profondamente. Confraternite mistiche e capi religiosi (marabut) sono stati gli strumenti più efficaci utilizzati dalla casta militare turca. Infatti il governo turco tenderà a favorire la concentrazione della proprietà privata nelle mani di istituzioni religiose o benefiche. I beni saranno esenti da imposte finchè il possessore ne avrà il godimento in cambio di prestazioni in denaro o in natura a favore dell’istituzione religiosa!

Grazie ai profitti derivati dalle scorrerie dei corsari e dalla vendita dei prigionieri (Algeri era il centro di un vasto mercato di schiavi, quasi tutti cristiani), lo Stato di Algeri nel XVII secolo aveva raggiunto una certa prosperità. Anche se queste risorse in seguito diminuiranno, la pirateria algerina, spina nel fianco del commercio dei paesi europei, sopravviverà fino all’inizio del XIX secolo. Ancora dopo il 1815 ben sette Stati europei versano dei tributi annuali al dey per mettersi al riparo dai corsari algerini.

Verso la fine del XVIII secolo il commercio estero della Reggenza di Algeri passa nelle mani di ebrei livornesi, con grave danno finanziario per il dey. L’Algeria conosce un periodo di acuta decadenza. A parte qualche seminativo a base di grano e di orzo nelle vallate e alle piantagioni di ulivi e palme da datteri nelle oasi, la maggior parte della popolazione è occupata nell’allevamento nomade del bestiame. Solo in poche città, soprattutto costiere, è sviluppato l’artigianato con la presenza di una ricca borghesia commerciale e speculatrice composta prevalentemente da ebrei, arabi, cabili e turchi. Le città si differenziano dal resto del paese proprio per la composizione eterogenea dei gruppi sociali. Il fondo della scala sociale è occupato dagli ebrei, i quali sono soggetti a varie misure discriminatorie (obbligo di abitare nei ghetti, divieto di portare armi, uso di costumi particolari, ecc.); ciò non toglie che alcuni riusciranno ad elevarsi fino all’entourage dei sovrani. Invece fuori dalle città oltre metà della popolazione è costituita da berberofoni, disseminati sui monti Cabili, nel massiccio dell’Aurès, in alcune enclave della regione di Algeri, a Tlemcen e nel Sahara

La vita pastorale importata dagli arabi ben si adattava alle caratteristiche fisiche del paese. L’altopiano nord-africano è ricco di vasti pascoli che le tribù nomadi possiedono indivisi. Nonostante le ininterrotte invasioni gran parte delle tribù sedentarie continuano a ignorare la proprietà privata a causa delle difficili condizioni naturali. La proprietà tribale prevale ancora presso i berberi e gli arabi come forma di possesso e tecnica di produzione maggiormente rispondente alle condizioni naturali povere dell’Algeria. Sta qui il segreto della longevità e della vitalità di questa forma di proprietà collettiva, altrove pressoché totalmente soppiantata dalla proprietà privata individuale. I lavori collettivi sono assicurati dalla tribù e la terra stessa appartiene alla tribù. Anche se basata su di un basso livello tecnico, questa forma di produzione è poco aggressiva nei confronti dell’ambiente e permette alla popolazione di vivere. Al contrario, l’agricoltura intensiva introdotta dai coloni provocherà una forte erosione del suolo.

Lo sgretolarsi delle forme collettive di regime fondiario viene notevolmente accelerato dalla conquista turca. In linea generale, i turchi lasciarono il paese in mano alle tribù locali, ma una buona parte delle terre incolte divenne proprietà demaniale messa a coltura a spese del governo turco, con impiego di manodopera locale. Un’altra parte di questi terreni venne data in affitto ai contadini, con l’obbligo del pagamento allo Stato di un’imposta in denaro o di prestazioni in natura.

I turchi, per contrastare le rivolte tribali, crearono colonie militari costituite da cavalieri arabi e cabili: ad ogni colono, in cambio dell’obbligo al servizio militare a vita all’interno dei confini del distretto (caidato), venivano assegnati una parcella di terra, il grano per la semina, un cavallo e un fucile. La superficie complessiva occupata dal demanio e dalle colonie militari si estenderà così di generazione in generazione, anche grazie alle confische dei beni appartenenti alle tribù ribelli. Le terre confiscate vendute al mercato libero daranno origine alla proprietà privata del suolo e alla nascita di un numeroso ceto di proprietari fondiari privati. Ma la dominazione ottomana non condurrà ad un regime feudale della terra simile a quello dell’India, a causa della forte centralizzazione dell’amministrazione civile e militare turca (tutti i dey e i caid locali rimanevano in carica solo tre anni). Scriveva Marx nel 1880: «È l’Algeria che conserva le tracce più importanti, dopo l’India, della forma arcaica della proprietà fondiaria, in quanto la proprietà tribale familiare vi costituisce la forma più estesa. Secoli di dominazione araba, turca ed infine francese sono stati impotenti – salvo nell’ultimissimo periodo, ufficialmente dalla legge del 1873 – a spezzare l’organizzazione fondata sul sangue e sui principi che ne derivano: l’indivisibilità e l’inalienabilità della proprietà fondiaria».

Nel 1830, alla vigilia della colonizzazione francese, l’Algeria è dunque soprattutto un paese rurale a poli-coltura intensiva ed economia pastorale, con uno scarso livello di tecnica produttiva e di rendimento, e un carattere relativamente egualitario della proprietà.
 
 

6. La colonizzazione francese (1830-1962)

Nella seconda metà del XIX secolo si ebbe in Europa il passaggio dall’imperialismo marittimo mercantile all’imperialismo coloniale. La politica coloniale francese aveva subìto un duro colpo sotto i Borboni a tutto vantaggio dell’Inghilterra, che era uscita vittoriosa dalla guerra dei Sette Anni nel 1763. Napoleone I aveva intrapreso la spedizione in Egitto per contrastare il dominio inglese nell’area, progettando anche uno sbarco in Algeria per punire il dey per il suo doppio gioco fra l’Inghilterra e la Francia. L’Algeria rappresentava la regione ideale per una potenza come la Francia decisa a ritagliarsi la sua fetta di impero nell’Africa settentrionale. Il programma di espansione coloniale, temporaneamente accantonato per ragioni sia interne (fermenti politici che porteranno alla rivoluzione del 1830) sia internazionali (antagonismo con l’Inghilterra), venne ripreso da Carlo X , dopo la rivoluzione del 1830.

Da secoli l’Algeria era nota in Europa soprattutto per la guerra corsara sui mari e come il rifugio ideale per i pirati, delle cui imprese approfittava il dey turco. Il paese era allora al centro di vaste attività commerciali con le principali nazioni europee, prima fra tutte la Francia, che aveva propri agenti commerciali a Bona e a La Calle. Intorno ad Algeri fioriva una rete di traffici leciti ed illeciti che intralciavano il commercio marittimo delle potenze europee. Nel giugno 1830 la disputa intorno a un’operazione finanziaria tra la Francia e la Reggenza turca di Algeri (i francesi non avevano ancora saldato i debiti che avevano contratto con il dey per gli approvvigionamenti da questo forniti tanto all’epoca della Rivoluzione, quando la Francia era stretta dal blocco inglese, quanto durante la campagna d’Egitto), degenerava in conflitto aperto: le truppe francesi sbarcarono a 25 chilometri da Algeri, sulla penisola di Sidi Ferruch già indicata da Napoleone come il luogo ideale per un eventuale sbarco. Il 5 luglio, dopo il bombardamento della capitale, il dey firmò la resa. La campagna militare si trasformò ben presto in impresa coloniale, che fece dell’Algeria una colonia di popolamento europeo, soprattutto sulle terre più fertili e nelle città della costa. Ma la vittoria non portò immediatamente all’occupazione di tutto il Maghreb; anzi la conquista militare francese avrebbe attraversato fasi alterne e sarebbe durata fino alla vigilia della Prima Guerra mondiale: la Tunisia sarà occupata nel 1881, il Marocco soltanto nel 1912.

All’arrivo dei francesi l’Algeria contava tre milioni di abitanti, buona parte dei quali debilitati dalle malattie e dalle calamità atmosferiche. La piana della Mitidja, nel circondario di Algeri, era a quei tempi una palude. La terra era in parte proprietà dello Stato turco, ma la maggior parte apparteneva come proprietà comune alle tribù arabe e berbere. Dopo un secolo di dominazione questa forma di proprietà non esisterà più. Come l’America del Nord, l’Algeria divenne una colonia di popolamento dove l’Europa poteva esportare la popolazione eccedente: ben presto masse di indigenti cominciarono ad arrivare dalla Spagna, da Malta, dall’Italia, come pure dalla Germania e dalla Svizzera. La colonizzazione urbana interessò in maniera crescente le città europeizzate, centri amministrativi ed economici che attiravano, oltre ai funzionari e commercianti francesi, stranieri di ogni nazionalità. Già nel 1839 sono presenti 25 mila europei (11 mila francesi). Nel 1872 il 60% degli europei risiedono in città. La nuova popolazione è composta in maggioranza da francesi ma anche da ebrei indigeni ed europei naturalizzati francesi. Il numero degli immigrati è andato sempre aumentando: i 109mila europei del 1847 sono diventati 984mila nel 1954.
 
 

7. Fasi successive della colonizzazione

Dal 1830 al 1841 l’espansione francese dovette fare i conti con la resistenza organizzata dall’emiro Abd el-Kader. Nato da una nobile famiglia di proprietari terrieri e marabutti appartenenti all’importante ordine religioso khaddiriyya, Kader aveva ricevuto educazione religiosa prima dell’invasione francese, completata dal pellegrinaggio alla Mecca, da una visita a Bagdad e da un viaggio attraverso l’Egitto, dove aveva avuto modo di conoscere direttamente le prime realizzazioni del nazionalismo egiziano in campo politico ed economico. Nel 1832, acclamato sultano da alcune tribù della regione di Mascara nell’Oranese, abrogò alcune imposte per ingraziarsi le masse contadine. Ripristinando l’organizzazione militare di cui si erano serviti i turchi, riuscì con 6.000 combattenti regolari e 30.000 irregolari a tener testa alla Francia per diciassette anni. Il suo prestigio fu accresciuto nel 1834 quando stipulò con la Francia un trattato che limitava l’espansione francese e stabiliva le relative zone d’influenza. Ma dovette anche lottare con i rivali interni, i proprietari terrieri ostili alla sua politica; soprattutto non ebbe l’appoggio delle tribù cabile.

Dal 1841 al 1847, rinunciando alla "pace politica" , la Francia è per la guerra ad oltranza contro Abd el-Kader. Mascara e le piazzaforti dell’emiro cadono nel 1841. Finite nel vuoto le richieste di aiuto alla Gran Bretagna e alla Porta, Kader riparò nel 1843 in Marocco da dove riprese la guerra fino alla capitolazione del sultano marocchino nel settembre 1844. Abbandonato dai marocchini e ignorato dai cabili, si arrese alle truppe francesi nel dicembre 1847. Le popolazioni arabizzate dell’Algeria occidentale furono così "pacificate".

Nel decennio successivo alla capitolazione di Abd el-Kader la Francia conquistò via via l’Aurès, le oasi meridionali e infine la Cabilia, che fu domata nel 1857 dopo tre anni di resitenza e spaventosi massacri da parte dei francesi "civilizzatori". La guerra algerina fu la palestra dei carnefici della classe operaia francese, dei Cavaignac, dei Saint-Arnaud, dei MacMahon e di altri ancora. Costoro applicarono contro il proletariato rivoluzionario parigino gli stessi metodi sanguinari di repressione sperimentati in Algeria contro gli arabi. La colonizzazione aveva subito un’accelerazione nel 1848 dopo la fondazione della Seconda Repubblica: anzitutto si intensificò la corrente migratoria verso l’Algeria sulla spinta della crisi sociale, permettendo alla Francia di sbarazzarsi degli elementi sovversivi. Ventimila artigiani e operai disoccupati, soprattutto parigini, sbarcarono in Algeria allettati dalla concessione gratuita di terra. Il paese diventò un territoire français diviso in tre dipartimenti, con a capo un prefetto, che inviavano propri rappresentanti, eletti ovviamente tra i coloni, all’Assemblea nazionale di Parigi. Questa prerogativa venne sospesa nel 1852 da Napoleone III, creando malcontento nella borghesia coloniale.

L’oppressione coloniale porterà le campagne algerine alla rovina economica. Fra il 1868 e il 1870 l’Algeria conobbe una terribile carestia accompagnata da una epidemia di colera che falciò 300mila vite. Quasi ogni anno scoppiavano insurrezioni popolari un po’ ovunque nel paese, sempre sanguinosamente represse dai francesi perché la lotta non riuscì mai a superare lo stretto carattere locale e diventare nazionale. La situazione mutò verso la fine del 1870, in coincidenza con la disfatta di Sèdan che mostrò agli algerini arabi e berberi la debolezza militare e il grado di corruzione raggiunto dallo Stato borghese francese.

Ma, paradossalmente, la prima reazione immediata agli eventi europei venne dalla popolazione francese d’Algeria, che contava allora approssimativamente 270mila persone. La borghesia coloniale era scontenta della politica attuata dal regime di Bonaparte, che aveva favorito la grande borghesia metropolitana nella distribuzione delle concessioni, in pratica estromettendo i coloni dall’amministrazione del paese. Questa borghesia coloniale, approfittando della caduta del regime riuscì ad ottenere la sostituzione di numerosi funzionari bonapartisti rimpiazzati da repubblicani liberali. Inoltre vi erano i circoli di emigrati democratici (l’Algeria era il luogo d’esilio di tutti gli elementi di opposizione). Operai rivoluzionari e democratici piccolo borghesi proudhonisti, alcuni dei quali membri della sezione algerina della Prima Internazionale, avevano fondato l’Associazione repubblicana d’Algeria che era presente in molte città, pubblicava giornali e teneva riunioni generali. L’Associazione aveva come programma di trasformare l’Algeria in una federazione di municipalità, ignorando però totalmente le aspirazioni della popolazione araba. Il 5 settembre 1870 migliaia di operai francesi e democratici piccolo borghesi organizzarono ad Algeri una dimostrazione di massa, abbattendo le aquile imperiali da tutti gli edifici e innalzando il berretto frigio. Ma questa spontanea esplosione non portò ad alcun risultato perché i ristretti circoli democratici mancavano di radicamento tra le masse e soprattutto mancavano di qualsiasi appoggio da parte degli arabi. Alla proclamazione della Comune di Parigi le manifestazioni ripresero in tutto il paese, ma la lotta anche questa volta non trovò sbocchi per l’atteggiamento conciliatore degli elementi piccolo borghesi. Anzi, quando nel marzo 1871 scoppiò una insurrezione di massa della popolazione locale i capi democratici, proprio per paura di una insurrezione araba, abbandonarono la lotta lasciando spazio alla reazione francese.

In effetti, il 14 marzo 1971 ebbe inizio una insurrezione degli arabi e delle tribù berbere sotto la guida di Mohammed el-Mokrani, governatore della regione cabila di Mediana. Il grosso degli insorti era costituito da contadini e da nomadi perché nessun feudatario entrò nel movimento. Un apporto decisivo fu dato dall’ordine religioso rahmaniyya che controllava 250 tribù e i cui agitatori andavano di villaggio in villaggio invitando il popolo alla Guerra Santa. Ma il piano di Mokrani non prevedeva l’espulsione dei francesi; voleva solo costringerli a fare delle concessioni agli arabi e ai capi cabili. Nonostante le vittorie riportate dagli insorti tra aprile e maggio, la situazione si capovolse dopo la sconfitta dei comunardi parigini, quando il governo Thiers potè incrementare la forza di occupazione portandola a 85mila uomini. I reparti militari francesi bruciarono villaggi, rubarono il bestiame, distrussero i pozzi uccidendo chiunque trovavano. Per punire le tribù ribelli i francesi confiscarono oltre 500mila ettari delle terre migliori e imposero loro il pagamento di oltre 36 milioni di franchi di indennizzo. Più che i cittadini, furono quindi soprattutto i contadini a pagare le spese della colonizzazione, che si annunciò subito con l’appropriazione delle terre da parte dello Stato francese, contro cui si venne formando una tradizione di lotta molto radicata nelle campagne.

Oltre che nel settore del regime fondiario, i francesi intervennero fin dall’inizio anche nel campo della organizzazione religiosa, avocando all’amministrazione coloniale poteri di controllo nella disciplina dell’Islam, stipendiando i ministri del culto (ridotti a funzionari), confiscando i beni immobili delle confraternite religiose e delle opere pie, subordinando la naturalizzazione dei residenti non francesi alla condizione di abbandonare lo "statuto coranico". Ma questa politica di assimilazione non darà i frutti sperati: dal 1866 al 1934 solamente 2.500 algerini diventeranno cittadini francesi.

I fellah si videro sottratte le terre migliori e dovettero ripiegare verso le zone semidesertiche del Sud. Si è calcolato che tra il 1871 e il 1898 vennero trasferiti ai coloni terreni per quasi un milione di ettari. Alla piccola colonizzazione dei primi decenni era subentrata ben presto quella estensiva finanziata dalle grandi compagnie commerciali e dalle banche, dando luogo ad una colossale espropriazione di ricchezza. A partire dal 1890 l’occupazione di terre cominciò a interessare anche le regioni sahariane, i cosiddetti "territori del Sud". Ma non si trattò di una passeggiata per il potere coloniale, che dovette affrontare e reprimere una lunga serie di rivolte popolari.

Di fatto, il settore in cui più profondi sono stati gli effetti della colonizzazione è quello della proprietà terriera. Ecco le date significative che porteranno all’espropriazione dei contadini algerini poveri e all’attuazione del capitalismo agrario: 1833, confisca dei beni del dey turco e trasformazione dei possedimenti delle opere pie in beni demaniali; 1845, sequestro militare delle terre in caso di ribellione delle tribù contro l’autorità coloniale; 1851, annessione al demanio di due milioni di ettari di boschi e foreste appartenenti alle tribù. Dal 1857 al 1863 la pratica del cantonnement lasciò alle tribù soltanto la quantità di terra giudicata sufficiente al loro sostentamento, concedendo ai coloni il diritto di acquistare le terre nel territorio delle tribù. Le grandi società si appropriarono così di vasti possedimenti nelle fertili pianure della Mitidja, di Bona (Annaba), di Orano, di Setif e di Costantina. Lo Stato coloniale concesse gratuitamente lotti di 40-60 ettari agli sconfitti della Comune, che insieme ai contadini del sud-est francese, a disoccupati, avventurieri e profughi dell’Alsazia-Lorena andarono ad ingrossare i ranghi dei coloni d’Algeria. Nel 1873 la legge Warnier parcellizzò la proprietà agraria tradizionale dividendo la terra tra i membri della comunità, con il pretesto di garantire e proteggere la proprietà indigena, ma facendo la fortuna di speculatori e usurai che approfittarono della vendita della maggior parte delle terre appartenenti alle tribù locali.
 
 

8. Distruzione della proprietà indivisa delle tribù

I rapporti mercantili e monetari introdotti dalla colonizzazione francese disgregarono rapidamente una società come quella araba-algerina costituita da tribù che vivevano ancora nel retaggio del comunismo primitivo. Il colonialismo impose in Algeria un’economia specializzata nella divisione internazionale del lavoro che avrebbe accentuato la sottomissione e la dipendenza del paese nei confronti della metropoli.

Basandosi su uno studio del russo Kovalevsky, sia Marx (in un lavoro del 1880 dal titolo Uno studio inedito sull’Algeria) sia Rosa Luxemburg (nel 1912, in un capitolo del suo monumentale lavoro sull’Accumulazione del Capitale) hanno affrontato la situazione dell’Algeria. In particolare, la Luxemburg vede nell’introduzione violenta della proprietà privata all’interno del sistema collettivo autoctono uno strumento per spezzarne la resistenza.

Scrivemmo in Programme Communiste (n.11/1960): «Quando i francesi invasero l’Algeria nel 1830 il dey prese facilmente partito e capitolò all’indomani dello sbarco. Il trattato che firmò stipulava che avrebbe conservato i suoi beni personali ed era libero di ritirarsi a suo piacere. Ma gli arabi e i cabili reagirono diversamente: organizzarono subito la lotta contro l’invasore e fecero rimbombare nel paese degli echi della Guerra Santa. Non esistevano allora in Algeria classi sociali distinte né, di conseguenza, partiti politici rappresentanti opposti interessi. Questa situazione dipendeva dal fatto che l’Algeria era, dopo l’India, il paese dove la forma comunitaria arcaica della proprietà fondiaria era la meglio conservata. È appunto contro questo regime di proprietà, base della società algerina, che l’imperialismo francese portò i suoi attacchi. Per ridurre la proprietà comunitaria delle tribù utilizzò le forme di proprietà privata che avevano lasciato i turchi. Si impossessò della proprietà demaniale e si appropriò subito dei beni delle istituzioni religiose di beneficenza, le habous o wakuf. Distruggendo l’organizzazione tribale comunitaria riusciva ad indebolire la resistenza della popolazione. Gli ci volle molto tempo per estirpare la proprietà comunitaria. La tenace proprietà comunitaria infatti rappresentava ancora nel 1873 una forma "che incoraggia negli spiriti le tendenze comuniste e che è tanto pericolosa per la colonia quanto per la metropoli".

«Nel 1912, vale a dire 40 anni più tardi, Rosa Luxemburg scriverà: "La vivisezione dell’Algeria che prosegue da più di 80 anni trova ora meno resistenza perché gli arabi, che il capitale francese accerchia sempre più strettamente dopo la sottomissione della Tunisia (1881) e del Marocco, sono allo stremo". La proprietà comunitaria doveva essere definitivamente vinta dallo stanziamento massiccio dei coloni francesi e dal predominio crescente della proprietà privata, spogliata delle terre migliori e incapace ad assicurare la sussistenza di una popolazione che dal 1830 ai nostri giorni si e triplicata. Questa disfatta rese più acuto che mai il problema della semplice sussistenza delle masse perché la vittoria della proprietà privata borghese, ben lungi dal risolvere la questione agraria, non fece che renderla più esplosiva. È appunto la questione agraria al centro di tutti i problemi che si impongono all’Algeria.

«Ci si può chiedere perché, essendo la situazione agraria analoga a quella della Russia dopo il 1861, l’Algeria non abbia conosciuto un movimento che, sulla base dalla presenza delle comunità rurali primitive, perorasse una riorganizzazione socialista della proprietà fondiaria. Tale movimento avrebbe altresì potuto, se le circostanze fossero state favorevoli, evolversi verso il marxismo, o verso il menscevismo. Questa differenza si spiega con la situazione sociale più arretrata in Algeria, per l’assenza di un pur minoritario proletariato industriale, espressa nella cultura islamica, quindi molto più chiusa della Russia all’influenza del socialismo internazionale. Il socialismo francese non sembra aver influenzato in questa epoca le forze rivoluzionarie esistenti in Algeria. Il proletariato algerino entrò in contatto con il movimento rivoluzionario europeo solo quando i lavoratori algerini emigrarono in Francia, all’indomani della guerra del 1914-18: non furono quindi toccati dalla degenerazione della socialdemocrazia. Questo proletariato che entrava in scena al momento della crisi rivoluzionaria aperta in Europa dalla rivoluzione russa rappresentava per il colonialismo francese un avversario terribile.

«Si sa quale formidabile impulso l’Ottobre russo abbia dato alla lotta anticolonialista in Asia e principalmente in Cina; è là che il colonialismo europeo, sul punto di perdere le ultime posizioni africane, ha subìto i suoi primi rovesci. Si conosce meno l’influenza della rivoluzione russa sull’Africa del Nord in generale e sull’Algeria in particolare, che fu importante sia sul piano teorico sia su quello pratico. Innanzitutto – almeno al tempo dei suoi primi congressi – l’Internazionale Comunista, in conformità alle posizioni autenticamente marxiste, inserisce i movimenti di emancipazione dei paesi coloniali nella prospettiva generale del socialismo».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

II.

IMPIANTO MARXISTA E TESI DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA SULLA QUESTIONE NAZIONALE E COLONIALE

1. La dissoluzione del Comunismo primitivo

Le conclusioni a cui perviene Engels nella sua lettera a Bernstein del 9 ottobre 1886, che le istituzioni gentilizie sarebbero potute diventare il punto di congiunzione con il comunismo moderno se fossero sopravvissute fino alla rivoluzione socialista europea, anche se si riferiscono a un possedimento turco situato all’altra estremità dell’impero, la Bulgaria, si possono considerare valide anche per l’ Algeria: «I bulgari si comportano sinora in modo ammirevole (sul campo di battaglia: guerra russo-turca). Lo devono al fatto che sono restati così a lungo sotto il dominio turco, che ha tranquillamente lasciato loro i resti dell’istituzione gentilizia e non hanno nemmeno visto da lontano lo sviluppo degli elementi borghesi grazie alle confische realizzate dai pascià. I serbi, per contro, che da 80 anni sono liberi dai turchi, hanno assistito alla rovina delle loro istituzioni gentilizie per opera della burocrazia formata dagli austriaci e delle leggi: per questo saranno inevitabilmente battuti dai bulgari. Uno sviluppo borghese di 60 anni, che non li porterà a nulla, renderà i bulgari vulnerabili quanto gli attuali serbi. Per i bulgari, come per noi, sarebbe stato infinitamente preferibile restare turchi fino alla rivoluzione socialista europea: avendo le istituzioni gentilizie costruito un punto di giunzione ad un ulteriore sviluppo comunista, così come il "mir" russo, che noi vediamo smembrarsi adesso sotto i nostri occhi».

Non essendosi realizzata la prospettiva della rivoluzione proletaria occidentale, resta valida quella posta dal marxismo fin dal 1853 per l’India: se l’Algeria non potrà beneficiare del comunismo instaurato dalla classe proletaria, essa "beneficerà" degli apporti del capitalismo.

Citiamo da un articolo di Engels del gennaio 1848, pubblicato in The Northern Star, che così commenta la sconfitta dell’emiro Abd el-Kader nel 1847: «Tutto considerato, a nostro giudizio, e stata una grande fortuna che il capo arabo sia stato preso. La lotta dei beduini era disperata e, benché la guerra sia stata condotta in maniera oltremodo biasimevole da soldati brutali come Bougeaud, la conquista dell’Algeria è un avvenimento importante e favorevole per il progresso della civiltà. Le piraterie degli Stati barbareschi, nelle quali il governo inglese non è mai intervenuto fintanto che non disturbavano le sue navi, non potevano essere represse se non si conquistava uno di questi Stati. E la conquista dell’Algeria ha già costretto i bey di Tunisi e di Tripoli, e anche l’Imperatore del Marocco, a mettersi sulla strada della civiltà. Essi sono stati costretti a trovare per il loro popolo impieghi diversi dalla pirateria e, per riempire le loro casse, mezzi diversi dai tributi pagati loro dagli Stati minori d’Europa. Se possiamo deplorare che la libertà dei beduini del deserto sia stata distrutta, non dobbiamo dimenticare che gli stessi beduini sono una nazione di predoni, che vivono principalmente facendo scorrerie, o gli uni a danno degli altri o a danno di comunità stabili, prendendo quello che trovano, massacrando tutti quelli che resistono e vendendo schiavi gli altri prigionieri. Tutte queste nazioni di liberi barbari appaiono molto fiere nobili e gloriose, se viste a distanza, ma basta avvicinarsi ad esse per trovare che, al pari delle nazioni più civili, sono dominate dalla bramosia di guadagno e che impiegano i mezzi più rudi e più crudeli. E dopo tutto il borghese moderno, con la civiltà, l’industria, l’ordine e lo spirito almeno relativamente illuminato che lo accompagnano, è preferibile al signore feudale o al rapace predone e allo stato sociale barbaro cui appartengono».

Sulla stessa lunghezza d’onda si poneva Marx nel 1853 scrivendo sul New York Daily Tribune: «Ora, per quanto possa ferire i sentimenti umani il vedere quella miriade di industriose comunità patriarcali, inoffensive e laboriose dissolte, smembrate negli elementi costitutivi e ridotte alla disperazione, e i loro membri privati contemporaneamente della loro antica forma di civiltà e dei loro mezzi di sussistenza tradizionali, non dobbiamo dimenticare che quelle idilliche comunità di villaggio, per quanto inoffensive possano sembrare, sono sempre state il solido fondamento del dispotismo orientale, hanno sempre confinato l’intelletto umano in ambito estremamente ristretto, facendone docile strumento della superstizione e schiavo di norme tradizionali, privandolo di ogni grandezza e di ogni energia storica. Non dobbiamo dimenticare l’esempio dei barbari che, aggrappati al misero pezzo di terra, assistevano tranquillamente alla rovina di imperi, a crudeltà inaudite, al massacro delle popolazioni di grandi città, senza rivolgere ad esse maggiore attenzione che agli eventi naturali, preda indifesa essi stessi di qualsiasi aggressore che si degnasse di accorgersi della loro presenza. Non dobbiamo dimenticare che questa vita vegetativa, stagnante, indegna, che questo tipo di esistenza passiva suscitava d’altra parte, per contraccolpo, delle forze di distruzione cieche e selvagge, e che facevano dell’omicidio stesso un rito religioso nell’Indostan. Non dobbiamo dimenticare che queste piccole comunità portavano il marchio infamante delle caste e dalla schiavitù, che esse rendevano l’uomo schiavo delle circostanze esterne anziché il dominatore delle circostanze, che esse trasformavano uno stato sociale in sviluppo spontaneo in un destino onnipotente, origine di un culto grossolano della natura il cui carattere degradante si manifestava nel fatto che l’uomo, padrone della natura, cadeva in ginocchio e adorava Hanuman, la scimmia, e Sabbala, la vacca. È vero che l’Inghilterra, nel provocare una rivoluzione sociale nell’Indostan, era mossa dai più bassi interessi ed agiva in modo stupido per raggiungere i suoi fini. Ma non è questo il problema. Il problema è se l’umanità può realizzare il suo destino senza una rivoluzione fondamentale nei rapporti sociali dell’Asia. Se così non fosse, quali che siano stati i delitti dell’Inghilterra, essa è stata uno strumento inconsapevole della storia nel suscitare quella rivoluzione».

«(...) L’India non poteva sfuggire al destino di essere conquistata, e tutta la sua storia, se storia ne ha, è quella delle conquiste successive che ha subito. La società indiana non ha storia, quantomeno storia conosciuta. Quella che chiamiamo sua storia non è se non la storia di invasori successivi che fondarono i loro imperi sulla base passiva di una società immutabile e senza resistenza. Il problema non è quindi se gli inglesi avevano il diritto di conquistare l’India, ma se dobbiamo preferire l’India conquistata dai turchi, dai persiani, dai russi all’India conquistata dai britannici. L’Inghilterra ha una doppia missione da compiere in India: l’una distruttiva, l’altra rigeneratrice: annullare l’antica società asiatica e posare i fondamenti materiali della società occidentale in Asia. Gli arabi, i turchi, i tatari, i mongoli che invasero successivamente l’India, furono ben presto "induizzati", i conquistatori barbari essendo, per legge eterna della storia, conquistati essi stessi dalla civiltà superiore dei loro soggiogati. Gli inglesi furono i primi conquistatori superiori e quindi inaccessibili alla civiltà indù. Essi la distrussero distruggendo le comunità indigene, estirpando l’industria indigena e livellando tutto ciò che era grande ed elevato nella società indigena. La storia della loro dominazione in India non registra quasi null’altro all’infuori di questa distruzione. L’opera di rigenerazione si intravvede appena attraverso un mucchio di rovine. Eppure è già cominciata».
 
 

2. Precondizioni storiche della situazione algerina

Quando nel novembre 1954 scoppiò in Algeria la grande rivolta anti-imperialista la violenza e l’ampiezza della sua esplosione riflettevano l’enorme varietà degli antagonismi suscitati dalla dominazione coloniale nei confronti della società indigena. Per la prima volta, dopo venti secoli di storia, l’intera Algeria partecipava alla lotta contro l’oppressore straniero e in essa il proletariato non solo agiva come forza animatrice ma, senza la degenerazione internazionale del movimento rivoluzionario operaio, avrebbe potuto porre all’ordine del giorno lo storico problema della rivoluzione doppia.

«Ogni rivoluzione dissolve la vecchia società – scriveva Marx in questo senso è sociale. Ogni rivoluzione abbatte l’antico potere: in questo senso è politica». L’assenza del proletariato dei paesi più evoluti dalla scena politica attiva ha confinato la lotta algerina nell’ambito circoscritto dell’eliminazione delle forme precapitalistiche e dell’instaurazione di uno Stato nazionale borghese, quando il fatto stesso che le masse dei proletari senza riserve si trovassero di fronte non già uno Stato nazionale indigeno, che i francesi avevano irrevocabilmente distrutto, ma l’amministrazione coloniale e i rapporti di produzione e di scambio che il capitalismo metropolitano vi aveva importato sulla fascia costiera, creava anche localmente le premesse di una saldatura fra moto "nazionale popolare" e prospettiva socialista.

In realtà, se nel secolo scorso i francesi poterono installarsi sulle coste nord-africane dell’Algeria, e di qui operare a poco a poco la sottomissione del retroterra e la distruzione d’ogni forma di Stato, trasformando le antiche sedi indigene in colonie di popolamento e in bastione principale dell’impero, ciò avvenne perché sviluppi storici secolari avevano spezzato l’unità economico-politico-geografica dell’Algeria rendendo difficile e, alla lunga, addirittura impossibile la persistenza di uno Stato unitario.

Occorre non dimenticare che quando – nel III secolo avanti Cristo – ebbe inizio l’intervento romano nell’Africa del Nord, questa non solo aveva dietro di sé un millennio di storia, ma costituiva – o tendeva ormai a costituire sotto i re numidi, specialmente Massinissa – un’unità economica politica, com’era, di fatto, un’unità geografica, le cui parti vivevano in rapporti d’interdipendenza vitale nel quadro di un paesaggio che conosceva tuttora una fauna e una flora tropicali, mentre i re numidi avevano già operato con successo sia a favore della sedentarizzazione delle popolazioni nomadi dell’entroterra, sia a favore della diffusione delle culture cerealicole.

La politica del "divide et impera" introdotta dai Romani ebbe per effetto, prima, di sventare la minaccia dell’unificazione politica dell’intera regione ad opera dei numidi giocando Cartagine contro Massinissa, poi, distrutta l’ex-amica Cartagine, di annettere la fascia costiera, trasformarla in una vasta zona a monocoltura detenuta da un pugno di grandi proprietari terrieri romani (le "cinque famiglie" di cui parla Plinio) e tagliare l’Africa del Nord, e in particolare l’Algeria, in due regioni profondamente diverse; la prima a Sud, dove regnano il deserto e la steppa, che ad ovest si spingono fino a ridosso della costa, e la seconda a Nord, di là dal limes, che sul litorale montagnoso, più largo ad Est, diventa un paese di sedentari arboricoltori od agricoltori, e di pastori transumanti, nell’atto stesso in cui la flora tropicale si dirada e, mentre le antiche strade nord-sud rimangono bloccate, manca o viene meno ogni collegamento est-ovest.

Nascevano così due mondi eterogenei, che la decadenza dell’Impero rese ancor più estranei e, pur nella comune miseria, incomunicanti. Questo frazionamento d’origini storiche si perpetuò nei secoli – malgrado ripetuti tentativi (il cui epicentro sarà ogni volta non la fascia costiera ma il retroterra) di riunificazione del Maghreb e di costituzione di Stati berberi – prolungandosi sotto le ondate successive degli arabi, dei turchi, dei barbareschi e, infine, delle potenze coloniali, tutte riversatesi sul litorale.

In un certo senso, si può dire che i colonizzatori francesi furono non solo militarmente, ma politicamente gli eredi della tradizione romana: essi, che fanno datare la storia vera dell’Algeria dalla loro occupazione (iniziatasi, com’è noto, nel 1830) distrussero in realtà le ultime possibilità di costituzione di uno Stato nazionale unitario in Algeria, da un lato aggravando lo squilibrio fra litorale Nord e zona desertica Sud, fra i sedentari agricoli e i nomadi (questi ultimi tenacissimi nel difendere la propria indipendenza), e dall’altro sovrapponendovi il contrasto fra i coloni bianchi espropriatori e i contadini sedentari indigeni, in parte espropriati, in parte ridotti in condizioni di dipendenza economica e finanziaria del capitale francese, fra la economia terriera e mineraria capitalista e quelle tradizioni di comunismo primitivo nella Cabilia che erano tuttavia destinate a logorarsi a contatto con le prevalenti forme mercantili, fra proprietà privata e possesso comunitario del suolo: tutto ciò in un processo sanguinoso di cui Rosa Luxemburg tracciò il corso inesorabile.
 
 

3. La prognosi di Engels

La storia dell’Algeria moderna deve partire, per noi, dal "punto fermo" della posizione marxista stabilita da Engels nella lettera a Kautsky del 12 settembre 1882, il cui filo conduttore verrà ripreso dalle Tesi coloniali del II Congresso dell’Internazionale Comunista nel 1920. In questa lettera, dopo aver attaccato con inflessibile violenza il conservatorismo della classe operaia britannica, o almeno della sua aristocrazia nutritasi al grande banchetto imperialista («Non esiste qui partito proletario: non vi sono che conservatori e liberali-radicali, e gli operai divorano con avidità una parte del frutto del monopolio inglese delle colonie e dal mercato mondiale», e chi può dire che l’analisi non si attagli, per disgrazia degli operai di tutto il mondo, alla situazione di oggi?), Engels affronta il problema dell’indipendenza dei paesi extra-europei classificandoli in due categorie distinte cui corrispondono due prospettive generali diverse: «A mio parere, tutte le colonie propriamente dette, cioè i paesi popolati da europei [le cosiddette colonie di popolamento] come il Canada, la colonia del Capo, l’Australia, diverranno indipendenti» – cioè appendici borghesi della madrepatria borghese, nate dal trapianto in territori extra-europei di frazioni avanzate della nascente borghesia metropolitana, compiendo naturalmente, anche se fra le inevitabili "doglie del parto", il passaggio allo Stato nazionale indipendente – «Invece le colonie abitate da indigeni, che gli Stati europei hanno soggiogato, come l’India, l’Algeria, i possedimenti olandesi, portoghesi e spagnoli, dovranno essere presi provvisoriamente a carico dal proletariato e condotti con tutta la rapidità possibile all’indipendenza». Engels non escludeva tuttavia un’altra soluzione, "la migliore per noi": «È possibile, ed anzi molto probabile, che le Indie facciano la loro rivoluzione (...) e la stessa cosa potrebbe verificarsi altrove, per esempio in Algeria e in Egitto».

È evidente che parlando della necessità che le colonie indigene "vengano prese a carico del proletariato", Engels non pensa soltanto alla classe operaia vittoriosa nelle previste rivoluzioni europee e nord-americane, bensì, congiuntamente, alla sola classe che nei territori di colore soggiogati dalle potenze europee possa assumersi, in mancanza di una borghesia nazionale di un certo peso, il compito storico della lotta non pacifica e legale, ma armata, contro l’apparato politico e le strutture sociali dominanti. Era la classica prospettiva della "rivoluzione permanente" di marxiana memoria che, tracciata per l’Europa non ancora borghese del 1848, era a maggior ragione valida nelle colonie, poggiando sull’azione violenta del proletariato come classe mondiale, anche se lottante nel quadro nazionale ereditato dal dominio di classe borghese e perfino pre-borghese. Engels insiste vivamente sul fatto che il proletariato vittorioso non dovrà condurre guerre coloniali: «Noi abbiamo abbastanza da fare in Europa e in America», ma dovrà confidare nel potenziale rivoluzionario dei paesi "semi-civilizzati".

Il proletariato algerino fin dalla nascita dell’Internazionale Comunista nel 1919 era pronto non solo ad assumersi il suo primo compito storico, quello nazional-rivoluzionario, ma ad effettuare il salto verso la rivoluzione socialista e a lavorare "alla soluzione migliore per noi" a fianco del proletariato rivoluzionario delle metropoli. La responsabilità terribile della degenerazione stalinista sta nell’aver spezzato questa necessaria saldatura mondiale abbandonando il moto nazionale in balìa di forze, programmi e soluzioni puramente borghesi.
 
 

4. Da Engels all’Internazionale Comunista

Le colonie di popolamento sono, contrariamente alle colonie "di colore", una sorta di prolungamento della metropoli, di cui riproducono le classi sociali e la divisione del lavoro. L’imperialismo si appropria dei regimi di proprietà e delle strutture esistenti per disgregarli. Padroni del potere politico e degli affari, gli imperialisti fanno di tutto per impedire la nascita di concorrenti in questi territori: tutt’al più essi tollerano dei collaboratori servili da reclutare preferibilmente tra gli strati reazionari (feudali, proprietari fondiari, ecc.). Ridotta all’impotenza, la borghesia locale è oltretutto terrorizzata dal fatto che le masse dei contadini espropriati ed affamati possano lanciarsi nella lotta antimperialista e rivoluzionaria. A questo proposito Fehrat Abbas dichiarava nel 1934: «Il pericolo maggiore che ci minaccia, noi che vogliamo collaborare con il popolo francese, è la rivolta dei fellah che sono pronti ad imbracciare le armi. Il solo mezzo per salvarci è l’accesso dei fellah alla piccola proprietà facilitando il riscatto delle terre». Quanto al proletariato, anche se numericamente debole, vicino com’è alla grande massa dei poveri, sfruttato anch’esso dai capitalisti europei, è sicuramente in una posizione più favorevole di quanto non sia la borghesia per prendere la testa del movimento rivoluzionario.

Va da sé che tra i movimenti nazionali democratici e antimperialisti diretti dalla borghesia e quelli diretti dal proletariato c’è incompatibilità di obiettivi. La vittoria dell’uno o dell’altro dipenderà dalle alleanze che si stabiliranno nel corso della lotta. Se abbiamo ricordato la lettera di Engels è perché, riferendosi esplicitamente all’Algeria, essa basa le prospettive di lotta rivoluzionaria nelle colonie su due premesse fondamentali e permanenti del marxismo, che dovranno illuminare, nel periodo della grande crisi post-bellica, il movimento proletario mondiale.

La prima è che il rapporto di forze favorevole al proletariato mondiale giustificava l’ipotesi di una rivoluzione socialista in Europa e nell’America del Nord, estendendo al piano mondiale l’interpretazione che nel 1850 lui e Marx avevano dato della situazione europea: «Se gli operai tedeschi non possono impadronirsi del potere e far trionfare i loro interessi di classe senza passare per tutto uno sviluppo rivoluzionario di durata assai lunga, essi hanno questa volta per lo meno la certezza che il primo atto del dramma rivoluzionario coinciderà col trionfo diretto della loro classe in Francia e perciò il processo sarà affrettato» ("Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei Comunisti"). Questa previsione sarà fatta propria dall’Internazionale comunista nel 1919: «Già da ora, nelle colonie più sviluppate, la lotta non è più solamente iniziata sotto la sola bandiera dell’affrancamento nazionale (borghese), essa prende immediatamente un carattere sociale, più o meno dichiarato. Se l’Europa capitalista ha trascinato suo malgrado le aree più arretrate del mondo nel vortice delle relazioni capitaliste, l’Europa socialista a sua volta verrà in soccorso delle colonie liberate grazie alla sua tecnica, alla sua organizzazione, alla sua influenza morale al fine di accelerare il loro passaggio alla vita economica organizzata dal socialismo secondo un piano. Schiavi coloniali dell’Africa e dell’Asia: l’ora della dittatura proletaria in Europa suonerà per voi come l’ora della vostra emancipazione!».

La seconda premessa è che l’erosione dei rapporti produttivi e sociali esistenti nelle colonie provocherà di rimbalzo l’insurrezione armata delle masse oppresse ed espropriate, e che il proletariato coloniale, proiettato all’avanguardia del moto anti-imperialista, farà valere nel fuoco della guerra comune le proprie aspirazioni finali, necessariamente diverse da quelle delle masse piccolo-borghesi e democratiche, e getterà sulla bilancia il peso di un’organizzazione di partito decisa «a rendere permanente la rivoluzione finché tutte le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal potere» come, secondo l’Indirizzo del 1850, doveva e poteva fare il proletariato dei paesi europei in cui la rivoluzione borghese attendeva ancora di essere compiuta: «L’atteggiamento del partito operaio rivoluzionario di fronte alla democrazia piccolo borghese è il seguente: marcia con essa contro la frazione di cui egli persegue la caduta; combatte su tutti i fronti ove essa persegue i suoi scopi per se stessa (...) Perché possano costituire una minaccia per questo partito, che tradirà i lavoratori fin dalla prima ora della vittoria e li contrasterà energicamente, bisogna che gli operai siano armati e organizzati». Lungi dall’incitare il proletariato ad arruolarsi sotto le bandiere della borghesia (nei paesi in cui la rivoluzione borghese non è ancora compiuta), Marx ed Engels lo spingono alla recisa rivendicazione dell’autonomia politica ed organizzativa.

Su questa stessa premessa si fondano le tesi supplementari sulla Questione nazionale e coloniale votate al II Congresso dell’Internazionale Comunista nel 1920: "Esistono nei paesi oppressi dall’imperialismo due movimenti che ogni giorno si separano sempre più: il primo è il movimento nazionalista borghese-democratico, il cui programma è l’indipendenza politica, fermo restando l’ordine sociale borghese; l’altro è quello dei contadini poveri e arretrati e degli operai, che lottano per la propria emancipazione da qualunque sfruttamento. Il primo tenta, e spesso, in una certa misura vi riesce, di controllare il secondo. Ma l’I.C. e i partiti che vi aderscono devono combattere contro questo controllo e promuovere lo sviluppo della coscienza di classe nelle masse lavoratrici dei paesi coloniali. Il primo passo della rivoluzione nelle colonie deve essere l’abbattimento del capitalismo straniero; ma il compito più urgente ed importante è la creazione di una organizzazione comunista dei contadini e degli operai per condurli alla rivoluzione e all’insediamento della repubblica dei Soviet (...) L’I.C. deve stringere rapporti ed anche alleanze temporanee con i movimenti rivoluzionari emancipatori nelle colonie e nei paesi arretrati, ma non deve fondersi mai con essi e deve salvaguardare sempre il carattere indipendente del movimento proletario perfino nella sua forma più embrionale».
 
 

5. Basi economiche della rivoluzione algerina

Nel 1863, la cifra di 20.968.877 ettari era servita di base per l’applicazione del senato-consulto imperiale sulla ripartizione della terra. I fondamenti dell’attuale legislazione in merito datano a quell’epoca. Sulla cifra totale, 550.835 ettari erano senza valore per l’agricoltura e dichiarati demanio pubblico; 4.575.117 ettari appartenevano allo Stato che se li riservò in favore della colonizzazione diretta, poi privatizzata; le comunità possedevano 4.458.805 ettari, di cui solo 223.000 coltivabili che dovevano essere assegnati ai fellah; infine 11.384.120 ettari erano proprietà privata, di cui 6.800.000 arativi e 4.584.120 a pascoli e boschi. Considerato che sui 6.800.000 ettari di terre coltivabili, circa 2.400.000 sono a maggese e a riposo, i terreni coltivati ammontano in Algeria a soli 4.400.000 ettari, ossia al misero 21% della superficie totale.

La colonizzazione francese ha quindi trasferito le terre del Grande Turco allo Stato francese, che le ha poi cedute per buona parte ai coloni, come dimostrano i dati relativi alla superficie posseduta in proprietà privata dagli europei: 115.000 ettari nel 1850, 765.000 nel 1870, 1.635.000 nel 1890, 2.317.000 nel 1917, 3.028.000 nel 1954. Se dai 4.575.117 ettari di cui lo Stato francese si era appropriato, mediante cavilli di tipo giuridico, a scapito delle associazioni familiari cabile e delle terre collettive delle tribù, si detraggono 715.00 ettari di terre improduttive e 2.157.00 ettari di zone forestali risulta che lo Stato ha ceduto ai coloni 1.700.000 ettari, ai quali va aggiunto almeno il 15% della superficie forestale in mano a coloni e società. Non basta. La popolazione europea, attiva e non, che vive dell’agricoltura era nel 1954 di 93.000 persone, mentre risultava di 221.230 nel 1911 e di 123.000 nel 1948, cosicché, se all’inizio del secolo essa costituiva oltre un terzo della popolazione europea complessiva presente in Algeria, nel 1962 ne rappresentava appena la decima parte. Per contro, in sessant’anni la proprietà europea era aumentata di oltre il 50% passando da 1.846.000 a 2.726.000 ettari, raggiungendo la sua massima estensione e concentrazione. Aveva occupato il massimo di terre adatte al suo modo di produzione e compresso, al di là di ogni sopportabile limite, l’agricoltura arcaica algerina.

Accaparrandosi le zone più produttive e impiantando le grandi aziende sulle terre più fertili, i coloni orientavano le produzioni verso l’esportazione, mentre i contadini algerini venivano sempre più spinti verso le zone aride dell’interno o costretti a vendere lo loro forza lavoro come salariati o mezzadri. Introducendo delle leggi che facevano della terra un articolo di commercio, il colonialismo minò alla radice i legami comunitari e peggiorò le condizioni di vita dei contadini. Gli sviluppi del capitalismo agrario produssero una forte concentrazione della proprietà della terra, soprattutto nelle mani di una minoranza di grossi coloni. Alla vigilia dell’indipendenza 22.000 aziende europee disponevano di 2.700.000 ettari, ossia di un quarto di tutta la terra agricola (ben il 40% della terra effettivamente coltivata), con una superficie media aziendale di 122 ettari. Questo settore forniva da solo il 65% della produzione agricola del paese. Per contro, con una evidente sproporzione, 630mila aziende algerine disponevano di 7.340.000 ettari di terre, spesso assai povere, con una superficie media di 12 ettari per azienda.

Per dissodare o estendere le loro terre i coloni non hanno esitato a bruciare intere foreste. L’Enciclopedia Britannica del 1911 riportava a questo proposito un rapporto del consolato inglese ad Algeri che stimava in circa sei milioni gli alberi distrutti dai coloni. La distruzione delle foreste ha portato con sè l’aumento della siccità in vasti territori del paese con grave danno per l’agricoltura. Inoltre, appropriandosi dei pascoli, dei boschi e delle foreste lo Stato francese ha minato le basi dell’economia di allevamento. Il tentativo di favorire una colonizzazione in gran parte è fallito perché le colture che si volevano introdurre o non hanno attecchito o non hanno avuto la redditività sperata dai coloni. La decadenza dell’agricoltura è, come si sa, un fenomeno tipico dell’economia capitalistica. Le prospettive di un miglioramento qualitativo del suolo sono ormai pressoché nulle, accentuandosi ovunque i processi di erosione. Così la politica di costruzione di grandi dighe è frenata dalla minaccia dell’interramento: si calcola che l’ammortamento deve avvenire in 50 anni, prima che il bacino risulti interamente ricolmo della parte solida delle alluvioni. L’agricoltura intensiva, oltre a degradare il suolo, il più delle volte irrimediabilmente per la stessa economia mercantile, non reca alcun vantaggio all’enorme settore della piccola agricoltura locale.

Parallelamente all’estensione e alla concentrazione della proprietà fondiaria capitalistica, la meccanizzazione nell’agricoltura ha fatto progressi spettacolari. Fra il 1939 e il 1955 il numero delle mietitrebbiatrici è aumentato di oltre 7 volte; quello dei trattori di quasi 4 volte. Questa situazione si ripercuote evidentemente sulla manodopera agricola. L’arcaico istituto del kahmessat (mezzadria a 1/5) tende rapidamente a scomparire senza che la manodopera salariata aumenti di altrettanto.

Le cause profonde del conflitto algerino vanno ricercate nelle trasformazioni apportate dal capitalismo francese alla struttura della proprietà fondiaria ereditata dal demanio turco. I dati dimostrano che il capitalismo non ha soppiantato dovunque la proprietà locale arcaica, che continua a sussistere in zone immense sia pure sotto forme degenerate e sopravissute. Ma appena affermata l’agricoltura capitalista inizia già il suo declino, come dimostrano le cifre sulla produzione agricola. La proprietà privata si è sviluppata assumendo nelle grandi fattorie, di proprietà di europei o di nativi, un carattere pienamente capitalistico: oltre alla terra, agli strumenti e ai prodotti è diventata merce la stessa forza lavoro. Sotto i turchi esisteva un vasto e florido settore di proprietà comunitaria, "formidabile ponte verso il comunismo superiore"; sotto la dominazione francese questo settore è caduto in rovina. Ma, a sua volta, la proprietà capitalista ha fatto nascere il suo becchino, il proletariato. Qui la causa della situazione "esplosiva" dell’Algeria moderna.

Le statistiche ufficiali distinguono fra azienda "europea" e azienda "musulmana". Noi, partendo dal criterio corrente di considerare capitalistiche tutte le aziende agricole superiori ai 50 ettari, distingueremo solo fra settore capitalista – nel quale metteremo insieme "europei" e "musulmani" – e settore precapitalistico. Una soluzione politica corrispondente a questo schema si può osservare in Tunisia e nel Marocco dove la grande proprietà fondiaria capitalistica degli europei è rimasta intatta accanto a quella degli autoctoni. Essa sarà vista con favore, in seno all’ FLN, dai rappresentanti della grande proprietà algerina e dell’industria alimentare ed estrattiva che vi è legata. Va però subito anticipato che il peso dei contadini poveri (gli elementi radicali dell’FLN) non vi sarà affatto trascurabile. In Tunisia e nel Marocco la soluzione di compromesso è stata possibile perché la proprietà comunitaria – che svolge ora un ruolo reazionario di stabilizzazione del contadiname, analogo a quello svolto dalla proprietà privata parcellare dell’Europa occidentale – era meno dissolta che in Algeria. Paradossalmente, sono proprio i numerosi coloni europei che, appropriandosi delle migliori terre dei nativi, hanno contribuito alla soluzione esplosiva specifica dell’Algeria rispetto agli altri territori nord-africani: è questo il segreto di un paese nel quale la lotta antimperialista ha assunto la forma più violenta e che si rivelerà decisivo.

Ecco la tabella (ripresa da Il Programma Comunista n. 7/1961) con dati forniti dalle statistiche ufficiali:
 

Superficie in migliaia di ettari
Aziende agricole di: Europei Autoctoni Totale
Inferiori a 1 ha  0,8 37,2 38,0
Da 1 a 10 ha  21,8 1.341,3 1.363,1
Da 10 a 50 ha  135,3 3.185,8 3.321,1
Da 50 a 100 ha  186,9 1.096,1 1.283,0
Più di 100 ha  2.381,9 1.688,8 4.070,7
Totale 2.726,7 7.349,2 10.075,9

Adottando il criterio di cui sopra, il settore capitalista (composto anche di piccole aziende ortofrutticole europee a coltura intensiva) comprende grosso modo, fra aziende di coloni e di nativi, 5,5 milioni di ettari contro i 4,5 milioni del settore precapitalista. Mentre i principali settori della produzione agricola così si ripartivano la terra:
 

Superficie in migliaia di ettari

  Autoctoni    Europei 
Riposo o a maggese  1.800.000  650.000
Cereali estivi e invernali 2.670.000  910.000
Legumi  80.500  42.000
Vigneti  42.000 356.000
Agrumi  4.000 29.000
Alberi da frutto 164.000 35.000
Ortaggi  28.000  27.000
Foraggiere 96.500  103.000

Va precisato che i 910.000 ettari (un quarto del totale) coltivati a cereali dagli europei con metodi razionali producono oltre 8 milioni di quintali (la metà dei quali è costituita di grano tenero destinato all’esportazione), mentre i 2.670.000 ettari (tre quarti del totale) coltivati per la maggior parte con metodi tradizionali non forniscono più di 11-12 milioni di quintali (soprattutto di grano duro destinato all’autoconsumo). Oltre a quelle cerealicole, le colture più redditizie per i coloni sono quelle della vite, degli agrumi e degli alberi da frutto (su 142 miliardi di valore della produzione agricola, 50 provengono dalla vite, 16,5 dagli agrumi, 20 dagli alberi da frutto).

Per quanto riguarda la coltivazione della vite, basta uno sguardo alla tabella per vedere che solo 1/10 della superficie dedicata ai vigneti appartiene ai musulmani. La filossera che distruggeva i vigneti francesi spinse allo sviluppo della viticoltura in Algeria. Il Tell si coprì di vigneti: 810 ettari nel 1850; 15.000 nel 1878; 167.000 nel 1903; 226.000 nel 1929; 400.000 nel 1955. È interessante notare la concentrazione: nel 1930 nella piana della Mitidja più della metà della superficie totale coltivata a vite era costituita da proprietà superiori a 100 ettari; nella provincia di Orano 130 vigneti superiori a 100 ettari coprivano il 43% della superficie totale. Inutile dire che la quasi la totalità del vino prodotto era esportata in Francia (nel 1953 su 18 milioni di ettolitri prodotti solo 2 erano consumati in Algeria).

Paragonando la produzione del 1911, del 1938 e del 1953 nei settori base dell’alimentazione, si constata che essa è diminuita notevolmente come quota per abitante. Poiché qui interessa la produzione globale, non distinguiamo fra produzione di europei e di algerini: della partecipazione effettiva dei due gruppi al consumo globale è facile prevedere che sono soprattutto i fellah e buona parte della popolazione autoctona delle città a mangiar di meno. Data la scarsa tecnica agricola dei fellah, la produzione cerealicola totale è scesa, dal 1886 al 1953, da 1,6 milioni a 1,2 milioni di tonnellate. Considerato che nel frattempo la popolazione araba è cresciuta da 3,3 a 7,7 milioni, la produzione di cereali pro capite è crollata da 500 a 155 kg. Nel 2001 (popolazione 29 milioni) la produzione pro capite è ulteriormente scesa a 138 kg.
 

Produzioni in migliaia di q. (per olio hl.)

1911 1938 1953

  Tot.  kg/ab.   Tot.  kg/ab.   Tot.  kg/ab.
Grano 9080 163,0 9560 132,0 11360 119,2
Orzo 9680 174,0 7220 99,8 7907 83,0
Patate 437 7,3 763 10,6 2442 25,8
Mais 140 2,5 142 2,0 124 1,3
Legumi 392 7,0 332 4,6 579 6,0
Datteri 392 7,0 874 12,2 1019 10,7
Olio d’oliva 179 3,2 174 2,4 289 3,0

La stessa diminuzione si è avuta nel settore dell’allevamento, che costituisce l’attività principale degli algerini, dove la decadenza colpisce non solo il rapporto fra numero di bestie per abitante, ma anche il patrimonio zootecnico assoluto. All’inizio del secolo si contavano 1,84 montoni per abitante, nel 1960 solo 0,60. A partire dagli anni ’30 del ventesimo secolo l’agricoltura algerina non sarà più in grado di nutrire tutti gli algerini né di creare nuova occupazione. La decadenza dell’agricoltura, è aggravata nel caso algerino dall’elevato tasso di incremento demografico (nel 1960 calcolato al 28 per mille, tre volte quello degli europei d’Algeria). Nel 1954 si parlava di un milione di disoccupati agricoli! La popolazione rurale eccedente, spinta dalla miseria e dalla fame, si affollava nelle bidonvilles della costa (Costantina in 50 anni triplica la sua popolazione, Orano la sestuplica, Algeri la settuplica), o emigrava in Francia, dove gli algerini vanno a costituire il 13-15% della popolazione maschile adulta.

Gli algerini espropriati affluiscono nelle città, dove entrano in concorrenza con i "privilegiati" operai europei che godono di diritti negati agli algerini. La concorrenza tra i lavoratori europei e l’immenso esercito dei senza-terra algerini finisce per acuire il conflitto tra le due comunità: la lotta di classe assumerà fatalmente la forma della lotta razziale e nazionale.

La situazione dell’Algeria all’inizio della guerra di liberazione è così riassunta da Le Monde in un articolo del 24 novembre 1955: «La parte moderna del paese si basa sugli europei (un milione) ai quali si sono integrati 800mila musulmani. Quest’insieme costituisce un quinto di tutta la popolazione e assicura il commercio, l’industria, i trasporti, le professioni liberali, l’agricoltura d’esportazione, la burocrazia. Gli altri, oltre 7 milioni di persone, continuano a vivere grosso modo come prima in circuito chiuso (consumano ciò che producono). Un milione di algerini è senza lavoro: 800mila nel Bled, 100mila nelle città, 100mila in Francia. La disoccupazione tende ad aggravarsi a causa dell’incremento della popolazione (il tasso di mortalità è diminuito grazie ai progressi non dell’igiene ma della medicina, che costituisce l’opera più notevole dei francesi in Algeria) e della drastica riduzione dei lavori di manutenzione, che sono stati ridotti al minimo dai coloni. Più della metà degli abitanti dell’Algeria vive in tuguri tradizionali costruiti a base di ramaglia e argilla e non conosce il francese. Per quanto concerne la situazione industriale, vi sono 200mila operai algerini in Francia e altrettanti in Algeria, dove per tre quarti sono occupati nei settori dei lavori pubblici e dell’edilizia e per il resto nelle miniere e nelle industrie leggere di trasformazione.

«Nel campo agricolo, l’esodo rurale non deriva come in Francia da un bisogno di manodopera urbana, ma è provocato dalla sterilità crescente del suolo. Gli europei con interessi nell’agricoltura, pur essendo una piccola minoranza, sono dominanti economicamente e politicamente. La maggior parte degli europei sono commercianti, impiegati, funzionari, operai, oppure esercitano professioni liberali. Tra i grossi proprietari un numero apprezzabile è costituito da musulmani, che da dieci anni a questa parte stanno riscattando la terra di proprietà degli europei.

«Occorre distinguere due tipi di agricoltura: l’agricoltura che utilizza i procedimenti tecnici moderni, orientata verso l’esportazione nella Francia continentale, e che non apporta alla popolazione altre risorse oltre ai salari; e l’agricoltura tradizionale volta a soddisfare il consumo familiare. L’agricoltura moderna ha beneficiato dopo la guerra di costosi lavori d’irrigazione, rimasti tuttavia inutilizzati: il volume dell’acqua venduta e la superficie irrigata non aumentano, mentre la superficie potenzialmente irrigabile aumenta di anno in anno. La maggior parte dei progressi tecnici non si accompagnano alla meccanizzazione, ossia alla riduzione di manodopera. Ritornano d’attualità i progetti di riforma agraria: espropriare i grossi coloni e distribuire le terra ai fellah poveri. Ma senza uno sforzo di educazione generale e tecnica questa operazione finirebbe per tradursi in un regresso economico.

«Nel 1950 la popolazione europea attiva nell’agricoltura non assommava che a 130mila persone, ossia al 14% di tutti gli europei presenti in Algeria, mentre la popolazione musulmana ammontava a 6,3 milioni di persone. I 130mila europei, impiegando manodopera araba, occupano il 15% delle terre – le migliori – mentre ai 6 milioni di musulmani va il 30% delle terre coltivabili. Nel 1954 la superficie media della proprietà europea era di 125 ettari, la superficie media di quella musulmana di 8-10 ettari (ma in Cabilia di sole 36 are!). Ora, per assicurare il minimo vitale di una famiglia sono necessari 20 ettari, di cui 10 a pascolo e maggese! I 6 milioni di ettari di terre coltivabili posseduti dai musulmani avrebbero dovuto almeno raddoppiare perché la popolazione potesse passare dalla miseria nera ad una povertà "decente". Infatti nel quadro della piccola proprietà le condizioni tecniche possono migliorare assai lentamente. Ma, si dirà, la proprietà degli europei non occupa che 3 milioni di ettari! E negli accordi di Evian l’FLN aveva promesso di rispettare la proprietà degli europei! Fortuna volle che l’OAS terrorizzò talmente gli europei che questi se ne fuggirono precipitosamente!

«Al primo gennaio 1955 l’insegnamento primario riguardava 480mila allievi: 180mila bambini europei dai 5 ai 14 anni, e 300mila (su 2,4 milioni, uno su otto) bambini musulmani della stessa età. Nel censimento del 1948 solo un musulmano su dieci aveva dichiarato di saper parlare il francese. I servizi pubblici sono ancora allo stato embrionale; la rete stradale è a maglie larghe; gli edifici scolastici sono inferiori al 10 per cento del fabbisogno».

Un’analisi anche superficiale dei dati riguardanti le classi sociali (numero delle famiglie e degli individui, reddito pro-capite, raffronto con le stesse categorie in Francia) mostra che i ceti privilegiati europei e i loro omologhi indigeni hanno una base di interessi comuni, mentre una grandissima parte della popolazione algerina non rientra in nessuna classe definita perché è stata privata dal capitalismo europeo di qualsiasi base economica di esistenza. Ciò spiega e la violenza della rivolta e la confusione dei suoi obiettivi. Un proletariato più forte sotto la direzione di una Internazionale rivoluzionaria avrebbe potuto ben altrimenti dirigere la rivoluzione, di fronte alla quale la borghesia algerina ha invece rinculato. Già allora la nostra stampa di partito aveva previsto le difficoltà che il futuro Stato algerino avrebbe incontrato nello sviluppo industriale e l’impossibilità di assorbire la popolazione rurale eccedente, che le statistiche borghesi valutano ancora oggi in 780mila uomini e che è destinata ad aumentare di pari passo con la decadenza del settore agricolo rispetto a quello industriale, come è norma in ogni capitalismo.

Nessun paese dell’area araba ha finora risolto il problema sociale della sovrappopolazione rurale. Per l’Algeria, la sola prospettiva di liberazione effettiva restava, nel 1961 come nel 1919 e come oggi, quella formulata dall’Internazionale Comunista nei suoi primi congressi: la liberazione delle forze produttrici di tutti i paesi dalle strette tenaglie degli Stati nazionali mediante l’unione di tutti i popoli avanzati o ex-colonizzati in una serrata collaborazione economica e conformemente a un piano economico comune. Ma il piano economico comune, in politica, è la dittatura universale del proletariato.

La borghesia algerina, costituita soprattutto da proprietari fondiari, non sarebbe mai scesa in lotta per l’indipendenza nazionale senza la pressione incontenibile delle masse popolari. Troppi interessi economici la legavano alla borghesia francese e troppo grande era la sua paura di fronte all’enorme massa dei diseredati e dei proletari, frutto di quella colonizzazione a cui essa, in fondo, si adattava. Il raggiungimento dell’indipendenza le avrebbe imposto l’obbligo di ristabilire l’ordine contando sui suoi soli mezzi. Ciò avrebbe significato il ricorso all’esercizio aperto del terrore per la sua impossibilità di realizzare quella riforma agraria che restituisse la terra agli espropriati, condizione di base per la loro sopravvivenza economica. Questa la ragione dei continui compromessi della borghesia algerina e dei patteggiamenti del Governo provvisorio algerino con l’imperialismo francese. L’Algeria, a differenza del Marocco, non si è mai saputa dotare di forme di organizzazione della produzione suscettibili di evolvere, anche se tardivamente, verso strutture che richiedessero uno Stato nazionale. La pietrificazione delle forme sociali fino alla metà del XIX secolo ci aiuta a comprendere come e perché, su questa terra ingrata, la conquista francese si è dovuta scontrare con la resistenza secolare di sopravvivenze del comunismo tribale.

Negli anni ’50 del novecento il nostro partito affermava che la produzione agricola avrebbe potuto tener dietro all’incremento della popolazione solo mediante notevoli investimenti di capitale finanziario internazionale. Occorrevano grandi dighe, sistemi di irrigazione e lavori di drenaggio. Il nuovo potere uscito dalla guerra d’indipendenza avrebbe avuto di fronte lo stesso dilemma del potere coloniale del 1830: immobilizzare grandi investimenti nel settore agricolo, con scarsi ritorni, oppure investire nell’industria, che avrebbe significato sacrificare l’agricoltura, ma anche una rotazione più rapida del capitale e redditi più elevati. La previsione fu che l’Algeria non avrebbe risolto il problema della disoccupazione e non sarebbe uscita dal ruolo di paese mono-industriale fornitore di materie prime. Per questo ci aspettavamo che l’Algeria diventasse la "polveriera" del Nord Africa. Diverse considerazioni erano sottese a questa previsione. Innanzitutto, l’Algeria era un piccolo paese con infrastrutture poco sviluppate e con risorse umane e naturali limitate, ad eccezione del petrolio e del gas naturale. Non avrebbe potuto quindi industrializzarsi senza l’apporto di grossi investimenti ad opera del capitale finanziario internazionale. Ma i costi di produzione in un paese sottosviluppato, per l’assenza di infrastrutture e di manodopera qualificata, sono più elevati che in un paese sviluppato, difetti non controbilanciati dal basso costo della manodopera non qualificata. Di fatto nessun investimento internazionale verrà effettuato, salvo che nell’industria petrolifera, l’unico settore che interessa e che dà profitti. Le somme concesse dai grandi Stati imperialisti che commerciano con l’Algeria (Francia, Stati Uniti, Italia) non saranno investimenti di capitali nell’industria, ma semplici prestiti a breve per ripagarsi lo loro merci.

Un’altra considerazione importante era che senza una riforma agraria radicale non si poteva sperare nell’industrializzazione dell’Algeria. Una riforma agraria rivoluzionaria avrebbe permesso, stimolando la produzione agricola, di creare un mercato nazionale con l’arricchimento dei fellah. Ma sulle capacità della rivoluzione algerina di affrontare una tale riforma era lecito nutrire qualche dubbio. La borghesia algerina, soprattutto la borghesia agraria, benché numericamente debole, non era affatto trascurabile. Le fattorie di proprietà degli autoctoni con estensione fino a 500 ettari rappresentavano quasi il 28% delle terre di tutte le aziende agricole, che diventa il 37% a considerare le sole aziende di autoctoni. Questa borghesia algerina, costretta a prendere la testa della rivoluzione di fronte al rifiuto categorico di qualsiasi compromesso da parte della Francia, non tarderà a manifestare il sacro terrore delle masse insorte, nonché tutte le sue reticenze a mettere in discussione i rapporti di proprietà nell’agricoltura, considerata la vastità dei propri interessi nel settore.

Fin dall’inizio si poteva quindi prevedere che l’Algeria sarebbe restata un paese a carattere mono-industriale (petrolio, gas naturale e un po’ d’acciaio), un fornitore di materie prime e di manodopera a buon mercato per i grandi Stati imperialisti, e un crescente importatore di prodotti agricoli ed industriali.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

III.

L’INSURREZIONE ALGERINA, RIVOLUZIONE TRADITA DEL PROLETARIATO AGRICOLO E DEI FELLAH (1954-1962)

1. Storia moderna del proletariato algerino

Alla fine del XIX secolo le potenze europee vivono una fase di acuta rivalità: l’Inghilterra vuole il controllo di Gibilterra; la Francia aspira al dominio del Maghreb ai danni della Spagna, che con la regione ha da sempre legami storici e politici; la Germania e l’Italia, ultime arrivate nell’agone capitalista, vogliono anch’esse un posto al sole. Nella Conferenza internazionale di Algesiras (aprile 1906), dopo tre mesi di intense lotte diplomatiche tra le potenze partecipanti (Francia, Germania, Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Italia, Spagna, Austria, Belgio, Olanda, Svezia, Portogallo e Marocco), su intesa franco-inglese osteggiata dalla Germania, la Francia ottiene un mandato che le affida il controllo dello Stato e dell’economia del Marocco. Subito dopo la Conferenza, la Francia cominciò ad organizzare l’occupazione della maggior parte delle regioni del paese (l’esercito francese sbarcherà nell’agosto 1907 a Casablanca), scontrandosi con la Spagna e soprattutto con la Germania che aveva interessi politici ben precisi in Marocco. L’arrivo il primo luglio 1911 di una cannoniera tedesca nel porto di Agadir segnò l’inizio di un grave conflitto internazionale che così Lenin commentò: "Germania al limite di una guerra con Francia e Gran Bretagna. Marocco spartito". La stampa tedesca spingeva per una guerra contro la Francia dicendo che la storia andava scritta non con l’inchiostro ma con l’acciaio. I negoziati franco-tedeschi cominciati il 10 luglio si conclusero il 4 novembre 1911 con un accordo con cui la Germania riconosceva il protettorato francese sul Marocco in cambio di 275mila kmq di Congo francese. Un peso notevole in questo accordo lo giocarono il crollo della Borsa di Berlino provocato dalle banche francesi e una serie di dimostrazioni proletarie contro la guerra. Nel 1912, su pressione francese, il sultano del Marocco, spaventato dalle rivolte tribali che dal 1904 infiammavano il paese, accettò il trattato di Fez che istituiva il protettorato sull’intero territorio marocchino: venivano fissati i confini fra una zona settentrionale e una zona meridionale, che con accordo separato venne ceduta dalla Francia alla Spagna, mentre Tangeri rimaneva sotto controllo internazionale. Il Marocco perdeva così la sua indipendenza e la sua integrità territoriale.

L’affaire Marocco, che completava l’accerchiamento dell’Algeria, portò negli anni precedenti alla Prima Guerra mondiale ad un rafforzamento della Francia. Rosa Luxemburg al Congresso di Jena del 1911 aveva attaccato aspramente l’atteggiamento cedevole tenuto dal partito socialdemocratico durante la crisi marocchina: «L’invio di una cannoniera tedesca ad Agadir e l’intromissione violenta del Reich tedesco nell’avventura marocchina avrebbe dovuto suscitare il nostro intervento, vederci sviluppare un’azione contro il pericolo della crisi marocchina». Invece i continui cedimenti della Socialdemocrazia avrebbero portato al trionfo completo dell’imperialismo nella carneficina della Prima Guerra mondiale.

Alla fine della guerra i vincitori inglesi e francesi hanno il dominio di tutto il Mediterraneo. Anche la Turchia, considerata dal marxismo un punto vitale per la causa rivoluzionaria, rischia di perdere la sua indipendenza. L’Inghilterra si sente ormai talmente sicura da farsi alfiere dell’unità araba, con la mira neppure tanto nascosta di assumere il controllo di tutto il Medio Oriente. Libano e Siria si avviano a diventare il classico punto di frizione tra i due imperialismi.

Intanto in Algeria il reclutamento della carne da cannone per la guerra mondiale aveva provocato una viva resistenza, e il prestigio francese aveva subito nelle trincee una scossa violenta (i 173mila algerini arruolati nell’esercito francese ebbero 36mila caduti e i 155mila francesi d’Algeria 22mila). Inoltre tra il 1914 e il 1918 decine di migliaia di operai algerini furono trasferiti nelle miniere e nelle industrie francesi, coercitivamente o per "libera scelta", ai quali si aggiunsero vaste correnti migratorie provocate dall’impoverimento delle campagne e dalla crescente disoccupazione. L’emigrazione fu facilitata dall’abolizione dell’autorizzazione all’espatrio nel 1919. Chi non emigrava in Francia cercava fortuna in città, dove però si doveva scontrare con i coloni che si opponevano ferocemente a qualsiasi miglioramento delle condizioni sociali della popolazione locale e a chiunque cercasse di ritagliarsi uno spazio nella società coloniale.

La ripresa alla scala internazionale della lotta rivoluzionaria sull’onda dell’Ottobre russo infiammò anche le masse algerine guadagnandole alla causa della rivoluzione. I pochi deputati comunisti che tenevano riunioni in Algeria vi incontravano un entusiasmo indescrivibile. Ma la sconfitta del proletariato rivoluzionario in Europa centrale e la degenerazione dei partiti comunisti fece calare una pietra tombale su qualsiasi progetto di emancipazione. Il Partito Comunista Francese era nato nel 1921 al Congresso di Tours dalla scissione del Partito socialdemocratico. In Algeria, la maggior parte delle federazioni socialiste avevano aderito al PCF e all’Internazionale Comunista, nonostante che una clausola dello Statuto obbligasse i partiti aderenti a "sostenere, non a parole ma nei fatti, ogni movimento di emancipazione nelle colonie e di esigere l’espulsione dalle colonie degli imperialisti metropolitani". Di fatto, però, il PCF e la totalità delle sue sezioni algerine si opponevano a qualsiasi forma di nazionalismo indigeno, negando il programma della rivoluzione doppia stabilito dai deliberati del II e del III Congresso mondiali. Questi pseudo-comunisti sostenevano che l’emancipazione delle colonie dovesse essere subordinata alla rivoluzione metropolitana, e quindi condannavano l’appello del Comintern alla sollevazione dei popoli colorati! Campione e principale teorico di questo orientamento "euro-centrista" era allora Serrati. Indicativo del razzismo che sta alla base di questa posizione sedicente "marxista" è l’episodio occorso alla sezione algerina del PCF a Sidi-Bel-Abbes, che a un’inchiesta del Partito rispose: «Gli indigeni del Nord Africa sono per la maggior parte arabi refrattari all’evoluzione economica e sociale, morale e intellettuale indispensabile agli individui per creare uno Stato autonomo» (La Lutte Sociale, 7 maggio 1921). Per questi signori qualsiasi sollevazione araba si sarebbe risolta soltanto in massacri indiscriminati che avrebbero fatto rinculare la storia. Anche nell’organizzazione sindacale CGTU si udiva spesso dire che «il sindacalismo è buono, ma non per gli arabi» (ABC du syndicalisme, Algeri 1924).

Durante la guerra marocchina del Rif (1921-26), che oppose l’esercito francese a un capo tribù locale, Abd el-Krim, il Partito Comunista Francese non condusse alcuna seria agitazione fra le truppe, pur esprimendosi a parole a favore dei rivoltosi, scontentando gran parte dei militanti "colonialisti", che per questo motivo lasciarono il partito. La guerra del Rif servì da modello ai movimenti d’indipendenza di molti paesi colonizzati: Ho Chi Minh riconobbe in Abd el-Krim un precursore. Il Rif è una regione del Marocco settentrionale di circa 30.000 kmq situata a sud di Tangeri, una zona montuosa e accidentata abitata da popolazioni sedentarie, per la gran parte di origine berbera, un territorio da sempre teatro di conflitti tribali. Nel maggio 1926, dopo un’accanita resistenza, Abd el-Krim, berbero e letterato arabo, dovette arrendersi alle truppe francesi e fu esiliato a Réunion, da dove fuggì vent’anni più tardi, nel 1947, per fondare al Cairo il Comitato di liberazione del Maghreb arabo insieme al tunisino Bourghiba e ai leader nazionalisti marocchini. Dopo il 1930 la rivolta delle masse contadine del Rif fu sostituita dal movimento delle élites urbane nazionaliste. Il Marocco raggiunse l’indipendenza il 2 marzo 1956, dopo che l’insurrezione algerina del novembre 1954 aveva costretto Francia e Spagna a optare per la soluzione politica. In occasione dell’indipendenza marocchina, Abd el-Krim denunciò di tradimento gli accordi di Evian. Morirà al Cairo nel 1963.

Già nel marzo 1926, Hadj Abd el-Kader, membro del comitato direttivo del PCF, aveva fondato a Parigi un’organizzazione di lavoratori magrebini, l’Etoile nord-africaine (ENA), che all’inizio attecchì soprattutto fra gli operai arabi algerini: reclutando i suoi aderenti nello stesso PCF arriverà a contare nel 1931 ben 40mila membri. L’ENA era un’organizzazione rigorosamente laica e aveva un programma essenzialmente sindacale, teso alla difesa degli interessi materiali, morali e sociali dei nordafricani. Sotto la direzione di Messali Hadj acquisterà un carattere più nazionalista: nel Congresso indetto nel 1927 a Bruxelles dalla Lega contro l’oppressione coloniale rivendicherà la rivolta contro la dominazione francese e l’indipendenza nazionale dell’Algeria. Messali, originario di Tlemcen, nell’est algerino, era emigrato nel 1923 a Parigi dove lavorava come operaio. Denuncerà ben presto lo sciovinismo caporalesco di Marcel Cachin, svincolando l’ENA dal PCF. L’Etoile, formatasi nell’emigrazione algerina della regione parigina a contatto con il proletariato francese, deve affrontare il cupo ambiente controrivoluzionario degli anni ’30. Come risulta dal suo programma del marzo 1933, propugnava non solo l’indipendenza totale dell’Algeria e quindi l’espulsione dell’esercito d’occupazione, ma una serie di misure economiche da prendersi non appena conquistato il potere, che ricordano molto da vicino gli "interventi dispotici nell’economia" raccomandati dal Manifesto del 1848 alla classe operaia vittoriosa e costretta ad assumersi compiti non ancora pienamente socialisti: nazionalizzazione delle banche, delle miniere, delle ferrovie, dei porti e dei servizi pubblici; confische delle grandi proprietà accaparrate non solo dagli occupanti francesi ma dai loro alleati feudali e trasferimento delle stesse ai contadini; ritorno allo Stato dei demani forestali su cui i francesi avevano messo le mani, ecc., oltre a misure di carattere più strettamente politico inscindibili dalla conquista rivoluzionaria del potere e dal suo esercizio dittatoriale da parte dei salariati industriali e agricoli dell’Algeria.

L’ENA era dunque ed evidentemente uno di quei movimenti rivoluzionari di emancipazione coloniale nei cui riguardi l’Internazionale Comunista aveva previsto fin dal 1920 l’appoggio del Partito comunista, organizzato sulla base della completa indipendenza d’azione e di programma: appoggio rivoluzionario e proletario, e non dunque d’ispirazione democratica e a base sociale piccolo borghese. Esso concretizzava le premesse dell’auspicata saldatura fra moto di classe e moto nazionale anticolonialista e, con l’aiuto di un Partito comunista deciso a battere fino in fondo la via tracciatagli dal suo programma-base, avrebbe spalancato all’Algeria la prospettiva di un salto dalla lotta armata per l’indipendenza alla lotta armata per il socialismo, impedendo nello stesso tempo al moto rivoluzionario indigeno di slittare verso soluzioni di compromesso o apertamente borghesi. Ciò non avvenne perché fu invece il PCF a scivolare verso la più completa degenerazione democratica e parlamentare, sferrando contro l’Etoile una lotta accanita, particolarmente contro i punti più rivoluzionari del suo programma. Gli iscritti algerini al PCF si ridussero a qualche centinaio (280 nel 1929, 200 nel 1931, 131 nel 1932), in sintonia con il crollo generale degli iscritti avvenuto dopo la caduta dell’Internazionale nelle mani degli stalinisti e della controrivoluzione, quando venne preconizzata la tattica del Fronte unico contro il fascismo. La tendenza si sarebbe temporaneamente invertita con la ripresa delle lotte operaie in Francia: gli iscritti in Algeria salirono a 600 nel 1934 e a 3.500 nel 1936.

Nel 1935, al Congresso di Villeurbanne il PCF, ottemperando finalmente ai dettami dell’Internazionale che imponeva di assicurare ai partiti comunisti delle colonie un’organizzazione autonoma, regala al Partito comunista algerino (PCA) la sua "autonomia". Il PC algerino si separa organizzativamente dal fratello maggiore, ma conserverà un segretario francese fino al 1938! La nascita del Partito Comunista Algerino coincide con l’appoggio dato dal PCF al "Fronte popolare" e con la preparazione del VII congresso dell’Internazionale, ormai pienamente stalinizzata.
 
 

2. Dal Fronte popolare alla guerra antifascista

Il programma del PCA non poteva non risentire delle doglie del parto. Il Partito agitò fin dall’inizio un programma che confinava la lotta popolare indigena nei limiti di aspirazioni contadine e quindi nazionali, evitando di collegarle alla prospettiva di un balzo in avanti nel senso della rivoluzione socialista e alle battaglie rivoluzionarie del proletariato metropolitano. Insieme al PCF e al sindacato CGT si rivolgeva all’enclave europea in Algeria con parole d’ordine democratiche, influenzando negativamente le masse contadine e proletarie indigene. Nel 1935 vi erano in Algeria 180mila operai industriali (di cui 80mila arabi e cabili), 500mila braccianti agricoli e una massa contadina spuria nel vortice di una completa proletarizzazione. Ma gli stalinisti, piuttosto che al proletariato rivoluzionario, preferivano rivolgersi alla ignobile figura del "popolo", allettandolo con rivendicazioni democratiche e nella preparazione del "Fronte popolare". Il gioco è chiaro: si mettono da parte le masse contadine proletarie, potenziale sovversivo mobilitabile per la rivoluzione socialista; agli operai industriali si lanciano parole d’ordine di marca esclusivamente democratica; dei piccoli e medi proprietari e dei mezzadri si fanno proprie le rivendicazioni immediate e le simpatie ideologiche: la prospettiva socialista può andarsene a dormire!

Il Partito Comunista Algerino si orienterà sempre di più verso obiettivi tattici di ordine democratico, non rifuggendo dall’appoggio alle iniziative elettorali del governo parigino mentre le organizzazioni rivoluzionarie indigene si muovevano sul piano della diserzione dalle urne e della lotta armata. Messosi su questo piano inclinato, il PCA batte fino in fondo non solo la strada della democrazia parlamentare, ma dell’appoggio indiretto e diretto all’imperialismo francese difendendo, anche se in modo velato, la colonizzazione francese in Algeria e tacendo sulla politica coloniale sempre più repressiva del Fronte popolare.

Parallelamente, nel quadro democratico istituzionale, sorsero diverse organizzazioni politiche come diretta emanazione della borghesia indigena urbana e dei grandi proprietari terrieri, con l’obiettivo dichiarato di difendere e di migliorare le condizioni proprie di questi strati. Nel 1927 ad Algeri era stata fondata da Mohammed Bendjelloul e Bentami Hami la Federazione degli Eletti, nella quale militava anche il farmacista di Sètif, Ferhat Abbas. La Federazione si prefiggeva lo scopo di far evolvere le condizioni politiche dell’Algeria nel quadro delle leggi francesi. Nel 1931 vide la luce l’Associazione religiosa degli Ulema (dottori della legge coranica), espressione della borghesia colta di Costantina, che aveva sicuramente obiettivi riformistici e reclamava il ristabilimento della fede e l’arabizzazione dell’Algeria secondo la formula: "L’Islam è la nostra religione, l’Algeria la nostra patria, l’arabo (letterario) la nostra lingua", ed era contraria a qualsiasi assimilazione con la Francia. Gli Ulema avevano studiato a Tunisi, a Damasco e al Cairo e si ricollegavano alle tradizioni marabutte algerine che nel 1920 contavano 180mila discepoli, legati spesso alle autorità francesi. Il leader più autorevole degli Ulema fu Ben Badis, come Bendjelloul nativo di Costantina, pensatore moderno e relativamente progressista.

Alle elezioni legislative del 1936, che consacrarono il governo del Fronte popolare di Blum e di Thorez, il PC algerino ottenne 15.267 voti. A proposito delle elezioni, il segretario del partito scriverà: «Cent’ottantamila cittadini francesi costituiscono il corpo elettorale, mentre sei milioni di nativi hanno soltanto il diritto di soffrire e di tacere». Sull’onda della "vittoria" delle forze di sinistra in Francia, che tante speranze suscitò in Algeria, il 7 giugno 1936 ad Algeri fu convocato dalla Federazione degli Eletti di Abbas, dagli Ulema e dai comunisti il primo Congresso musulmano, che spinse sulla scena politica le forze riformiste e francofone che pretendevano di rappresentare, nel loro insieme, il popolo algerino. Il Congresso, con l’appoggio degli stalinisti, chiedeva l’unificazione effettiva fra Algeria e Francia e la concessione di tutti i diritti di cittadinanza agli algerini. Si confrontino con le Tesi sulla questione coloniale, da noi precedentemente citate, queste dichiarazioni del segretario del PCA, Ben Alì Boukort: «Che siamo comunisti, socialisti, nazionalisti, nazionalriformisti o senza partito, dobbiamo tutti comprendere che apparteniamo allo stesso popolo e che abbiamo delle rivendicazioni comuni. Non si tratta di sapere se il tale è comunista o no, socialista o no, collaborazionista o no, si tratta per tutti noi di lottare per l’abolizione del regime odioso dell’Indigenato e contro tutte le misure di eccezione di cui soffriamo; si tratta di lottare assieme per l’accesso a tutti i diritti e tutte le libertà democratiche di cui godono i cittadini francesi, ma con la conservazione del nostro statuto personale» (La Lutte Sociale, 8 agosto 1936). Qui si persegue non solo un Fronte popolare tipo Francia, ma addirittura un fronte nazionale unico! Come al solito, spetterà a Thorez teorizzare questa posizione da lacchè dell’imperialismo francese: «Ripetiamo ai nostri compagni d’Algeria, ai nostri compagni di Siria e del Libano, ripetiamo a tutti i nostri fratelli di tutte le colonie: la Francia del Fronte popolare venga incontro alle loro rivendicazioni nell’interesse di questi popoli come nell’interesse della Francia per assicurare contro il fascismo che provoca alla ribellione e alla guerra civile nelle colonie, l’unione libera, fiduciosa e fraterna dei popoli coloniali e della Francia democratica» (La Lutte Sociale, 8 gennaio 1938). Non soltanto alla democrazia, ma addirittura al socialismo si va, per questi signori, attraverso la dominazione coloniale: non più i comunisti ma sarebbero i "fascisti" a chiamare gli indigeni alla guerra civile!

Ferhat Abbas, pur accettando le mozioni congressuali, non si legò le mani con il Fronte popolare. Quanto all’ENA, nonostante le avances del PCA che sperava di trarre profitto dal radicalismo dell’Etoile, non aderì al Congresso. Messali dichiarò su La Lutte Sociale dell’8 agosto 1936: «Pur essendo noi d’accordo con l’insieme delle rivendicazioni immediate poste dal Congresso, vi sono due punti di contrasto, due rivendicazioni che non possiamo approvare: l’unificazione con la Francia e la rappresentanza dei musulmani al Parlamento». Il suo nazionalismo intransigente gli valse il rispetto degli algerini, diecimila dei quali lo portarono in trionfo nel corso di una manifestazione nello stadio di Algeri.

I riflessi della politica frontista sul moto indigeno saranno catastrofici. Da un lato si era spianata la strada alle frazioni più dichiaratamente borghesi del movimento anticoloniale, dall’altro era spinta nell’isolamento l’unica formazione politica e militare a base proletaria – l’Etoile Nord Africaine, poi divenuta Partito del Popolo Algerino – che in tutto questo periodo agitava senza esitazioni e infingimenti la bandiera della lotta con le armi in pugno per l’indipendenza dalla metropoli imperialista. Che questa formazione, abbandonata a se stessa, cadesse a sua volta preda di oscillazioni e infine di sbandamenti era nella logica della storia: a che miravano le Tesi del II Congresso dell’I.C. se non ad impedire che ciò avvenisse mediante la propaganda incessante di un Partito comunista rivoluzionario, organizzativamente e ideologicamente autonomo?

Il PC francese cercava in tutti i modi di distogliere le masse dai problemi specifici dell’Algeria, spingendo il movimento algerino ad interessarsi più ai problemi della Francia che a quelli del proprio paese. Il giornale di Ferhat Abbas declinò l’offerta di collaborare coi comunisti. La questione agraria aveva già fornito ad Abbas e a Bendjelloul un terreno d’azione comune con il Fronte contadino d’estrema destra che, oltre alla moratoria dei debiti e alla sospensione dei pignoramenti e delle espropriazioni, rivendicava l’aumento dei prezzi agricoli – a tutto vantaggio dei grossi coloni che erano alla testa del movimento. Il balletto intorno al progetto di legge Blum-Viollette mette in evidenza emblematicamente il ruolo subalterno all’imperialismo francese svolto dal PCF. Maurice Viollette, ex governatore d’Algeria nel 1925-27, divenuto ministro per gli Affari algerini con Lèon Blum, nel dicembre 1936 presentò un progetto di riforma che concedeva ad una élite di algerini (circa 20mila tra graduati, diplomatici, funzionari, ecc.) il diritto di voto alle elezioni per il parlamento francese. Questo progetto di legge fu tutto ciò che la coalizione del Fronte popolare riuscì a produrre. L’ENA denunciò il progetto di riforma come un tentativo di corruzione politica teso a "dividere la società musulmana" attraverso la creazione di una minoranza di privilegiati. Anche i coloni denunciarono compatti la legge e formarono milizie armate minacciando il ricorso alla forza se la legge fosse stata approvata. Il ricatto funzionò perché il progetto non arrivò neanche all’esame del parlamento e il suo abbandono provocò un drastico disinganno nelle file dei partigiani dell’assimilazionismo. La responsabilità venne fatta cadere però sull’ENA, alla quale i comunisti rimproveravano "la campagna di inaudita violenza scatenata contro il Fronte popolare, la CGT, il partito comunista, il progetto Blum-Viollette, il Congresso musulmano, gli Ulema, ecc.".

Allo scoppio della guerra di Spagna, una delegazione della commissione coloniale del Partito Comunista offrì inutilmente un programma di collaborazione al Comitato centrale dell’ENA. Gli stalinisti volevano creare una legione algerina da inviare in Spagna a combattere in difesa del governo repubblicano. L’ENA rifiutò nettamente l’invito, ma manifestò la sua solidarietà al movimento antifascista mediante sottoscrizioni e manifestazioni di protesta, non essendo così facile recidere il cordone ombelicale con i partiti operai degenerati della metropoli. Nel 1936 l’Etoile, insieme ad una organizzazione marocchina e ad una tunisina, sottoscrisse un Piano di rivendicazioni immediate per tutto il Nord Africa, nel tentativo di unificare il movimento. In Francia, alla coda dei cortei delle organizzazioni operai marciavano operai marocchini e tunisini. L’ENA sapeva che senza il collegamento con il proletariato metropolitano il socialismo sarebbe rimasto una chimera.

Fu il Fronte popolare a dare il colpo mortale all’ENA. Quando il governo di destra Laval, sfruttando la legge contro i facinorosi, diede avvio all’iter per lo scioglimento dell’Etoile, Messali fece appello a tutte le organizzazioni del Fronte; ma fu proprio il governo Blum a scioglierla per decreto il 26 gennaio 1937 e a metterla fuori legge per attività "antinazionale". Ma Messali Hadj non si diede per vinto e l’11 marzo dello stesso anno fondò il Partito del Popolo Algerino (PPA), facendo propria la rivendicazione dell’indipendenza dell’Algeria. Il PPA rimase fedele a questo programma fino alla crisi del 1942 provocata dallo sbarco degli americani in Nord Africa. Bisogna tuttavia riconoscere ai militanti dell’ENA e del PPA doti non comuni di tenacia e di combattività nel difendere fino in fondo e coraggiosamente il programma rivoluzionario contro i rabbiosi assalti della controrivoluzione.

Nel dicembre 1937, nel nome della lotta antifascista Thorez condannò il nazionalismo algerino dichiarando: «Se la questione decisiva del momento è di vincere la lotta contro il fascismo, l’interesse dei popoli coloniali è nell’unione con il popolo francese e non in atteggiamenti che potrebbero avvantaggiare il fascismo e consegnare il Nord Africa nelle mani di Mussolini e di Hitler». In tutto il Maghreb gli staliniani si trasformarono in vigili guardiani della causa francese. La lotta contro il fascismo serviva al PCF, sotto la ferula di Mosca, a mascherare la difesa dell’imperialismo francese gettando i presupposti per la partecipazione alla Seconda Guerra mondiale. Le lotte di liberazione anticolonialiste erano diventate tout-court sinonimo di appoggio al fascismo!

Alla vigilia della guerra, forte di circa tremila militanti, il PPA era di gran lunga il partito più popolare in Algeria. Dopo la scarcerazione di Messali Hadj avvenuta il 27 giugno 1939 l’Amministrazione francese intensificò la repressione contro l’impostazione nazionalista e rivoluzionaria del suo movimento: nel settembre il PPA fu messo a sua volta fuori legge, il giornale El Ouma soppresso, Messali e un forte numero di suoi partigiani arrestati o deportati: la "difesa nazionale" non deve essere compromessa da forze eversive!
 
 

3. L’Algeria nella Seconda Guerra mondiale

Nel giugno 1940 Pétain si arrende ai tedeschi. Poiché l’armata d’Algeria faceva riferimento a Pétain, il 3 luglio 1940 gli inglesi decisero di bombardare la flotta francese in rada a Mers El Kebir perché non cadesse in mano tedesca. L’Algeria cade sotto il controllo italiano e tedesco, pur senza essere occupata militarmente. Il fascismo francese anticipa in Algeria le misure antisemite che in seguito prenderà in Francia il governo di Vichy. Ottantamila ebrei algerini vengono privati della cittadinanza, licenziati dagli impieghi pubblici e dalle professioni liberali, i loro figli espulsi dalle scuole, i loro beni sequestrati (per solidarietà con gli ebrei dalle moschee venne la consegna di non acquistare i beni sequestrati). Vennero aperti campi di concentramento nel Sud dove furono internati massoni, ebrei ed oppositori del regime in genere. Nel 1941 l’ammiraglio Darlan, delfino di Pétain, incontrò Hitler per definire l’assistenza logistica francese all’Africa Korp: 17.000 veicoli e un certo numero di cannoni saranno consegnati al maresciallo Rommel dai militari vichysti d’Algeria. All’inizio del 1941 gli Stati Uniti, approfittando di un accordo con l’Algeria vichysta per l’invio di aiuti alimentari infiltrarono nel paese loro spie per sabotare le navi che rifornivano di materie prime l’industria militare tedesca e italiana. Il 25 luglio 1942 Roosevelt e Churchill decisero uno sbarco in Nordafrica, all’oscuro dei francesi (soprattutto di De Gaulle). Il 19 agosto il tentativo di sbarco a Dieppe fallì sanguinosamente. In ottobre 35mila fanti americani e 38mila soldati britannici si avvicinano di nuovo alla costa algerina, dove sbarcheranno finalmente l’8 novembre. Gli americani prenderanno contatti con i "resistenti" algerini ma non li armeranno, perché lo scopo dell’imperialismo Usa era soprattutto quello di indebolire l’influenza della borghesia francese nella regione.

La Seconda Guerra mondiale, aggravando le condizioni di vita delle popolazioni indigene, incoraggiò l’esplosione dei movimenti nazionalisti nel mondo intero. L’Africa – e segnatamente il Nord Africa – fu un teatro non secondario del conflitto, e venne coinvolta direttamente nella crociata per la democrazia e l’autodeterminazione che ambiguamente le grandi potenze sbandieravano. Dopo lo sbarco anglo-americano, che ebbe l’appoggio di un pugno di "resistenti" francesi, gli algerini – tra cui Ferhat Abbas – scoprirono la forza americana e la sua diplomazia, niente affatto avara di promesse e di dichiarazioni di principio anticolonialiste.

In Algeria, dove gli americani al loro arrivo non trovarono alcun governo in carica, c’era il rischio che un governo nazionalista potesse trarre profitto dalla situazione, sull’esempio della Siria, dove gli inglesi avevano nel frattempo soppiantato i francesi. D’altronde, i coloni si erano compromessi con il pétainismo. Dopo lo sbarco alleato i prigionieri politici gollisti e stalinisti furono liberati, mentre Messali Hadj fu deportato nel Sud e poi trasferito a Reibell. I dirigenti messalisti tentarono di riunificare le varie tendenze politiche algerine, ma all’aumento enorme di aderenti non seguì un rafforzamento dell’organizzazione politica. Per la prima volta nella sua storia il partito messalista si ricostituisce non come tale, ma come semplice raggruppamento e, braccato al vertice e alla base, cede il campo ai flessibili "uomini politici" di marca dichiaratamente borghese.

Mentre gli strali della legge colpiscono gli altri partiti, Ferhat Abbas fonda l’Unione popolare algerina (UPA) nel tentativo di svincolarsi da Bendjellaoul e si mette in affari con gli alleati. Le Nazioni Unite stavano codificando i principi dell’autodeterminazione dei popoli, per minare alla base gli imperi coloniali europei. Abbas subordinò lo sforzo di guerra chiesto dagli alleati agli algerini alla concessione di miglioramenti politici. Nel 1943 redasse il Manifesto del popolo algerino: firmato da 28 deputati "moderati", chiedeva l’applicazione dei principi dell’autodeterminazione, riprendendo i termini della Carta Atlantica, ma puntando sull’autonomia politica dello Stato algerino, senza rivendicarne l’indipendenza totale. La richiesta dell’abolizione della proprietà feudale del suolo, che in un primo tempo era stata inserita nel Manifesto, fu in un secondo tempo abbandonata perché minacciava non solo i maggiori proprietari musulmani, ma i funzionari e i caidi, servitori feudali dei primi. Le blande rivendicazioni del Manifesto furono in un primo momento recepite dal governatore come base per le riforme, allo scopo di agevolare la mobilitazione generale, ma furono respinte in seguito dai responsabili della politica francese. De Gaulle, il capo della "Francia libera", il 22 dicembre 1943 decise di concedere la cittadinanza francese, e quindi il diritto di voto nelle elezioni per il parlamento di Parigi, ad alcune decine di migliaia di musulmani, contro l’opposizione dei francesi d’Algeria. Il 7 marzo successivo sempre De Gaulle emanò un’ordinanza che aboliva le misure eccezionali nei confronti dei musulmani e concedeva il diritto di voto nelle assemblee municipali ai musulmani di 21 anni d’età, elevando a due quinti la proporzione dei deputati indigeni. Solo gli Ulema e Messali Hadj condannarono il progetto di cittadinanza come una forma di assimilazionismo e riaffermarono il principio che l’emancipazione degli algerini potrà compiersi solo nel quadro di uno Stato indipendente e sovrano. Il prezzo da pagare per questa elemosina fu alto: il corpo di spedizione, che insieme alle truppe anglo-americane doveva contribuire alla liberazione della Francia (sic!), era composto per il 90 per cento da soldati nordafricani, reclutati dall’esercito come carne da cannone con l’aiuto dei caidi, dei marabutti e degli altri amministratori locali, nell’atto stesso in cui i comunisti entravano a far parte del governo provvisorio di Algeri.

La sintesi di questi avvenimenti la leggiamo in Programme Communiste (nr. 10/1960): «Il Partito Comunista Francese, tradendo quel programma marxista che l’Internazionale comunista nei suoi primi Congressi aveva restaurato, è venuto meno ai suoi compiti rivoluzionari non appoggiando la lotta dei popoli oppressi. Esso ha incardinato gli operai alla politica borghese, mentre la sua politica opportunista per determinazioni irresistibili è divenuta a tal punto collaborazionista, borghese e colonialista da non poter più nascondere le sue continue e sempre più tortuose svolte. Ma se l’imperialismo, grazie anche ai traditori dell’ex-Internazionale comunista, è riuscito a mantenere sotto il suo tallone di ferro i paesi europei, non ha tuttavia potuto impedire che negli altri continenti grandiosi sommovimenti facessero crollare strutture sociali millenarie. L’analisi del movimento nazionalista algerino dimostra che la lotta antimperialista si è estesa parallelamente all’indebolimento della metropoli, ma dimostra anche che il movimento, abbandonato dalle forze rivoluzionarie del proletariato, non ha saputo sostenere lo sforzo della rivoluzione doppia, subendo anzi un rinculo nelle stesse condizioni pratiche della sua lotta. L’abbandono, durante la guerra, del programma e della forma di lotta dell’Etoile Nord-Africaine e l’entrata in scena di elementi nazionalisti moderati, più o meno conciliatori e collaborazionisti, ha portato il movimento nazionalista algerino verso una pesante sconfitta: non solo la Francia ha conservato il suo dominio, ma ha utilizzato la carne da cannone musulmana per rinverdire il suo blasone militare nelle sanguinose campagne d’Italia e del Reno e per assicurarsi un posticino fra i "cinque Grandi". Va ricordato che prima di fare il loro sporco lavoro a Parigi, i comunisti avevano contribuito al successo di questa operazione nel governo provvisorio di Algeri».

Nel marzo 1944 Ferhat Abbas tenta di realizzare un Fronte unico insieme al PPA clandestino e agli Ulema : nasce il movimento Amici del Manifesto e della Libertà (AML). Nel difficile clima economico degli anni 1944-45, segnato dall’esplosione dei prezzi e dallo scandalo del mercato nero, le masse algerine si andavano radicalizzando e la propaganda nazionalista del PPA aveva la meglio sulle tesi federaliste di Abbas. Nel marzo 1945, al primo Congresso degli Amici del Manifesto, che conta 350mila aderenti, Messali Hadj è salutato quale leader incontrastato del popolo algerino, ma il 25 aprile viene nuovamente deportato: Messali che dal 1941 era in galera per essersi rifiutato di collaborare con Vichy, viene infine incarcerato dagli...avversari di Vichy! Il movimento fece circolare la parola d’ordine: celebrare la vittoria della Democrazia e della Giustizia in Europa nel segno della Democrazia e della Giustizia per l’Algeria.
 
 

4. "Liberazione" e massacro

Senonchè, finita la guerra, la situazione si radicalizza immediatamente sotto la spinta della miseria e della fame: le masse algerine prendono in parola i loro capi "nazionalisti" e, proprio nel giorno della vittoria, rivendicano quell’indipendenza che era stata sbandierata sotto i loro occhi come ricompensa dello "sforzo di guerra". I primi incidenti si segnalarono il 1° maggio 1945, altri più gravi l’8 maggio, giorno della vittoria contro i tedeschi. Compaiono le bandiere bianco-verdi di Abd el-Kader. A Setif (Costantina) un corteo di diecimila persone chiede la liberazione di Messali, l’eguaglianza dei diritti e l’indipendenza. Un poliziotto francese uccide un arabo che sventola il vessillo con la luna verde e la stella rossa. Le manifestazioni si trasformarono in sollevazioni, tanto spontanee quanto cruente, rivolte contro tutto ciò che simboleggiava il potere coloniale. Cinquantamila rivoltosi massacrano 109 europei nella regione della piccola Cabilia e nella regione di Costantina. A Setif e nella vicina Guelfa gli edifici subiscono danni incalcolabili. Il 12 maggio l’Humanité annuncia che torbidi sono scoppiati nell’Africa del nord e specialmente a Setif. A Parigi siede un governo presieduto da De Gaulle e composto da ministri democristiani, socialisti e comunisti (Thorez è, addirittura, vicepresidente), un governo di Unità nazionale. Può un ministero altamente progressivo tollerare che una popolazione indigena affamata metta in pericolo con atti di violenza il pacifico corso della ricostruzione post-bellica? Il 17 maggio così si esprime sugli avvenimenti di Setif l’organo del PC algerino: «Strumenti dei criminali, questo sono i capi del PPA, i vari Messali Hadj e altri infiltrati nelle organizzazioni sedicenti nazionaliste che, quando la Francia era sotto il tallone fascista, non hanno detto né fatto niente, e che ora reclamano l’indipendenza, nel momento in cui la Francia si è liberata delle forze fasciste e marcia verso una più piena democrazia. Gli organizzatori dei disordini vanno puniti senza pietà e gli istigatori della rivolta immediatamente fucilati». Il Partito Comunista mobilita tutte le sue organizzazioni, compresa la CGT, che diffonde un volantino di questo tenore: «La CGT chiama i lavoratori musulmani ed europei a sventare le manovre criminali del PPA al servizio dei nemici del popolo. Lavoratori, restate uniti dentro la grande CGT (...) Tutti insieme noi andremo verso il benessere, nella libertà; costruiremo un’Algeria amica della nuova Francia, più bella, più democratica, più felice».

Come è noto, le autorità francesi non se lo fecero ripetere due volte: nel massacro di Costantina 45.000 algerini persero la vita sotto la mitraglia "democratica". Più di quaranta villaggi furono bombardati e distrutti; i quartieri arabi di Setif e di altre città vennero incendiati; i capi nazionalisti – compreso Ferhat Abbas – arrestati.

Nel Fronte dei nazionalisti algerini le conseguenze degli avvenimenti non si fecero aspettare. Mentre al II Congresso dell’AML la maggioranza era per Messali e chiedeva la costituzione di un governo algerino libero, sei mesi dopo gli avvenimenti di Costantina Abbas si separa definitivamente dall’AML e fonda l’Unione Democratica del Manifesto Algerino (UDMA), formata da uomini politici e intellettuali (Abbas, Boumendjel, Saadane, ecc.), portavoce dei ceti medi urbani e mezzo di espressione politica degli Ulema. L’Unione preconizza una repubblica in cui venga concessa la cittadinanza algerina ai francesi d’Algeria. Il suo obiettivo è "un parlamento algerino in uno Stato algerino liberamente associato alla Francia nel quadro dell’Union française". Ma questo progetto non avrà alcun successo all’Assemblea costituente nonostante l’avvertimento lanciato da Abbas: «È la vostra ultima occasione, noi rappresentiamo l’ultima trincea»! Alle elezioni per la seconda Assemblea costituente nel giugno 1946, l’UDMA raccolse 458mila voti su 633mila votanti e 11 seggi su 13, anche grazie all’astensione del PPA. La democrazia politica che prendeva il posto della violenza rivoluzionaria rappresentava senz’altro la migliore soluzione per l’imperialismo francese. Il PPA, che gli stalinisti consideravano un partito fascista a causa della sua attività nazionalista, non sarà invece "riabilitato" dal governo della Resistenza. Dopo la sua liberazione (ottobre 1946), Messali Hadj fondò il Movimento per il Trionfo delle Libertà Democratiche (MTLD), molto popolare nella cintura urbana di Parigi, che riprendeva il programma del vecchio PPA e come quest’ultimo era dotato di quadri di estrazione prevalentemente proletaria. L’MLTD ottenne una netta affermazione alle lezioni legislative del novembre 1946 (cinque seggi all’Assemblea nazionale) e nelle elezioni amministrative dell’anno successivo. Il partito cercava l’appoggio dei democratici francesi e votava sempre insieme al gruppo stalinista.

Le elezioni per il Parlamento algerino dell’aprile 1948 sono viziate da tante e tali irregolarità ad opera delle autorità francesi (violenze sugli elettori, arresto dei candidati nazionalisti, brogli, ecc.) da screditare per sempre agli occhi delle forze borghesi algerine la "via democratica". La Francia che viola le sue stesse leggi e costruisce elezioni prefabbricate aiuterà i nazionalisti algerini a prendere coscienza dei reali rapporti di forza. Nel 1953 l’Algeria musulmana si vede chiudere ogni via legale a profonde riforme. «Non vi è altra soluzione che la mitraglia» dichiarava Ferhat Abbas mentre in Marocco e in Tunisia iniziavano le prove generali dell’insurrezione. I nazionalisti accresceranno sempre più il loro seguito tra le masse, mentre gli Ulema estenderanno la loro rete di scuole formando una gioventù rivolta verso l’Oriente arabo. L’UDMA, partito di quadri e di moderati di cultura occidentale, perderà la sua popolarità attirando al suo interno persino dei notabili francofili. Le masse proletarie urbane e rurali faranno invece sempre più riferimento all’MTLD, che si era dotato di un’organizzazione stabile, diretta da funzionari stipendiati: aveva i suoi tribunali, i suoi esattori, i suoi emissari. Nel 1947, al suo primo Congresso, l’MTLD aveva ripreso la piattaforma dell’ENA (indipendenza dell’Algeria e ritiro delle truppe di occupazione) tuttavia con due variazioni: 1) la decisione di partecipare alle elezioni per denunciare dalla tribuna parlamentare i crimini dell’imperialismo francese in Algeria e, soprattutto, permettere al popolo algerino di esprimersi plebiscitariamente per l’autonomia contro i partigiani dell’Union française; 2) la creazione di una organizzazione segreta paramilitare denominata Organizzazione Speciale (OS) accanto all’organizzazione legale di massa, in vista della preparazione dell’insurrezione.
 
 

5. L’insurrezione (1954-1962)

L’OS esordì clamorosamente nel 1949 con l’assalto, organizzato da Ben Bella e Mohammed Khider, all’ufficio postale di Orano che fruttò tre milioni di franchi. Nei ranghi dell’OS si ritrovano tutti i più importanti protagonisti della futura lotta armata: Ait Ahmed (capo cabilo e dirigente del futuro Fronte delle Forze Socialiste), Ben Boulaïd (celebre capo della wilaja dell’Aurès), Ben Bella, Mohammed Boudiaf, Rabah Bitat, Belkacem Krim (che nel 1952 sarà a capo della guerriglia nell’Aurès), Ben M’hidi (molto influente nell’Oranese), e molti altri. La rapina di Orano fornì il pretesto per una vasta opera di repressione che nelle intenzioni dell’amministrazione francese avrebbe dovuto fugare per sempre il pericolo di un’esplosione del nazionalismo algerino in manifestazioni simili a quelle di cui erano teatro la Tunisia e il Marocco. La scoperta di un "complotto" porterà, dopo uno spettacolare processo, alla condanna a morte in contumacia di Ait Ahmed e Mohammed Khider e alla condanna ai lavori forzati di Ben Bella. Quest’ultimo riuscirà però a evadere nel 1952 e a raggiungere il Cairo, dove nel frattempo, a seguito di un colpo di Stato, era salito al potere Nasser. Anche Messali Hadj incorse nei rigori della repressione e venne inviato in soggiorno obbligato in Francia, a Niort. Si salvarono solo i moderati dell’UDMA; ma la fedeltà di questo partito verso l’azione legale ne farà un organismo sempre meno all’altezza dei tempi che si stavano preparando per l’Algeria.

Nell’agosto 1951 i partiti algerini formarono una coalizione, il Fronte Algerino per la Difesa e il Rispetto della Libertà, che raggruppava gli Ulema, l’UDMA di Ferhat Abbas, l’MTLD di Messali e il Partito Comunista Algerino. Ma la male assortita coalizione, nata senza regole vincolanti, ebbe vita breve e non incise sul movimento politico. Anche l’MTLD era preda di una progressiva paralisi a causa di contrasti interni che opponevano la corrente "centralista", così detta perché deteneva la maggioranza nel Comitato Centrale, alla corrente "messalista", che raggruppava i seguaci più fidati di Messali Hadj. La corrente centralista, in cui figuravano Ben Khedda e Mohammed Yazid, era capeggiata dal segretario generale del partito e consigliere municipale di Algeri Hocine Lahuel, cabilo, un politicante più che un politico. Essa propugnava una politica riformista, contrariamente ai messalisti che erano sostenitori di una politica estrema e dell’azione diretta rivoluzionaria, anche se di fatto incapaci di passare dalla teoria all’azione. All’ultimo Congresso unitario tenuto ad Algeri nell’aprile 1953, la rottura tra i due schieramenti divenne insanabile. Messo in minoranza nel Comitato centrale, Messali Hadj, assente al Congresso a causa delle misure restrittive a cui era sottoposto, rispose facendo convocare dai suoi vice un Congresso straordinario, che si tenne nel luglio 1954 a Hornu (Belgio): Messali fu nominato presidente a vita mentre gli otto principali dirigenti del Comitato centrale di tendenza riformista furono estromessi (essi aderiranno all’FLN dopo l’insurrezione). Nel suo intervento Messali propugna il ricorso a una lotta sistematica in vista della preparazione dell’insurrezione armata. Mira a "internazionalizzare la questione algerina", collegandola a quella di tutto il Maghreb arabo. La data dell’azione è fissata per il febbraio dell’anno seguente. I se non hanno peso nella storia, ed è quindi ozioso chiedersi che cosa sarebbe potuto avvenire se l’insurrezione fosse scoppiata all’epoca stabilita e sotto la direzione unica e accentrata dell’MTLD. Le cose andarono diversamene giacchè, nel frattempo, il conflitto fra le due correnti del partito spinge i resti dell’OS, su iniziativa di Mohammed Boudiaf, a fondare nel marzo del 1954 il Comitato Rivoluzionario d’Unità e d’Azione (CRUA), in pratica una sorta di "terza forza" mirante ad evitare la scissione dell’unico partito di massa al momento presente in Algeria.

Il passo che porterà alla rivolta armata matura fra enormi difficoltà. Il nazionalismo algerino, insieme alla Tunisia e al Marocco, che stanno già lottando per l’indipendenza, si sta orientando sempre di più verso l’unione nord-africana e il panarabismo, il cui cuore batte ormai al Cairo, nonostante l’ostilità di Messali, che accusa di riformismo sia il nazionalista marocchino El Fassi che il tunisino Bourghiba. Fin dal 1945 l’Algeria è stata teatro di operazioni militari e di repressioni poliziesche ad opera dell’esercito francese che è intervenuto a più riprese nell’Aurès e in Cabilia. Ma l’8 maggio 1954 accade il fatto decisivo che distrugge l’alone di invincibilità francese e che fuga ogni residua esitazione da parte dei capi del movimento: la disfatta a Dien Bien Phu dell’imperialismo francese e del suo esercito forte di 450mila uomini. Nell’agosto, Khider e il leader nazionalista marocchino El Fassi annunciano la costituzione di un Comitato di Liberazione del Maghreb e l’entrata in azione nei tre territori nordafricani di un "Esercito Insurrezionale Unificato".

Il CRUA era diretto da Ben Bella e da Khider, che, installatisi al Cairo come rappresentanti dell’MTLD in Oriente, e dove godono dell’appoggio di Nasser, non avevano preso posizione in merito al dissidio determinatosi fra la maggioranza del Comitato centrale e il Partito, e proprio in quei giorni avevano ricevuto due delegazioni diverse, quella dei messalisti europei, che chiedevano il loro concorso nell’attivare i preparativi per l’insurrezione del prossimo febbraio, e quella dei dissidenti che venivano a chieder loro di adoperarsi ad impedirla. Furono Ben Bella e Khider, all’insaputa sia dei messalisti sia dei "centralisti", ad assumersi la responsabilità della scelta della data – novembre 1954, cioè prima di quanto previsto ad Hornu – utilizzando ed accelerando i preparativi già in corso da parte dell’MTLD. Non era una scelta fatta a caso, perché sotto la spinta della crisi economica e di una gravissima carestia, la situazione interna dell’Algeria era divenuta esplosiva; ma si hanno tutte le ragioni di ritenere che l’anticipo fosse deciso per mettere le varie correnti nazionaliste di fronte al fatto compiuto e, nell’impossibilità di sconfessare l’insurrezione, di costringerle a unire le forze in un’azione comune. Così infatti avvenne, ed è vero che Fehrat Abbas si dichiarò in un primo momento a favore della sola rivolta nell’Aurés, dove il moto presentava caratteri di tale spontaneità che era impossibile non solidarizzare con esso, e invece contro il terrorismo messalista nel resto dell’Algeria; ma è anche vero che egli non solo finì per raggiungere le file del neo-costituito FLN, ma per fondere con esso le sue forze (come d’altronde fecero gli staliniani), mentre i messalisti – i soli rimasti con una organizzazione politica indipendente – forniranno bensì alla rivolta i combattenti più attivi ma ne perderanno la direzione politica e verranno irrimediabilmente emarginati quando la lotta armata guadagnerà l’adesione delle masse contadine.

L’insurrezione, denominata "Ognissanti rossa", iniziò con una sessantina di attentati in tutto il territorio, con attacchi armati a uffici pubblici e militari. Era stato dato l’ordine di non sparare sui civili, ma fra le vittime nell’Aurès ci furono due francesi, caduti per errore in un’imboscata. I morti del primo novembre furono complessivamente sette ed ingentissimi i danni materiali. Le autorità cercarono di minimizzare l’accaduto, ma la guerra era ufficialmente iniziata. Nei primi tempi, l’insurrezione si localizzò principalmente nell’Aurès (la zona era da tempo vittima di una feroce azione repressiva francese) dove già esistevano gruppi guerriglieri con un’organizzazione collaudata. Le azioni, consistenti soprattutto in atti di commando, si estesero man mano a gran parte del Costantinese e alla Grande Cabilia e infine (ottobre 1955) alla regione di Orano, dove la guerriglia poteva contare sull’appoggio del Rif e del Marocco. Dopo gli attacchi, il ripiegamento avveniva all’interno dei maquis e, dopo che Marocco e Tunisia ebbero ottenuta l’indipendenza nel 1956, nelle regioni di frontiera, dove l’approvvigionamento era facilitato. In questo momento delicato della lotta Marocco e Tunisia forniranno all’Algeria un aiuto non indifferente. Il dispositivo militare francese non era ancora completamente efficiente ma alla lunga, malgrado l’enorme sproporzione esistente fra i due paesi quanto a struttura industriale ed efficienza dell’esercito, il rapporto di forza si capovolgerà a favore degli insorti, che possono gettare sul piatto della bilancia il peso delle masse (soprattutto di quelle rurali).

I piani del CRUA prevedevano che con l’inizio delle operazioni militari il movimento avrebbe assunto una forma politica più adeguata. Nel gennaio 1955 i dirigenti algerini al Cairo annunciano la costituzione del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), partito che si dà il compito di liquidare il regime coloniale e portare l’Algeria all’indipendenza. Al suo fianco opererà come organizzazione militare l’Esercito di Liberazione Nazionale (ALN), che all’inizio conterà non più di 500 combattenti (mudjahidin) e raggiungerà un massimo di 120mila uomini nel biennio 1957-59. La parola "Fronte" era stata voluta da Boudiaf «affinché tutti gli algerini, quale che fosse la loro affiliazione politica, vi si potessero riconoscere», in un embrassons-nous di tutte le classi. La base sociale del movimento di liberazione è rappresentata essenzialmente dalla piccola borghesia rurale (per fare un esempio, nella wilaya II, comprendente la zona settentrionale del Costantinese, la composizione degli effettivi era di sei contadini per ogni cittadino), mentre fra i dirigenti la composizione è invertita: a parte Belkacem Krim, che è di origine contadina, tutti gli altri principali quadri sono cittadini, di estrazione populista piccolo-borghese. Algeri fornirà il personale politico per la direzione delle wilaya, mentre il grosso delle truppe sarà costituito dalla enorme massa delle centinaia di migliaia di proletari espropriati delle terre e affluiti nelle città. La principale rivendicazione del Fronte rimarrà quella dell’indipendenza nazionale.

L’ MTLD, decimato dalla repressione scatenata dal governo coloniale contro messalisti e centralisti, peraltro estranei all’insurrezione, si ricostituisce sotto la direzione di Messali Hadj come Movimento Nazionale Algerino (MNA). L’FLN, rimasto pressoché senza rivali grazie anche all’involontario aiuto fornitogli dall’amministrazione francese con l’attacco all’MTLD, decide di ammettere come aderenti a titolo personale i militanti degli altri partiti tradizionali, compresi i comunisti, purchè non in correnti o gruppi organizzati. Subito dopo lo scoppio dell’insurrezione, le cellule dell’ MTLD-CRUA organizzano attivamente e sistematicamente raccolte di fondi sia per finanziare la guerriglia sia per agevolare il rientro dei lavoratori algerini dalla Francia. Tramite una rete di corrieri francesi e algerini il denaro raccolto tra i lavoratori immigrati viene convogliato attraverso la Germania, la quale era ben contenta di chiudere un occhio dopo tutti i rospi che aveva dovuto ingoiare ad opera dell’imperialismo anglo-francese.

Intanto nella metropoli il clima sociale si surriscalda. A Parigi 10mila nordafricani partono dalla moschea innalzando la bandiera algerina. Il primo maggio 1955, nel parco di Vincennes, luogo di raduno di alcune migliaia di algerini, il rifiuto da parte dei dirigenti della CGT di dare la parola ad un oratore nazionalista, innesca disordini che portano a duecento arresti. In settembre-ottobre scoppiano i grandi scioperi di Nantes e di Saint-Nazaire. A Rouen gli scioperanti danno l’assalto agli uffici della direzione padronale. Eppure, nonostante la vastità dei movimenti spontanei, le organizzazioni di classe degenerate hanno buon gioco nel dividere e isolare le iniziative dei lavoratori, a dimostrazione che senza organizzazione e programma autonomi il proletariato non può sperare di condurre fino in fondo l’azione rivoluzionaria.

La storia ufficiale vuole che siano stati nove gli uomini – diventati poi i "capi storici" – a dare il via alla "rivoluzione": sei dell’interno: Ben Bulaid, Diduche, Ben M’Hidi, Boudiaf, Bitat, Belkacem Krim; tre dell’estero, rifugiati al Cairo: Ait Ahmed, Khider e Ben Bella. I capi dell’estero rifugiati in Egitto saranno spesso presentati dai media come i veri capi del movimento, finendo per sottovalutare l’organizzazione interna e mascherare i conflitti esistenti fra le due organizzazioni. Nel gruppo dirigente al Cairo, Ben Bella ricopre il ruolo di coordinamento con il territorio algerino, Ait Ahmed si occupa del lavoro diplomatico, mentre Khider è responsabile dei rapporti con il governo egiziano e gli altri territori del Maghreb per quanto riguarda i rifornimenti di armi e di denaro. Ma, di preferenza, la lotta viene identificata con le relazioni politico-diplomatiche: la guerriglia è utilizzata come forma di pressione su Parigi durante i negoziati, mentre la propaganda è buona per attirare sulla causa le simpatie internazionali!

Fin dall’inizio l’ossatura di tutto il sistema che sorreggeva l’insurrezione era costituita dalle zone di combattimento che più tardi sarebbero state chiamate wilaya. Le wilaya sono delle regioni militari e amministrative in cui potere politico e militare in pratica vengono a coincidere. L’Algeria venne divisa in sei settori: Aurès, Nord Costantinese, Cabilia, Algeri, Oranese e Territori del Sud, più la cosiddetta Base dell’Est, nei pressi del confine tunisino. Successivamente la wilaya del Sud sarà abolita e il suo territorio spartito fra la III e la IV regione. Ogni wilaya ha uno stato maggiore composto da sei uomini e comandata da un colonnello: secondo la prima ripartizione i comandi vengono assegnati rispettivamente a Ben Boulaid, Bitat, Belkacem Krim, Diduche, Ben M’Hidi, mentre la wilaya VI resta per il momento senza titolare; subito dopo, su richiesta di Bitat, che si sente più a suo agio con il terrorismo urbano, lo stesso Bitat e Diduche si scambiano la direzione delle wilaya loro assegnate. Dei sei capi storici dell’interno, Boudiaf, presidente del CRUA, non ebbe nessun comando specifico. Ma le vicende della guerra non avrebbero mantenuto a lungo immutata questa gerarchia. Diduche morì in combattimento nel gennaio 1955, Ben M’Hidi e Ben Boulaid caddero anche loro nel corso della guerra, Bitat verrà arrestato, Krim sarà destinato ad incarichi diversi da quelli militari. Uno dei capi più "politicizzati", Chihani Bachir, la cui autorità copriva tre wilaya, dal Sahara alla costa orientale, verrà assassinato dai suoi luogotenenti. Nell’agosto 1955, un attacco sferrato dalla wilaya del Nord Costantinese con l’appoggio della locale popolazione contro alcuni centri di colonizzazione provoca centinaia di morti, tra cui 71 europei. A seguito di questo incidente ci sarà la scissione, voluta dall’FLN, tra musulmani ed europei.
 
 

6. Fronte "pigliatutto"

Il Fronte intensifica progressivamente la sua attività militare e politica. L’esercito è invitato a farsi il garante della costruzione della nuova Algeria e si avvia a diventare la principale forza politica del paese. La crescente popolarità dell’FLN e la brutalità della repressione francese faranno rapidamente convergere sul Fronte l’unanimità delle forze politiche. Oltre alle operazioni di guerriglia, che vengono estese all’Oranese e alle città, l’FLN coglie incontestabili successi politici. I centralisti del vecchio MTLD e gli indipendenti, anche se non hanno mai riconosciuto l’operazione d’Ognissanti, chiedono di confluire nel partito. Nel dicembre 1955 l’UDMA, che pure aveva continuato a sedere nelle Assemblee francesi e aveva partecipato alle elezioni municipali di aprile, nonostante il boicottaggio dell’FLN e dell’MNA, chiede le dimissioni di tutti gli eletti dalle rispettive cariche per confluire nel Fronte. Nell’aprile 1956 lo stesso Ferhat Abbas annuncia pubblicamente la sua adesione in una conferenza stampa al Cairo. Insieme all’UDMA confluiranno nel Fronte anche gli Ulema, mentre il Partito Comunista Algerino, da settembre fuori legge, passerà nella clandestinità e, pur senza sciogliersi formalmente, inviterà i suoi militanti a riconoscersi nel Fronte. Alla fondazione dell’FLN il PC algerino si vantava di essere, con i suoi 5.000 iscritti, il partito più forte d’Algeria. Alla vigilia dell’insurrezione esso contava 15mila aderenti, tra cui molti europei. Ma il Fronte considererà sempre con disprezzo l’attività degli stalinisti che tentano di rinverdire il loro blasone mettendosi al traino del movimento insurrezionale. Nel 1956 l’FLN denuncerà alcuni tentativi del PCA di infiltrare suoi militanti nelle file del Fronte e dell’ALN.

L’FLN diventa il contenitore di tutti i partiti politici algerini, con l’eccezione del solo MNA. Ma l’interesse intorno a Messali Hadj, che si trova ancora in soggiorno obbligato in Francia, tende progressivamente a scemare. Solo partito algerino a non essere confluito nell’FLN, di fatto il partito messalista rientra in gioco come potenziale sabotatore dell’unità nazionale incarnata dall’ FLN, e come tale viene manovrato dal governo francese. L’odio viscerale che divide i due gruppi nazionalisti darà luogo a una guerra nella guerra, con episodi sanguinosi e talvolta oscuri, da cui però l’FLN uscirà incontestabilmente vittorioso, mentre l’MNA sarà sempre più sospinto tra le braccia della Francia.

Nel febbraio 1956 viene fondata da alcuni militanti del Fronte la centrale sindacale UGTA (Unione Generale dei Lavoratori Algerini), in contrapposizione al sindacato messalista del PPA, all’USTA e all’Unione Generale dei Sindacati Algerini controllata dal Partito comunista. Ma il nuovo organismo non nasce certo in difesa degli operai contro gli sfruttatori! Come spiega la rivista francese Travailleurs immigrés en lutte (maggio-giugno 1979), i padroni delle 8mila piccole aziende algerine vengono combattuti dall’UGTA solo se... non pagano le quote all’FLN!

Dopo oltre venti mesi di guerra i responsabili del Fronte assumono l’iniziativa di convocare un Congresso clandestino, detto della Summam, dall’omonima vallata dell’Alta Cabilia dove dal 20 agosto al 10 settembre 1956 si riunirono i capi (soprattutto militari) dell’"interno". I dirigenti della "delegazione esterna" (Ben Bella e gli altri esuli del Cairo) non vi parteciparono, ufficialmente per motivi di sicurezza. Il Congresso della Summam, oltre a stabilire una coesione tra le diverse forze politiche del Fronte, varò anche gli organi dirigenti. L’Esercito di Liberazione si dà uno Stato maggiore unificato con a capo Belkacem Krim. La direzione politica viene affidata al Consiglio Nazionale della Rivoluzione (CNRA), presieduto da Ben M’Hidi e composto di 34 membri eletti dal Congresso (per una metà scelti nel fronte "interno", per un quarto nelle delegazioni "esterne", per un quarto fra i sindacalisti). L’Esecutivo (la denominazione di Governo Provvisorio sarà adottata solo nel 1958) si chiamò Comitato di Coordinamento e di Esecuzione (CCE) e sarà composto da Abane Ramdane (commissario politico nazionale e quindi virtualmente capo del governo), dal sindacalista Aissat Idir (inattivo perché agli arresti), e da Ben M’Hidi, Yussef Zighut e Belkacem Krim in rappresentanza delle wilaya. La composizione del CCE subì subito un rimaneggiamento con l’ingresso di Ben Khedda al posto di Aissat Idir e la successione di Saad Dahlab a Zighut, morto un mese dopo il Congresso. Di lì a poco anche Belkacem Krim lascerà l’incarico perché sarà messo alla testa dello Stato maggiore unificato dell’ALN.

Il Congresso della Summam sanzionò l’investitura ufficiale dell’FLN a unica organizzazione nazionale e segnò la definitiva emarginazione dell’ex-MTLD. Lo stesso Partito Comunista venne accusato di opportunismo e attaccato per la debolezza delle sue convinzioni nazionaliste, in quanto troppo subordinato al PCF. Nel documento approvato dal Congresso si ribadisce che lo scopo finale è il raggiungimento dell’indipendenza nazionale attraverso la distruzione del regime coloniale: «La partecipazione massiccia dei fellah e degli operai agricoli alla rivoluzione, la loro prevalenza nelle file dei combattenti dell’Esercito di liberazione nazionale, hanno profondamente segnato il carattere popolare della resistenza algerina. La popolazione contadina è veramente convinta che la sua sete di terra potrà essere soddisfatta soltanto con il raggiungimento dell’indipendenza nazionale». E una riforma agraria degna di questo nome è indissociabile dalla distruzione del sistema coloniale. Ma nel processo rivoluzionario è decisivo il contributo della classe operaia. In questo quadro, il documento saluta con favore la costituzione di una Centrale sindacale algerina, l’UGTA, dissociata dalle organizzazioni francesi e anche da quelle legate all’MTLD. L’analisi ignora totalmente la nozione di lotta di classe, ma non per caso: disgraziatamente, il Fronte raggruppa tutte le forze borghesi, pronte a usare per le proprie finalità l’energia motrice proletaria. La "Rivoluzione" algerina è inserita nella più ampia politica dell’unità del Maghreb e del panarabismo nasseriano.

Ad ogni buon conto, il Congresso della Summam segna il completo successo dei capi dell’"interno" guidati da Ramdane, e spalanca la porta ai negoziati con lo Stato francese. Dopo l’indipendenza Ben Bella rinfaccerà al Congresso di aver innalzato ai posti chiave "personalità politiche che da sempre avevano avversato il passaggio alla lotta armata". Ma il Congresso ebbe la sua brava appendice nel singolare episodio dell’ottobre 1956, quando l’aereo che portava a Tunisi da Rabat, dove si erano incontrati con Mohammed V, i quattro "capi storici" del CRUA (Ben Bella, Ait Ahmed, Boudiaf e Khider), venne dirottato da militari francesi, fatto atterrare ad Algeri e i suoi preziosi passeggeri arrestati.
 
 

7. La battaglia di Algeri

Nell’autunno di quell’anno avvengono altri due fatti importanti: il ricorso da parte dell’ FLN al terrorismo urbano indiscriminato come risposta all’esecuzione di due combattenti dell’Esercito di Liberazione Nazionale e il fallimento della spedizione militare francese a Suez, che aveva anche lo scopo di tagliare la linea di rifornimento tra gli insorti algerini e il centro dirigente dei movimenti nazionali arabi di stanza al Cairo.

Nel gennaio 1957 il Fronte organizza uno sciopero di otto giorni, che da più parti viene subito qualificato come insurrezionale, anche per la vasta ondata di attentati scatenata a sostegno. La risposta dell’imperialismo francese è la militarizzazione delle città, soprattutto di Algeri. Il Movimento nazionale algerino di Messali non sta a guardare: indice anch’esso uno sciopero generale di 24 ore, esteso all’emigrazione. Mentre il primo giorno vede la pressoché totale adesione degli algerini, al secondo giorno lo sciopero viene stroncato dal poderoso dispositivo di repressione francese. Naturalmente i due movimenti si rimbalzano le accuse del fallimento: l’MNA accusa il Fronte di non aver tenuto conto dei reali rapporti di forza e di aver sacrificato così gli elementi più combattivi e scoraggiato le masse; a sua volta, l’ FLN accusa, non senza ragione, gli altri di aver spezzato lo slancio e l’unità del movimento bloccando lo sciopero al secondo giorno, in questo modo indebolendo la resistenza di quelli che volevano proseguirlo ed esponendoli alla repressione.

Il periodo più duro per l’FLN sarà proprio quello fra gennaio e settembre 1957, durante quella che sarebbe diventata famosa in tutto il mondo come la "battaglia di Algeri", quando la difesa dell’ordine venne affidata alla divisione di parà del generale Massu, che riuscì a smantellare la rete terroristica urbana del Fronte (i centri urbani prima dell’insurrezione costituivano un feudo di Messali Hadj). Risultati esiziali per l’Esercito di Liberazione sortì anche il piano di repressione del generale Challe che fece uso di un’ampia gamma di misure di contro-terrorismo assai efficaci: sbarramenti elettrificati lungo i confini marocchino e tunisino; spostamenti forzati e campi di concentramento per la popolazione rurale (sarà colpito da un quarto a un quinto della popolazione algerina araba) allo scopo di sottrarre ai partigiani l’appoggio materiale dei contadini; suddivisione a scacchiera del territorio per meglio tenerlo sotto controllo militare (il contingente militare francese in Algeria passerà in pochi anni da 54mila a mezzo milione di soldati, di cui una buona parte di leva).

Ma per l’FLN le sconfitte militari sul terreno sono largamente compensate dall’aumento della sua influenza politica tra le masse algerine e dai riconoscimenti diplomatici internazionali. Per prevalere l’FLN attuò un vero e proprio regolamento dei conti verso i rivali del Movimento Nazionale Algerino di Messali Hadj che, scavalcato dagli avvenimenti non voleva tuttavia cedere al Fronte la direzione della svolta. I due movimenti si escludevano a vicenda perché entrambi aspiravano a rappresentare la nazione. L’MNA mantenne un certo ascendente nella comunità degli algerini emigrati in Francia, ma di fatto scomparve dal territorio algerino. L’episodio più tragico di questa guerra intestina fu l’eccidio (300 morti) compiuto nel maggio 1957 da un reparto dell’ALN nel piccolo villaggio di Melouza, nella Cabilia ostile all’ FLN. Ferocemente incalzato dal Fronte in nome dell’unità rivoluzionaria il Movimento di Messali fu in qualche modo sospinto verso coperture compromettenti, che d’altronde la Francia era prontissima a concedere anche mediante suoi agenti infiltrati. Sta di fatto che, dopo il massacro, i gruppi armati dell’MNA passarono apertamente a collaborare con l’esercito francese.

L’Esecutivo, dominato dalla personalità di Ramdane, si era intanto insediato coraggiosamente ad Algeri, perché il "cervello" della rivoluzione fosse il più possibile vicino al teatro delle operazioni. Ma alla fine della "battaglia di Algeri", catturato e ucciso Larbi Ben M’Hidi (probabilmente il comandante militare dotato di maggior personalità che di fatto svolgeva funzioni pari a quelle di un capo di stato), il CCE sotto i colpi della repressione è costretto a disperdersi all’estero: Abane Ramdane e Dhalab si rifugiano in Marocco, Krim e Ben Khedda in Tunisia. Anche la guerriglia si divide ormai in due grandi zone militari: l’Est con le wilaya I, II e III, appoggiate logisticamente alla Tunisia, e l’Ovest, con le wilaya IV, V e VI appoggiate al Marocco. Nell’agosto 1957 si tenne al Cairo la seconda sessione del Consiglio nazionale della rivoluzione, che prese in esame la nuova situazione venutasi a creare dopo l’abbandono dell’Algeria da parte del CCE. Contro il parere di Abane Ramdane, a cui fu rivolta l’accusa di voler fomentare un complotto in Cabilia, il Consiglio decise di allargare l’Esecutivo e di trasformarlo in Governo Provvisorio, in sintonia con la nuova rappresentatività raggiunta dall’FLN, aumentando però di fatto il potere dei "colonnelli" (proprio come temeva Ramdane). Il numero dei componenti del CNRA fu portato a 54, mentre il CCE, in attesa dell’istituzione del Governo provvisorio, fu portato a 9 membri: solo Ramdane e Krim vennero rieletti; entrarono Lamine Debaghine, Ouamrane e Ferhat Abbas, tre colonnelli di wilaya (Boussouf, Ben Tobbal e Chérif Mahmud) e un uomo della Lega Araba (Abdel Hamid Mehri).

Con la sessione del Cairo il vento cambiò a favore degli "esterni" (Ben Bella e gli altri esuli). Come conseguenza del trasferimento all’estero di tutti gli organi dirigenti fu decisa la parificazione dell’interno e dell’esterno, così come dei politici e dei militari. Si stava facendo largo un ceto politico impegnato soprattutto nel lavoro diplomatico e amministrativo, praticamente separato dal maquis. Abane era sospettato di fomentare un complotto cabilo, ma in realtà era temuto per le sue qualità di politico formatosi all’estero, insofferente per la ristrettezza di visione di molti leader della rivoluzione e poco disposto a subordinare la politica alla religione. Il passaggio fra il CCE e il Governo provvisorio della rivoluzione algerina (GPRA) non avviene però in maniera indolore. In una data imprecisata fra la fine del 1957 e l’inizio del 1958, muore in circostanze misteriose, probabilmente vittima dei dissidi insanabili all’interno della leadership algerina – Le Monde parlerà di assassinio politico – proprio Abane Ramdane, il più alto dirigente dell’FLN e della Rivoluzione negli ultimi mesi. Nel Governo Provvisorio entrano tutti i membri del CCE ad eccezione di Ouamrane, e compresi i famosi prigionieri del dirottamento aereo (Ben Bella viene nominato vice presidente). Il problema della presidenza, fra veti e contro-veti, fu sciolto a favore di Ferhat Abbas! La rivoluzione divora, come si dice, via via i suoi figli: la nuova svolta all’interno del Fronte vede ulteriori regolamenti di conti: dopo l’eliminazione di Ramdane, Ben Boulaid e altri ufficiali "ribelli" vengono processati da una corte marziale presieduta dal colonnello Boumédiène, e fucilati con l’accusa di aver complottato contro lo Stato maggiore. In aprile, il comandante dell’FLN Amirouche, imbeccato dal colonnello francese Gerard, fa fucilare con l’accusa di tradimento 200 fellagha (termine dispregiativo che significa bandito, taglieggiatore, dato dai francesi ai combattenti dell’ FLN).
 
 

8. L’uomo della Provvidenza

Il governo della IV Repubblica francese fa mostra di abbassare la cresta e si dice pronto a intavolare dei pourparler con l’FLN. Dall’inizio delle ostilità, il governo francese, presieduto dal socialista Guy Mollet, ha avuto sei rimpasti. La sinistra radicale – quella dei Mendès France, dell’intelligenza dell’"Express", della sinistra cattolica di "Esprit", del PCF – si contrapponeva alla sinistra moderata, ma il 12 marzo 1956 i deputati stalinisti avevano gettato la maschera votando la legge sui poteri eccezionali presentata dal governo Mollet, fornendo così al colonialismo lo strumento per "pacificare" l’Algeria.

Frattanto, i difensori di un’Algeria francese, ostili a qualsiasi forma di integrazione o d’indipendenza, entrano in azione ad Algeri aspettando l’occasione per gettare a mare il regime di Parigi. Per molti militari francesi, infatti, la perdita dell’Algeria era vista come una sciagura, dopo il bruciante fallimento patito in Indocina; non volevano accettare il nuovo ordine dei rapporti internazionali imposto dagli accordi di pace dopo la Seconda Guerra mondiale, che relegano la Francia a potenza di secondo piano. Gli attivisti pieds noirs sono alleati ai gollisti e agli oltranzisti dell’esercito. Il 13 maggio 1958, dopo una manifestazione in onore di tre militari francesi uccisi dall’FLN in Tunisia, i facinorosi invadono i locali del governo generale ad Algeri, simbolo dell’autorità della IV Repubblica. Viene formato un Comitato di Salute Pubblica (sic!) con alla testa il popolarissimo generale gollista Massu. Il Comitato difende gli interessi dei grandi coloni sotto la protezione dei comandi militari. Intanto il generale Massu, al quale il ministro residente ha delegato tutti i poteri, lancia un appello a De Gaulle, che dal 1946 si trova esule volontario a Colombay les-deux-Eglises (magia dei nomi!), ma che si guarda bene dal dare apertamente il suo appoggio a chicchessia. Sotto la minaccia di un colpo di mano contro il governo nella stessa Francia da parte del Comitato, l’autorità del governo si disgrega e l’esercito fa sapere che non obbedirà più al ministro della Difesa nazionale. A questo punto, per evitare il "peggio" – l’arrivo degli "ultras" al potere – De Gaulle si candida a salvatore della borghesia francese, e il 29 maggio si presenta davanti all’Assemblea nazionale per l’investitura, ottenendo 329 voti contro 224 (votano a sfavore i comunisti, 49 socialisti su 95, molte personalità fra cui Gaston Defferre, Roland Dumas, Charles Hernu, Pierre Mendès France, François Mitterrand). Il primo giugno il generale assumerà la direzione del governo e i poteri speciali per risolvere la questione algerina (l’epilogo si avrà il 9 gennaio 1959 con l’avvento della V Repubblica, fondata su una Costituzione a potere "presidenziale").

Il 4 giugno 1958, durante la sua prima visita ad Algeri, De Gaulle rivolge parole ambigue agli "ultras" che lo acclamano nella piazza davanti al palazzo del governatore. Tenta di ricompattare l’élite promettendo ai francesi un avvenire economico e politico in Algeria. Il 3 ottobre lancerà il cosiddetto Piano di Costantina per lo sviluppo industriale del paese che prevedeva grossi investimenti di capitali dal centro e una riconversione produttiva destinata a creare 400mila nuovi posti di lavoro in industrie di beni di consumo, nonché in campo agricolo la distribuzione di 250mila ettari di nuove terre.

Di fatto, il Piano si dimostrerà un ottimo affare per il grande capitale francese che proporrà la valorizzazione dei giacimenti petroliferi scoperti nel 1956 e l’aumento della produzione di acciaio, che aveva costi più bassi di quello francese. Come scrivemmo allora su Programme Communiste, «Siderurgia, petrolio e sottosviluppo: tutto qua il Piano di Costantina del 1958. In Algeria la rapina coloniale si può leggere nella riduzione a meno della metà del consumo di grano per abitante in neppure un secolo. Il Piano prevede lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi del Sahara e lo sviluppo industriale della regione di Bona (Annaba), per innalzare il livello di vita degli abitanti locali e sbarrare la strada all’imperialismo americano (Standard Oil). Ma il Piano, lungi dall’essere un fattore di armonizzazione economica e sociale, è un affare solo per il grande capitale. Il complesso siderurgico di Bona finirà per ovviare alle carenze della struttura produttiva delle concentrazioni industriali dell’Est e del Nord della Francia. Nella Francia metropolitana, la produzione annua di acciaio è passata da 4,4 milioni di tonnellate del 1946 a 14,6 milioni del 1958. Il complesso di Bona arriverà a produrre come minimo 400mila tonnellate annue che passeranno sotto il controllo delle quattro sorelle dell’acciaio francese: Usinor, Sidélor, De Wendel e Lorraine-Escaut. Bona opera in condizioni più favorevoli rispetto alla siderurgia francese, che ha l’handicap di un cattivo servizio di trasporti e la necessità di importare il minerale da lontano perché le qualità locali sono troppo povere di ferro. Il nuovo complesso di Bona beneficerà infatti di un minerale ricco di ferro (nella percentuale del 55% in luogo del 30% della Lorena) grazie alle miniere dell’Uenza e al basso prezzo di costo dell’energia dovuto alla creazione di una grossa centrale che utilizza i gas del petrolio dei giacimenti appena scoperti». Alla resa dei conti, i risultati del Piano saranno modesti: nell’industria i nuovi posti di lavoro creati non furono più di 34mila, mentre nel settore agricolo gli ettari distribuiti furono solo 82mila, peraltro acquistati in cambio di lauti indennizzi alle grandi compagnie di proprietari.

Il 28 settembre 1958 è indetto un referendum popolare voluto da De Gaulle ufficialmente per approvare la nuova Costituzione che sancisce la subordinazione del parlamento al potere presidenziale e il passaggio dalla IV alla V Repubblica. In realtà, De Gaulle mirava a salvare una repubblica divenuta ormai ingovernabile attirando sulla sua persona il consenso unanime di tutte le classi, coloni e algerini compresi. Il successo di De Gaulle è totale: nella Metropoli i sì sono 17,6 milioni, i no 4,6 milioni, gli astenuti 4 milioni. Non sono da meno tutto l’Oltremare (esclusa la Guinea) e l’Algeria: 96% di sì. De Gaulle porta così via tre milioni di voti a una sinistra ormai in pieno sbandamento, e diventa l’uomo della Provvidenza in grado di salvare la repubblica incancrenita dal problema algerino, di conciliare tutte le parti in campo, e soprattutto di proteggere gli interessi del grande capitale!
 
 

9. Gli interessi in gioco

L’indipendenza nazionale algerina è nel contesto internazionale inevitabile. Il colonialismo ha bloccato ogni possibilità di sviluppo economico del paese, al punto che non solo gli algerini reclamano la loro "libertà", ma anche i coloni sentono che è loro interesse (come i coloni nord-americani alla fine del ’700) sbarazzarsi del governo parassita di Parigi. La borghesia francese, spaventata dagli avvenimenti del 13 maggio e dalla determinazione degli insorti algerini, si affida a De Gaulle per raffreddare la situazione. E in effetti la tattica di De Gaulle fu abbastanza abile da far perdere la guerra alla Francia ma farle vincere la pace. Gli accordi – pubblici e segreti – sottoscritti a Evian nel 1962 permetteranno alla borghesia francese di continuare a sfruttare l’ex-colonia nell’ambito delle relazioni "cordiali" di reciproca collaborazione instaurate con il governo dell’Algeria indipendente. L’intermediario non sarà più il classico colono, ma sarà la stessa borghesia autoctona, che continuerà l’opera di feroce sfruttamento delle masse contadine algerine. Il capitale francese in Algeria potrà così passare dalla fase del capitalismo prevalentemente finanziario alla fase della vera e propria industrializzazione impiegando le risorse energetiche locali. Poco male se il passaggio comporterà il sacrificio del piccolo contadiname francese, che finora è potuto sopravvivere solo grazie allo sfruttamento dei contadini algerini.

Scrivemmo allora a caldo: «De Gaulle è il grande capitale; il suo regime ed esso solo è il fascismo. I "ribelli" coloni di Algeri erano e sono il passato miope e conservatore della borghesia media; De Gaulle e Debré sono l’"avvenire" della classe dominante, fascista, cioè riformista, perché cosciente della gravità della crisi capitalista; accentratore, statolatra, dittatoriale. Le resistenze dei primi si sarebbero infrante: bastava, come avvenne, isolarle. I secondi avrebbero colto al volo il pretesto per farsi riconoscere legalmente i poteri eccezionali che ancora non esercitavano al completo, e li avrebbero conservati in nome della... difesa della democrazia dagli assalti del fascismo (...) Per la stessa logica inflessibile, era facile prevedere che gli ultimi a capire la situazione sarebbero stati gli antifascisti. Nel panico folle della rivolta algerina, interpretata come un "rigurgito fascista", tutto l’arcobaleno dei partiti costituzionali, democratici, parlamentari – in testa, come d’obbligo, i cosiddetti comunisti di Thorez e Duclos, o le loro controfigure italiche – si è precipitosamente stretto intorno a De Gaulle (...) Quell’arca di Noè dell’ideologia borghese che si chiama Partito Comunista Francese ha invitato gli operai a scioperare per protesta contro il fascismo algerino» (Il Programma Comunista, n. 3/1960).

Il concetto venne ripreso nella riunione di Casale del nostro partito nel luglio 1960: «Grazie al ruolo doppiamente disfattista dell’opportunismo internazionale, la cui influenza si esercita direttamente sul proletariato delle grandi potenze imperialiste e indirettamente sui movimenti politici coloniali diretti contro il loro giogo, la borghesia mondiale dispone, malgrado le rinunce a cui è stata costretta in Africa e in Asia (vedi borghesie inglese e olandese), di tutta una serie di "soluzioni" di ripiego che salvaguardano l’essenza del suo dominio, anche laddove la sua apparenza esteriore appare mutata. L’imperialismo, nel suo insieme, ha potuto e può conciliarsi con forme di indipendenza dei paesi ex-colonizzati che non mettono in causa la dominazione mondiale del capitale. È una soluzione che non solo salvaguarda l’essenziale del predominio degli Stati bianchi, ma rappresenta per la borghesia internazionale la garanzia – almeno a breve scadenza – contro il pericolo che la crisi colonialista sfoci in una crisi sociale generalizzata e, su questo piano, le assicura altresì la solidarietà dei nuovi apparati statali dei paesi promossi all’indipendenza, le cui classi dirigenti sono altrettanto ansiose di tenere a freno le masse popolari che le hanno portate al potere».

Unico paese capitalista ininterrottamente in stato di guerra dal 1939 fino agli anni ’60, la Francia ha conosciuto in questo periodo un ritmo di sviluppo della produzione industriale e un incremento demografico senza precedenti. Ma il continuo ammodernamento delle infrastrutture industriali, se pure ha contribuito a ringiovanire un paese ormai sclerotizzato e a impedirne il declino, non è tuttavia bastato a salvaguardare il dominio economico – oltre che militare e politico – sulle colonie. Nella partita in corso con i borghesi nazionalisti algerini la borghesia francese puntava ai "beni" utili per la grandeur della Francia, essenzialmente petrolio e basi militari.

La storia dei negoziati è lunga e tortuosa. L’FLN già nel corso del Congresso della Soummam si era dichiarato favorevole al compromesso con la Francia. Da parte francese, i primi contatti erano stati tentati dal governo Guy Mollet nell’aprile 1956, quando inviati dell’amministrazione si incontrarono a più riprese con Mohammed Khider al Cairo, a Belgrado e a Roma. Ma il sequestro del famoso aereo e l’arresto dei cinque capi dell’FLN nell’ottobre 1956 tolse qualsiasi credibilità al governo francese, anche perché quest’ultimo non riconoscerà la dignità di interlocutori ai politici catturati, che pure saranno designati dal Fronte quali suoi rappresentanti. Lo stesso De Gaulle, arrivato al potere nel 1958, preferirà utilizzare il notabile algerino Abderrahman Farés come trait d’union tra Parigi e il Fronte. Il generale non aveva del resto alcuna fretta ad intavolare negoziati seri perchè mirava a confinare la rivolta nei maquis, sapendo che sarebbe stata perdente sul piano militare, mettendo il governo francese in una posizione di forza. Contemporaneamente Parigi cercava, soprattutto in seno al gruppo messalista, interlocutori più moderati e malleabili di quanto non fossero i rappresentanti del Fronte, allo scopo di aggirare il riconoscimento dell’indipendenza dell’Algeria che l’FLN poneva come pregiudiziale per sedersi al tavolo delle trattative. Ma la dirigenza algerina cominciava ad adattarsi sempre più all’idea che l’arma diplomatica sarebbe diventata prevalente rispetto a quella militare.

Le transazioni procedettero con difficoltà, anche per le resistenze opposte dai francesi d’Algeria a qualsiasi ipotesi di compromesso con gli arabi. Il governo centrale non risparmiò alcun mezzo di pressione per fare breccia sui nazionalisti: intensificò la repressione militare con il "piano Challe"; intavolò trattative con l’MNA di Messali, il fratello nemico dell’FLN, allo scopo di diminuire la forza del Fronte nei futuri negoziati; per allentare le tensioni sociali introdusse provvedimenti – come il "Piano di Costantina" – finalizzati allo sviluppo economico e sociale. Alla fine De Gaulle, uomo di guerra, riuscì a staccare l’esercito francese dagli ultras del Comitato di Salute Pubblica. Questi riappariranno qualche anno più tardi nelle azioni dell’OAS, un’organizzazione militare segreta sorta tra il 1960 e il 1961 dalla fusione di vari movimenti estremistici in rappresentanza degli interessi dei coloni rovinati dalla scelta politica di Parigi.

Il 19 settembre 1958 il discorso di investitura alla presidenza del Governo provvisorio da parte di Ferhat Abbas si tinse di radicalismo: «L’Algeria non è la Francia e il popolo algerino non è il popolo francese. Pretendere di "francesizzare" il nostro paese, oltre ad essere un’assurdità, rappresenta un progetto anacronistico e criminale condannato dalla Carta delle Nazioni Unite (...) Oggi l’Algeria non è più sola nella lotta grazie ai suoi numerosi amici e alleati: la Tunisia, il Marocco, i paesi partecipanti alla conferenza afro-asiatica di Bandung del 1955 e a quella di Accra del 1958 in rappresentanza degli otto Stati africani diventati indipendenti (Ghana, Liberia, Etiopia, Marocco, Tunisia, Libia, Sudan e Repubblica Araba Unita), gli Stati Arabi, i popoli africani, il popolo malgascio, i francesi democratici e quanti in Europa e nelle due Americhe hanno appoggiato il nazionalismo arabo».

Ma un anno dopo, nella sessione di Tripoli del CNRA, la corrente di "sinistra" capeggiata da Ben Khedda attaccò duramente Ferhat Abbas proprio sul tema della conduzione dei negoziati con lo Stato francese. Era diffusa la sensazione che la lotta si fosse arenata perchè i capi delle wilaya, che detenevano il potere di fatto, si preoccupavano più delle problematiche poste dai tanti fronti in cui si era frantumata la guerra che dell’organizzazione delle iniziative politiche. Le dimissioni presentate da Abbas furono respinte dall’Assemblea, ma l’Esecutivo subì un rimpasto: furono esclusi Lamine Debaghine (che lasciò gli Esteri a Belkacem Krim, l’unico capo storico superstite dal 1954) e Ben Khedda (già ministro per gli Affari sociali, che divenne ambasciatore viaggiante). Saldamente al potere rimasero Belkacem Krim, Boussouf e Ben Tobbal, a conferma della preponderanza ormai acquisita dai militari. Ma ben presto ci sarebbe stata la resa dei conti tra i militari dell’interno legati alla guerriglia contadina e al cosiddetto "wilaismo" e le forze armate di stanza alle frontiere, nei due quartieri generali di Ghardimau (Tunisia) e di Ujda (Marocco), che formavano un esercito di quadri in divisa con tanto di ufficiali professionali e di gerarchie, che non avrebbe tardato ad avere la meglio su un Governo Provvisorio diviso al suo interno. Nell’occasione venne costituito uno Stato maggiore dell’esercito con alla testa Huari Boumédiène. Ex-insegnante, ex-militante del PPA, Boumédiène nel 1954 aveva raggiunto Ben Bella al Cairo, dove aveva partecipato all’addestramento militare degli algerini da parte dell’esercito egiziano. Incaricato dall’FLN di scortare il materiale bellico dall’Egitto verso la frontiera algero-marocchina, salirà in fretta i gradini del potere, diventando prima capo della wilaya V (Oranese) nel 1957 e quindi capo di Stato maggiore. Nell’organizzare l’esercito delle frontiere egli guarderà a Fidel Castro e a Mao Zedong. Nel suo quartier generale di Ghardimau, tappezzato di ritratti di Castro, si studiano Fanon, Guevara, Sartre, Jeanson.

Intanto gli europei d’Algeria – ultras civili e militari – sentendosi traditi da De Gaulle, che anziché la distruzione del Fronte cercava la riconciliazione, tentano un’altra prova di forza contro il governo il 24 gennaio 1960, con l’insurrezione detta "delle barricate": i manifestanti sparano con i fucili mitragliatori sulla guardia mobile uccidendo 14 gendarmi e ferendone 61. De Gaulle risponde con la forza facendo appello al patriottismo e alla sicurezza, destituendo gli ufficiali ribelli e spingendo gli estremisti a rifugiarsi nella clandestinità. Anche l’OAS, che aveva nel generale Salan il suo capo effettivo (unitamente ai generali Juhaud, Challe e Zeller), nell’aprile 1961 tentò un colpo di forza in Francia. Ma il putsch venne subito stroncato dalla dura reazione di De Gaulle che si rivolse al lealismo delle truppe. Nell’occasione vi fu il risibile appello rivolto dal PCF agli operai perché occupassero le fabbriche in difesa della democrazia contro il fascismo. Il tentativo subito fallito sortì così l’effetto contrario a quello sperato dai congiurati: contribuì ad accelerare i negoziati, invece che a sabotarli.

Ma le trattative procedevano a rilento per i molti punti di contrasto ancora irrisolti, non ultimo dei quali la questione della sovranità sul Sahara e sui suoi ricchi giacimenti petroliferi appena scoperti. Si trattava, né più né meno, di stabilire in quali condizioni il capitalismo metropolitano potesse salvaguardare il suo monopolio in Algeria, affrontarvi la concorrenza degli altri imperialismi, resistere al diktat del consorzio internazionale del petrolio, ecc. Ora, qualunque sia la difficoltà di dipanare la matassa di interessi così contraddittori, una cosa è certa: la Francia non può contare unicamente sulla propria potenza finanziaria per conservare il controllo sulle risorse del sottosuolo algerino; deve – costi quel che costi – integrarla con un solido legame diplomatico e militare con la futura amministrazione dell’Africa del nord.

Anche in Francia ci si prepara all’indipendenza dell’Algeria: nel giugno 1960 decine di movimenti giovanili manifestano per la cessazione della guerra; a settembre nel corso del processo contro i militanti della rete Jeanson di solidarietà all’FLN, alcuni quotidiani parigini pubblicano il "Manifesto dei 121" (intellettuali) sul diritto alla renitenza alla leva. Il 17 ottobre 1961 l’FLN indice a Parigi e nella banlieu una manifestazione pacifica di massa per protestare contro l’istituzione del coprifuoco nei confronti degli algerini (in Francia erano caduti sotto i colpi dei terroristi ben 47 agenti di polizia) e per denunciare l’escalation di omicidi e violenze di cui essi erano bersaglio. Si trattava della prima manifestazione di massa indetta dall’FLN nel cuore della Francia. La risposta del prefetto Papon fu durissima: centinaia di algerini rimasero sul terreno. A dicembre, violando il divieto del governo, CGT, PCF, PSU e altre organizzazioni, manifestano contro l’OAS e in favore della pace in Algeria. Nel febbraio successivo la manifestazione indetta dal PCF a Parigi-Charonne sempre contro l’OAS scatena una violenta repressione della polizia che lascia sul terreno otto morti. Ma ci vollero le violenze scatenate dagli ultras dell’OAS nel corso dell’inverno 1961-62 con la "caccia all’arabo" (256 morti in soli quindici giorni) per convincere il Governo provvisorio a riprendere seriamente i negoziati. A sua volta, l’opinione pubblica francese, indignata dagli attentati dell’OAS nel territorio metropolitano, pretendeva una pace immediata.

I negoziati risolutivi si svolsero tra il maggio 1961 e il marzo 1962. La prima Conferenza di Evian (20 maggio-13 giugno 1961) e la Conferenza di Lugrin (20-28 luglio 1961) misero in chiaro le proposte della Francia, che annunciò unilateralmente la tregua militare senza esigere contropartite e riconoscendo di fatto come unico interlocutore ufficiale il Governo Provvisorio. Le proposte del governo francese vennero esaminate nella sessione di agosto del CNRA a Tripoli. In questa occasione vi fu il secondo rimpasto al vertice del Governo Provvisorio per comporre i contrasti esplosi fra il "comitato di guerra" (la triade Belkacem Krim, Boussouf, Ben Tobbal) e lo Stato maggiore dell’ALN agli ordini di Boumédiène. L’alto comando militare dell’esercito, denunciando circostanziatamente le "deviazioni" dagli impegni assunti nella precedente sessione, presentò polemicamente le dimissioni. Le dimissioni furono respinte, ma le divergenze restarono: un esercito lacerato al suo interno si apprestava a diventare il garante della costruzione della nuova Algeria, nonché la principale forza politica del paese. Ferhat Abbas, considerato troppo arrendevole, fu sostituito da Ben Khedda alla presidenza del Governo provvisorio, allo scopo di rafforzare l’esecutivo nell’imminenza dell’accordo e impedire che quest’ultimo venisse sconfessato dalla "base".

L’accordo sulla cessazione delle ostilità, con i documenti politici annessi, viene predisposto nel corso di una riunione tenutasi in una località segreta, presso il confine svizzero, nel febbraio 1962.

Il bilancio di otto anni di guerra è così riassunto dal dossier di Le Monde dell’ottobre 1992: dai 140mila ai 500mila morti tra gli algerini; fra i 30mila e i 100mila morti tra i soldati ausiliari arabi (harki); 27.500 morti e circa mille scomparsi tra i militari francesi; 2.788 morti e 875 scomparsi tra i civili francesi d’Algeria (dopo la firma degli accordi, 2.273 europei scompariranno in seguito a rapimenti operati dall’FLN); repressione e terrorismo in Francia; un milione di civili e 60mila harki rimpatriati.
 
 

10. Il tradimento: gli accordi di Evian

Il 19 marzo 1962 si arrivò finalmente alla cessazione delle ostilità. Gli accordi firmati a Evian furono sottoposti alla ratifica del CNRA riunito a Tripoli, in una sessione che sarà caratterizzata dallo scontro fra l’ala "dura" rappresentata da Boussouf e quella "moderata" di Ferhat Abbas. Gli oppositori al compromesso con la Francia temevano che il negoziato contenesse clausole segrete che avrebbero finito per condizionare l’indipendenza dell’Algeria. Fu soprattutto il colonnello Boumédiène a rilanciare il pericolo di "clausole segrete"; il suo no portava allo scoperto le profonde divergenze esistenti tra il Governo provvisorio e i quartieri generali di Oujda e Ghadimau. Ben Khedda, quale presidente del GPRA, difese gli accordi portando a sostegno del documento la delega di Ben Bella e degli altri prigionieri. Nel progetto di accordo, approvato all’unanimità dal Congresso, la Francia si impegnava a riconoscere la sovranità dello Stato algerino su tutto il territorio nazionale compreso il Sahara. I francesi d’Algeria avrebbero mantenuto la doppia nazionalità per tre anni con la facoltà di optare alla scadenza per una delle due. Come contropartita alla concessione di aiuti finanziari privilegiati e alla cooperazione tecnica, gli accordi di Evian garantivano alla Francia "vinta" imponenti interessi economici e strategici: Parigi avrebbe mantenuto in Algeria un esercito di 80mila uomini per tre anni, le basi aeree e i poligoni nucleari nel Sahara per cinque, una base navale a Mers El Kebir per quindici. Era inoltre prevista la creazione di un organismo tecnico franco-algerino per la valorizzazione delle ricchezze del sottosuolo sahariano. Da parte sua, l’Algeria si impegnava a far parte dell’area del Franco.

L’8 aprile in Francia un referendum popolare approvò massicciamente la ratifica degli accordi. In Algeria, il primo luglio la popolazione votò plebiscitariamente per l’indipendenza, proclamata ufficialmente il 3 luglio. Finalmente De Gaulle e la borghesia francese hanno mano libera per accelerare la realizzazione del grande disegno di modernizzazione della Francia.

La procedura prevista per il periodo transitorio era complicata. Gli accordi contemplavano la costituzione di un Esecutivo Provvisorio formato paritariamente da esponenti del GPRA, da algerini non appartenenti al Fronte e da francesi. A presiederlo fu chiamato Abderrahmane Farès, un vecchio amico della Francia. Dall’Esecutivo dipendevano le forze dell’ordine, la preparazione del referendum, il mantenimento dell’ordine interno e l’amministrazione dei servizi pubblici, mentre l’Alto commissariato, che rappresentava la sovranità francese, era competente per le questioni esterne. In questa fase ci fu una recrudescenza del terrorismo ad opera delle bande dell’OAS, che moltiplicarono attentati, omicidi e massacri contro la popolazione algerina nel disperato tentativo di provocare una reazione di massa dell’FLN e costringere così l’esercito francese a schierarsi dalla parte dei coloni. Ma la Francia aveva già sconfessato apertamente l’OAS nell’aprile 1961, mentre la popolazione algerina, seguendo le direttive dell’FLN, conservò nel complesso una notevole calma. Così, per non prolungare un’inutile agonia, si intavolarono trattative tra il plenipotenziario dell’OAS Susini e il rappresentante del Fronte Mastefai, che il 17 giugno conclusero un accordo in cui l’OAS si impegnava a ratificare l’indipendenza dell’Algeria in cambio dell’amnistia generale. L’accordo prevedeva che gli europei potessero entrare a far parte della forza locale, ma nonostante l’invito a collaborare l’esodo riprese più tumultuoso che mai: in tre mesi 800mila europei lasciarono l’Algeria, presi dal panico per i troppi omicidi, per i troppi rapimenti (1.800 scomparsi) e per i troppi regolamenti di conti eseguiti o da eseguire. Gli europei furono imitati da decine di migliaia di harki (le forze ausiliarie indigene che avevano militato nell’esercito francese), anch’essi esposti alle rappresaglie (erano stati uccisi a migliaia già nei mesi precedenti l’indipendenza). L’idea di una nazione franco-musulmana che condividesse la stessa indipendenza rimase sulla carta.

Nel giugno 1962, nuovamente riunito a Tripoli nell’ultima sessione della sua agitata esistenza, il Consiglio Nazionale della Rivoluzione Algerina si spacca in più frazioni: c’erano i comandanti delle wilaya, c’era lo Stato maggiore dell’esercito di stanza a Oujda, c’erano i prigionieri politici. La maggioranza dell’assemblea vota proprio per l’assente Ben Bella. Finita in minoranza, la leadership del GPRA capeggiata dal gruppo di Ben Khedda, abbandona il congresso e ritorna ad Algeri per affermarvi la presenza del Governo Provvisorio, che bene o male era il depositario della sovranità nazionale fino alle vicine elezioni del 27 agosto.

Il Programma di Tripoli, primo testo teorico della rivoluzione algerina (anche se non fu mai approvato formalmente perché la riunione del Consiglio fu sciolta in anticipo per l’infuriare delle polemiche tra il Governo Provvisorio e lo Stato maggiore), rimarrà il filo conduttore della futura azione politica dell’FLN. Gli autori del documento, sotto una forma più o meno "marxisteggiante", influenzata dalla colorazione antimperialista di Frantz Fanon, tracciano una critica dell’azione "rivoluzionaria dell’FLN", accusando la sua direzione di "mentalità feudale" e di "spirito piccolo-borghese", nel tentativo di accaparrarsi la pole-position nella volata per la conquista del potere. Il Programma insiste sullo sviluppo della cultura arabo-islamica e condanna gli accordi di Evian in quanto "piattaforma neocolonialista che la Francia si appresta ad utilizzare per imporre la sua nuova forma di dominio". Esso promette una riforma agraria basata sull’esproprio delle terre, l’organizzazione dei contadini in cooperative di produzione, la creazione di fattorie di Stato, il contributo dello Stato al miglioramento delle tecniche agricole, lo sviluppo delle infrastrutture (con la nazionalizzazione dei mezzi di trasporto), la nazionalizzazione del credito e del commercio estero, la nazionalizzazione (a lunga scadenza) delle risorse minerarie e dell’energia, l’eliminazione dell’analfabetismo, la soluzione del problema degli alloggi, l’emancipazione della donna. Secondo questo Programma, la "Rivoluzione democratica popolare" dovrà essere guidata "dai contadini, dai lavoratori in genere, dai giovani e dagli intellettuali rivoluzionari" a spese delle classi feudali e borghesi algerine la cui ideologia "preparerebbe la strada al neocolonialismo". Come si vede, promesse e demagogia per tutti.

Raggiunto l’obiettivo dell’indipendenza vengono allo scoperto i dissensi presenti in seno all’FLN, occultati finora dalla necessità di non rompere l’unità di guerra. La scintilla della crisi fra esercito e Governo provvisorio fu innescata dal "dimissionamento" del colonnello Boumédiène dalla carica di capo di Stato maggiore dell’esercito insieme ai suoi due vice, deciso dal GPRA il 30 giugno. Questa misura fu immediatamente sconfessata da Ben Bella con l’appoggio di Ferhat Abbas. Ben Bella, apprestandosi a ritornare in Algeria, aveva bisogno di alleati: come già era successo nel 1956 con la Piattaforma della Soummam, egli, assente, disconosceva ora implicitamente gli accordi stipulati con la Francia. Lo stesso giorno del provvedimento adottato contro Boumédiène, egli si dimissionò dal GPRA, di cui era vice presidente, stabilendo di fatto un asse con l’Esercito di Liberazione Nazionale. Il 5 luglio, dopo il plebiscito popolare che sanciva l’indipendenza dell’Algeria, mentre il GPRA di Ben Khedda entrò trionfalmente in Algeri, la coalizione Stato maggiore-Ben Bella-Khider si insediò a Tlemcen, lontano dalla capitale, in attesa del momento più opportuno per la resa dei conti. Un terzo gruppo, che comprendeva fra gli altri Belkacem Krim e Mohammed Boudiaf, si installò invece a Tizi-Ouzou nella wilaya III della Cabilia, creando un Comitato di coordinamento per la difesa della rivoluzione.

Il 22 luglio Ben Bella annuncia la costituzione di un Ufficio politico, praticamente un duplicato del GPRA. Il gruppo di Tlemcen può contare sull’appoggio della wilaya I (Aurès), di una parte della II (Costantinese del nord), della V (Oranese) e della VI (Sahara). Il 25 luglio passa all’offensiva occupando Costantina. Il 2 agosto l’Ufficio politico di Ben Bella si insedia nella capitale. Il Governo provvisorio rimarrà in carica come pura istituzione rappresentativa fino alle elezioni. Un instabile compromesso riconciliò provvisoriamente il gruppo di Ben Bella con il gruppo di Tizi-Ouzou, e Boudiaf entrò nell’Ufficio politico allargandone la rappresentatività. Il presidente del Governo provvisorio Ben Khedda accetta di uscire di scena. Il 6 agosto la federazione francese dell’FLN fedele al GPRA, fa atto di sottomissione all’Ufficio politico. Nel frattempo, lo Stato maggiore di Boumédiène si dichiara pronto ad intervenire contro le wilaya III (Cabilia) e IV (Algeri), costringendo Boudiaf, contrario all’impiego della forza, a dare le dimissioni dall’Ufficio politico. Il 29 agosto l’esercito attacca i ribelli della wilaya IV. Il 30 l’Ufficio politico dà ordine alle wilaya I, II, V, VI e alle truppe dello Stato Maggiore di marciare su Algeri. I violenti scontri di Boghari e di El-Asnam fanno più di mille morti. Il 10 settembre i battaglioni di Boumédiène entrano trionfalmente nella capitale, lasciandosi dietro solo la dissidenza cabila.

L’Algeria nasce quindi all’indipendenza nella più totale divisione e sull’orlo della guerra civile. Alla fine, dopo che la guerra e gli intrighi avranno eliminato i concorrenti più ingombranti, prevarrà il clan Boumédiène-Ben Bella. Come scriverà Boudiaf nel 1964: «I migliori militanti dell’FLN caddero molto presto nella lotta, e la sua dirigenza esterna antepose il successo diplomatico alla formazione di un’avanguardia politicamente cosciente». Ma, in ultima analisi, il proletariato aveva poco da guadagnare dalla lotta delle due fazioni, incarnando l’una (Ben Bella e Boumédiène) il capitalismo statale cucito sul modello sovietico, e l’altra (GPRA) il liberalismo economico preso a prestito dal campo occidentale.

Il 20 settembre viene eletta l’Assemblea costituente, formata da 196 deputati designati dall’Ufficio politico dell’FLN; il 25 è proclamata ufficialmente la nascita della Repubblica Democratica e Popolare di Algeria. Le diverse componenti della coalizione di Tlemcen si spartiscono il potere: Ben Bella viene designato a capo del governo, Khider è nominato segretario generale dell’Ufficio politico, Fehrat Abbas eletto presidente dell’Assemblea. Lo Stato maggiore fa la parte del leone accaparrandosi i ministeri della Difesa, della Gioventù e dello Sport (con Bouteflika, che dopo una lunga eclissi ricomparirà nel 1999) e dell’Interno (Medeghri). Nel governo non figura alcun membro dell’ultimo Governo provvisorio. Nell’aprile 1963, dopo le dimissioni di Khider per divergenze con Ben Bella, quest’ultimo assume anche il segretariato dell’FLN. Vengono messi fuori legge il Partito Comunista, il Partito della Rivoluzione Socialista e man mano tutte le organizzazioni costituite a fini politici. La normalizzazione dei sindacati, che aspiravano a restare indipendenti dal partito, fu più difficile da ottenere; ma l’UGTA finì per diventare uno degli organi nazionali dell’FLN e dovette ritirarsi dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi. Anche il ruolo dell’Assemblea nazionale costituente si assottiglierà sempre di più.

Il governo indica come obiettivi fondamentali la rivoluzione socialista nel rispetto dei valori arabo-islamici, la riforma agraria, l’algerizzazione dei quadri. La nozione di partito unico, che non era emersa al Congresso di Tripoli, viene imposta poco a poco. Per due decenni il potere statale sarà gestito dal sistema Esercito-Stato-Partito unico (FLN). In breve, il modello politico che prevale in Algeria, basato sul controllo economico statale, sul controllo diretto dei sindacati e sul ruolo secondario svolto dal parlamento, corrisponde alla struttura fascista "classica" di tipo mussoliniano, hitleriano e stalinista, un modello a cui nessuno Stato uscito dalle lotte anticoloniali del secondo dopoguerra è potuto sfuggire. Del resto, in una situazione sociale esplosiva come quella algerina del 1963 (due milioni di disoccupati, due milioni e mezzo di nullatenenti, agitazioni urbane, rivolte contadine, imperversare del banditismo, ecc.) l’obiettivo primario non poteva che essere l’instaurazione di un regime di dittatura antiproletaria.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

IV.

BILANCI E PROSPETTIVE MARXISTE DELL’INSURREZIONE ALGERINA

1. La mancata prospettiva rivoluzionaria

Se l’insurrezione algerina fosse scoppiata in una situazione internazionale rivoluzionaria, se la lotta di classe proletaria avesse risposto alla levata in massa dei popoli di colore, i moti di indipendenza in Africa e Asia avrebbero preso un volto completamente diverso. Levandosi contro la propria borghesia, impedendole di intervenire militarmente nei territori oltremare, il proletariato metropolitano avrebbe aperto alle rivoluzioni coloniali la via storica che, da rivoluzioni essenzialmente popolari e nazionali, le avrebbe trasformate in moti sempre più radicali. Forse avrebbe permesso anche alla rivoluzione algerina di farsi agente di una metamorfosi in senso socialista dei rapporti di produzione in tutto il Maghreb, e comunque sottraendola alla guida di transfughi della borghesia indigena già collaborazionista – come Ferhat Abbas – per sviluppare quell’embrione politico di comunismo algerino di cui, già nel 1925, non mancavano i germi.

La condizione sine qua non di uno sbocco tendenzialmente socialista delle rivoluzioni nazionali anticoloniali è l’intensificazione della lotta di classe proletaria nelle metropoli, la presenza di un vero partito comunista nei paesi capitalistici sviluppati. Questa condizione all’epoca della lotta d’indipendenza algerina non esisteva più perché era stata distrutta prima dal riflusso della rivoluzione europea e in seguito dalla degenerazione dell’Internazionale comunista. Il crollo della Terza Internazionale non ha quindi soltanto spento la grande ondata rivoluzionaria di cui l’Ottobre russo era stato il primo grande annunzio, ma le sue metastasi hanno continuato a proteggere il capitalismo in tutto il tormentato e precario periodo della crisi del colonialismo. L’assenza del partito proletario internazionale ha privato le rivoluzioni anticoloniali dell’appoggio delle masse salariate metropolitane, fecendone dipendere il radicalismo sociale e la chiarezza delle rivendicazioni storiche dalle sole forze sociali interne che esse erano in grado di mobilitare e lasciando campo libero alla propaganda dei falsi partiti operai diretti da Mosca, che hanno spinto i moti di indipendenza coloniale verso il compromesso offerto loro dall’imperialismo.

L’FLN non poteva andare oltre le generiche rivendicazioni di democrazia, libertà e uguaglianza; anzi la sua natura piccolo-borghese gli impediva addirittura di appellarsi alla forza di classe per imporre all’imperialismo con la violenza quelle stesse rivendicazioni. Tutti i partiti francesi, dalla destra fino alla sinistra socialista e stalinista, avevano condannato il terrorismo algerino, e "collaborato" con l’FLN nella ricerca di una soluzione democratica, di un negoziato che legasse le mani agli insorti.

Nonostante tutte le promesse dell’FLN di instaurare "il paradiso in terra" per le classi povere algerine dopo l’indipendenza, l’Algeria non poteva sfuggire alla legge che condanna i movimenti antimperialisti a seguire il cammino delle "rivoluzioni mancate" finchè non si emancipano dalla direzione nazionalista e borghese. Da questa posizione programmatica dell’Internazionale Comunista, non discende però la conclusione che i comunisti dei paesi colonizzati – e a maggior ragione i comunisti delle metropoli colonialiste – debbano accettare il dominio imperialista e opporsi alla lotta armata. Al contrario, l’Internazionale chiedeva ai partiti aderenti di combattere «la tendenza del movimento borghese democratico nazionalista portatore di un programma di indipendenza nazionale e di ordine borghese» e dirigere «il movimento degli operai e dei contadini ignoranti e poveri per la loro emancipazione da tutte le specie di sfruttamento» e di «cercare di sviluppare i sentimenti di classe indipendente nelle masse operaie delle colonie». Questo era il compito dei comunisti dei paesi colonizzati, che avevano altresì il dovere di appoggiare ogni movimento nazional-rivoluzionario che si ponesse sul terreno della lotta armata, mentre i partiti comunisti delle metropoli avevano il dovere di combattere il proprio imperialismo perchè «gli interessi della classe operaia e della sua lotta contro il capitalismo esigono che vi sia una risposta alla politica nazionalista della borghesia».

Niente di più lontano da queste classiche posizioni le giravolte operate dai comunisti algerini e francesi o dall’FLN! Fra le tante carognate che hanno caratterizzato la politica del PCF meritano di essere ricordate la sua partecipazione al governo borghese che nel maggio 1945 represse selvaggiamente i moti della fame di Costantina, e il suo voto favorevole per la concessione al governo francese dei poteri eccezionali nella repressione della rivolta algerina.

La nostra rivista in lingua francese Programme Communiste nel numero10 del 1960, di cui riportiamo qui un’ampia sintesi, analizzando il processo di "pace" in fieri ne coglieva già tutte le insanabili contraddizioni.

«Nel novembre 1954 scoppiava in Algeria la prima rivolta antimperialista generalizzata che questo paese avesse mai conosciuto, nonostante il suo fiero spirito di indipendenza, in più di un secolo di colonizzazione francese. Ci sono voluti cinque anni perché si delineasse una via d’uscita, perché si intravedesse lo scioglimento di una lotta che si potrà concludere solo con il raggiungimento della completa indipendenza politica o con la disfatta totale. Da ogni sponda già si celebra la pace che si prepara e la cui promessa sembra soddisfare tutte le classi e tutte le correnti, con la sola eccezione degli oltranzisti di destra che la temono, fanaticamente attaccati come sono al mantenimento integrale del loro antico modo di vita e ben decisi a non fare alcuna concessione che possa intaccare i loro privilegi.

«In una società divisa in classi, quando si raggiunge l’unanimità su qualcosa, si può star certi che la classe dominata si inganna, che esiste da qualche parte un gigantesco malinteso. Se le classi non possidenti hanno tutte le ragioni di preferire la pace alla guerra, non per questo la pace significa automaticamente la soppressione delle contraddizioni che rendono la guerra inevitabile. Quando si tratta di una guerra sociale, come in Algeria, il proletariato, che è la sola classe emancipatrice della società, ha il dovere di chiedersi da dove viene quella pace che si decanta, e dove porta.

«Fino alla dichiarazione presidenziale del 16 settembre, la posizione ufficiale della borghesia francese sulla questione algerina fu netta: la pace non può nascere che dalla completa pacificazione del paese, cioè dall’annientamento dei ribelli, restando fuori discussione qualsiasi incontro o negoziato con i rappresentanti di questi ultimi. Ogni eventuale consultazione politica era rimandata a dopo la vittoria militare. Ma il 16 settembre il Generale ha rilanciato solennemente il principio dell’autodeterminazione, e il 10 novembre ha addirittura invitato i capi dell’FLN a un incontro senza preventiva discussione politica per arrivare a un cessate-il-fuoco, ricevendo una risposta non sfavorevole. Perché questo cambiamento di strategia da parte della Francia? Politicamente, l’autodeterminazione è formula di unione nazionale perché ben si concilia, per lo meno astrattamente, con tutte le "soluzioni" che da un po’ di tempo sono nell’aria, e che vanno dall’indipendenza all’integrazione; ma nel campo dei "princìpi" essa suscita qualche dubbio rispetto alla ben nota tesi degli oltranzisti: l’Algeria è la Francia.

«Se oggi questa vecchia tesi non gode più i favori del potere, non è passato però molto tempo da quando in alto loco se ne faceva una questione di principio, e dunque di polizia. Eppure la faccenda è alquanto strana: supponiamo che nel 1954, ossia esattamente 171 anni dopo la vittoria degli americani nella lotta di indipendenza contro la vecchia Inghilterra, qualcuno si fosse a un tratto arrischiato a dire: "Giorgio III aveva ragione e Washington torto: l’America di oggi è l’Inghilterra di ieri!", tutti gli avrebbero dato del pazzo. Non è necessario essere marxisti per osservare che l’area geo-umana a cui appartiene il territorio algerino è almeno altrettanto nettamente distinta da quella della Francia, nonostante la minore distanza, di quanto lo era l’America del nord rispetto all’Inghilterra. Se poi si vedono le cose dal punto di vista del popolamento, la differenza è ancora più netta: gli insorti americani erano in fondo di ceppo europeo (i nativi erano stati decimati); ma qui i ribelli sono arabo-cabili che né la storia, né l’organizzazione sociale al momento della conquista, né i costumi, né la lingua predestinavano "per natura" a formare una sola e medesima nazione con i francesi! Senza contare che, al momento della rivolta, essi erano otto volte più numerosi degli abitanti di ceppo francese insediati in Algeria.

«Ecco allora la portata dell’autodeterminazione nel campo dei "princìpi": dagli abissi in cui l’imperialismo aveva fatto cadere la borghese democrazia francese siamo risaliti (per grazia del Generale, credono gli ingenui) fino al livello – tutt’affatto teorico! – del generale... La Fayette, che tra l’altro non era neanche giacobino! Per essere nel 1959, non è proprio un gran vanto! Di fatto, il principio in questione non va oltre il vago riconoscimento di una "personalità" algerina. Già prima del Generale, altri avevano avuto questo banalissimo merito democratico: il che non impediva loro di essere partigiani sfegatati della "pacificazione". In epoca imperialista, la semplice spolveratura dei più antichi valori democratici della borghesia costa prezzi esorbitanti. Per l’ultima concessione al fatto quanto mai evidente che... "l’America non è l’Inghilterra", parla la statistica dei morti comunicata dal Generale: 145mila partigiani algerini, 13mila "pacificatori" francesi e quasi 14mila civili tra francesi e musulmani.

«È noto che per la borghesia i principi sono una cosa e la politica reale un’altra. Qual è il senso politico reale dell’autodeterminazione? Esso si può leggere tanto nelle dichiarazioni presidenziali quanto nei comunicati esplicativi del delegato generale Delouvrier ad uso degli oltranzisti: "Innanzitutto deponete le armi. Poi, dopo un’adeguata preparazione di alcuni anni, potrete votare. Alla campagna elettorale potranno partecipare tutti, compreso l’FLN. A questo punto direte se volete che l’Algeria realizzi il suo destino con o senza la Francia. Quando avrete scelto di essere con la Francia, vi si chiederà se volete essere amministrati come i dipartimenti francesi (è questa la famosa integrazione, di cui tanti borghesi temono l’alto costo!), ovvero secondo un preciso statuto che sarà stato intanto stabilito sotto controllo del governo".

«Tralasciamo qui la questione dei mezzi di cui ogni moderno Stato dispone per pilotare il voto: per sviluppare questo argomento in lungo e in largo con esempi algerini a sostegno, basta un buon democratico o, se si vuole, un comunista francese. Per un marxista, il punto essenziale non è questo. L’essenziale è che il governo, che non ha nessunissima intenzione di accordare l’indipendenza, conta proprio sul passaggio dall’azione armata alla propaganda elettorale per logorare la corrente indipendentista: quale più bell’omaggio potrebbe essere reso al metodo non legalitario, non pacifico della lotta politica e sociale? Finché resta sul terreno della lotta armata, l’FLN è invincibile: esso attinge la sua forza in modo pressoché inesauribile dall’esasperazione delle masse diseredate e miserabili del paese. Quando, al contrario, scende sul terreno della competizione pacifica, esso è perduto, perché diventa incapace di collegare indipendenza politica e programma sociale, restando il suo indipendentismo a livello meramente borghese. Mentre nei movimenti armati il ruolo principale è svolto dai poveri e dagli ignoranti, che forniscono i combattenti e con cieco "fanatismo" sacrificano generosamente la vita per cause che credono liberatrici, nella competizione pacifica, al contrario, prendono il sopravvento gli "istruiti", tutti quelli che "sanno parlare" e che mirano a risultati "pratici e concreti". Ma tra un partito nazionalista ridotto al solo strato intellettuale e borghese "pratico", spinto per altro alla "ragionevolezza" da tutte le potenze mondiali, dall’America plutocratica alla Russia "socialista", dalla Francia imperiale alla Tunisia e al Marocco "liberati"; tra questo partito fatalmente minoritario che l’abbandono delle armi avrà spogliato della sua aureola di eroismo, da una parte, e la Francia dall’altra, ossia il potere consacrato dall’abitudine e dalla paura, ma parlante un linguaggio "nuovo", prodigo di promesse, non è forse ancora quest’ultimo che con ogni probabilità verrà scelto da quella massa amorfa, timorosa, indecisa che ogni società anche nelle peggiori crisi alimenta? In fondo è proprio questa la speranza che il Generale ha espresso invitando gli arabi a fondare il grande Partito del progresso algerino. Anche se presidenziale, una semplice speranza non impedirà assolutamente all’esercito di svolgere un ruolo meno semplicemente... politico.

«Questa prospettiva è insomma perfettamente "marxista", in quanto fa assegnamento sul sicuro deterioramento della situazione algerina stante lo sfavorevole rapporto delle forze di classe sia a livello nazionale sia internazionale: il proletariato è amorfo, ovunque. Quanto all’FLN, organo della rivolta, se esso fosse stato una forza autenticamente rivoluzionaria, nessuno si sarebbe arrischiato a proporre la sua partecipazione alla campagna referendaria, per non correre il rischio di scatenare una potente agitazione sociale. Nessuno, nemmeno l’ispirato improvvisatore che la totale dissoluzione delle forze di classe ha posto alla testa dello Stato borghese e che ha appena dimostrato a quell’opposizione che egli tiene in ostaggio come si può essere allo stesso tempo Generale e abile maestro nell’arte del maneggio della finzione democratica. Eppure, sarebbe più facile supporre una simile imprudenza da parte della vecchia e scaltra borghesia francese che concepire un partito realmente rivoluzionario che a chi gli chiede la pelle risponda: "Te la darò in cambio di garanzie democratiche". Qui il punto di contrasto tra il Generale, che vuole un accordo meramente tecnico-militare per il cessate-il-fuoco, e il GPRA, che vuole una preventiva discussione politica "per assicurarsi che il referendum sia regolare!". C’è da scommettere che i rudi partigiani algerini, che hanno sempre manifestato un sano disprezzo per le schede elettorali e per le chiacchiere parlamentari, non devono aver molto apprezzato questa enorme sciocchezza dei loro "ministri"! Ma nell’impossibilità di classe (sono soprattutto contadini) di costituire un partito autonomo, e nell’impossibilità storica di guidarli in cui è venuto a trovarsi il proletariato algerino, cos’altro potevano fare se non lasciarsi tradire dall’irrimediabile viltà borghese? D’altronde, poteva la marginale intelligenza coloniale d’Algeria smentire le tante lezioni storiche sul ruolo svolto dalla borghesia nelle rivoluzioni popolari, oltretutto in piena epoca imperialista? Non c’è niente da ridire sulla risposta del GPRA: essa è pienamente conforme alla sua natura politica e di classe!

«All’indomani della dichiarazione del 16 settembre, i comunisti francesi affermavano che l’autodeterminazione non era altro che una manovra demagogica per sabotare quell’indipendenza a cui loro stessi – e con quante riserve! – si erano da poco "convertiti". Va qui ricordato che per decenni essi si erano rifiutati di riconoscere il movimento nazionale algerino con il pretesto, preso a prestito peraltro dai borghesi, che non era mai esistita nel passato una nazione algerina. Alle miserabili e rozze masse algerine che insorgono contro l’imperialismo che ha distrutto la loro società senza contemporaneamente inserirle in quel sistema capitalista che pure ha introdotto nel paese, perché credono che l’unico mezzo per sfuggire al loro secolare decadimento, a quell’immiserimento da "barboni" denunciato persino dagli osservatori borghesi, è quello di separarsi dalla Francia e darsi uno Stato nazionale, i comunisti rispondono: alto-là, avete mai avuto uno stato nazionale? Insomma, per questi "marxisti", non potendo gli Arabi d’Algeria presentare qualche Remo e Romolo cabili, qualche Pericle arabo, un succedaneo locale di monarchia capetingia o un Mikado algerino, essi non hanno alcun diritto di separarsi dalla Francia e di costituirsi in nazione! Non potendo vantare uno "sviluppo nazionale normale", che peraltro ha sempre trovato ostacoli sia nella natura sia nella storia, consistita in una serie ininterrotta di colonizzazioni, essi devono rassegnarsi al dominio imperialista! Questa la pedante conclusione a cui porta il democratismo di Thorez e compagnia. Il marxismo va tenuto a mille miglia di distanza dalle elucubrazioni di questi volgari lacchè della borghesia: una conclusione tutta impregnata di quella sicurezza che le tradizioni nazionali danno ai popoli ricchi ed evoluti, tradizioni che, alla fin fine, non sono nient’altro che la dolorosa storia dell’oppressione delle classi inferiori ad opera di tutta una serie di successive forme di Stati storici! Poveri algerini, che in fatto di tradizione nazionale non possono rivendicare se non le loro continue rivolte contro la serie ininterrotta di invasioni! La loro disgrazia deriva dal fatto che, immersi in una natura ostile, hanno conservato l’organizzazione tribale molto più a lungo di qualsiasi altro popolo d’Europa, soprattutto nelle zone interne, tradizionalmente meno evolute delle zone costiere. Ma l’organizzazione tribale ignora ogni forma di Stato di classe autonoma; e senza Stato niente Nazione!

«Degni rappresentanti di un proletariato che la secolare partecipazione al banchetto colonialista ha marchiato con le stesse tare della classe operaia inglese, il cui imborghesimento suscitava la disperazione di Marx-Engels, i comunisti hanno evitato questo grossolano "errore" solo quando non hanno potuto fare altrimenti. Riusciranno questa volta ad avvedersi di un semplice fatto storico? Quando le tredici colonie inglesi d’America si sollevarono nel 1776 contro il re e il parlamento di Albione, neanch’esse avevano alcuna "tradizione nazionale propria", nonostante la presenza di una struttura sociale che non contrastava alla formazione di uno Stato. Anzi, la nuova nazione nacque proprio dalla rivolta e per mezzo della rivolta! Abbiamo paura che neanche questa volta i nostri bravi opportunisti riusciranno a lavare la macchia della loro posizione bassamente borghese, visto che si sono rimangiati persino la critica straordinariamente moderata che in un primo tempo avevano sollevato contro l’autodeterminazione. Quello che, all’indomani del 16 settembre, veniva denunciato come una manovra demagogica, è diventato, dopo la sensazionale dichiarazione con la quale Kruscev riconosceva i legami che uniscono... l’imperialismo francese al petrolio sahariano, e i coloni europei alle fertili terre algerine, un fatto capitale (il ritorno a... La Fayette) e un passo in avanti verso la pace da tutti auspicata. Tale è stato l’effetto miracoloso del frettoloso intervento di Thorez. Quale rapporto hanno questo pacifismo assoluto, questa adesione al legalismo democratico dell’autodeterminazione, che fa seguito al rifiuto ostinato di riconoscere agli insorti il diritto alla separazione – quale rapporto hanno queste posizioni di un partito che, sebbene "operaio", si autoproclama partito della grandeur francese, con le posizioni del movimento proletario internazionale sulla questione coloniale?»
 
 

2. Il proletariato e la borghesia imperialista

Come dice Lenin, nella questione coloniale, come in ogni questione che investe i rapporti internazionali dello Stato capitalista, e in primo luogo la guerra imperialista, il nazionalismo borghese e l’internazionalismo proletario sono due parole d’ordine irriducibilmente opposte che corrispondono ai due grandi campi di classe del mondo capitalista e che traducono due politiche o meglio ancora due concezioni del mondo.

«Ma perché queste due politiche, queste due concezioni del mondo che corrispondono all’esistenza oggettiva di due classi dai fini contrapposti, si affrontino in una lotta reale, è necessario che le masse operaie siano state educate nella coscienza dei loro interessi di classe nel corso di molte generazioni e che, contemporaneamente, una grande crisi storica mini alla radice l’influenza delle classi dominanti. Le ragioni di classe che rendono l’imperialista borghesia francese tanto restia a rinunciare al dominio sull’Algeria, anche a costo di qualche concessione, sono ben chiare: l’Algeria rappresenta la sua ultima possibilità di poter svolgere ancora un ruolo di primo piano nel concerto delle grandi nazioni. L’Algeria riveste per la Francia un’importanza strategica "classica": essa garantisce il mantenimento della presenza francese non solo nel Maghreb, ma anche nell’Africa nera. Dal punto di vista della strategia moderna, inoltre, la borghesia francese deve assolutamente mantenere la sua sovranità sul Sahara per poter procedere agli esperimenti con le armi nucleari, il cui possesso può darle una certa indipendenza dagli alleati anglosassoni: già il Marocco e l’Africa nera protestano per l’avvelenamento della loro atmosfera, e le rassicuranti dichiarazioni di Jules Moch non appaiono molto convincenti, visto che proprio lui ha da poco denunciato con enfasi alla Commissione Disarmo gli effetti nocivi di tali esperimenti.

«Infine e soprattutto, l’Algeria ha per la borghesia francese un’importanza economica: essa rappresenta un mercato per i prodotti manufatti ed è un fornitore di materie prime: il Sahara produce petrolio, questa manna insperata che ha fatto delirare d’entusiasmo tutti i super-produttivisti, e probabilmente possiede importanti giacimenti di minerali molto utili all’industria moderna. Queste nuove risorse sono indispensabili per la modernizzazione di un’economia come quella francese che è stata a lungo parassitaria, se la borghesia vuole fare della Francia una grande potenza industriale in grado di competere sul mercato mondiale. Ciò spiega d’altronde perché essa tanto sinceramente desideri sia la pace in Algeria sia il mantenimento del proprio dominio: le spese di guerra riducono gli investimenti indispensabili alla modernizzazione dell’apparato industriale. È questo un tema perfettamente borghese che i comunisti francesi riprendono con uno zelo particolare, e al quale essi aggiungono l’inevitabile argomento riformista che loro ispira il basso nazionalismo "popolare": è la guerra che impedisce le forniture alle industrie francesi minacciate di sparizione per colpa del Mercato Comune.

«Le ragioni di classe del proletariato di non seguire su questa strada la borghesia imperialista e l’opportunismo "comunista" sono del tutto chiare teoricamente, nonostante che trent’anni di snaturamento del comunismo marxista le abbiano fatte totalmente dimenticare agli operai. Il dovere di praticare una politica che favorisca l’unione e la solidarietà degli operai di tutti i paesi diventa particolarmente imperioso proprio quando si tratta degli operai di paesi arretrati. Forse i proletari francesi ignorano che in Algeria su otto milioni di arabi e di cabili circa un milione sono disoccupati, ma di sicuro non possono ignorare gli operai arabi emigrati con cui lavorano fianco a fianco nelle fabbriche francesi. Dal punto di vista della lotta per il socialismo e al di là delle differenze di credenze e di costume che li separano, a chi deve andare la loro solidarietà? Alla propria borghesia sempre alla ricerca di una grandeur di cui sono i primi a farne le spese, o non piuttosto ai loro fratelli di classe diseredati?

«Supponendo che i proletari francesi abbiano qualcosa da insegnare agli operai coloniali (anche se per il momento è proprio la loro educazione da rifiutare, visto che non riescono a scrollarsi di dosso il giogo degli opportunisti e dei nemici del socialismo), dovrebbero essere garantite le condizioni indispensabili a un tale compito, in ottemperanza alle Tesi dell’Internazionale: "L’oppressione secolare delle piccole nazioni e delle colonie da parte delle potenze imperialiste ha fatto nascere nelle masse lavoratrici dei paesi soggetti non soltanto un sentimento di rancore verso le nazioni che le opprimono nel loro complesso, ma anche un sentimento di sfiducia nei confronti del proletariato dei paesi oppressori... Di qui il dovere per il proletariato cosciente di mostrarsi particolarmente prudente riguardo alle sopravvivenze del sentimento nazionale nei paesi che sono stati asserviti da lungo tempo, e addirittura di fare qualche concessione per accelerare la sparizione di questi pregiudizi e di questa diffidenza. La vittoria sul capitalismo non potrà essere raggiunta senza l’alleanza e l’unità del proletariato, prima di tutto, e poi delle masse lavoratrici di tutti i paesi e di tutte le nazioni".

«Non si può escludere che l’Algeria finisca per ottenere una indipendenza politica più o meno formale. La gravità non sta nel fatto che questo non si realizzi, ma che il proletariato francese abbia perduto, nel corso dei cinque anni di guerra, un’ottima occasione per "dissipare la sfiducia" degli sfruttati d’Algeria nei suoi confronti. E questo va soprattutto a vantaggio dell’inconsistente borghesia nazionale algerina che sembra essere riuscita a controllare il movimento insurrezionale, e si prepara a tradirlo attraverso i "negoziati". Ma soprattutto, come non vedere che non solo i rapporti fra operai francesi e algerini, ma tutto il sordido clima politico dell’Europa e del mondo sarebbero stati trasformati se il proletariato avesse adempiuto al suo dovere internazionalista utilizzando i mezzi tradizionali di classe? Una decisa azione proletaria contro l’imperialismo francese avrebbe immediatamente varcato le frontiere della Francia, diventando un segnale per i proletari di tutta Europa e rappresentato un enorme passo avanti nella dispersione dei miasmi dello sciovinismo ereditato dall’ultima guerra imperialista, condizione sine qua non per la rinascita del movimento socialista. Il proletariato francese, a causa del suo larvato sciovinismo e al tradimento degli opportunisti ha dunque perso l’occasione per risvegliare dal loro profondo letargo le masse del mondo intero. Gli opportunisti hanno buon gioco nel parlare delle lentezze della storia; in realtà non esistono altre "lentezze" se non quelle del proletariato nel comprendere i propri interessi di classe e nel liberarsi della sua subordinazione alla politica nazionalista della borghesia».
 
 

3. Il proletariato e il movimento nazional-rivoluzionario

«In ultima analisi, le cause remote della disfatta del movimento nazional-rivoluzionario algerino vanno cercate sia nella défaillance del proletariato francese nella lotta contro l’imperialismo sia, da un punto di vista più generale, nella degenerazione dell’Internazionale comunista. In queste condizioni, fosse rimasto in piedi il dominio coloniale o che alla fine si arrivi a una repubblica "alla Bourghiba", il risultato per l’Algeria sarà comunque il fallimento dell’insurrezione in atto, a cui la debole borghesia algerina ha dato tardivamente la propria adesione. Alla lunga, l’accumularsi delle contraddizioni sociali causate dall’innestarsi dell’imperialimo francese nel ceppo dell’antica società araba, ha reso insostenibile la situazione provocando una rivolta che sotto la maschera delle rivendicazioni nazionali nasconde la sua vera natura sociale. La grande coltura capitalistica europea ha minato le basi dell’agricoltura autoctona e creato nelle campagne una popolazione soprannumeraria che si è riversata nelle città, spesso senza trovare occupazione a causa del debole sviluppo industriale. L’esodo rurale è stato in parte assorbito dall’emigrazione, con tutti gli aspetti negativi del caso, dal supersfruttamento degli immigrati algerini in Francia alla concorrenza che si è venuta inevitabilmente a creare tra gli operai, a tutto svantaggio dell’unità proletaria. Quanto agli strombazzati piani di industrializzazione del paese, non solo essi sono ancora allo stadio di progetto, ma neanche lontanamente saranno in grado di assorbire tutta la sovrappopolazione relativa.

«Il problema dei problemi resta la questione agraria. Senza una soluzione rivoluzionaria della questione agraria ogni sviluppo economico e sociale è fatalmente condannato a segnare il passo, il che vuol dire una prospettiva di miseria e di emigrazione per intere generazioni di algerini. Quale la situazione nelle campagne algerine? Al momento della conquista francese la superficie coltivata, a titolo privato o collettivamente dalle tribù era, secondo Rosa Luxembourg, di 9 milioni e mezzo di ettari; oggi \1958] essa varia tra gli 8 e i 10 milioni di ettari, a seconda delle statistiche. Anche la superficie coltivata dagli europei è rimasta stabile nei 16 anni dal 1940 al 1956 per i quali si dispone di statistiche: rispettivamente 2,7 milioni e 2,5 milioni di ettari. Questo farebbe pensare che nel frattempo non sono stai messi a coltura nuovi terreni ma vi sono stati solo trasferimenti di proprietà. La mancata colonizzazione di nuova terra (dove vi è stata ha significato l’espulsione degli autoctoni dai terreni migliori di pianura e il loro trasferimento in quelli marginali) ha voluto dire semplicemente la sottrazione di circa un quarto delle terre coltivate ad una accresciuta popolazione rurale. A considerare solo le terre migliori (Sahel, Mitidja, altopiani di Orano e di Saint-Cloud-Mostaganem-Bona), la percentuale della superficie sottratta, naturalmente in modo ipocritamente legale, agli occupanti originari sale addirittura al 76%. Da una statistica ufficiale del 1940 circa il numero complessivo dei coltivatori e l’estensione delle aziende europee e arabe secondo cinque classi di grandezza (da 10 a 500 ettari e oltre), si viene a sapere che globalmente il rapporto tra la superficie media delle proprietà europee e di quelle musulmane è di 106 ettari contro 14. Anche a voler escludere dal calcolo le aziende agricole grandissime, per la maggior parte in mano agli europei, la sproporzione rimane considerevole: 29 ettari contro 11. Le cose non cambiano granché nemmeno se si prendono in considerazione le aziende inferiori a 50 ettari: tra la proprietà media europea di 16 ettari e quella araba di 9 c’è quasi un rapporto di 2:1. Seppure all’ingrosso, questo sistema di medie permette di stabilire una cosa: nelle campagne arabe, la differenza fra contadini poveri e contadini agiati o ricchi corrisponde pressoché esattamente alla differenza di razza. La differenza è ancora più netta quando si consideri che la situazione del contadino non dipende solo dall’estensione del fondo, ma soprattutto dalle condizioni tecniche e dalla natura del suolo. Solo le aziende agrarie arabe di estensione superiore a 500 ettari possono competere con l’agricoltura a conduzione europea quanto a utilizzo delle moderne tecniche agricole e possibilità di beneficiare delle grandi opere come i bacini per l’irrigazione, ma esse non coprono che 470mila ettari sugli oltre 7 milioni e mezzo complessivi condotti dai locali.

«Gli effetti sociali di questa espropriazione legale sono noti. Una parte della popolazione rurale (circa 570mila persone) è stata trasformata in proletariato agricolo miserabile, mantenuta nell’ignoranza e rimasta sindacalmente indifesa di fronte al padronato. Un’altra parte ha abbandonato le campagne e si è riversata nelle città andando ad ingrossare le file del proletariato (i salariati urbani erano nel 1954 oltre 330.000) o, più spesso, di un sottoproletariato che vive in condizioni ancora più miserabili del proletariato agricolo e che supera sicuramente il numero dei 113.100 (!) disoccupati ufficialmente censiti. Per questo strato di Lazzari l’unica àncora di salvezza è data dall’emigrazione, se si possono chiamare salvezza le condizioni di lavoro, di salario e di vita che la borghesia francese riserva loro... per non parlare della totale mancanza di solidarietà sindacale e di classe da parte degli operai.

«Ma la grande maggioranza dei contadini parzialmente espropriati vive, ancora oggi, nelle campagne algerine dove forma, grazie al generale aumento della popolazione, una massa umana di oltre 2.700.000 persone, compresi donne e ragazzi in età da lavoro. La fascia superiore di questo contadiname indigeno conta circa 20.000 coltivatori più o meno capitalisti, mentre i grandissimi proprietari delle aziende di oltre 500 ettari non arrivano a 600. Il resto è costituito dalla grande massa dei piccoli contadini (fellah e mezzadri) che utilizzano ancora sistemi di coltivazione rudimentali. L’eccessiva parcellizzazione, la bassa resa, il numero di bocche da sfamare quasi mai consentono a questi ultimi la disponibilità di un’eccedenza da portare al locale mercato per rifornirsi di generi indispensabili non alimentari; anzi, spesso rimangono insoddisfatti gli stessi bisogni puramente alimentari. Nelle campagne arabe, insieme all’ignoranza e alla superstizione, regna anche la sottoalimentazione. Per la verità, questa regna anche nelle città, per lo meno tra le classi povere. Anche in città lo strato "superiore" della popolazione indigena è numericamente molto ridotto, arrivando a contare 120.000 tra "titolari d’impresa, artigiani, commercianti e liberi professionisti" (a cui vanno aggiunte però le famiglie). Ma è noto che queste categorie hanno confini alquanto indefinibili perché riguardano le situazioni sociali più disparate, fino all’artigiano rovinato dalla concorrenza capitalista che vegeta nella più assoluta mediocrità.

«In conclusione, la borghesia araba è debole, ma soprattutto è una borghesia terriera che nell’economia urbana non occupa alcun posto chiave. Al suo interno, come di regola in tutti i paesi arretrati, ha un certo peso l’intelligenza formatasi nelle università borghesi francesi e impregnata di democratismo legalitario. Anche se arrivasse al potere rimarrebbe a tal punto dipendente dal capitale finanziario francese e internazionale, e quindi dei grandi Stati borghesi, che non riuscirebbe a realizzare alcuna profonda riforma in grado di trasformare rapidamente la società algerina.

«Anche il proletariato risulta più numeroso nelle campagne; nelle città esso è costituito da una manodopera fluttuante, poco sviluppata politicamente, spesso confinante con il sottoproletariato, in tutti i casi poco adatta a svolgere quel compito di formazione nei confronti del proletariato rurale che storicamente incombe al proletariato urbano. Le sue forze vitali sono salassate dall’emigrazione, che lo priva degli elementi più audaci e intelligenti. Quanto al proletariato algerino emigrato, esso non può più svolgere alcun ruolo decisivo nella lotta in corso in Algeria. La base della società è costituita dalla grande massa dei piccoli contadini, ridotti in condizioni di miseria e disperazione, la cui lotta non potrà essere arrestata o frenata da nessuna educazione politica democratica e borghese e da nessuna considerazione diplomatica.

«Le caratteristiche del movimento indipendentista riflettono fedelmente questa struttura sociale. Non è stata la borghesia a prendere l’iniziativa dell’insurrezione: fino all’ultimo momento, uno dei suoi tipici rappresentanti, Ferhat Abbas, non solamente si teneva ben lontano dal movimento antimperialista di azione diretta, ma negava la stessa nazione algerina. Solo dopo che la rivolta fu maturata negli strati più profondi della popolazione, il partito borghese e legalitario, l’Unione Democratica del Manifesto Algerino, si unì (peraltro contemporaneamente ai capi religiosi, gli Ulema) agli insurrezionalisti del CRUA per dar vita all’FLN. Ci sarà bisogno di tutta l’intransigenza dell’imperialismo francese, incoraggiato dalla passività del proprio proletariato, perché i rappresentanti della borghesia indigena venissero catapultati nel movimento insurrezionale.

«Questo movimento, lungi dal basarsi sul proletariato urbano e sui metodi tradizionali di lotta della classe operaia, ossia scioperi e manifestazioni di massa, ha trovato il suo fulcro nella guerriglia contadina, a cui le città hanno fornito i quadri quando è stato chiaro che non avrebbero mai conquistato le masse rurali ad una azione puramente legalitaria. È stata la guerriglia contadina a tener testa per cinque anni all’imperialismo; il terrorismo urbano, ad essa legato da mille fili nascosti, ha sempre svolto un ruolo secondario. Nel 1962 il nuovo potere si troverà di fronte l’irrisolvibile problema delle masse contadine povere che sono state l’anima dell’insurrezione sotto la bandiera della riforma agraria, che è indispensabile per la loro sopravvivenza. Questa la descrizione degli insorti fatta nel luglio 1960 dall’Ouvrier Algérien, organo dell’UGTA: "Sono i contadini a costituire il fulcro dell’ALN (esercito di liberazione nazionale), essi sopportano il peso maggiore della guerra: bombardamenti che radono al suolo i villaggi, scontri continui che impediscono la semina e il raccolto, vaste zone proibite al pascolo, rastrellamenti di intere famiglie... La Rivoluzione algerina rappresenta per essi la libertà e la dignità ritrovate, la sicurezza che un giorno la terra sarà di nuovo loro, che nasceranno nuovi villaggi senza la presenza di coloni e di feudali, algerini o altri... villaggi senza sfruttati e senza sfruttatori in cui saranno possibili la cooperazione (!) e il progresso tecnico... I contadini algerini lottano e soffrono non perché non abbiano nulla da perdere, cioè non per disperazione, ma perché hanno tutto da guadagnare".

«Queste le promesse che il nazional-democratismo algerino faceva nonostante avesse già svenduto alla borghesia francese ogni possibilità di soddisfarle. Le cose sarebbero potute andare altrimenti se fosse riuscito il tentativo di portare la lotta nel cuore stesso della metropoli: ma esso è fallito, a riprova che il proletariato emigrato non ha fatto sua questa forma di lotta. Una tale forma di lotta è infatti tipica dei paesi a struttura sociale arcaica, laddove le classi sociali fondamentali non sono ancora sufficientemente sviluppate perché la lotta sociale assuma il suo moderno aspetto di lotta di massa. L’esempio classico è dato dalla Russia della seconda metà del XIX° secolo, dove un’intelligenza minoritaria cercò, con la sola forza del suo eroico esempio, di trascinare nella lotta contro lo zarismo masse popolari ancora sprofondate in un torpore secolare. In Algeria, l’iniziativa è dovuta partire da gruppi a composizione sociale assai eterogenea, in cui i proletari non sono certamente stati i meno risoluti. Ma non per questo si può parlare di una forma di lotta proletaria, anzi è comprensibile che i lavoratori algerini, proiettati dall’emigrazione nelle condizioni della moderna lotta di classe, non abbiano dato ad essa l’apporto che ci si poteva attendere.

«L’obiettivo del movimento insurrezionale considerato nel suo complesso è la costituzione di uno Stato nazionale. Questa rivendicazione politica incarna al momento le aspirazioni di tutte le classi della società algerina, o piuttosto di tutte le frazioni di quelle classi che sfuggono all’influenza politica dell’imperialismo francese, ma non ha il potere di fare sì che queste aspirazioni siano omogenee. Su questo punto, il movimento marxista estremamente ridotto di oggi ha il dovere di non cambiare nulla a quanto stabilito dall’Internazionale Comunista nelle classiche Tesi sulla questione nazionale e coloniale: "Nei paesi oppressi esistono due diversi movimenti che di giorno in giorno divergono sempre di più. L’uno è il movimento nazionalista democratico-borghese che persegue come programma l’indipendenza politica, mantenendo però l’ordine capitalistico; l’altro è la lotta degli operai e dei contadini poveri e ignoranti per emanciparsi da ogni forma di sfruttamento. Il primo movimento cerca, e spesso con successo, di dirigere il secondo; ma l’Internazionale Comunista e i partiti ad essa aderenti devono combattere questa tendenza e favorire lo sviluppo del sentimento di classe indipendente fra le masse operaie delle colonie".

«Abbiamo visto che in Algeria prevalgono due classi: il contadiname povero e la borghesia, i cui interessi sono tutt’altro che coincidenti. La borghesia, in quanto borghesia soprattutto terriera, non può realizzare quella riforma agraria della quale sarebbe la prima vittima. Essa finisce per dar voce alla tendenza "moderata" dell’FLN che punta su una repubblica di tipo tunisino, che gli estremisti del movimento nazionalista vedono come il fumo negli occhi. E il contadiname povero? Fatte le debite riserve, date le differenti condizioni storiche, esso (col linguaggio radicale della guerriglia povera, se potesse esprimersi) è molto simile a quello della rivoluzione doppia dell’ottobre 1917, con la differenza che mentre in Russia l’ostacolo che il movimento contadino in lotta doveva abbattere era il dominio del proprietario fondiario metà feudale e metà borghese protetto dallo Stato zarista, in Algeria invece esso si trova di fronte sia il colono europeo protetto dalle istituzioni politiche che vogliono mantenere con la forza il paese nell’orbita dell’Unione Francese, sia il capitalista terriero arabo vilmente rifugiato sotto la loro ombra tutelare. Ma lo scopo è identico: l’appropriazione della terra. Anche se il linguaggio della guerriglia contadina non è poi così netto e chiaro, specie per chi non vuole udirlo, tuttavia chi oserebbe sostenere che gli interessi del socialismo impongono che esso si schieri a fianco dei coloni francesi, capitalisti medi e grandi e a fianco dei capitalisti agrari arabi contro i contadini poveri dell’Algeria?

«In realtà, se la tendenza radicale che usa questo linguaggio e che è presente all’interno del movimento nazionalista algerino dovesse arrivare al potere, e solo in questo caso, allora la costituzione dello Stato nazionale potrebbe essere l’arma politica per la realizzazione di una radicale riforma agraria e per la liquidazione dei compiti pre-socialisti, preparando così, marxisticamente, il terreno alla lotta di classe moderna, alla lotta di classe per la dittatura del proletariato e per il socialismo. Ma questo i nostri bravi democratici che discorrono di "giovani nuove patrie" si guardano bene dal dirlo; come si guardano bene dal dirlo i "sinistri" (trotzkisti e compagnia), dimenticando la direttiva leninista che "ogni rivendicazione nazionale, ogni separazione nazionale va valutata nell’ottica della lotta di classe dei salariati". Costoro vogliono "giustificare l’indipendenza" unicamente attraverso "considerazioni intrinseche", ossia... attraverso l’indipendenza stessa, attraverso un principio democratico astratto puramente borghese, che non ha alcun rapporto con la lotta di classe reale.

«Il proletariato rivoluzionario è tanto lontano da una tale posizione quanto dalla sua sottomissione all’imperialismo metropolitano».
 
 

4. Riassumendo

«Il movimento dei contadini poveri fu l’unico movimento borghese radicale presente in Russia nell’Ottobre 1917 e poté riportare la vittoria solo perché alla sua testa c’era il proletariato socialista. Infatti il partito "contadino" dei socialisti-rivoluzionari aveva preso posizione contro la rivoluzione, all’inizio i soli "destri", in seguito anche la sua ala sinistra. Se in Algeria esiste realmente, come è lecito supporre, un analogo partito "contadino" impersonato dalla sinistra dell’FLN, quale può essere il suo orientamento e quale il suo destino? Va subito detto che conformemente alla sua natura piccolo-borghese, impotente a svolgere un ruolo indipendente nella lotta sociale, questa tendenza non solo accolse nel Fronte i rappresentanti tipici della borghesia ma, dopo la costituzione del GPRA, rilasciò ad essi una delega in bianco. È proprio qui il punto: di fronte alle offerte "democratiche" che la tendenza borghese fa sue con una premura che trova un freno soltanto nell’aperta resistenza della guerriglia, riuscirà la tendenza piccolo-borghese contadina a mantenersi sul terreno puramente insurrezionale? Questo potrebbe accadere se l’insurrezione avesse qualche possibilità di vittoria. Ma questa possibilità gli può venire solo dal proletariato (esattamente come in Russia), e in questo caso, data la debolezza del proletariato algerino, solo dall’appoggio attivo del proletariato francese. Ma (...) quest’ultimo non fornirà il suo appoggio domani come non lo ha fornito ieri. In queste condizioni, anche la più disperata resistenza dei partigiani algerini allo slittamento del movimento insurrezionalista verso un terreno legalitario ed elettorale potrà al massimo ottenere il risultato di far pendere la bilancia a favore di un’indipendenza di tipo tunisino piuttosto che a favore del mantenimento della dominazione francese: risultato irrisorio se si guarda alle energie rivoluzionarie profuse in cinque anni di lotta e che farà fallire ogni speranza di riforma agraria radicale.

«Ma l’infamia non ricadrà sul movimento nazional-rivoluzionario, il quale non può oltrepassare i suoi limiti di classe piccolo-borghesi e contadini, ma ricadrà tutta sul proletariato francese, e naturalmente su tutti quei democratici (meglio se "sinistri") che esaltano i meriti "progressisti" o... intrinsechi della dittatura della borghesia sulle classi povere e semi-borghesi delle colonie. Questa cocente esperienza dovrebbe far comprendere all’ala estremista del movimento nazionalista algerino che per i paesi asserviti al dominio coloniale non vi può essere salvezza al di fuori del movimento rivoluzionario per il socialismo. Quanto agli operai francesi che non si sono distinti dalle altre classi sociali per nessuna iniziativa propria, non hanno mai tentato di imporre la loro politica con i mezzi di cui la piccola borghesia manca e che appartengono loro in proprio, e cioè lo sciopero politico e l’azione di massa, si può applicare ad essi in tutto e per tutto quanto Marx diceva della classe operaia inglese rispetto ai suoi rapporti verso il movimento d’indipendenza irlandese: "Per molto tempo ho pensato che fosse possibile abbattere il regime irlandese [la sottomissione dell’Irlanda da parte dell’Inghilterra] grazie ai progressi della classe operaia inglese. Uno studio più approfondito della questione mi ha convinto del contrario. La classe operaia inglese non potrà fare nulla fino a quando non si sarà sbarazzata dell’Irlanda. La reazione inglese in Inghilterra ha le sue radici nell’asservimento dell’Irlanda".

«Oggi è necessario che il proletariato di tutte le nazioni sviluppate e civilizzate "si sbarazzi" delle colonie e semi-colonie del mondo, perché la reazione borghese mondiale che è all’origine della sconfitta della rivoluzione proletaria russa, come della Seconda Guerra imperialista, come della sopravvivenza omicida del Capitale, trova la sua forza proprio nell’asservimento delle immense aree dell’Asia, dell’Africa e dell’America del Sud ad opera dell’imperialismo bianco. L’FLN borghese in cerca di alleati contro l’imperialismo ha spiegato molto bene le cause dell’immobilismo degli operai, anche se arriva a conclusioni antiproletarie e anticomuniste; ma l’analisi è giusta: "In tutte le guerre di liberazione nazionale degli ultimi vent’anni, non è stato raro constatare nell’operaio colonialista una certa sfumatura di ostilità, per non dire di vero e proprio odio, verso il colonizzato. Ciò è dovuto al fatto che il rinculo dell’imperialismo e la riconversione delle strutture sottosviluppate specifiche dello Stato coloniale si accompagnano nell’immediato a crisi economiche di cui gli operai dei paesi colonialisti sono i primi a risentire. I capitalisti metropolitani si lasciano strappare dai loro operai vantaggi sociali e aumenti salariali nell’esatta misura in cui lo Stato colonialista permette loro di sfruttare e razziare i territori soggetti. Nel momento critico in cui i popoli colonizzati si gettano nella lotta ed esigono la loro indipendenza, si apre un difficile periodo durante il quale, paradossalmente, l’interesse degli operai e dei contadini metropolitani sembra contrapporsi a quello dei popoli colonizzati" (El Moudjahid, novembre 1958).

«Beninteso, quando l’FLN borghese dice che gli interessi degli operai metropolitani sembrano soltanto opporsi a quello dei colonizzati, intendono ciò nel senso banale che i nostri democratici hanno sempre dato a simili constatazioni: la crisi sarà solo momentanea; "i nuovi legami" fra metropoli ed ex-colonia produrranno una prosperità nuova grazie all’intensificarsi degli scambi di "interesse reciproco". Per tutti costoro, la sola ambizione che il proletariato possa avere...è di produrre molto plusvalore, non essere mai ridotto alla disoccupazione! Quando invece noi comunisti diciamo che l’interesse degli operai "sembrano" soltanto antitetici a quello dei colonizzati, è chiaro che intendiamo tutt’altra cosa da quella che conviene alla democrazia piccolo-borghese, socialmente conservatrice e politicamente reazionaria anche quando leva lo stendardo della "rivoluzione anti-imperialista"; è chiaro che lo diciamo nel senso che popoli colonizzati e proletariato metropolitano hanno un solo nemico: il grande capitale delle metropoli e gli Stati imperialisti, che devono essere abbattuti rivoluzionariamente».
 
 

5. L’economia urbana

La storia della "questione algerina" fu costantemente seguita dal nostro partito non per darne la cronaca esteriore e giornalistica, ma per inquadrarla nelle formulazioni di principio del marxismo rivoluzionario e in particolare nelle tesi dell’Internazionale Comunista sulle lotte dei popoli coloniali e semicoloniali. Si è così potuto dimostrare come l’abbandono prima e l’aperto rinnegamento poi di queste tesi, e la degenerazione del movimento comunista internazionale caduto preda del peggiore opportunismo si siano riflessi nella progressiva involuzione di partiti e di raggruppamenti nazionali algerini, alla cui origine stava purtuttavia una forte spinta di classe e il cui contenuto sociale, la cui prassi politica e di lotta armata, avrebbero potuto irresistibilmente radicalizzarsi se il proletariato metropolitano e in genere europeo non si fosse lasciato invischiare nella fanghiglia del democratismo, dei fronti popolari antifascisti e, peggio, della sciagurata "via nazionale al socialismo". Qui continuiamo a citare dalla nostra stampa dell’epoca (Programme Communiste nn. 20-21/1962 e Il Programma Comunista nn. 15-16-17/1962), dove è tracciato un bilancio completo della situazione sociale e politica dell’Algeria.

«La colonizzazione, se ha provocato nelle campagne algerine una crisi che l’aumento della popolazione ha aggravato, ha pure segnato di un’impronta socialmente disastrosa l’economia urbana. Alla base vi si ritrova un artigianato che, in città come Algeri e Tlemcen, dà ancora – ma sempre peggio – da vivere a un terzo della popolazione araba e, nelle campagne, costituisce una attività complementare; ma la sua decadenza si avvicina alla rovina completa sia perché la sua tradizionale clientela autoctona e soprattutto contadina si impoverisce, sia perché esso subisce la concorrenza indiana o giapponese. Fra questo settore arcaico e moribondo, ancora organizzato in corporazioni di tipo medievale, e totalmente arabo, e il settore capitalista moderno totalmente europeo, v’è un settore doppiamente intermedio – perché insieme arabo ed europeo, e perché caratterizzato dalla coesistenza tutt’altro che pacifica del laboratorio familiare e artigianale e della piccola, media e persino grande impresa a salariati. Si tratta del settore delle industrie leggere di trasformazione dei prodotti agricoli: industrie alimentari, del cuoio, della lana e perfino, dopo la Seconda Guerra mondiale, del cotone, oltre che dell’alfa per le cartiere, e del sughero; vi appartengono altresì le industrie vinicole, il cui sbocco è europeo e i grandi depositi frigoriferi delle città maggiori.

«Il terzo settore – capitalista e principalmente o addirittura esclusivamente europeo – è caratterizzato insieme dalla sua limitatezza quantitativa e dal suo squilibrio qualitativo, frutto della dipendenza dall’economia metropolitana, e che si riassume in questi termini: 1) insufficienza dell’infrastruttura economica (regime idrico, attrezzatura energetica, vie di comunicazione); 2) predominio delle industrie estrattive (tuttavia sottosviluppate) sulle industrie di trasformazione (quasi completa mancanza delle industrie di base come la metallurgia e la chimica, stretto legame dell’industria edile, relativamente sviluppata, col settore coloniale del paese). Ne risulta che, nel commercio estero, il valore della tonnellata importata supera di gran lunga quello della tonnellata esportata: nel 1955, una media di 76.000 franchi per la prima contro 21.000 della seconda, composta soprattutto di materie prime e prodotti semifiniti. Globalmente, lo stesso squilibrio: nel 1958 le importazioni raggiungevano i 508 miliardi di franchi contro i 202 delle esportazioni, dirette per l’80-90% verso la zona del Franco a causa della dipendenza doganale dalla metropoli».
 
 

6. I compiti della rivoluzione algerina

«Nei sette anni della guerra di liberazione, la "rivoluzione algerina" ha detto e ripetuto: "Quando avremo l’indipendenza politica, avremo anche la libertà doganale, e potremo scambiare prodotti su un piede di parità con gli altri paesi". Ora la libertà politica e doganale è una cosa, l’uguaglianza un’altra. Sul piano borghese, anche gli scambi più "liberi" e di valore più "giusto" possono solo consacrare la supremazia di chi ha molto da offrire su chi ha poco: appunto perciò, nel mondo borghese, "libertà" e "uguaglianza" delle nazioni sono parole vuote, menzogne di classe per dissimulare la realtà del dominio di fatto delle nazioni sviluppate su quelle sottosviluppate, delle grandi sulle piccole.

«Beninteso, malgrado la sua fraseologia democratica, la "rivoluzione algerina" sapeva tutto questo: ha quindi detto e ripetuto che l’indipendenza politica non era, per essa, un fine in sé, e si è presentata come una rivoluzione non puramente politica ma economica e sociale; non rivoluzione di una classe ma di tutte le classi, e a tutte vantaggiosa perché, oltre a essere strumento della riforma agraria, l’indipendenza sarebbe stata l’arma infine conquistata dell’industrializzazione. Vediamo dunque i compiti che le si affacciano. Che essa debba affrontarli non "liberamente", ma nel rapporto sfavorevole di forze ereditate insieme da una lunga schiavitù coloniale e dal predominio industriale assoluto delle forze del capitale su quello del proletariato; che essa li assolverà da un lato nell’ambito ristretto consentito da queste condizioni e nel senso di uno sviluppo capitalista, non socialista, dell’Algeria, dall’altro; queste le nostre tesi su quella "rivoluzione algerina" di cui, come marxisti, non possiamo negare né la realtà né l’utilità, ma di cui abbiamo il dovere di indicare i limiti e denunziare le menzogne borghesi.

«Lo sviluppo dell’infrastruttura economica è condizione indispensabile dello sviluppo sia dell’agricoltura sia dell’industria algerina. Alla prima interessa soprattutto la sistemazione idraulica; alla seconda l’attrezzatura energetica e le vie di comunicazione. Ma tutto lo sviluppo capitalista (e la nostra tesi è che quello dell’Algeria sarà fatalmente tale, finché la rivoluzione proletaria non sarà in grado di affermarsi nel mondo) favorisce in primo luogo l’espansione industriale lasciando invece camminare a passo di lumaca l’agricoltura (Ad altre latitudini, Kruscev non addossava forse a Stalin la colpa di aver puntato sull’elettrificazione delle città – e quindi sull’industrializzazione – lasciando le campagne senza energia e senza luce?).

«In una zona in cui, come il Maghreb, "l’acqua si manifesta per eccesso o per difetto", la sistemazione idraulica significa tanto il drenaggio e l’irrigazione, quanto la lotta contro l’erosione del suolo. Ora, in Algeria, la colonizzazione ha drenato le pianure dell’Habra e della Macta, del Sig e della Mitidja, ma questi lavori hanno giovato solo ad essa – e così avverrà finché non avvenga un rivoluzionamento della proprietà terriera, mentre il potere vittorioso promette per l’avvenire un "istituto della riforma agraria", come se fossero gli "istituti" a fare le rivoluzioni! Nella pianura di Bona, frattanto, i lavori attendono ancora di essere completati.

«Quanto all’irrigazione, i lavori iniziati e compiuti sono modesti: si è fermi alle piccole dighe costruite sotto il Secondo Impero nell’Oranese e nella Mitidja e rapidamente interrate, alle nove dighe in tutto costruite a partire dal 1926 nelle regioni di Orano, Chelif e Costantina e alle otto nuove messe in cantiere dal 1944; per cui nel 1957 gli ettari irrigati erano ancora 100mila su circa il doppio previsto. La "battaglia dell’irrigazione" è dunque ancora in gran parte da condurre, con la pregiudiziale che, in economia mercantile e in un paese arido, l’acqua resterà cara, mentre la costruzione di nuove grandi dighe (le piccole hanno l’inconveniente di spingere ad un’agricoltura intensiva che degrada il suolo, per evitare che siano fuori d’uso prima ancora di essere ammortizzate) porrà allo Stato indipendente lo stesso problema che allo Stato coloniale: quello di una troppo lunga immobilizzazione di capitale!

«Ma il problema più grave è costituito dalla lotta contro l’erosione. Il disastro (100 ettari di meno ogni giorno!) è qui il frutto non tanto di condizioni sfavorevoli, quanto della distruzione dell’agricoltura tradizionale, ben adattata a queste condizioni, ad opera dell’agricoltura capitalistica dei coloni. Per arrestarlo bisognerebbe restaurare nientemeno che un milione di ettari come base di partenza, poi di 100mila ettari all’anno (ricordiamo che la terra arabile si aggira sugli 8,8 milioni di ha). Sotto il regime coloniale in dieci anni (1946-1955), non si è riusciti a trattarne più di 180mila, non perché l’ente preposto ai lavori fosse un organo dello Stato coloniale, ma perché queste opere d’interesse collettivo cozzano sempre contro le barriere giuridiche e più ancora contro i vincoli economici dell’economia privata. Se il rimboschimento è il mezzo principale di lotta contro l’erosione del suolo, come restituire alla foresta un terreno che l’asprezza capitalistica ha messo a coltura, senza cacciarne il capitalista? E, se questo terreno è occupato da coloro che la colonizzazione ha espulso dalle loro terre ancestrali, come intervenire senza privarli di una base di esistenza già magra e precaria?

«Quanto all’attrezzatura energetica, la "rivoluzione algerina" ha tutte le ragioni di rinfacciare alla colonizzazione lo scarso interesse che, fino a data recentissima, le ha rivolto. Ogni economia nazionale sogna un’energia a buon mercato e si sforza di ribassarne i prezzi, sebbene una moltitudine di interessi operi in senso contrario e li mantenga a un livello artificialmente elevato (e come potrebbe essere diverso in un’Algeria indipendente?). Sennonché l’economia algerina non era un’economia nazionale, ma coloniale, e nel 1960 il suo consumo di energia elettrica era appena di 108 kwh a testa contro 800 in Francia, sebbene l’elettricità fosse di gran lunga la principale fonte di energia impiegata: infatti, la produzione di carbone non raggiungeva nel 1956 le 340mila tonnellate (due anni più tardi si riduceva a meno della metà) e il petrolio, finora, è totalmente esportato. Ora, in Algeria l’elettricità costa un terzo più che nella metropoli a causa sia della scarsa produzione, sia del fatto di provenire per 3/5 da centrali termiche alimentate per lo più con carbone importato. Ciò spiega la lunga lotta dei nazionalisti algerini nella questione del Sahara, che sembrava prometter loro l’energia a buon mercato indispensabile all’industrializzazione non solo sotto forma di petrolio (28 milioni di tonnellate previste nel 1963), ma anche di gas naturale (2-3 miliardi di metri cubi all’anno in media). Ma come si è conclusa questa lotta? L’FLN ha ottenuto la sovranità politica dell’Algeria sul Sahara, e Ben Khedda ha creduto di poterne concludere che "gli accordi di Evian erano conformi agli obbiettivi della Rivoluzione" perché riconoscevano l’integrità territoriale dell’Algeria e segnavano la rinunzia dell’imperialismo francese "ad amputare del Sahara il nostro paese". Ma la sovranità politica – o "proprietà" – sul deserto è una cosa, e la "sovranità" economica sul petrolio e il gas una cosa del tutto diversa, perché essi appartengono ai proprietari del petrolio, cioè alle compagnie che finora lo estraevano e di cui l’Algeria indipendente non si è mai sognata di fare a meno. "Il diritto del produttore a disporre liberamente della sua produzione – dicono gli accordi – si esercita con riserva dei bisogni del consumo interno algerino e del raffinamento sul posto"; ma dichiarazioni di questo genere non hanno mai impedito i conflitti. La previsione è che la raffineria di Algeri tratti 2 milioni di tonnellate di greggio – una quantità molto modesta sui 28 milioni di greggio previsti e sugli stessi 15,6 milioni del 1961; ma, se le pretese degli algerini aumenteranno, che cosa dirà la Francia, che cosa dirà la Comunità nei cui calcoli il Sahara dovrebbe fornirle il 55,5% della "sua" produzione e le riserve in esso contenute dovrebbero rappresentare il 70% delle "sue" riserve?

«In caso di conflitto, per quanto "proprietaria" del deserto, l’Algeria si troverà in condizioni tanto più sfavorevoli in quanto ha la disgrazia di essere "co-fondatrice con la Francia di un organo tecnico al quale è affidata la valorizzazione del sottosuolo sahariano", e che ha il diritto supplementare di "stabilire il tracciato delle nuove canalizzazioni di idrocarburi fino alla costa" e di esprimere "il suo parere sulle leggi e regolamenti relativi al regime minerario o petrolifero prescelto dall’Algeria", il che rappresenta un controllo da parte della Francia sulla politica petrolifera dell’Algeria tanto più importante, in quanto tutti i diritti precedentemente accordati dalla metropoli a società sfruttatrici sono stati riconosciuti dall’FLN. Per colmo di ironia, la partecipazione dell’Algeria a questo organismo tecnico paritetico di valorizzazione le costerà una somma "non inferiore al 12% del prodotto del gettito fiscale sul petrolio", come recitano gli accordi di Evian.

«E veniamo allo sviluppo delle vie di comunicazione, senza le quali niente circolazione e quindi niente mercato interno, cioè niente economia nazionale in senso proprio. La rete stradale algerina è densa intorno ai porti, alle città e alle grandi regioni agricole, ma insufficiente nelle montagne e nelle steppe, mentre quella ferroviaria si riduce a una grande linea di collegamento fra i tre paesi del Maghreb, completata da tronchi minerari per il ferro (Tebessa-Bona) e i giacimenti petroliferi (Philippeville-Costantina-Biskra-Togourt), e dalla Nemours-Zoudj, che serve Colomb-Béchard passando per il Marocco. Questa rete strettamente legata all’economia coloniale dev’essere estesa. Per l’apertura di nuove linee ferroviarie occorrono grandi capitali, ma per la costruzione di strade quello che in Africa si chiama l’"investimento umano" (e in Cina "la leva in massa"), inquadrato o no nell’"esercito popolare", può benissimo continuare l’opera dei legionari. Sarà la perpetuazione delle condizioni coloniali di lavoro, ma provocherà dei bollettini di vittoria sulla "via araba al socialismo". Comunque, i recenti dibattiti sulle future funzioni dell’ALN lasciano presagire una tale "soluzione", che ricorda come una goccia d’acqua i metodi "fascisti" e "staliniani" di sviluppo dell’infrastruttura economica.

«Quali che siano le forme e la rapidità di quest’ultimo, esso condiziona in ogni caso la grande rivoluzione economica promessa dall’FLN agli insorti, e da esso definita come "la trasformazione dell’economia coloniale in economia nazionale indipendente". A parte la demagogia di quest’ultimo qualificativo in un’epoca in cui la circolazione dei capitali e delle merci è mondiale, la rivendicazione ha un senso ben preciso che l’Ouvrier algérien definiva così: "Includere il massimo di lavoro algerino nei prodotti trattati sul posto", rivendicazione che prende tutto il suo significato se si precisa che, delle 560mila tonnellate di fosfati estratti in Algeria, solo un po’ più di 100mila erano trattate nel paese nel 1958; che i minerali di piombo e di zinco erano interamente esportati in Francia e Belgio, allo stesso modo dell’antimonio, del rame, del mercurio (del resto prodotto in scarse quantità), e della pirite di ferro (in forte regressione); e che non solo la trasformazione dei minerali di ferro era insignificante, ma – poiché alla metropoli il ferro non interessava – la stessa produzione di minerale era caduta dagli oltre 3 milioni di tonnellate nel 1938 a un po’ più di 2,3 milioni nel 1958, anno in cui la produzione di ghisa non superava le 7.200 tonnellate e quella di acciaio di poco superiore a 24mila tonnellate (2,4 kg per testa di abitanti!). Comprese le importazioni, l’Algeria non utilizzava che 18 kg di acciaio pro capite, contro i 200 in Francia. A sua volta, la chimica non era rappresentata che da alcune filiali di grandi complessi metropolitani fabbricanti solfato di rame, acido solforico e fertilizzanti: a parte ciò, una sola vetreria per tutto il paese e un piccolo numero di fabbriche minori di esplosivi! Le industrie edili, ramo speculativo per eccellenza, erano invece abbastanza sviluppate, ma interessavano solo relativamente il settore tradizionale condannato a forme di abitazione miserabili e dipendeva dalle importazioni per un terzo del cemento necessario.

«Tale lo squilibrio dell’economia urbana algerina, in cui le attività portuali hanno un’importanza sproporzionata rispetto alle attività industriali. Basti dire che, nel 1958, le imprese con oltre 500 operai erano appena 47; che il numero degli operai urbani – secondo una statistica del 1954 – non superava i 250.100 di cui 59mila europei e meno di 191mila algerini, per il 73% manovali; e che, aggiungendo a questa cifra gli addetti al commercio e gli impiegati di industria si arriva a un totale di 330mila salariati, cioè neppure un terzo della popolazione algerina, che soffre della disoccupazione, della sotto-occupazione o della "cattiva occupazione" nelle campagne e nelle città, e meno ancora se si considera che, dato il considerevole incremento demografico, la popolazione maschile in età di lavoro è cresciuta dal 1954 di 400mila unità circa, e la popolazione non occupata, o occupata male, deve quindi aggirarsi sul milione e mezzo senza contare coloro che gli avvenimenti ultimi e la fuga degli europei hanno momentaneamente messo sul lastrico.

«Per assorbire la sovrappopolazione relativa, che è stata calcolata nella metà degli uomini in grado di lavorare, occorrerebbe che l’occupazione in agricoltura e nell’industria aumentasse di più che quattro volte, e a questo scopo gli investimenti dovrebbero aumentare almeno di dieci. Ma in quanti anni sarà possibile – anche nelle condizioni politiche di indipendenza – ottenere un simile risultato? E, nel frattempo, quante nuove centinaia di migliaia di uomini si saranno ammonticchiate sul mercato del lavoro? La risposta a questa domanda dipende dalla situazione economica mondiale e, in ultima analisi, dagli interessi del grande capitale finanziario internazionale di cui neppure l’insieme del Maghreb, con i suoi 25 milioni di uomini, non saprebbe rendersi indipendente per industrializzarsi dietro una cortina di ferro, e di cui a maggior ragione non si renderà indipendente la sola Algeria. A titolo puramente indicativo, osserviamo che nell’URSS (considerata convenzionalmente la campionessa mondiale dei ritmi di sviluppo rapidi), l’aumento più spettacolare degli investimenti che si sia registrato (inutile dirlo, nel periodo iniziale della "costruzione economica" del capitalismo marca Stalin 1928-32) ha raggiunto non il 900% ma appena il 315%, e per vedere moltiplicati per nove gli investimenti del 1928 si è dovuto attendere il 1946, cioè 18 anni. La "via araba" al" capitalismo crede dunque di poter battere da lontano la "via sovietica"? In realtà, solo un aiuto proletario indipendente dalle leggi mercantili potrebbe risparmiare alla classe operaia algerina tutta una fase storica di sofferenze per la costruzione di una industria moderna, e purtroppo le condizioni di un simile aiuto oggi non esistono – dato che la Russia ha da tempo cessato di essere socialista per non aver ricevuto questo stesso aiuto dal proletariato europeo. Così stando le cose, l’FLN borghese non venga a raccontare ai contadini e operai algerini che l’indipendenza politica instaurerà per loro "il paradiso in terra"; soprattutto non venga a raccontare (per bocca del peggior demagogo del partito, Ben Bella) che si tratta di instaurare non si sa quale socialismo originale, di seguire non si sa quale "via araba" di emancipazione degli oppressi e degli sfruttati!»
 
 

7. Gli accordi di Evian o della collaborazione dell’FLN con la borghesia francese

Con gli accordi di Evian, la borghesia francese se la cavò molto a buon mercato, perché il velo dell’indipendenza nazionale nascondeva in realtà una pesante dipendenza economica che avrebbe fatto dell’Algeria un serbatoio di materie prime e un mercato di smercio della Francia. Come era fin troppo facile prevedere, questa tara genetica avrebbe inevitabilmente pesato sullo sviluppo della giovane nazione.

«Lo scoppio dell’insurrezione algerina nel 1954 costrinse il governo francese ad esaminare la situazione sociale prodotta dalla colonizzazione; e nel 1958 il governo generale di Algeri elaborò delle Prospettive economiche di sviluppo decennale dell’economia algerina, che fornirono la base del famoso Piano di Costantina (ottobre 1958). Questo piano, consentendo notevoli vantaggi agli investimenti in Algeria, suscitò l’interesse di numerose società francesi e straniere, gruppi industriali e banche; ma le società per l’espansione dell’Algeria allora costituitesi non superarono mai lo stadio notarile attendendo prudentemente di sapere da che parte avrebbe soffiato il vento. Erano gli anni in cui l’FLN passava non solo per nazionalista ma per "rivoluzionario". Solo dopo Evian – ed in particolare per aver frenato il legittimo moto di rivolta delle masse popolari contro l’OAS (che attraverso attentati e omicidi preparava al capitalismo dei coloni un ruolo di primo piano nella nuova Algeria, ruolo peraltro mai messo in dubbio dalla "rivoluzione algerina", come testimoniano tutti i testi successivi al 1954!) – solo dopo questo scandaloso compromesso col nemico l’FLN fu proclamato universalmente partito di saggezza e di giustizia.

«Sebbene l’FLN abbia allora sventato la manovra dell’imperialismo francese continuando a rivendicare l’indipendenza politica totale, non è senza interesse valutare la portata economica e sociale del Piano di Costantina. In realtà, a meno del trionfo di quella che l’ipocrita borghesia mondiale denunzia come la "anarchia algerina" (cioè lo scoppio di una confusa lotta di classe che il "frontismo" politico ufficiale stenterebbe a soffocare senza colpi di forza che sarebbero la miglior smentita dell’esistenza di un preteso "interesse nazionale unico"), è sempre il Piano di Costantina quello che, secondo gli stessi accordi di Evian, costituisce il programma di partenza delle inevitabili trasformazioni economiche.

«Posto di fronte a necessità sociali implacabili, il Piano riconosceva da una parte l’urgenza di una riforma agraria, e dall’altra, quella di una certa industrializzazione. In 5 anni, essa doveva fornire 400mila posti regolari di lavoro e distribuire 250mila ettari di terre nuove. Promesse già modeste, ma superiori alle realizzazioni! Infatti, solo 82mila ettari furono acquistati (contro forti indennità alle compagnie proprietarie) dalla "Caisse d’Accession à la Propriété et à l’Exploitations rurales"; il che, volendo attenersi alla superficie minima di 25 ettari per azienda, non permetteva ancora di sistemare neppure 3.300 famiglie, mentre i candidati alla riforma agraria sono almeno un milione! Nell’industria, il completamento della raffineria petrolifera di Algeri e dei complessi petrolchimico d’Arzev e siderurgico di Bona forniranno appena 10mila posti di lavoro, mentre 24mila ne offrirebbe l’entrata in azione delle 30 società che già ricevettero il nulla osta della direzione del Piano. Si è dunque lontani non solo dalle promesse, ma dai bisogni.

«All’epoca – come scriveva l’Ouvrier Algérien il 1° novembre 1958 – l’FLN opponeva a questo piano "la rivoluzione algerina fatta dal popolo delle campagne e della città", che costruirebbe "domani un’Algeria per il popolo, in cui l’assorbimento della disoccupazione prevarrà sulla regola del profitto massimo, in cui il lavoratore non dovrà tremare ogni giorno per la vita dei suoi figli e di fronte ad un avvenire incerto". E rigettava il Piano in questi termini: "Bisogna precisare che [questa ’rivoluzione’] è diametralmente opposta al Piano di Costantina? Certo, non ci si rifiuta a priori alla collaborazione di chicchessia, ma si ritiene che, se il popolo algerino ha preso le armi, l’abbia fatto perché lo si ascolti, gli si riconosca il diritto all’esistenza. E, nel campo economico come in tutto il resto, egli vuol essere trattato come popolo maggiorenne. Qualcuno penserà che noi siamo poco realisti e abbiamo torto di rifiutare il ’ponte d’oro’ offertoci da De Gaulle. Ma noi abbiamo le nostre idee su questo ’ponte d’oro’ e, ben sapendo dove ritornerà l’oro sedicentemente speso in Algeria, siamo apparentemente modesti ma, in fondo, molto più ambiziosi".

«Nessun rivoluzionario rimprovererà certo all’FLN di non aver voluto barattare l’indipendenza politica contro il piatto di lenticchie del Piano di Costantina. Ma cosa significa il brano che segue? "La collaborazione offerta da De Gaulle profitterà solo ai capitalisti che investiranno in Algeria. Noi edificheremo un ’capitalismo popolare’ (in qualche modo) che gioverà a tutti. Tale è la nostra ambizione, più alta di tutte le realizzazioni brillanti che ci vengono promesse". Ora, è appunto questa demagogia sociale (di cui il sindacato operaio di tendenza FLN doveva necessariamente farsi eco) che il marxismo denunzia. I fatti sono più forti di qualunque demagogia per quanto seducente: e, con gli accordi di Evian (di cui lo stesso Ben Bella ha dichiarato che restavano la carta dei rapporti tra Francia e Algeria), i fatti sono lì!

«Vediamo un po’ la critica che l’FLN faceva dell’economia coloniale sommariamente descritta più sopra, i mezzi che preconizzava per uscirne, e il compromesso infine concluso. Il 16 luglio 1960 El Moudjahid dichiarava: "Si capisce l’interesse dei colonialisti francesi di Algeria e la loro fiera opposizione all’indipendenza: essi riescono a far sopportare al bilancio francese i rischi che essi si accollerebbero se investissero in Algeria; preferiscono rimpatriare i loro profitti piuttosto che far correre nuovi rischi ai loro capitali investendo in campi ’avventurosi’ (industria). Lo dimostra ampiamente la debole percentuale di capitali privati (69% di fondi pubblici o affini contro 31% di capitali privati), specie se si confronta la limitatezza dei fondi investiti in società nuove al volume di fondi investiti in società esistenti e a rendimento più rapido. Capitale nelle società create: 1959: 73,4 milioni di nuovi franchi; aumento di capitale di società già esistenti: 1959: 567 milioni NF. Queste società antiche garantiscono sicuri dividendi e profitti e non chiedono immobilizzazioni lunghe di capitali, salvo il caso degli investimenti petroliferi, che però sono sempre redditizi. Perché i capitalisti di Algeria rifiutano di investire i loro capitali sul posto e preferiscono collocarli all’estero? Questo fenomeno è legato alla struttura economica dei paesi sottosviluppati; costruirvi uno stabilimento di prodotti finiti, per esempio, costa di più e rende meno che in un paese industrializzato. È il basso tenor di vita [che rende difficile la creazione di un mercato interno]; è l’assenza di un’infrastruttura sviluppata (rete stradale, energia poco costosa) e di una manodopera specializzata, che rende poco produttivi gli investimenti nel settore industriale. Non stupisce quindi che i capitali fuggano là dove rendono di più, dopo di essersi formati nei settori del commercio e dei beni fondiari".

«Ora, come l’Algeria indipendente potrebbe sfuggire a questo circolo vizioso del "sottosviluppo", poiché, beninteso, non può né modificare le leggi del capitalismo, né saltare al di sopra del capitalismo direttamente nel socialismo, né infine costruire un capitalismo nazionale con le sole forze proprie, come fece la Russia stalinista dietro il suo sipario di ferro, ma con ben altre risorse umane e naturali che l’intero Maghreb? La risposta data da El Moudjahid nell’articolo citato era: "In queste condizioni, un aumento del livello di vita degli algerini migliorerà la domanda interna al punto da captare i capitali e invogliare le imprese ad investire sul posto". Ma lo stesso articolo diceva più sopra che la domanda interna solvibile non è in grado da sola di "captare i capitali"; occorre altresì che gli investimenti siano "produttivi", ed una delle condizioni di investimenti produttivi, nei paesi dove tutti gli altri elementi del capitale sono cari, è il basso prezzo della manodopera: "In Algeria, come in tutti i paesi sottosviluppati in cui domina la popolazione rurale [dal 70 all’80% in Algeria secondo le statistiche], è nell’aumento del reddito contadino che si trova una via di soluzione non solo al problema dei trasferimenti di capitale ma a quello molto più vasto dello sviluppo del paese".

«Conclusione: "Una riforma agraria seria e di ispirazione rivoluzionaria è la base dell’industrializzazione dell’Algeria". Ma come definire una "riforma agraria di ispirazione rivoluzionaria"? L’Ouvrier algérien esclamava: "Non si tratterà, per l’Algeria indipendente, di creare realizzazioni spettacolari, fattorie modello o aziende-pilota. Noi organizzeremo la leva di massa dei contadini algerini nella battaglia delle migliorie rurali in modo che il governo algerino possa realizzare due volte più in fretta e dieci volte meno caro [che lo Stato colonialista]". Ma, a questo fine, sarebbe anche necessario che il governo fosse almeno padrone del suolo, mentre non lo è, e che avesse la capacità di "mobilitare" realmente i contadini, poiché dalla Russia alla Cina, l’esperienza prova che è appunto questa la cosa più difficile da ottenere (Krusciov potrebbe forse insegnare qualcosa all’Ufficio politico algerino), tanto più quando il principio è di "realizzare dieci volte più a buon mercato"! Infatti, sulla pelle di chi si realizzerà "l’economia", se non su quella della classe contadina chiamata a "levarsi in in massa"?

«Durante la guerra di indipendenza, i diversi organi dell’FLN hanno giustamente messo in burla tanto la riforma agraria proposta dal Piano di Costantina, quanto (coscientemente o no?) quella dei paesi fratelli del Maghreb, o meglio della Tunisia, giacché nel Marocco non se ne parla neppure. Della riforma tunisina, che quella di Algeria dovrebbe di gran lunga superare perché non "seria" né "rivoluzionaria", uno specialista dell’economia del Maghreb, Gallissot, fornisce dati interessanti la cui vera portata apparirà solo a chi ricordi che in Tunisia il settore dell’agricoltura tradizionale non superava i 2,99 milioni di ettari su 3,7 milioni coltivabili in tutto, cioè – prescindendo dalla media e grande proprietà tunisina, più importante della sua omologa algerina – una media di solo 5 ettari per famiglia contro i 20 necessari. In realtà, la metà della popolazione rurale tunisina – circa un milione e mezzo di uomini – soffriva di quella che la sociologia borghese chiama pudicamente "sotto-occupazione", quindi di redditi da fame.

«"Delle misure sono state prese [dalla democratica repubblica bourghibiana] per modificare le condizioni dell’agricoltura tunisina. La restaurazione del suolo e il rimboschimento sono stati incoraggiati [!], una "Cassa di sviluppo del Centro e del Sud" è stata costituita, e nelle stesse zone delle "cellule di valorizzazione". I prestiti a favore della piccola idraulica sono stati aumentati [con ulteriore indebitamento del piccolo contadino!]. Più ambiziosa la creazione dell’Office de l’Enfida [società coloniale] e dell’Office de Mise en Valeur de la Vallée de Medjerda". Vediamo in po’ di che si tratta. "L’Office de l’Enfida si propone di stabilire da 12 a 15 mila persone [su 1,5 milioni di sotto-occupati!] su circa 30.000 ettari [cioè 2 ettari a testa, la metà della media già terribilmente insufficiente del Maghreb: 5 ettari!]. Ma i contadini installati non si adattano [a ragione!], le terre sono mediocri e male attrezzate. [Inoltre] l’Enfida conserva per sé da 15 a 20 mila ettari di terre provviste d’acqua con piantagione di olivi, colture orticole, oleifici moderni, latterie-caseifici, ecc". Ecco tutto quello che dà, e può solo dare, una riforma agraria, quando prende il posto della necessaria rivoluzione, quella che non faranno né Uffici, né Istituti, né Stati parlamentari "benbellisti" o "bourghibiani", ma solo l’azione diretta degli espropriati del suolo!.

«Procediamo. "L’Office de Mise en Valeur de la Vallée de Medjerda si propone di utilizzare per il meglio i perimetri di irrigazione [50mila ettari nella bassa Medjerda] stabiliti sotto il protettorato a favore delle culture coloniali. Nel 1958, la proprietà era limitata [come sembra nei propositi molto misteriosi del nuovo potere algerino] a 50 ettari al massimo nelle terre irrigabili della bassa Medjerda. Così 20 mila ettari sono recuperati per essere distribuiti a 4 o 5 mila famiglie". In questo caso si tratta di terre provviste d’acqua e probabilmente fertili, perché già appartenenti al novero delle "culture coloniali"; ma la superficie resta irrisoria – da 4 a 5 ettari per famiglia. L’autore non lo ignora. "Questi piccoli coltivatori non potranno mantenersi se non inquadrati da organizzazioni cooperative" – altra soluzione invocata dall’FLN e che prolunga l’agonia economica e morale della famiglia contadina legata al suo lotto di miseria!

"Malgrado ciò, "l’intenzione della riforma agraria è più dichiarata in Tunisia che nel Marocco. Il demanio pubblico tunisino ha recuperato delle terre. Il regime fondiario è stato semplificato; la proprietà religiosa degli Habous è stata abolita: un nuovo regime delle terre collettive deve concludersi nella generalizzazione della proprietà privata". Scommettiamo che le terre collettive in questione sono terre da pascolo: la loro trasformazione in proprietà privata avrà dunque per effetto di precipitare la decadenza dell’allevamento già provocata dalla colonizzazione proprio per le stesse ragioni! "Oltre le terre degli Habous, il demanio pubblico ha ricevuto i beni confiscati dalla famiglia dell’ex-bey e dei terreni confiscati in applicazione della legge sulle fortune mal acquisite". Allo stesso modo, il progetto di programma recentemente pubblicato dalla federazione francese dell’FLN reclamava la confisca e la distribuzione dei beni dei "traditori" della causa dell’Algeria indipendente.

«La cifra delle terre coltivabili di cui il patrimonio demaniale dispone non è nota: sarebbe dell’ordine di 200mila ettari Alcuni lotti sono già stati distribuiti a favore di ex-combattenti dell’indipendenza [la demagogia di questa misura balza agli occhi]. Una legge del 1959 [tre anni dopo l’indipendenza, ma l’Algeria andrà più in fretta, essa parla di "rapidità due volte maggiore!"] annunzia che l’attribuzione delle terre del demanio pubblico sarà regolata da organismi locali anziché mediante aste pubbliche. L’acquisizione di lotti è vietata a coloro che possiedono una proprietà e un’estensione superiore alla media [qual è la "media" fra le immense proprietà delle grandi compagnie e il fazzoletto di terra del contadino?]. È previsto il riscatto della totalità delle terre possedute da europei". E l’autore conclude scetticamente: "La riforma agraria cesserà d’essere un progetto?". Noi rispondiamo: no di certo, senza sviluppo della lotta di classe!

«Se in Tunisia esiste una borghesia media e grande, non solo urbana ma rurale, che ha agito da freno nella lotta anti-imperialista mentre in Algeria questa ha assunto aspetti "estremi" in rapporto al predominio degli elementi popolari (in particolare contadini senza terra) e a una situazione sociale ancora più tragica, la riforma tunisina dà tuttavia un’idea anticipata di quello che si potrà realizzare domani in Algeria. Che cosa dicono, infatti, gli accordi di Evian in materia agraria? "L’Algeria assicurerà senza alcuna discriminazione un libero e pacifico godimento dei diritti patrimoniali acquisiti sul suo territorio prima dell’autodeterminazione. Nessuno sarà privato di questi diritti senza una equa indennità preventivamente fissata. Nel quadro della riforma agraria la Francia fornirà all’Algeria un aiuto speciale in vista del riscatto in tutto o in parte dei diritti di proprietà detenuti da oriundi francesi. Sulla base di un piano di riscatto stabilito dalle competenti autorità, le modalità di questo aiuto saranno stabilite d’accordo fra i due paesi in modo da conciliare l’esecuzione della politica economica e sociale dell’Algeria con lo scaglionamento normale del concorso finanziario francese".

«Un "piano di riscatto stabilito dalle autorità competenti" è tutto l’opposto di una rivoluzione agraria che, compiuta dagli stessi interessati, si preoccupa poco o non tanto di un "piano" e (e ancor meno) di "un’equa indennità". Ma se, inoltre, la riforma deve compiersi in modo da conciliare gli interessi dei finanzieri dell’imperialismo francese e quelli, non diciamo neppure degli espropriati algerini, ma del "capitalismo nazionale" di Algeria, che portata molto superiore a quella della riforma tunisina potrà essa avere? Del resto, per l’FLN, la riforma agraria era soltanto una delle condizioni del suo grande obiettivo sociale: l’industrializzazione il più possibile rapida del paese. Quali erano dunque in proposito i suoi piani prima della vittoria politica e militare e quali invece le clausole di Evian? Occorre anzitutto esaminare la sua posizione di fronte al capitale europeo, dal quale dipendono i 9/10 dell’economia urbana.

«Mentre da un lato l’FLN non esitava ad utilizzare la xenofobia popolare che è il prodotto storico inevitabile dell’oppressione coloniale e che si è espressa nel terrorismo "cieco" rivolto contro tutti gli europei senza distinzione di classe, dall’altro era fatale che, raggiunto il traguardo, esso rivolgesse i suoi colpi proprio contro le classi che l’avevano spinto al potere al fine di tutelare la "cultura capitalista" detenuta dagli europei, fossero essi capitalisti o salariati. Perciò il suo programma agrario doveva restare un mistero (dal Congresso della Soumman alle decisioni di Hammamet). Grazie alla debolezza della borghesia algerina e all’appoggio incondizionato da parte dell’UGTA, la sola organizzazione operaia algerina conosciuta, sicuramente l’FLN si trovava più a proprio agio nell’economia urbana.

«Malgrado il terrorismo anti-europeo, per la "rivoluzione algerina" si trattava quindi di tutelare la minoranza europea portatrice quasi esclusiva della "cultura capitalistica" in Algeria, e al massimo di garantirne la sottomissione allo Stato nazionale. A questo scopo vennero mobilitate tutte le tradizioni di classe, dall’islamismo alla società precapitalista all’"internazionalismo proletario", passando per il democratismo borghese. Così ad esempio, Résistance algérienne scriveva fin dal 1956: "Come sottolinea il detto del Profeta gli uomini sono uguali tra loro come i denti del pettine del telaio, senza distinzione tra bianchi e neri, arabi e non-arabi, se non nel grado del loro timore di Dio". A sua volta, l’UDMA, partito laico, trattò la stessa questione nel linguaggio del democraticismo classico, mentre l’UGTA, nel 1958, utilizzò il linguaggio di classe degli sfruttati di tutti i paesi nell’appello ai lavoratori algerini nella lotta anti-imperialista! Nel maggio ’57 l’FLN arrivò a indirizzare un messaggio a Pio XII per la coesistenza pacifica con i cristiani! A prezzo di una elusione del problema agrario, l’FLN offriva la cittadinanza agli europei di Algeria! Di fatto, a dispetto di tante frasi sul "socialismo arabo" (alle quali una falsa "avanguardia" in Francia ebbe la stupidità di credere), l’FLN era anzitutto una forza di conservazione sociale per nulla anti-capitalista, pronta a stroncare un’eventuale spinta rivoluzionaria degli espropriati delle campagne e dei senza lavoro delle città. Inoltre, prevedendo il mantenimento dei capitalisti coloniali nei loro beni e nei loro diritti, il Fronte concesse negli accordi di Evian che i trasferimenti di capitali (dunque non reinvestiti in Algeria) in destinazione della Francia avrebbero beneficiato di un regime di libertà!

«Di fatto gli accordi di Evian hanno proclamato non la "libertà economica" dell’Algeria, ma la sua "cooperazione" con la Francia. Uno statuto particolare avrebbe in futuro precisato le modalità della cooperazione monetaria (l’Algeria restava nell’area del Franco) e quelle degli scambi tra i due paesi. I grandi prodotti algerini (vini, agrumi, frutta e legumi) avrebbero dovuto trovare in Francia il loro smercio tradizionale. Gli accordi di Evian non fanno quindi che descrivere la perpetuazione del dominio francese sull’Algeria "liberata". La libertà di circolazione delle truppe francesi sul territorio algerino fra i loro posti di stazionamento; i diritti dell’imperialismo francese su Mers-el-Kébir e certe località sahariane, non sono che l’espressione militare di questo dominio. La prima potrebbe essere preziosa allo stesso Stato algerino (e non solo alla residua popolazione europea) se questo non riuscisse ad imbrigliare rapidamente l’"anarchia" sociale e politica, cioè la lotta delle classi povere. Tuttavia, l’essenza della dominazione non è militare né culturale, bensì economica, ed è, in sostanza, la continuazione del Piano di Costantina in un quadro politico nuovo.

«È la perpetuazione dell’antico dominio coloniale sotto un’altra forma nonché la collaborazione del nuovo Stato algerino con il vecchio imperialismo francese che fa dire in Algeria come in Francia a una sedicente "avanguardia" trotzkista che considera la rivoluzione algerina una rivoluzione socialista, che gli accordi neo-colonialisti d’Evian devono essere "superati". Ma questo superamento, nei rapporti non solo interni ma internazionali di classe, apparve già impossibile ai marxisti. Lo Stato nazionale algerino che va costituendosi attraverso una lotta confusa di diverse autorità che parlano esattamente lo stesso linguaggio, attraverso una guerra di comunicati e di personalismi nel migliore stile delle vecchie repubbliche parlamentari, sarà quello che il rapporto nazionale e internazionale delle forze di classe gli comanda di essere, cioè lo strumento del "neocolonialismo". In effetti, quale classe della società algerina potrebbe opporsi a quella che, agli occhi di tutti, appare come "la più felice conclusione delle cose"?

«Poteva il proletariato algerino sabotare la costruzione della repubblica borghese? In realtà esso non aveva un’organizzazione autonoma che perseguisse fini autonomi e l’UGTA in quanto fedele alleato dell’FLN non poteva certo aiutarlo, anzi! E se la crisi conosciuta dal Fronte nel ’62 faceva supporre un’opposizione sociale profonda, questa non riguardava assolutamente le differenti classi di quella popolazione urbana che ha svolto un ruolo secondario nella lotta militare contro l’imperialismo, ma riguardava l’opposizione tra le città e le campagne, le quali ultime, pur avendo sopportato il peso maggiore della guerra, avevano le minori possibilità di cambiamento profondo. Era dunque inutile cercare una possibilità di "continuazione della rivoluzione algerina" nel conflitto che opponeva l’Ufficio politico alla Wilaya IV, le cui rivendicazioni peraltro bastavano a togliere gli ultimi dubbi: ricorso al GPRA, attribuzione dei posti ai "veri" militanti dell’interno nella nuova gerarchia statale, rispetto delle liste presentate dalle Wilaya per l’elezione all’Assemblea costituente.

«Ma la "prossima tappa", come dicono tutti gli attivisti e i volontaristi, non è questione né di giorni né di settimane né di mesi, e meno che meno è una questione puramente algerina: è tutta una fase storica di cui il proletariato internazionale ha bisogno per ricostruire la sua forza rivoluzionaria distrutta in tutti i frontismi democratici nazionali e progressisti del mondo, cioè il suo partito mondiale di classe».

A quarant’anni da allora, noi marxisti sottoscriviamo ancora in pieno questa dichiarazione.
 
 

8. Una prima conclusione

8.1. Il passato

1) La storia della società algerina è caratterizzata dalla lunga persistenza del comunismo primitivo, forma di produzione che esclude la formazione di uno Stato nazionale centralizzato. Le diverse invasioni, romana, araba, turca furono impotenti a distruggere la proprietà comune del suolo. Sono occorsi 130 anni di sanguinosa dominazione francese per vedere sparire gli ultimi residui di questa forma.

2) La forma economica importata dai francesi, il capitalismo, si sviluppò soprattutto nell’agricoltura causando la distruzione dell’economia arcaica, l’espropriazione di un gran numero di produttori immediati, e la formazione di un numeroso proletariato, di cui una parte emigrò in Francia, e di una massa di nullatenenti ai quali non restò, per sopravvivere, che l’estrema risorsa del vagabondaggio.

3) In Algeria il conflitto di razza è prevalso su quello di classe perché la classe dominante era francese, mentre la borghesia algerina era ed è molto ridotta e la sua influenza politica trascurabile. Il dominio e l’oppressione di classe sono quindi stati esercitati dall’imperialismo francese e dagli strati sociali della colonizzazione europea. La punta avanzata della borghesia algerina esiste, potenzialmente, nello strato contadino che lotta per la sua "territorializzazione", cioè per ottenere almeno in parte le terre detenute dai coloni europei.

4) In Algeria, come nelle altre colonie e semicolonie del mondo, alla fine del Primo Conflitto mondiale, la Rivoluzione russa del ’17 produsse un forte contraccolpo politico: lo sviluppo di un vigoroso moto di indipendenza nazionale diretto dal proletariato indigeno in collegamento con il proletariato francese e la metropoli. Questo aspetto è storicamente dato dalla costituzione nel ’26 dell’Etoile Nord Africaine su iniziativa dei comunisti algerini. La situazione era favorevole a una doppia rivoluzione come quella che nel ’17 mise fine in Russia alla fase zarista; ma a tale scopo sarebbe stato necessario che il proletariato francese e il suo partito avessero risposto all’appello, e soprattutto che l’Internazionale Comunista si fosse mantenuta sulle posizioni teoriche e pratiche definite nel 1920 al Congresso dei Popoli di Colore di Baku. Non essendosi realizzata questa prospettiva, l’Etoile fu progressivamente spinta in un quadro strettamente nazionalista e borghese.

5) Il riflusso dell’ondata rivoluzionaria fu seguìto, in seno all’I.C., prima dal trionfo dell’ideologia frontista, poi da quello del Fronte popolare. In Francia il PCF dapprima rifiutò di sostenere il movimento algerino in nome della "lotta contro il fascismo" (nel 1935 ci fu la rottura tra il PCF e l’Etoile), poi lo sabotò trattando da "fascisti" i suoi capi; in nome dell’"antifascismo" gli staliniani reclamarono e giustificarono nel 1945 i massacri di Costantina. Col pretesto che l’Algeria era una "nazione in formazione", non fornirono alcun aiuto serio al movimento insurrezionale. Non fecero nulla nel 1954 allo scoppio della rivolta generale, nulla durante le manifestazioni dei richiamati in Francia; in cambio, permisero nel 1956 il voto per i poteri eccezionali al governo francese.

6) Quanto all’I.C., essa si era liquidata fin dal 1928, adottando nel VI Congresso la teoria e la pratica (rinnegatrici del marxismo) del Socialismo in un solo Paese. In queste condizioni, la rivoluzione popolare algerina era destinata fatalmente a cadere sotto la direzione della borghesia. Isolato dal proletariato internazionale, abbandonato a se stesso, il movimento dell’ENA venne spinto a poco a poco in un quadro angustamente nazionalista e, quando le crisi economiche del 1945 e del 1954 provocarono lo scoppio della rivoluzione algerina, questa non poté più dirigersi che verso la soluzione borghese, bene impersonata dall’FLN e dal suo "governo in esilio". La borghesia algerina solo tardivamente si è collegata alla rivoluzione allo scopo di assumere il controllo della società nella fase dell’indipendenza politica, che è stato il frutto inevitabile della lotta armata dei contadini poveri. Il proletariato algerino non svolge più alcun ruolo politico in questa rivoluzione.
 
 

8.2. Il presente

7) La rivoluzione algerina è una rivoluzione popolare in cui la borghesia, invece di essere un fattore preponderante e "progressivo", agisce come elemento di freno. In un primo momento essa la osteggiò; poi, quando vi si unì, lo fece per prenderne la direzione e canalizzarla nel senso di una soluzione democratico-piccolo-borghese. Il motore fondamentale di questa è il contadiname povero, nei cui obbiettivi il proletariato algerino vede sommersi i propri. Quanto ai proletari rimasti in Francia, essi si rifugiano in una mera azione sindacale, immuni dall’ideologia nazionalista e dalla direzione dell’FLN, ma incapaci di assumere una posizione rivoluzionaria, dato l’atteggiamento ultra-democratico del PCF.

8) L’intransigenza dell’imperialismo francese, prolungando la guerra per sette anni, ha radicalizzato il moto algerino e provocato una profonda erosione della società indigena. In questo senso, la credenza gollista e oltranzista che la democrazia e la civiltà occidentale si difendevano nella roccaforte algerina, ha avuto conseguenze obiettive ben altrimenti eversive che il belante pacifismo del democratismo staliniano e di tutta la "sinistra".

9) L’incapacità dell’imperialismo francese di risolvere rapidamente la questione algerina ha provocato per contraccolpo il moto della piccola borghesia europea, i coloni (spalleggiati da una potente ma esile grande borghesia locale), tanto più spinti a reclamare la vittoria militare quanto più i loro privilegi sembravano minacciati. Questo conflitto con il potere statale ha rischiato di estendersi alla Francia. L’avvento del gollismo permise di arginarne l’estensione, richiamando all’ordine questa piccola borghesia. Quanto al proletariato, non essendo esso intervenuto, nessuna misura fu necessaria contro di lui, e il regime gollista poté quindi presentarsi come il difensore della democrazia. Ma siccome il suo programma sociale è lo sviluppo del capitalismo, e questo sviluppo non può realizzarsi senza la pauperizzazione della piccola borghesia, questo potere si esercita – e più ancora si eserciterà – nello stesso senso dei poteri fascisti.

10) In Algeria il grande problema politico era il trapasso dei poteri, perché non esisteva come in Tunisia e in Marocco uno Stato capace di riceverli, né il Paese poteva essere trasformato in pura e semplice provincia francese. Gli avvenimenti di dicembre hanno aperto l’ultima fase della guerra, mostrando che tra la posizione oltranzista di un’Algeria francese e il proseguimento dell’insurrezione popolare v’è una terza soluzione: il compromesso tra il grande capitale francese impersonato da De Gaulle e il GPRA o FLN di Ferhat Abbas, un movimento borghese gretto e codardo eretto sull’abnegazione dei fellagha nella lotta. L’adesione dei deputati e senatori algerini alla posizione dell’FLN, notte del 4 agosto dell’insurrezione algerina, è un altro indice dell’approssimarsi dell’accordo.
 
 

8.3. L’avvenire

11) Il compromesso politico non segnerà tuttavia la fine degli antagonismi sociali. L’Algeria rimarrà una polveriera in Africa, perché l’FLN non risolverà la questione agraria e nemmeno potrà dare lavoro ai milioni di disoccupati. In Francia il contraccolpo sarà tale che il proletariato francese sarà costretto a sostenere una dura lotta se vorrà mantenere il suo livello di vita, perché si troverà davanti il potere capitalista fascistizzato, uscito più potente dalla crisi. Questa situazione la dovrà imputare a tutti i partiti che da 35 anni non hanno fatto che tradire i suoi interessi, anche quelli più immediati, e in primo luogo al PCF.

12) Per la sedicente "sinistra", la lotta per la fine della guerra d’Algeria è sinonimo di lotta contro il fascismo, che essa pone quindi al centro delle preoccupazioni del movimento operaio francese. Per essa, dall’esito di questa lotta dipenderebbe in definitiva la validità o meno del marxismo e la realtà o meno della missione storica del proletariato: l’emancipazione di tutta la società umana. Ecco perché i sinistri del "Partito Socialista Unificato" e altri gruppi non staliniani proclamarono che la classe operaia si era "disonorata" con la sua passività durante il conflitto algerino, mentre i trotzkisti, nell’ansia di sfruttare a ogni costo un moto potenzialmente rivoluzionario, davano un appoggio pieno e incondizionato alla direzione della rivolta, privando così il proletariato indigeno di ogni possibilità di separarsi dalla propria borghesia e preparare una ulteriore offensiva.
I nostri gruppi in Francia, lungi dall’isolarsi dalla questione algerina, non hanno mai cessato:
a) di individuare le cause della passività del proletariato francese nel tradimento delle organizzazioni pseudo-proletarie, di cui situiamo l’origine nella sconfitta subita dal proletariato internazionale nel 1928 con il trionfo della teoria del Socialismo in un solo Paese, teoria che sul piano tattico si accompagnava alla pratica del Fronte unico;
b) di ribadire – con Lenin – che "a proposito della libertà delle nazioni di disporre di se stesse, come di ogni altra questione, ciò che prima di tutto e soprattutto interessa è la libera disposizione del proletariato all’interno di tutte le nazioni". Nella presente situazione, essi pensano come Marx pensava dell’Irlanda: "La classe inglese operaia non potrà fare nulla (sottolineato da Marx) finché non si sarà sbarazzata dell’Irlanda. La reazione inglese in Inghilterra ha le sue radici nell’asservimento dell’Irlanda".

13) Sul piano mondiale, l’indipendenza algerina giunge al termine del ciclo di lotte armate anti-colonialiste, tendenti in tutto il mondo alla formazione di società borghesi capitalistiche. Questo moto di liberazione nazionale ha, in un primo momento, indebolito le vecchie metropoli capitaliste; ma, trionfando, tende a stabilizzare il sistema capitalistico mediante la formazione di mercati nazionali e il rilancio di un’accumulazione allargata del capitale su scala più vasta. Nel primo periodo, l’assenza del partito di classe ha impedito una soluzione rivoluzionaria del movimento anti-imperialista; nel secondo, questa stabilizzazione, ritardando la crisi, frena la ripresa del movimento proletario che pure, dal terremoto coloniale, avrebbe tratto formidabile alimento ed impulso. Ma l’indipendenza algerina, se è concomitante alla fine della ricostruzione della società capitalista, lo è anche al periodo in cui appaiono o riappaiono sulla scena mondiale nuovi "grandi" (Cina, Giappone, Germania) e di conseguenza si apre una nuova fase di lotta per la conquista dei mercati e la ridivisione del mondo, premessa infallibile di nuove crisi.

14) L’Algeria "indipendente", frutto della "pace negoziata" che ormai si profila, farà parte della vasta zona di fragili strutture statali "balcaniche", che comprende i paesi del Medio e Vicino Oriente, dell’Asia del Sud-Est (Indocina, Thailandia), dell’America Centrale e del Centro-Africa (Congo, Rhodesia). Perciò la "nuova" società capitalista, quella della coesistenza pacifica, del "disimpegno" e della "liquidazione" del colonialismo, non sarà affatto più stabile di quella che l’ha preceduta, e il proletariato internazionale potrà puntare sulle falle apertesi nel sistema imperialista per dare l’assalto al potere borghese.

15) Questa prospettiva è ancora lontana [siamo nel 1961!]. Ma la fine della guerra d’Algeria può essere il punto di partenza di una ripresa proletaria in Francia e in Europa. La lotta violenta del proletariato è un prodotto bruto dell’odierna società divisa in classi. La questione fondamentale è la sua organizzazione e la sua guida, cioè la formazione del partito proletario su scala mondiale. La fase che si apre rispetto a quella precedente offrirà condizioni molto più favorevoli a questa grande ricostituzione delle forze rivoluzionarie del proletariato, condizioni sine qua non della vittoria del comunismo.
 
 
 
 
 
 
 
 

V.

LO STALINISMO ALL’ALGERINA O DELLA DITTATURA ANTI-PROLETARIA (1962-1978)

1. 1962-1965: Il regno Boumédiène-Ben Bella

1.1. La riforma agraria

L’alleanza Boumédiène-Ben Bella contro il Governo Provvisorio aveva probabilmente risparmiato all’Algeria già nel 1962 l’esperienza "militarista". Con il duo Boumédiène-Ben Bella il potere è saldamente nelle mani dello Stato maggiore generale, che riceve la legittimazione ideologica direttamente dall’FLN. Il primo governo Ben Bella, che rimase in carica esattamente un anno, dal settembre 1962 al settembre 1963, più che all’instaurazione degli istituti politico-costituzionali della giovane repubblica, dedicò le sue forze al varo di misure, per lo più demagogiche, intese a sovvertire i rapporti tramandati da cento e passa anni di colonialismo. Il programma governativo venne paradossalmente agevolato dalla "fuga" in massa – non preventivata – della popolazione francese. In pochi mesi, l’esodo privò l’Algeria dei tecnici, degli insegnanti e dei funzionari, eliminando così alla radice la preponderanza francese in tutti i settori della società ed evitando una possibile alleanza fra gli europei e le frange moderate dei nazionalisti in funzione anti-governativa. Gran parte dei beni mobili ed immobili abbandonati dai coloni, soprattutto le abitazioni e le piccole aziende industriali, passarono a prezzi di favore nelle mani della nuova borghesia algerina.

Per la terra si erano battute soprattutto le popolazioni più povere – e più arretrate – dell’Aurès e della Cabilia, che ora chiedevano il frazionamento della terra appartenuta ai coloni. Ma più che di un frazionamento, l’agricoltura algerina, il cui problema basilare è sempre stato quello dell’irrigazione, aveva bisogno piuttosto di un intervento di tipo collettivistico. Comunque, il primo provvedimento lanciato dal governo fu la cosiddetta "operazione aratura", che nell’ottobre 1962 coinvolse tutta la popolazione contadina nel compito di rimettere a coltura le terre abbandonate: il successo non fu spettacolare, ma permise se non altro all’Algeria di avere un raccolto da cui partire, senza dover sacrificare i vigneti alla semina di grano. Con due ordinanze governative vennero inoltre proibite le transazioni relative alle proprietà vacanti e furono precisate le norme provvisorie di autogestione delle aziende requisite.

Con l’introduzione di queste misure, il governo legalizzò di fatto la scelta già attuata spontaneamente dai contadini e dai braccianti agricoli, che avevano costituito dei Comitati di gestione per affrontare i problemi più urgenti. La successiva legge del marzo 1963 rese definitiva la normativa sui beni vacanti e sull’autogestione delle terre: la proprietà delle aziende collettive organizzate in cooperative di produzione diventava nazionale ("sociale" e non "statale"), e la gestione veniva affidata ai lavoratori. Fu introdotta la distribuzione degli utili ai lavoratori in funzione di stimolo per incrementare la produzione. Il sistema dell’autogestione, soggetto al controllo ultimo dello Stato, poggiava alla base sull’Assemblea generale dei lavoratori, la quale stabiliva il piano di sviluppo e nominava un Consiglio allargato nel cui seno erano eletti i membri del Comitato di gestione; accanto al presidente del Comitato sedeva il direttore, di nomina governativa, che vigilava sulla legalità dell’esercizio e gestiva i fondi. L’autogestione, poco contemplata nei testi ideologici del Fronte, divenne il simbolo stesso della rivoluzione impersonata da Ben Bella, un simbolo di democraticità e di partecipazione dal basso delle classi lavoratrici alla vita politica. Il modello a cui l’Algeria guardava era quello dell’autogestione iugoslava. Ma di fatto la sopravvivenza delle vecchie Sociétés agricoles de prévoyance, una sopravvivenza coloniale responsabile per i crediti all’agricoltura, comportò una ingerenza esagerata dello Stato nel settore dell’autogestione, che unita ad altri fattori finì per provocare da una parte il rallentamento produttivo e dall’altra spinse il settore autogestito, già di per sé limitato, verso un’autodifesa degli interessi corporativi dei soci nei confronti del resto del mondo contadino.

Al settore autogestito erano stati assegnati all’inizio circa un milione di ettari vacanti, comprensivi delle superfici più fertili (vigneti, agrumeti, ecc.). Nel marzo 1963 furono espropriate ulteriori terre del colonato, a rigore non vacanti, prendendo a pretesto motivazioni di comodo per superare le preclusioni contenute negli accordi di Evian, ciò che provocò le rimostranze del governo francese. Alla resa dei conti, la garanzia di un equo indennizzo non fu mai osservata. Le ultime proprietà dei coloni furono confiscate nell’autunno e, finalmente, nell’ottobre 1963 il presidente Ben Bella poté annunciare alla nazione che "neppure un ettaro di terra algerina era in possesso di proprietari stranieri", con scarsa consolazione per la maggior parte dei contadini algerini che non erano stati toccati dalla riforma. Infatti la nazionalizzazione delle terre in mano agli stranieri non collegata a una riforma agraria generale, servì solo a creare una nuova categoria di contadini privilegiati. Le misure adottate non riuscirono a risolvere il problema della fame delle masse rurali perchè non si volle colpire la borghesia agraria algerina: la "rivoluzione agraria" si fermò impotente di fronte agli interessi dei notabili musulmani e della grande proprietà indigena. I demagogici provvedimenti anticoloniali serviranno solo a mascherare l’intangibilità dei rapporti di classe, sacrificando il potenziale serbatoio di energia rivoluzionaria rappresentato dalla grande massa dei fellah.

Il settore nazionalizzato e autogestito che era sotto la diretta responsabilità dei Comitati di gestione veniva a coprire 2,7 milioni di ettari, ossia l’equivalente delle terre possedute dai coloni prima dell’indipendenza. Esso occupava 200mila lavoratori permanenti, che con le famiglie arrivavano a una popolazione di circa un milione sui 7-8 milioni complessivi di rurali algerini – la maggior parte dei quali privi di terra. Una bella riforma agraria, non c’è che dire! Il settore autogestito comprendeva le terre più fertili, tanto che pur costituendo soltanto un terzo del totale delle terre coltivate, forniva circa il 60% del prodotto agricolo algerino. Lo scarto tra il moderno settore nazionalizzato e il settore tradizionale a regime semi-feudale fermo ai ritmi della sussistenza era destinato a peggiorare. Alla fine del 1963, oltre ai 200mila lavoratori del settore autogestito, nell’agricoltura algerina si contavano: 450mila lavoratori stagionali; un milione di disoccupati senza terra e senza lavoro; 450mila contadini proprietari di appezzamenti inferiori a 10 ettari (per complessivi 1,4 milioni di ettari); 170mila piccoli proprietari di fondi da 10 a 50 ettari (per complessivi 3,2 milioni di ettari); 25mila grossi proprietari di fondi superiori a 50 ettari (per complessivi 2,8 milioni di ettari).
 
 

1.2. L’industrializzazione

La soluzione della fame di terra non poteva andare disgiunto dallo sviluppo industriale che, nei piani del governo, avrebbe dovuto assorbire una metà dei fellah senza terra, il sottoproletariato delle città e tutte le altre schiere di sradicati e diseredati. Ben Bella parlò di trasferire un milione di giovani dall’agricoltura ad altri settori produttivi. Ma i provvedimenti adottati dal governo furono carenti proprio nei programmi di "investimento umano", che avrebbero potuto in un primo tempo sostituire la mancanza di capitali. Anzi, si preferì non ostacolare l’emigrazione di massa, soprattutto verso la Francia, puntando sulle rimesse che in certe zone rappresentavano l’unico reddito delle famiglie rimaste in Algeria. Questa politica faceva felice la borghesia francese ma sottraeva all’Algeria le energie dei giovani.

In campo industriale le misure sui beni vacanti e sull’autogestione – una fotocopia del modello adottato in campo agricolo – interessarono non più di 450-500 aziende per un totale di 10-15mila operai, e non riuscirono a reggere la concorrenza del settore industriale privato che era prevalentemente in mani francesi. Anche in campo industriale il regime cercò di estendere le nazionalizzazioni, ma i provvedimenti interessarono le imprese di poco conto, come cinema e alberghi, che finirono per alienare al governo le simpatie della piccola borghesia artigianale e imprenditoriale. La borghesia algerina era infatti presente soprattutto nel commercio.

La prudenza con cui lo Stato algerino operò in campo industriale è stata spiegata con la necessità di non scoraggiare gli investimenti di capitale straniero. Si voleva puntare ad una specie di NEP algerina, dove un forte settore industriale privato a larga partecipazione di capitale straniero avrebbe dovuto coesistere con un settore nazionalizzato. Fatto sta che banche e commercio estero, strumenti evidenti della dipendenza algerina dal capitalismo francese, non furono toccati dalle nazionalizzazioni.

In compenso, i sindacati furono epurati e subordinati alle direttive dall’alto, per meglio controllare il proletariato urbano (110-120mila unità).

Ottemperando a quanto previsto dal programma di Tripoli, Ben Bella procedette alla nazionalizzazione di quasi tutte le miniere, molte delle quali erano però a basso rendimento o addirittura improduttive. La nazionalizzazione delle miniere di ferro più importanti sarebbe stata attuata da Boumédiène nel 1966. Fu sempre Boumédiène dopo il colpo di Stato del luglio 1965 a sottoscrivere il primo accordo con la Francia nel settore degli idrocarburi, in cui veniva prevista la compartecipazione dell’Algeria allo sfruttamento della sua principale ricchezza naturale. Pressoché inesistente fu la politica del governo verso il Sahara, che pure rappresentava l’84% dell’intero territorio nazionale, dove fra l’altro continuarono fino al 1967 gli esperimenti nucleari francesi.
 
 

1.3 Governo a partito unico

La macchina dello Stato coloniale non fu affatto distrutta dopo l’indipendenza: di fatto la legislazione francese vigerà fino al 1976, quando una nuova Assemblea costituente e una nuova Costituzione daranno all’esercito l’investitura del potere. La prima Costituzione della Repubblica algerina era stata varata nell’agosto 1963 dall’Assemblea costituente designata dall’Ufficio politico dell’FLN ed era stata approvata a mezzo referendum l’8 settembre successivo. Il 15 Ben Bella era stato eletto Presidente della repubblica. Tre settimane più tardi egli sospese la Costituzione per concentrare nelle sue mani i pieni poteri. I quadri della sinistra triade Esercito-Partito unico-Stato diventeranno intercambiabili – dai ministri, ai dirigenti di società nazionalizzate, ai funzionari del Fronte, agli ufficiali. Lo stesso FLN, di riorganizzazione in riorganizzazione, funzionerà di fatto come una struttura subordinata all’esercito, e fornirà la legittimazione ideologica sia all’esercito sia allo Stato. A partire dal 1965, i responsabili del Fronte verranno scelti tra gli ufficiali dell’FLN (Belkacem Krim, Kaid Ahmed, Yahiaui, Messadia). Attraverso la rete delle sue decine di migliaia di effettivi e il controllo delle organizzazioni sindacali e giovanili, l’FLN avrà il compito di controllare "ideologicamente" le masse, che fino alla crisi economica degli anni 1970-80 accetteranno "docilmente" questo stato di cose.

L’aspetto istituzionale dell’Algeria benbellista mostra un potere concentrato nei vertici del Partito e del Governo. Come abbiamo visto, la Costituzione, più che opera dell’Assemblea costituente fu opera del Fronte. Il regime è articolato sul Partito unico, il cui potere viene garantito dall’esercito. La Costituzione stabilisce la preminenza del potere esecutivo, mentre il parlamento – sede tradizionale della cosiddetta sovranità popolare – riveste un ruolo del tutto secondario. La normalizzazione costituzionale del 1963 aveva sanzionato la vittoria degli "esterni" con l’alleanza tra Ben Bella ("esterno" già prima dell’insurrezione perché operante al Cairo) e Boumédiène, il comandante dell’esercito delle frontiere. La composizione del gabinetto formato da Ben Bella il 18 settembre 1963, dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione, composto pressoché totalmente da suoi uomini di fiducia e da fedeli di Boumédiène (nominato vice-presidente del Consiglio e ministro della Difesa), è lo specchio dell’equilibrio fra partito e Stato, un equilibrio in realtà solo virtuale. Rabah Bitat, ultimo "capo storico" a non aver rotto con Ben Bella, era stato incluso nella lista dei ministri del futuro gabinetto, ma si dimise a poche ore dalla costituzione del nuovo governo. Precedentemente, nell’aprile 1963, Mohammed Khider si era dimesso dalla carica di segretario generale dell’Ufficio politico in quanto, contro il parere di Ben Bella e dell’esercito, aveva inutilmente richiesto una convocazione straordinaria del Congresso perchè si pronunciasse sulla Costituzione, prima della sua definitiva approvazione. Anche Ferhat Abbas, portavoce della borghesia urbana algerina, presidente dell’Assemblea costituente e tiepido partigiano del socialismo rivoluzionario, non più che formale, dei nuovi arrivati, non tardò a diventare ingombrante. Già Ait Ahmed non aveva nascosto la sua opposizione alla nomina di Abbas a presidente dell’Assemblea, negandogli il diritto di guidare l’Algeria rivoluzionaria. Ferhat Abbas, contrario alle nazionalizzazioni e favorevole al multipartitismo, cercò naturalmente di opporsi al predominio del partito unico che diminuiva le prerogative dell’Assemblea. Quando il 14 agosto 1963 egli presentò le dimissioni, l’FLN prese la palla al balzo e lo radiò dal partito in quanto "vessillifero della coalizione borghese e del compromesso"!

Come reazione alla disgregazione della leadership dell’FLN, alcuni gruppi politici tentarono di organizzarsi. Nel settembre 1962 era nato il Partito della Rivoluzione Socialista (PRS) con un programma ispirato al "socialismo scientifico". Pare che ne sia stato l’istigatore Boudiaf, arrestato poi nel 1963 per alcuni mesi. Boudiaf, che trovava consensi soprattutto fra gli algerini emigrati in Francia, scriverà in un suo libro: «Senza una riforma agraria radicale basata su una rigorosa pianificazione di tutta l’economia, senza il passaggio dei mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori, senza la mobilitazione delle masse, senza un severo controllo del commercio estero e del movimento dei capitali, senza la creazione di un mercato interno controllato in tutti i suoi circuiti, senza la selezione degli investimenti stranieri, non vi può essere socialismo».

Nel 1963 venne fondato da Ait Ahmed il Fronte delle Forze Socialiste (FFS), che aveva seguito soprattutto in Cabilia ed era sostenuto da molti combattenti della wilaya III. Nel settembre esso chiamò la popolazione cabila alla resistenza armata contro il governo, ma il tentativo insurrezionale ebbe vita breve. Il maquis fu rilanciato da Ait Ahmed nel febbraio 1964: protagonista di questa seconda fase della rivolta fu il colonnello Chaabani, arrestato nel luglio 1964 e giustiziato in settembre a Orano. Lo stesso Ait Ahmed fu arrestato nell’ottobre e condannato a morte, ma la sua pena fu commutata da Ben Bella nel carcere a vita. I partiti concorrenti dell’FLN, costretti alla clandestinità, dimostrarono di avere una certa influenza in occasione delle elezioni del 1963 allorchè chiamarono gli algerini all’astensione: la più alta percentuale di astensioni si registrò nelle circoscrizioni cabile (circa il 45%).

Più agevole del previsto fu l’assimilazione del Partito Comunista, che nel novembre 1962 era stato sciolto e suoi militanti invitati ad entrare nel partito unico. Nelle elezioni del 1963 i comunisti appoggiarono apertamente la linea ufficiale dell’FLN.

Verso i sindacati Ben Bella ebbe un atteggiamento contraddittorio: egli aveva bisogno dell’appoggio dei quadri sindacali per la sua politica di riforme, ma non si fidava completamente dei dirigenti rientrati in patria dopo l’indipendenza ritenendoli poco integrati nella realtà algerina. Del resto, la stessa centrale sindacale UGTA era combattuta tra la suggestione di cavalcare le spinte più radicali e la tendenza a difendere gli interessi dell’aristocrazia operaia. Nonostante il tentativo di Ben Bella di coinvolgere l’UGTA nelle principali decisioni del regime, i rapporti fra sindacato e partito unico furono subito difficili. Il governo finì per porre l’organizzazione sotto la tutela del partito, manipolando i Congressi e le nomine ai posti chiave, col risultato di condizionare pesantemente la lotta sindacale.

Di fatto, Ben Bella dipendeva sempre di più dall’esercito che aveva condizionato il suo successo nel 1962 e ora ne garantiva la difesa contro gli oppositori. L’esercito, divenuto Armata Nazionale Popolare (ANP), aumentò il suo prestigio con la repressione della resistenza cabila, dopo essersi opposto a qualsiasi "riconciliazione" o soluzione negoziata, così come gli giovò il clima di fervore patriottico durante la guerra di frontiera con il Marocco nell’autunno 1963. La stessa Costituzione assegnava un posto speciale all’ANP: dice l’articolo 8 che "l’esercito garantisce la difesa del territorio e della repubblica e partecipa alle attività politiche, economiche e sociali del paese nell’ambito del partito". L’intreccio tra potere civile e potere militare, figlio dell’insurrezione del 1954, si perpetuerà fino ai giorni nostri, sotto lo spauracchio del "nemico". Un nemico che non ha certamente le sembianze della borghesia algerina schierata con Ferhat Abbas, quanto piuttosto quelle delle masse contadine, mai dome nel rivendicare la realizzazione delle promesse ricevute.

In politica estera, l’Algeria divenne uno degli alleati più stretti dell’URSS nel Terzo mondo, il secondo (dopo l’Egitto) per volume degli aiuti materiali e finanziari forniti da Mosca ai paesi africani. Quanto ai rapporti di Algeri con la Francia, era chiaro che il governo francese utilizzava gli aiuti economici previsti dagli accordi di Evian per consolidare il regime in modo da prolungarne la dipendenza. De Gaulle non temeva evidentemente il pericolo "rivoluzionario" rappresentato da Ben Bella, a differenza degli Stati Uniti che saboteranno l’economia cubana per soffocare la rivoluzione castrista. Ma la difesa delle posizioni anti-imperialiste, la lotta al razzismo bianco, il panafricanismo, l’amicizia con Cuba non saranno sufficienti a mascherare le carenze della politica interna di Ben Bella. Le defezioni dei capi storici e le ribellioni dei maquis della Cabilia erano la dimostrazione del progressivo distacco delle masse dal regime.
 
 

1.4 La caduta di Ben Bella

Il Congresso che si tenne ad Algeri dal 16 al 21 aprile 1964, presenti duemila delegati in rappresentanza di oltre 150mila militanti e 600mila aderenti, fu il Congresso costitutivo dell’FLN, che da movimento di liberazione si strutturò in partito unico, organizzato verticalmente.

A parte la triade del vecchio GPRA (Belkacem Krim, Boussouf e Ben Tobbal), i capi storici e gli oppositori del regime declinarono l’invito a partecipare al Congresso, anzi denunciarono la dittatura del duo Boumédiène-Ben Bella. Il Congresso si concluse con la piena affermazione di Ben Bella che venne acclamato segretario generale dell’FLN.

Un importante argomento dibattuto al Congresso fu quello della componente religiosa della nazione algerina, a riprova della forte persistenza della tendenza tradizionalista in opposizione al "socialismo scientifico": anche l’esercito prese posizione a favore della corrente "integralista". Dietro la facciata delle dichiarazioni di principio, sotto la cenere covava sempre il sordo contrasto partito-esercito da cui in realtà la rivoluzione algerina non si è mai liberata: la supremazia dei politici sui militari sarà destinata a restare solo teorica, anche se Ben Bella al Congresso aveva dichiarato l’ANP "al servizio del popolo" e "agli ordini del governo" e che il partito era "incaricato dell’educazione politica dell’esercito". Di fatto, i militari, pur secondi nella gerarchia, sono i veri detentori della forza. Il documento finale approvato al Congresso esalta le funzioni e il ruolo del partito ma lo tiene ben distinto dallo Stato e gli affianca l’Esercito di Liberazione Nazionale come "importante fattore della vittoria del popolo algerino sul colonialismo francese".

A livello personale, lo scontro metteva di fronte da una parte Ben Bella, deciso a concentrare nelle sue mani tutti i poteri come capo dell’esecutivo e segretario dell’FLN, e dall’altra il comandante delle forze armate Houari Boumédiène, vice di Ben Bella nel governo e ministro della Difesa, artefice dell’ALN. La strategia di Ben Bella di cooptare al potere Boumédiène per tentare di controllarlo era in fondo un indice della debolezza del capo dello Stato. L’alleanza tra i due padroni dell’Algeria dopo il disfacimento dell’opposizione, era destinata a saltare non appena le due forze reali, l’esercito e il partito unico, avessero giudicato opportuno dare un colpo d’acceleratore. Rimasta la rivendicazione socialista di Ben Bella spesso a livello di pura enunciazione ideologica e fallito il suo tentativo di dare una vera organizzazione al partito, la vittoria dei militari era ormai solo questione di tempo.

Il conflitto giunse alla resa dei conti nel 1965. L’occasione fu fornita dall’opera di riconciliazione avviata da Ben Bella con il partito di Hocine Ait Ahmed. I colloqui fra l’FLN e il Fronte delle Forze Socialiste erano stati condotti nella massima segretezza. Il 15 giugno 1965 fu dato l’annuncio ufficiale della riconciliazione tra Ben Bella e Ait Ahmed, subito dopo la non meno importante operazione di riavvicinamento al governo di altri oppositori come Abderrahman Farés e Ferhat Abbas, liberati dalla loro condizione di vigilati speciali. Era fin troppo palese l’intenzione di Ben Bella di voler sganciare il governo dall’ipoteca delle forze armate. Pochi giorni dopo l’annuncio dell’adesione del partito di Ahmed al regime e nell’imminenza dell’inaugurazione ad Algeri di una Conferenza afro-asiatica (una seconda Bandung) che avrebbe dovuto fare di Ben Bella l’eroe del Terzo mondo, i militari, temendo di essere messi da parte da un rimpasto governativo ormai inevitabile fra le diverse forze che gravitavano attorno all’FLN, intervennero direttamente nella vita politica e il 19 giugno arrestarono Ben Bella con l’accusa di deviazionismo dal Programma di Tripoli e di culto della personalità, e quale responsabile dei danni causati al paese dal cattivo governo, dall’anarchia e dalla corruzione!

Nessuna reazione al corso degli avvenimenti venne dall’apparato benbellista, dal partito, dalle organizzazioni di massa. Sporadiche e spontanee manifestazioni popolari ebbero luogo nelle grandi città. Le maggiori resistenze vennero dai sindacati e dai giovani. Il 20 giugno, gli scontri tra dimostranti e polizia provocarono alcune vittime. Anche il tentativo della sinistra benbellista di costituzione, con l’appoggio di alcuni stalinisti, di un’Organizzazione di Resistenza Popolare, andò incontro al fallimento e gli organizzatori incarcerati. Ben presto cominciarono ad affluire gli attestati di adesione al nuovo regime, sia dall’interno sia dall’estero: magia del fatto compiuto! Posto in stato d’accusa come "traditore" e tenuto prigioniero in una località segreta, Ben Bella scompare letteralmente dalla scena. Per tutti gli anni del governo Boumédiène egli resterà semi-prigioniero in residenza obbligata. Senza essere mai processato, Ben Bella verrà amnistiato nel 1980. Si trasferirà quindi all’estero, dove vivrà in esilio volontario per circa dieci anni prima di riapparire sulla scena politica algerina.

Lo stesso 19 giugno venne annunciata la costituzione di un Consiglio Nazionale della Rivoluzione (CNR) sotto la presidenza di Houari Boumédiène, che assunse i pieni poteri. Il parlamento fu sospeso. Il Consiglio promise di non mettere in discussione l’istituto dell’autogestione – simbolo del socialismo algerino! – e mise l’accento sullo sviluppo dei "valori morali" e delle "tradizioni secolari" del popolo algerino, accreditando l’immagine dei militari come garanti della purezza dell’Islam contro il riformismo ateo occidentale! Su 26 membri del Consiglio, 24 erano militari, provenienti da tutte le forze che costituivano l’esercito algerino: i comandanti delle regioni militari, gli ufficiali di Stato maggiore, gli ex-colonnelli di wilaya, gli ufficiali dei servizi di sicurezza e gli ufficiali "civili" dell’ALN. Proprio quest’ultimo gruppo, di cui facevano parte Abdelaziz Bouteflika, Chérif Belkacem, Ahmed Medeghri e Mohammed Said, formerà l’ossatura del regime. Assegnati agli ex-combattenti dell’interno posti quasi esclusivamente onorifici, gli incarichi più importanti del gabinetto andarono agli uomini dell’esterno (gruppo di Oudja), che erano stati i maggiori fautori del colpo di Stato. L’unico "capo storico" cooptato nel governo fu Rabah Bitat.

Un regime di dittatura aperta si dimostrava ormai la forma più adatta a proteggere gli interessi della borghesia algerina, e imbrigliare le residue velleità rivoluzionarie delle masse.
 
 

2. 1965-1978:   L’Era Boumediene

2.1. La dittatura militare

Per meglio tenere sotto controllo la situazione sociale algerina Boumédiène, come capo dell’esercito, depose quindi Ben Bella assumendo in prima persona l’onere del potere. Egli utilizzerà tutte le risorse necessarie per premunirsi da un eventuale colpo di Stato ai suoi danni: per creare un contrappeso alla gerarchia militare, che era composta principalmente da uomini originari dell’est, Boumédiène affidò il comando della potente Sicurezza militare (una polizia politica al di sopra della legge, temuta sia dall’esercito sia dai civili) a ufficiali originari della Cabilia e dell’estremo ovest del paese. Boumédiène faceva capo a tutte le reti clientelari, lasciando credere a ciascuna di essere un loro uomo: diventò così l’uomo dell’esercito, l’uomo del partito, l’uomo dell’amministrazione, ecc. Tutti si riconoscevano in lui e di lui si facevano forte ma, in sua assenza, si dilaniavano a vicenda.

Il cammino che imbocca a passi rapidi la borghesia algerina è il capitalismo selvaggio, un Moloch che chiederà il sacrificio di intere generazioni di proletari.

Il governo Boumédiène manifesta subito l’intenzione di rimettere ordine nel paese e dotarlo di un’economia moderna. La "militarizzazione" del potere non si limitò all’innesto di esponenti dell’esercito nel governo o nell’amministrazione pubblica, ma coinvolse molti settori dell’attività produttiva, come le cooperative agricole, i consigli di gestione, ecc., permettendo così alla "casta" militare di concentrare nelle proprie mani il potere politico, militare ed economico. Con Boumédiène si rafforzò un regime dominato da una concezione autoritaria e nazionalista della rivoluzione. Al "socialismo" benbellista che implicava la partecipazione attiva delle masse sul modello cubano, si sostituì il "socialismo da capitalismo di Stato" sul modello dell’Egitto nasseriano (per quanto il nuovo presidente fosse inviso al Cairo, che aveva duramente condannato il colpo di Stato). Il clan borghese favorevole al liberalismo economico e al multipartitismo è messo definitivamente fuori gioco. Ait Ahmed riuscì a evadere nel maggio 1966 e rifugiarsi all’estero; Boudiaf si rifugiò in Marocco; Khider fu assassinato in Spagna nel gennaio 1967 in circostanze misteriose; Belkacem Krim, che viveva in Francia e aveva fondato nel 1967 il Movimento Democratico del Rinnovamento Algerino, venne assassinato nel 1970 a Francoforte.

Boumédiène dopo il giugno 1967 non convocò più il Consiglio della rivoluzione a causa delle nuove tensioni sorte tra i partigiani "centralisti" e autoritari dello statalismo economico e i militari più sensibili alle esigenze "democratiche", ma non potè evitare la solita spirale tra dissidenza e repressione, questa volta tutta interna all’istituzione militare. Nel dicembre 1967 il colonnello Zbiri, incarnando l’anima rivoluzionaria del vecchio Esercito di Liberazione, prende la testa di una sedizione militare che si concluderà, grazie all’intervento dei Mig sovietici, a favore del governo centrale. Zbiri riuscì a prendere la via della macchia nell’Aurès insieme ad un numero imprecisato di compagni. Il 25 aprile 1968 Boumédiène sfuggirà ad un attentato.
 
 

2.2. Capitalismo di Stato ed economia fondata sulla rendita petrolifera

L’organizzazone economica e sociale si fonda sulla preminenza dello Stato e sulla rendita petrolifera, una vera e propria manna caduta dal cielo. È l’epoca del "socialismo all’algerina fondato sulla non-dipendenza e sull’economia autocentrata": nazionalizzazioni, evacuazione delle basi militari francesi, revisione degli accordi petroliferi, rapporti sempre più stretti con l’URSS. Inoltre, l’Algeria, grazie alle sue ricchezze e alla sua potenza regionale, aspira a mettersi alla testa del processo di unificazione del grande Maghreb in concorrenza con la monarchia marocchina e con la Tunisia.

La grande avventura degli idrocarburi aveva debuttato in Algeria nel 1956 con la scoperta dei primi giacimenti sahariani ad opera della Francia, che durante la Seconda Guerra mondiale era stata spinta dalla fame di energia a creare l’Ufficio per le Ricerche Petrolifere del Sahara. L’Algeria aveva iniziato la sua lunga marcia per il controllo delle ricchezze del sottosuolo già in epoca benbellista con la costituzione nel 1964 della Sonatrach (Società nazionale per il trasporto e la commercializzazione degli idrocarburi). Nel 1965 era diventato ministro per l’Industria e per l’Energia Belaid Abdessalam, già alla testa dell’Ufficio algerino degli idrocarburi dopo gli accordi di Evian, il cui motto fu: "Seminare petrolio per raccogliere industria", con l’obiettivo di gettare le basi dell’indipendenza economica. Intavolerà negoziati con tutti i paesi, dall’Europa agli Stati Uniti ai paesi dell’Est. Sarà l’uomo delle grandi nazionalizzazioni e della creazione di numerose società industriali di Stato in tutti i settori, oltre che di banche e altri organismi finanziari. La priorità viene data ai faraonici complessi siderurgici e petrolchimici, che funzioneranno a non più del 30% delle loro capacità. A farne le spese saranno l’industria leggera e soprattutto l’agricoltura.

Le principali tappe della politica energetica perseguita dal capo del dicastero si possono così riassumere: 1965, accordo franco-algerino sugli idrocarburi, che stabiliva la parità associativa fra le compagnie francesi e lo Stato algerino; riduzione del debito algerino e aiuto ventennale francese; 1966, nazionalizzazione delle società minerarie straniere, delle assicurazioni e delle banche; 1967, nazionalizzazione delle compagnie anglo-americane e della rete di distribuzione; 1968, nazionalizzazione di 79 società industriali private, per la maggior parte francesi; 1969, adesione dell’Algeria all’OPEC; 1970, inizio del conflitto petrolifero con la Francia; 1971, nazionalizzazione del 51% del settore petrolifero di proprietà delle compagnie francesi e del 100% del gas naturale e degli oleodotti.

Scriveva Le monde diplomatique nell’agosto 1992: «L’Algeria ha ereditato dall’antico patto coloniale una specializzazione economica basata sull’esportazione di prodotti primari in cambio di manufatti. Già due anni dopo l’indipendenza, il 98,5% delle esportazioni totali è rappresentato da prodotti agricoli e materie prime. Tra queste ultime, che sono il 59,4% del totale, gli idrocarburi costituiscono da soli il 90,6% (...) Quanto alle importazioni, i beni strumentali e di consumo raggiungono il 76% delle importazioni complessive (di questo 76%, il 60,5% è costituito dai soli beni di consumo). Trent’anni dopo, l’economia continua a basarsi sull’esportazione delle sole materie prime, ridotte praticamente agli idrocarburi, e sull’importazione massiccia di (...) prodotti alimentari: nel 1989 gli idrocarburi rappresentano il 96% del totale delle esportazioni (rispetto al 12% del 1961), mentre la parte dei prodotti alimentari (e manufatti) costituisce il 91% delle importazioni (rispetto al 94% del 1961). Come si vede, questa divisione del lavoro, retaggio della colonizzazione, non è stata intaccata. Una situazione drammatica che trasforma l’Algeria in un paese pressoché mono-esportatore, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Tale risultato è dovuto in primo luogo alla strategia di industrializzazione forzata adottata da Algeri all’epoca di Boumédiène (1965-1979), e attuata proprio da Abdessalam».

Nel corso degli anni ’70 la grande corruzione mette radici nell’economia della rendita fondata sull’esportazione di idrocarburi e sui grandi contratti industriali: uomini del presidente della Repubblica, di concerto con la Sécurité (la polizia politica), gestiscono le commissioni occulte sui grandi contratti, assicurando la redistribuzione dei fondi all’interno del sistema e favorendo in tal modo la nascita di una vera e propria nomenklatura di regime.

Il programma di industrializzazione a tappe forzate degli anni 1965-79 fu favorito dall’alto prezzo del petrolio e dall’alto tasso di cambio della moneta americana. Alla base del progetto di sviluppo c’era l’industria pesante, i cui impianti erano il più delle volte sovradimensionati e a basso impiego di manodopera. Il parco industriale – siderurgia, raffinerie, cementifici, costruzioni meccaniche – tutto, beninteso, comprato all’estero e spesso a credito, si rivelò ben presto poco remunerativo, considerati anche gli elevati costi di gestione e di funzionamento delle fabbriche, che dipendevano dall’importazione massiccia dei pezzi di ricambio, dei tecnici capaci di farle funzionare, ecc.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

VI.

CAPITALISMO A VISO SCOPERTO

1. Degrado economico e sociale (1978-1988)

Boumédiène muore nel 1978, lo stesso anno in cui la "rivoluzione" degli Imam si impadroniva dell’Iran. La crisi che già attanagliava l’economica mondiale colpisce anche l’Algeria, mettendo a nudo le prime crepe nella trinità Esercito-Stato-Partito. Fino ad allora, il regime era stato in grado di assicurare alla popolazione una certa soddisfazione dei bisogni primari, riducendo drasticamente la miseria in rapporto agli anni ’60. Grazie all’elettrificazione delle campagne, alla diffusione del gas, allo sviluppo dei trasporti, alle medicine e alle cure mediche gratuite per tutti, all’allargamento della scolarizzazione, le condizioni di vita degli algerini erano mutate profondamente. Nel decennio 1967-1977 il reddito nazionale salì da un indice 100 a 232, con una crescita media dell’8,6% all’anno, mentre il reddito pro-capite era passato da 100 a 171. Ma in campo agrario la produzione complessiva ristagnava: nello stesso periodo la produzione era passata da 100 a 106, mentre la popolazione era aumentata nello stesso periodo da 100 a 140. L’Algeria aveva rinunciato a perseguire una politica di autosufficienza alimentare ritenendo più vantaggioso approvvigionarsi sul mercato mondiale beneficiando del basso costo dei cereali rispetto al petrolio. Le coperture dei consumi interni con prodotti algerini scese dal 70% del 1969 al 30% dei primi anni ’80. L’Algeria è costretta ad importare il 41% del suo fabbisogno di cereali, il 50% dei prodotti caseari, il 70% delle materie grasse e il 95% dello zucchero. La scommessa dei "modernizzatori" di riorganizzare l’agricoltura algerina in forme collettiviste e con l’utilizzo di tecniche moderne a beneficio della classe più sfavorita dei fellah fu perduta. In assenza di una radicale trasformazione delle strutture sociali e delle forme di produzione del settore tradizionale, uno sviluppo dell’agricoltura avrebbe richiesto investimenti (per le macchine, i fertilizzanti, le migliorie del suolo, ecc.) fuori della portata sia dello Stato sia dei privati.

Al vertice dello Stato i personaggi più accreditati a raccogliere l’eredità di Boumédiène erano da una parte il ministro degli Esteri Abdelaziz Bouteflika, alter ego di Boumédiène, sostenuto dall’élite burocratica e dal settore privato, con vocazione aperturista sia in politica sia in economia; dall’altra parte, Mohammed Salah Yahiaoui, facente funzione di segretario dell’FLN, favorevole alla difesa delle conquiste della rivoluzione, con vocazione socialista e terzomondista, candidato di una parte dell’esercito, dei giovani e del sindacato. Ma il prescelto fu alla fine il candidato dell’esercito, con un ruolo equidistante tra i due aspiranti, in un certo senso collocabili rispettivamente a destra e a sinistra degli schieramenti politici algerini. Il Consiglio della Rivoluzione, rispolverato per l’occasione, orientò quindi la sua scelta sull’ufficiale anziano di grado più elevato, già comandante della regione di Orano, il colonnello Chadli Bendjedid, un pragmatico moderatamente favorevole alla "liberalizzazione" del sistema economico, un uomo sconosciuto al grande pubblico, che non aveva né il carisma né le doti politiche dei suoi predecessori. La sua nomina fu sottoposta alla ratifica dell’FLN in quello che fu il suo quarto Congresso (gennaio 1979) e quindi a plebiscito popolare (7 febbraio 1979). A decidere la scelta furono i nuovi rapporti di forza nella società e nel governo. La centralità dello Stato, che era stata la chiave della politica negli anni ’70 cominciò ad apparire ad un certo punto come la causa degli sprechi e delle storture burocratiche. La successione segnò una discontinuità perché Chadli, al contrario dell’ex-comandante dell’esercito delle frontiere, non aveva stretti legami con il patrimonio della rivoluzione.

Alla vigilia degli anni ’80, Smail Goumeziane (che sarà ministro del Commercio dal 1989 al 1991) aveva individuato i problemi dell’Algeria nell’elevatissimo indebitamento internazionale, nel cronico squilibrio fra aziende agricole e imprese industriali, nell’incremento incontrollabile delle importazioni, nel deficit della bilancia dei pagamenti. La rendita petrolifera da sola non basta più a nascondere i molti "difetti" del "socialismo" algerino. Dal 1974 al 1979, l’indebitamento era passato da 6 a 26 miliardi di dollari. Il fiume di denaro era stato prosciugato in progetti poco redditizi, a bassa produttività, e nell’acquisto all’estero di beni di consumo sempre più costosi. L’entrata in funzione degli impianti programmati subisce continui ritardi, i macchinari sono cronicamente sotto utilizzati, i costi di produzione sono gonfiati dagli elevati ammortamenti.
A partire dal 1994, nel tentativo di bloccare l’inflazione, i prezzi di vendita dei prodotti industriali verranno congelati, col risultato di provocare una cronica penuria di merci nel mercato statale ufficiale e, parallelamente, l’allargamento del mercato nero e l’aumento della disoccupazione. Si assiste così, da una parte, al degrado delle condizioni di vita e, dall’altra, alla formazione di colossali fortune.

Nel 1979 gli Stati Uniti optano per una politica di alti tassi d’interesse che provoca una rapida rivalutazione del biglietto verde: una strategia che consentirà la "rinascita americana" grazie all’afflusso di enormi masse del risparmio mondiale e contribuirà a finanziare per oltre il 50% il deficit di bilancio e l’industria militare americana. Ma per paesi come l’Algeria, questa politica ha il doppio svantaggio di rendere più oneroso e quindi meno conveniente il ricorso al debito, che è calcolato in dollari. Gli accordi che Algeri sottoscrive con la Comunità Europea sono di ordine esclusivamente commerciale e tendono a perpetuare l’asimmetria degli scambi in quanto riconfermano il paese nella sua tradizionale funzione di fornitore di prodotti energetici. Gli accordi funzionano come un dispositivo protezionista a tutto vantaggio della CEE, e della Francia in particolare: grazie ai prezzi di favore, alle clausole di salvaguardia e quant’altro, Parigi mira a difendere i profitti industriali francesi e i redditi dei suoi agricoltori.

Una tale asimmetria continua a fare dell’Algeria il classico mercato di sbocco dei prodotti industriali e agro-alimentari europei. A tale scopo, una delle armi più usate è il dumping, che consente di svendere le eccedenze cerealicole europee a prezzi che sfidano qualsiasi concorrenza. La Francia in particolare, mediante premi e sovvenzioni di ogni genere concessi all’esportazione, cerca di impedire ad eventuali concorrenti (soprattutto gli Stati Uniti) di mettere piede sul mercato maghrebino, da sempre considerato propria riserva di caccia. La tragica dipendenza alimentare dell’Algeria, oltre che del fallimento della riforma agraria, è anche frutto della pratica del dumping, che finisce per scoraggiare il contadiname algerino con effetti negativi sulla produzione locale.

A trent’anni dalla decolonizzazione, il flusso dei capitali europei verso l’Algeria è ancora costituito essenzialmente di crediti per l’esportazione. Gli apporti finanziari provenienti dai paesi della CEE, siano essi di origine pubblica oppure di mano privata, raramente sono destinati a investimenti diretti o insediamenti produttivi, testimoniando della natura strettamente mercantile degli aiuti. Questa strategia, figlia della tradizione coloniale, che continua a privilegiare solo determinati segmenti di mercato, stride rispetto a quella adottata, ad esempio, dal Giappone nella propria zona di influenza nel Pacifico. Al contrario di Tokio che attua una strategia che mira ad integrare la sua periferia asiatica, l’Europa considera la sua periferia maghrebina alla stregua di un puro e semplice mercato di consumatori, che peraltro tende a marginalizzare mano a mano che avanza la propria integrazione. Per miope egoismo la Comunità Europea non riesce a mantenere nella zona quell’equilibrio che pure potrebbe tornarle politicamente utile. In effetti, in caso di un conflitto di lunga durata nell’area del canale di Suez, il paese maghrebino potrebbe risultare decisivo per la continuità dei rifornimenti degli idrocarburi, anche in considerazione dell’instabilità degli approvvigionamenti del gas russo.

In campo agricolo, la risposta della borghesia algerina alla penuria alimentare non poteva prescindere dalle ineluttabili leggi capitalistiche. Agli inizi degli anni ’80, dopo un decennio di dirigismo, l’FLN incoraggiò le famiglie ad accedere alla proprietà privata, dando avvio alla ristrutturazione delle aziende agricole autogestite. Queste aziende, sorte sulle ricche terre abbandonate dagli europei dopo l’indipendenza, erano state trasformate in "cooperative di mujahidin". All’inizio la gestione era in mano a un Comitato eletto dagli stessi lavoratori, anche se nei fatti era l’Amministrazione a nominarlo in base a criteri puramente politici. La riforma agraria del 1971 cercò di rimediare alla scarsa redditività di queste aziende frantumandole in un gran numero di fattorie, che erano però prive dei mezzi tecnici moderni, e procedendo alla confisca della terra dei non agricoltori o degli "assenteisti". In questo modo, più di un milione di ettari di terre, spesso assai fertili, erano stati distribuiti alle neonate Cooperative agricole di produzione della rivoluzione agraria (CAPRA). Al termine dell’operazione il settore privato si ritrovò amputato di circa 850mila ettari.

Nel sud furono assegnati oltre 40mila ettari di terre vergini, in lotti non superiori a cinque ettari. La terra diventerà piena proprietà degli assegnatari che nei cinque anni successivi potranno vantare una produzione significativa. La ripartizione, attuata dalle autorità locali, favorì naturalmente "gli amici degli amici", essendo i candidati numerosi, e non tutti agricoltori. Parallelamente proseguì la ristrutturazione del settore statale delle Aziende autogestite e delle Cooperative della rivoluzione agraria. Queste ultime saranno a loro volta destinate a scomparire per far posto a nuove aziende autogestite, le cosiddette "aziende agricole socialiste", più numerose e meno estese delle precedenti. L’obiettivo era quello di introdurre un progressivo processo di privatizzazione del settore agricolo attribuendo ai privati un diritto di sfruttamento a lungo termine. Le fattorie di Stato verranno riorganizzate in cooperative private più ridotte oppure cedute direttamente in gestione a privati.

Secondo le autorità responsabili, nel 1985 la superficie agricola utile non superava i 7,5 milioni di ettari, appena il 3% della superficie totale dell’Algeria. Di questi, solo 4,6 milioni erano effettivamente coltivati e non più di 250mila forniti di un sistema di irrigazione. Il 60% delle terre utili, generalmente le meno fertili (le terre migliori erano sotto gestione "socialista"), era lavorato privatamente da circa 700mila contadini. Malgrado il disinteresse del governo e i mezzi rudimentali, le terre private fornivano il 60% dei cereali, della frutta e dei legumi, e il 90% della carne.

Nel fallimento dell’autogestione, aggravato dalla cosiddetta "rivoluzione agraria", c’è tutto il dramma della profezia di Boumédiène, che nel 1972 aveva detto: "O la rivoluzione agraria riuscirà a realizzare la giustizia oppure fallirà e noi avremo come solo sbocco il potere di una borghesia algerina nuova che sarà forse più dura e più vile della borghesia coloniale".

Fino agli anni ’70 la rendita petrolifera dovuta all’alto corso degli idrocarburi aveva nascosto una realtà che alla resa dei conti si sarebbe rivelata ancora più grave del previsto. Quando nel 1986 il mercato petrolifero cambia rotta, l’Algeria sprofonda nella stagnazione economica e in una profonda crisi sociale. La rendita petrolifera che era pari a 12,5 miliardi di dollari (il 95% di tutte le entrate), con la caduta del prezzo del barile da 40 dollari (1979) a 12 dollari (1988), subisce un salasso di ben 5 miliardi di dollari all’anno. Sotto i buoni uffici della finanza mondiale l’Algeria è costretta ad imboccare la politica del "rigore" – naturalmente da attuare sulla pelle delle masse – che passa per la riduzione del pesante debito estero. Grazie alla cura da cavallo, il paese riesce a superare lo shock e riequilibrare la bilancia dei pagamenti passando da un saldo negativo di 800 milioni di dollari (1986) a un saldo positivo di 1,5 miliardi nell’anno successivo. La drastica cura di austerità fu attuata su due piani: da una parte, attraverso la riduzione delle importazioni, soprattutto alimentari, provocando penuria, mercato nero ed esplosione dei prezzi; dall’altra parte, con la riduzione per almeno un quarto delle spese di bilancio. I grandi progetti di investimento – siderurgia, automobili, ecc. – furono congelati, con effetti negativi sulla crescita economica, che dal ritmo del 5% annuo scese al 3%, in controtendenza rispetto all’incremento demografico che invece salì al 3,06 per cento. Non meno evidenti furono gli effetti sulla disoccupazione, che arrivò al 17% della popolazione attiva, e sul deficit pubblico (che in un solo anno passò dal 9,8 al 12,3% del Pil). Vennero così alla luce tutte le carenze del sistema: mancanza di infrastrutture (trasporti e comunicazioni insufficienti, crisi drammatica degli alloggi, inadeguatezza della rete idrica che si traduce nel razionamento dell’acqua nella maggior parte delle città); inesistenza del sistema bancario; burocrazia paralizzante e succhiona; cronica penuria alimentare di carne, di olio, di zucchero, di uova, di semola; diserzione delle campagne; economia sommersa, lavoro clandestino, mercato nero, contrabbando, corruzione, frode fiscale...

A partire dal 1986, sul Maghreb come sul resto del Terzo mondo soffia il vento del "liberismo". Si assiste ad una accelerazione delle riforme economiche sotto l’egida del Fondo Monetario Internazionale pilotato dagli USA – privatizzazione delle imprese pubbliche, liberalizzazione dei prezzi, apertura alla concorrenza internazionale. I briganti capitalisti non hanno più freni "nazionali" al saccheggio delle ricchezze dei piccoli paesi. Il presidente Chadli decide di tentare l’avventura della privatizzazione e del ritorno all’economia di mercato, destabilizzando violentemente l’economia e la società algerina. Le misure liberiste entrarono ufficialmente in vigore nel 1988 con la legge che permetteva alle aziende pubbliche (le vecchie società statalizzate) di costituire società a capitale misto (joints-ventures) con partner stranieri.
 
 

2. Ottobre 1988: la ribellione delle masse

Dopo decenni di dominio incontrastato, il regime del partito unico sostenuto dai militari viene delegittimato dai moti sociali dell’ottobre 1988.

Come la stampa più accorta fece subito notare, lo scoppio della protesta era del tutto prevedibile, perché negli ultimi due anni, dopo la caduta del corso del petrolio e la svalutazione competitiva del dollaro, forti tensioni sociali avevano attraversato il paese. A causa del crollo del prezzo del petrolio l’Algeria aveva dimezzato la sua rendita da esportazione, mentre l’indice di crescita del Pil era passato da un positivo 5,2% a un modesto 1%, finendo addirittura sotto la linea dello zero negli anni successivi al 1985. Anche il debito estero dai 15 miliardi di dollari del 1985 passò a 25 miliardi alla fine del decennio (la sola quota per il servizio del debito assorbiva il 70% dell’export). Ad altre latitudini, gli Stati petrolio-dipendenti – Nigeria, Messico, Venezuela, Indonesia – che erano nelle stesse condizioni dell’Algeria avevano conosciuto violenti sommovimenti sociali. Anche nel Maghreb, nel corso degli anni ’80, la miseria, la disoccupazione e il generale deterioramento delle condizioni di vita avevano provocato forti tensioni sociali puntualmente sfociate in moti e rivolte – 1980: moti in Cabilia; 1981: rivolta della fame in Marocco; 1982: moti a Orano; 1984: sollevazioni per la fame in Tunisia; aprile 1985: manifestazioni giovanili nella casbah di Algeri a causa delle insalubri condizioni di vita e alla mancanza d’acqua; novembre 1986: rivolta degli studenti e dei liceali a Costantina, duramente repressa; 1987: grande sciopero universitario degli studenti organizzati in Coordinamento autonomo della gioventù algerina (UNJA).

Già nel corso dell’estate del fatidico 1988 in tutta l’Algeria erano scoppiati parecchi incidenti a causa della mancanza d’acqua. Una debole pluviometria coniugata a una rete di distribuzione ancora insufficiente nonostante i grandi lavori degli ultimi anni, imponeva continui razionamenti che erano sempre più difficilmente accettati dalla popolazione. Inoltre, il risentimento degli algerini era esacerbato dalla penuria cronica dei generi di prima necessità (semola, burro, olio, tè, zucchero, lampadine elettriche, detergenti, ecc.) e dagli aumenti esorbitanti dei prezzi della frutta, dei legumi e della carne. In un paese dove il salario medio non superava i 1200 dinari al mese, la carne arriva a costare fino a 200 dinari al chilo, fuori dalla portata della maggior parte della popolazione. Le masse vivono la situazione come un’eterna ingiustizia, anche perché si allarga sempre di più il fossato che separa i diseredati dagli affaristi legati alla nomenklatura. I primi assalti ai depositi e ai camion che trasportano la semola avvengono nell’est del paese, mentre in Cabilia, vengono intercettate e distrutte diverse partite di frigoriferi destinati all’esportazione verso la Libia, a fronte di una domanda interna insoddisfatta. La situazione si aggraverà all’apertura delle scuole quando i già magri bilanci delle famiglie furono messi a dura prova dalla sfacciata speculazione che non risparmiava neppure gli articoli scolastici.

L’islamismo – introdotto per volontà dell’FLN nelle scuole e nelle università – grazie alla rete capillare delle moschee drena una parte consistente del malcontento delle masse in nome di un Islam purificatore. In vista del Congresso che doveva tenersi in dicembre, le diverse correnti del partito unico entrarono in fibrillazione, perché c’era in ballo la designazione del Segretario generale (che nel gennaio successivo sarebbe stato il candidato unico alla presidenza della Repubblica): di fatto erano in gioco gli orientamenti economici del paese. All’interno del Fronte vengono alla luce le divergenze fra i sostenitori delle conquiste della "rivoluzione" socialista, che controllavano le organizzazioni proletarie attraverso il sindacato unico (UGTA) e appartenevano a quella parte dell’esercito ancora fedele al bumedienismo, e i partigiani di una politica apertamente capitalista, e quindi apertamente antiproletaria, che era poi la politica portata avanti da Chadli. Il 20 settembre il presidente passa all’attacco ricordando alla nazione che "il nostro obbiettivo è il rimborso dei debiti contratti negli ultimi anni" – la miseria di 20,7 miliardi di dollari. Nell’imporre al paese le misure richieste dal Fondo Monetario le autorità algerine sono più realiste del re: bloccano i salari e le sovvenzioni ai prodotti di prima necessità e introducono una prudente politica di riforme che, nei loro intenti, dovrebbero magicamente incoraggiare l’iniziativa privata, contribuire a liquidare le grandi società nazionali, scalzare la burocrazia e restituire la terra ai coltivatori.

Sostenuto dallo zoccolo duro dei riformisti – il generale Lardi Belkheir, il ministro dell’Interno El Hadi Khediri e il ministro dell’Informazione Bachir Rouis – Chadli non risparmia critiche allo statalismo, alla pianificazione burocratica, all’incompetenza. Denuncia demagogicamente gli speculatori, i nuovi ricchi, gli incompetenti, e attacca quel settore dell’apparato statale incapace di adattarsi alla nuova situazione: "Quanti non riescono a cambiare devono capire che o si dimettono o verranno comunque tolti di mezzo".

L’ala sinistra dell’FLN cui la minaccia è chiaramente rivolta, contrattacca attraverso il sindacato ufficiale del regime: "I lavoratori algerini non accetteranno mai un qualsivoglia attentato alle conquiste della nostra rivoluzione socialista, né all’indipendenza economica del paese", e già alla fine di settembre proclama un primo sciopero in grande stile nella zona industriale tra Rouiba e Reghaia, a trenta chilometri da Algeri. Gli 8.000 operai della Società nazionale dei veicoli industriali, prendendo a pretesto la mancata concessione di un premio "giocattoli" di 100 dinari per ogni figlio, rivendicano la fine del blocco dei salari. La parola d’ordine verrà subito ripresa da altre fabbriche in varie località: Arzew, Annaba, El Hadjar.

La risposta del governo alla discesa in campo degli operai non si fa attendere: un imponente dispositivo anti-sommossa forte di centinaia di uomini della Sicurezza nazionale sbarra l’accesso al centro della città di Rouiba, e contemporaneamente blocca la strada per la capitale, dove gli scioperanti volevano recarsi per far sentire le loro ragioni. I violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, che disponevano anche di cannoni ad acqua e cani-poliziotto, fanno diversi feriti.

Nella mattinata di domenica 2 ottobre, nel centro di smistamento postale della stazione di Algeri scoppia uno sciopero che nel corso della giornata si estenderà a tutto il comparto delle Poste. I funzionari postali reclamano l’applicazione delle norme speciali previste dallo statuto generale dei lavoratori, una sorta di griglia dei salari estesa su scala nazionale. Ma non sono soltanto Algeri e la sua periferia a manifestare la tensione sociale, scoppi di protesta sono segnalati in molte altre località, espressione di un malcontento sempre più generalizzato e diffuso. Si uniscono al movimento anche i ferrovieri, mentre il paese si prepara a vivere il primo sciopero generale dai tempi dell’indipendenza. Le dimostrazioni furono spontanee e non coordinate da nessuna forza politica, ma ci fu chi sospettò che dietro la sollevazione vi fossero elementi dell’FLN o del sindacato interessati ad indebolire il capo dello Stato e bloccare l’esperienza riformista. Da tutto il paese continuano a giungere nella capitale voci insistenti di uno sciopero generale per il mercoledì successivo e circolano persino volantini che invitano a sospendere il lavoro. Ma fino al martedì sera non c’è alcuna conferma ufficiale dello sciopero mentre la stampa, controllata dal potere o dal partito, rimane sul vago. Per capire che l’ordine nazionale è ormai perturbato, bisogna leggere tra le righe dell’appello dell’UGTA diffuso dall’agenzia ufficiale Algerie Press Service e subito ripreso dai quotidiani nazionali. Il sindacato diretto da Tayeb Belakhdar nel suo comunicato "riafferma la fondatezza delle legittime aspirazioni dei lavoratori in materia di potere d’acquisto e di condizioni di vita, mettendo però in guardia contro i salti in avanti che nuocciono, in ultima analisi, agli stessi lavoratori, all’economia nazionale e alla nostra rivoluzione socialista". Si tratta della tipica manovra dei bonzi di tutti i climi: da una parte si strombazza l’appoggio ai lavoratori, dall’altra si sabota la lotta ponendo l’accento sugli aspetti nefasti che potrebbe comportare un movimento sociale più ampio.

Ma la situazione è ormai in moto: il martedì sera 4 ottobre la "gioventù" di Algeri anticipa i lavoratori occupando il quartiere popolare di Bab-el Oued, saccheggiando i magazzini e dando alle fiamme decine di veicoli nelle vicinanze della sede centrale della polizia, quasi a voler lanciare la sfida al potere. Le forze dell’ordine intervengono con violente cariche a disperdere i dimostranti. Il mattino dopo centinaia di giovani dilagano a ondate attraverso le grandi arterie della capitale verso il centro di Algeri, devastando tutto al loro passaggio e lanciando pietre contro la sede dell’FLN, protetta dalla polizia e dai blindati dell’esercito. Per la maggior parte si tratta di studenti medi e di liceali, ma anche di sfaccendati esclusi dal sistema educativo e di "apprendisti-disoccupati", che si abbattono sulla città come uno sciame di cavallette. Scelgono come obbiettivi da colpire i simboli dello Stato, del partito o della ricchezza: spaccano i vetri delle finestre del ministero del Commercio; invadono il ministero della Gioventù e dello Sport; bruciano la poltrona del primo ministro sulla pubblica piazza; mettono a sacco, prima di incendiarlo, il ministero dell’Educazione e della Formazione situato a Kouba, nell’immediata periferia. La stessa sorte tocca al municipio di El-Biar, un quartiere residenziale sulle colline di Algeri. La determinazione che manifesta questa gioventù in ebollizione è accanita. Le autorità scelgono di trattenere le forze dell’ordine, che si fanno vedere solo in alcuni punti strategici e se la prendono soprattutto con le rappresentanze del partito. Per tutta la giornata di mercoledì, le parole d’ordine che rivendicano il mantenimento del potere d’acquisto prevarranno quasi ovunque sugli slogan politici.

Chadli non si fa scrupolo di fare appello all’esercito per risolvere la situazione. All’alba del 6 ottobre la risposta dello Stato non è civile bensì militare: per la prima volta dal 1962 viene decretato lo stato d’assedio e tutte le amministrazioni civili, amministrative e di sicurezza vengono messe sotto controllo militare. Il giorno successivo i comandi militari decidono la chiusura delle scuole fino a nuovo ordine, mentre in alcuni distretti industriali, come a Sidi-Bel-Abbes, compaiono i blindati e le armi pesanti dei militari di leva. Già dal pomeriggio di venerdì 7 vengono segnalati scontri a Orano, Mostaganem, Annaba, Tiaret, Blida e nella Cabilia, che è da sempre un focolaio di contestazione.

Il movimento islamico cerca di salire sul treno in corsa. Gli integralisti, apparentemente esclusi dalle manifestazioni operaie della zona industriale di Rouiba-Reghaia, approfittano dell’occasione fornita dalla preghiera del venerdì per uscire allo scoperto. Dopo la preghiera, un corteo di migliaia di persone parte da Belcourt, un quartiere popolare ad est della capitale, ma nonostante il suo carattere pacifico viene mitragliato dalle forze armate. L’imam Ali Belhadj (futuro dirigente del FIS), un oratore molto ascoltato della moschea di Sunna sulle alture di Bab-el-Oued, tenta inutilmente di far rientrare la gioventù di Belcourt nel suo quartiere. Il bilancio degli scontri è pesante: decine di morti, fra cui anche bambini, e centinaia di arrestati. Stessa situazione a Orano, a 400 chilometri da Algeri, dove i manifestanti, partiti dalle moschee dopo la preghiera del venerdì, saccheggiano le sedi del partito, gli hotel di lusso, i locali dell’Air France e Air Algérie, e si scontrano violentemente con l’esercito che apre il fuoco sui dimostranti. È la prima volta che gli integralisti islamici occupano apertamente la scena politica con le loro rivendicazioni. Precedentemente, solo una volta, nel 1982, era stata organizzata una manifestazione islamica nell’università di Algeri in seguito all’assassinio di uno studente. Alcuni imam, fra cui Belhadj, avanzano la proposta di negoziare con le autorità algerine la sostituzione dello stato di assedio con la legge islamica!

Ma la borghesia algerina ha già scelto il tipo di bastone da utilizzare contro il proletariato. L’ordine viene brutalmente ristabilito non dalla polizia o dalle forze anti-sommossa, bensì dall’esercito, che si assume in prima persona il compito del lavoro sporco sparando sui dimostranti, imprigionando, torturando... Dopo sei giorni di incidenti in tutte le grandi città algerine e una repressione spietata affidata alle armi automatiche, il 10 ottobre Chadli, presidente della Repubblica e capo dell’FLN, formula una prima risposta politica del regime rivolgendo al paese un discorso in cui annuncia una semi-apertura sotto la veste di una riforma costituzionale destinata a rendere il governo responsabile di fronte al parlamento. Soltanto poche ore prima a Bab-el-Oued trenta persone erano rimaste uccise durante una manifestazione organizzata dagli integralisti (uno degli organizzatori era ancora Ali Belhadj) in memoria dei morti ammazzati durante gli scontri dei giorni precedenti. In questa occasione, i manifestanti si erano scontrati con la polizia e con un commando di paracadutisti armati di fucili kalasnikov. Il particolare che il primo colpo sarebbe partito dai dimostranti (come riportato dal giornale Le Monde del 15 ottobre) lascia sospettare una provocazione del regime.

Come sempre il bilancio dei caduti diverge a seconda delle fonti, ma i morti nella capitale e in tutto il paese forse superarono i mille (fonti ospedaliere parlarono di 600 morti), e migliaia furono gli arrestati e i feriti, la maggior parte dei quali non si fecero curare negli ospedali per non essere schedati o arrestati. Il tributo più pesante lo versò Algeri con oltre 250 morti (di cui un centinaio nella sola giornata di sabato 8 ottobre).

A partire dal 10 ottobre i prodotti di consumo corrente, spariti da settimane, misteriosamente ricompaiono. I fornai ricevettero la farina già domenica 9. Il 12 venne tolto lo stato d’assedio e i blindati si ritirarono da Algeri. Il 13 oltre un migliaio di arrestati furono rilasciati: si trattava per lo più di intellettuali, di islamici, di sindacalisti, di ex-membri del Partito Comunista fuorilegge, ora Partito dell’Avanguardia Socialista (PAGS), che continuava a mantenere una certa influenza in ambito operaio. Il 17 il governo lanciò un programma di importazioni, in parte finanziato da una linea di credito saudita. L’esercito viene additato come il principale responsabile dei massacri. Il giornale del regime El Moudjahid nell’edizione del 22 ottobre informa della costituzione di una commissione d’inchiesta sulle violazioni dei diritti dell’uomo e della difesa commesse durante gli avvenimenti appena trascorsi. Cosa assolutamente impensabile solo tre settimane prima, il giornale si spinge fino a denunciare l’uso della tortura, con schiamazzo di intellettuali algerini e dei giornali. Il 25 ottobre un comunicato della presidenza della Repubblica riduce i poteri del partito unico sulle organizzazioni sociali e professionali. Il 29 vengono silurati il numero due dell’FLN e il capo della Sicurezza militare. Uno strano "vento di libertà" sembra soffiare sull’Algeria! Al VI Congresso dell’FLN di dicembre, con gli avversari ormai ridotti al lumicino, Chadli e la sua cricca potranno presentarsi come i salvatori della nazione... dei benestanti. Nell’occasione Chadli ottiene una facile rielezione a presidente della Repubblica. Le misure di "democratizzazione" della vita politica da lui promesse portano, nel febbraio 1989, all’approvazione tramite referendum di una nuova Costituzione che sconvolge il sistema da cima a fondo. Del duplice riferimento al socialismo e al ruolo egemone dell’FLN semplicemente non si fa parola; sono riconosciuti il diritto di sciopero e la libertà sindacale e, last but not least, l’autorizzazione a creare associazioni a carattere politico, aprendo la strada al multipartitismo.

Quale il giudizio sugli avvenimenti dell’ottobre ’88 e sullo scisma politico e sociale che ne seguì? Si trattò di uno spontaneo movimento insurrezionale delle masse o piuttosto di una riuscita manovra delle classi dominanti che, anticipando il movimento, lo favorirono, con la complicità dell’UGTA, per giustificare una repressione assolutamente sproporzionata rispetto alla reale ampiezza della protesta? Le feroci misure economiche che il potere era costretto ad introdurre a rischio della sua stessa sopravvivenza, di fatto non potevano essere realizzate senza l’utilizzo del terrore di classe. In questo contesto l’islamismo, che il potere ha coccolato fin dal 1962, incasserà l’appoggio delle classi medie, schiacciate tra l’estremismo religioso e la rivolta delle masse povere.

Le Monde Diplomatique (gennaio 1989) ha calcolato che il 5 ottobre i rivoltosi di Algeri non superavano le duemila unità, e che solo le due manifestazioni pacifiche organizzate dalle moschee riuscirono a radunare tra le 20 e le 30 mila persone. Anche se estesi a una dozzina di città, i moti non avevano pressochè interessato né le regioni dell’Est (con l’eccezione di Annaba e di Skidda) nè la Cabilia, ossia le regioni più popolose. Il giornale citato escludeva quindi che si fosse trattato di una sollevazione popolare e tantomeno di una insurrezione, mentre era stata flagrante la sproporzione tra la violenza della repressione e il carattere limitato del movimento. L’articolo terminava con una previsione che gli avvenimenti ulteriori avrebbero confermato e che rappresenta la strategia classica della borghesia: «In definitiva, il potere potrebbe optare ad un tempo per la dittatura sulle classi pericolose [evidentemente il proletariato] e per una relativa tolleranza verso le classi medie».

Mentre la borghesia esce vittoriosa su tutti i fronti, sindacati traditori e partito unico escono a pezzi da questa perestroika all’algerina che assume sempre più le dimensioni di un crollo vista la rapidità con la quale vengono marginalizzati. Da parte loro le masse algerine, pur battendosi coraggiosamente per la sopravvivenza, disgraziatamente non sono riuscite a svincolarsi dall’influenza dei vecchi capi corrotti e dalla demagogia degli imam. Spaventata da un potenziale movimento insurrezionale proletario, la classe dominante algerina si è servita dell’esercito per attuare il suo terrorismo di classe, passando quindi a viso scoperto a uno sfruttamento ancora più spietato delle masse sotto la bandiera del liberalismo economico e della lesa democrazia. Il tutto con il concorso diretto e indiretto del Fondo Monetario Internazionale, delle borghesie europee e di quella americana, sempre avide di salvaguardare i propri interessi economici e geopolitici nella regione, spesso in reciproco antagonismo, ma sempre solidali quando si tratta di mantenere le masse sotto il tallone di classe.
 
 

3. "Liberalizzazione" politica ed economica

Nel settembre 1989 viene nominato primo ministro Mouloud Hamrouche, esponente della corrente riformatrice dell’FLN. Nell’aprile successivo entrerà in vigore la legge sulla moneta e sul credito, integrata di un codice di disciplina degli investimenti, che perfeziona il dispositivo di totale apertura ai capitali stranieri, concedendo ai non residenti la facoltà di importare capitali sia per investimenti diretti sia di portafoglio. La legge sopprime l’obbligo della partecipazione maggioritaria del settore pubblico nelle imprese e introduce la concorrenza nel settore bancario consentendo alle banche straniere di aprire proprie filiali nel paese, mentre la Banca d’Algeria diviene indipendente dal Tesoro. Un’ulteriore legge autorizzerà grossisti e concessionari a creare agenzie in territorio algerino per la vendita diretta dei prodotti importati, spalancando così ai capitali stranieri le porte delle attività commerciali e mettendo di fatto in discussione il monopolio statale sul commercio estero. Contemporaneamente, allo scopo di incoraggiare gli investimenti, vengono introdotte misure di svalutazione che, modificando la parità del dinaro, ne preparano a breve la convertibilità. La legge del 30 novembre 1991 concede infine alle società straniere la partecipazione nella percentuale massima del 49% allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e di gas naturale già attivi e non più ai soli nuovi giacimenti, in cambio del pagamento di un "ticket d’entrata" da cui Algeri si attende un introito di alcuni miliardi di dollari (la francese Total, insieme a due altre compagnie giapponesi, si dichiara subito disposta ad anticipare 600 milioni di dollari).

Questa politica di riforme portata avanti prima da Hamrouche e poi dal suo successore Ahmed Ghozali (eletto primo ministro nel luglio 1991, nel corso di una congiuntura economica abbastanza fosca caratterizzata da inflazione galoppante, diminuzione dei consumi e abbassamento generale del livello di vita) si merita l’apprezzamento del Fondo Monetario Internazionale, da cui il governo algerino aspetta 400 milioni di dollari di nuovi crediti. A partire dal 1990, per diminuire l’indebitamento del paese e tenere sotto controllo la situazione debitoria senza dover chiedere un nuovo riscaglionamento del debito, il governo algerino aveva avviato negoziati con i principali partner commerciali e finanziari. Ma le banche, soprattutto quelle francesi, sono restie a concedere ulteriori prestiti (basti pensare che la sola Francia negli ultimi anni aveva concesso all’Algeria prestiti per un totale di 50 miliardi di franchi). Ad Hamrouche non resta che appellarsi al Fondo Monetario. Il 27 aprile 1991 viene siglato un accordo che prevede la concessione di due prestiti di 210 e 300 milioni di Diritti Speciali di Prelievo (una divisa nominale dell’FMI equivalente a 1,35 dollari). Dietro la firma c’è evidentemente il gradimento USA al piano algerino di riforme, che può portare a breve alla riapertura del mercato dei capitali. La contropartita, di natura più politica che economica, consiste in un programma di aggiustamento in tre punti: 1) risanamento delle imprese pubbliche; 2) liberalizzazione dei prezzi e soppressione del tasso compensativo del 20% sul commercio; 3) riaggiustamento della parità monetaria. Di fatto – e questo vale per tutti i paesi indebitati – i meccanismi di aggiustamento strutturale obbediscono a una sola logica: consentire ai paesi debitori di poter pagare, costi quel che costi, i servizi del debito. Le misure imposte all’Algeria finiranno per rafforzare la specializzazione asimmetrica (esportazione di petrolio e di gas contro importazione di prodotti meccanici, chimici, agro-alimentari, elettricità), ancorando sempre di più il paese alla mono-esportazione.

Contemporaneamente all’introduzione da parte del governo algerino di misure finalizzate a favorire la libertà di circolazione dei capitali e la privatizzazione dell’economia, il Fondo monetario sblocca l’ultima tranche di credito. È questo un periodo di sfrenata speculazione, specie sul mercato immobiliare: il basso livello dei prezzi di cessione del patrimonio pubblico (l’operazione era già cominciata negli anni ’80 con la vendita del parco immobiliare statale agli inquilini) consente la formazione di grosse rendite speculative all’atto della rivendita degli immobili sul mercato libero. Per quanto concerne la privatizzazione delle terre agricole, una legge del 1987 aveva concesso ai coltivatori il diritto di godimento perpetuo sui fondi in dotazione e il diritto di proprietà sui beni ricavati, che diventavano quindi trasmissibili, cedibili e immediatamente fruibili. Era prevista la soppressione delle aziende di Stato e delle cooperative amministrate, e quindi la ridistribuzione delle terre così riunificate e bonificate a collettivi di contadini volontariamente costituitisi. Al fine di evitare la ricostituzione dei vecchi sistemi produttivi la legge stabiliva che i collettivi non potevano superare i sette componenti. In base a una circolare governativa, gli stessi lavoratori agricoli erano mobilitati per i lavori di delimitazione delle particelle che sarebbero state loro attribuite. A una seconda fase era rimandata l’eliminazione, dopo appositi controlli, delle assegnazioni illegali di terre effettuate nel biennio 1987-89 a beneficio di funzionari, professionisti, commercianti e uomini politici che, a parte la rendita, non avevano alcun legame con l’agricoltura. In effetti, tra il 1990 e il 1991 furono annullate circa 13.000 assegnazioni illegali e la terra venne restituita agli antichi proprietari. La legge prevedeva inoltre la competenza della giustizia ordinaria e non di quella amministrativa sui contenziosi sorti dopo le nazionalizzazioni del 1964 e dopo la rivoluzione agraria degli anni ’70.

Ma nonostante le riforme la situazione sociale non migliorò. Secondo l’UGTA, che continuava a mantenere il monopolio dell’attività sindacale, nel solo biennio 1988-89 persero il lavoro più di150mila operai. Inoltre, in meno di vent’anni i prezzi erano pressoché raddoppiati – per molti generi di prima necessità erano addirittura quadruplicati. A parziale recupero del potere d’acquisto, il sindacato, attraverso mobilitazioni e scioperi, riuscì a strappare forti aumenti salariali, fino a raddoppiare il salario minimo (da 1.000 a 2.000-2.500 dinari al mese). All’inizio degli anni ’90 c’erano in Algeria ufficialmente un milione e duecentomila disoccupati – il 25% della popolazione attiva – e un milione e mezzo di adolescenti sfaccendati e non scolarizzati dediti a piccoli traffici e pronti ad arruolarsi nelle file delle organizzazioni islamiche.
 
 

4. Le vittorie elettorali del FIS

La "democratizzazione" seguita agli avvenimenti del 1988 fu il regalo avvelenato della borghesia algerina. Il 23 febbraio 1989 mediante un referendum popolare il paese si dotò di una nuova Costituzione democratica che concesse la libertà di stampa e autorizzò la creazione di associazioni a carattere politico. Il settore della Polizia militare diretto dai civili venne ufficialmente smantellato. Nacquero decine di nuovi partiti e rispuntarono quelli che erano stati messi fuorilegge. In settembre il Fronte Islamico della Salvezza (FIS) ottenne la legalizzazione. In dicembre, dopo 24 anni di esilio, rientrò in Algeria Hocine Hait Ahmed, uno dei capi storici della rivoluzione, dal 1963 capo del Fronte delle Forze Socialiste (FFS). Nel giro di pochi mesi spunteranno in Algeria almeno venti nuove formazioni politiche, oltre alle due che ancora aspettavano il riconoscimento ufficiale: – il Movimento per la Democrazia in Algeria (MDA) di Ben Bella, che nell’ottobre 1990 rientrerà in Algeria accompagnato da un ben orchestrato battage pubblicitario per il sostegno da lui offerto a Khomeini e a Gheddafi; – l’Organizzazione Socialista dei Lavoratori (OST), di tendenza trotzkista. Un solo partito si vedrà rifiutare il riconoscimento, il Partito del Popolo Algerino, erede del vecchio MNA di Messali Hadj, a cui il potere continuava a giurare odio eterno.

Secondo Le Monde Diplomatique (marzo 1990), tra i numerosi partiti che, autorizzati dalla legge, potevano partecipare di diritto alla vita politica algerina, soltanto cinque formazioni contavano veramente: 1) l’FFS di Hait Ahmed, che aspirava ad allargare la propria influenza al di fuori delle popolazioni berbere tra le quali era essenzialmente radicato; 2) il PAGS, il Partito dell’Avanguardia Socialista (l’ex-Partito Comunista), che disponeva di una rete di collegamenti all’interno dell’UGTA e delle organizzazioni di massa dell’FLN; 3) il Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia (RCD) di Said Saadi, il primo partito ad aver ottenuto il riconoscimento legale, a carattere laico, in concorrenza con l’FFS perché anch’esso radicato negli ambienti berberi; 4) il FIS; 5) l’FLN di Chadli Bendjedid, presidente della Repubblica.

La dura repressione dell’ottobre 1988 non aveva posto fine ai conflitti sociali e agli scioperi, che anzi nei mesi successivi si moltiplicarono interessando non solo le imprese industriali del settore pubblico, ma anche l’amministrazione statale (Poste, Scuola, Sanità). All’inizio degli anni ’90, oltre ai lavoratori, scesero in campo anche i padroni: ad Algeri abbassarono le saracinesche i panettieri, mentre persino i gioiellieri protestavano contro le nuove tasse; ad Orano, gli industriali del tessile denunciarono le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime e dei prodotti semilavorati da parte degli organismi pubblici.

Nelle elezioni amministrative del giugno 1990, le prime elezioni formalmente "libere" dopo l’indipendenza, il FIS ottenne il 54,2% dei voti, conquistando la metà dei Comuni (853 su 1541) e 32 wilaya su 48, mentre l’FLN si fermò al 28,1% dei consensi. L’astensionismo fu elevato (circa il 35%), anche per la scelta del boicottaggio attuato dal Fronte delle Forze Socialiste e dal partito di Ben Bella per protesta contro il governo, che non aveva concesso loro il tempo necessario per organizzarsi. Con i risultati ottenuti il FIS, che poteva contare su una salda base sociale, aveva il controllo non solo dei grandi centri urbanizzati del Nord (ad Algeri, Orano e Costantina raggiunse rispettivamente il 65, 71 e 72% dei consensi, soprattutto nei quartieri popolari) ma era riuscito a penetrare un po’ ovunque nelle città di provincia e nelle campagne, con la sola eccezione delle comunità a predominanza berbera. L’FLN perse invece tutti i suoi feudi, conservando soltanto 14 wilaya, concentrate soprattutto nel Sud sahariano, nel triangolo Batna-Tebessa-Souk Ahrras, che era la culla di una larga componente delle élites al potere. Si trattò manifestamente di un voto di protesta contro l’FLN, che gli islamici riuscirono ad intercettare.

La forza politica del movimento islamico militante non si spiega soltanto con la miseria delle masse, anche se essa ne costituisce la premessa indispensabile. La borghesia algerina, "laica" e no, aveva molto presto incanalato le rivendicazioni delle masse verso l’arabizzazione e la religione, non quali mezzi di emancipazione dal diavolo colonialista occidentale – come voleva far credere – ma piuttosto quali strumenti di oppressione e di deviazione della lotta di classe in tutte le sue forme. Subito dopo l’indipendenza l’islamismo fu utilizzato dalle élites per contrastare ogni processo di democratizzazione. L’FLN è sempre stato un coacervo di componenti assai diverse, che andavano dall’integralismo islamico fino alle correnti laiche occidentalizzate. Le basi della restaurazione culturale furono gettate subito all’indomani dell’indipendenza con l’approvazione di un Codice della Nazionalità. La legge attuò la distinzione fra la nazionalità di origine (definita dall’appartenenza musulmana) e la nazionalità acquisita; introdusse l’insegnamento religioso nella scuola; fece dell’arabizzazione uno strumento demagogico di controllo sociale; perpetuò l’esclusione delle donne dalla vita sociale, che avrà il suo coronamento nel Codice di Famiglia del 1984; estese la rete delle moschee; represse le organizzazioni a vocazione democratica. Di fatto, l’élite francofona, controllando l’esercito e l’economia, deteneva il potere, mentre l’élite arabofona, attraverso la cultura, l’insegnamento e la giustizia controllava le masse. L’espansione del movimento islamico si può far risalire alla fine degli anni ’70: in pochi anni esso riuscirà a costruirsi uno zoccolo duro di consenso sociale non solo tra le classi medie escluse dal banchetto del potere, ma anche tra i giovani e i diseredati, utilizzando la fitta ragnatela delle moschee e dei centri di assistenza e di solidarietà sociale (sussidi alimentari, scolastici, ecc.), che ben presto diverranno i luoghi di irradiamento della contestazione al sistema politico.

Nel contesto del nazionalismo panarabo innescato dalla Seconda Guerra mondiale e dal movimento planetario di decolonizzazione (la conferenza di Bandung è del 1955), i principali dirigenti della regione (Hassan II in Marocco, Bourghiba in Tunisia e Boumédiène in Algeria) avevano nazionalizzato i grandi settori industriali e avviato tentativi di riforma agraria, senza tuttavia riuscire a risolvere il problema alimentare delle popolazioni. Rivolte della fame erano scoppiate un po’ ovunque in tutto il Maghreb. Per contrastare la contestazione "marxista" l’Algeria imboccò la strada dell’arabizzazione a tappe forzate, importando massicciamente da tutto il Medio Oriente, ma specialmente dall’Egitto, insegnanti legati ad organizzazioni islamiche come i Fratelli Musulmani. Negli anni ’80 sarà proprio a partire dalle scuole e dalle moschee che il discorso islamista si diffonderà in tutta la società parallelamente all’acuirsi della crisi economica e all’estendersi della corruzione politica. Così l’Islamismo, pur essendo in ultima analisi un portato esterno alla tradizione dell’islam popolare locale, riuscirà a sedurre le masse grazie all’integrità morale di cui viene accreditato. Le masse saranno incoraggiate a gettarsi nelle braccia degli islamici da alcuni avvenimenti emblematici che possono essere individuati: – nella disfatta araba del ’67 contro Israele, che non solo rappresentò la disfatta del nazionalismo arabo incarnato dal nasserismo, ma mise in luce l’ostilità delle potenze occidentali nei confronti delle rivendicazioni arabe; – nella "rivoluzione" islamica iraniana del 1979, che favorì la radicalizzazione di alcune correnti dell’islamismo; – nella guerra in Afghanistan, dove accorreranno molti algerini (essi prenderanno perciò l’appellativo "afghani"); – nella violenta repressione dei moti popolari dell’ottobre 1988 in Algeria e del 1990 a Fes in Marocco; – infine nella crisi del Golfo e nel susseguente conflitto imperialista in Iraq all’inizio degli anni ’90.

I primi nuclei islamici di protesta entrano in scena a partire dal 1978, anche se in molti centri urbani già in precedenza si riunivano come circoli di riflessione nelle moschee cosiddette "libere", ossia non soggette al controllo diretto del ministero per gli Affari religiosi. All’inizio degli anni ’80, al soffio del vento iraniano, la mobilitazione si estende e ci scappano le prime scaramucce violente: nel marzo 1981 viene distrutto un deposito di alcolici a El-Oued; poche mesi dopo, il 28 settembre, un poliziotto rimane ucciso durante l’assalto alla moschea di Laghouat in cui si erano trincerati alcuni partigiani della "guerra santa" contro il regime.

Nelle università l’arabizzazione aveva investito soprattutto le facoltà di diritto, di letteratura e di scienze umane, dove i corsi si tenevano in arabo, mentre nelle altre facoltà, a causa della penuria di professori di lingua araba, i corsi erano tenuti in francese o in inglese. Nel novembre 1982, nel corso del secondo grande sciopero degli studenti arabofoni, scoppiarono all’interno dell’università di Algeri violenti scontri che si conclusero con 28 arresti. Alla preghiera di protesta contro la repressione organizzata dagli islamici nella facoltà centrale dell’università parteciparono cinquemila persone. Due anni dopo saranno in ventimila a sfidare il regime in occasione dei funerali dello sceicco Abdellatif Soltani.

L’arabizzazione dell’insegnamento rivendicata dagli studenti islamici interesserà quasi esclusivamente le scuole superiori di lingua francese. Infatti, la lotta per l’arabizzazione, che fin dagli anni ’70 la burocrazia dell’FLN aveva propugnato in opposizione alla sinistra universitaria francofona, fu soprattutto una lotta contro il modello culturale francese. Nel 1988 il governo interdirà ai cittadini algerini l’iscrizione presso i licei francesi, contribuendo così all’introduzione di una sorta di insegnamento ibrido che formerà una generazione di "analfabeti bilingui", persone incapaci di padroneggiare tanto l’arabo quanto il francese. Le più danneggiate da questo processo saranno le popolazioni berbere della Cabilia (Algeri è una città a maggioranza cabila) e in generale la popolazione araba che parla solo il dialetto. I cabili, francofoni, comunicano fra loro in tamazigh, non parlano l’arabo letterario e si esprimono male anche nell’arabo dialettale. Il processo di arabizzazione culminerà nella "stupida" legge del dicembre ’96 – lo stesso Zéroual si esprime con difficoltà in arabo letterario – che impone l’uso generalizzato dell’arabo del Corano e dell’islamismo egiziano. Tutto questo non farà che alimentare l’irredentismo cabilo e i contrasti fra la popolazione di origine araba e quella berbera. Sarà proprio la concorrenza, cinicamente alimentata dalla borghesia, fra i proletari arabi (storicamente a maggioranza berbera, islamizzati all’epoca della conquista araba) e i proletari berberi a costituire un freno potente alla risposta di classe.

Una opposizione islamica armata, contraria ad ogni ricerca di compromesso con l’FLN e pronta ad imporre con la forza lo Stato islamico, aveva cominciato a delinearsi già nel corso degli anni ’80. Lo Stato cercò di confinare l’influenza dell’islamismo all’interno delle università e non esitò a combattere i primi nuclei armati, che facevano capo a Mustapha Bouyali, a Mansouri Meliani (che verrà giustiziato nel ’94) e ad Abdelkader Chebouti. Il gruppo di Chebouti, sull’esempio del vecchio PPA del 1947, aveva messo in piedi una organizzazione paramilitare che si autofinanziava con le rapine e conduceva azioni armate contro le forze dell’ordine e contro i cittadini "empi". Fra i maggiori esponenti dell’islamismo della prima ora si era distinto Mustapha Bouyali, ex-militante del Fronte di Liberazione che, deluso della carriera di deputato, era passato alla clandestinità e, dopo l’assassinio di un suo fratello da parte della polizia nell’aprile 1982, aveva iniziato una guerra di logoramento contro il regime. Bouyali organizzò i vari gruppi, diffusi e polverizzati, nel Movimento Algerino Islamico Armato (MAIA), progenitore ideale di tutti i successivi partiti islamici fino ai GIA. Con l’appoggio della popolazione delle regioni montagnose dell’Atlante, Bouyali terrà testa alle forze di sicurezza fino al febbraio 1987, quando una pallottola metterà fine alla sua epopea. Il processo intentato a oltre 200 dei suoi seguaci si concluderà con sette condanne a morte. A parte il gruppo di Bouyali, la base sociale del movimento islamista è radicata nelle città e i militanti vengono reclutati fra i milioni di nuovi urbanizzati, per lo più giovani. All’interno dell’università la punta di diamante della corrente islamica è costituita dagli studenti anglofoni, mentre sul territorio l’islamismo non mobilita solo gli esclusi in quanto poveri, ma anche frazioni importanti delle classi medie.

Alla fine degli anni ’80 il movimento sembra diventare cosciente dei limiti dell’azione armata e inizia a sviluppare una strategia di entrismo nelle istituzioni dell’Islam ufficiale, senza tuttavia tralasciare di espandersi nella rete delle moschee e di muoversi sul terreno dell’azione sociale, strategia a cui la crisi economica apre orizzonti sconfinati.

Lo Stato cercherà di strumentalizzare l’Islam contrapponendolo ai culturalisti berberi e ai gruppi laici sostenitori di una democratizzazione del regime e come tali esclusi dal potere. Già nel 1986 alcuni generali come Elhachemi Hadjeres, Mohammed Alleq e Larbi Lahcene erano arrivati a preconizzare uno Stato islamico: una dittatura islamica contro una dittatura laica!

Dopo tutto il FIS è cresciuto in seno all’FLN come corrente di pensiero islamico, al punto che molti lo ritengono il figlio legittimo del Fronte di Liberazione Nazionale. L’irruzione dell’Islam sulla scena politica avviene in occasione del terremoto sociale dell’ottobre ’88, quando esso si pose come mediatore fra regime e rivoltosi. Il 10 ottobre il presidente Chadli incontrò i principali esponenti dell’ancora informe movimento islamico: Abassi Madani (insegnante ex-FLN), Alì Belhadj (imam carismatico della moschea di Bab-el-Oued), Mahfoudh Nahnah (professore a Blida e leader di un movimento islamico vicino ai Fratelli Musulmani) e lo sceicco Ahmed Sahnoun. I primi tre erano usciti di prigione soltanto l’anno prima, mentre Sahnoun era stato agli arresti domiciliari fino al 1984.

Il 18 febbraio 1989 il movimento islamico annunciò formalmente la costituzione del FIS sotto la presidenza di Abassi Madani e con Ali Belhadj, 33 anni, come suo vice. Madani, nato nel 1931 a Blida, dopo essere stato militante dell’MTLD di Messali Hadj, insieme ad Ait Ahmed aveva aderito all’Organizzazione Speciale, il braccio armato del partito. Nel 1954 era entrato nel CRUA, il futuro FLN, e sarà fra i protagonisti del movimento d’Ognissanti. Arrestato, aveva trascorso tutti gli anni della guerra in un carcere francese. Dopo l’indipendenza, in disaccordo con l’orientamento socialista di Ben Bella, si era tenuto in disparte, dedicandosi alla diffusione degli scritti dei teologi mediorientali vicini ai Fratelli Musulmani, che erano il punto di riferimento obbligato di tutti i movimenti islamici radicali. Dopo aver conseguito ad Algeri una laurea in Filosofia e un dottorato di Psicologia e di Scienze dell’educazione, nel 1975 Madani si reca a Londra per motivi di studio e vi rimane per tre anni. Al rientro in patria diventerà docente di Scienze dell’educazione all’università di Algeri, finché nel 1980 incontrerà Ali Belhadj, il predicatore della moschea di Bab-el-Oued. Il resto è storia recente.

Il FIS é un partito costituito da correnti eteroclite che recupera gli scontenti e i reietti del paese, tra cui una parte non piccola delle classi medie inferiori escluse dal banchetto del potere. In trent’anni la popolazione algerina è passata da 10 a 26 milioni, il che vuol dire che i tre quinti degli algerini hanno meno di 30 anni. Il 25% della popolazione attiva è disoccupata. A fronte della drammatica carenza di alloggi, 600mila appartamenti restano sfitti per ragioni speculative: la "casa" sarà uno dei cavalli di battaglia utilizzato dagli islamisti ai fini del reclutamento. Ma, al di là dei discorsi demagogici, il FIS non tiene alcun congresso né pubblica un vero e proprio programma economico e sociale. L’Islam sunnita, a differenza di quello di confessione sciita, non ha clero, né chiesa, né istituti "autorizzati" a parlare e agire in nome dell’Islam, come aveva fatto l’ayatollah Khomeiny in Iran. I suoi dirigenti politici sono dei letterati, universitari arabofili che hanno per lo più compiuti gli studi in Occidente.

Il FIS, che il potere addita come un "partito di pezzenti", utilizza le moschee e le sale di preghiera come grancassa per la sua propaganda e come luoghi di riunione degli scontenti. Esso incarna le tendenze più disparate, dai gruppi più estremisti fino alle correnti moderate: come dirà Madani "il FIS è un Fronte, non un partito tradizionale" (Le Figaro, 24 ottobre 1989). Gli estremisti sono schierati con Belhadj e si dichiarano "internazionalisti". Si sentono vicini all’Arabia Saudita e all’ideologia dei Fratelli Musulmani egiziani e dei gruppi attivisti islamici mediorientali. Il loro Stato ideale è lo Stato islamico fondato sulla Legge coranica (Sharia): ai loro occhi la democrazia è peccato. I gruppi moderati schierati con il leader storico Madani si mostrano invece più nazionalisti cercando di riappropriarsi del patrimonio simbolico del movimento nazionale democratico algerino che l’FLN aveva tradito dopo l’indipendenza. Nel luglio ’91 il partito verrà preso in mano e portato alla vittoria elettorale da Abdelkader Hachani, ingegnere petrolchimico poco più che trentenne già sindacalista alla Sonatrach, favorevole alle riforme economiche introdotte dal governo Hamrouche e allo sviluppo del settore privato. Ma dopo l’annullamento del processo elettorale e l’inasprirsi della repressione l’influenza dei moderati all’interno del FIS sarà destinata a diminuire a favore delle correnti più estremiste.

Il FIS è guidato da un Ufficio Esecutivo composto di una decina di membri e da un Consiglio Consultivo, una sorta di Comitato Centrale, che comprende da 30 a 60 membri, tutti imam. In periferia, ricalcando le strutture dell’FLN ante-indipendenza, in ogni wilaya viene creato un Ufficio-ombra delle amministrazioni ufficiali. Il Fronte Islamico, forte di tre milioni di aderenti, ha i suoi principali finanziatori tra gli industriali e i commercianti algerini che giocano la carta dell’islamismo, ma il grosso dei fondi proviene dall’estero. Fino alla prima guerra del Golfo del 1990-91, molti prìncipi sauditi e kuwaitiani incoraggiavano infatti l’espansione islamica: nelle elezioni amministrative del giugno ’90 il FIS si servirà di una agenzia pubblicitaria americana pagata da una banca saudita per proiettare con i raggi laser il nome di Allah nei cieli algerini! Gli aiuti finanziari avevano evidentemente l’assenso degli americani, la cui sola preoccupazione è la "stabilità" dei paesi arabi, a prescindere dal tipo di regime al potere. L’unica garanzia richiesta è il controllo delle masse, specie in un paese come l’Algeria che galleggia su miliardi di metri cubi di gas naturale. Il gas sarà infatti la fonte di energia più usata dagli USA nei decenni a venire: l’Algeria, pur avendo meno riserve della Siberia, ha però il vantaggio di avere il gas meno caro e più facile da estrarre. Un vecchio consigliere del presidente Chadli faceva notare prosaicamente che gli USA, dopo aver utilizzato "le organizzazioni integraliste e in particolare i Fratelli Musulmani come loro quinta colonna contro i movimenti rivoluzionari di ispirazione marxista, li hanno piantati in asso quando la minaccia comunista è sparita"!

Scrive Le Monde il 31 dicembre 1991: «Tra quanti hanno aderito a questo partito c’è chi crede di avere tutto da guadagnare da una sua vittoria e non lesina quattrini per facilitargli il compito, sperando di essere ripagato con gli interessi. Questa borghesia commerciante, le cui attività erano state penalizzate dal sistema burocratico e socializzante dell’FLN, a meno che non si appartenesse alla nomenklatura, è intenzionata a prendersi la rivincita. Gli islamisti non si fanno forse paladini del liberalismo – "una parola che non ci fa paura" dice Abdelkader Moghni, l’imam della moschea Es Sunna di Algeri – e "dell’apertura delle frontiere", insomma del commercio a 360 gradi? Il grosso delle sue truppe il FIS lo ha reclutato nel vasto mondo degli emarginati che non solo non hanno niente da perdere nel dargli fiducia, ma sono pronti a correre qualsiasi rischio. Sempre che gli sia aperta la via del potere, come potrà il FIS, che rappresenta una massa così disparata di elettori, guidare senza scontri il paese? Facendosi portavoce di una base imponente e tumultuosa, i radicali – per bocca di Mohamed Said, imam della moschea Al Arkam di Algeri – hanno già chiamato i loro compatrioti a modificare le abitudini alimentari e il modo di vestire (...) Pertanto, lui e i suoi, provvederanno ad applicare la legge di Dio e a redigere dopo l’elezione presidenziale una nuova Costituzione ispirata al Corano e alla Sunna (la tradizione)».

Il modello degli islamisti algerini sembra dunque essere l’Arabia Saudita, ossia una moderna società borghese retta da una dittatura religiosa familiare. D’altronde il FIS verrà generosamente foraggiato proprio dall’Arabia Saudita fino allo scoppio della prima guerra del Golfo, quando sotto la spinta dalla base sarà costretto a dichiarare il proprio appoggio all’Iraq.

La vittoria del FIS nelle elezioni amministrative rappresentò un serio campanello d’allarme per il clan al potere che, obtorto collo, è costretto a proseguire la sua marcia verso la democrazia, come esigono i suoi creditori.

Il 17 gennaio 1991 Belhadj è alla testa di una manifestazione di circa 10mila islamici che chiedono di potersi battere a fianco dell’Iraq. L’islamismo radicale andava assumendo una sempre più precisa dimensione politica e si candidava a rimpiazzare il regime. Le elezioni per il parlamento previste per il mese di giugno costituivano il momento della verità sul FIS ma anche sulla reale rappresentatività degli altri partiti in cui si era frantumato il campo politico algerino. Ma l’importanza della posta in gioco metterà in moto uno stato di generale fibrillazione che porterà al rinvio delle elezioni.

Apparentemente fu proprio il FIS a scatenare la reazione a catena. L’occasione fu data dall’approvazione della nuova legge elettorale a scrutinio maggioritario uninominale a doppio turno voluta dal primo ministro Hamrouche. Nell’elaborare la nuova legge il governo aveva tenuto presente l’esito delle elezioni amministrative che si erano svolte a scrutinio maggioritario di lista a un solo turno, che avevano favorito eccessivamente il FIS. Poiché quest’ultimo era un partito prevalentemente urbano, la nuova legge elettorale aumentava il numero dei deputati e assegnava molti dei nuovi seggi alle campagne e alle zone poco popolate dove più forte era l’ascendente dell’FLN, penalizzando in questo modo gli agglomerati urbani. Il Fronte islamico della salvezza chiede la revoca della legge e a sostegno il 23 maggio indice uno sciopero generale illimitato. Nei giorni seguenti il FIS rastrella dai quattro angoli del paese le sue truppe di "barbuti", che organizzano una "marcia su Algeri", occupando stabilmente le due principali piazze della capitale.

Ma la parola d’ordine dello sciopero generale si rivelerà un mezzo fallimento: manifestando al grido di "Abbasso la democrazia", gli islamisti finiranno per spingere le classi medie nelle braccia del potere. Il FIS commise l’errore di non ricercare l’alleanza degli altri partiti d’opposizione su parole d’ordine comuni e si trovò isolato. Il governo Hamrouche, pur contrario all’intesa con gli islamici, voleva scongiurare il blocco della macchina elettorale sperando che con le elezioni l’esercito sarebbe stato messo fuori gioco. Ma i militari non intendevano farsi da parte e pur di impedire soluzioni politiche volte ad escludere il regime erano disposti ad usare la mano pesante. Il 4 giugno, tre giorni dopo l’apertura della campagna elettorale, nelle piazze di Algeri avvengono scontri sanguinosi tra islamici e forze dell’ordine che fanno almeno 17 morti. Il 5 il presidente Chadli, su richiesta dell’esercito, annuncia il rinvio delle elezioni e dichiara lo stato d’assedio per 4 mesi. Il governo Hamrouche, contrario all’impiego della forza, è costretto a dimettersi. Il nuovo primo ministro, Sid Amhed Ghozali, incontra Abassi Madani e Ali Belhadj presidente e vicepresidente del FIS, ottenendo la revoca dello sciopero e delle manifestazioni a sostegno.

Pur essendo un membro dell’FLN, Ghozali aveva formato un governo di tecnici e di indipendenti, prendendo le distanze dal partito. Lo stesso Chadli Bendjedid alla fine di giugno si dimise dalla carica di presidente dell’ex-partito unico. I passeggeri cominciavano ad abbandonare la nave che affondava. Ma nonostante l’intesa politica tra il governo e Madani che aveva portato al ristabilimento dell’ordine, alla fine di giugno venne scatenata la repressione contro il FIS: migliaia di attivisti furono arrestati e internati, tutti i capi, compresi Madani e Belhadj, furono incriminati per incitamento alla rivolta armata. Eppure Chadli non esclude ancora del tutto la possibilità di un compromesso con il partito islamista. Possibilista è anche il portavoce del FIS Abdelkader Hachani, che si dichiara pronto a "coabitare" con il capo dello Stato, ma deve affrontare l’ostilità dei sostenitori della lotta armata all’interno del partito. Cinque componenti del Comitato Centrale si dimettono durante la riunione di conciliazione tenuta a Batna il 23 luglio.

Come scrive Le Monde Diplomatique nel luglio 1991, «È poi così assurda l’ipotesi di un tacito accordo tra il potere e il FIS per eliminare Hamrouche? Il miglior alleato dell’FLN rischia di essere il FIS, e viceversa. Non è forse vero che mentre i due pesi massimi mostravano i muscoli, i veri perdenti – per lo meno a medio termine – di questa fase drammatica sono stati i partiti cosiddetti "democratici"? Vittime della polarizzazione FIS-FLN, presi in trappola pur essendo stati i primi a denunciare la legge elettorale, con il loro silenzio prolungato essi hanno mostrato una evidente incapacità ad occupare uno spazio tra i due grandi partiti».

Le elezioni politiche, vincendo la resistenza dell’esercito, furono indette per il 26 dicembre con norme elettorali leggermente emendate. Durante la campagna elettorale il capo del governo pur senza dare una chiara indicazione di voto si pronunciò contro l’FLN, dando ragione a chi riteneva che nelle alte sfere si cercava di aprire la strada agli islamisti come alibi per l’intervento dell’esercito. Eppure nessuno nell’orizzonte politico e dei media algerino o straniero fiuta il pericolo. Prigionieri di una lettura solo negativa della tematica islamica, gli avversari del FIS sono convinti che la controffensiva ideologica e politica del regime, le trappole della gestione dei Comuni, i dissensi presenti nel campo islamico, la concorrenza del sopravvalutato partito Hamas, se non addirittura il voto delle donne, terranno gli islamisti ampiamente al di sotto della quota di maggioranza. Tutti pensavano che si sarebbe andati verso un equilibrio delle forze politiche in cui un partito islamico addomesticato non avrebbe messo in discussione la sopravvivenza del regime. Come scrive il quotidiano francese Liberation alla vigilia dello scrutinio: «Solo una cosa è certa, nessun partito sembra in grado di ottenere domani una qualsiasi maggioranza».

Ma i risultati del primo turno smentirono clamorosamente le previsioni: il FIS con 3.260.222 suffragi (47,3%) conquistò 188 seggi su 230, pur perdendo circa un milione di voti rispetto alle elezioni amministrative. L’FFS con 510.661 voti (7,4%) arriva al secondo posto come numero di seggi ottenuti (25). Pur con solo un terzo dei voti dell’FLN, il loro concentrarsi nei dipartimenti della Cabilia ha fatto attribuire all’FFS, grazie al meccanismo maggioritario, i seggi che l’FLN non ha potuto ottenere: con 1.612.649 voti (23,4%) suddivisi su tutto il territorio, l’ex-partito unico è il grande sconfitto. Nel ballottaggio tenuto in 158 circoscrizioni, esso non ottenne che 15 seggi. Agli indipendenti andarono complessivamente 3 seggi. Il tasso di astensionismo fu molto elevato (circa il 41%), come pure elevato fu il numero dei voti nulli (quasi un milione), abbassando la percentuale degli elettori effettivi a circa la metà degli aventi diritto.
 
 

5. Ritorno alla dittatura in nome della democrazia

La vittoria elettorale del FIS, se non spaventa i circoli affaristici, spaventa però il clan al potere e soprattutto l’esercito che sta dietro le quinte, memore della sorte riservata a suo tempo dagli imam iraniani ai generali dello Scià. In preda al panico, le classi medie si gettano nelle braccia dei militari cercando di trascinarsi dietro anche il proletariato. I partiti "democratici" si mobilitano: il Fronte delle Forze Socialiste, per provocare il "risveglio" popolare, lancia un appello a favore di "una grande marcia in difesa della democrazia e della repubblica"; l’UGTA dà vita ad un Comitato di Difesa della Repubblica. Da parte sua, il FIS richiama i suoi militanti alla moderazione e alla "riconciliazione". All’estero le reazioni sono di prudente attesa, se si eccettua l’esultanza delle formazioni islamiste del mondo arabo. La realtà è che la finzione di una corrente islamica limitata a un gruppetto di attivisti capaci di arrivare al potere solo con la forza, sta andando in frantumi.

Ad Algeri, intanto, voci ricorrenti danno sempre meno credito all’ipotesi del proseguimento del processo elettorale. Il 2 gennaio i partiti portano in piazza 300mila persone fornendo ai fautori del colpo di Stato l’avallo popolare per l’intervento dell’esercito. Il regime impiegò alcuni giorni per arrivare alla decisione che si rivelerà fatale per l’Algeria di impedire con la forza lo svolgimento del secondo turno delle elezioni previste per il 16 gennaio. L’11 una petizione di 181 ufficiali dell’esercito chiede la testa del presidente Chadli, che è costretto a dimettersi. L’esercito temeva che Chadli, e con lui l’FLN, potesse accordarsi con il FIS a danno delle forze armate. La successione viene assicurata attraverso la creazione di un Alto Comitato di Stato con le funzioni di una presidenza collegiale composto di 5 personalità in rappresentanza di tutto l’arco politico algerino. Viene chiamato a presiederlo, in omaggio a una presunta "legittimità storica" in mancanza della legittimità delle urne, il redivivo Mohammed Boudiaf, che all’età di 73 anni ritorna in patria dopo trent’anni di volontario esilio in Marocco. Boudiaf, uno dei capi storici del FLN e rivale di Ben Bella, subito dopo l’indipendenza si era mostrato favorevole al multipartitismo, rifiutandosi di partecipare alle elezioni, che egli riteneva allora "prefabbricate", perché secondo lui "nessun partito popolare avrebbe potuto nascere all’ombra delle mitragliatrici". Nel settembre 1962 aveva rotto definitivamente con l’FLN e fondato un partito d’opposizione, il Partito della Rivoluzione Socialista (PRS), che si sarebbe in seguito trasformato in circolo di riflessione politica.

Appena insediato, il Comitato organizza la repressione contro gli islamisti: il presidente dell’Ufficio Esecutivo del FIS, Abdelkader Hachani, viene arrestato assieme alla maggioranza dei responsabili del movimento; le sedi del partito vengono chiuse e gli archivi sequestrati, mentre tutte le moschee vengono assoggettate alla competenza del ministero degli Affari religiosi. All’inizio la reazione del FIS non fu così violenta come si era temuto, tanto è vero che la base del movimento accusò i dirigenti di legalismo e di "integrazione sociale". Ma la repressione del potere apriva sempre più spazio alle correnti islamiste decise a farsi giustizia con la forza. Iniziò così la spirale del terrorismo, con i primi attentati e i primi scontri armati. Davanti al crescere della tensione il 9 febbraio viene proclamato lo stato d’emergenza per un anno su tutto il territorio algerino. Nella capitale e dintorni vengono dislocati 15mila uomini in armi; nel centro della città e nei punti sensibili compaiono i blindati. Tutti i venerdì in prossimità delle moschee scoppiano disordini che vengono duramente repressi dalle forze di polizia coadiuvate da agenti mascherati delle forze speciali, i cosiddetti "ninja". Il 13 febbraio Amnesty International rende pubblico il bilancio di due settimane di repressione: 70 civili uccisi, 500 feriti e oltre 100 arrestati.

Il 4 marzo il Tribunale di Algeri con decreto amministrativo sancisce lo scioglimento del FIS e la sua messa fuori legge. I capi del partito Madani e Belhadj vengono condannati a 12 anni di carcere, migliaia di militanti e simpatizzanti vengono rastrellati e condotti in campi di internamento nel Sud del paese, mentre i quadri più attivi si danno alla macchia o fuggono all’estero. Rabah Kebir, rappresentante politico della corrente nazionalista del FIS, cerca visibilità politica in Germania. Gli "internazionalisti" legati al principe saudita e al mondo anglosassone, espulsi dalla Francia si rifugeranno a Londra. Ma grazie ai finanziamenti che arrivano dall’estero, specialmente dall’Iran (nel novembre l’Algeria espellerà sei diplomatici iraniani con l’accusa di essere in contatto con il FIS), gli islamisti non hanno difficoltà a rifornirsi di armamenti anche pesanti sul mercato internazionale delle armi, all’epoca fiorente soprattutto in Bosnia.

Scrisse Le Monde: «La vittoria del FIS al primo turno delle elezioni politiche non sembra affatto preoccupare i circoli affaristici esteri di Algeri: secondo loro, anche con il FIS al potere, le esportazioni di petrolio e di gas nonché gli investimenti stranieri previsti in questi settori, proseguiranno regolarmente (...) Né potranno bloccarsi le importazioni di prodotti occidentali da parte dell’Algeria (...) Semmai c’è inquietudine per i riflessi sociali dovuti alla nuova situazione; gli affaristi più del FIS temono la piazza. La nuova situazione venutasi a creare dopo il colpo di Stato moltiplica le incertezze e le minacce alla stabilità. Gli ambienti affaristici prevedono fatalmente sollevamenti popolari sia a favore del FIS, sia contro il prossimo intempestivo ma obbligato rialzo dei prezzi. Come correggere la deriva verso il naufragio economico?».

O piuttosto, come correggere la deriva verso l’insurrezione delle masse? Come è noto, la risposta borghese è sempre la stessa: il ricorso al terrorismo, in tutte le sue forme.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

VII.

TERRORISMO CONTRO LE MASSE POVERE

La liberalizzazione del settore petrolifero avviata nel ’92 permette alle compagnie francesi, americane e italiane – previa elargizione di tangenti occulte al potere algerino e ai suoi generali, che già hanno in mano il mercato dei beni d’importazione – di gestire direttamente l’estrazione degli idrocarburi. Terrorismo, racket, sabotaggio delle aziende e instabilità politica sono l’ideale per far prosperare gli affari!
 
 

1. La dittatura dei creditori imperialisti e la spirale infernale del debito

Il 29 giugno 1992 Boudiaf, il "puro" che non aveva esitato a sporcarsi le mani nella repressione anti-islamica, viene assassinato ad Annaba da una delle sue guardie del corpo, un sottotenente che poi si scoprirà appartenere ad una unità scelta del ministero dell’Interno (le circostanze del suo gesto non verranno mai chiarite, egli sarà riconosciuto quale unico colpevole e condannato a morte nel giugno ’95). Probabilmente Boudiaf scontentava alcuni gruppi di potere che non gradivano la sua condanna dell’affarismo e della corruzione, né le sue minacce di voler colpire i privilegiati senza distinzione.

La situazione economica algerina è sempre più critica per molteplici ragioni: – il pagamento delle rate del debito estero, salito a 26 miliardi di dollari, continua ad assorbire annualmente i tre quarti delle entrate delle esportazioni (stimate in 12 miliardi di dollari); – l’inflazione galoppa al ritmo del 30% annuo; – la moneta nazionale perde sempre più potere d’acquisto (nel 1986 un dollaro valeva 5 dinari, nel ’92 ne vale 25); – le aziende funzionano a mala pena ad un terzo della loro capacità; – la disoccupazione, stimata ufficialmente al 25% della popolazione attiva, colpisce soprattutto la gioventù; – un grave stato di penuria di abitazioni e di beni di consumo mette a dura prova la sopportazione delle masse. Il tutto calato in un clima sociale e politico al limite della rottura, come testimoniano l’assassinio di Boudiaf e il moltiplicarsi di attentati, azioni di guerriglia e sabotaggi ormai sempre più rivolti agli obiettivi strategici (centrali telefoniche, impianti petroliferi, centrali elettriche, ecc.).

Alcuni dati socio-economici daranno l’idea della gravità della situazione. Nel decennio 1984-94, la popolazione algerina era cresciuta da 18 a 23 milioni, mentre la popolazione attiva era salita da 4,3 a 6 milioni in controtendenza rispetto all’andamento dell’occupazione nell’agricoltura dove si era avuta una flessione degli addetti. Nel settore agricolo erano aumentati lievemente gli arativi e le colture arboricole (7,5 milioni di ettari) dal 3,1 al 3,2%, con un aumento di appena 94 mila ettari nel decennio; i prati e i pascoli permanenti erano scesi dal 15,1 al 13,1%, per 31 milioni di ettari complessivi; foreste e boschi (4,7 milioni di ettari) erano passati dall’1,8 al 2%, mentre i terreni incolti (190 milioni di ettari complessivi nel 1984) erano aumentati dal 78,8 all’81,7% delle superfici disponibili. Insomma, grazie alle riforme "socialiste", insieme alle bocche da sfamare erano cresciuti anche i terreni incolti, con riflessi negativi sul Pil, sceso da 2.380 a 2.020 dollari pro-capite, un decimo esatto di quello statunitense!

I crediti che l’Algeria ottiene dalla Comunità Europea, dal Fondo Monetario, dalla Banca Mondiale e dallo Stato francese finiscono inevitabilmente per condizionare la politica estera e le strategie del paese allontanando qualsiasi possibilità di soluzione della crisi economica. Il nuovo primo ministro Belaid Abdelssalam, già potentissimo ministro del’Economia sotto il governo Boumédiène, è contrario al principio del riscaglionamento del debito – come già prima di lui lo era stato Boudiaf – e valuta che per far uscire il paese dalla morsa infernale dell’indebitamento bisognerà puntare meno sui capitali stranieri e molto di più sulle risorse umane e materiali dell’Algeria. Propone perciò agli algerini di tirare la cinghia per almeno tre anni e di prepararsi a vivere con i 3 o 4 miliardi di dollari che rimarranno dopo aver pagato la cambiale del debito. Nel giugno 1992 viene varata una vera e propria politica draconiana di restrizione dei consumi che limiterà le importazioni allo stretto necessario (per fare un esempio, verrà soppressa l’importazione del caffè, ma mantenuta quella dei prodotti farmaceutici e delle attrezzature necessarie alla sanità). Ma è tale la vastità della crisi algerina che neppure questo programma da "economia di guerra" sarà sufficiente a risolverla.

All’inizio del 1994, malgrado i sacrifici imposti alle masse, Algeri deve dichiarare lo stato d’insolvenza. L’inflazione galoppa al ritmo del 30% annuo, mentre il prezzo del petrolio si attesta intorno ai 16 dollari al barile. La Francia, che con 30 miliardi di franchi detiene la metà dei crediti algerini, è favorevole al risanamento economico proposto dal Fondo Monetario, mentre il Giappone, che è esposto per il 25% dei crediti complessivi, non è disposto ad accettare il riscadenzamento del debito. Dal canto suo, l’Algeria spera nella cancellazione di 6 miliardi di dollari di debito pubblico da parte della CEE quale "contributo alla sicurezza energetica dei Dodici". Nell’accordo del 10 aprile l’FMI impone la svalutazione del 40% del dinaro, la cancellazione di migliaia di posti di lavoro, un programma di riscadenzamento del debito estero e il cambiamento del primo ministro! L’UGTA si affretta a smentire di aver dato il suo assenso preventivo al piano del Fondo, ma si guarda bene dall’organizzare scioperi. Del resto le masse lavoratrici sono ormai paralizzate sotto il controllo e la repressione incrociata messa in atto dallo Stato, dagli islamisti e dalle organizzazioni mafiose e poliziesche.

I banchieri internazionali, pur dichiarando ufficialmente che in Algeria la situazione politica costituisce un ostacolo per la ripresa dell’economia e pur auspicando un’apertura "democratica" del regime del presidente Zéroual, non fanno nulla per chiudere il rubinetto dei prestiti nei confronti di un paese che nonostante tutto continua ad offrire garanzie. La Francia si impegna a rinnovare entro qualche mese il suo protocollo di aiuti – 6 miliardi di franchi all’anno – alle condizioni di usura imposte dal Fondo Monetario. Nel marzo 1995 cominciano i negoziati tra il governo algerino e l’FMI per stabilire un programma triennale di misure di aggiustamento strutturale. Come contropartita per il suo impegno nel piano di riforme avviato l’anno prima, Algeri si vedrà accordato un prestito globale di 1,5 miliardi di dollari, più o meno la stessa somma stanziata dal Fondo alla firma del precedente accordo transitorio del 1994. L’accordo prevede una nuova svalutazione del dinaro come premessa alla convertibilità commerciale e alla liberalizzazione del commercio estero mediante la soppressione dei dazi protettivi e degli ultimi monopoli di Stato in materia di importazione. Insomma, si presta denaro perché lo stesso denaro sia speso per ingrassare i creditori. Oltre alla riforma del sistema bancario e alla privatizzazione delle imprese pubbliche, la cui ristrutturazione dovrebbe causare 200mila licenziamenti solo nell’industria, il Fondo monetario "auspica" la riforma del sistema fiscale perché allo stato dei fatti i tributi vengono drenati soltanto dal settore pubblico e in genere dai settori soggetti al regime del prelievo alla fonte. Del resto, lo Stato ha un bisogno disperato di aumentare le entrate visto che il deficit di bilancio raggiungerà nel 1995 la bella cifra di 148 miliardi di dinari, pari all’8,3% del Pil.

Ma nonostante le misure restrittive, la crescita economica prevista dal piano di aggiustamento non si realizza: rispetto all’aumento preventivato del 3% l’incremento reale è quasi nullo. Inoltre, le manovre speculative sulle importazioni provocano un notevole aumento dei prezzi sul mercato interno, a tutto vantaggio dei grossi importatori legati ai dignitari di regime. La liberalizzazione del commercio estero voluta dall’FMI spinge molti algerini ad accusare lo stesso Fondo Monetario di voler fossilizzare l’Algeria nel ruolo di "consumatore": «Siamo alla rovina – spiega un sindacalista – Il denaro fresco proveniente dall’ ulteriore indebitamento, e che pagheremo salato a partire dal 2000, non serve a rilanciare l’economia. Da una parte si accumulano fortune colossali, dall’altra si muore di fame. Le riforme non fanno che perpetuare l’arricchimento della nomenklatura» (Le Monde Diplomatique, marzo 1995). Le imprese di import-export nascono come funghi. Da almeno dieci anni gli affari non erano così fiorenti. Ci si scanna quotidianamente, ma il business va a gonfie vele! «La situazione è drammatica, ma non per il commercio!» riassume cinicamente un alto funzionario del regime al giornalista di Le Monde (4 ottobre 1995). Nel 1994 le esportazioni francesi verso l’Algeria sono aumentate di oltre il 12%, con punte del 30 e del 40% nei settori dell’alimentazione, della farmaceutica, dell’acciaio, ecc. Dopo il riscaglionamento del debito, che ha spostato a dopo l’anno 2000 il grosso dei rimborsi, l’Algeria dispone di denaro fresco e può permettersi di pagare cash.

Nel frattempo, le forze di sicurezza tengono discretamente sotto controllo il complesso siderurgico di El Hadjar, nel nord del paese, col duplice scopo di proteggere gli impianti che erano stati oggetto nel passato di vari tentativi di sabotaggio e di prevenire una eventuale protesta sociale dalle conseguenze imprevedibili. All’inizio del mese di ottobre 1995 il direttore dello stabilimento, esacerbato dall’immobilismo del governo, dichiara di non poter più far fronte ai pagamenti e di conseguenza denuncia l’impossibilità di rimborsare i debiti (ammontanti a 7 milioni di dollari) e di pagare i salari di una parte dei 60 mila dipendenti. Come dichiara un quadro dell’UGTA: «A El Hadjar si può toccare con mano il risultato delle misure imposte dal Fondo Monetario. La produzione cala perché il complesso non dispone del denaro necessario per importare i pezzi di ricambio, mentre qualsiasi privato può importare i tondini utilizzando il denaro del riscaglionamento». Gli stessi concetti vengono espressi da uno dei responsabili dell’officina: «Nel 1993 era stato sottoscritto con il governo un accordo di produttività con cui l’azienda si impegnava ad aumentare la produzione in cambio di un risanamento della situazione finanziaria aziendale. Ma il materiale ha bisogno di essere rinnovato costantemente e le banche, con il pretesto delle scarse riserve in dinari, rifiutano di concedere valuta, mentre non esitano a concederla agli importatori di banane o di torrone». La risposta a questa situazione è nelle parole di Dahmane, il vecchio direttore dei lavori diventato uomo d’affari grazie al Fondo Monetario: «El Hadjar? Che lo Stato ce lo venda, e la produzione salirà. Il privato è l’avvenire» (Le Monde Diplomatique, novembre 1995).

Dall’analisi della situazione economica algerina che si può leggere nella rivista Jeune Afrique del settembre 1996 l’Algeria disponeva allora del regime di commercio più liberale dell’area, grazie all’introduzione di tutta una serie di riforme, tra cui spiccava l’eliminazione delle sovvenzioni statali generalizzate previste per i prodotti energetici e per le derrate alimentari (con l’eccezione del latte pastorizzato). Col risultato che i prezzi di questi prodotti si raddoppiarono nel biennio ’94-95 e aumentarono del 60% in quello successivo. La liberalizzazione dei prezzi era stata accompagnata da un aggiustamento del 50% del tasso di cambio allo scopo di correggere la sopravvalutazione del dinaro osservata dall’inizio del 1994. Per rafforzare i meccanismi di mercato erano stati imposti alle imprese pubbliche rigorosi limiti di bilancio, in vista della loro progressiva privatizzazione, così come previsto dalla legge sulla moneta e sul credito varata nel 1995 che autorizzava la privatizzazione di tutti i settori dell’economia, aprendo la strada alle partecipazioni estere. A partire dall’aprile 1996 un programma di privatizzazioni patrocinato dalla Banca Mondiale prevede la vendita, la liquidazione o la concessione ad investitori nazionali ed esteri di oltre 200 aziende con la riduzione al minimo delle formalità burocratiche. Il programma di ristrutturazione investirà anche le banche commerciali di proprietà dello Stato. La politica dei sacrifici aveva dato i suoi frutti: nel biennio 1993-’95, nonostante la caduta del corso del petrolio, il deficit di bilancio dell’Amministrazione centrale si era ridotto dall’8,7 all’1,4% del Pil, grazie al deprezzamento del dinaro e alla vigorosa contrazione della spesa pubblica (salari, sovvenzioni, crediti e spese per investimenti). Le riforme sortirono risultati impressionanti sul piano della stabilizzazione finanziaria: l’inflazione scese dal 39 al 15%, mentre le riserve in valuta aumentarono da 1,5 a 2,7 miliardi di dollari. Al contrario, la produzione industriale manifatturiera continuò a scendere a causa della liberalizzazione delle importazioni e dei problemi strutturali legati all’obsolescenza delle infrastrutture e dei metodi di produzione di buona parte delle imprese pubbliche.

Manco a dirlo, i funzionari algerini erano soddisfatti della situazione economica e il ministro delle Finanze potè affermare che l’Algeria, dopo dieci anni, era finalmente uscita dalla grave crisi economica provocata dal crollo dei prezzi petroliferi. La costante crescita del Pil, il drastico contenimento dell’inflazione (ulteriormente scesa al 9%), il saldo attivo della bilancia commerciale, l’aumento sorprendente delle riserve in valuta (nel 1996 la Banca d’Algeria poté annunciare che le riserve avevano raggiunto i 4,2 miliardi di dollari, mentre solo due anni prima il paese era stato sul punto di sospendere i pagamenti verso l’estero) meritarono le felicitazioni del Fondo Monetario al governo algerino, la cui fermezza nell’opera di repressione e di aggravamento delle condizioni di vita della popolazione era stata alla fine "pagante".

A ben vedere, due ragioni spiegano più di ogni altra cosa questo apparente risanamento. Prima di tutto, il prezzo del petrolio che per tutto il 1996 si era mantenuto elevato, spingendo le autorità a superare regolarmente la quota di produzione fissata dall’OPEC, nella convinzione che il ritorno dell’Iraq sul mercato mondiale avrebbe finito inevitabilmente per deprimere il corso del greggio. La seconda ragione dei buoni risultati economici è da ricercare negli effetti causati dai vari riscaglionamenti del debito estero. L’Algeria aveva rinegoziato per due volte, nel 1994 e nel 1995, i termini per il pagamento del debito pubblico (con il Club di Parigi) per complessivi 10 miliardi di dollari e per una volta il debito privato (accordato dal Club di Londra) per altri 3,2 miliardi di dollari. Sottoscrivendo nel 1995 un accordo di aggiustamento strutturale triennale con l’FMI, Algeri aveva potuto rinviare il pagamento di oltre 13 miliardi di dollari dovuti ai creditori, e far temporaneamente scendere il servizio del debito dal 90 al 35% delle entrate in valuta. Ma era solo una breve tregua, perché a partire dal 1998 il servizio del debito sarebbe tornato a salire e nel 2000 avrebbe raggiunto il 75% delle entrate, riproponendo in maniera drammatica l’eterno problema del rimborso dei prestiti e del finanziamento dell’economia. Di fatto, ogni nuovo riscaglionamento del debito pubblico stringe sempre più il debitore nel cappio dei suoi creditori.

Puntare "tutto" sugli idrocarburi era ancora la soluzione più facile per il gruppo al potere, anche perché le privatizzazioni attuate, non solo non avevano portato a un rilancio delle esportazioni – se si escludono gli idrocarburi – ma avevano piuttosto aperto la strada agli speculatori, agli affaristi e ai lestofanti professionali internazionali, il cui solo interesse era quello di far soldi saccheggiando il paese. Per l’inizio del terzo millennio la Sonatrach – che prevedeva di portare il suo fatturato a 18 miliardi di dollari in dieci anni – contava di raggiungere la produzione di un milione di barili di petrolio al giorno (contro i 700mila del 1997) e 134 miliardi di metri cubi di gas naturale (contro i 113 miliardi del 1997), rendendo così il paese totalmente dipendente dall’aleatorio corso mondiale di questi prodotti. La principale conseguenza della ripresa economica fu il ritorno in Algeria delle imprese occidentali, soprattutto francesi. I porti del paese si affollarono di navi. Le importazioni dei beni di consumo diventarono un affare redditizio per la minoranza di algerini che disponeva di un minimo di capitale in dinari e di una rete di "buoni contatti" nazionali e internazionali. Gli importatori algerini più che alla Francia si rivolgono di preferenza alla Spagna e all’Italia, paesi più larghi di manica nella concessione dei visti. Il padronato privato – che secondo gli esperti della Banca Mondiale rappresentava "il motore ideale per rilanciare l’economia" algerina – era più che mai diviso: non meno di tre organizzazioni padronali si contendevano il ruolo di interlocutore privilegiato del governo e delle istituzioni internazionali. I pochi imprenditori privati di un certo spessore, quelli in grado di fare grossi investimenti in settori diversi dal commerciale, avevano anch’essi la tendenza ad abbandonare l’apparato produttivo per dedicarsi ad attività di import-export (in realtà esclusivamente di import).

L’Algeria puntò sul risanamento dell’economia per convincere l’Unione Europea a firmare un accordo di associazione, anche se il fine ultimo rimaneva la creazione di una zona di libero scambio entro il 2010. Del resto, l’Algeria aveva già assunto la carica di coordinatore dei paesi arabi mediterranei e di portavoce di tutti i paesi terzi che si affacciano su quel mare, nel quadro del partenariato euro-mediterraneo creato durante la conferenza di Barcellona nel novembre 1995. Ma un tale accordo non farà che aggravare il deterioramento del tessuto industriale locale, come dimostra l’esempio della Tunisia, il primo paese a firmare nel luglio 1995 una intesa di questo tipo. I funzionari tunisini ammettono che un terzo delle piccole e medie imprese locali è destinato a scomparire entro il 2007, anno in cui entrerà in vigore l’accordo di libero scambio. Alcuni esperti ritengono che la vera posta in gioco delle contrattazioni fra l’Unione Europea e l’Algeria fosse in realtà il futuro della potente compagnia petrolifera Sonatrach, per la quale i responsabili della Commissione auspicavano una rapida privatizzazione al fine di meglio garantire la sicurezza energetica dell’Europa meridionale.

L’Algeria è solo un caso fra tanti – si pensi all’esempio tragico dell’America latina o dei paesi dell’est Europa – di un paese che diventa preda dei suoi creditori. Stretto nella morsa del debito, il paese maghrebino è caduto nelle grinfie del Fondo Monetario, che utilizza l’arma degli aiuti umanitari per aggravare di fatto la situazione economica dei paesi debitori. Un articolo di Le Monde Diplomatique del dicembre 1996 fornisce una descrizione apocalittica di come "le mafie corrompano l’economia mondiale" e di come l’intervento dell’FMI preceda sempre la penetrazione criminale nell’economia: «In Ucraina l’FMI ha patrocinato nel 1994 delle riforme macroeconomiche che hanno contribuito a far precipitare in una profonda crisi la coltivazione dei prodotti alimentari. E l’Osservatorio Geopolitico delle Droghe conferma che alla caduta della produzione di grano corrisponde sempre un rapido sviluppo della coltivazione dell’oppio. Nella ex-Iugoslavia, con il declino dell’agricoltura locale, hanno fatto la loro comparsa la coltivazione del papavero e i laboratori di eroina sotto il controllo della mafia della Sacra Corona Unita. Le privatizzazioni e i programmi di ristrutturazione del debito imposti dai creditori esteri hanno fatto passare un gran numero di banche di Stato latino-americane ed est-europee sotto il controllo delle banche d’affari occidentali e giapponesi. In Ungheria, ad esempio, la Banca Internazionale Centro-Europea è stata acquisita da un consorzio di banche straniere, le quali possono così in piena libertà entrare nel redditizio settore del riciclaggio di denaro sporco, senza intervento del governo e senza doversi sottomettere ai regolamenti e al controllo dei cambi (...) In Bolivia e in Perù, le riforme del sistema bancario introdotte sotto la tutela dell’FMI hanno facilitato la libera circolazione delle valute, legalizzando di fatto il riciclaggio da parte del sistema finanziario peruviano (...) Nell’Europa dell’Est e nell’ex-Unione Sovietica i programmi di privatizzazione comportano la vendita delle banche di Stato, dei servizi pubblici, dei settori dell’energia, delle terre appartenenti alla collettività, delle imprese industriali e commerciali, comprese quelle del complesso militar-industriale. Sotto la direzione delle istituzioni di Bretton Woods, il ricavo di queste vendite viene destinato al rimborso del debito contratto con i creditori occidentali, tra cui le grandi banche commerciali. I programmi di privatizzazione hanno indiscutibilmente facilitato il trasferimento di una significativa quota di proprietà pubblica al crimine organizzato. Non c’è quindi da stupirsi se le mafie russe, che costituiscono la nuova classe di possidenti, sono state le più ferventi fautrici del neoliberalismo e hanno dato il loro appoggio politico alle riforme economiche del presidente Eltsin. Nella Federazione Russa si contano complessivamente oltre 1.300 organizzazioni criminali. Secondo un recente studio pubblicato dall’Accademia Russa delle Scienze, il crimine organizzato controlla il 40% dell’economia, la metà del parco immobiliare commerciale di Mosca, i due terzi delle istituzioni commerciali, ossia qualcosa come 35.000 imprese, 400 banche e 150 società di Stato (...) Il crollo dell’attività economica legale, sia industriale sia agricola, ha fatto precipitare molti paesi in via di sviluppo nella camicia di forza del debito estero e dell’aggiustamento strutturale. Vi sono paesi in cui il servizio per il debito è superiore al totale dei ricavi delle esportazioni legali, anzi non è raro che le entrate derivanti dal commercio illecito procurino una fonte alternativa di valuta che consente ai governi indebitati di far fronte ai pagamenti (...) Questa situazione viene tacitamente accettata dalla comunità finanziaria internazionale come il male minore, in quanto permette ai governi di rimborsare i debiti (...) C’è una logica in questa ristrutturazione perché, in ultima istanza, i creditori favoriscono un sistema basato sulla libera circolazione. E purché i debiti siano rimborsati, i creditori non fanno nessuna distinzione tra "denaro pulito" e "denaro sporco"».

La logica capitalistica non è in Algeria meno feroce: i paesi imperialisti puntano al saccheggio sistematico delle ricchezze locali e allo sfruttamento delle masse lavoratrici grazie a un piano di riforme attuato a colpi di terrorismo. In Algeria infatti il terrorismo – non importa se di matrice islamica oppure gestito dal clan al potere – ha un solo bersaglio: il proletariato. Mentre nei paesi occidentali l’arma preferita dalla borghesia è (era?) quella soporifera del consumismo o della demagogia, nel Maghreb la classe dominante, per garantirsi lo sfruttamento delle forze produttive, utilizza il terrore tout-court, con l’aiuto e la connivenza della borghesia internazionale.
 
 

2. Il governo militare

In Algeria il potere si articola formalmente attorno a tre poli – i capi dell’esercito, la Sicurezza militare e il potere civile – ma nella realtà la politica viene elaborata dietro le quinte, all’interno della ristretta cerchia dei militari. Il primato dell’esercito affonda le sue radici nella guerra di liberazione, che ne rappresenta la fonte della legittimazione "una volta per tutte".

Ma le lotte, ora scoperte ora nascoste ma sempre sanguinose, per far prevalere di volta in volta le prerogative della politica o le suggestioni militariste, hanno accompagnano il Fronte fin dalla sua nascita. Già nel dicembre del 1957 c’era stata la prima resa dei conti all’interno dell’FLN, quando gli uomini dell’allora ministro delle Comunicazioni Abdelatif Boussouf avevano assassinato in Marocco il più alto dirigente del partito, Abbane Ramdane, perchè contrario all’aumento del potere dei "colonnelli" in seno all’esecutivo. L’Esercito di Liberazione che si costituì alle frontiere del paese, in Marocco e in Tunisia, lontano dalle zone di combattimento interne, avrebbe ben presto goduto di una crescente autonomia dalla dirigenza civile. Il gruppo dirigente operativo, ossia lo Stato maggiore generale comandato dal colonnello Boumédiène, si imporrà come arbitro tra le fazioni presenti all’interno del Fronte diventando il reale detentore del potere, autentico esercito-Stato.

Il comando è nelle mani di due gruppi principali: il primo in ordine di importanza per la posizione che i suoi membri occupano nella gerarchia, è il gruppo dei cosiddetti "ex-ufficiali dell’esercito francese", come furono chiamati gli ufficiali che avevano aderito al Fronte alla vigilia dell’indipendenza. Questi ufficiali, docili perché privi della legittimità di "resistenti", verranno cooptati da Boumédiène al fine di emarginare proprio gli elementi formatisi nella lotta. A oltre tre decenni dall’indipendenza essi controlleranno ancora le posizioni strategiche nell’Alto comando e nella Sicurezza. Il secondo clan è composto dagli uomini formatisi nella resistenza interna o in Medio Oriente. Questi ufficiali, sovente arabofoni, erano stati segnati dal diffuso nazionalismo arabo degli anni cinquanta, e accusavano gli ultimi arrivati di falso patriottismo. Il blocco del processo elettorale in funzione anti-islamica attuato nel gennaio 1992 farà nascere all’interno dell’apparato militare ulteriori contrasti all’interno fra gli ufficiali responsabili della repressione e quelli invece favorevoli alla dialettica democratica. Di fatto, l’equilibrio instabile su cui si fonda il potere dell’esercito è il frutto dei feroci scontri tra i diversi gruppi di interessi. L’equilibrio viene mantenuto con l’allontanamento o l’eliminazione degli elementi sgraditi. Molte saranno le morti eccellenti mai chiarite, da quella di Mersah, ex-ministro della Sicurezza militare di Boumédiène; a quella di Belkaid, ex-ministro dell’Interno; a quella di Benhamouda, leader dell’UGTA; a quella di Boudiaf, presidente dell’Alto Comitato, e via enumerando.

Gli scontri si svolgono spesso attraverso la stampa o mediante interposte persone, riducendosi generalmente a lotte di influenza legate alla spartizione dei flussi finanziari. Ma, in ultima analisi, i capi clan sono mossi da un solo imperativo: conservare il potere ad ogni costo e impedire qualsiasi sollevazione delle masse – e a questo scopo tutti i mezzi sono buoni, dalla mitraglia contro gli insorti disarmati (vedi ottobre 1988) fino al terrorismo. Questa "famiglia" militare, che conta 140 generali e vive in residenze sorvegliate, che controlla il mercato degli idrocarburi, che investe in tutti i settori strategici e che si spartisce le varie attività commerciali, si riconosce solo nelle proprie regole e rispetta l’omertà: niente la distingue da quella mafia che tanto scandalizza i nostri signori democratici, incapaci di capire che la borghesia funziona secondo le stesse leggi in tutto il pianeta. Un meccanismo ben riassunto da un quotidiano algerino: «Il sistema attinge esclusivamente nel suo vivaio. Gli uomini che emergono devono rispettare la legge degli equilibri tra gruppi e fazioni, preservare gli interessi degli uni e degli altri e, talvolta, mantenere un silenzio abbastanza vicino alla legge dell’omertà (...) Il sistema trova la sua forza nel fatto di essere un insieme di correnti e di sensibilità che si affrontano, si neutralizzano e cooperano. Il potere è pertanto l’emanazione di un clan definito ora da un’affinità regionale, ora da una solidarietà tattica» (El Watan, 21 dicembre 1998). I violenti regolamenti di conti che avvengono all’interno dell’apparato di potere non costituiscono un ostacolo quando si tratta di far fronte comune contro le masse. È questo l’obiettivo prioritario della "famiglia" che governa lo Stato algerino in nome del Capitale e della classe borghese nazionale e internazionale. Dichiarava un alto esponente governativo dopo i moti di ottobre: «Per trent’anni ci siamo dilaniati e colpiti alle spalle, ma facciamo in modo di non abbandonare mai un dirigente escluso, fosse pure soltanto continuando a fargli visita. Siamo infatti uniti da una certezza: i nostri figli ci devono succedere (...) Sappiamo che il giorno in cui questa legge fosse spezzata segnerebbe la fine per noi tutti, perché la piazza non si accontenterebbe di una testa soltanto, ma le esigerebbe tutte».

L’élite intellettuale e alcune formazioni politiche espressione della piccola borghesia condividono con il regime il terrore della piazza e quindi sono con esso solidali, anche se a volte sono costrette ad ostentare discorsi d’opposizione per salvaguardare una qual certa credibilità di facciata.

Fino all’ottobre 1988 Esercito e Servizi hanno tirato i fili della politica algerina all’ombra dell’FLN e delle sue "organizzazioni di massa". Hanno infiltrato i loro uomini nei media, nella polizia, nelle aziende, nei partiti politici, nei gruppi islamici, avendo buon gioco nel manipolare l’informazione allo scopo di destabilizzare gli oppositori e favorire la "dissidenza" in seno alle organizzazioni troppo invadenti – partiti politici, associazioni dei diritti dell’uomo, ecc. Una tale manipolazione eretta a sistema ha permesso di governare mascherando le congiure di palazzo dietro una facciata democratica e soprattutto di scansare la protesta delle masse.

Nel 1992 l’esercito si accredita come baluardo contro l’ondata integralista utilizzando lo spauracchio dell’insurrezione islamica per legittimarsi e presentarsi come il "male minore", sia verso l’estero che nei confronti delle classi medie algerine. Ma ben presto, la sempre più dirompente crisi economica e la lotta senza quartiere che investe i vertici del potere, faranno volare in pezzi il fragile edificio costituzionale faticosamente costruito sotto le pressioni interessate delle potenze occidentali. Non per questo i partner stranieri, per i quali l’Algeria è un eldorado petrolifero, cesseranno i loro discorsi ipocriti sulla cosiddetta democrazia. L’Algeria, come la Russia di Putin, è una "democrazia nascente" che la borghesia internazionale è ansiosa di "aiutare", chiudendo pudicamente gli occhi su eventuali "sbavature". La realtà è però assai meno nobile: pur di mettere le mani sul paese e sulle sue ricchezze i bravi borghesi non lesinano il loro appoggio a regimi la cui sola ragion d’essere è quella di sbarrare la strada alla lotta di classe.
 
 

3. Terrorismo islamico e terrorismo statale

L’esercito al potere, la polizia e la Sicurezza militare vanno più o meno a braccetto nella cosiddetta lotta anti-islamista. Quanto al FIS, fin dall’inizio era evidente la preparazione di alcune sue frange alla lotta armata, come pure l’esistenza di armi e di reti clandestine. Il ricorso alla violenza trovava legittimazione in documenti e prese di posizione ufficiali, soprattutto a opera delle correnti più estremiste, che propugnavano il rovesciamento violento del regime e la nascita di uno Stato islamico. Ma altrettanto evidente era il fatto che fino alla crisi di maggio-giugno 1992 la leadership del movimento si trovava nelle mani dei fautori della linea legalitaria. Paradossalmente, sarà la violenza della repressione anti-islamica scatenata dal regime dopo la sospensione del processo elettorale a spingere una parte del movimento a prendere le armi.

Nel FIS, partito dalle molte anime, convivevano più tendenze – dai radicali esclusi dal Comitato centrale dopo il Congresso di Batna e finanziati dalla Libia e dall’Iran, ai nostalgici di Bouyali con a capo Mansouri Meliani, agli ex-combattenti "afgani". Ma tutti i tentativi di unificare le forze falliranno a causa delle divergenze e delle rivalità esistenti tra i capi dei diversi gruppi e nonostante la dura repressione statale: non si andrà oltre la nascita di una nebulosa di gruppuscoli favorevoli a una resistenza più o meno violenta. I dirigenti "moderati" saranno costretti a cavalcare la lotta armata per non perdere i contatti con la base del movimento – di cui hanno bisogno per avere un peso contrattuale nei confronti del regime. Nel gennaio 1993 Belhadj fa uscire dal carcere una fatwa che invita i gruppi armati a riunificarsi sotto la bandiera del FIS e aderire al Movimento Islamico Armato, il braccio militare del partito fondato nel luglio 1991. Sempre all’inizio del 1993 la scarcerazione di alcuni quadri fautori della lotta armata permetterà di organizzare sotto l’egida del partito una parte della galassia dei gruppuscoli informali e di creare successivamente (luglio 1994) l’Esercito Islamico della Salvezza (AIS), che sarà presente soprattutto nelle zone di frontiera, mentre l’Algerinese e la piana della Mitidja resteranno sotto il controllo dei gruppi islamici più estremisti.

Nonostante i durissimi colpi subiti – i suoi principali dirigenti incarcerati; uno dei suoi capi militari, Omar el-Eulnir, fondatore del Sindacato Islamico del Lavoro, assassinato; i suoi militanti e simpatizzanti deportati – e nonostante l’escalation combinata di attentati e di repressione che provoca morti a migliaia, il FIS conserva intatta la sua influenza a livello sociale, potendo contare su una rete estesa e ben collaudata di sostegno ai gruppi armati.

Dopo la rottura con l’Arabia Saudita, dovuta alla scelta di campo pro-Saddam da parte del FIS, i finanziamenti affluiranno al movimento in parte dall’Iran e in parte attraverso l’autofinanziamento (rapine a banche e uffici postali). Il FIS pratica lo stesso tipo di guerriglia urbana attuata negli anni ’50 dall’FLN contro l’esercito francese, compresa la tecnica cosiddetta del "triangolo", secondo la quale ciascun militante non conosce che due soli altri membri della rete e di cui ignora il grado nella gerarchia; chi viene arrestato ha il dovere di resistere sotto tortura per almeno 24 ore in modo da consentire agli altri due componenti della cellula di mettersi in salvo. Anche in caso di decapitazione del MIA, probabilmente non si avrebbe una diminuzione del numero degli attentati. Per come è strutturato, il FIS può operare nella clandestinità senza aver bisogno di una direzione unificata. Ma, alla lunga, la disarticolazione della struttura del partito in seguito agli arresti, ai campi d’internamento, alla repressione, finirà per consegnare "la base" nelle mani degli attivisti delle più svariate tendenze. La nebulosa dei gruppi armati finirà per imboccare la strada del terrorismo indiscriminato e irrazionale che tanto indignerà i bravi democratici locali e i loro amici occidentali, che non esiteranno ad appoggiare contro l’oscurantismo islamico, il più "civile" regime algerino!

I Gruppi Armati Islamici si presentano come un movimento non strutturato, costituito da gruppi di giovanissimi combattenti che non riconoscono alcuna autorità ai capi storici del FIS. Ogni gruppo è diretto da un "emiro" e terrorizza la popolazione attuando pratiche di brigantaggio in nome della legge coranica. Combattono il regime e qualsiasi forma di compromesso con quest’ultimo: non esiteranno a scatenare rappresaglie contro i gruppi del FIS favorevoli alla soluzione negoziata con i militari, contro gli intellettuali ostili all’islamismo, contro gli stranieri (soprattutto contro i francesi per via del legame che unisce lo Stato francese a quello algerino), e persino contro le masse colpevoli di non essersi date alla macchia o di aver votato per il FIS. Ma, proprio per la loro strutturazione, i GIA sono facilmente individuati e infiltrati dai Servizi militari, che li utilizzano sia per screditare l’islamismo politico di fronte alla popolazione e ai media occidentali, sia per indebolire le truppe dell’Esercito Islamico e provocare il caos civile.

Alla fine del 1994, gli effettivi dei Gruppi Islamici Armati sono stimati in 10-15.000 uomini organizzati in 14 sottogruppi. Sociologicamente i GIA sono di estrazione più urbana che rurale: la stragrande maggioranza dei militanti proviene dalle periferie dei grandi agglomerati urbani di Algeri e di Blida. Tutti i capi, a cominciare dal loro fondatore Meliani Mansouri (che era stato giustiziato nell’agosto 1993), provengono dalla miserabile periferia della grande Algeri. Fanno parte dei GIA anche gli ex "afgani", oltre a un certo numero di delinquenti e di emarginati. Naturalmente il reclutamento viene attuato anche nelle zone rurali, spesso teatro di massacri, nei villaggi isolati e nelle piccole aziende agricole della Mitidja, che servono da vivaio anche per il reclutamento dei cosiddetti gruppi di autodifesa anti-islamici, che inquadrano ex-mujaiddin, combattenti della guerra di liberazione e militanti di sinistra.

Il 18 luglio 1996 Antar Zaoubri subentra a Djamal Zitouni alla testa dei GIA. Zitouni, ritenuto il responsabile del dirottamento dell’Airbus e dell’assassinio dei sette monaci francesi, era stato espulso dal movimento il 14 luglio e ucciso il 16 in circostanze mai chiarite. Con l’arrivo di Antar Zouabri alla direzione dell’organizzazione la strategia dei Gruppi Armati cambia: le operazioni di pattugliamento, di ricognizione o di finti posti di blocco alle quali finora non partecipavano mai più di sei uomini, vengono ora attuate da centinaia di uomini. Per proteggersi la ritirata i GIA minano gli aranceti e i pascoli rendendo pressoché impossibili le attività agricole e pastorali. Sono presi di mira soprattutto le aziende agricole, con un conseguente massiccio esodo della popolazione rurale verso gli agglomerati di Boufarik e di Blida, e la formazione di una massa di sradicati, di disoccupati senza prospettive per l’avvenire, sensibili a un’ideologia che addossa allo Stato la responsabilità di tutti i mali del paese. Molti si danno alla macchia, entrando a far parte di gruppi formati da una quindicina di persone agli ordini di un combattente esperto. Più gruppi si uniscono a formare bande di 150-200 uomini sotto l’autorità di un emiro, riconosciuto tale per meriti di guerra. In presenza di operazioni governative in grande stile o di condizioni climatiche sfavorevoli le bande lasciano il loro territorio per rifugiarsi nella giungla cittadina, dove dispongono di strutture e di armi (soprattutto armi di autodifesa, fucili da caccia, esplosivi di fabbricazione artigianale) per la guerriglia urbana. Le poche armi automatiche leggere, i lancia-razzi, i mezzi radio e i veicoli a loro disposizione è materiale sottratto alle forze dell’ordine durante gli scontri. Una minima quantità di armi provenienti dai paesi dell’ex-Patto di Varsavia arriva ai combattenti attraverso l’Unione Europea e il Mediterraneo oppure attraverso il circuito meridionale che corre lungo i confini del Ciad, del Niger e della Libia. Le armi vengono acquistate grazie all’imposizione di una vera e propria tassa di guerra a carico dei commercianti delle comunità maghrebine dei paesi dell’Europa occidentale.

Nella prima fase, il terrorismo islamico prese di mira esclusivamente le forze dell’ordine con sporadici omicidi di poliziotti e militari. Nell’agosto 1992, la condanna a 12 anni di carcere inflitta dal tribunale militare di Blida a Madani e Belhadj fu seguita da un attentato all’aeroporto di Algeri che causò 9 morti e 123 feriti. Il regime rispose con il rastrellamento dei territori controllati dalla resistenza e l’imposizione del coprifuoco nella capitale e nelle sei wilaya limitrofe. Il FIS condannò l’ondata di terrorismo indiscriminato diretto contro i rappresentanti dello Stato. Gli scontri si estesero alle campagne, dove i "rastrellamenti" dell’esercito e i bombardamenti al napalm non risparmiarono i civili. A partire dal marzo 1993 gli attentati cominciano a colpire anche gli intellettuali (medici, sociologi, giornalisti, scrittori) appartenenti all’élite francofona, come risposta all’appoggio dato dalla Francia al regime algerino. Il 14 marzo viene assassinato ad Algeri Hafid Senhandri, membro del Consiglio consultivo nazionale: è la prima volta che i "terroristi" colpiscono una personalità politica civile. Il 16 la stessa sorte tocca a Djilalli Lyabès, ex ministro, e ad un altro membro del Consiglio. Il 22 centomila persone manifestano ad Algeri contro il terrorismo islamista. Il 2 giugno, muore lo scrittore Tahar Djaout, vittima di un attentato. Il 21 agosto il primo ministro Belaid Abdessalam viene sostituito alla direzione del governo da Reda Malek, membro dell’Alto Consiglio, contrario ad ogni forma di dialogo con gli islamisti. Coincidenza o no, lo stesso giorno è ucciso Kasdi Merbah, che prima di diventare capo del governo era stato capo della Sicurezza militare ed era perciò a conoscenza di segreti imbarazzanti. Il suo assassinio avviene a poca distanza di tempo da un incontro da lui avuto con gli esponenti del FIS sotto la copertura di Zéroual e un appello a favore dell’unità nazionale. Il 21 settembre vengono assassinati due geometri francesi: si tratta della prima uccisione di cittadini stranieri. L’11 ottobre vengono giustiziati 13 islamisti, portando a 26 il numero dei giustiziati nell’ultimo anno. Il 2 dicembre i GIA rivendicano l’assassinio di un uomo d’affari spagnolo (nello stesso mese rivendicheranno l’uccisione di 17 stranieri). La politica di attentati diretti soprattutto contro gli stranieri caratterizzerà l’azione dei GIA rispetto a quella del FIS.

Il 25 e 26 gennaio 1994 il governo convocò una conferenza di "riconciliazione nazionale" per legittimare le nuove istituzioni che dovranno reggere il paese nei tre anni successivi. La conferenza finì in una bolla di sapone perché, a parte lo scontato boicottaggio dell’ex-FIS, essa venne disertata da tutte le maggiori formazioni politiche. La riunione servì però a decretare la morte dell’Alto Comitato di Stato, che verrà sostituito da un Consiglio nazionale provvisorio presieduto dal generale e ministro della Difesa Liamine Zéroual, il quale appena insediato rivolse un appello per il dialogo a tutte le forze politiche, facendo scarcerare Abassi Madani e Ali Belhadj come segno di buona volontà.

Ma il terrorismo non si placa. In marzo un commando islamista attaccò una prigione nei pressi di Batna e liberò 900 detenuti, di cui 100 condannati a morte. Sempre a marzo l’aviazione bombardò con il napalm i massicci dell’Ouarsenis, nell’ovest del paese, che offrivano rifugio alle truppe del MIA, causando pesanti perdite tra i combattenti islamici. Nei primi sei mesi del 1994 furono uccisi 36 lavoratori stranieri (nessuno di nazionalità americana). Nell’agosto i GIA bloccarono le scuole superiori e le università. Gli insegnanti hanno pagato un notevole tributo di sangue: dall’inizio degli scontri hanno trovato la morte 200 insegnanti, di cui 101 nel solo 1994. Il 24 agosto venne assassinato un membro del Consiglio nazionale provvisorio. Il 24 dicembre un commando dei GIA sequestrò all’aeroporto di Algeri un airbus della Air France diretto a Parigi. Dopo difficili trattative con le autorità algerine (e l’uccisione di tre passeggeri) il governo francese ottiene il via libera al decollo dell’aereo assecondando le richieste dei terroristi. Il 26 le teste di cuoio danno l’assalto all’aereo fermo all’aeroporto di Marsiglia uccidendo quattro membri del commando.

Intanto, il ministro dell’Interno aveva preannunciato il varo di una legge che avrebbe autorizzato gli abitanti delle regioni più isolate a formare "gruppi di autodifesa" anti-islamisti, sull’esempio dei gruppi che già esistevano di fatto in gran parte della Cabilia, la prima regione ad essere colpita dagli attacchi. Nelle regioni più irrequiete nacquero così gruppi di guardie comunali formati da una quarantina di uomini addestrati militarmente e posti sotto l’autorità dei sindaci. Mentre l’esercito badava a proteggere l’Algeria "utile" – quella dei campi petroliferi del grande Sud – i "patrioti", dotati dei più ampi poteri di polizia, spadroneggiavano in tutto il paese andando ad infoltire i ranghi degli "squadroni della morte". Alle elezioni amministrative dell’ottobre 1997, approfittando dei brogli, i miliziani entreranno in forza nelle municipalità: i villaggi che nel 1991 avevano votato per il FIS furono così consegnati nelle mani dei GIA e dei "patrioti", che si abbandonarono a una guerra senza quartiere contro la popolazione inerme. A luglio, dopo la scarcerazione di Madani, in meno di quindici giorni almeno un migliaio di persone erano state massacrate dai GIA, dai miliziani, dagli squadroni della morte, dalle mafie locali di ogni genere, sotto gli occhi indifferenti dei militari. In settembre, per dissociarsi da queste violenze, l’Esercito Islamico della Salvezza annuncerà il cessate il fuoco.

Fino al luglio 1993, l’uomo forte del regime, l’ispiratore dell’iniziativa anti-legalitaria del 1992, era stato il generale Khaled Nezzar; ma l’anti-islamismo intransigente aveva il suo punto di riferimento nel generale Mohammed Lamari, comandante delle forze speciali antiterroriste. Impossibilitato per motivi di salute ad assumere in prima persona la direzione del regime, Nezzar aveva richiamato dalla pensione per affidargli il ministero della Difesa il generale Lamine Zéroual, un ufficiale rispettato per il suo passato di nazionalista, già vice-capo di Stato maggiore in sintonia con le decisioni prese dalle alte sfere militari nel biennio 1991-92. La maggior parte dei capi militari erano irriducibilmente ostili all’arrivo al potere del FIS, ma non chiudono del tutto le porte ai partiti islamici moderati rivali del FIS come Hamas, un acronimo di Movimento della Resistenza Islamica fondato da Mahfoud Nahnah, da non confondere con il suo omonimo palestinese, e come Ennhada, il Partito della Rinascita Islamica fondato da Abdallah Djaballah. Queste ultime formazioni politiche, nate alla fine del 1990, parlavano entrambe di "dialogo", accreditandosi come forze democratiche che rifuggivano da ogni apologia della violenza.

Per annientare i gruppi armati verranno mobilitati 120mila uomini delle tre armi e della polizia. Agli attentati islamisti l’esercito risponderà attuando una repressione sempre più feroce: promulga un decreto anti-terrorismo; crea tre corti speciali di giudizio; abbassa a 16 anni l’età della responsabilità penale; istituisce "unità speciali" anti-terrorismo; instaura il coprifuoco; procede a massicci arresti di "sospetti"; generalizza l’uso della tortura e delle esecuzioni extra-giudiziarie, moltiplica le condanne a morte nei processi a porte chiuse. Sparizioni e massacri di prigionieri non si contano.

Nonostante la disastrosa situazione economica e politica, il 4 gennaio 1993 Michel Camdessus, direttore generale dell’FMI, dichiarava che "l’Algeria è vicina alla ripresa di una crescita continua", proprio mentre ad Algeri e dintorni venivano dislocati 15.000 uomini e altri 12.000 nel "triangolo del terrore" (Blida, Lakhdaria, Berrouaghia). Alla fine dell’estate, tra 5.000 e 15.000 simpatizzanti del FIS finirono nei campi di detenzione, vere e proprie tendopoli dove agli internati venivano imposti abiti afgani e pantaloni a sbuffo alla turca, mentre i dirigenti furono in un primo tempo rinchiusi nella prigione di Reggane e in seguito trasferiti a Oued Namour e Ain M’guel, lontani da tutto. Nell’aprile 1994, a seguito dell’accordo tra Algeri e l’FMI per un riscaglionamento del debito e la contestuale svalutazione del dinaro, il regime reperirà le risorse finanziarie sia per l’acquisto di materiale bellico più adatto alla guerriglia (elicotteri Ecureuil francesi, sistemi di visione notturna, ecc.) sia per aumentare la paga delle truppe.

Terrorismo di Stato e terrorismo islamico si alimentano a vicenda. Su entrambi i campi pesa evidentemente il gioco delle potenze straniere, in particolare la rivalità in atto tra Francia e Stati Uniti per il controllo politico ed energetico dello spazio maghrebino, dopo che la guerra del Golfo ha confermato il Vicino Oriente sotto l’influenza americana.

Stretta fra crisi economica ed esplosione sociale, bloccata dalla guerra terroristica che oppone il clan al potere ai gruppi islamisti, Algeri ha il coltello alla gola. Non ha altra scelta che gettarsi tra le braccia del Fondo Monetario, che esige una soluzione negoziata con il FIS. Dopo mesi di repressione di massa e di feroce terrorismo, nel settembre 1994 spunta di nuovo l’ipotesi di un tentativo di conciliazione; dopo estenuanti trattative condotte tra i capi del FIS e il generale Zéroual, i due principali dirigenti islamici, Madani e Belhadj, vengono scarcerati e messi agli arresti domiciliari. Ma già alla fine di ottobre i negoziati si interrompono e i due ritornano in galera. I negoziati si arenarono formalmente per la reciproca intransigenza delle parti su alcune pregiudiziali: la rinuncia alla lotta armata da una parte e il ripristino della legalità democratica dall’altra. Fallì così ancora una volta il tentativo di addomesticare e cooptare al potere il FIS, dietro a cui si stagliavano le masse sedotte dalle sue parole d’ordine demagogiche. La strategia dell’esercito era chiaramente volta a indebolire militarmente il FIS e i gruppi armati per poter negoziare da una posizione di forza. Come scrive Le Monde Diplomatique nel numero di ottobre 1995: «Per gli uni come per gli altri, il potere è un bottino di guerra, non un’istituzione pubblica».

Nel novembre 1994 e nel gennaio 1995 hanno luogo a Roma due incontri su iniziativa dei partiti politici algerini e sotto l’egida della Comunità cattolica di Sant’Egidio. Quest’ultima è un’Associazione "cattolica e laica senza scopo di lucro", fondata nel 1968 a Roma da giovani rampolli della borghesia romana per "aiutare i poveri della città" nello spirito del recente Concilio Vaticano II. Conta 30.000 aderenti e lavora a stretto contatto con altre "organizzazioni umanitarie" soprattutto in Africa e in America Latina. Ma si distingue per una intensa attività diplomatica e mediatrice, come quella che ha posto fine al conflitto fra Frelimo e Renamo in Mozambico. Gli incontri si tengono in genere nella sede dell’Associazione dove si alternano i rappresentanti delle varie fazioni in conflitto e i rappresentanti degli Stati imperialisti. Il fondatore della Comunità, professore di storia all’università di Roma, pranza spesso con il Papa "in tutta semplicità".

L’iniziativa algerina riesce a portare a Roma otto organizzazioni politiche favorevoli all’accordo, tra cui i rappresentanti del FIS Rabah Kebir e Anouar Haddam, il rappresentante dell’FLN Abdelhamid Mehri, la rappresentante del Partito dei Lavoratori Louisa Hanoun, il Movimento della Rinascita Islamica, la Lega algerina di difesa dei diritti dell’uomo, oltre ai redivivi Ben Bella e Hocine Ait Ahmed. Da parte sua, il governo algerino rifiuta l’invito accusando gli italiani di ingerenza negli affari interni dell’Algeria. Al termine dei lavori viene sottoscritta una Piattaforma per una soluzione politica della crisi che prevede un periodo di transizione – da gestire collettivamente con il governo – in vista di elezioni libere e pluraliste. Tra le richieste avanzate nella Piattaforma spiccano: la liberazione dei responsabili del FIS e di tutti i detenuti politici; l’annullamento della decisione di scioglimento del partito; la cessazione delle pratiche di tortura; la condanna e l’appello per la cessazione delle estorsioni e degli attentati contro civili e stranieri; il rifiuto della violenza "come mezzo per conquistare o per restare al potere"; il non coinvolgimento dell’esercito negli affari politici.

La Piattaforma conferma l’evoluzione del FIS verso una sempre più netta separazione dagli estremisti radicali e l’accettazione del pluripartitismo. Il patto di Roma fu difeso da Belhadj e Hanouchi, ma osteggiato dall’Esercito Islamico della Salvezza. I GIA lo condannarono nettamente ribadendo il loro "attaccamento alla creazione di un califfato attraverso la lotta armata". Anche il governo di Algeri si dimostrò ostile alla Piattaforma, respingendola "nella sua totalità e nei dettagli": i militari puntavano ormai sulla repressione e sulla vittoria delle armi.

Il 30 gennaio 1995, antivigilia dell’inizio del Ramadan, di fronte al commissariato centrale di Algeri lo scoppio di un’auto imbottita di esplosivo provoca 42 morti e 286 feriti. Il Ramadan è funestato da numerosi attentati diretti soprattutto contro intellettuali, oltre che da una carneficina avvenuta nella prigione di Serkadji, dove il 21 febbraio, per reprimere un ammutinamento, le forze di sicurezza uccisero un centinaio di detenuti. Ufficialmente, all’origine della rivolta c’era il progetto di evasione fomentato dai GIA con la complicità di un secondino. In un rapporto del sindacato nazionale degli avvocati si parla invece di un massacro deliberato perché a molti detenuti fu dato il colpo di grazia dopo la fine dell’assalto delle forze dell’ordine. Diversi detenuti erano stati trasferiti a Serkadji nelle settimane immediatamente precedenti. Abdelkader Hachani, massimo dirigente del FIS, detenuto nella prigione al momento dei fatti, si era attivato con una cellula di crisi per negoziare con le autorità. Ma, nonostante il suo diretto coinvolgimento, il tribunale incaricato di giudicare i fatti non ritenne utile interrogarlo. Il tutto si concluse con la condanna a morte di un guardiano con l’accusa di complicità nella rivolta. Qualche anno dopo Hachani ha denunciato il processo-farsa in una intervista: «Per quanto ho personalmente visto nel corso del massacro, è ampiamente confermata l’ipotesi di una messinscena mirante all’eliminazione del maggior numero di detenuti. La verità è che avevo proposto alle autorità una soluzione pacifica quando il numero delle vittime era ancora di poche unità. Per la maggior parte i detenuti erano rientrati nelle loro celle (...) All’inizio c’è stato un massacro collettivo e indiscriminato con l’uso di armi pesanti, poi le vittime sono state individualmente cercate e soppresse sulla base di una lista nominativa. Una quarantina di detenuti che si erano arresi sono stati raggruppati tutti insieme e mitragliati. Ai feriti (da venti a trenta) è stato dato il colpo di grazia. Una quindicina di detenuti sono stati a tal punto dilaniati da rendere impossibile la loro identificazione» (Le Monde, 13 gennaio 1998). Secondo la difesa, invece, "il processo non aveva ragion d’essere poiché i veri autori dell’ammutinamento erano stati uccisi durante l’assalto".

Nel marzo 1995 l’AIS, per rimpiazzare i capi del movimento incarcerati, nomina "emiro nazionale" ad interim il capo del maquis Madani Merzag, che appena eletto esprime a Zéroual il proprio impegno ad opporsi con la forza alle violenze dei gruppi armati. Ma nonostante la rinuncia dell’AIS alla lotta armata la repressione si intensifica, vanificando qualsiasi tentativo di negoziato. Le organizzazioni politiche, sindacali e culturali sono per lo più contrarie alla trattativa con gli islamici e quindi anche all’accordo di Sant’Egidio, ma la maggioranza dell’FLN opta per la strategia del compromesso perché la reputa più adatta per frenare e orientare il movimento islamico e la sua forte componente popolare: una tattica ben conosciuta dai borghesi nostrani! Gli anti-islamisti in nome della democrazia in pericolo sono pronti da parte loro ad accettare la protezione della dittatura militare, giustificando ancora una volta i più efferati massacri di proletari in nome della lotta della Democrazia contro la barbarie! Si tratta della medesima farsa fascismo-antifascismo da noi tante volte sbugiardata, una delle armi più potenti nelle mani della borghesia per fuorviare l’iniziativa delle masse.
 
 

4. Farsa democratica fra massacri e crisi economica

A partire dal 1995 il governo algerino organizza all’ombra delle baionette una parvenza di democrazia a colpi di referendum e di elezioni formalmente libere. Il primo passo fu l’annuncio dell’elezione del presidente della Repubblica, fissata per il mese di novembre 1995, annuncio che fu accolto criticamente dai firmatari della Piattaforma di Roma, i quali fecero sapere che avrebbero boicottato la consultazione. La vigilia elettorale non fu delle più tranquille: il 2 settembre l’esplosione di un’auto-bomba contro una caserma della polizia nei pressi di Algeri provocò una decina di morti; il 28 venne assassinato Aboubakr Belkaid, ex ministro e membro influente dell’organizzazione dei mujaiddin. Il FIS si schierò a favore del dialogo tra governo ed opposizione. Nei quindici giorni precedenti lo scrutinio ci fu un’inattesa bonaccia che illuse molti algerini di essere finalmente giunti alla fine del tunnel. Ma dopo le elezioni le violenze riprenderanno con lena rinnovata in un crescendo di attentati, di uccisioni e di militari e di civili, di repressione sempre più feroce da parte delle forze dell’ordine.

Il governo, benché impopolare, riesce a mobilitare le folle ponendosi quale unica alternativa al caos. A garanzia degli elettori viene predisposto un imponente dispositivo militare forte di 300mila uomini armati tra militari, gendarmi, poliziotti, guardie comunali e gruppi di autodifesa. I candidati sanno toccare le corde giuste del nazionalismo. La stampa trasforma il rifiuto di Zéroual di incontrare il presidente francese Chirac, incontro già programmato a New York in sede Onu, in una vittoria dell’Algeria sulla Francia. Zéroual per succedere a se stesso – a dimostrazione del totale controllo dell’esercito – deve competere con tre altri candidati: l’islamico moderato Mahfoud Nahnah, leader di Hamas; il presidente del Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia (RCD) Said Saadi, forte in Cabilia e ostile al dialogo con gli islamici; Noureddine Boukrouh, candidato del Partito del Rinnovamento Algerino, nazionalista e islamico. Al primo turno del 16 novembre Zéroual totalizza il 61% dei voti espressi rendendo inutile il ricorso al secondo turno (Nahnah incassa il 25% dei suffragi, Saadi poco più del 9%). Malgrado le minacce dei GIA e il boicottaggio dei partiti della Piattaforma di Roma (FIS, FFS, FLN), la partecipazione complessiva al voto è del 75% (quasi 12 milioni su 16 milioni di aventi diritto). Evidentemente queste cifre vanno prese con beneficio d’inventario visto il clima di repressione in cui si sono svolte le consultazioni, con militanti dell’opposizione arrestati, giornali imbavagliati, seggi scarsamente sorvegliati.

A due mesi dalle elezioni, con un provvedimento di "clemenza" viene chiuso il campo di prigionia di In M’guel e liberate le 641 persone lì detenute dal febbraio 1992. In compenso, rimane avvolta nel mistero la sorte dei 17.000 algerini imprigionati per attività terroristiche, la maggior parte dei quali senza processo. Non fanno eccezione i dirigenti: Abdelkader Hachani è detenuto da quattro anni senza processo nella prigione di Serkadji, mentre Madani e Belhadi sono tenuti prigionieri in una località ignota.

I conciliaboli più o meno segreti in corso tra il gruppo dirigente del FIS e il governo gettano altra benzina sul fuoco delle divergenze esistenti all’interno del movimento islamico. Intanto l’FLN si distacca gradualmente dalla coalizione dell’opposizione e nel gennaio 1996 si dà una nuova direzione estromettendo il segretario generale A. Mehri, il principale difensore del Patto di Roma, a favore del conservatore Abdelhak Benhamouda, dirigente dell’UGTA. Probabilmente si sta preparando su misura per Zéroual quel partito-Stato che dal 1962 costituisce l’ossatura del potere.

Comunque il terrorismo continua a servire da alibi per eliminare gli oppositori troppo recalcitranti. La direttrice di La Nation, giornale vicino alla corrente riformista dell’FLN, conclude così un suo articolo: «Sostenuta da un certo numero di parner occidentali, questa strategia politica favorirà sicuramente il decollo del piano di aggiustamento strutturale caldeggiato dall’FMI, con la conseguenza da una parte di accelerare la pauperizzazione della popolazione, in primis degli strati deboli e delle classi medie, e dall’altra di rafforzare una borghesia emergente grazie alla rendita petrolifera e alla corruzione. Imbavagliata in nome della lotta antiterrorista e privata di rappresentanti credibili liberamente scelti, la società algerina rischia di non avere altra alternativa che il ricorso alla violenza – disperata – delle rivolte» (citato da Le Monde Diplomatique, febbraio 1996). Qui una delle chiavi dell’escalation di terrore contro le masse.

Il 5 gennaio 1996, il nuovo capo di governo scelto da Zéroual presenta la lista dei ministri in cui, per la prima volta dal 1962, entrano a far parte, anche se in posti subalterni, quattro rappresentanti dell’opposizione legale: due membri di Hamas, un dissidente dell’ex-FIS e un rappresentante del Partito del Rinnovamento Algerino. Nonostante il persistere delle violenze anche durante il Ramadan, una delle prime misure del nuovo governo sarà la sospensione del coprifuoco.

Scrive Le Monde diplomatique nel dicembre 1996: «I massacri e le "sparizioni" si moltiplicano e la tortura è praticata sistematicamente nei commissariati, nelle caserme e nelle carceri. A questo riguardo, la lettura del recente rapporto di Amnesty International sulle violazioni dei diritti umani in Algeria non può essere definita che allucinante. Questa guerra è occultata all’opinione pubblica dalla ferrea censura imposta dal potere. Un potere che tenta di portare avanti un programma ultraliberista ispirato dalla Banca Mondiale e dall’FMI, nel tentativo di rassicurare gli investitori stranieri e accreditare l’idea che la normalizzazione sta avanzando di buon passo e che il terrorismo sia ormai "residuale". I cittadini, stretti nella morsa delle due violenze, implorano le forze politiche di giungere a un accordo che garantisca la pace e permetta di uscire dal disastro economico. In guisa di risposta, Zéroual avanza la proposta di modificare la Costituzione del 1989 attraverso un referendum. Se il referendum passa, i poteri e le prerogative del presidente saranno a tal punto accresciuti da trasformarlo, a giudizio di taluni giuristi, in un vero e proprio "imperatore repubblicano". È prevista la creazione di una Camera Alta i cui membri saranno designati, direttamente o indirettamente, da Liamine Zéroual, il cui obiettivo è quello di controllare la futura Assemblea nazionale. L’Islam è dichiarato "religione di Stato", ma i partiti politici non potranno più richiamarsi esplicitamente alla religione. In questo modo il FIS sarà messo da parte, creando però imbarazzo anche per le due formazioni islamiche moderate alleate al potere, Hamas e Ennahda, che dovranno modificare i loro statuti prima delle prossime legislative. Infine l’arabo è ormai l’unica "lingua nazionale", mentre il tamazigh (berbero) non gode dello stesso status. In linea di principio, i cittadini dovrebbero essere chiamati ad eleggere i deputati dell’Assemblea nazionale tra aprile e giugno del 1997 (il mandato dell’attuale Consiglio nazionale di transizione, organo non eletto facente funzione di Assemblea, scadrà nel marzo 1997). In maggioranza, le grandi forze politiche – il Fronte delle Forze Socialiste (FFS), il Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia (RCD), il Movimento per la Democrazia in Algeria (MDA) di Ahmed Ben Bella, l’Ettahadi (ex comunista), il trotzkista Partito dei Lavoratori (PT) di Louisa Hanoune, ecc., oltre a numerose personalità tra cui Adelhamid Mehri (ex-capo dell’FLN), Mouloud Hamrouche (ex primo ministro, padre della Costituzione del 1989 e capo della corrente di rinnovamento in seno all’FLN e Abdennour Ali Yahia (presidente della Lega algerina dei diritti umani) – si sono pronunciati contro il referendum, ritenendo che sarebbe stato più democratico procedere prima alle elezioni legislative, per poi affidare al parlamento eletto il compito di redigere una nuova Costituzione da sottoporre all’approvazione popolare. Ma il potere voleva avere tutte le carte in mano per affrontare nelle migliori condizioni la scadenza delle legislative della prossima primavera, e premunirsi contro le peripezie di un’eventuale coabitazione. Il rischio è reale, dato che a parte alcune piccole formazioni, Liamine Zeroual può contare solo su un ristretto numero di alleati per costituire una maggioranza presidenziale: l’FLN, ripreso in mano da Boualem Ben-hamouda, l’Alleanza Nazionale Repubblicana (ANR) di Rédha Malek, il Partito del Rinnovamento Algerino (PRA) di Noureddine Boukhrouh, ai quali si aggiungerebbe sicuramente Hamas di Mafoud Nahnah e forse anche Ennahda di Abdallah Jaballah. Sull’altro versante, la coalizione dell’opposizione raccoglierebbe tutti i firmatari del recente appello per la pace (comparso sul La Nation del 17 novembre), compreso il FIS, che rimane la principale forza politica. Con i voti del suo elettorato, questa coalizione potrebbe prevalere imponendo la coabitazione a Liamine Zéroual. Ma anche in questo caso la situazione non cambierebbe di molto. Il potere resta gelosamente controllato dall’esercito, il quale è disposto ad accettare, per il suo maggior profitto economico e per quello delle mafie di cui si circonda, che nel paese si instauri una situazione "colombiana" (in Colombia, dal 1960 gli scontri tra l’esercito, i guerriglieri e i gruppi paramilitari provocano ogni anno circa 15.000 vittime) e che gli scontri tra le forze dell’ordine, i guerriglieri islamici e le milizie di patrioti continuino a provocare ogni anno migliaia di morti violente». Il giornale valuta in 50mila il numero dei morti provocati finora dagli attentati indiscriminati dei gruppi fondamentalisti islamici e dalle esecuzioni sommarie perpetrate dalle forze dell’ordine e dai sempre più numerosi gruppi di autodifesa, armati e incoraggiati dalle autorità.

La regola d’oro sempre seguita dalle classi dominanti sotto tutti i climi è: governare con il terrore quando la situazione sociale non può più essere controllata attraverso gli escamotages democratici.

Il 28 novembre 1996 gli elettori sono dunque chiamati ad un plebiscito per la nuova Costituzione. La partecipazione al voto si attesta ufficialmente intorno all’85% dell’elettorato, ma l’opposizione grida al broglio. Le Monde Diplomatique commentando il referendum parla di un secondo colpo di Stato dopo quello del gennaio 1992, quando, dopo la vittoria del Fronte Islamico di Salvezza, le forze armate avevano sospeso le elezioni legislative e costretto alle dimissioni il presidente Chadli Bendjedid.

Il rifiuto da parte del regime di una soluzione politica sulla base della Piattaforma di Sant’Egidio e la scelta invece della repressione a tutto campo e dell’arabizzazione ad oltranza provoca una recrudescenza delle violenze durante il Ramadan (febbraio 1997). Alle tragedie ordinarie nei quartieri popolari colpevoli di aver votato per il FIS si viene così ad aggiungere un delirante aggravamento della guerra caratterizzato da sgozzamenti e attentati a base di auto imbottite di esplosivo. Non sono pochi quelli che dietro gli attentati vedono la lunga mano della Sicurezza militare. Ma la giunta di Algeri continua a godere dell’appoggio delle potenze occidentali, i cui crediti ed investimenti consentono al regime il proseguimento della "sporca guerra" e la preparazione delle elezioni per il parlamento. Nel mese di marzo viene approvata dal Consiglio nazionale provvisorio, a scadenza di mandato, la legge elettorale che introduce il proporzionale al posto dello scrutinio maggioritario su due turni. Secondo la nuova legge, il primo parlamento sarà formato da due Camere per un totale di 524 seggi. Gli emigrati all’estero potranno eleggere 8 deputati, mentre la sola Algeri, la capitale, ne eleggerà 24. La Camera bassa (380 seggi) tutta a composizione elettiva, potrà essere censurata dalla Camera alta (144 seggi, di cui un terzo designati direttamente dal presidente).

Zéroual si presenterà alle elezioni con un suo partito, creato in tutta fretta, il Raggruppamento Nazionale per la Democrazia (RND), la cui ossatura è costituita da personalità provenienti dall’influente organizzazione nazionale dei mujahiddin. Intanto, a poche settimane dal voto, nel corso della riunione di Madrid del 12-13 aprile 1997, le forze di opposizione algerine, tra cui il FIS, lanciano al governo la proposta per un incontro di riconciliazione nazionale. Benchè divisi sulla partecipazione al voto (l’FFS e il Partito del lavoro parteciperanno alle elezioni, mentre l’MDA di Ben Bella e il FIS chiameranno al boicottaggio), i firmatari della Piattaforma di Roma condividono l’analisi che solo attraverso una soluzione politica si può uscire dall’attuale spirale di violenza. Il FIS, nella persona del suo portavoce all’estero Abdelkrim Adda, condanna nella maniera più esplicita non soltanto la "cieca repressione" del potere, ma anche le violenze dei "criminali dei GIA" perpetrate nei confronti di civili e di innocenti. Ma il regime – che ha preparato delle elezioni ad hoc – rifiuta ogni concessione, contando evidentemente sul fatto che la buona congiuntura economica e il terrore getteranno facilmente nelle sue braccia una popolazione già stremata dalle privazioni e dalle violenze quotidiane.

Alle consultazioni il partito di Zéroual otterrà il 33% dei voti (155 seggi su 380); il Movimento della società per la pace (HMS), la nuova denominazione di Hamas, e l’FLN otterranno ciascuno circa il 14% dei voti e rispettivamente 69 e 64 deputati; a Ennahda andranno l’8% dei voti e 34 seggi, mentre ai due partiti berberisti (FFS e RCD) circa il 4% dei voti e 19 deputati ciascuno. Gli stessi risultati si ripeteranno – con poche variazioni a vantaggio di Zéroual, che gode dell’appoggio dell’Amministrazione, del Sindacato e della stampa – nelle successive elezioni amministrative dell’ottobre 1997, anche se tutti i partiti denunceranno brogli e irregolarità nel voto. Il ciclo elettorale si chiude nel dicembre 1997 con l’elezione dei due terzi del Consiglio di Stato (Camera Alta) attraverso il suffragio di 15.000 grandi elettori. Dei 96 seggi su base elettiva, 80 se li aggiudica il partito di Zéroual. Il Consiglio – che resta in carica 6 anni – è uno strumento di controllo dei deputati, una specie di Senato che ha l’ultima parola su ogni testo legislativo che prima della definitiva adozione deve ottenere la maggioranza dei tre quarti del Consiglio. In altre parole: chi controlla questo super-Senato controlla di fatto il potere legislativo. La Camera Alta completa "l’edificio istituzionale della Repubblica algerina" e rappresenta la ciliegina sulla torta del progetto di ricostruzione istituzionale finalizzato a cancellare il colpo di Stato militare del gennaio 1992.

Per raggiungere lo scopo non si è lesinato sui mezzi: brogli elettorali, pressioni di ogni genere sugli elettori (non esclusa l’arma del terrorismo soprattutto contro gli ex-elettori del FIS), eliminazione degli oppositori. «In un tale sistema, da dove può venire la contestazione? Dal potere giudiziario? Ma esso non manifesta troppe velleità di indipendenza a parte il lavoro oscuro di un pugno di avvocati. Dal movimento sindacale? Oramai pochi salariati si riconoscono nell’UGTA che, totalmente compromesso col potere, ha perduto ogni credibilità agli occhi della popolazione, senza che però nessun’altra organizzazione alternativa venga tollerata. Dai partiti politici? Il FIS non esiste più (...) Assassinati, esiliati, incarcerati o costretti al silenzio, i suoi dirigenti non hanno quasi più presa sulla vita politica. Quanto all’alleanza tra FFS e RCD, accomunati nel denunciare i brogli nelle elezioni locali, essa è durata il tempo di qualche manifestazione. Troppe rivalità dividono i dirigenti di questi due partiti la cui influenza resta peraltro limitata alla Cabilia e all’agglomerato di Algeri. Insomma, il potere non ha niente da temere da una contestazione ufficiale. Esso dispone di tutte le leve di comando» (Le Monde, 27 dicembre 1997).

La normalizzazione politica è stata una vera e propria parodia voluta dai partner commerciali dell’Algeria per rassicurare i propri elettori. Che diamine! Le pacifiche democrazie occidentali non possono mica scendere a patti con i dittatori! Ma restano pur sempre da spiegare i reiterati massacri contro le masse algerine. Come scrive Le Monde il 27 dicembre 1997 ½in Algeria la normalizzazione politica si sta realizzando all’ombra dei massacri!»

In effetti, a partire dall’estate del 1997, una sorta di tempesta di morte si è abbattuta su un paese già martirizzato da anni di violenze. L’apertura della mattanza collettiva coincide con la liberazione del capo storico del FIS Abassi Madani avvenuta il 18 luglio, dopo 6 anni di carcerazione. Già l’indomani 56 persone venivano sgozzate in una località a 50 chilometri a sud-ovest di Algeri; il 30 luglio 100 morti nei dipartimenti di Ain Defla (un centinaio di chilometri ad ovest della capitale) e di Blida (città a sud-ovest della pianura della Mitidja); il 3 agosto, nelle stesse zone, 111 morti; il 17 agosto, 117 morti nella periferia e nel centro di Algeri, e nei douar di El Bordj, nei pressi di Tlemcen, a 500 chilometri da Algeri, verso la frontiera marocchina; il 29 agosto, da 200 a 300 morti nella località di Rais, nella pianura della Mitidja, a pochi chilometri da Algeri; il 23 settembre, oltre 250 morti nella località di Benthala, nelle vicinanze di Rais; il 24 dicembre, da 80 a 100 morti nella regione di Tiaret, 200 Km ad ovest di Algeri. L’inizio del Ramadan non mette fine alle violenze. Il 30 dicembre, da 70 a 400 morti (a seconda delle versioni) in tre villaggi nella zona di Relizane, 300 chilometri ad ovest di Algeri; il 4 gennaio, eccidi nella zona di Medea, 100 chilometri a sud della capitale, e a Saida e Tlemcen, a ovest; nella notte tra il 4 e il 5 gennaio, massacri e razzie nei pressi di Had Chekala, sui monti dell’Ouarsenis, un centinaio di chilometri a sud-ovest di Algeri, dove vengono attaccati 24 villaggi mentre la popolazione si dà alla fuga, incurante dei razziatori (si parla di 500 morti e di 200 famiglie asserragliate nelle moschee e nei locali commerciali). I monti dell’Ouarsenis sono di difficile accesso e noti per l’appoggio dato al FIS. I massacri colpiscono essenzialmente la zona occidentale del paese, il popoloso agglomerato di Algeri e la fertile piana della Mitidja dove c’è una forte presenza delle milizie di autodifesa.

Il 30 dicembre il giornale El Watan si chiede perplesso: «Come può un gruppo di terroristi, formato da molte decine di elementi, muoversi in piena libertà, spesso all’interno di zone altamente controllate dalla Sicurezza, come è il caso di Staoueli, teatro in questi ultimi giorni di diversi attentati?». Staoueli si trova infatti in prossimità del Club dei Pini, la residenza di Stato sotto alta protezione, dove vivono i quadri del regime. A Benthala, città sorvegliata dall’esercito perché ritenuta un feudo islamico, stranamente la notte del massacro l’esercito non si è mosso. A questo proposito, Le Monde (10 ottobre 2000) ha pubblicato la testimonianza di un sopravvissuto agli eccidi che parla di soldati travestiti da islamici. Già il 25 dicembre 1997 un comunicato dell’FFS di Hocine Hait Ahmed chiamava direttamente in causa la responsabilità del regime, denunciando che negli ultimi tempi l’unico periodo di calma nell’algerinese «è coinciso con le elezioni locali», a conferma che «quando il potere se ne dà i mezzi, il livello di violenza può essere notevolmente ridotto». Per l’FFS le autorità sono quindi colpevoli di «mancata assistenza alla popolazione in pericolo».

Scrive il quotidiano francese Liberation il 12 gennaio 1998: «Nel corso degli anni a causa della guerra i douar della regione (i monti dell’Ouarsenis) sono stati abbandonati da chi aveva qualche mezzo per poterlo fare. Sono rimasti soltanto i più poveri, costretti a convivere con i partigiani dell’Esercito Islamico della Salvezza, da cui si aspettavano protezione. Ma il cessate il fuoco decretato dal braccio armato del FIS in settembre, potrebbe aver provocato la furia omicida e le rappresaglie dei GIA, col risultato che ora gli scampati ai massacri sono completamente abbandonati a se stessi. Nella regione non è visibile alcuna presenza militare. L’unico posto di blocco dell’esercito è sistemato ad Ami Moussa. A Souk el-Had, su un terreno abbandonato, sono comparse una trentina di baracche in lamiera e legno. Mercoledì scorso, a Djedouia, i miliziani rimandavano indietro tutti quelli che venivano a chiedere aiuto alla gendarmeria. Gli scampati sono amareggiati per il comportamento delle autorità locali (il prefetto si è limitato ad una apparizione in automobile all’indomani dei massacri). Il silenzio delle autorità, denunciato da tutta la stampa indipendente algerina, è assordante. La Croce Rossa algerina ha annunciato l’invio di 50 tonnellate di aiuti nei douar colpiti solo dopo l’intervento europeo. La televisione nazionale, dopo un reportage sui primi eccidi e la messa in onda di alcune testimonianze di sopravvissuti alle carneficine di Rais e Benthala, si è letteralmente dileguata».

Dopo gli ultimi eccidi, la stampa e i governi occidentali improvvisamente si svegliano dal lungo letargo, denunciando il "caos" algerino e accusando lo Stato di "passività", dopo che per anni ne hanno ignorato le innumerevoli prevaricazioni. In occidente la stampa al completo – radio, televisione, giornali – si accanisce nell’enumerare il numero dei morti e nel descrivere, con sospetto zelo mediatico, i corpi torturati dei bambini, delle donne e dei vecchi. Le sofferenze dei superstiti vengono esibite sugli schermi con accompagnamento dei discorsi edificanti di politici e intellettuali di sinistra! Chi uccide in Algeria e perché? I fondamentalisti islamici? Il potere? Entrambi contemporaneamente? Questo il dibattito che propongono in tutte le salse gli "esperti in massacri". È forte il sospetto di essere di fronte ad una manipolazione mediatica del genere di quella del "macellaio di Timisoara" del dicembre 1989, che in seguito si rivelò essere una manovra diretta contro la Securitate romena, oppure a una riedizione dello spettacolo allestito all’epoca dei genocidi in Ruanda. Come allora, si riscontra la stessa apatia da parte degli spettatori che assistono alla storia come a un episodio di una serie poliziesca di cui non si è ancora scoperto l’assassino. Ma la stampa, come sempre fedele portavoce della borghesia al potere, dimentica in fretta che fino a ieri aveva sistematicamente associato il terrorismo all’islamismo, eletto nemico giurato della "democrazia" e della "modernità".

L’improvvisa logorrea della stampa occidentale sulla situazione algerina va di pari passo con le prese di posizione – altrettanto inusitate – delle diplomazie. Il 3 gennaio 1998, l’Iran invita il mondo musulmano ad uscire dall’indifferenza denunciando contemporaneamente il silenzio delle organizzazioni internazionali (va ricordato che l’Algeria dal 1993 ha rotto i rapporti diplomatici con l’Iran). Il 4 gennaio la Germania, appoggiata dal presidente del Consiglio italiano, chiede all’Unione Europea una riunione straordinaria sull’Algeria. Nello stesso momento gli Usa avanzano la proposta di un’inchiesta internazionale che faccia luce sulle ragioni del non intervento dell’esercito durante i massacri avvenuti nei dintorni di Algeri. Il 5 gennaio finalmente anche la Francia si associa alla richiesta tedesca: «Il dovere di ogni governo è quello di permettere ai suoi cittadini di vivere in pace e sicurezza», dichiara il portavoce del Quai d’Orsay, dichiarazione che Algeri giudica "inaccettabile", ma tace sulle richieste tedesca e americana.

La Francia, fin dall’inizio della guerra civile in Algeria, ha condotto una politica apparentemente poco coerente, basata su tre principi: restrizione dei visti e dei permessi di soggiorno; assistenza economica allo Stato algerino; riduzione al minimo dei contatti ufficiali. Non bisogna però dimenticare che in Francia vivono tre milioni di algerini. D’altra parte, lo Stato algerino sa bene, malgrado qualche "sceneggiata" spettacolare, di avere l’appoggio del suo protettore storico, lo Stato francese. Tant’è vero che fin dal 1994 i GIA avevano minacciato di "colpire pesantemente gli interessi francesi" se Parigi non avesse ritirato il suo sostegno al regime. Ma l’aiuto finanziario al potere algerino non è venuto mai meno, e la Francia resta di fatto il primo partner commerciale dell’Algeria.

L’8 gennaio 1998, il governo algerino si dichiara disposto ad una cooperazione con l’Europa contro il terrorismo, pur rimproverando gli europei di dare asilo alle reti terroristiche dei GIA. La troika europea, composta dai segretari di Stato di Austria, Gran Bretagna e Lussemburgo, arriverà ad Algeri per una visita di 24 ore! A cosa è dovuto l’improvviso interesse per le sofferenze delle masse algerine da parte dei rapaci politici occidentali? Perché tante lacrime di coccodrillo, dal momento che tutti hanno intrallazzato sia con il clan al potere sia con i vari gruppi dell’opposizione, ivi comprese le organizzazioni islamiche più violente? I governi inglese, tedesco, svedese, francese, americano hanno dato asilo ai "rifugiati" di ogni colore, secondo il classico principio della diplomazia imperialista: dividere per meglio imperare sui paesi da spolpare. In Algeria, infatti, i profitti degli affaristi occidentali vanno a gonfie vele. Le scoperte di nuovi giacimenti di idrocarburi nel Sud del paese e lo sfruttamento più razionale dei vecchi ad opera della Sonatrach e di altre compagnie internazionali suscita una infatuazione generale per dell’Algeria.

Le Monde del 9 gennaio riporta la testimonianza di un "intellettuale di sinistra", simpatizzante per il regime e avverso agli islamici, secondo il quale gli eccidi perpetrati nella piana della Mitidja presentano alcune singolarità: a Larbaa, roccaforte del FIS nel 1991, gli attacchi del 28 e del 31 luglio furono rivolti contro un solo quartiere e gli assalitori chiamavano gli uomini per nome prima di sgozzarli; a Benthala furono completamente sterminate otto famiglie sospettate di aver ricevuto aiuti dal FIS negli anni 1988-91; a Rais i capi dei massacratori, vestiti all’afgana, erano accompagnati da alcune donne che segnalavano loro le abitazioni delle vittime, mentre tra gli uccisori furono riconosciuti alcuni giovani del posto.

Checché ne pensi il nostro intellettuale antifascista, il terrorismo islamista ha sicuri legami, diretti o indiretti, con il terrorismo organizzato dal clan al potere. La spettacolare evasione nel marzo 1994 di un migliaio di prigionieri dal penitenziario di Lambeze fece affluire centinaia di reclute nei ranghi dei GIA della Mitidja e di Jijell, nell’est del paese. Le circostanze straordinarie in cui avvenne l’evasione in massa fa pensare come minimo a una connivenza delle forze di sicurezza. Prove e testimonianze di ex-agenti della Sicurezza militare apparse successivamente sui quotidiani Le Monde e The Indipendent dimostrano la partecipazione attiva del potere algerino agli episodi di violenza allo scopo di ottenere dalle borghesie internazionali aiuti materiali e finanziari per "la lotta al terrorismo".

Caso strano, nell’Algeria "utile" la guerra non è arrivata se non di striscio: qualche azione dimostrativa contro i gasdotti, alcuni furti di veicoli, rare interruzioni di linee elettriche. Ad Arzew, terminale di sei gasdotti della Sonatrach, l’operazione ideologica portata avanti dagli islamici per la restituzione al popolo delle ricchezze nazionali accaparrate dall’oligarchia sfociò alla fine degli anni ’80 in un grande sciopero. Naturalmente lo sciopero fu duramente represso e alla repressione seguirono massicci licenziamenti e ricatti alle famiglie, oltre che ricompense per gli operai più docili. La sicurezza degli impianti viene assicurata da dispositivi molto sofisticati a base di sbarramenti militari ed enormi muri sormontati da filo spinato che cingono ermeticamente la zona industriale. All’interno, ogni complesso è a sua volta recintato e sorvegliato da unità scelte dell’esercito e da vigilanti privati. Per finire, un satellite-spia fornito dagli americani e due sale di controllo non perdono mai di vista ciò che avviene sul mare e nell’aria!

Il 5 marzo 1998 Le Monde, attraverso la voce di uno storico fra i più illustri, Pierre Vidal-Naquet, partigiano ai suoi tempi della guerra di liberazione algerina e detrattore della dittatura dei militari dopo il 1962, afferma che poche dittature militari – Cile, Argentina, Guatemala – hanno "osato" impiegare il napalm sul proprio territorio, come hanno fatto i militari algerini nella regione di Texana (nei pressi di Jijell, sulla costa della piccola Cabilia), sulle montagne di Chrea (nei pressi di Algeri) o nella foresta di Sid Ali Bouneb (ai confini con la Cabilia). Al terrore islamico lo Stato algerino ha risposto a sua volta col terrore: oltre all’impiego del napalm nei maquis non si sono lesinate torture a base di seghe elettriche e fiamma ossidrica, , uccisioni di prigionieri, sparizioni (10.000 secondo la stima di Amnesty International), esecuzioni sommarie, arresti e condizioni di detenzione inumane nei campi di prigionia del Sud, assenza di processi per i sospetti arrestati, bavaglio ai giornalisti, brogli elettorali, ecc.

D’altra parte, niente di più facile che gli sgozzatori islamici dei GIA siano stati manipolati, come lascerebbero supporre le deliranti "rivendicazioni" riportate dai fogli estremisti a Londra e altrove. Inoltre, che fine hanno fatto i falsi mujahiddin della Sicurezza militare incaricati – con l’avallo dell’ex Urss – di infiltrarsi nelle file degli islamici afgani durante la guerra in Afghanistan? Come dice Vidal-Naquet, «tutti i Servizi occidentali hanno acquisito la convinzione che i GIA sono largamente infiltrati dagli uomini della Sicurezza militare che se ne serve per dividere e screditare il movimento, oltre che per perpetuare un clima di terrore che scoraggi un’eventuale rivolta popolare. I testimoni sopravvissuti ai massacri hanno sicuramente visto in faccia gli assassini, ma non certo i mandanti. Ed è noto che le rivendicazioni rappresentano ovunque gli strumenti privilegiati della manipolazione».

Di fatto, ferro e fuoco e sangue servono a terrorizzare i milioni di algerini che nel 1991 avevano votato per il FIS. Né si può ignorare che le pratiche dei "signori della guerra", i miliziani armati del potere, non hanno niente da invidiare, quanto ad orrore, a quelle dei "signori della guerra" islamici. Almeno 200mila uomini reclutati dalla gendarmeria e dalla Sicurezza militare come "guardie comunali" e come "gruppi di legittima difesa" hanno carta bianca nei confronti degli islamici, violando impunemente le leggi della Repubblica. Il giornale dell’RCD, Liberté, da sempre favorevole all’armamento della popolazione, dimostra stupore di fronte alle notizie sugli intrallazzi di cui sono accusati i "patrioti" e i sindaci di Relizane e di Jdiouia. In queste zone da cinque anni le milizie armate seminavano il terrore attraverso esecuzioni sommarie, sequestri, estorsioni, saccheggi, demolizioni di case, ecc. – tutte azioni imputate ordinariamente al terrorismo islamico. Il 12 gennaio 1998 Libération cita un articolo del settimanale britannico The Observer sulle testimonianze di due poliziotti algerini rifugiati in Gran Bretagna secondo i quali molti massacri di civili ritenuti di matrice islamista sono in realtà da attribuire alle forze di sicurezza.

Scrive sempre Vidal-Naquet su Le Monde del 4 febbraio 1998: «Da 35 anni la sua unica logica [del regime militare nato nel luglio 1962] è stata quella di mantenersi al potere, ieri attraverso un "socialismo" di facciata e il clientelismo foraggiato dalla rendita petrolifera, oggi con l’accaparramento a suo esclusivo vantaggio di questa stessa rendita e con lo sfruttamento della violenza, figlia della rivolta popolare. Non esistono prove irrefutabili che alcuni degli eccidi siano stati compiuti da militari, camuffati o meno da "barbuti" (...) ma il lassismo ostentato e cinico da parte delle forze di sicurezza basta da solo a chiamare in causa lo Stato. Soprattutto quando non c’è nessun bisogno di una tale ipotesi per rispondere alla domanda: "Chi uccide?" (e non "Chi è ucciso?", perché le vittime sono purtroppo ben conosciute: si tratta per la stragrande maggioranza delle persone tra le più umili e le più povere ostili al potere).

«D’altra parte, sono soprattutto le forze di sicurezza (esercito e polizia) che in nome della lotta antiterrorista massacrano intere famiglie e villaggi, a prescindere che siano implicati o meno nella lotta armata, moltiplicando le prevaricazioni, le torture, le esecuzioni extragiudiziarie, i rapimenti, ecc. A loro volta, i partigiani dei GIA conducono una guerra barbara che va a colpire soprattutto la popolazione civile; una guerra che, contrariamente a quello che si pensa, non risponde ad alcun piano d’insieme: non c’è alcuno Stato maggiore clandestino che pianifichi le azioni nella prospettiva della presa del potere; esistono solo dei gruppi isolati di giovanissimi ribelli animati da una mera logica di disperazione.

«Dall’autunno 1994 questa spirale di follia è stata ulteriormente accelerata dalla creazione, per iniziativa dell’esercito, delle milizie civili: legalizzando la distribuzione di armi agli abitanti ansiosi di difendersi dagli attacchi dei desperados islamici, il potere pretendeva di spegnere l’incendio. Ma l’ha fatto usando la benzina. Da questo momento, tutte le violenze, comprese le più atroci, sono diventate legittime, ed è noto che la maggior parte di esse non hanno niente a che vedere con la fantasmagoria di una "guerra civile" tra "terroristi islamici" e "potere repubblicano": si tratta il più delle volte di sordidi affari privati e della messa in atto di implacabili vendette collettive. Armando le milizie, i generali algerini hanno tolto il velo che celava la vera natura del loro potere: quello di una "cupola" mafiosa e non quello di uno Stato che non ha fatto in tempo a nascere (...) I militari hanno preferito sfruttare la violenza, in perfetta continuità con la tradizione coloniale, pur di continuare ad arricchirsi con tangenti occulte (per un ammontare annuo stimato in 6 miliardi di franchi) prelevate sugli scambi commerciali».

Il nostro storico, che non può fare a meno di nutrire illusioni su una possibile soluzione democratica del problema algerino, propone l’invio in Algeria di una commissione d’inchiesta internazionale che faccia luce non soltanto sulle violazioni dei diritti dell’uomo, ma anche sul giro delle tangenti legate agli scambi commerciali franco-algerini «che svolgono un ruolo essenziale nel mantenimento al potere dei dittatori di Algeri e nel martirio del popolo algerino».

Altri giornalisti (Libération del 6 gennaio ’98) affermano invece che le violenze miravano a colpire le famiglie che nel 1991 avevano votato per il FIS, soprattutto nelle regioni occidentali del paese (Rais, Beni-Messous, Benthala). Gli uccisori non colpiscono a casaccio: essi agiscono sulla base di liste di proscrizione riguardanti le famiglie o i clan da sterminare e vengono aiutati nelle ricerche da vecchi abitanti dei villaggi. I massacri del 1997 potrebbero avere la loro spiegazione nella rivalità esistente tra i GIA e l’Esercito Islamico della Salvezza, il quale nell’ottobre di quell’anno aveva decretato il cessate il fuoco. Fatto sta che a partire da novembre gli eccidi si spostano dalla piana della Mitidja verso i monti dell’Ouarsenis, dove i due raggruppamenti hanno molte delle loro basi. Gli uomini dell’AIS sono presenti sia nell’ovest sia nell’est dell’Algeria, nelle regioni di Relizane, Chlef e Mostaganen, mentre i GIA operano soprattutto nell’ovest nei dintorni di Sidi Bel Abbes, Tiaret, Mascara e Saida. Secondo il bollettino El Ribat, vicino al FIS, la responsabilità dei massacri nella regione di Relizane sarebbe da attribuire al gruppo El Ahwal (Terrore), comandato dall’imam Benchiba fino alla sua uccisione avvenuta nel settembre 1996. Il gruppo era forte di 400 uomini ed era in disaccordo con le altre organizzazioni per motivi di distribuzione del bottino. Per sfuggire all’esercito i GIA si sposteranno verso ovest lasciando la regione di Algeri, ma l’appello al cessate il fuoco lanciato dall’AIS porterà ad uno scontro in grande stile tra i militanti delle due organizzazioni nella zona di Relizane.

Libération è stato il primo giornale francese a individuare nel problema agrario una delle cause dei massacri. In effetti, il problema della terra è il grande problema irrisolto di ogni rivoluzione borghese. Le ultime tappe della mancata riforma agraria algerina sono note: nel 1986, a vent’anni dalla nazionalizzazione delle aziende dei coloni, un decreto rendeva perpetuo e trasmissibile l’usufrutto della terra; nel 1990 la pubblicazione di una lista di 150 occupanti illegali di terre (cioè non contadini) provoca una levata di scudi generale; nel 1995 l’annuncio di un progetto di legge che prevede la privatizzazione delle terre nazionalizzate per complessivi 2,8 milioni di ettari su 8 milioni di ettari di superficie agricola utile crea malcontento e rivolte da parte di quanti avevano partecipato alla guerra d’indipendenza e ora non possiedono i mezzi per acquistare le terre. Il progetto verrà prudentemente accantonato ma sarà ripresentato all’Assemblea nazionale nella primavera del 1998.

Ma queste terre hanno il "difetto" di trovarsi nella fertile piana della Mitidja, alle porte di Algeri, e quindi fanno gola alla speculazione edilizia in previsione di una possibile urbanizzazione di tutta l’area, in barba al fatto che l’Algeria è costretta ad importare buona parte dei generi alimentari. Il capo del governo deve promettere ai mujahiddin (gli ex-combattenti FLN della guerra di "liberazione") e ai loro aventi diritto, in altre parole ai privilegiati del sistema, un diritto di prelazione per l’acquisto, mentre i contadini potranno optare per l’affitto delle terre attraverso contratti trentennali rinnovabili. Nonostante l’obbligo di conservare l’ originaria destinazione agricola dei fondi, obbligo che compete tanto agli affittuari quanto agli acquirenti, le costruzioni si moltiplicano come funghi, facendo pressoché sparire la cintura agricola della grande Algeri. Nel giugno 1996 il governo è costretto a nominare una commissione di inchiesta interministeriale che faccia luce sugli abusi della speculazione selvaggia. All’inizio del 1997 verrà avviato un procedimento per rilascio illegale di licenze edilizie nei confronti di alcuni funzionari all’Urbanistica e del DEC, le Delegazioni Esecutive nominate dal governo in sostituzione dei sindaci del FIS. Nei 22 anni dal 1974 al 1996 sono stati cementificati circa 150mila ettari di terre coltivabili, oltre la metà delle quali regalate alla speculazione. In questa "mafia" della rendita fondiaria si trova di tutto e di più: dai grandi progetti immobiliari statali, ai proprietari fondiari privati, agli speculatori vicini alla nomenklatura civile e militare, fino ai capi delle milizie divenuti signori della guerra. I massacri compiuti nella Mitidja potrebbero essere stati uno dei sistemi per far sloggiare gli abitanti. Si uccide per avere spazio, e lo fanno la mafia locale, i gruppi islamici armati, i notabili pubblici o privati che li foraggiano. E gli sfollati vanno a riempire le bidonvilles ai margini delle grandi città.

Il breve periodo di libertà compreso tra l’instaurazione del multipartitismo (1988) e il colpo di Stato militare (1992) aveva visto la nascita di numerosi giornali sia in arabo sia in francese: El Watan, le Soir, Al Monchar, le Quotidien d’Algérie, la Nation (si contavano la bellezza di 169 periodici, tra pubblici e privati, la maggioranza dei quali in lingua francese). Ma alla "primavera" della stampa algerina che aveva iniziato a denunciare la corruzione e i misfatti del regime seguirà ben presto un feroce giro di vite. Dal 1992 al 1997 verranno soppresse una sessantina di testate e 57 giornalisti assassinati, il più delle volte da sconosciuti, mentre innumerevoli altri lasceranno il paese. La Nation, per esempio, che si era mostrata favorevole alla Piattaforma di Roma e che aveva pubblicato articoli di inchiesta sugli attentati ai diritti dell’uomo senza passare sotto silenzio le responsabilità dell’esercito e dei servizi di sicurezza, nel 1996 è costretto a chiudere. Un’auto-omba esplode davanti alla Casa della Stampa che ospita la maggior parte dei giornali indipendenti facendo 21 morti. Pur di sopravvivere, le redazioni si legano a poco a poco a interessi politici e finanziari vicini all’Esercito. Il quotidiano l’Authentique, uno dei primi ad inviare giornalisti sui luoghi dei massacri, ha come direttore il genero del generale Betchine, un ex capo della Sicurezza militare e "consigliere speciale" della presidenza della Repubblica. Il grande quotidiano della borghesia berbera, Liberté, è diretto da un immobiliarista vicino ai circoli militari. La stessa situazione esiste presso molte altre testate. Il controllo diretto delle quattro tipografie pubbliche del paese e il monopolio sull’importazione della carta e sull’85 per cento della pubblicità consente allo Stato di sfruttare la leva economica per mettere in difficoltà i giornali scomodi.

La censura viene inoltre agevolata da un dispositivo di leggi particolarmente repressive decretate nel 1992, fra cui va annoverata l’istituzione dei "Comitati di lettura" all’interno delle tipografie. La parola d’ordine è di presentare il terrorismo come un fenomeno residuale, anche se esso è più vivo che mai. Le informazioni relative ad attentati contro gli obiettivi sensibili dell’economia (raffinerie, oleodotti, centrali elettriche, ecc.) vengono inevitabilmente censurate, così come le notizie che riguardano le violenze – torture, esecuzioni extragiudiziarie, sparizioni di detenuti – perpetrate dalle forze di sicurezza. Così, ad esempio, il massacro di una trentina di lavoratori della compagnia di Stato Sonatrach avvenuto nell’autunno del 1996 non ha mai trovato posto nell’informazione. I giornalisti stranieri, per poter lavorare in Algeria, hanno bisogno di un visto di accredito permanente, rilasciato ufficialmente dal ministero degli Affari esteri, ma di fatto dalla Sicurezza militare. Il risultato è una stampa amorfa che si limita a riportare o le notizie ufficiali (El Mudjahid, l’Authentique) o le posizioni dei partiti anti-islamici (Ettahadi del PAGS, la stampa dell’RCD). Peraltro, sulla base di un decreto del 1994, un giornale che voglia diffondere informazioni relative al terrorismo o alla guerriglia deve richiedere l’avallo di una serie di autorità superiori. In un tale contesto, il fatto che a volte la stampa algerina riesca a riferire tempestivamente e in maniera esaustiva di eccidi e violenze è indice che all’interno dell’establishement esistono dei contrasti tra i diversi clan manipolati dalle diplomazie occidentali, oppure che il "terrorismo" islamico comincia a diventare troppo ingombrante.

L’uomo d’affari e diplomatico Adnan Kashoggi, intermediario tra la famiglia reale saudita e i circoli dirigenti americani, citato dalla rivista Valeurs actuelles, saluta il riavvicinamento tra Usa e Iran nella convinzione che il Medio oriente è ormai stanco di guerre e di terrorismo: «L’evoluzione dell’Iran rappresenta un fattore di stabilizzazione per l’insieme dell’area. Ritengo che siamo alla vigilia di un periodo di eccezionale prosperità [chissà se le masse irachene e palestinesi affamate e bombardate la pensano allo stesso modo!]: grandi progetti di cooperazione economica prenderanno corpo, dal Golfo al Mediterraneo, dal Mar Caspio all’Oceano indiano». È la borghese euforia! Interrogato circa i movimenti estremisti e sui loro eventuali legami con gli occidentali, Kashoggi commenta: «È vero che in altri tempi, negli anni ’80, gli americani hanno appoggiato i fondamentalisti religiosi in Afghanistan, ma essi perseguivano un preciso disegno geopolitico, quello di arrestare l’avanzata sovietica verso il Golfo e l’Oceano indiano. È altrettanto vero che un gran numero di islamici originari di altri paesi, specialmente Egitto e Algeria, che hanno combattuto a fianco degli afgani, al ritorno in patria hanno messo le loro esperienze al servizio del terrorismo e della guerriglia (...) Parlare di un complotto o di una strategia deliberata è assurdo (...) In realtà, le organizzazioni terroriste mediorientali hanno una loro autonomia, sono in grado di dotarsi di reti e strutture indipendenti, sanno trovare protezione presso questo o quel servizio segreto e predisporre le giuste coperture per poter condurre le operazioni, che si tratti di confraternite religiose, di organizzazioni umanitarie o di società commerciali». Fra i meandri levantini del discorso si può agevolmente leggere che i gruppi terroristi potrebbero benissimo essere manipolati dai servizi segreti di questa o quella potenza imperialista. Come non pensare, per esempio, agli attentati eseguiti in Italia negli anni ’70 dai gruppuscoli di estrema destra manovrati dai servizi segreti italiani e dalla CIA allo scopo di "creare" una situazione di "tensione sociale" che provocasse nelle masse un bisogno di sicurezza, e fermare così la scalata democratica del PCI al potere? Allora si trattava della guerra fredda tra l’America e la Russia, oggi siamo di fronte allo scontro tra più blocchi imperialisti per il controllo delle risorse energetiche dell’Africa del nord, del Medio oriente e dell’Asia centrale

Attirate dalle enormi riserve di petrolio racchiuse nel sottosuolo algerino (valutate in 12 miliardi di barili), le compagnie petrolifere americane, britanniche, malesi, spagnole, tedesche si sono affrettate a sottoscrivere contratti con la loro omologa algerina, la Sonatrach. La cessione alle compagnie straniere dell’oro nero assicura all’Algeria una fonte di divise che va a rimpinguare le casse dello Stato, ma non ha ricadute positive sulla popolazione. Nel giugno 1997 l’FMI, pur parlando in termini elogiativi della gestione Zéroual, chiedeva più "sicurezza e stabilità economica", non certo perché gli algerini tornassero finalmente a vivere in pace, ma per favorire "gli investimenti stranieri e i trasferimenti di tecnologia necessari allo sviluppo del settore privato"! Sullo stesso tono Le Monde del 19 gennaio1998 scriveva che il proseguimento della guerra civile in Algeria è una "catastrofe sociale, economica e politica" per la...Coface, l’organismo di assicurazione degli esportatori francesi. L’instabilità algerina rappresenta a breve un rischio contenuto per gli esportatori, ma a medio termine il rischio si fa elevato. La Coface nel suo rapporto ricorda i punti forti dell’economia algerina e le riforme attuate sotto l’egida dell’FMI, sottolineando che il paese "beneficia dell’appoggio dei paesi dell’Unione Europea". Ma l’indebitamento rimane alto, come pure la dipendenza alimentare, senza contare che la riforma del settore pubblico, in un primo tempo, farà peggiorare le condizioni di vita, già assai dure, della popolazione. Sul piano politico, «il campo terrorista, sempre più diviso, non è sicuramente in grado di prendere il potere, ma non per questo sembra sul punto di essere rapidamente debellato (...) Al consolidamento delle istituzioni corrisponde specularmene una divisione all’interno della classe dirigente: di fronte al terrorismo non si delinea alcuna alternativa credibile allo sradicamento di questo fenomeno». Un simile cinismo lascerebbe di stucco, se il marxismo fin dal suo nascere non avesse denunciato le atrocità di cui è capace una società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Una cosa è sicura, le enormi ricchezze ricavate dalla vendita del petrolio e del gas naturale non vengono reinvestite per lo sviluppo del paese, ma vanno a vantaggio di una piccola minoranza privilegiata che vive e consuma all’occidentale mentre la stragrande maggioranza della popolazione algerina s’impoverisce giorno dopo giorno. D’altra parte, lo sviluppo del capitalismo porta con sé un depauperamento catastrofico dell’agricoltura, un aumento esponenziale della disoccupazione e un peggioramento drammatico delle condizioni di vita delle masse. Le forze militari preferiscono proteggere il petrolio e le frontiere piuttosto che i poveri delle città e delle campagne, bersagli designati dei massacri. Con la creazione dei gruppi di autodifesa, il governo algerino ha incoraggiato il caos sociale, la guerra di tutti contro tutti, una guerra che terrorizza, depoliticizza e disorganizza le masse. Gli ultimi avvenimenti confermano in pieno queste conclusioni.

Nell’aprile 1999, dopo "dubbie" elezioni presidenziali, Liamine Zéroual viene sostituito da Abdelaziz Bouteflika, un ex del clan Boumédiène, nuovo pupillo dalla borghesia internazionale, il quale si affretta a proporre una legge di riconciliazione nazionale che impone ai gruppi armati la resa entro il 13 gennaio 2000. Ma nonostante questa misura che riduce a 2.000-2.500 il numero di islamici armati, non passa giorno senza che ci sia un nuovo attentato o un nuovo massacro, alla media di cinque morti al giorno. Le cose non vanno meglio sul piano economico, come riferisce Le Monde del 1 giugno 2000: «Secondo il Consiglio nazionale e sociale algerino (CNES), la disoccupazione colpisce oggi il 32% (il 28% secondo altre fonti) della popolazione, ossia oltre 3 milioni di persone. Con un debito di 28 miliardi di dollari, il paese è sempre in attesa di quella ripresa economica preventivata nel 1994 dal piano di ristrutturazione dell’FMI. Secondo il CNES, l’economia si è fossilizzata in un clima di attendismo e di indecisione pregiudizievole. Nell’ultimo anno, 400mila lavoratori sono stati licenziati da circa mille aziende pubbliche e, secondo i calcoli della Centrale sindacale UGTA, altrettanti li seguiranno a ruota. Il clima sociale in alcune zone del paese è esplosivo: ad Annaba, per esempio, il 16 maggio scorso ci sono stati 30 feriti nel corso dei violenti scontri tra le forze di sicurezza e gli operai siderurgici che reclamavano il pagamento dei salari arretrati».
 

La vecchia talpa della crisi e della lotta di classe dunque sta ben scavando anche nel sottosuolo della società algerina.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

CONCLUSIONE

L’Algeria – come i Balcani – resterà terreno di scontro tra imperialismi. L’Algeria rifornisce di petrolio e di gas naturale l’Europa mentre è soprattutto l’imperialismo americano che ne controlla i campi petroliferi. Chi controlla l’Algeria – e i Balcani – controlla di fatto economicamente e militarmente l’Europa.

La borghesia algerina non ha voluto né potuto tentare la carta della Repubblica islamica alla maniera saudita o iraniana per timore che quel tipo di dittatura non fosse sufficiente ad imbrigliare la disperazione delle masse.

Certo, dare il semaforo verde al FIS – attualmente in posizione di estrema debolezza e praticamente disposto a negoziare a qualsiasi prezzo la sua sopravvivenza – avrebbe potuto costituire un’eccellente via d’uscita alla sinistra carneficina, a maggior ragione in una fase socialmente "delicata" a causa del processo di privatizzazione in atto nel settore pubblico. Invece, dopo dieci anni di guerra civile, il FIS è stato definitivamente vinto. L’assassinio in pieno centro di Algeri di Abdelkader Hachani, suo principale dirigente ancora in libertà, ne rappresenta pressoché l’epilogo.

La classe dominante ha scelto il metodo di governo fondato sul terrorismo "cieco" – di matrice sia statale sia islamica – come arma puntata essenzialmente contro le masse diseredate.

La borghesia piccola e media è destinata, come storicamente ha sempre fatto, a schierarsi col più forte. Il "terrorismo islamico" permette allo Stato, primo fra i terroristi, di avere l’appoggio delle classi medie e dei partiti democratici d’opposizione, che nascondono dietro il timore del ritorno alla "legge islamica" la paura di una insorgenza delle masse diseredate e proletarie.

Nella spietata lotta delle classi in Algeria il braccio che brandisce l’arma è quello della classe dominante. Il proletariato algerino disorganizzato, smarrito, immobilizzato nelle maglie del terrore, abbandonato dai suoi fratelli europei, rimane silenzioso.

In Algeria non è solo in atto una lotta feroce tra fazioni rivali. Lottando contro il FIS e contro l’estremismo islamico, il clan al potere e la cricca di privilegiati di cui esso si circonda, legati come sono a filo doppio alle potenze occidentali e insieme a queste dilapidatori delle risorse dell’Algeria, lottano in realtà contro il proletariato. Che scenda a patti con l’islamismo allo scopo di screditarlo agli occhi dei poveri, o che tenti direttamente di abbatterlo perseguitandone militanti e "simpatizzanti", il potere – ovverosia l’Esercito, questa espressione brutale dello Stato borghese – cerca soprattutto di colpire le masse povere, illuse dalla demagogicia degli estremisti religiosi. Per manifestare la rivolta alla corruzione, alla miseria, al tradimento della "rivoluzione algerina", che prometteva una riforma agraria mai attuata e una industrializzazione mai decollata, le masse, specialmente quelle delle campagne impoverite dal colonialismo e dal "socialismo" all’algerina, insieme a tutti i diseredati che vivono di espedienti nelle periferie e nelle bidonvilles delle grandi città, scacciati da quelle campagne che non riescono più a nutrirli, queste masse, e il proletariato industriale con esse, si sono aggrappati all’illusoria scheda elettorale che la borghesia algerina, buona allieva della borghesia occidentale e coloniale, ha sventolato davanti ai loro occhi.

La tragedia è che le lotte di classe non hanno disgraziatamente ancora la forza di far nascere organizzazioni economiche autonome e un partito di classe di impronta autenticamente marxista. In questo senso, in questa superiore prospettiva di classe, non ha senso sapere chi ha "ragione" e chi "torto", se i clan islamici o i partiti cosiddetti "democratici". Queste, opposte bande di politicanti borghesi, sono tutte, senza eccezione, nemiche del proletariato algerino. Da tutte queste il proletariato è attaccato, da tutte queste deve difendersi, tutte sarà esso ad attaccare e disperdere, in collegamento col rinato movimento internazionale del proletariato.
 
 
 
 
 
 

A chiusura riportiamo la sintesi finale dello studio sul fondamentalismo islamico nel Maghreb pubblicato nel nostro Comunismo (nn. 41 e 43, 1997).

 1.     I movimenti islamici di opposizione ai gruppi di governo non pongono in nessun modo la questione, per noi centrale, dell’abbattimento violento della dittatura borghese e del superamento dell’attuale modo di produzione capitalistico. Pur rivendicando, ovviamente, un miglioramento delle condizioni generali di vita degli strati più poveri della popolazione, guardano indietro nella storia, in direzione di una mitica età dell’oro garantita dalla supremazia delle Leggi coraniche.
 2.     Tutti questi movimenti, fino ad oggi, hanno un forte carattere nazionale e non rivendicano alcuna forma di coordinamento internazionale, ma seguono, secondo l’antica tradizione islamica, ciascuno un proprio capo carismatico proveniente, nella maggioranza dei casi, dai vari centri religiosi. I contatti fra i gruppi dei vari paesi avvengono prevalentemente in occasione di sconfinamento per motivi di difesa tattica. Al contrario, le polizie maghrebine ed europee sono organizzate in un’opera di controllo dei gruppi locali e delle frange straniere che hanno sconfinato.
 3.     La Francia prosegue nel suo mandato internazionale di gendarme in Africa e mantiene un ruolo importante nelle politiche finanziarie rivolte al Maghreb. In Francia vivono e lavorano 1.200.000 persone con passaporto maghrebino, la metà delle quali sono marocchine.
 4.     La crisi economica algerina, per il crollo del prezzo degli idrocarburi, è insanabile senza consistenti sostegni dei centri finanziari internazionali e non accenna a rallentare.
 5.     La situazione del Marocco, pur con una considerevole crisi economica, è la più tranquilla e non sono presenti gruppi integralisti armati, mentre in Tunisia con una crisi meno pesante c’è una sensibile adesione ai movimenti islamici con organizzazioni già attive.
 6.     Il congiungimento, almeno tra le formazioni algerine e tunisine, nel caso di una guerra civile in Algeria, allo stato di fatto attuale, appare un’evenienza remota.
 7.     Il grande assente nel Maghreb, per quanto ne sappiamo, è l’organizzazione di classe del proletariato comunista con il suo programma rivoluzionario in grado di prendere il controllo della guerra civile.
 8.     Abbiamo letto l’esperienza algerina di questi anni ammettendo fin dall’inizio che il fenomeno generato dalla pesante crisi economica in corso nasceva abbagliato da ricorrenti putride istanze religiose, come avvenne in Iran vent’anni orsono. La nostra attesa era che il movimento si liberasse della pesante zavorra coranica per percorrere, pur fra mille difficoltà, la genuina strada della lotta di classe: proletariato e classi in via di divenirlo contro capitalisti e fondiari, locali o stranieri che fossero.
    Così, al momento, non è stato anche perché il proletariato europeo, suo fratello maggiore, più forte ed esperto, è stato bloccato in casa dalla medesima crisi nel tentativo di difendere i pochi privilegi rimasti; tutti i suoi nemici di destra e di sinistra inoltre hanno saputo organizzare sapientemente una campagna di "informazione" incentrata prevalentemente sugli eccidi allo scopo, come fu per la spartizione dell’ex-Jugoslavia, di creare un diffuso senso di paura ed incertezza, occultare la vere cause del conflitto che avrebbero potuto accomunare i lavoratori delle opposte sponde del Mediterraneo. In questo senso il terrorismo politico, qui come altrove, con le sue vittime e le conseguenti catene di vendette e ritorsioni, si è riconfermato strumento ben collaudato per contrapporre e confondere il proletariato.