Partito Comunista Internazionale Stampa in lingua italiana
Monografie sull’America Latina
1959-1995

– A. Le cause dell’arretratezza dell’America Latina (da "il Programma Comunista", nn.14 e 15, 1959, ora in Comunismo 1995, n.38).

– B. La formazione degli Stati nazionali in America Latina (“Comunismo”, maggio-agosto 1984 n.15 e 16).

– C. Rivoluzione e questione contadina in Messico ("Comunismo", dicembre 1995, n.39 e dicembre 1996, n.41)

– D. Aspetti e limiti dell’impianto economico capitalistico in America Latina ("Comunismo", settembre-dicembre 1985, n. 19).

 


A.
LE CAUSE DELL’ARRETRATEZZA DELL’AMERICA LATINA

(da “Il Programma Comunista”, n. 14 e 15, 1959)
 

Premessa del 1995
     Il partito ha intrapreso uno studio sul Messico allo scopo di mettere a fuoco le cause che determinano la crisi che quel paese sta attualmente attraversando e l’ambiente economico e sociale nel quale si svolge.
     Le recenti rivolte contadine in Chiapas pongono in evidenza il tema di una questione agraria di non trascurabile importanza.
     Ma anche il crescente impoverimento del proletariato è certamente foriero di forti tensioni sociali che probabilmente non tarderanno a manifestarsi, in un paese certamente moderno e industrializzato, che conta quasi 90 milioni di abitanti, al confine con il gigante capitalistico USA ed in un certo modo compenetrato nella sua economia. È tuttavia anche oppresso dalle crisi che caratterizzano il sottosviluppo del confinante centro e sud America. Un paese che fa da cuscinetto, non solo geograficamente, e potrà forse rappresentare in futuro la chiave di volta di una crisi rivoluzionaria che incendi l’intero continente americano.
     Pur presentando la storia del Messico elementi particolari, che la caratterizzano e la differenziano decisamente da quella degli altri paesi dell’America Latina, riteniamo opportuno presentare l’inquadramento generale dei temi di fondo che riguardano questa area geografica, offerto dal seguente articolo apparso sulla nostra stampa, in "Programma", numeri 14 e 15 del 1959. Ciò vale da premessa all’esposizione del lavoro sul Messico che ci proponiamo di presentare nelle future riunioni di partito e sui prossimi numeri della rivista.
 

 
* * *
 
 
Dalla fine della seconda guerra mondiale è in corso nell’America Latina un profondo rivolgimento economico, sociale e politico. Le convulsioni sociali, determinate dal conflitto in tutta l’area soggetta al regime coloniale, non potevano risparmiare il sub-continente latino-americano, che, benché da oltre un secolo avesse spezzato gli antichi vincoli coloniali, restava e resta ancora allo stato di para-colonia del capitale finanziario imperialistico.

Molto si scrive sul risveglio dell’America Latina e molto spesso si parla di rivoluzione, quando non si discute addirittura sulle "strutture feudali" che sarebbero ancora presenti nella compagine sociale. Per determinare il peso effettivo degli avvenimenti latino-americani, la loro natura e sbocco sociale, occorre sapere definire le grandi linee della evoluzione storica del sub-continente. Fedeli al determinismo sappiamo che nulla accade nel presente che non sia condizionato da avvenimenti non di rado situati nel remoto passato. La generazione spontanea, dimostrata falsa in biologia, è del tutto assente anche nella evoluzione storica. Tale verità balza agli occhi specialmente nello studio dei paesi che sono rimasti indietro nel cammino del progresso. In essi le strutture della società restano cristallizzate, e mutano con esasperante lentezza, perché le influenze dei rivolgimenti del passato perdurano ostinatamente e il "nuovo" non può rigenerarsi per puro atto di volontà collettiva.

Nella società latino-americana troneggia un ostacolo che sembra inamovibile ed eterno come le gigantesche rovine degli antichi monumenti pre-colombiani: la grande proprietà terriera. L’ultimo secolo di storia dell’America Latina che coincide con la storia della indipendenza delle venti repubbliche del sub-continente può riassumersi, senza paura di cadere nel semplicismo, in una frase: la lotta ostinata contro le oligarchie terriere, detentrici del monopolio della ricchezza e del potere politico. La lotta ha assunto, nel corso dei decenni, aspetti diversi, a mano a mano che nel campo nemico dell’aristocrazia terriera affluivano i diversi strati sociali generati dalla evoluzione storica: la piccola borghesia urbana e intellettuale (le famose clases medias), gli imprenditori industriali e commerciali e, dalla fine del secolo scorso, i primi nuclei del proletariato salariato socialista. La lotta pro e contro l’aristocrazia fondiaria ha rappresentato nella tormentata storia delle repubbliche latine-americane, densa di aspre competizioni politiche, di rivolte, di colpi si Stato, di sanguinose guerre civili, lo scontro tra la conservazione e il progresso, tra la reazione e il rinnovamento (attribuendo naturalmente il senso esatto a questi termini che stanno tutti nell’analisi di una struttura tendente al capitalismo).

Tale fenomeno non è unico nella storia del capitalismo. Anzi, tutte le rivoluzioni antifeudali in Europa, comprese quelle inglese e francese, sono passate attraverso un periodo che ha visto accendersi la rivalità tra le due grandi branche delle sezioni della classe dominante borghese: i proprietari fondiari e gli imprenditori industriali. In ogni caso la resistenza dei proprietari fondiari veniva piegata e l’agricoltura diventa la docile vassalla del capitale finanziario e industriale. Eco dottrinaria del conflitto restano le opere degli economisti classici borghesi, specialmente nella scuola ricardiana, che riconoscono alla classe degli imprenditori industriali il diritto al primato sociale.

Bisogna allora spiegare le cause della eccezionale capacità di resistenza della proprietà fondiaria latino-americana. Per prima cosa bisogna liberarsi della facile tentazione di vedere in essa un residuo feudale. Il vero feudalesimo nell’impero coloniale che Spagnoli e Portoghesi si crearono nelle Americhe, al principio del secolo XVI, non è mai esistito, non fosse altro per il fatto che il feudalesimo, al momento delle grandi scoperte geografiche e della introduzione del regime coloniale, era dovunque in declino. Ma la ragione specifica del mancato trapianto nelle colonie delle strutture feudali ancora in auge nelle metropoli è da ricercarsi nella politica delle Monarchie assolute che, venute in possesso di vastissimi imperi coloniali, si guardarono bene da creare nei paesi d’oltremare un duplicato della nobiltà terriera ereditaria, che tenacemente combattevano nelle metropoli. Al contrario, Spagna e Portogallo imposero alle colonie una pletorica burocrazia statale che, dal centro alla periferia, controllava minuziosamente ogni attività del coloni trapiantati nelle terre oltremarine.

La encomienda, cioè la concessione di vasti appezzamenti di terreno che il sovrano accordava ai coloni "creoli", non ripeteva che soltanto in apparenza il sistema del feudo. L’encomendero era il signore assoluto, non solo della terra, ma della popolazione india e degli schiavi negri che lavoravano da bestie nelle piantagioni. Tuttavia, il diritto della trasmissione ereditaria del possesso, che nel feudalesimo europeo ebbe per effetto la formazione di una nobiltà ereditaria, non era riconosciuto al fazendiero e allo estanciero. Infatti la Corona si riservava il diritto di revocare la concessione della encomienda quando fosse trascorso un periodo prestabilito, che andava fino ad un massimo di due generazioni.

Tale menomazione del diritto di proprietà e la esosa fiscalità praticata dalla mobilitazione di funzionari coloniali della Corona, che, ad onta dei vincoli di razza e di lingua, trattavano con alterigia l’aristocrazia creola, il divieto di commerciare con altri porti che non fossero quelli della metropoli, dovevano, a lunga scadenza, gettare i semi della rivolta nei pur spietati sfruttatori e oppressori dei lavoratori indigeni e degli schiavi negri. Avvenne così che una classe che era ultra-reazionaria nei confronti dei lavoratori locali, ai quali ogni tentativo di rivolta veniva fatto pagare con feroci repressioni, divenne rivoluzionaria nei confronti della potenza colonialista metropolitana. E quando venne il momento essa non esitò a lanciarsi in una vera guerra civile, pretendendo le armi contro gli eserciti imperiali che pure parlavano la sua stessa lingua.

Tale è, a nostro parere, la caratteristica essenziale della rivoluzione nazionale dell’America Latina. In Europa, specialmente la rivoluzione contro l’assolutismo monarchico, significò la liberazione dei servi della gleba, anche se alla antica servitù doveva sostituirsi più tardi la nuova moderna schiavitù del lavoro salariato. Nell’America Latina, invece, la classe dei piantatori, proprietari di immense aziende agricole e di eserciti di schiavi di colore, si levò contro l’assolutismo spagnolo e portoghese anzitutto per liberarsi del controllo burocratico della Corona e potere possedere in maniera totale e incontrastata i propri beni, per potere perpetuare a suo esclusivo vantaggio il lavoro schiavistico e la dominazione di razza.

L’aver partecipato direttamente e attivamente alla rivoluzione anticoloniale spiega la incrollabilità delle posizioni che l’aristocrazia terriera creola assunse nella struttura sociale, che venne a formarsi nel quadro della nuova repubblica latino-americana. La rivoluzione nazionale latino-americana, che seguì di poco la rivolta delle tredici colonie nord-americane contro l’Inghilterra, fu contemporanea della Rivoluzione Francese e delle guerre napoleoniche essendosi svolta nel periodo che va, con alterne vicende, dal 1808 al 1823. I ribelli antispagnoli si entusiasmarono agli ideali libertari e democratici e vollero farsi paladini dei principi di Rousseau, di Voltaire, di Montesquieu. Ma, alla fine, furono impotenti a rimuovere l’ostacolo della grande proprietà fondiaria e schiavistica. Anzi fu la aristocrazia terriera creola a cogliere tutti i frutti del grandioso rivolgimento. E ciò accade, ripetiamo, perché il campo democratico e progressista, che pure ebbe capi leggendari come Miranda, Simone Bolivar, Josè di San Martin, non poté combattere efficacemente contro una classe che partecipava al movimento di rivolta contro la Spagna e il Portogallo. E ciò rappresentò una vera tragedia per l’America Latina. Se la rivoluzione non poté assicurare la continuazione dell’unità politica dei sotto continentali, ciò accadde proprio per la tenace e aspra opposizione della classe dei proprietari fondiari che fecero fallire i generosi progetti di federazione continentale, sostenuti da Simone Bolivar, e quindi condannarono allo spezzettamento e alla impotenza economica l’immenso territorio del tramontato impero ispano-portoghese.

L’America Latina possiede grandi risorse minerarie e agricole, ma lo sfruttamento delle risorse naturali è ostacolato fortemente dalla difficoltà delle comunicazioni. Estendendosi per grande parte del territorio entro la zona torrida, il subcontinente presenta caratteristiche fisiche che condannano all’isolamento immense regioni: lo sterminato manto della foresta vergine che copre i territori solcati dallo Equatore, gli aridi deserti tropicali, le savane, le steppe, il regime idrico di gigantesche arterie fluviali, che sovente inondano vaste regioni. E, da un capo all’altro, il formidabile sbarramento delle Ande e delle Montagne Rocciose, che rinserrano tra i loro fasci montuosi ampi altopiani elevatissimi fino a 3.000-4.000 metri. Si comprende come in una regione che la natura ha foggiato in modo che le comunicazioni risultino disagevoli se non addirittura impossibili, lo spezzettamento politico può sortire l’unico effetto sicuro di aggravare le condizioni in cui si svolge il lavoro dell’uomo e rendere difficile il progresso economico.

Il grande progetto degli "Stati Uniti del Sud", generosamente sostenuto da Simone Bolivar, se accettato, avrebbe certamente, è superfluo dirlo, avviato l’America Latina verso un grandioso avvenire. Ma il progetto dispiacque all’aristocrazia terriera del Brasile, dispiacque ai coloni nordamericani della Virginia, incontrò soprattutto la disapprovazione dell’Inghilterra, che pure era la grande amica degli insorti sud-americani. Si sa che la tradizionale rivalità con la Spagna, che momentaneamente la necessità di lottare contro Napoleone aveva messo a tacere, spinse l’Inghilterra ad appoggiare la rivolta delle colonie spagnole. Armi, volontari, navi e denaro, forniti con larghezza agli insorti, concretarono le simpatie politiche britanniche. Ma non si trattava evidentemente di un aiuto disinteressato. Il capitalismo britannico tendeva a favorire lo sfacelo dell’impero spagnolo per la ragione che spinge tutti gli Stati ad aiutare i nemici dei propri rivali imperialistici: il desiderio di crearsi nuovi mercati esteri. Ora è chiaro che la unificazione dell’America ex-spagnola in una grande confederazione, quale sognava Bolivar, avrebbe posto sul cammino della penetrazione economica inglese un ostacolo non facilmente superabile.

Gli stessi interessi di classe, sebbene riguardanti obbiettivi diversi, spingevano l’aristocrazia terriera creola ad avversare i piani di unità continentale sostenuti da Bolivar e dalle forze politiche che egli impersonava. Agli occhi dei proprietari di schiavi, i capi alla Bolivar, alla San Martin, alla Morales, che compivano le loro epiche imprese rivoluzionarie guidando eserciti misti che comprendevano, insieme ai creoli, gli indios e i meticci, rappresentavano un pericolo. La liberazione degli schiavi, l’elevamento delle condizioni di vita della popolazione india e meticcia non avrebbero sovvertito la basi sociali sulle quali riposava il regime economico della grande proprietà terriera e delle piantagioni? Ciò non poteva essere tollerato dalla oligarchia terriera che si era ribellata alla burocrazia coloniale spagnola proprio perché il regime di monopolio e la fiscalità imperiale intaccavano i loro privilegi. I proprietari di schiavi ebbero motivo di temere che l’unificazione politica del sub-continente comportasse il rafforzamento del movimento democratico e interrazziale.

In tal modo, gli interessi schiavistici dei proprietari fondiari del Brasile e le mire imperialistiche della Gran Bretagna si coalizzarono contro Bolivar. Non solo gli "Stati del Sud" restarono un sogno irraggiungibile ma la stessa formazione statale che Bolivar era riuscito a imbastire si scisse nel 1821 nei tre Stati indipendenti di Colombia, Venezuela, ed Ecuador. I proprietari negrieri del Brasile facevano scuola. Di lì a poco anche le attuali repubbliche centro-americane (Honduras, Guatemala, Costa Rica, Salvador, Nicaragua) sciolsero una unione statale che avevano formato nel 1823, completando il processo di smembramento e di frazionamento dell’ex impero coloniale.

Ciò è quanto dire che la rivoluzione anticoloniale dell’America Latina si concludeva con il pieno trionfo delle oligarchie terriere. Non soltanto di esse. Dello smembramento dovevano approfittare in un primo tempo, e per poco, gli Stati Uniti, che riuscivano a conquistare qualche posizione commerciale nel sub-continente; ma dovettero ben presto cedere il campo all’Inghilterra. Si spiega così come nella seconda metà del secolo scorso la direzione degli affari economici dell’America Latina cadde completamente nelle mani dei capitalisti inglesi, seguiti a ruota dai francesi, belgi e tedeschi. Le banche, le miniere, le ferrovie, i telefoni, le centrali elettriche, il caffè, il cacao, ecc. sfuggivano praticamente al controllo dei governi locali.

Naturalmente, gli investitori di capitali stranieri facevano di tutto per impedire qualsiasi riforma democratica mirante a sottrarre il paese al monopolio industriale straniero. Per i capitalisti europei, soprattutto inglesi, ogni fabbrica che sorgesse nelle aree sottoposte alla loro influenza significava un attentato al loro primato industriale; nel migliore dei casi, un inutile copione. Naturalmente, gli interessi degli imperialisti convergevano con quelli dell’aristocrazia terriera, che nella politica di riforme, sostenuta dalle correnti democratiche e radicali, scorgevano un pericolo mortale per i loro privilegi. L’industrializzazione non significava retrocessione dell’economia agraria?

In tal modo, la classe dei proprietari fondiari, che aveva al suo servizio la Chiesa e l’esercito, accettava che l’imperialismo straniero, in cambio dell’appoggio politico e militare, prelevasse un pesante tributo, che in fondo non intaccava i suoi profitti, essendo tratto dal sudore e dal sangue delle classi lavoratrici, oppresse da una povertà spaventosa che certo non è oggi finita.

Si comprende come la struttura sociale dell’America Latina, fondata sulla supremazia e sul privilegio illimitato delle oligarchie terriere e dei loro strumenti politici, e sulla assoluta mancanza di diritti da parte delle classi inferiori, sia durata così a lungo. Una lunga serie di battaglie politiche, di rivolte, di colpi di Stato, e spesso di sanguinose guerre civili non potevano, come non hanno potuto, estirpare l’odiato privilegio fondiario, perché esso, oltre che alle forze proprie, era appoggiato alle potenze imperialistiche straniere. A queste non è servito l’intervento armato nelle faccende interne dell’America Latina, salvo in pochi casi. Bastava stringere il cappio del ricatto economico attorno al collo dei governi progressisti e antimperialistici che osavano porre in discussione l’ordine esistente per provocarne la caduta o, come accadeva nella maggioranza nei casi, per indurli a cambiare casacca.

L’alleanza di ferro tra la aristocrazia terriera, politicamente rappresentata dal militarismo, e il capitale finanziario straniero, la soggezione della prima al secondo, non è fatto originale, esclusivo dell’America Latina. La dominazione di classe del capitalismo si regge proprio sulla identificazione degli interessi della proprietà agraria e del capitale imprenditoriale, nei confronti delle classi lavoratrici. Naturalmente, l’economia agraria e l’economia industriale hanno ritmi di sviluppo differenti, e ciò provoca attriti tra proprietari fondiari e capitalisti industriali; ma siffatti contrasti spariscono di incanto, quando si tratta di coalizzare le forze dello sfruttamento contro le classi lavoratrici. Quanto accade, da oltre un secolo, nell’America Latina è, dunque, la regola, non certamente la eccezione, del meccanismo dello sfruttamento capitalista. Di particolare c’è che la fusione  – al di sopra delle frontiere e della facile retorica nazionalista dei regimi militari sud-americani – della oligarchia terriera locale e del capitale finanziario straniero ha tenuto l’America Latina completamente fuori della rivoluzione industriale del secolo scorso, gettandola nelle condizioni di una colonia finanziaria dell’imperialismo.

Su tale argomento, come sugli aspetti sociali e politici dell’arretratezza latino-americana, converrà ritornare; per il momento qualche cifra basterà. Orbene, alla vigilia della crisi del 1929, i prodotti grezzi costituiscono in tutti i paesi sud-americani almeno l’80%, generalmente più del 90%, talvolta la quasi totalità delle esportazioni, mentre gli articoli manifatturati non entrano, nelle vendite all’estero, che per una percentuale quasi nulla. Ancora oggi, il valore delle derrate alimentari e materie prime raggiunge il 90% delle complessive esportazioni verso le altri parti del mondo. Emerge da ciò il carattere meramente coloniale della economia latino-americana, che, per essere fornitrice di materie prime alle industrie straniere e acquirente dei prodotti industriali, giace allo stesso livello dell’Africa.

Perché qualcosa di nuovo maturasse nella struttura sociale latino-americana, occorreva che si determinasse almeno una interruzione del meccanismo tradizionale dello sfruttamento del subcontinente. E ciò è accaduto durante la seconda guerra mondiale. Già all’epoca della prima guerra mondiale, le morse della tenaglia imperialistica si erano allentate alquanto, ma con l’effetto sicuro di permettere al giganteggiante imperialismo nord-americano di strappare importanti posizioni finanziarie ai capitalisti rivali di Europa. La seconda guerra mondiale, invece, veniva a spezzare bruscamente le relazioni commerciali tra l’America Latina e gli empori dell’Europa occidentale. Mentre l’Inghilterra doveva lottare ferocemente per salvare la propria esistenza ed era costretta a trascurare i propri vassalli finanziari sud-americani, gli Stati Uniti, anch’essi impegnati nell’immane conflitto dei continenti, potevano approfittare solo in parte della situazione. Infatti la grande offensiva finanziaria di Zio Sam ebbe luogo negli anni del dopoguerra e non si può dire certamente esaurita al momento presente.

Approfittando delle condizioni di isolamento, provocate dalla guerra, e maneggiando lo stesso capitale nord-americano, le forze di punta dello schieramento anti-oligarchico gettavano in alcune repubbliche, specialmente nelle più importanti quali il Brasile e l’Argentina, le basi della industria nazionale. Nasceva così l’industria siderurgica, fatto assolutamente nuovo nel regno assoluto delle haciendas e delle estancias. E, con l’ingresso della grande industria, prendevano corpo nuove ideologie politiche e nuovi tipi di regimi politici, quali il "giustizialismo" di Peron, che spostava le basi tradizionali delle alleanze anti-oligarchiche. Dalla fine del secolo scorso, il movimento operaio che sorgeva in quei tempi aveva appoggiato vigorosamente tutte le battaglie politiche delle classi medie contro l’oligarchia terriera e il militarismo che politicamente ne rappresentava gli interessi. Il peronismo, espressione degli interessi della nascente borghesia imprenditoriale che si vede ostacolata dall’ottuso conservatorismo della aristocrazia terriera, intese procacciarsi l’appoggio della classe operaia, e non si può negare che ci riuscì.

Oggi l’America Latina è in pieno fermento. Le dittature militariste sono crollate dovunque, tranne che nel Paraguay e a San Domingo. E ciò significa che la secolare dominazione dell’oligarchia agraria dà segni palesi di cedimento. Ma la svolta serba un grave pericolo per il movimento operaio, appunto il pericolo giustizialista che, sotto la copertura ideologica della lotta alle oligarchie agrarie universalmente odiate, cerca contrabbandare l’interclassismo, arma dell’inquinamento riformista della classe lavoratrice.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


B.
LA FORMAZIONE DEGLI STATI NAZIONALI IN AMERICA LATINA

(“Comunismo”, 1984 n.15 e 16).
 

 1. Le società dell’America precolombiana
 2. Aspetti della struttura economico-sociale della penisola iberica del XV secolo
 3. La scoperta dell’America
 4. La conquista del Centroamerica
 5. L’organizzazione economica coloniale
 6. Lo sfruttamento delle colonie nel XVI secolo
 7. Rapporti con le metropoli
 8. Organizzazione economica della colonia nel XVII secolo
 9. Il XVIII secolo prepara l’affossamento spagnolo
10. Sviluppo della colonia spagnola nel XVIII secolo
11. La struttura economica dell’America Latina alla fine del XVIII secolo
12. I rapporti di classe che preparano le rivoluzioni
13. La prima fase delle guerre antispagnole
14. Le rivoluzioni contadine dell’inizio del XIX secolo
15. La liberazione nazionale
16. La definitiva sistemazione nazionale
17. Alcune considerazioni conclusive
 
 
1. Le società dell’America precolombiana

Tutti gli indiani d’America discendono, molto probabilmente, da popolazioni mongole migrate dalla Siberia in Alaska circa trentamila anni fa, durante il ritiro di una glaciazione o sfruttando un passaggio oggi scomparso, e distribuitesi nel tempo su tutto il territorio continentale. Tanto che, alla fine del 1400, epoca in cui l’America ritorna stabilmente in contatto con l’Europa, si possono fare tre distinzioni:

a) Popoli cacciatori e raccoglitori. Nomadi che percorrono il territorio cacciando o popolazioni che già periodicamente si fermano per coltivare la terra (manioca e mais), per poi spostarsi quando i terreni si impoveriscono. Queste popolazioni si muovono lungo le coste atlantiche del Sud America o lungo le praterie del Nord e si trovano, come dice Engels, nello stadio selvaggio superiore.

«Stadio superiore. Comincia con l’invenzione dell’arco e della freccia, con cui la selvaggina divenne alimento regolare, e la caccia uno dei normali rami di lavoro. Arco, corda e freccia formano già uno strumento assai complesso, la cui invenzione presuppone lunga esperienza accumulata e intelligenza acuta, e quindi anche la conoscenza simultanea di una quantità di altre invenzioni. Prendendo a paragone i popoli che conoscono bensì arco e freccia, ma non ancora l’arte vasaria (che secondo Morgan segna la data di passaggio alla barbarie), noi troviamo in effetti già qualche principio della costituzione di villaggi, una certa padronanza della produzione dei mezzi di sostentamento, vasi e suppellettili di legno, la tessitura a mano (senza telaio) con filamenti di rafia, canestri intrecciati di rafia o di giunco, strumenti di pietra levigata (neolitici). Per lo più il fuoco e l’ascia di pietra hanno già fornito anche il battello scavato in tronco d’albero ed in qualche luogo travi ed assi per la costruzione di abitazioni. Tutti questi progressi noi li troviamo, per esempio, tra gli Indiani del Nord-Ovest dell’America che certo conoscono arco e freccia, ma non l’arte vasaria. Per lo stato selvaggio arco e freccia sono stati ciò che la spada di ferro è stata per la barbarie e la canna da fuoco per la civiltà: l’arma decisiva» (Engels, "L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato").


b) Tribù stanziate di popoli coltivatori. Vivono fondamentalmente della coltivazione di cereali (mais, manioca, guanaco), sono ormai stabilizzati in un territorio, la proprietà della terra è collettiva, conoscono la pietra lavorata (ossidiana) e la ceramica. Si trovano nello stadio inferiore della barbarie:

«Stadio intermedio. Comincia in oriente con l’addomesticamento di animali, in occidente con la coltivazione di piante alimentari per mezzo dell’irrigazione e con l’uso di mattoni crudi (essiccati al sole) e di pietre per costruzione. Cominceremo con l’Occidente poiché qui questo stadio non fu superato in nessun luogo prima della conquista europea. Tra gli Indiani, nello stadio inferiore della barbarie (a cui appartenevano tutti quelli trovati ad Est del Mississippi) esisteva, già al tempo della loro scoperta, una certa orticoltura di mais e forse anche di zucche, di meloni e di altri ortaggi, la quale forniva un elemento essenzialissimo alla loro alimentazione. Abitavano in case di legno, in villaggi circondati da palizzate».


c) Organizzazioni politiche sviluppate del Centro America. Le più importanti sono, senza dubbio, le concentrazioni di popolazioni nei tre grandi domini degli Aztechi, dei Maya e degli Incas. Pur nelle loro diversità essi hanno una serie di caratteristiche in comune:

«Invece gli Indiani dei cosiddetti Pueblos del Nuovo Messico, i Messicani, gli abitanti dell’America Centrale e i Peruviani, al tempo della conquista, si trovavano nello stadio medio della barbarie. Abitavano in case di mattoni crudi o di pietra simili a fortezze, coltivavano mais e altre piante eduli, diverse secondo il luogo e il clima, in orti irrigati artificialmente che fornivano le principali fonti di alimentazione ed avevano perfino già addomesticato alcuni animali: i Messicani, il tacchino e altri volatili, i Peruviani, il Lama. Inoltre essi conoscevano la lavorazione dei metalli ad eccezione del ferro, per la qual cosa non potevano ancora fare a meno delle armi e degli strumenti di pietra. La conquista spagnola sbarrò la strada ad ogni ulteriore sviluppo autonomo».
Queste tre popolazioni centroamericane, pur con diverse forme, coltivavano in comune la terra. Nonostante abbiano avuto un lungo sviluppo autonomo dal resto dell’umanità tendono a ripercorrere la necessaria evoluzione della specie umana. In ciò noi vediamo riconfermata l’interpretazione materialistica della storia data dal marxismo. Sappiamo bene che il periodo della forma comune di proprietà della terra è una fase assai lunga, in cui deve passare tutto il genere umano:
«È un pregiudizio ridicolo, quello, diffuso in tempi recentissimi, che la forma della proprietà comune naturale sia una forma specificamente slava o addirittura russa. In realtà è la forma archetipa di cui possiamo dimostrare la presenza tra i romani, i germani e i celti, ma di cui in India si trovano ancora oggi, sebbene parzialmente in rovina, interi campionari con esempi molteplici. Uno studio più accurato delle forme di proprietà comuni asiatiche e specialmente indiane mostrerebbe come dalle diverse forme di proprietà comune naturale discendano forme diverse della sua dissoluzione. Per esempio, i diversi tipi originari di proprietà privata romana e germanica si possono dedurre da diverse forme di proprietà comune in India» (Marx, "Critica dell’Economia Politica", in "India, Cina, Russia").
In Messico questa forma di proprietà comune della terra è detta calpulli. Questo è un raggruppamento di famiglie organizzate in villaggi che fanno riferimento ad un unico capo o a una serie di capi, i quali stabiliscono la ripartizione periodica della terra tra le singole famiglie. I capi hanno il diritto di usufruire di servizi personali e di prodotti della terra come compenso della loro opera di amministrazione della vita sociale della Comune. Il calpulli non è dunque altro che una gens o una confederazione di gens o una tribù.

In Perù invece essendo diversa la conformazione ambientale, la federazione gentilizia, detta ayllu, tende a possedere collettivamente, oltre alla terra, tutta una serie di attività produttive: il pascolo e la coltivazione della patata nell’altopiano, la coltivazione del mais a mezza costa e del cotone nelle pianure, la pesca sulle coste. Tutte queste complesse attività sono gestite in comune da un unico gruppo consanguineo, una gens o una stirpe; mentre i villaggi e le città si formano sul territorio quasi allo stesso modo in cui si formavano nel medio evo quelle con cui i Germani organizzavano la marca, o confederazioni di villaggi. Una parte dei terreni, dei pascoli e della raccolta dei prodotti è dell’Inca. I capi dell’ayllu stabiliscono le ripartizioni periodiche del terreno fra le singole famiglie.

«In India la comunità domestica con comune coltivazione del suolo è ricordata già da Nearco, al tempo di Alessandro Magno, e ancora oggi esiste in quelle stesse regioni, nel Punjab e in tutto il Nord Ovest del paese. Nel Caucaso, Kovalevsky stesso ha potuto trovarne l’esistenza. In Algeria essa sussiste ancora tra i Cabili. Nella stessa America deve essere esistita, e la si vorrebbe scoprire nei Calpullis dell’antico Messico, descritti da Zurita. D’altra parte Cunov ha provato, con sufficiente chiarezza, che nel Perù, al tempo della conquista, vigeva una specie di costituzione di marca (e quest’ultima, cosa strana, si chiamava proprio Marca) con spartizione periodica della terra coltivata, e quindi con coltura individuale» ("L’origine...").
Un tale sistema formale di lavoro tributario permette la colonizzazione di zone incolte sulla Cordigliera delle Ande attraverso lo spostamento di interi gruppi di famiglie, oppure accelera la divisione sociale del lavoro trasformando i contadini in artigiani che lavorano per l’Inca, che monopolizza le colture di prodotti pregiati come la coca. Infine, per la realizzazione di opere sociali (strade, templi, edifici pubblici, opere di irrigazione) è prevista la myta, o prestazione di lavoro periodico, gratuito e temporaneo; in particolare con la myta si sfruttano le risorse minerarie. Fra gli Inca l’organizzazione politica già centralizzata ha grande importanza come fattore di sviluppo produttivo. Allo stesso modo in cui nella Cina imperiale lo Stato regolava il flusso delle acque disponendo della coltura del riso, sulle Ande il terreno è coltivato in terrazze, per cui ogni opera di bonifica e di messa a coltura presuppone un disegno centrale e la collaborazione di gran parte della popolazione.
«Alla terra gli uomini si riferiscono ingenuamente come proprietà della comunità, della comunità che si produce e si riproduce nel lavoro vivo. Ogni singolo si comporta soltanto come elemento, come membro di questa comunità, che è il proprietario o il possessore. L’appropriazione reale attraverso il processo del lavoro avviene in base a questi presupposti, che non sono essi stessi un prodotto del lavoro, ma figurano invece come suoi presupposti naturali o divini. Questa forma, quando alla base vi sia il medesimo rapporto fondamentale, può realizzarsi in modi molto diversi. Ad esempio non è affatto in contraddizione con essa il fatto che, come accade nella maggioranza delle forme asiatiche tipiche, l’unità complessiva che sovrasta tutte queste piccole comunità figuri come il proprietario superiore o come l’unico proprietario, e quindi le comunità rurali figurino soltanto come possessori ereditari. Poiché l’unità è il proprietario reale e il reale presupposto della proprietà comunitaria – essa stessa deve presentarsi come un momento particolare che sovrasta le molte comunità particolari reali, in cui il singolo è allora effettivamente privo di proprietà; ovvero la proprietà – cioè il rapporto del singolo con le condizioni naturali del lavoro e della riproduzione come corpo oggettivo della sua soggettività, che egli trova già dato sotto forma di natura inorganica e che egli appartiene – gli si presenta mediata dalla concessione dell’unità complessiva – realizzata nel despota come padre delle molte comunità – al singolo attraverso la mediazione della comunità particolare.
«Il prodotto eccedente – che del resto viene determinato legalmente in forza dell’appropriazione reale mediante il lavoro – appartiene quindi, di per sé, a quest’unità suprema. Nel bel mezzo del dispotismo orientale e dell’assenza di proprietà che giuridicamente sembra caratterizzarlo, in realtà esiste quindi come base questa proprietà tribale o comunitaria, generata per lo più da una combinazione di manifattura e di agricoltura all’interno della piccola comunità, la quale in tal modo diviene assolutamente autosufficiente e contiene in sé tutte le condizioni della riproduzione e della produzione eccedente. Una parte del suo lavoro eccedente appartiene alla comunità superiore, che alla fine esiste come persona, e questo lavoro eccedente si manifesta sia nel tributo ecc., sia nel lavoro collettivo a glorificazione dell’unità, cioè in parte del despota reale, in parte del sistema tribale idealizzato, ossia del dio. Questo tipo di proprietà comunitaria, nella misura in cui si realizza realmente nel lavoro, può assumere questi aspetti: o le piccole comunità vegetano indipendentemente le une accanto alle altre e al loro interno il singolo lavora indipendentemente con la sua famiglia sull’appezzamento assegnatogli (un determinato lavoro destinato, da una parte, alla riserva collettiva, per così dire all’assicurazione, dall’altra, a fronteggiare i costi della comunità in quanto tale, per la guerra, il culto, ecc.; è qui che troviamo per la prima volta il dominium signorile nel senso più originario, ad esempio nelle comunità slave, in quelle rumene ecc. È qui il passaggio al lavoro tributario ecc.); oppure l’unità può estendersi alla collettività del lavoro stesso, che può essere un sistema formale come nel Messico, in particolare nel Perù, presso gli antichi Celti e alcune tribù indie. Il carattere comunitario all’interno del sistema tribale può inoltre assumere prevalentemente l’aspetto per cui l’unità è rappresentata da un capo della famiglia tribale o dalla relazione tra i capi famiglia. Da ciò dipende la forma più dispotica o più democratica di questa comunità. Le condizioni comunitarie della reale appropriazione mediante il lavoro come le opere idrauliche, che sono estremamente importanti presso i popoli asiatici, i mezzi di comunicazione ecc. figurano allora come opera della unità superiore – del governo dispotico che si colloca al di sopra delle piccole comunità. Le città vere e proprie, accanto a questi villaggi, qui sorgono soltanto dove esiste un punto particolarmente favorevole al commercio con l’estero; oppure dove il capo dello Stato e i suoi satrapi scambiano il loro reddito (prodotto eccedente) con il lavoro, spendendolo come fondo di lavoro» (Marx, "Grundrisse", I).
Sostanzialmente la divisione in classi di queste grandi società barbariche è similare. Al vertice quello che la storiografia è solita definire l’”imperatore”, ma che meglio sarebbe chiamare capo militare:
«Il capo militare (basilèus). Su questo argomento osserva Marx: I dotti europei, per lo più servi nati dei principi, fanno del basilèus un monarca nel senso moderno. Contro questa interpretazione polemizza lo yankee repubblicano Morgan. Egli dice con molta ironia, ma con verità, dell’untuoso Gladstone e della sua Juventus Mundi: il sig. Gladstone ci presenta i capi greci dell’età eroica come re e principi, con la aggiunta che essi sarebbero anche dei gentlemen. Egli stesso però deve fare questa ammissione. Nel complesso ci pare di trovare il costume o la legge della primogenitura determinato sufficientemente, ma non con assoluta precisione (...)
«Il basilèus aveva, oltre alle competenze militari, anche quelle sacerdotali e quelle giudiziarie: le ultime non erano meglio determinate, le prime gli erano conferite nella sua qualità di supremo rappresentante della tribù o della federazione di tribù. Di competenze civili o amministrative non si parla mai; sembra tuttavia che egli, per l’ufficio che ricopriva, fosse membro del consiglio. Tradurre basilèus con Koening è dunque etimologicamente del tutto esatto, poiché Koening (kuning) deriva da kuni, kuenne e significa capo di una gens. Ma il significato odierno della parola re non corrisponde affatto al greco antico basilèus (...) Come il basilèus greco, così anche il capo militare azteco è stato presentato come un principe moderno. Morgan sottopone per la prima volta alla critica storica i resoconti spagnoli, che prima fraintendevano ed esageravano, poi deliberatamente mentivano; e prova che i Messicani si trovavano nel grado medio della barbarie, più progrediti, tuttavia, degli Indiani Pueblos del Nuovo Messico e che la loro costituzione, per quel che i resoconti travisati permettono di conoscere, corrispondeva ad una federazione di tre tribù che aveva rese tributarie un certo numero di altre tribù e che era retta da un consiglio federale e da un capo militare federale, del quale ultimo gli Spagnoli fecero un “imperatore”» ("L’origine...").
Esistono poi la classe dei nobili (o guerrieri) e la classe dei sacerdoti, in genere appartenenti alla stirpe dell’”imperatore”; i capi di villaggio cioè i capi delle tribù sottomesse all’”imperatore”; i contadini che coltivano collettivamente la terra; si sta anche formando una classe di schiavi, cioè di nati schiavi o catturati in guerra; ed è presente una classe di artigiani, sia liberi sia schiavi, al servizio della nobiltà. Esistono anche i mercanti da intendersi più come classe di barattatori, dovendo essi tenere collegate le varie parti dell’impero attraverso lo scambio di semplici beni; poiché in questo modo di produzione non si producono merci ma beni di consumo, la produzione non è fatta per il mercato, ma come abbiamo visto una irrilevante eccedenza si tramuta in merce:
«Lo scopo di questo lavoro non è la creazione del valore (...) ma il mantenimento così del singolo proprietario e della sua famiglia, come della collettività presa nell’insieme» (Marx, "Grundrisse").
Si conosce il denaro, ma esso non ha l’importanza che ha in quei sistemi economici ove si produce per il mercato, esso dunque esiste ma non ha ancora soggiogato la società.
«Non si può, è vero, negare che società precapitalistiche mostrino altri modi di distribuzione, ma questi vengono interpretati come modi non sviluppati, imperfetti e camuffati, diversamente coloriti, dei rapporti normali di distribuzione, modi che non hanno raggiunto la loro più pura espressione e la loro forma più alta. In questa concezione vi è di vero solo quanto segue: presupponendo che esista una produzione sociale di qualsiasi tipo (ad esempio, quelle delle primitive comunità indiane o quelle del più artificialmente sviluppato comunismo dei peruviani), può essere sempre fatta una distinzione tra quella parte del lavoro i cui prodotti entrano direttamente nel consumo individuale dei produttori e delle loro famiglie – indipendentemente dalla parte che è consumata produttivamente – e quella parte del lavoro, che è sempre pluslavoro, il cui prodotto serve sempre al soddisfacimento dei bisogni sociali generali, quale che possa essere il modo di distribuzione di questo plusprodotto, e chiunque possa esercitare la funzione di rappresentante di questi bisogni sociali» (Marx, "Il Capitale", III).
Si tratta dunque di immense società non ancora uscite da forme estremamente avanzate di organizzazione gentilizia. In esse i caratteri dello Stato, embrionalmente già presenti, tendono a soggiogare la società e a dissolvere la gens, ma perché ciò avvenga sono necessarie epoche di scontri sociali tra le classi, che dimostrino la necessità di un organismo apparentemente al di sopra delle classi stesse, lo Stato, che noi sappiamo essere un attrezzo della classe dominante. Ma il marxismo non nega che esso si presenti come una forma dettata da precise esigenze sociali, e che solo nel tempo tale forma trapassi in oppressione di classe.
«Gli uomini, appena nelle origini emergono dal mondo animale, (in senso stretto), fanno il loro ingresso nella storia: ancora mezzo animali, rozzi, ancora impotenti di fronte alle forze della natura, ancora ignari delle proprie; perciò poveri come degli animali e di poco più produttivi di essi. Domina una certa eguaglianza delle condizioni di vita e per i capi famiglia anche una specie di eguaglianza della posizione sociale: in ogni caso un’assenza di classi sociali, che perdura ancora nelle comunità naturali agricole dei popoli civili del periodo posteriore. In ognuna di tali comunità esistono sin dal principio certi interessi comuni, la cui salvaguardia deve essere delegata a singoli, anche se sotto il controllo della collettività. Decisione di litigi, repressione di prepotenze di singoli che vanno al di là dei loro diritti, controllo di acque, particolarmente in paesi caldi e, finalmente, data la loro primitività, attribuzioni religiose. Siffatti incarichi si trovano in ogni epoca nelle comunità primitive, per es., nelle antichissime marche tedesche e, ancor oggi, in India. Sono ovviamente dotati di una certa autonomia di poteri e costituiscono i primi rudimenti del potere dello Stato.
«A poco a poco le forze produttive si accrescono; la maggior densità della popolazione crea interessi, comuni in un luogo, contrastanti in un altro, tra le singole comunità il cui raggruppamento in complessi maggiori provoca a sua volta una nuova divisione del lavoro e la creazione di organi per la salvaguardia degli interessi comuni e la difesa contro gli interessi contrastanti. Questi organi, che già come rappresentanti degli interessi comuni di tutto il gruppo hanno di fronte ad ogni singola comunità una posizione particolare, in certe circostanze perfino antagonistica, si rendono ben presto ancor più indipendenti, in parte per quella ereditarietà delle funzioni ufficiali che si presenta quasi ovviamente in un mondo in cui tutto procede in modo spontaneo, in parte per la loro indispensabilità crescente con l’aumento del numero dei conflitti con altri gruppi. Come questo rendersi indipendente della funzione sociale di fronte alla società abbia potuto accrescersi col tempo sino ad arrivare al dominio sulla società come l’originario servitore, presentandosi l’occasione favorevole, a poco a poco si sia trasformato nel signore, come, a seconda delle circostanze, questo signore si sia presentato come despota o satrapo orientale, come capo tribù greco, come capo del clan celtico, etc., in che misura in questa trasformazione costui si sia servito anche della violenza, come da ultimo le singole persone che esercitavano il dominio si siano riunite in una classe dominante: tutte queste sono cose nelle quali non abbiamo qui bisogno di addentrarci. Quello che qui importa stabilire è che dappertutto il dominio politico ha avuto a suo fondamento l’esercizio di una funzione sociale, e che il dominio politico ha continuato ad esistere per lungo tempo solo laddove ha mantenuto l’esercizio di questa sua funzione sociale» (Engels, "Antidüring").
In conclusione, se le sue forme della proprietà e dell’evoluzione sociale sono note al marxismo e ricalcano quelle già sperimentate dal resto dell’umanità, il continente americano, poco prima di entrare in contatto con l’Europa, dà l’impressione di un pianeta a sé stante; che ha intrapreso uno sviluppo tecnico e sociale autonomo. Di fatto, queste sono forme di società che ormai il resto dell’umanità ha superato da millenni. Non tragga in inganno la estrema complessità di questi “imperi” precolombiani, il loro alto grado di civiltà e il fatto che essi possono organizzare milioni di uomini (da 30 a 80 milioni secondo alcuni studi). Si tratta di modi di produzione estremamente fragili ed arretrati rispetto al nascente mercantilismo europeo, in cui l’ormai affermato evo civile annuncia addirittura l’avvento del capitalismo.
 
 

2. Aspetti della struttura economico-sociale della penisola iberica del XV secolo
 

Alla fine del quattrocento la Spagna si è da poco riunificata, col matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, cacciati definitivamente gli arabi da Granada, Ora lo stretto di Gibilterra è controllato dai cristiani: a sud dalla Spagna e a nord dal Portogallo, dopo la presa di Ceuta e Tangeri. La struttura economica e sociale iberica è arretrata rispetto al resto d’Europa. Le corone, specialmente la castigliana, basano il loro potere su una classe di nobili dell’altopiano, i quali vivono di tasse, la mesta, ricavate dalla transumanza dei pascoli: un’attività questa molto redditizia dal momento che nelle Fiandre e in Italia c’è grande richiesta di lana.

La riconquista dei tre maggiori regni iberici (Castiglia, Aragona e Portogallo) è avvenuta con la concessione dei territori strappati ai Mori alla nobiltà guerriera e con l’allargamento e il consolidamento della mesta nelle nuove regioni; ciò ha comportato una vera e propria spoliazione delle terre dei piccoli contadini arabi, tecnicamente tra i più avanzati d’Europa. Solo così si spiega come la riconquista abbia comportata tutta un’epoca di rivolte contadine e ribellioni di artigiani contro la nobiltà.

Con la riunificazione ha inizio quel processo che porterà quindi alla cacciata dei moriscos e degli ebrei, che rappresentavano la parte più avanzata del paese, quegli artigiani e quei piccoli agricoltori che nel resto dell’Europa daranno origine alla borghesia.

In questo stesso periodo la manifattura si sta sviluppando in Italia, nelle Fiandre e nei Paesi Bassi, in Francia e in Inghilterra, ma è pur sempre un’attività subordinata alle grandi famiglie dei mercanti. Le due maggiori repubbliche marinare italiane, Genova e Venezia, hanno rispettivamente il controllo della zona Ovest e della zona Est del Mediterraneo. Genova controlla la via dell’oro, collegando la costa del Nord Africa, Ceuta e Tunisi, dove arrivano le carovane dopo aver attraversato il deserto per collegare gli imperi centroafricani al Mediterraneo, con l’Europa centrale. Venezia controlla la via delle spezie la quale parte dalle Indie ed è gestita dai cinesi fino a Calcutta, poi dagli arabi fino al Mar Rosso e infine dai veneziani, che acquistano sui mercati egiziani e siriani le spezie per diffonderle in tutto il continente europeo. L’importanza dell’oro è dovuta alla nascente necessità dei mercanti di avere un equivalente generale valido per tutti gli scambi internazionali; mentre l’importanza delle spezie è dovuta alla necessità di conservare le carni, attraverso il loro potere battericida.

Il mondo, quindi, è un insieme di aree chiuse, ma contemporaneamente non del tutto isolate le une rispetto alle altre; stanno in equilibrio perché nessuna è in grado di prendere il sopravvento sulle altre, compito questo che sarà svolto nei secoli seguenti dalla borghesia europea. Da parte sua l’America ha uno sviluppo autonomo naturalmente al di fuori di questi scambi fra continenti, che faticosamente si sono creati nel resto del mondo.

L’Europa è nella fase della sottomissione formale del lavoro al capitale. I banchieri, l’usura, indebitando e rovinando i grandi proprietari terrieri e i piccoli produttori si appropriano della terra e delle condizioni di lavoro dei piccoli artigiani e dei contadini stessi. Per questi motivi le corone sono costrette a farsi carico delle guerre commerciali, allo scopo di far fronte al loro progressivo indebitamento.In definitiva questa è la causa principale delle grandi scoperte del XV secolo. La stessa propensione atlantica del Portogallo e della Spagna è all’inizio solo un segno di debolezza: non potendo scardinare la egemonia delle maggiori repubbliche marinare italiche, si cercava una via alternativa per raggiungere i mercati delle Indie, il fulcro intorno al quale avvenivano tutti commerci marittimi. Anche quando si potè raggiungere l’Asia circumnavigando l’Africa, Venezia rimase fino a tutto il XVII secolo la principale fornitrice di spezie dell’Europa.

Il Portogallo è un tipico esempio di sottomissione dello Stato al capitale usurario e mercantile: ha un porto sull’Atlantico, Lisbona, che gli permette di gestire i collegamenti fra il Nord Europa, il fondamentale mercato di Amsterdam, e l’Africa; controlla una parte dello stretto di Gibilterra; ha una nobiltà indebitata ai grandi banchieri europei. Ecco perché all’inizio del 1400 i mercanti portoghesi sono soliti frequentare le fiere annuali tenute dai commercianti africani alla ricerca soprattutto di oro per battere moneta. Nel far ciò i portoghesi esplorano progressivamente la costa occidentale africana, entrando sempre più in contatto con i popoli di colore.

Ma gli affari migliori vengono dalla scoperta del pepe africano e della maleguetta, entrambe spezie a buon mercato. In seguito si iniziarono a costruire lungo la costa africana dei capisaldi armati e fortificati (Cantor, Sao George de Mina) con lo scopo di difendere gli empori che gradatamente i mercanti fondavano con la protezione dell’esercito. Già verso la fine del secolo i portoghesi erano arrivati a doppiare il Capo di Buona Speranza, rendendosi conto di essere entrati nell’Oceano Indiano controllato dagli arabi. I mercanti portoghesi scambiavano manufatti, comprati a basso prezzo nelle Fiandre, a Londra e a Lione, soprattutto con oro, schiavi e spezie. È evidente come in questo processo sia la manifattura capitalistica a consolidarsi: l’oro passava per Lisbona per finire nelle casse dei banchieri tedeschi, che avevano anticipato i capitali per le grandi esplorazioni, oppure servivano per acquistare drappi, tele, sete ed armi prodotte all’estero. L’esercito della corona garantiva il monopolio del commercio africano attraverso la Casa de Guinea; poi, dopo il 1500, tenterà di garantire il monopolio del commercio con le Indie orientali attraverso la Casa de India.
 
 

3. La scoperta dell’America
 

Quando le necessità storiche sono gravide di grandi imprese salta fuori l’uomo di genio. È il caso di Colombo, il quale rappresenta la esperienza dei navigatori genovesi e la coscienza scientifica del proprio tempo: che la terra fosse sferica è cosa ormai di nuovo nota a tutti gli scienziati di una certa serietà.

Per tentare l’impresa Colombo si rivolge in un primo tempo al Portogallo. Il rifiuto che ottiene si deve sostanzialmente al poco interesse che i portoghesi hanno per una via occidentale alle Indie, dal momento che è ormai più che evidente la possibilità della via orientale. Le navi portoghesi, infatti, si collegano regolarmente con l’Oceano Indiano, utilizzando secondo le latitudini gli Alisei e i Controalisei. Così dopo i primi approcci si tenta con successo una guerra mercantile per la fondazione di un emporio a Calcutta. L’affare è tale che Vasco De Gama, comandante di tale spedizione, ritornerà in patria con un carico di pepe indiano 15 volte superiore alle spese sostenute per armare la flotta di 20 navi che si era mossa all’impresa (1459).

Colombo deve perciò rivolgersi ad un’altra potenza atlantica; le contingenze politiche del tempo fecero sì che fosse la Spagna, forte della recente vittoria sugli arabi, a fornirgli il porto, le navi e gli uomini. Del resto, fino a poco prima di partire Colombo ha anche dei contatti con l’Inghilterra.

Fin dalla prima attraversata viene percorsa la rotta giusta, quella diretta, che rimarrà tale per tutto il tempo della navigazione a vela. Ciò indica che non si cerca una strada a caso, essendo ormai mature anche le conoscenze tecniche della scoperta dell’America. Già da tempo i marinai inglesi si spingono a largo partendo da Bristol, mentre le carte navali indicano isole sparse nell’Atlantico con nomi che diverranno significativi, Antillas, Brasil: non si può escludere che qualche nave abbia toccato le coste americane prima del 1492. Del resto nel 1500 accadrà a Cabral di scoprire per caso il Brasile, per avere sfruttato troppo l’Aliseo di sud-est mentre portava rinforzi alla spedizione di Vasco De Gama.

Occorreranno una ventina d’anni per comprendere la reale portata della scoperta delle Indie Occidentali. In questo periodo si verificano una serie di fatti, che avranno notevole peso per lo sviluppo storico successivo. Nel 1494 viene firmato il trattato di Tordesilla, col quale Spagna e Portogallo si spartiscono le colonie secondo una linea meridiana. Nel 1503 viene fondata in Spagna la Casa de Contrattacion, che secondo il modello portoghese è incaricata di gestire il monopolio del commercio con le Indie: il re si riserva la proprietà di un quinto di ciò che i suoi sudditi sapranno ricavare dallo sfruttamento delle colonie. Ai primi del 1500 è ormai chiaro che si tratta di un altro continente; tutta la costa atlantica dell’America viene esplorata da Vespucci alla ricerca di un passaggio per le Indie Orientali, che sarà trovato nel 1519 da Magellano. In questo periodo si sono formati i primi insediamenti spagnoli nelle Antille, prima a Porto Rico poi a Haiti e a Cuba; anche i portoghesi si sono insediati in Brasile; ormai ci sono contatti diretti o indiretti con le popolazioni indigene centroamericane del Golfo del Messico.
 
 

4. La conquista del Centroamerica
 

Gli spagnoli arrivavano in America con l’intenzione di appropriarsi dei tesori delle città e di sostituirsi al dominio dei capi Aztechi, Maya e Incas; ciò facendo ripropongono gli stessi rapporti di produzione che hanno impiantato durante la riconquista della penisola iberica: i territori vengono dati in concessione ai fedeli servitori della corona.

Non si tratta dunque dello stesso metodo che in seguito verrà usato dagli inglesi, dagli olandesi e dai francesi; il problema per gli spagnoli non è quello di espellere popolazioni eccedenti venutesi a formare a causa dell’impianto del modo di produzione capitalistico, ma quello di sfruttare il più possibile i tesori americani per sanare l’indebitamento crescente dell’aristocrazia con i banchieri usurai tedeschi e olandesi. Non fu dunque la particolare ingordigia degli spagnoli ma i particolari rapporti economici dell’Europa che imposero agli indios servitù personali di tipo medioevale, addirittura peggiori di quelle alle quali erano abituati.

Come fu possibile che spedizioni di “avventurieri”, anche se ben armati abbiano potuto sfaldare organizzazioni sociali di milioni di uomini? Che ciò non potesse non avvenire si spiega con il ritardo della struttura economica degli “imperi” precolombiani, rispetto all’incipiente capitalismo europeo rappresentato dagli spagnoli. D’altra parte il fatto che la conquista sia avvenuta in pochi anni, cosa che del resto è vera solo parzialmente, si spiega nel sovrapporsi delle cause di ordine strutturale con quelle di ordine politico contingente: le lotte intestine che all’inizio del 1500 travagliavano queste popolazioni centroamericane furono opportunamente sfruttate dai conquistadores.

Cortes conquistò il Messico agli inizi del 1519. Per far ciò si avvalse della ribellione di alcune popolazioni della provincia di Texala nei confronti di Montezuma II; in virtù di queste alleanze Cortes riuscì ad evitare un’imboscata che l’esercito azteco gli aveva preparato ed a contrattaccare per distruggere le milizie indigene grazie all’impiego delle sue bocche di cannone; aveva ormai tutte le popolazioni rivoltose al suo seguito quando entrò nella capitale del Messico, Tenochtitlan, dove poté fare prigioniero l’”imperatore”. In seguito gli spagnoli si dettero al saccheggio della capitale, provocando la ribellione di quelle popolazioni indigene che li avevano fino ad allora assecondati; i conquistadores vennero così cacciati da una rivolta; per questo si rese necessaria una seconda spedizione nella quale Tenochtitlan fu di nuovo assediata, bombardata e definitivamente presa e saccheggiata.

Più difficile fu la conquista dello Yucatan, dove il dominio dei Maya era consolidato e non fu possibile rivolgere le popolazioni indigene contro i loro capi. Accadde invece il contrario: le popolazioni si ribellarono all’avanzata spagnola. Occorse un quarto di secolo per sottomettere i Maya in un vero e proprio bagno di sangue.

L’”impero” Incas all’epoca dell’arrivo degli spagnoli era in preda ad una grave crisi dinastica: due pretendenti si contendevano la successione al trono. Nel 1531 Pizarro, dopo due tentativi falliti, solo al terzo raggiunge il Perù. Si allea con il pretendente “illegittimo” facendo assassinare il fratello, legittimo erede; in seguito, dopo essersi appropriato del tesoro imperiale pensa bene di eliminare anche l’altro. Così Pizarro fece processare il fratricida Ataualpa come usurpatore, idolatro e poligamo e lo fece giustiziare. Il periodo successivo fu contrassegnato da tutta una serie di ribellioni, sia fra la canaglia che aveva seguito Pizarro sia fra una parte degli stessi indios. Questi ultimi formeranno una comunità Inca sulla Sierra, che sarà in grado di restare isolata dagli spagnoli fino al 1572.

Nel 1535, si inizia la conquista del Cile, ma gli spagnoli dopo gli iniziali successi subiscono una serie di sconfitte dalle popolazioni araucane e sono costretti a firmare una pace, che sarà rispettata per 200 anni.
 
 
 

5. L’organizzazione economica coloniale
 

Gli spagnoli si posero voracemente il problema dell’accaparramento dei tesori degli indiani; ma i bottini di guerra, se pure ingenti, non sono che un aspetto della conquista, l’altro è l’assoggettamento delle popolazioni. È così che nasce la encomienda, cioè la concessione data dal re ai conquistadores del diritto di sfruttare le terre e gli indigeni che sopra vi risiedono. Le terre e gli indigeni sono affidati in custodia all’encomendero, il quale ne può disporre a suo piacimento, riscuotendo imposte o imponendo servitù personali.

Tale forma di possesso è rintracciabile in modelli asiatici o feudali e presuppone la reversibilità della concessione. In definitiva è il sovrano il proprietario delle colonie, le quali sono date in accomandita; l’accomandatario (o encomendero) può sfruttarle pagando un quinto degli utili allo Stato spagnolo. Inizialmente la encomienda è usata come ricompensa ai servigi militari dei conquistatori e viene concessa di norma per tre generazioni; ciò non è una novità perché si era usato lo stesso metodo durante la cacciata dei moreschi. Cortes, ad esempio, dà alcuni territori in encomienda ai propri soldati ed egli stesso è il maggior encomendero messicano. Ma le generazioni successive, anche se erediteranno dai conquistadores immensi territori, dovranno sempre più sottostare alle dipendenze della burocrazia coloniale, direttamente nominata dalla Spagna.

Gli spagnoli, agli inizi, intendevano semplicemente sovrapporsi al dominio dei capi indigeni, ma presto le esigenze del mercato europeo dettarono le proprie condizioni alle colonie.

Vengono introdotte nuove tecniche sconosciute agli indios, come l’aratro, la ruota, e nuove specie di animali come il cavallo, la pecora, il bue e il maiale e nuove colture come il grano; ben presto le colture tipicamente indiane (mais, patate) si rivelarono di scarsa importanza per gli spagnoli, i quali perciò iniziarono ad impiantare colture più redditizie, come la canna da zucchero e il tabacco, richiestissime in Europa. Anche lo sfruttamento minerario, specialmente dell’argento e del mercurio, viene intensificato. Questo nuovo assetto produttivo avviene sulla pelle degli indiani costretti a duri turni di lavoro gratuito o semi gratuito.

Gli storici amano molto disquisire sui caratteri disumani e coercitivi dell’encomienda e sono sempre imbarazzati del diritto che il papa e i re cattolici si arrogavano nell’affidare gli indiani ai barbari conquistadores; il marxismo non è certo spaventato dalla servitù personale, né ritiene di minor sfruttamento la sua trasformazione in imposta in natura o in danaro, se mai considera questi mutamenti indici di un avvenuto cambiamento nella struttura economica.

L’encomienda pose subito la questione della sua ereditarietà, che col tempo avrebbe sempre più significato possibilità di vendere la terra. È evidente che l’accomandatario non essendo proprietario della terra non poteva venderla. Da parte sua, la legislazione reale tendeva ad applicare la regola delle due o tre generazioni, per cui lunghe cause di eredità si trascinavano tra gli eredi e la corona spagnola. I procuratori legali studiavano accuratamente i casi famiglia per famiglia, al fine di stabilire da quante generazioni si fosse in possesso della encomienda, perché la concessione reale variava da caso a caso senza una norma precisa, c’era addirittura chi aveva diritto a quattro generazioni per meriti speciali o chi otteneva la proprietà. Comunque, verso la fine del 1600 tutte le grandi encomiendas erano ritornate in possesso della corona, che di nuovo le dava in concessione per breve tempo; talvolta si dava all’encomendero solo la rendita di una qualche encomienda, senza che questi ne prendesse mai possesso, mentre erano i funzionari statali ad incaricarsi della conduzione dell’azienda e della riscossione delle imposte. In definitiva fino a tutto il Settecento è la corona a gestire la rendita coloniale e a stabilire i diritti di concessione.

Da buoni ladroni gli spagnoli non ebbero molto riguardo delle forme di sfruttamento degli indiani. Tutto era lecito: dai servizi domestici alla estorsione di corvée, al lavoro coatto in botteghe artigiane, al lavoro servile nelle miniere. Ad esempio in Guatemala si usava il repartimientos, secondo il quale i capi di villaggio (i cacicchi) dovevano fornire agli spagnoli un tot numero di indios a seconda delle richieste dei coloni. Gli indios si dovevano presentare con gli attrezzi da lavoro e il cibo sufficiente per una settimana, questo era il tempo che dovevano lavorare, la ricompensa era poco più che simbolica. Si trattava di una specie di corvée già in uso sotto i Maya, in questo caso gli spagnoli non fecero altro che sostituirsi ai vecchi padroni.

Ma questo asservimento assunse aspetti assai più brutali nel caso del lavoro nelle miniere del Potosì, in Perù. Qui il lavoro coatto si chiamava sempre myta, come al tempo degli Incas, solo che adesso si trattava di lavorare per 40 giorni nelle miniere di mercurio e per 4 mesi in quelle di argento.

Iniziò a formarsi in questo periodo il grande latifondo, attraverso l’impianto dell’allevamento di ovini e di bovini, e se avessero potuto gli spagnoli avrebbero riproposto anche la mesta, invece dovettero limitarsi allo spopolamento delle terre degli indigeni come avevano fatto a suo tempo con quelle degli arabi. Si forma così una classe di contadini immiseriti, i peones, costretti a vivere nel latifondo come servi per nascita o per indebitamento.
 
 

6. Lo sfruttamento delle colonie nel XVI secolo
 

Non essendovi spezie, nelle colonie americane l’interesse degli europei si rivolge ai metalli preziosi e a quelle colture come lo zucchero e il tabacco di cui nel vecchio continente c’è notevole richiesta. Si scoprono subito grossi giacimenti d’argento specialmente in Perù, vicino all’antica capitale Cuzco; a Huancavelica, invece, c’è il mercurio che serve a sua volta nel ciclo di estrazione dell’argento.

Molto importanti sono le ripercussioni dell’attività coloniale in Europa. Ebbe origine la carrera spagnola, il raccordo commerciale fra madrepatria e Indie Occidentali, attraverso la Casa de Contrattacion, che doveva “porre al sicuro l’oro, l’argento, le gioie e le altre cose provenienti dalle Indie”, si esercitava il monopolio del commercio americano, che partiva da Siviglia e da Cadice e giungeva in tre soli porti americani: Veracruz, Cartagena, e Portobelo. Immense fortune in argento affluirono in Spagna, ma servivano a pagare gli interessi ai banchieri tedeschi, i Fugger, o ad acquistare le merci da portare in America dalle nascenti manifatture delle Fiandre, dell’Olanda e dell’Inghilterra. La stessa Casa de Contrattacion, come l’omonima portoghese, era sempre più egemonizzata da mercanti olandesi, fiamminghi, francesi, veneziani.

È il capitale industriale il vero vincitore delle guerre commerciali del tardo medioevo. L’ubbia mercantilista che la ricchezza consista nella semplice accumulazione di metalli preziosi è crudelmente smentita man mano che l’oro e l’argento perdono di valore per la loro eccessiva quantità. Inizia in Europa un periodo inflazionistico che ha nei paesi iberici il centro di irradiazione; tanto che la Spagna, che nel frattempo ha assorbito il Portogallo, è costretta a dichiarare “bancarotta” nel 1577.

Nel contempo le nuove colture importate dall’America permettono l’aumento della resa di terre fino ad allora poco fertili, perché inadatte alla crescita dei cereali: l’esempio classico è l’introduzione della patata in Germania.

Eppure siamo nella fase di massima potenza spagnola nel mondo, che dialetticamente prepara l’ascesa delle nazioni borghesi, per le quali lo sfruttamento delle colonie avrà un’importanza fondamentale.

Decisamente catastrofiche sono le conseguenze dell’arrivo degli spagnoli sulle popolazioni indigene. L’incapacità dei contadini delle comuni precolombiane ad adattarsi al lavoro delle miniere o a quelle delle piantagioni tropicali, le nuove abitudini alimentari imposte ai mytayos a base di carne di maiale speziata, nel momento in cui lo sfascio del vecchio sistema produttivo fa precipitare la produzione agricola e soprattutto l’inasprimento dello sfruttamento a tutti i livelli sono i fattori che determinano il diffondersi di tutta una gamma di malattie infettive, già conosciute in Europa, ma che gli indiani non sono preparati ad affrontare.

Il peggioramento delle condizioni di vita abbassa le difese organiche degli indigeni, cosicché in meno di un secolo muore di tifo, vaiolo o morbillo più della metà della popolazione centroamericana. Questa è la causa dell’inizio dell’importazione di genti nere, più adatte a sopravvivere alle malattie, alle privazioni e alla schiavitù. Si intensifica così la produzione di zucchero nelle Antille per mezzo del lavoro schiavistico dei negri. Ha inizio la tratta degli schiavi, che durerà fino alla fine del Settecento, strappando dall’Africa qualcosa come 50 milioni di uomini.
 
 

7. Rapporti con le metropoli
 

Se, come è vero, la storia delle Americhe fu dal primo momento direttamente rapportabile a quella dello sviluppo del capitalismo europeo, allora non possiamo che spiegarci lo sviluppo del colonialismo in senso globale. È pertanto necessario richiamare alcune nozioni di storia, al fine di meglio organizzare l’analisi della struttura economica e sociale dell’America Latina alla fine del Settecento.

Le nazioni emergenti del Seicento e del Settecento in Europa sono la Gran Bretagna e la Francia. La prima ha già fatto la propria rivoluzione borghese (Cromwell), ha sottomesso la nascente potenza commerciale dell’Olanda, dopo di che ha iniziato a scardinare la grande potenza spagnola, che per tutto il Seicento rimane quella egemone nel mondo. È con la distruzione della Invincibile Armada (1588), che data l’inizio della propensione atlantica della Gran Bretagna e del decadimento della Spagna.

La Francia, da parte sua, attraverso la politica di Luigi XIV e di Luigi XV, di appoggio alla grande borghesia finanziaria e mercantile, si va sempre più sostituendo alla Spagna nel predominio dell’Europa centrale e mediterranea. Di fatto il commercio tra Spagna e America è nelle mani dei mercanti di Lione e di Bordeaux.

Come vedemmo, la presa di possesso delle colonie americane non rappresenta per la Spagna l’inizio di uno sviluppo borghese della sua economia; ma, sebbene per tutto il Cinquecento e il Seicento la Spagna sia la potenza più importante del globo, la sua forza è solo militare e si regge sull’indebitamento coi grandi banchieri europei. La Spagna prende possesso delle colonie in nome della nascente borghesia europea, questo processo successivamente non si arresta ed ha termine con il totale ridimensionamento della Spagna nell’Ottocento.

Questo stato di cose si riflette anche nel metodo di sfruttamento che la Spagna adotta nei suoi territori d’oltre Atlantico. La casta guerriera, che intende dominare l’Europa, ha solo bisogno di denaro per finanziare gli eserciti. L’oro e l’argento sono in America Latina; pertanto per duecento anni si organizzerà la colonia solo in funzione dell’estrazione mineraria. Una volta all’anno parte per le Americhe un convoglio di navi da Siviglia, da Cadice poi. Una flotta carica di manufatti, provenienti in gran parte dalla Francia, e di derrate alimentari, richieste dagli spagnoli delle colonie. Dopo aver toccato i tre porti americani autorizzati al commercio (Cartagena, Veracruz e Portobelo), dove si raccolgono i metalli estratti dalle miniere, le navi ritornano in patria, cariche di monete d’argento e d’oro. Il re ha diritto, come tassa, al quinto del valore delle merci trasportate e al quinto del valore dell’importo dell’argento estratto nelle Americhe.
 
 
 

8. Organizzazione economica della colonia nel XVII secolo
 

All’interno di questi rigidi canoni di sfruttamento economico l’America Latina non può sviluppare che il settore di estrazione mineraria. In particolare i centri nevralgici dell’impero sono il Perù e il Messico, dove si scoprono enormi giacimenti d’argento. Le miniere vengono sfruttate attraverso forme di servitù personale come il repartimiento e l’encomienda, per i quali gli indios prestano ai dominatori bianchi mano d’opera coatta.

Si sviluppa ai confini del pachidermico impero il contrabbando specialmente inglese, olandese e francese. Quello della pirateria – così cara ai romanzieri del primo novecento – non è che il primo tentativo delle giovani potenze commerciali atlantiche di scalfire il monopolio spagnolo in America Latina. Con la pirateria si vogliono raggiungere due scopi. Il primo, quello di appropriarsi degli ingenti carichi di argento, che ritornano annualmente dalle colonie (siamo nell’era in cui la borghesia usa i metalli preziosi come equivalente generale internazionale). Il secondo, collegarsi direttamente ai nuovi mercati, senza l’intermediazione della burocrazia reale spagnola.

Per tali motivi le basi dei pirati e dei bucanieri nelle Antille sono spesso dei centri commerciali. I mercanti-contrabbandieri si fermano fuori dalle acque territoriali, per commerciare con i navigli provenienti dal continente. Tutto ciò è possibile perché la Spagna è dal punto di vista produttivo arretrata, rispetto ai due Stati europei all’avanguardia sull’Atlantico. Gli episodi di questa avanzata appaiono nel Seicento irrilevanti rispetto al mastodonte spagnolo, ma nel Settecento si riveleranno fondamentali.

Già verso la metà del XVI secolo i pirati francesi arrivano a conquistare Cuba ed a chiederne un riscatto; nello stesso periodo Francis Drake è incaricato dalla corona inglese di organizzare la pirateria nelle Antille: famosa resta la cattura del convoglio spagnolo proveniente dalle miniere del Perù, durante l’attacco a Panama del 1573. Nel 1604, i francesi si insediano nella Guyana. Nel 1620, gli inglesi si insediano nelle Barbados; nello stesso periodo i francesi conquistano la Martinica e la Guadalupa. Nel 1625, i francesi e gli inglesi hanno ormai occupato le Piccole Antille. Nel 1628 sono gli olandesi a catturare l’annuale convoglio dell’argento messicano, proveniente da Veracruz. Nel 1630 i bucanieri stabiliscono la loro base nell’isola di Tortuga. Nel 1634 gli olandesi si impossessano di Curacao. La Gran Bretagna conquista Giamaica e ne fa il centro di irradiazione della pirateria. Morgan era il governatore di Giamaica, ma le nazioni europee antispagnole erano tutte implicate nei suoi traffici “illegali”, e ne traevano profitto. Nel 1697, Francia e Gran Bretagna si accordano per la spartizione di Santo Domingo.

Per tutto il Seicento, però, questi progressi non riescono in sostanza ad intaccare il potere della Spagna in America Latina. Il sistema, organizzato dai conquistadores al loro arrivo, rimane fondamentalmente intatto fino al XVII secolo. Encomienda e repartimiento sono le basi dello sfruttamento del lavoro degli indios: attraverso il repartimiento si impone lo sfruttamento delle miniere, attraverso l’encomienda si organizza l’allevamento e l’agricoltura a sostegno delle miniere stesse.

Pur nel relativamente lento sviluppo della produzione agricola, si assiste ad una concentrazione della terra nelle mani di poche famiglie di proprietari fondiari, mentre è sempre la corona a garantire la proprietà, intesa come concessione personale. Si forma la grande hacienda, un fenomeno che inizialmente è del Messico ma che tende a diffondersi nel resto delle Indie Occidentali. Le haciendas presuppongono l’esproprio delle terre delle comunità di villaggio, vere e proprie confische, fatte in nome della corona con i pretesti più svariati: ad esempio, i villaggi che non possono dimostrare un diritto di proprietà della terra sono espropriati.

Al di là della brutalità e degli intrinseci contenuti di arretratezza dei metodi usati dai proprietari fondiari spagnoli, noi vediamo in questi processi di concentrazione fondiaria non un ritorno al medioevo, ma un progressivo prender possesso della colonia da parte del mercato mondiale. Il superamento della comune di villaggio – stanti i rapporti capitalistici quali erano già nel Seicento – si poneva o nel senso della sua trasformazione in grande servitù personale oppure una vera e propria decimazione degli indiani. L’America Latina non poteva che ripercorrere il necessario tragitto della brutale storia dell’umanità.

Gli spagnoli introdussero l’encomienda e il repartimiento, forme progressive rispetto al comunitarismo precolombiano. L’encomienda si trasformò, con lo sviluppo delle forze produttive, in peonaggio, una forma già borghese di sfruttamento della terra. Il peonaggio formerà quella massa di schiavi nullatenenti, che sono la base della introduzione del capitalismo sotto ogni cielo. Gli yankees del Nord America invece – una volta risolto il contenzioso con gli Stati del Sud – scelsero la strada più radicale, quella dell’annientamento delle comunità indigene: cancellarono dalla prateria i pellirosse per organizzare il modo di produzione capitalistico.
 
 

9. Il XVIII secolo prepara l’affossamento spagnolo
 

Il Settecento è il secolo che anticipa l’affermazione definitiva della borghesia alla scala europea e mondiale. In America Latina è il secolo di preparazione della definitiva distruzione del sistema coloniale spagnolo, che avrà termine nel 1825 con le guerre di liberazione nazionale. È ormai evidente la superiorità del modello di sviluppo coloniale della borghesia anglo-francese rispetto ai proprietari fondiari spagnoli. Le Antille sono il centro di questo confronto: da polo di irradiazione del contrabbando e della pirateria, si trasformano in terre di produzione di materie prime pregiate. Zucchero, cacao, caffè e indaco sono prodotti nelle regioni caraibiche per essere consumati in Europa. Le piantagioni sono, dunque, introdotte per far fronte alle richieste del mercato europeo con capitali europei; il commercio è gestito dagli europei; la forza lavoro negra è fornita dagli europei; le merci di scambio con le materie prime sono fornite dagli europei. È un grande affare in cui la ricchezza accumulata in capitale è sempre controllata dalle metropoli borghesi. Intorno alla produzione dello zucchero si organizza tutta l’economia delle Antille.

Si organizza il famoso commercio triangolare. Le navi negriere partono da Bristol, da Liverpool o da Bordeaux cariche di manufatti, specialmente telati ed armi molto richiesti in Africa; a seconda delle necessità o dei favori politici di cui godono, si recano sulla costa africana dell’Atlantico; dove avviene il primo affare con i mercanti indigeni, controllati da qualche autorità locale riconosciuta. Può durare fino a quattro mesi lo stivaggio dei negri. Poi si fa vela per le Antille, dove le piantagioni di canna richiedono un continuo rinsanguamento della mano d’opera schiava: mediamente uno schiavo non vive in cattività più di dieci anni, quindi tutti gli anni i proprietari debbono ammortizzare un decimo del loro capitale di uomini, ogni dieci anni la popolazione negra è completamente sostituita da altri schiavi. Questo dà l’indice della drammaticità del fenomeno.

La tratta e il commercio delle Antile nel XVIII secolo
 
La tratta e il commercio delle Antille nel XVIII secolo
(R.Anstey, The Atlantic Slave Trade and British Abolition, 1760-1810, Londra 1975)

Se non sono più di 10 o 15 milioni i negri che arrivano ai porti delle Americhe, lo sconquasso della tratta in Africa provoca la perdita di 40-50 milioni di vite. Molti negri muoiono per malattia o suicidio sulle navi, ma, soprattutto, sono le guerre intestine africane, per procurare gli schiavi ai negrieri, che provocano la decimazione di intere popolazioni. Fatta rotta per le Antille si vendono gli schiavi e si carica lo zucchero, richiestissimo in Europa, dove non è ancora stata scoperta la possibilità di estrarlo dalla barbabietola.

Il mercato europeo dello zucchero e degli altri coloniali nel Settecento è tacitamente diviso fra Inghilterra e Francia. La prima, oltre ad esserne grande consumatrice, gestisce il mercato del Nord, coi Paesi Bassi, la Danimarca e i paesi Scandinavi, fino alle fredde terre degli zar, la seconda il mercato centro-europeo attraverso Bordeaux e quello mediterraneo attraverso Marsiglia. Se tutto appare fatto negli interessi della borghesia commerciale, che domina l’alleanza con quella industriale, è quest’ultima in definitiva a vedere nel rafforzamento del commercio con l’Africa e con l’America consolidata la sua ossatura manifatturiera. Le compagnie commerciali gestiscono direttamente l’organizzazione economica delle piantagioni, attraverso l’anticipo dei capitali ai piantatori – cronicamente indebitati con l’Europa e alla continua ricerca di lettere di credito, incassabili alla Borsa di Londra. Tuttavia sono le fabbriche di Londra e di Liverpool, che stanno preparando il grande balzo della rivoluzione industriale.
 
 

10. Sviluppo della colonia spagnola nel XVIII secolo
 

Il grande affare dello zucchero caraibico trova impreparata la struttura economica spagnola. Cuba, ad esempio, è fino a tutta la prima metà del Settecento una fornitrice di carne alle rimanenti isole delle Antille. Comunque, se pur meno dinamica rispetto al resto dell’America, anche la struttura economica coloniale spagnola sta evolvendo in senso capitalistico.

In Perù si vanno esaurendo le miniere d’argento, già utilizzate dagli Incas, ma contemporaneamente prende sviluppo l’allevamento di bestiame nella Plata argentina, originariamente impiantato per fornire carni ai minatori peruviani, poi organizzatosi per soddisfare la richiesta di cuoio in Europa. Pare che nel Settecento il valore della pelle di un manzo fosse a Buenos Aires uguale a quello della sua carne. Nell’area dell’Orinoco, intorno alle piantagioni di cacao – che non permettono gli stessi affari di quelle di zucchero – si organizza anche un allevamento di tipo estensivo. In Messico, invece, l’attività estrattiva è ben più redditizia, specialmente nel Potosì; è intorno ad essa che si organizza un’agricoltura di sostentamento e l’allevamento di bestiame. Il commercio è gestito attraverso il monopolio spagnolo, sono le corporazioni mercantili del cuoio, del cacao, e dell’argento ad arricchire, mantenendo la struttura amministrativa imperiale e la corona stessa.

Si va formando una classe dirigente creola, di spagnoli ormai trapiantati in America, che non sempre ha gli stessi interessi dell’amministrazione imperiale. È ormai passato il tempo della pirateria, l’Inghilterra ha imposto alla Spagna il trattato di Utrecht (1713), col quale ottiene il monopolio del commercio degli schiavi con le colonie spagnole, l’Asiento, e la possibilità di aggregare alla flota spagnola un proprio convoglio di navi mercantili. Sono così legalmente aperte al commercio europeo le fiere annuali dei tre porti del Centro America e di Buenos Aires. D’altronde il contrabbando è di fatto istituzionalizzato in alcuni vicereami spagnoli. Vedremo come il tentativo di opporsi a questa tendenza storica in corso da parte della corona spagnola, rappresenterà una delle cause della guerra con la Gran Bretagna e dell’inizio delle rivoluzioni nazionali in America Latina.


 
L’America Latina alla fine del XVIII secolo

Dal punto di vista dei rapporti sociali assistiamo, specialmente in Messico, alla trasformazione delle comunità di villaggio in haciendas di proprietà dei latifondisti, i quali usano il peonaggio come metodo di sfruttamento dei contadini. Già dal 1609 gli indiani sono obbligati a lavorare le terre dei loro conquistatori, solo che possono “liberamente” scegliersi il padrone che vogliono. Successivamente, con un processo molto simile a quello conosciuto dai contadini europei, i proprietari indebitano i propri contadini allo scopo di legarli all’hacienda. Il padrone anticipa ai peones parte del salario e una parte del capitale d’esercizio in sementi per coltivare i piccoli appezzamenti, che servono al contadino per sopravvivere. Il peone può lasciare l’hacienda a condizione di pagare il proprio debito, ma questo non accadrà mai: la legge prevede che l’indiano indebitato sia trattenuto nella proprietà. I grandi latifondisti hanno così un potere assoluto, che esercitano sui loro sterminati territori: hanno il diritto di giudicare i peones, hanno milizie per mantenere l’ordine sui braccianti e sui villaggi.

La figura del peone è assimilabile a quella del contadino povero: possiede infatti un piccolo appezzamento di terreno ed è anche costretto a lavorare per il proprietario fondiario, per sopravvivere e pagare il debito che ha contratto. Si potrebbe obiettare che, di fatto, il tipo di servitù che si crea è simile a quella fra feudatari e contadini nel medioevo, ma ciò non è esatto alla luce delle categorie economiche: il rapporto di servitù è mediato dal denaro e dall’interesse, cioè dall’anticipo di capitale al piccolo produttore, anche se in forma più che rudimentale.

Questo modo di condurre le haciendas sta tutto, dunque, nel modo di produzione capitalistico, anche se non possiamo non rilevare che è una forma retriva: sia rispetto alla grande conduzione delle fattorie attraverso il lavoro salariato; sia rispetto alla stessa conduzione parcellare del latifondo attraverso lo spezzettamento in piccoli lotti dati in gestione ai liberi contadini. È questa una forma di passaggio fra uno stadio di schiavitù – quale poteva essere l’encomienda o la grande piantagione tropicale – e la conduzione delle campagne attraverso il moderno metodo capitalistico col lavoro del salariato agricolo.

Un tale sistema condurrà le haciendas a creare una massa di contadini che nei momenti di carestia si sarebbero rivelati disperatamente incapaci di sopravvivere. Essi saranno la base della rivoluzione contadina dal basso, che avrebbe scosso a più riprese le fondamenta del Messico. Non si tratterà di proletari, perciò non si muoveranno in senso socialista, ma durante le rivolte si divideranno la terra dei latifondisti: questo sarebbe stato il modo più rapido di introdurre il capitalismo nelle campagne e, quindi, in tutta la società. La borghesia e i proprietari fondiari latinoamericani avranno l’esatta sensazione di questo stato di cose, tant’è che la loro più grande preoccupazione – una volta sconfitto l’impero spagnolo – sarà quella di non farsi scavalcare dai contadini poveri delle grandi haciendas.
 
 

11. La struttura economica dell’America Latina alla fine del XVIII secolo
 

Siamo in grado così di “fotografare” l’organizzazione politica alla vigilia delle rivoluzioni nazionali latinoamericane, tentando contemporaneamente di valutare i caratteri fondamentali della struttura economica e sociale, che sappiamo essere la causa degli svolgimenti storici.

Possiamo dividere l’America Latina in quattro fasce.

a) Metà dei tredici milioni di abitanti delle Indie spagnole sono concentrati in Messico, perché esso è la regione più ricca, più interessante per i commerci delle metropoli. L’estrazione dell’argento è la base di questo relativo progresso economico, in tutta la fascia settentrionale la scoperta di nuove miniere si aggiunge allo sfruttamento di quelle più antiche. In queste miniere il repartimientos cede sempre più il passo a forme di retribuzione mista e salariata. Nelle province interne si è da tempo diffuso l’allevamento, mentre l’agricoltura vede l’organizzazione delle haciendas e lo sfruttamento dei peones.

I prodotti alimentari hanno nelle città minerarie i loro centri di consumo, ovunque è presente un relativo sviluppo artigianale di sostentamento (rame, tessili, ceramiche). L’altopiano centrale e il Sud sono zone di grande espansione agricola (frumento e zucchero), legate quindi all’esportazione europea. Una corporazione di ricchi mercanti, intrallazzati con la corona, lucra su questi due grandi commerci, il cuore delle loro transazioni è il porto di Veracruz con la sua fiera annuale. Il Messico fornisce i due terzi delle entrate della corona, è la colonia più importante, ha una enorme disponibilità monetaria, concentrata nelle mani di poche famiglie.

b) Tutta l’America Centrale e tutto il resto dell’America meridionale vivono una condizione di sviluppo sociale e economico similare. Il vicereame di Nuova Grenada è legato all’allevamento del bestiame, mentre sono state introdotte le prime piantagioni di cacao, indaco, cotone e caffè nella parte atlantica del Capitanato Generale di Caracas. Intorno a Caracas si organizza il commercio con la Spagna; ai confini con la Giamaica e sulle coste c’è il contrabbando. Il Perù attraversa un periodo di crisi. Da quando sono in via di esaurimento le miniere di argento è iniziato un lento decadimento economico che si è concluso con lo smembramento dell’originario vicereame e la formazione del vicereame della Plata. Lo stesso Cile, posto all’estremità dell’Impero, ha nella concentrazione delle grandi aziende agrarie di autoconsumo la caratteristica più marcata.

Più progrediti il commercio e l’allevamento nel vicereame della Plata. Intorno a Buenos Aires vanno organizzandosi i traffici di tutta l’area sud-atlantica: l’argento dell’Alto Perù, l’allevamento per l’esportazione del cuoio e delle derrate alimentari. Si inizia un’attività industriale legata alla macellazione dei bovini: concia e salatura. Da questa organizzazione economica discende una struttura sociale che, pur nelle sue particolarità, fa di quest’area un insieme omogeneo. Arretrata, rispetto al Messico, questa enorme fascia vede un latifondo impastoiato nello sfruttamento di encomienda,dove spesso domina l’economia di villaggio andina.

Una borghesia asfittica è legata ai commerci più che all’industria. I grandi allevatori di bestiame hanno bisogno di sterminati pascoli, mentre i piantatori hanno il problema di piazzare l’eccedenza dei prodotti, che i mercanti spagnoli non riescono ad assorbire. Le popolazioni vivono sempre una realtà arcaica, legata spesso alle tradizioni precolombiane, la schiavitù negra è poco diffusa. La parte più avanzata sono i vicereami venezuelani e argentini, ove si formano gruppi di vaqueros, salariati legati ad un tipo di capitalismo estremamente dispersivo.

c) Il Brasile, non discostandosi di molto dal resto del continente sudamericano, segue modi di sviluppo suoi autonomi. Legato alle sorti della dinastia portoghese, il vicereame del Brasile incomincerà a separarsi dal resto del Sudamerica all’inizio del Settecento, quando il Portogallo entra nell’orbita della Gran Bretagna. Paese morfologicamente portato alla piantagione tropicale, il Brasile trova nella incapacità commerciale portoghese il limite di fondo all’espansione delle sue piantagioni di canna. Alla periferia delle piantagioni vi sono zone di allevamento estensivo di bovini, percorse da cacciatori di indios, che sono rivenduti ai piantatori a minor prezzo dei negri.

All’inizio del Settecento la scoperta dell’oro nel sud dà una svolta all’economia brasiliana. L’industria mineraria produsse ricchezza, facilitando l’introduzione di schiavi e miglioramenti agricoli. Col trattato di Methuen del 1703, il Portogallo, in cambio della libera esportazione dei propri vini in Inghilterra, garantiva il libero commercio dei prodotti inglesi in tutti i propri possedimenti. In virtù di ciò il Brasile fu invaso dalle merci della florida manifattura inglese, mentre l’oro finì in gran parte nelle casse dei banchieri della City. Lo smercio in Gran Bretagna dette però respiro ai piantatori, anche se gli inglesi preferirono sempre avvantaggiare lo zucchero delle Antille.

L’economia dello zucchero e quella dell’estrazione erano legate alla possibilità di utilizzare lo schiavismo. Lungo la costa atlantica si formavano le piantagioni, intorno ai mulini per la raffinazione della canna. I manufatti arrivavano dall’estero, esisteva solo scambio di merci. In un certo senso i rapporti di classe ne sono semplificati: proprietari fondiari, allevatori schiavi, selvaggi. Tutto il commercio è nelle mani delle compagnie inglesi.

d) Le Antille, anche se irrilevanti come territorio rispetto al resto dell’America, rappresentano una delle zone chiave per la comprensione degli sviluppi futuri della storia dell’America Latina. Nel Settecento vivono l’epoca di massimo splendore, dovuta al boom dello zucchero. Perfettamente inserite nel mercato coloniale delle due maggiori potenze europee, le Antille costituiscono l’affare del secolo. Le colture francesi coprono quasi il doppio di territorio di quelle inglesi.

Lo zucchero francese si produce a Santo Domingo, Martinica e Guadalupa. Il traffico è organizzato dai commercianti di Bordeaux, futura patria della Gironda. L’Inghilterra ha piantagioni in Giamaica e nella sua metà di Santo Domingo. Nella seconda parte del XVIII secolo si inizia anche ad introdurre il caffè. Tutte le colonie sono controllate dai mercanti metropolitani. Metà della flotta inglese naviga sull’Atlantico, toccando le Antille e i francesi non sono da meno.

L’affare è tale da stuzzicare i primi interscambi commerciali fra colonie: le colonie inglesi del Nord America commerciano con le Antille, esportano grano (una storica attitudine) e altri generi alimentari, importano zucchero e melassa. La borghesia commerciale yankee e i farmers danno non poco impulso alla “febbre dello zucchero”. Ma le Antille rimangono per i proprietari fondiari di lingua spagnola un miraggio irraggiungibile fino a quando non escano dal monopolio spagnolo. Nella fascia tropicale la natura ha dato tutto il necessario per la coltivazione della canna: clima, territori e indios; solo l’incapacità dei commercianti di Cadice impedisce lo sviluppo dell’economia delle piantagioni.
 
 

12. I rapporti di classe che preparano le rivoluzioni
 

La tendenza dell’economia latinoamericana è di aprirsi pienamente ai mercati inglesi e francesi; la controtendenza, rappresentata dalla corona spagnola, vorrebbe la riconferma del potere statale e, soprattutto, del monopolio commerciale. I re spagnoli intendono fare una politica del tipo di quella di Luigi XIV, che si appoggia sui grandi finanzieri e sui grandi mercanti per ridimensionare il ruolo della nobiltà; ma in effetti in Spagna non esistono classi sociali tanto forti, anzi, la finanza e il commercio sono controllati dal di fuori della Spagna.

La sterzata amministrativa, di per sé non sgradita ai creoli, non ha una contropartita per gli affari della borghesia e degli agrari. La limitazione al libero commercio e del contrabbando comportano alla metà del Settecento una ripresa della pirateria inglese, del tipo di quella del secolo precedente: viene occupato Portobelo e assediata Cartagena. Lo scontro nelle colonie è scontro aperto anche in Europa. Ormai gli inglesi, per salvaguardare la loro economia, sono sempre più convinti della necessità di impadronirsi dell’impero spagnolo; e in questo ricevono segnali d’assenso da gran parte dei latifondisti latinoamericani. Del resto, la nuova svolta accentratrice della corona mette di nuovo in evidenza tutto il contenzioso sui diritti di eredità della terra. La corona torna ad atteggiarsi quale dispensatrice di favori personali, come se intendesse negare il diritto borghese di proprietà della terra.

Facendo il punto su quelli che saranno gli schieramenti nelle guerre nazionali ne deduciamo che, in generale, esse avvantaggiano gli interessi:
     a) dell’Inghilterra, che vorrebbe sostituirsi alla Spagna nello sfruttamento delle colonie e, ciò facendo, scalzare anche la Francia (rea di aver aiutato i nordamericani nel 1776), che lucra sul commercio monopolistico;
     b) dei grandi proprietari di terre, che potrebbero finalmente liberarsi dalle pastoie degli amministratori spagnoli e dalle tasse, affermando il loro diritto alla proprietà fondiaria borghese e, soprattutto, la possibilità di sviluppare il sistema delle piantagioni, a rimorchio del mercantilismo inglese;
     c) della borghesia nazionale creola che, se pur debole e non certo in grado di prevalere rispetto all’imperialismo inglese e ai latifondisti, ha interesse alla creazione dello Stato nazionale e del mercato nazionale, condizioni storicamente necessarie per l’accumulazione del capitale industriale.

Per contro si oppongono a queste “tre forze emergenti”:
     a) La corona spagnola e tutto il pachidermico corpo di funzionari statali succhioni e di preti, di rilevante importanza nell’economia coloniale;
     b) le grandi corporazioni dei commercianti dipendenti da Cadice, legate alla monarchia e al capitale francese che, con l’invasione delle merci inglesi sul mercato latinoamericano, sarebbero rovinate.

È evidente che, se pur progressiva, la strada che viene scelta per l’introduzione del capitalismo è contro gli interessi delle plebi più povere, gli schiavi e i peones, che subirebbero il peso maggiore dello sfruttamento della borghesia nazionale e internazionale. La cura, con cui le “tre forze emergenti” cercheranno di non spingere mai la rivoluzione agli estremi spiega molto delle fasi della guerra di liberazione antispagnola.
 
 

13. La prima fase delle guerre antispagnole
 

Non si capiscono gli avvenimenti che portano alle lunghe campagne di liberazione nazionale se sulla base dell’analisi della struttura economica e sociale non si innestano le questioni della politica europea e lo scontro storico tra Spagna e Gran Bretagna per l’egemonia globale. Le quattro crisi belliche (1761-’79-’93-’96) fra Spagna ed Inghilterra, che sconvolgono tutto l’assetto coloniale spagnolo, si risolvono sempre in una vittoria inglese, che significa una intensificazione della penetrazione commerciale europea in America Latina.

Seguendo i fatti si nota come nel 1778 i porti più importanti della Spagna possano commerciare con tutti i porti più importanti delle Indie Occidentali. Nel 1785 si apre il commercio tra l’Asia e l’America. Nel 1795 i commercianti sono autorizzati a mandare nelle colonie straniere (Antille e USA) le eccedenze, che la Spagna non assorbe. È una forma di apertura più che parziale che, assommata all’ormai avvenuta istituzionalizzazione del contrabbando, inserisce ancora di più le colonie spagnole nella grande rete commerciale internazionale.

Sempre nel 1795 – dopo che il re spagnolo si è alleato con il Direttorio francese in funzione anti-inglese – la Gran Bretagna, padrona dell’Atlantico, attua il blocco dei traffici franco-spagnoli, obbligando Madrid a servirsi di carghi neutrali, in gran parte controllati dagli stessi inglesi. Nel 1805, con la vittoria inglese di Trafalgar, l’Atlantico è virtualmente chiuso ai commerci di Francia e di Spagna. Nel 1807, quando Spagna e Francia decidono di spartirsi il Portogallo, la corte di Lisbona si rifugia, grazie alla protezione della marina inglese, in Brasile: Rio del Janeiro diventa la nuova capitale dell’impero lusitano. Nel 1808 i reali spagnoli, Carlo IV ed il figlio Ferdinando, sono arrestati da Napoleone e condotti a Parigi. Viene proclamato re di Spagna Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone. Nelle colonie giunge la notizia dell’abdicazione di re Carlo IV a favore di Ferdinando VII, che diviene il “legittimo” sovrano di tutta l’America Latina.

Le classi possidenti creole, in nome della bandiera lealista ed antinapoleonica, iniziano a rivoltarsi al potere della madrepatria sottomessa ai francesi. Nel settembre 1808, insorge Montevideo, contemporaneamente anche la Nuova Granada si proclama indipendente. All’inizio del 1809 è la volta del vicereame della Plata. Nel maggio dello stesso anno tocca al Perù. Gran parte dell’America, fra l’equatore e il tropico del cancro, è scossa da un fermento rivoluzionario antifrancese e legittimista, da Caracas a Quito fino al Guatemala. Nel 1810, si arriva alla proclamazione della Confederazione delle Provincie unite della Colombia. Infine, è la volta del Cile.

Fino a questo momento gli avvenimenti hanno riguardato il continente sudamericano, escluso il Brasile già egemonizzato dagli inglesi. Gli scontri, anche cruenti, fra gli eserciti mai hanno portato a sollevazioni popolari vere e proprie e sono sempre stati ricondotti nell’alveo di una “rivoluzione di commercianti, proprietari terrieri, consiglieri municipali e autorità locali”.

Non fu così per la Nuova Spagna, dove le plebi contadine rappresentano una miscela esplosiva di primo ordine.
 
 

14. Le rivoluzioni contadine dell’inizio del XIX secolo
 

Annate di cattivi raccolti, la penetrazione del commercio inglese che rovinava la piccola produzione artigiana familiare portarono intorno al 1810 il Messico ad una crisi economica generale di vasta portata. La reazione dei peones fu assai radicale; due tentativi rivoluzionari, uno dal nord e l’altro dal sud sconvolsero il vicereame. Furono due preti a capo della rivolta.

A settentrione Hidalgo organizzò, in nome della immagine della Veneratissima Vergine di Guadalupe, una colonna di indios e meticci, straccioni e affamati, banditi, in gran parte ex minatori e contadini poveri. Il loro obiettivo era un pezzo di terra sufficiente a mantenere le proprie famiglie. Nel settembre del 1810 Hidalgo decretò l’abolizione della schiavitù, la confisca delle haciendas e la pena di morte per i controrivoluzionari. È evidente come una tale rivoluzione borghese-contadina dal basso mettesse in discussione il potere dei latifondisti e dei ricchi commercianti delle città; perciò non meraviglia che creoli e spagnoli, che altrove si sbudellavano, fecero fronte comune per soffocare l’insurrezione. Nel gennaio del 1811, Hidalgo cadde prigioniero e sei mesi dopo fu fucilato mentre i suoi gruppi guerriglieri si disgregavano.

Ma non per questo si estinse la rivoluzione, che si spostò al sud, capitanata dal prete meticcio Morelos. Il programma agrario di Morelos era semplice ed efficace: abolizione e spartizione delle haciendas in piccoli appezzamenti. Nel 1813 la Rivoluzione si impadroniva di Acapulco, si formava una sorta di repubblica contadina del Messico del Sud. Si convocò un congresso a Chilpacingo, dove si auspicava l’indipendenza messicana. Ma di nuovo creoli e spagnoli fecero fronte e la controrivoluzione annientò il movimento indigeno rurale. Morelos fu sconfitto e messo a morte nel 1815.

La esperienza della rivoluzione messicana segnò le coscienze dei proprietari fondiari del resto dell’America Spagnola. Gli eserciti di liberazione nazionale si guarderanno bene dall’avvicinarsi alle frontiere della Nuova Spagna; preferendo circoscrivere il raggio delle loro operazioni nel solo Sudamerica. La stessa lezione fu tratta dagli avvenimenti haitiani.

Nelle Antille Francesi le ripercussioni della Grande Rivoluzione non tardano a farsi sentire. Nel 1791, gli schiavi si sollevarono a Santo Domingo e in poco tempo travolsero, in un bagno di sangue, tutte le istituzioni coloniali. Violenta fu la repressione della Guardia Nazionale, figlia della rivoluzione dell’uguaglianza, della fraternità e della libertà: ne seguì una feroce strage dei negri rivoltosi. I successivi dodici anni di scontri sanguinosi videro il formarsi della repubblica rivoluzionaria negra di Toussaint-Louverture, lo Spartaco nero delle Antille.

La Francia ristabiliva “l’ordine” e la schiavitù nel 1802. Due anni dopo veniva proclamata la repubblica indipendente di Dessalines. Era un compromesso che, pur abolendo la schiavitù, non modificava l’asservimento del contadino alla terra, non aboliva le caste né le brutali repressioni dei guerriglieri. Mancando di uno sbocco politico, le rivolte degli schiavi, che si susseguirono dopo l’assassinio di Dessalines, crearono una élite negra legata all’esportazione dello zucchero, cioè all’imperialismo. Se i coloni bianchi se ne erano ritornati in Francia, le terre furono occupate da haitiani, che aspiravano a richiamare gli schiavi nelle piantagioni. Le rivolte razziali nascondevano l’urto fra le classi. Gli schiavi, fra scontri e violenze, si trasformavano in piccoli proprietari peones; un processo questo che, dopo un’epoca di scontri intestini, incomincerà a delinearsi solo nel 1883, sotto la presidenza di Solomon.
 
 

15. La liberazione nazionale
 

La sconfitta di Napoleone avrebbe dovuto risolvere i problemi delle Americhe Spagnole, ma non fu così. Il ritorno di Ferdinando VII sul trono di Spagna comportò una nuova sterzata assolutista nelle colonie. Si intendeva ancora una volta limitare il libero commercio con l’Inghilterra e si rimise in discussione il diritto borghese dei grandi proprietari fondiari di possedere privatamente la terra. È l’epoca in cui in America Latina i politici liberali erano incarcerati o deportati, si restaurava l’Inquisizione, si chiudevano i teatri, i giornali e le università, considerati focolai sovversivi della rivoluzione creola. È la fine della prima fase della rivoluzione. Nel 1815, sbarcarono 10.000 spagnoli in Venezuela, l’ordine regio era ormai ristabilito su tutto il territorio. È il tempo in cui Simon Bolivar, futuro liberador d’America, si poneva sotto la protezione della flotta inglese a Giamaica.

Anche l’azione della Gran Bretagna in questa fase era contraddittoria. Sconfitto Napoleone, che aveva minacciato l’egemonia mondiale dei commerci inglesi, si trattava ora di far fronte agli effetti deleteri della Santa Alleanza, della quale la Spagna della restaurazione era un frutto antistorico. Non esisteva scontro aperto fra Spagna e Inghilterra in questo periodo. Londra tergiversava, preferendo non allearsi ufficialmente con i rivoluzionari antispagnoli come Bolivar e San Martin, ai quali però non lesinerà mai l’appoggio: attendendosi da loro il definitivo sgretolamento dell’Impero spagnolo delle Indie Occidentali.

Al tempo stesso, bisogna notare che non c’era larga partecipazione di popolo alle rivoluzioni nazionali. È il caso dei laneros – mandriani delle sconfinate pianure venezuelane dell’Orinoco – una massa di manovra al soldo dei migliori compratori. I laneros furono nel 1813 il grosso dell’esercito che caccia Bolivar da Caracas, ma nel 1816 costituirono l’ossatura della cavalleria dello stesso Bolivar, che unificò il Nord nella Repubblica di Colombia. Nel 1818 Bolivar incominciò la campagna militare occupando Caracas. Alla fine del 1819 tutto l’ex vicereame della Nuova Granada era sotto controllo dei rivoluzionari, venne formata la Repubblica della Grande Colombia (Colombia, Venezuela e Ecuador).

San Martin invece si era mosso dal Sud. Nel 1817, liberato il Cile, passava – grazie agli aiuti navali inglesi – alla conquista del Perù, centro della resistenza realista. Con un esercito di 5.000 uomini, organizzato anche da ufficiali inglesi, liberò Lima dal preponderante esercito di La Serna, composto di 23.000 uomini; ma non lo sconfisse definitivamente.

Nel 1821, i due eserciti rivoluzionari stavano ormai prendendo il sopravvento sui realisti peruviani. Bolivar e San Martin si incontrarono a Guayaquil, ove il liberador di Colombia impose al collega di ritirarsi in Perù, per continuare in prima persona la campagna antispagnola. Nell’agosto del 1824, sull’altopiano di Ayacuco si combatté la battaglia decisiva, ove i laneros di Bolivar schiantarono definitivamente le ultime resistenze dei controrivoluzionari.

In Messico, finita l’esperienza di Morelos, a proclamare l’indipendenza fu proprio un generale creolo, Agustin de Iturbide, che aveva fatto carriera massacrando i contadini. Il pretesto furono i moti carbonari spagnoli del 1820, che avevano cacciato dal trono Ferdinando VII: in nome della lealtà realista si formò il libero Messico. “L’esercito delle tre garanzie” organizzato nel Sud, a Iguala, marciò verso la capitale conquistandola senza colpo ferire. Trenta fra i notabili di Città del Messico formarono il governo “rivoluzionario” provvisorio, che nominò Iturbide reggente e convocò l’Assemblea Costituente. Il Capitanato del Guatemala aderì al nuovo Stato.

Ancora meno traumatica fu la conquista dell’indipendenza brasiliana. Divenuta capitale dell’Impero Lusitano, nel 1808, Rio de Janeiro si vide sempre più inserita nell’area del mercato inglese. Dopo la Restaurazione – soffocato un tentativo di rivoluzione repubblicana a Pernambuco – l’imperatore Giovanni VI tornava a Lisbona nel 1821 a riprendere possesso del trono. Lasciava in Brasile il figlio Pedro, principe reggente. Non erano passati sei mesi che, sotto la minaccia di essere coinvolto nelle guerre peruviane di San Martin, Pedro I preferiva farsi proclamare imperatore costituzionale del Brasile e convocare l’assemblea costituente. Le guarnigioni portoghesi giurarono fedeltà all’imperatore, mentre tutto avveniva sotto il controllo della marina inglese. L’indipendenza si ebbe quasi senza combattere.
 
 

16. La definitiva sistemazione nazionale
 

Subito dopo il 1825, finite le guerre di liberazione, non era ancora chiaro l’assetto nazionale dell’America Latina. Non si erano ancora spenti gli echi delle guerre antispagnole che si crearono una serie di Stati e Confederazioni: il Messico, le Provincie unite dell’America Centrale (dal Guatemala a Panama), la Grande Colombia, le Repubbliche Boliviana e Peruviana, confederate sotto l’influenza della Grande Colombia, le Provincie Unite del Sud (Argentina, Paraguay e Uruguay) e il Brasile.

Seguire i percorsi dei singoli Stati nazionali sarà compito del successivo lavoro. Assai interessante è, però, vedere quello che fu il progetto di Confederazione Latinoamericana, sul modello nordamericano, tentato da Bolivar alla Conferenza di Panama del 1826. Si dovevano trattare alcuni punti fondamentali, fra i quali l’autodeterminazione della futura Confederazione nei confronti delle influenze europee, la struttura democratica dei governi regionali, delle loro nuove leggi, della burocrazia, della polizia, dell’esercito e della flotta federali. Ciò avrebbe significato la possibilità di formare una nazione immensa, dal deserto messicano alla Terra del Fuoco. Col tempo questa non avrebbe potuto non contrapporsi al dominio sul mondo dell’Inghilterra e della stessa emergente potenza statunitense.

Un tale progetto rispondeva più agli interessi della borghesia commerciale e industriale latinoamericana che a quelli dei proprietari fondiari, legati al carro inglese. Si sarebbe potuto unire in un grande mercato nazionale uno sconfinato territorio, in grado di chiudersi alle merci inglesi e francesi per sviluppare l’industria nazionale, allora allo stato embrionale. Del tutto contrari ne furono i proprietari terrieri e i grandi allevatori, a cui necessitava la possibilità di piazzare i propri prodotti sul mercato europeo, a costo di tenere arretrato lo sviluppo dell’economia patria.

Perciò già nell’anno 1830 – mentre Bolivar politicamente sconfitto lasciava il Venezuela per il suo esilio finale – l’America Latina aveva quasi raggiunto il suo assetto attuale. E di lì a poco – grazie alla “mediazione” dell’Inghilterra – anche la Grande Colombia si sarebbe divisa in tre, così come le Provincie Unite del Centro America. Tutta l’area andò assumendo l’odierno aspetto geopolitico.
 
 

17. Alcune considerazioni conclusive
 

Alcune lezioni sono da trarre sulla natura di classe degli Stati che si sono ormai formati nelle Americhe ex-spagnole, proiettandoci in quella che sarà l’analisi dell’America Latina contemporanea.

È ormai evidente che due classi si scontrano per la gestione del potere politico in queste nazioni: i proprietari terrieri e la borghesia commerciale e industriale. È nello scontro tra questi due “modelli di sviluppo” che si legge la futura storia di questi travagliati paesi. Da una parte, la linea dall’alto delle haciendas e delle piantagioni – promosse direttamente dall’imperialismo inglese e poi controllate nel Novecento da quello statunitense – rappresenta ciò che gli ideologi del neo-capitalismo chiamano sottosviluppo. Questo non è, però, non-sviluppo, come intendono, ma sviluppo capitalistico relativamente più lento. Dall’altra parte, la linea dal basso della borghesia, che per affermarsi dovrebbe troncare di netto i rapporti di sudditanza con l’imperialismo. Essa è più progressiva per il capitale, ma non meno borghese dell’altra; è socialmente rappresentata, come già nel Messico dell’inizio del XIX secolo, dai contadini (medi, poveri e senza terra) e dalla guerriglia, tipica forma di lotta rurale.

Ma da ciò non si deve confondere – come fanno i teorici del sottosviluppo – un tale movimento borghese con quello rivoluzionario proletario. Se non è il proletariato, con alla testa il partito comunista, ad “usare” i contadini, in particolare quelli poveri, in senso antimperialista – al fine di emancipare tutte le classi e quindi di abolire la proprietà della terra e dei suoi prodotti – questi non possono valicare i propri limiti borghesi. E non c’è da meravigliarsi se talvolta preferiscono, nell’ora decisiva, sparare sui proletari, per rifugiarsi sotto la protezione della grande borghesia. Successivamente, con lo sviluppo dei moderni rapporti capitalistici anche nell’agricoltura, vanno a costituire riserva sociale della controrivoluzione.

Scrivevamo sulla nostra stampa del 1969:

«A proposito del ruolo dei contadini, tutti i guevaristi e castristi fanno una enorme confusione mettendo nello stesso sacco il piccolo proprietario coltivatore, il mezzadro, e quel proletario puro che è il bracciante. Ora, è indubbio che, nell’America Latina come in tutte le aree “sottosviluppate” (e in parte anche nei paesi cosiddetti sviluppati), il contadiname povero, inteso come contadiname non proletario ma soggetto in mille modi allo sfruttamento del grande capitale nazionale e internazionale, oltre che a quello delle vecchie classi fondiarie e latifondiste alleate coi nuovi padroni, è destinato a recitare una parte essenziale, in quanto potenziale ribelle sempre pronto a manifestare il proprio furore per lo strozzinaggio al quale è secolarmente sottoposto, sia come piccolo produttore sia come rappresentante di una razza vinta e indegnamente soggiogata (come gli indios). Ma questa constatazione non ha nulla a che vedere col giudizio sull’effettivo peso politico che il contadiname avrà necessariamente in una rivoluzione proletaria.
«Il contadiname può essere ed è ribelle, ma non è né può essere il portatore del socialismo, perché la sua esistenza e le sue aspirazioni sono legate ad un modo di produzione ancora più arretrato del modo di produzione pienamente capitalistico; esso vive, si muove e lotta nell’ambito della piccola produzione mercantile, e il suo sogno non è di uscirne verso un regime di proprietà, di produzione e di distribuzione sociali, ma di rimanere nel regime in cui si trova oggi anche se reso più tollerabile da eventuali riforme. O il suo ribellismo si fonde con la ripresa rivoluzionaria del proletariato, l’unica che possa portare ad una rivoluzione socialista, cioè avente come obiettivo un regime di produzione e distribuzione sociale, oppure il contadiname “rivoluzionario” si adeguerà (...) e diventerà una forza oggettivamente controrivoluzionaria» (Il Programma Comunista, “Ancora sul movimento proletario e America Latina”, n.6 del 1969).
In conclusione possiamo dire che quelli che si formarono dalle guerre di sistemazione nazionale latinoamericane furono Stati borghesi in equilibrio su due classi, contro le plebi delle campagne e il nascente proletariato. Un fenomeno che nella storia moderna ha numerosi riscontri e che non contraddice minimamente la nostra teoria, che afferma lo Stato essere di norma un randello in mano alla classe dominante.
«Lo Stato, scrive Engels ne “L’origine della famiglia...“, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantenere sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l’organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale. Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore, acquista una certa autonomia rispetto ad entrambe. Così la monarchia assoluta dei secoli XVII e XVIII che mantenne l’equilibrio fra nobiltà e borghesia; così il bonapartismo del primo e specialmente del secondo impero francese che si valse del proletariato contro la borghesia e della borghesia contro il proletariato. L’ultimo prodotto del genere, in cui dominatori e dominati appaiono egualmente complici, è il nuovo impero tedesco di nazione bismarckiana: qui si mantiene l’equilibrio fra capitalisti e operai truffandoli entrambi a tutto vantaggio dei signorotti terrieri della Prussia».

 
 
 
 
 

C.
RIVOLUZIONE E QUESTIONE CONTADINA IN MESSICO

("Comunismo", 1995, n. 39 e 1996, n. 41)
 

1. LE CIVILTÀ ANTICHE
2. IL PERIODO DELLA CONQUISTA E LA SOCIETÀ COLONIALE
3. L’INDIPENDENZA
4. IL POTERE DEI PROPRIETARI FONDIARI
5. LA REFORMA E BENITO JUÁREZ
6. IL PORFIRIATO
7. LE PREMESSE DELLA RIVOLUZIONE

 

1. LE CIVILTÀ ANTICHE

A differenza degli inglesi e dei francesi che in Nord America si trovarono di fronte popolazioni ancora primitive, organizzate in piccoli nuclei e dedite in parte ancora al nomadismo, la colonizzazione spagnola in Centro e Sud America ebbe a confrontarsi con importanti e progredite civiltà.

Nel primo caso i territori colonizzati furono semplicemente strappati ai primitivi abitanti e questi sterminati o respinti dalle loro terre. Vi si impiantò una organizzazione sociale e un modo di produzione che rispecchiava quello della metropoli di origine, talmente estraneo alle società e alle culture delle popolazioni indigene che era impossibile la loro integrazione nel sistema coloniale.

Ciò non avvenne invece per i territori conquistati dalla Spagna nei quali la struttura della colonia si affiancò e si sovrappose alla organizzazione sociale e al modo di produzione delle popolazioni autoctone. Si tratta nella America centrale delle "Civiltà del mais", cereale con rendimento produttivo e caratteristiche nutritive elevate, sufficienti a sostenere popolazioni numerose e fornire l’eccedenza per il sorgere di una nuova civiltà.

Le società più antiche di cui rimane traccia sono quella dei Maya nella parte Sud del Messico odierno, fino al Guatemala e Honduras, e quella Olmeca nella zona centrale del paese. Di questa si riconoscono tracce fino al 1.000 a.C. In ordine di tempo seguono la sorprendente civiltà di Teotihuacan, città dell’altopiano, che intorno al 500 d.C. si estendeva su un territorio di 20.000 Kmq. e comprendeva circa 200.000 abitanti, essendo forse all’epoca la città più popolosa del mondo. Fu saccheggiata e distrutta attorno al 700 d.C., non si sa ad opera di quali popolazioni. Succedono i Tolteca da cui derivarono direttamente gli Azteca, o, più propriamente, Mexica. Questi stabilitisi nei primi del 1.300 nella valle dove attualmente si trova Città del Messico, in due secoli costruirono la potente città di Tenochtitlan al centro di un immenso impero che arrivava fino ai territori dei Maya, civiltà ormai in piena decadenza.

I primi spagnoli, stupefatti per la sua bellezza, descrissero la città costruita sull’arcipelago di isole nel grande lago, oggi quasi completamente prosciugato. Su di esse si costruivano i quartieri ed alcune erano adibite ad orti e giardini, collegate da ponti mobili per ragioni di difesa (in tal modo rimase intrappolato lo stesso Cortez). La struttura urbanistica si svolgeva secondo linee rette, segno di una attenta pianificazione. Al centro della città si trovava il palazzo del Tatloani, la somma autorità politica e religiosa degli Aztechi, il tempio maggiore e la grande piazza del mercato, centro della vita sociale. Il lago era intersecato da dighe e sbarramenti con chiuse per controllare le piene nelle stagioni delle piogge e per dividere l’acqua dolce dall’acqua salmastra, mentre due acquedotti recavano l’acqua potabile. Sulle rive del lago ed oltre nell’immensa valle si snodavano altri fiorenti agglomerati urbani.

Riguardo alla struttura sociale delle civiltà mesoamericane, la cellula base produttiva originaria era la comunità, costituita da più nuclei familiari, titolare dei diritti sulla terra. La terra, posseduta in comune, chiamata calpulli, era distribuita in usufrutto alle famiglie nella estensione atta a soddisfare le loro necessità. Tale assegnazione non veniva meno finché la terra era lavorata e fatta produrre nei limiti delle necessità della famiglia, altrimenti decadeva e la terra era ridistribuita. Gli obblighi verso la comunità consistevano in un tributo in prodotti e prestazioni di lavoro per attività comuni. Queste erano amministrate da gerarchie di anziani e da un capo eletto che aveva anche il compito della ridistribuzione periodica. L’uomo preispanico si identificava nella comunità in maniera completa rifuggendo da ogni concezione individuale della vita; la manifestazione più alta di questo sentimento era il sacrificio della propria vita agli dei, per assicurare sulla comunità la loro protezione.

La produzione agricola produceva importanti eccedenze: su questo nucleo produttivo di base, le comunità contadine, si costruì nel tempo l’architettura delle grandi civiltà. Sorsero gruppi sociali non contadini, caste militari e sacerdotali, con ranghi e privilegi ben marcati, organizzate in strutture piramidali dotate di una forte burocrazia.

La società più rigidamente e centralisticamente strutturate seppero costituire forti eserciti e sottomettere le altre. Le conquiste militari permisero l’acquisizione di nuovi territori, il flusso di ulteriori tributi da parte delle popolazioni sottomesse e fecero crescere la popolazione schiavizzata da destinare alla produzione.

A poco a poco una parte delle terre coltivabili passò dalle mani dei contadini a quelle dei sacerdoti, dei capi militari, della burocrazia e della nobiltà legata alla famiglia del Tatloani. Si costituivano così grosse proprietà terriere, chiamate Billali, dove erano appunto impiegati schiavi o lavoratori asserviti. Questo processo fu accompagnato da un progressivo incremento dei tributi imposti alle comunità contadine e finì per creare una notevole concentrazione della ricchezza nelle mani delle classi superiori mentre si determinavano strati sociali completamente impoveriti.

All’arrivo degli Spagnoli, non solo gli Aztechi erano avversati dall’odio delle popolazioni sottomesse e da quelle agguerrite ed ostili che resistevano ai margini dell’impero, ma tutto fa pensare che un forte elemento di debolezza venisse proprio dall’interno di quella società, date le forti contraddizioni, il malcontento e le tensioni sociali, e che dunque la situazione fosse in rapida evoluzione, anche forse nel senso di un incipiente declino, come era accaduto per le precedenti civiltà, nonostante lo splendore e la ricchezza che era ostentata.

Certamente un forte limite nel senso di un progresso verso forme più evolute di organizzazione sociale era dato dal fatto che, civiltà prevalentemente agricola, rimaneva bloccata nello sviluppo di altre colture fondamentali oltre quella del mais per la assenza di animali adatti all’impiego nel lavoro, e importanti per l’allevamento, come bovini, suini e ovini, mentre ancora si era agli albori della scoperta della ruota. Inoltre, se era conosciuto l’uso e la lavorazione dei metalli, quelle regioni erano sprovviste di ferro che, per le sue caratteristiche di durezza e resistenza, dovunque ha costituito uno dei fattori fondamentali per lo sviluppo della civiltà umana.

Comunque qualsiasi evoluzione della civiltà Azteca fu bloccata dall’arrivo degli europei.
 
 

2. IL PERIODO DELLA CONQUISTA E LA SOCIETÀ COLONIALE
 

Mossi dalla necessità di trovare nuove rotte commerciali e col fine di scoprire giacimenti di metalli preziosi per finanziare la potenza imperiale, i colonizzatori spagnoli arrivati in Messico non esitarono ad assalire popolazioni e ad allearsi con altre ostili agli Aztechi per arrivare alla conquista, poi alla distruzione totale dell’impero Montezuma, impossessandosi di un territorio immenso. La Spagna, già paese economicamente dipendente da altre potenze europee, trovò nelle colonie di oltre oceano una risorsa notevole per rimandare di un secolo il suo declino.

Durante il primo periodo della conquista predominarono i massacri e i saccheggi e spadroneggiavano i capi militari conquistadores. Gli indigeni tentarono invano una resistenza ad una guerra tanto bestiale che per poco non condusse, come nelle Antille, allo sterminio dell’intera popolazione.

I conquistadores occuparono le terre in forza di diritti concessi dalla Corona, che stimolava l’interesse personale per estendere e consolidare l’Impero. La fonte di sussistenza della colonia di oltre oceano era principalmente la produzione agricola degli indios. Per questo, non appena la Corona iniziò a prenderne il controllo tramite il suo apparato militare e burocratico-amministrativo, si indirizzò verso una politica di protezione delle comunità e della terra da esse posseduta. Veniva così a finire lo strapotere dei conquistadores, alcuni dei quali finirono in disgrazia come lo stesso Cortez. Furono varate a più riprese disposizioni e leggi che punivano i maltrattamenti, i saccheggi e gli abusi sugli indios e nel contempo introducevano nei sistemi giuridici della colonia spagnola l’istituto della proprietà comunitaria della terra destinata alle popolazioni indigene. Una ordinanza del 1567, creando il "fondo legale delle comunità", definiva l’estensione di terra di cui la comunità contadina aveva diritto per legge e fissava le distanze dai villaggi a cui si sarebbero dovuti mantenere i confini delle proprietà private. Questa proprietà comunale venne chiamata Ejido, istituto successivamente abolito, poi rifondato dopo la rivoluzione contadina del 1919, ed oggi nuovamente minacciato dalla politica "neo liberista" dei più recenti governi.

Si può dire che la Corona spagnola, interessata principalmente allo sfruttamento delle risorse del Nuovo Mondo, si predispose fin dall’inizio alla conservazione dello status quo economico ereditando e facendo proprio il sistema "dispotico-tributario" della società pre-ispanica poggiante sull’economia rurale della comunità contadina. A fianco si manteneva il latifondo privato, conosciuto dagli Aztechi, ma la Corona spagnola, già in conflitto con la nobiltà e l’aristocrazia nella metropoli, tentava di impedire l’affermarsi di una classe fondiaria potente nella colonia. La Corona si oppose così ad ogni iniziativa dei colonizzatori che potesse sfuggire al suo controllo e mettere in pericolo la struttura tributaria e monopolistica della produzione e del commercio. Fu ostacolato con ogni mezzo il sorgere di signorie feudali, così come di centri capitalistici nella produzione e del commercio.

Caratteristica fu l’istituzione della encomienda che predominò durante i secoli XVI e XVII. Consisteva nella assegnazione di un territorio determinato, assieme alle comunità indigene che lo occupavano, ad un colonizzatore nominato dalla Corona il quale acquisiva in tal modo il diritto al tributo derivante da tali comunità, una parte del quale sarebbe dovuto confluire nelle casse della amministrazione coloniale. Con tale assegnazione l’encomendero diveniva il signore assoluto di quel territorio e a lui sottomessa la popolazione che lo abitava. Aveva il compito di reprimere le rivolte degli indios, funzioni politiche e amministrative ed anche militari di difesa e per realizzare nuove conquiste. In tal modo la Corona si alleggeriva dei costosi oneri necessari a mantenere un apparato militare e burocratico troppo vasto per territori anche molto lontani dai centri della colonia. L’encomienda si distingueva dal feudo europeo principalmente in quanto il possesso della terra non era ereditario e la Corona poteva revocare la concessione quando fosse trascorso il periodo di tempo convenuto.

Malgrado la politica coloniale fosse tesa ad impedire la formazione di una classe fondiaria, di fatto la concentrazione della terra nelle mani di ricchi e potenti proprietari si verificò, lentamente ma inesorabilmente, attraverso diverse forme più o meno legali. Quando le encomiendas furono abolite, nel 1720, di fatto non esistevano più che sulla carta avendo ceduto il posto al grande latifondo. Alla unità di base dell’economia agricola, che nell’encomienda era sempre la comunità indigena, si affiancava ora la hacienda. Questa si affermò a spese delle comunità indigene espropriate della terra e con il sorgere di un esercito di lavoratori semiliberi: i peones.

La hacienda era una struttura ancora pre-capitalistica, anche se ben lontana, dalle caratteristiche del feudo europeo. Destinata a sostituire la comunità indigena nel rifornimento del mercato interno alla colonia e nel commercio con la metropoli, il suo funzionamento tendeva all’autarchia raccogliendo al suo interno il maggior numero di attività: carpenteria, falegnameria, tessitura, etc. I consumi erano legati ad uno spaccio interno di prodotti alimentari e manufatti, chiamato tienda de raya, gestita dall’haciendado che amministrava a suo piacimento i prezzi, a cui i membri dell’hacienda erano tenuti a rivolgersi sia per imposizione, sia per la distanza da altri centri commerciali. Attraverso tale meccanismo i peones finivano per indebitarsi nei confronti del padrone, legandosi definitivamente ad esso. Il debito si trasferiva di padre in figlio, di modo che i peones, formalmente liberi salariati, si convertivano in veri servi legati a vita al proprietario terriero.

Nell’hacienda si trovava la casa del padrone, l’amministrazione, la chiesa, una prigione per punire i peones ribelli e inadempienti agli obblighi, e l’infinità di casupole e di capanne dove essi vivevano.

La terra era così suddivisa: una grossa porzione, generalmente costituita dalle aree meno fertili, era destinata all’affittanza: non si trattava di affittuari nel senso capitalistico del termine: questi, che coltivavano la terra in virtù di contratti non scritti, non disponevano di propri capitali ed erano costantemente indebitati nei confronti del proprietario; l’affitto era quasi sempre pagato in natura o in giornate di lavoro o altri servizi e prestazioni. Un elevato numero di affittuari erano nello stesso tempo salariati dell’azienda; spesso lavoravano nelle terre padronali prima a titolo di prestazioni come pagamento dell’affitto, quindi per pagare i debiti contratti, infine come salariati, mentre la moglie e i figli coltivavano la terra affittata.

I terreni più fertili erano gestiti direttamente dall’haciendado con l’utilizzo dei peones. Fra loro possiamo distinguere due categorie: 1) I peones "liberi" erano gli indios delle comunità o piccoli proprietari che, privi della terra sufficiente, si vendevano il loro lavoro all’hacienda come salariati. Essi vi lavoravano per parte del tempo e la restante parte nella propria parcella o lasciavano ai famigliari questo compito. 2) I peones "accasillados" erano quelli di stanza nelle haciendas: ricevevano un salario in natura, in parte o totalmente, e, come contropartita al "diritto" di istallarsi nella haciendas, erano tenuti, essi o la propria famiglia, a servizi e prestazioni gratuite; come si è detto si trovavano regolarmente indebitati nei confronti del padrone e ad esso legati a vita e per generazioni in uno stato di semiservitù.

La classe dei proprietari fondiari si rafforzò sempre più a partire dalla metà del secolo XVII fino a divenire la forza economicamente e politicamente predominante nel paese. La crescita di una classe borghese invece risultò enormemente rallentata dalla politica coloniale della Spagna. In campo industriale predominava la miniera condotta con lavoro semischiavizzato, sotto il controllo dei funzionari coloniali. La manifattura invece aveva uno sviluppo limitatissimo, data una serie di vincoli tesi ad impedire lo sviluppo di rami produttivi competitivi con le merci importate dalla metropoli. Il commercio era totalmente monopolizzato dalla Spagna e sotto lo stretto controllo della Corona. A questo scopo era istituita a Siviglia la Casa delle Contrattazioni che controllava tutte le relazioni commerciali con i paesi del Nuovo Mondo. Là veniva organizzato e autorizzato tutto il sistema di trasporti di merci e passeggeri da e per le Americhe.

Di fatto fino al 1700 l’economia della Nuova Spagna ristagnava ancora in condizioni di arretratezza, stretta nella morsa di un sistema coloniale che mirava a spogliarla di tutte le sue risorse. Ma nel corso della seconda metà del secolo la stretta si allentò per l’aggravarsi della decadenza della Spagna, e l’economia messicana ebbe un notevole balzo in avanti. In agricoltura iniziarono a svilupparsi produzioni come il cotone e la canna da zucchero, destinate non solo all’esportazione ma anche alla industria messicana che crebbe notevolmente. L’industria delle miniere si rammodernò e furono scoperti nuovi giacimenti. Alla fine del secolo arrivò a moltiplicare per dieci la sua produzione e quella di argento arrivò ad eguagliare la quantità prodotta dal resto del mondo.

Il territorio si era raddoppiato, comprendendo il Texas e arrivando fino ai confini con le colonie inglesi e francesi del Nord America, mentre veniva colonizzata la fertile costa delle Californie. La popolazione si era triplicata, incrociandosi le razze indica ed europea si sviluppava la popolazione meticcia che oggi costituisce la maggioranza dei messicani.

A causa della forte concentrazione della proprietà della terra a spese delle comunità indigene e la conseguente loro disgregazione e di devastanti carestie, una consistente parte della popolazione si ritrovò senza risorse per vivere. Indios diseredati e senza terra, peones fuggiti dalla hacienda, così come poveri meticci respinti dalle comunità indigene e dalla società dei bianchi, negri e mulatti fuggiti dalle piantagioni o dall’inferno delle miniere, vagabondavano nelle campagne in cerca di lavori saltuari o si davano al banditismo. Squadroni di terribili bandoleros imperversavano e minacciavano le vie di comunicazione, assalivano le haciendas e i centri minerari.

Queste masse di affamati e diseredati si addensavano ai margini delle città che iniziarono a popolarsi enormemente. Qui si era nel frattempo sviluppato un ceto piccolo borghese prevalentemente costituito da meticci. La borghesia, pur limitata nei diritti e dalle rigide regole imposte dalla amministrazione coloniale, si faceva strada nel piccolo commercio, nell’artigianato e nella piccola manifattura. Questo ceto aveva i suoi rappresentanti intellettuali e si contrapponeva naturalmente alle classi superiori di spagnoli legati all’esercito e alla burocrazia coloniale, alle gerarchie della Chiesa ed alla aristocrazia fondiaria.

Anche la potente classe dei proprietari terrieri nutriva interessi contrapposti alla Corona e alla amministrazione coloniale per i limiti al loro strapotere che questi imponevano, per le pesanti imposte, per il monopolio sopra i commerci e il sistema dei dazi doganali, per i vincoli alla crescita di un mercato nazionale sul quale riversare i propri prodotti. Ciononostante i ricchi latifondisti rinnegavano qualsiasi legame con il movimento antispagnolo che si esprimeva nei ceti inferiori e si identificava in una richiesta di trasformazioni sociali che avrebbero posto in discussione anche i privilegi terrieri. E ciò che più di tutto temevano era l’insorgere delle masse impoverite che avrebbero fatto i conti, oltre che con il sistema coloniale, con i proprietari fondiari, loro diretti oppressori.

La fine del 1700 segnò di fatto la fine del sistema coloniale. La Spagna, impegnata in guerra con l’Inghilterra, sospese le esportazioni di manufatti in Messico. Si aprirono allora i mercati ai migliori e più convenienti prodotti di altri paesi, ma anche per l’industria locale che dimostrò di riuscire a sostituire vantaggiosamente una quantità di prodotti importati. La Spagna fu costretta ad allentare la sua pressione sulle colonie mentre gli echi della rivoluzione francese arrivavano in Messico. Ebbe così iniziò il travagliato percorso che avrebbe condotto all’indipendenza.
 
 

3. L’INDIPENDENZA
 

Come descritto nella prima parte della trattazione, nella seconda metà del 1700 si ebbe in Messico una fase di forte crescita economica, demografica e territoriale. Vi corrispose una più chiara definizione degli interessi indipendentisti nei confronti della Spagna da parte della classe dei proprietari fondiari, egemone in Messico, e della nascente borghesia.

Già da tempo gruppi e circoli di intellettuali, provenienti dai ceti borghesi, si identificavano nella affermazione della esistenza della nazionalità messicana, che risultava dall’incrocio della razza e della cultura indigena, che affondava le radici negli antichi imperi mesoamericani, con quella europea e cattolica. La nascita di questa giovane nazionalità rappresentava dunque il superamento del bipolarismo fra indiani colonizzati e spagnoli colonizzatori. Essa affermava il suo sacrosanto diritto di sovranità sul territorio di cui enfaticamente erano esaltate le bellezze e le risorse naturali.

Parte di tale movimento erano i giovani gesuiti, fondatori di fiorenti aziende agricole, importatori e fautori di moderne e specializzate tecniche agrarie, promotori di intense ricerche geografiche e di studi etnologici sul Messico. I giovani gesuiti vennero espulsi dal Messico nel 1767 per decreto del re di Spagna.

Ancora nella metà del 1700 la Spagna era in grado di tenere saldo il controllo militare e burocratico delle colonie, ma sul finire del secolo, con la potenza imperiale ormai in netto declino, la morsa si allentò.

Le notizie della rivoluzione francese e soprattutto l’esito vittorioso della guerra di indipendenza delle vicine colonie nord americane portarono in primo piano le posizioni degli indipendentisti.

Nel frattempo nelle campagne iniziavano ad esplodere i forti contrasti sociali fra latifondisti e contadini poveri e semiproletari (peones), anche a seguito di devastanti carestie che si ripeterono a cavallo del secolo e che, soprattutto nelle aree rurali, seminarono fame, miseria e morte. Numerose divamparono le rivolte ed insurrezioni locali. Alcune di generalizzarono, come quella guidata da Hidalgo nelle regioni a nord e a ovest di Città del Messico. Curato di campagna, aveva arringato i parrocchiani che si erano sollevati arrestando e giustiziando le autorità e confiscando i latifondi. In poco tempo si formò una vera armata di contadini che spadroneggiò per del tempo nelle regioni, affrontando più volte con successo l’esercito inviato dalla capitale prima di soccombere. Repressa l’insurrezione, Hidalgo fu giustiziato.

Poco dopo insorgevano le regioni a sud della capitale. Di nuovo l’armata contadina otteneva brillanti successi. Alla testa del movimento Morelos, anch’egli prete di campagna, si pose in collegamento con i circoli più radicali della capitale. Venne proclamata l’indipendenza, concesso il diritto di cittadinanza messicana agli indios, ma soprattutto attuata la confisca delle grandi proprietà appartenenti alla Chiesa e ai latifondi e divisa la terra fra i contadini. La spinta rivoluzionaria proveniente dal mondo contadino non trovò corrispondenza in un consistente e radicale movimento borghese nelle città, l’insurrezione finì così per essere schiacciata dall’esercito regolare e Morelos destinato al patibolo.

Per soffocare rapidamente e definitivamente questi movimenti insurrezionali e scongiurare la prospettiva rivoluzionaria determinante fu l’appoggio incondizionato che l’apparato coloniale ottenne da parte dei proprietari terrieri. Nonostante il momento veramente favorevole, data anche la debolezza della Spagna impegnata nelle guerre napoleoniche, le classi possidenti, di fronte e contro al movimento contadino, fecero quadrato attorno al sistema coloniale. Doveva essere sedato ogni movimento di rivolta dal basso prima di tornare a porre la rivendicazione della indipendenza. Nel 1820, epoca della restaurazione in Europa, le classi fondiarie messicane, che ormai controllavano una larga parte dell’esercito, decisero finalmente di muovere i loro passi. Fu il colonnello Iturbide a proclamare nel «piano di Iguala» l’indipendenza del Messico, attraverso l’instaurazione di una monarchia costituzionale con un sovrano che si sarebbe dovuto scegliere fra i membri delle Case regnanti in Europa.

Non era previsto alcun programma di trasformazione e di riforme sociali, salvo la proclamazione della eguaglianza giuridica e la libera compravendita della terra. A quest’ultimo provvedimento particolarmente tenevano i ricchi possidenti, premessa per lo smantellamento di tutte quelle forme di protezione delle comunità indios che il sistema coloniale aveva istituito. La terra a queste appartenente sarebbe stata accaparrata dai latifondisti e la popolazione, disgregatesi le comunità, destinata al lavoro nelle grandi haciendas.

Quasi senza colpo ferire la parte dell’esercito rimasta fedele alla corona spagnola fu sopraffatta e l’indipendenza del Messico ratificata nel 1821.
 
 

4. IL POTERE DEI PROPRIETARI FONDIARI
 

Con l’indipendenza le classi fondiarie del Messico erano addivenute all’esercizio diretto del potere.

Ben lontane dall’interpretare la necessità del trapasso delle forme sociali e produttive al capitalismo, l’unica volontà che esprimevano era la strenua difesa dei propri privilegi. Prive di una prospettiva e quindi di un programma sul quale sviluppare l’azione politica, questa si risolse nella frantumazione e nel conflitto fra centri di potere legati ad interessi particolari di gruppi e cosche militari più o meno influenzate dalle agenzie delle potenze imperialiste che in Messico avevano buon gioco a tessere le loro trame. Per quasi tutto il 1800 il Messico fu dunque preda di lotte intestine alla classe dominante. Eserciti prezzolati si contendevano furiosamente il potere in un susseguirsi continuo di governi abbattuti con la forza, di capi militari che si autonominavano presidenti o di presidenti fantoccio che poco dopo erano destituiti e passati per le armi, di carte costituzionali sfornate a ripetizione a suggellare ogni nuovo colpo di mano, di continue rivolte militari e cospirazioni.

In linea di massima possiamo rintracciare due tendenze all’interno della classe dominante, frazioni a loro volta divise in gruppi in guerra fra di loro: l’ala più conservatrice che di definiva «centralista», più vicina alle posizioni della Chiesa e dei vecchi proprietari fondiari, sostenuta per lungo tempo dalla Gran Bretagna; l’ala con tendenze liberali, federaliste e anticlericali, più vicina alle posizioni della borghesia e appoggiata dagli USA.

Questo stato permanente di guerre intestine non solo impedì il consolidarsi dell’apparato statale ma anche depresse per lungo tempo lo sviluppo economico. L’economia infatti, incapace di recepire il progresso tecnico e a fronte di un sistema di infrastrutture per le comunicazioni ed i commerci che anziché svilupparsi si degradava sempre più, dopo il balzo in avanti compiuto alla fine del 1700, finì per rinchiudersi e ristagnare in isole chiuse tendenti all’autarchia. Nel frattempo il Messico si indebitava sempre più nei confronti delle grandi potenze straniere ormai padrone dei destini del paese.

In tali condizioni non era possibile che il Messico potesse difendere i suoi confini dagli appetiti della emergente potenza capitalistica nordamericana in via di espansione. L’esercito stesso, impostato ancora sullo schema coloniale, era male armato e strutturato in funzione delle guerre intestine, del tutto incapace di reggere l’urto del potente confinante. Fu così che la partita apertasi con la guerra di indipendenza del Texas, si concluse con una rovinosa disfatta che portò alla perdita di quasi la metà dell’immenso territorio.

Nel 1845 gli USA, accorsi in aiuto dei coloni nordamericani da tempo installatisi in Texas e in rivolta contro il dominio messicano, dichiaravano l’annessione di quella regione, provocando la dichiarazione di guerra da parte del Messico. Immediatamente l’esercito nordamericano invadeva il Nuovo Messico, spingendosi in Arizona e in California. Contemporaneamente penetrava in territorio messicano da nord est, mentre un terzo corpo di spedizione sbarcava a Veracruz e, sbaragliando ogni difesa, occupava Città del Messico. Nel 1848 il governo messicano, ritiratosi a Queretario, finiva per accettare le pesanti condizioni imposte dal nemico: la concessione di Texas, Nuovo Messico, Arizona e California che venivano definitivamente annesse agli USA.

L’ala conservatrice, che con il generale Santa Anna aveva subito una così ignominiosa disfatta, si mantenne tuttavia al potere fino al 1854, quando l’ala liberale, sostenuta dagli USA, insorse conducendo al governo Benito Juárez.
 
 

5. LA REFORMA E BENITO JUÁREZ
 

La Reforma e Benito Juárez sono tutt’oggi oggetto di celebrazioni in Messico in quanto avrebbero segnato l’inizio del trapasso ad uno Stato laico e moderno. In effetti Juárez puntò alla riorganizzazione dello Stato, organo centrale del potere politico cui la varie frazioni della classe dominante si sarebbero dovute sottomettere, chiudendo il lungo periodo di lotte intestine con risultati tanto rovinosi per il paese.

Resta però il fatto che l’apparato di potere che si intendeva rinsaldare era quello delle classi fondiarie, secondo i cui interessi si svolse la politica di Juárez, interessi in contrasto con lo sviluppo in senso capitalistico e moderno; il sistema di potere di Juárez ebbe a riorganizzare, e il successore Diaz a dispiegare in campo, era l’ostacolo che solo la rivoluzione fu in grado di rimuovere.

Ispirandosi al principio della "libertà dell’individuo", in particolare quella del latifondista di acquisire terra e mano d’opera a buon mercato, la Reforma si scagliò contro tutte le forme di monopolio costituito della proprietà terriera. Uno dei principali provvedimenti fu dunque quello di abolire la proprietà fondiaria delle corporazioni religiose e delle comunità indigene. Le proprietà della Chiesa dovevano essere poste in vendita ma, di fronte alla levata di scudi delle autorità religiose, Juárez ne confiscò tutti i beni immobiliari e sciolse gli ordini monastici. Le terre appartenenti alle comunità indigene dovevano invece essere divise ed assegnate in proprietà agli usufruttuari. La maggior parte dei questi furono tuttavia dichiarati privi di titolo legittimo di proprietà e quindi le terre confiscate alla comunità furono requisite dallo Stato.

Tale provvedimento non mirò quindi alla formazione della piccola azienda contadina, bensì al rafforzamento del latifondo, ciò in quanto le nuove terre che si rendevano disponibili venivano facilmente incamerate dai ricchi proprietari e non dai contadini, i quali, privi della cultura della proprietà privata e soprattutto delle risorse economiche per acquisirla e sostenerla, non solo non riuscivano ad ottener nuove terre ma erano costretti a disfarsi di quelle loro assegnate.

Come conseguenza oltre la terra, diveniva disponibile anche una quantità di mano d’opera, libera dai vincoli e dal sistema di protezione delle comunità in dissoluzione, che confluiva inevitabilmente verso il latifondo (le haciendas). Ciò corrispondeva fra l’altro alle esigenze della attività mineraria e della nascente industria, in attesa di braccia disponibili a buon mercato.

Iniziava dunque, seppur in ritardo, in Messico, quel processo di demolizione del sistema agricolo tradizionale che accompagna la accumulazione primitiva capitalistica. Lo smantellamento delle comunità indiane, che successivamente Porfirio Diaz portò a compimento, era inscritto nell’evitabile processo della evoluzione verso il capitalismo, tuttavia segnato da una potente contraddizione: esso non intaccava, anzi andava a rafforzare il latifondo tradizionale. Fu questa contraddizione che condusse al successivo sviluppo rivoluzionario degli eventi.

L’opera intrapresa dal governo Juárez fu interrotta da una parentesi in cui il Messico parve essere rigettato negli anni bui. Nel 1861 Inghilterra, Francia e Spagna, alleate al partito conservatore avversario di Juárez, approntavano un corpo di spedizione allo scopo di intervenire in Messico. Motivo dichiarato era quello di garantirsi il recupero dei crediti, in realtà si trattava di contrastare l’espansionismo degli USA, alleati dei liberali di Juárez, nel frattempo impegnati nella guerra di secessione.

Il corpo di spedizione sbarcò a Veracruz, tradizionale via di accesso alla capitale, che fu conquistata rapidamente. Mentre il governo di Juárez riparava oltre frontiera negli USA, veniva nominato «Imperatore» del Messico Massimiliano d’Asburgo, inviato dall’Europa.

Costui si illuse di poter rappresentare qualcosa di più che un fantoccio tenuto su dalle briglie dell’imperialismo ed iniziò ad atteggiarsi a sovrano illuminato deciso a procedere sulla via di importanti riforme. Dopo poco il contingente europeo, sostenuto soprattutto dalla Francia, si ritirava, anche a seguito delle energiche pressioni esercitate dagli USA nel frattempo usciti dalla guerra civile. Il povero Massimiliano, abbandonato a se stesso, finì fucilato nel 1867.

Rientrato in Messico e installatosi nuovamente al governo, Juárez si dedicò immediatamente all’opera di epurazione nell’apparato statale e nell’esercito, per procedere quindi al consolidamento dell’azione governativa nella direzione della Reforma.

Il terreno era spianato per il successivo avvento del generale Diaz (avvicendamento al potere che, secondo la tradizione messicana, si ebbe dopo una successione di intrighi e colpi di mano) che diede inizio alla decisa trasformazione in campo economico e sociale che la Reforma aveva anticipato.
 
 

6. IL PORFIRIATO
 

La storiografia messicana e la visione di molti democratici piccoli borghesi celebrano Juárez come «progressista» e condannano Porfirio Diaz come «reazionario». Invece il regime di Diaz fu in continuità come quello di Juárez, l’uno avendo aperto la strada che l’altro percorse.

La politica svolta durante il periodo del porfiriato, dal 1877 al 1910, non è di restaurazione o di terrore reazionario, sta invece sul percorso di affermazione, con mezzi non democratici, violenti e dittatoriali, del capitalismo messicano nella sua fase di accumulazione primitiva. Questo però entro i limiti ristretti dettati dagli interessi e dai privilegi della classe fondiaria e della alta borghesia, di cui il governo Diaz era interprete e portatore. Limiti e contraddizioni che porteranno in campo la rivoluzione.

La oligarchia dirigente di cui Diaz era circondato era costituita dai cosiddetti cientificos, che si autodefinivano anche "positivisti scientifici", elementi provenienti dai settori illuminati della classe dominante e collegati alle società straniere che operavano in Messico: un "governo tecnico", lo chiameremmo oggi. Tutti costoro erano fermamente convinti che la marcia del Messico verso il capitalismo non poteva più essere ostacolata ed era necessario sgombrare la via.

In campo agrario, l’intervento del governo Diaz si caratterizzò con la distruzione massiccia della proprietà fondiaria comunitaria, con la conseguente appropriazione privata da parte delle grandi aziende agrarie e la espropriazione di una massa notevole di contadini. Tale processo, già avviato da Juárez, si era svolto con lentezza perché, data la incerta situazione politica e i conflitti che aveva dovuto sostenere, non era stato in grado di fronteggiare le forti resistenze incontrate e soprattutto temendone le conseguenze sociali. Ci voleva evidentemente un riassestamento ed un rafforzamento dell’apparato dello Stato ed il riallineamento di tutte le forze espressione delle classi dominanti per consentire l’esercizio della aperta dittatura e violenza organizzata e sistematica, necessarie ad intraprendere azioni decisive.

Dal 1883 furono promulgate una serie di leggi mirate a distruggere la proprietà comunitaria. La prima autorizzava compagnie messicane e straniere, in cui tuttavia i messicani avessero una forte partecipazione, da identificare, lottizzare e mettere a coltura le terre incolte. Queste venivano poi loro concesse in proprietà a condizioni estremamente favorevoli. Tali compagnie vennero chiamate deslindadoras (delle chiudende). Non soltanto di terre vergini si andò a trattare bensì delle terre appartenenti alle comunità indigene che, nella maggior parte, non erano in grado di esibire titoli di proprietà. Nel 1889 tali compagnie avevano già incamerato 27.500.000 ettari cioè il 13% della intera superficie del Messico. Nel 1889 vennero varate le leggi sulle acque. Alle compagnie che si fossero impegnate in opere di regimazione idraulica e di irrigazione venivano date concessioni sulle terre adiacenti i corsi d’acqua. Le società finirono per privare dell’uso dell’acqua i campi in prossimità dei fiumi obbligandone i proprietari a spogliarsi ancora di nuove terre. Alcune società arrivarono ad assicurarsi il controllo di interi bacini idrografici o di intere province del Messico.

Nel 1902 una nuova legge rendeva possibile la stipula di contratti in cui lo Stato dava in concessione a privati una parte delle terre demaniali in cambio di una modesta rendita.

Se all’inizio erano stabiliti dei limiti alla quantità di terra che poteva essere acquisita da un singolo proprietario, nel 1893 tali limiti venivano aboliti completamente ed allora risultò chiaro quanto la proprietà fondiaria si fosse concentrata nelle mani di pochi latifondisti. Citiamo a questo proposito Gutelman, autore dell’utile Riforma agraria in America Latina, il caso Messico: «Per una mentalità europea, è difficile immaginarsi gli imperi fondiari creati in questo modo: come azionista di una compagnia di misurazione, il magnate della stampa americana Hearst aveva ricevuto 7 milioni di ettari nello Stato di Chihuahua. Una sola persona possedeva 2 milioni di ettari presso Oaxaca, mentre altre due si erano impadronite di 2 milioni di ettari nello Stato di Durango. In definitiva otto persone possedevano da sole 11 milioni e mezzo di ettari. Vera Estañol constatava che in Baja California l’ettaro era diventato una unità di misura agraria troppo piccola: i lavori erano condotti con triangolazioni e rilievi astronomici. Le proprietà venivano delimitate da meridiani e paralleli».

Danno una idea della misura in cui gli indiani vennero spogliati delle loro terre i dati di una ricerca riportata in Guerre contadine del XX secolo di Wolf:

«Risulta che in sei Stati oltre il 90% delle zone abitate si trovavano entro i confini delle haciendas, in otto Stati l’80%. Inoltre in dieci Stati il 50-70% della popolazione rurale viveva nei latifondi, in cinque il 70-90%».
Gutelman cita uno studio di Giraldo Magana, vecchio rivoluzionario agrarista, secondo cui la ripartizione delle terre nel 1910 era la seguente: 120 milioni di ettari erano nelle mani degli haciendados; di questi solo 276 ne possedevano circa 48 milioni (per raffronto, la superficie totale dell’Italia è di 30 milioni di ettari).

Questi dati non indicano immediatamente il grado di proletarizzazione della popolazione rurale, dal momento che una larga parte dei contadini venne incamerata dalle haciendas assieme alle loro terre, divenendone affittuari.

Come abbiamo rilevato descrivendo la struttura delle haciendas, non si trattava di locatari nel senso moderno del termine, ma lavoratori strettamente legati all’hacienda.

«Coltivavano appezzamenti di terra concessi loro dall’haciendado in base a contratti non scritti, conformemente alla consuetudine dell’antico diritto spagnolo. I canoni d’affitto erano pagati generalmente in natura o in giorni di lavoro, e si univano ad ogni genere di prestazioni e di servizi che facevano in realtà di questo modo di conduzione una servitù. Nella maggior parte dei casi, gli affittuari non possedevano capitali propri. Essi spesso vivevano, o addirittura sopravvivevano, soltanto grazie agli anticipi che accordava loro l’haciendado nell’ambito della famosa tienda de raya, l’emporio dell’ hacienda. Le terre che essi coltivavano erano le meno fertili dell’hacienda: il proprietario riteneva più redditizio farle lavorare da affittuari, ottenendo una rendita per interposta persona, piuttosto che curarsene direttamente (...) Un numero grandissimo di affittuari erano nello stesso tempo peones, cioè operai agricoli salariati. Molto spesso, in una stessa stagione, essi lavoravano sulle terre del padrone dapprima a titolo di prestazioni gratuite, poi come salariati, mentre la moglie e i figli coltivavano la terra in affitto (...) In mancanza di dati statistici è impossibile determinare il numero degli affittuari che vivevano in Messico dall’inizio del XX secolo. È probabile che fosse molto alto» (Gutelman, pp. 36-37).
Certamente lo era, deduciamo noi, dal momento che è impensabile che la enorme quantità di terre incamerate dalle haciendas in così poco tempo potesse cambiare forma di conduzione, sempre che ciò fosse nelle intenzioni dei proprietari. Inoltre le dimensioni stesse delle proprietà che si erano costituite lasciano pensare che, per quelle che erano le tecniche agricole dell’epoca, una larga parte delle terre fosse lasciata incolta, molta altra rimanesse divisa in piccoli lotti condotta da contadini mentre solo una piccola porzione, certamente quella più fertile, fosse gestita direttamente dell’haciendado per mezzo di salariati.

Gran parte della popolazione agricola era stata del tutto o quasi privata della terra da coltivare in proprio. Erano peones direttamente dipendenti dall’azienda. Questi si dividevano in peones libres e peones alquilados, cioè affittati dall’azienda ma che ne vivevano al di fuori, impiegati a tempo pieno o parziale per lavori e raccolte stagionali. Il numero di questi aumentò notevolmente a seguito delle espropriazioni che avevano sottratto ai contadini la quantità di terra sufficiente per sopravvivere. Come nota Gutelman, tali espropriazioni rispondevano spesso più alla necessità di procurarsi mano d’opera a buon mercato, che a quella di aggiungere altri ettari alle loro tenute già immense ed in parte mantenute incolte.

Vi erano poi i peones accasillados, cioè alloggiati nell’azienda in teoria liberi salariati, in realtà in condizioni di semiservitù. Il loro lavoro solo in parte era remunerato, spesso in natura, il peon essendo costretto a lavoro gratuito come contropartita al «diritto» di installarsi nell’hacienda. Inoltre era normalmente indebitato a vita nei confronti del padrone, con il meccanismo dei prestiti presso l’emporio di azienda o tienda de raya. Tale debito raramente era rimborsato, ma andava crescendo ed il peon era definitivamente legato all’hacienda e costretto ad ogni genere di lavori servili perché la legge gli impediva di lasciare il lavoro senza prima aver pagato i debiti. Questi si trasmettevano poi di padre in figlio e il peon diveniva di fatto un vero servo a vita anche se formalmente percepiva un salario.

La figura rurale che in realtà scomparve all’epoca del porfiriato è quella del membro della comunità che dalla coltivazione della terra assegnatagli ricavava il necessario per il suo sostentamento e non necessitava affatto, o solo in minima parte, di sottomettersi all’hacienda.

Limitatamente in questa fase si affermò la piccola proprietà contadina, il cosiddetto rancho, soprattutto al nord e nel settore dell’allevamento a seguito della attribuzione delle terre statali a coloni provenienti dal Nord America e dall’Europa, immigrazione che il porfiriato cercò di favorire in quanto portatrice di rinnovamento delle tecniche agricole e di nuovi tipi di culture.

Si capisce bene come per portare avanti una politica di interventi così decisivi, che in poco tempo andò a sconvolgere il mondo agricolo, Diaz dovette dotarsi di un apparato di potere in grado di esercitare una ferrea dittatura. Le elezioni venivano regolarmente truccate ed i parlamentari nominati dalla cricca dirigente. La magistratura era sotto stretto controllo e lo stesso la stampa. Gli oppositori erano imprigionati, assassinati o costretti all’esilio. Gli scioperi proibiti.

Nelle campagne fu creata una forza speciale di polizia, i rurales, reclutati fra i criminali e i banditi, che pattugliavano il territorio minacciando la popolazione, trucidando gli avversari del regime e reprimendo con ferocia ogni opposizione e tentativo di rivolta. Nello stesso tempo nei villaggi gli sgherri del regime riuscivano ad ottenere con le minacce e la corruzione il favore dei capi rappresentativi.

Gli effetti immediati della politica del regime porfirista furono un impoverimento generale della popolazione, non solo rurale. Gli interventi sconvolgenti il mondo contadino provocarono inizialmente un calo sensibile della produzione agricola. Dal 1894 la produzione tornò ad aumentare, tendenza dovuta all’aumento delle colture destinate all’industria nazionale e alle esportazioni, come il cotone, la canna da zucchero, il sisal, il caffè, il bestiame. Invece la produzione destinata alla alimentazione interna, più legata all’agricoltura tradizionale (mais, fagioli, chile, elementi basilari della alimentazione messicana) continuò a scendere. Si ebbe un conseguente aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, in particolare del mais di cui il Messico divenne per la prima volta importatore. Anche a seguito di questo il tenore di vita di tutta la popolazione messicana, non solo dei contadini, si abbassò notevolmente.

È interessante a questo proposito quanto annota il Gutelman (pag. 45-46):

«Questi dati tuttavia contraddicono solo in apparenza l’ipotesi di sviluppo del mercato interno, in realtà l’ampiezza di quest’ultimo non è funzione della domanda potenziale di prodotti, né del volume reale del consumo, ma della domanda che si esprime in termini monetari. Ora se il livello di consumo globale del contadino messicano tendeva a decrescere fortemente durante l’epoca porfirista, la parte del suo consumo individuale che si esprimeva in una domanda in moneta tendeva invece ad aumentare, parallelamente al processo di proletarizzazione cioè parallelamente all’aumento del numero dei salariati. Fu la monetarizzazione di una parte crescente del consumo (anche se questo diminuiva in valore assoluto) a permettere la formazione del mercato interno messicano. E, come è naturale, questo è anche l’unico fenomeno che interessa il capitalista nella fase di accumulazione originaria capitalistica».
Riguardo allo sviluppo del mercato, di primaria importanza fu l’impulso dato alla rete di comunicazione, quella telegrafica e quella ferroviaria che passò da una sola linea di 460 chilometri nel 1877, a 20.000 chilometri di strada ferrata nel 1910 (da allora praticamente le rete ferroviaria non ha più progredito). Si può immaginare l’importanza che ebbe l’arrivo della ferrovia in lontane province sulle condizioni del loro sviluppo economico e anche nei rapporti sociali. Il flusso delle merci veniva a spezzare il sistema di autoconsumo dei villaggi indigeni, ma anche la staticità dell’autarchia economica delle haciendas. Ed in più si incrinava il sistema dei rapporti di semiservitù vigente al loro interno quando divenne accessibile per i peones e gli indios cacciati dalle loro terre una via di fuga in alternativa alla ineluttabile sottomissione al padrone-signore di quella provincia, «liberi» di andarsene a vendere le proprie braccia in altri mercati della forza lavoro.

L’industria segnò nel periodo del porfiriato un notevole passo in avanti, prese corpo una vera struttura industriale per una produzione su larga scala in campo tessile, si meccanizzò e sviluppò enormemente il settore degli zuccherifici, nacque l’industria metallurgica, tutte branche della produzione legate alla fornitura interna di materie prime. Inoltre ebbe sviluppo la produzione di saponi, birra, sigarette e altri prodotti della industria leggera. Vennero infine perforati i primi pozzi petroliferi nel golfo del Messico e costruite le prime centrali elettriche. Anche in campo minerario i progressi furono notevoli, con la scoperta di nuovi giacimenti di argento e oro favoriti dalla fortissima domanda sul mercato internazionale.

Questo slancio verso la industrializzazione fu senz’altro favorito dal rendersi disponibile sul mercato la forza lavoro che si era liberata nelle campagne a seguito delle espropriazioni di terra con la conseguente proletarizzazione dei contadini. Per questa ragione, in una prima fase, la borghesia industriale e le compagnie straniere operanti in Messico dettero tutto il loro appoggio alla politica di Diaz.
 
 

7. LE PREMESSE DELLA RIVOLUZIONE
 

Le trasformazioni portate soprattutto in campo agrario dal regime porfirista permettono di comprendere i successivi sviluppi rivoluzionari in Messico.

L’espropriazione violenta e massiccia della terra appartenente alle comunità contadine indigene non condusse alla formazione della piccola proprietà, bensì alla estensione del latifondo. Abbiamo visto che si formarono proprietà addirittura di milioni di ettari, ma tale nuova struttura fondiaria non comportava un cambiamento dei metodi di conduzione. Milioni di contadini erano ora soggetti a pochi proprietari che si erano impadroniti delle loro terre, ma non era cambiato il modo di lavorarle e di ottenere da esse il prodotto: semplicemente una parte di questo veniva ora destinata al padrone sotto forma di rendita.

La disponibilità per le haciendas di nuove terre fertili da coltivare, di milioni di braccia a buon mercato di contadini che ne erano rimasti privi, di nuove rendite da incamerare oltreché di nuove e più adeguate vie di comunicazione e nuovi sbocchi commerciali verso il mercato interno ed estero, tutti questi fatti avrebbero potuto essere di stimolo per operare nuovi investimenti, introducendo nuove tecniche e culture specializzate, meccanizzando le aziende e rendendole più competitive, avviandole così sulla via della trasformazione in moderne aziende agro-industriali.

Certamente alcuni proprietari più lungimiranti, investitori capitalisti o società straniere si incamminarono per questa strada. Ma nella grande maggioranza non poteva che prevalere l’atteggiamento del latifondista che si pasce della sua rendita e rimane sordo allo stimolo del rinnovamento se non costretto da gravi necessità. Il latifondo e le grandi haciendas rimasero in larga parte una massa statica e priva di vita, baluardo insormontabile all’ingresso del vivace capitalismo in agricoltura.

Contro questo stato di fatto non poteva non infrangersi la politica del regime di Diaz. Emanazione della classe dei proprietari fondiari, esso non poteva che seguire quella che Gutelman, riferendosi a Lenin, definisce la via «di tipo prussiano» per lo sviluppo del capitalismo in agricoltura, che presuppone l’espropriazione in forma messicana dei piccoli contadini dai loro mezzi di produzione e che si contrappone a quella di «tipo contadino» che invece presuppone l’espropriazione e la spartizione del latifondo.

Ma come afferma il nostro testo del 1921 sulla questione agraria, il passaggio dal latifondo alla moderna azienda agro-industriale non è in linea generale in una continuità storica di sviluppo:

«Senza escludere che sia possibile ed anche frequente il passaggio dalla grande proprietà agraria, con la introduzione di successive migliorie e trasformazioni, alla tenuta moderna, specie quando si cominci a realizzare con un’industria agraria di sicuro successo, come l’allevamento del bestiame, il caseificio, etc., si può però affermare che in moltissimi casi, anzi nella maggioranza di essi, la pratica agraria non uscirà dalla sua stasi medievale senza che il grande corpo, anzi agglomerato senza vita del latifondo, si risolva nelle feconde cellule della produzione a piccoli lotti».
Questo è il caso del Messico. La massiccia espropriazione dei contadini non aveva portato con sé il dinamico evolversi del latifondo verso il capitalismo, per lo meno non lo avrebbe fatto in tempi sufficientemente rapidi. Aveva invece condotto le masse rurali in uno stato di tale miseria e oppressione che la rivoluzione era diventata per esse una assoluta necessità.

La politica intrapresa per assicurare vigore e prospettive alle grandi haciendas, divenne invece la premessa per il loro smantellamento per via rivoluzionaria. La stasi del tradizionale mondo agrario messicano era irrimediabilmente turbata, ma il suo nuovo modo di essere non poteva divenire quello auspicato da Diaz, bensì quello determinatosi nel lungo percorso che ebbe inizio con la rivoluzione del 1910.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

D.
ASPETTI E LIMITI DELL’IMPIANTO ECONOMICO CAPITALISTICO IN AMERICA LATINA

("Comunismo", settembre-dicembre 1985, n.19)
 

1. Periodi storici in America Latina
2. Capitale straniero, commercio internazionale e industrializzazione
3. Storia economica fino al 1945
4. Imperialismo e America Latina - il secondo dopoguerra
5. Conclusioni: Le contraddizioni del capitalismo in America Latina
1. Periodi storici in America Latina
 

Periodo coloniale Dalla conquista iberica all’indipendenza politica che si conclude verso il 1825.
 La ricchezza ricavata viene divisa tra ceto borghese trapiantato in America Latina (A.L.) e madrepatria europea.

Periodo di transizione tra colonialismo ed imperialismo Dal 1825 al 1870.
 Il ceto borghese europeo radicato in A.L. si sente abbastanza forte per decidere di gestire in proprio la ricchezza prodotta rompendo i legami politici con la madrepatria.
 È appoggiato dall’Inghilterra, potenza capitalistica egemone in pieno sviluppo, che dalla rottura di quei legami politici punta alla massiccia penetrazione di capitale. Dato il rapporto di forze, i legami economici che si instaurano portano al completo dominio esterno. Questo nasce nel settore del commercio estero, ma si ripercuote ovviamente sulla struttura economica politica e sociale dei paesi latino americani (l.a.) con effetti disastrosi sul loro sviluppo.

Periodo dell’imperialismo Stadio del sistema capitalistico nella fase dei monopoli col ruolo preminente del capitale finanziario che opera con l’esportazione di capitali e con il controllo delle fonti delle materie prime.
 Nell’assoggettamento dell’A.L. all’Inghilterra si affiancano altre potenze imperialistiche tra cui gli Stati Uniti che con la Prima Guerra mondiale assumono il ruolo di potenza guida del capitalismo mondiale.
 Con la grande crisi del 1929 gli Stati Uniti passano al primo posto nel dominio economico dell’A.L.; a conferma che le grandi crisi portano alla morte o rafforzano la preminenza del più forte.
 
 

2. Capitale straniero, commercio internazionale e industrializzazione
 

Con l’indipendenza i paesi l.a. si inseriscono nella divisione internazionale del lavoro come produttori di materie prime e consumatori di prodotti industriali, soprattutto inglesi.

I nuovi Stati l.a. devono rivolgersi subito all’Inghilterra sia per la concessione di prestiti, onde far fronte ai debiti contratti con gli inglesi durante la guerra d’indipendenza, sia per lo smercio delle materie prime prodotte sul principale mercato, che è proprio quello inglese. All’ormai formale dipendenza coloniale spagnola subentra la spietata dipendenza finanziaria inglese.

Il tentativo di Bolivar di unificare in un unico grande Stato le ex colonie spagnole soccombe. Prevale l’esigenza inglese di tanti piccoli e deboli Stati; grazie anche a prestiti concessi tra il 1818 e il 1825 per oltre 18 milioni di sterline.

Inizia allora l’abnorme allargamento del settore primario e la crescita del settore terziario. Si rafforza la monoproduzione. Delle deboli industrie del periodo coloniale resistono all’urto dei prodotti inglesi solo quelle che servono impervie zone interne.

Fino alla "Grande Depressione" del 1873, nei paesi in cui il capitalismo attraversa la fase di intenso sviluppo, gli incentivi ad investire capitali all’estero sono scarsi, date le numerose occasioni di impiego all’interno.

La necessità di rifornimento di materie prime essendo garantita dai nuovi paesi l.a. che hanno ereditato dalle colonie la base produttiva, gli investimenti esteri inglesi si orientano verso settori che le economie locali non sono in grado di sviluppare: i trasporti e, in misura minore e per ragioni strategiche, le miniere. Essendo il sistema bancario in mano a banche straniere (inglesi), i crediti sono concessi ai settori considerati redditizi per le potenze dominanti, tutto ciò con ovvi effetti distorcenti per le economie l.a.

Inizialmente i capitali stranieri prendono l’aspetto di prestiti a lungo termine. Gli interessi maturati sono pagati dai paesi l.a. con nuovi prestiti, istituzionalizzando la loro dipendenza.

Il capitale straniero affluisce al commercio, alle compagnie di navigazione (eliminando le flotte mercantili locali), alle miniere (prima come monopolio del commercio internazionale minerario, poi con messa fuori causa dei produttori locali), alle ferrovie (subito denazionalizzate), ai porti; monopolizzando i settori di gas, acqua, elettricità e trasporti urbani.

Il periodo che inizia con il 1870 vede la nascita dei monopoli, che hanno necessità di trovare campi di applicazione per i loro capitali al di fuori dei paesi di origine, con investimenti in A.L. che passano dal settore commerciale e finanziario alla produzione primaria.

Parallelamente si assiste al deterioramento delle ragioni di scambio: la quantità di prodotti industriali ottenibili con una data quantità di materie prime, posta uguale a 100 per il periodo 1876-80, scende inesorabilmente e costantemente a 62 nel 1931-35. Il capitale straniero si appropria apertamente una parte del plusvalore generato all’interno di ciascuna economia l.a.

I settori in cui penetra si strutturano come enclaves (soprattutto minerarie), avulse dalle locali economie nazionali. L’aumento che si determina nella massa salariale è inferiore ai profitti che migrano all’estero.

Vi sono paesi in cui il capitale straniero, pur penetrando a fondo nella economia locale, non riesce a prevalere sui produttori nazionali (Brasile, Argentina e Uruguay), paesi in cui li supera di importanza (Venezuela, Guatemala), paesi in cui assorbe completamente la produzione nazionale (Cuba); un quarto gruppo di paesi entra solo allora a contatto con il mercato mondiale.

Nei paesi in cui raggiunge il predominio il capitale straniero priva le oligarchie del potere economico e lascia loro solo il potere politico. Le entrate di queste sono formate di royalties e di imposte, unica parte che resta nel paese dell’eccedente realizzato nel settore dell’esportazione, per lo più spese in beni di importazione.

I paesi del primo gruppo, in cui il capitale straniero non controlla tutti i rami produttivi volti all’esportazione, accumulano un eccedente che, investito nei rami legati al consumo interno, consente la creazione e lo sviluppo di nuclei industriali per la produzione di beni che ai paesi dominanti non interessa più esportare.

La fase 1880-1910 è di notevole espansione per l’economia l.a.; gli investimenti stranieri si susseguono, le esportazioni aumentano ad un ritmo vertiginoso e così anche le importazioni. L’economia agricola si monetarizza completamente. Il settore terziario si allarga e permette la crescita di un ceto medio. Si deve ricorrere all’immigrazione di mano d’opera europea, alla base della prima fase del processo di urbanizzazione (la seconda è svolta dalle migrazioni interne) dando vita al nascente proletariato di fabbrica.

Dopo il 1910 la domanda europea (inglese) si contrae, altrettanto bruscamente si contraggono gli investimenti stranieri e si interrompe il processo di espansione.

Borghesia e classi popolari urbane si alleano contro le oligarchie dominanti, la cui mancata sconfitta (grazie all’appoggio del capitale straniero) porterà poi alla loro alleanza con la borghesia contro il proletariato urbano e rurale. Esauritasi negativamente la fase nazionalista rivoluzionaria borghese, subentrerà la feroce fase controrivoluzionaria antiproletaria.

Il periodo 1870-1930 vede dunque un cambiamento nel tipo di investimenti dall’estero e all’interno dell’ A.L. una limitata circolazione dei profitti derivati dalle attività controllate da stranieri. Quando si verificano cicli depressivi nei paesi imperialisti si interrompe il flusso degli investimenti ed aumenta l’esportazione dei profitti.

Fino al 1880-1910 l’influenza degli USA è limitata al campo commerciale. Ancora nel 1913 la metà del totale degli investimenti inglesi all’estero andava all’A.L.. Più del 70% degli investimenti diretti statunitensi era limitata al Messico. Dopo il 1910 gli investimenti britannici cominciano a diminuire e nel 1929 sono eguagliati da quelli statunitensi. A indebolire l’Inghilterra anche la sostituzione delle ferrovie con i trasporti automobilistici, a vantaggio degli USA.

Gli investimenti USA si dirigono non solo verso la produzione per l’esportazione, ma anche per il consumo locale; prassi che sarà dominante dopo la Seconda Guerra mondiale.

La crisi del 1929, anche se forza il processo d’industrializzazione l.a. (d’altronde nei soli paesi del 1° gruppo, nei quali il capitale straniero non è prevalente), si ripercuote sui paesi l.a. fino alla Seconda Guerra Mondiale. Per il commercio il saldo attivo peggiora fino al 1960.

Commercio Estero
dell’America Latina
  Esporta-
zioni
miliardi $
indice Importa-
zioni
miliardi $
indice
1929 2,9 100 2,4 100
1939 1,7 59 1,5 62
1950 6,5 224 5,4 225
1960 8,6 297 8,2 342

Negli anni 1950 si ha la massiccia penetrazione dei capitali esteri nel settore industriale l.a. Nel periodo che si apre con la fine della guerra di Corea gli investimenti esteri coinvolgono anche il campo industriale di recente formazione. In questa fase il flusso maggiore degli investimenti si dirige verso i paesi l.a. più industrializzati; all’interno del settore industriale, si prediligono le branche più dinamiche.

Dal 1953 si assiste ad una serie di misure e concessioni governative, tese ad attrarre il capitale estero. La famosa Istruzione 113 del governo brasiliano dopo il suicidio di Vargas impone che le imprese straniere possano importare macchinari liberamente, quelle brasiliane solo con la licenza di cambio; le imprese straniere possano importare macchinari usati, quelle brasiliane debbano acquistarne di nuovi e quelle che non riescono a competere con le imprese straniere fondersi con esse.

In questo periodo i grandi monopoli evolvono verso forme multinazionali. La loro grande disponibilità di capitali li costringe ad investire all’estero, man mano che si esauriscono gli sbocchi interni; a sua volta il progresso tecnico esige che i macchinari obsoleti, non ancora ammortizzati, vengano venduti ai paesi sottosviluppati.

In questi ultimi anni il costante disavanzo della bilancia dei pagamenti, fenomeno prima mai manifestatosi e connesso con la riesportazione crescente dei profitti verso i paesi investitori, costringe i governi l.a. a finanziare il disavanzo attirando nuovi investimenti e contraendo nuovi debiti all’estero, con gli inevitabili obblighi di carattere politico ed economico.

    Investi-
menti
netti USA
in A.L.
Flusso di
profitti
dall’A.L.
agli USA
milioni di dollari
1957 1164 880
1958 299 641
1959 218 691
1960 149 828
1961 219 879
1962 29 925
1963 235 1029
1964 266 1047
1965 271 1185
1966 276 1287
1967 143 1358

Nella formazione, configurazione e sviluppo delle società l.a. è sempre presente una situazione di dipendenza dai centri egemonici del capitalismo che ne condizionano la struttura economica.

Nel XIX secolo i paesi l.a. non potevano non fondarsi sull’esportazione. Pur con questo limite, alcuni paesi ottennero l’indipendenza prima di altri e si diedero regimi politici differenti, la repubblica o l’impero (il Brasile). Alcuni iniziarono a industrializzarsi alla fine del XIX secolo e altri no.

Il "ritardo" dei paesi dipendenti l.a. è conseguenza dello sviluppo del capitalismo mondiale e insieme condizione di tale sviluppo nelle grandi potenze imperialistiche. Paesi avanzati e arretrati costituiscono storicamente una unità che permette lo sviluppo degli uni e il ritardo degli altri. Il capitalismo l.a. è parte del capitalismo mondiale. Ha assunto forme specifiche in risposta alle leggi e alla dinamica del sistema capitalistico. Le sue caratteristiche e il suo modo di funzionare rispecchiano le esigenze dei centri mondiali del capitalismo; inglese prima, USA poi. Le società l.a. quindi possono essere studiate solo come parte integrante del capitalismo mondiale, nel contesto della sua espansione.

La Seconda Guerra mondiale provoca negli USA un enorme sviluppo delle forze produttive e accentua nelle imprese multinazionali il processo di monopolizzazione, centralizzazione e concentrazione della produzione.

Il sistema monopolistico acquista caratteristiche di integrazione mondiale già alla fine del XIX secolo, ma solo nel secondo dopoguerra si svolge completamente e diventa dominante attraverso un processo accelerato di integrazione delle grandi imprese multinazionali, la sottomissione militare di interi continenti e infine l’espansione del capitalismo monopolistico di Stato. Il secondo dopoguerra costituisce l’inizio di una nuova fase del processo di integrazione delle strutture dipendenti l.a. nel sistema capitalista monopolistico mondiale.

Questi fenomeni causano mutamenti sostanziali nei paesi l.a., imprimendo un nuovo orientamento all’industrializzazione nei paesi in cui questa era già iniziata e provocandone l’inizio e determinandone l’orientamento negli altri.

Essendo tutto ciò in relazione con gli investimenti nel settore manifatturiero da parte di grandi imprese straniere, in primis statunitensi, la base materiale e l’orientamento dell’industrializzazione in A.L. dipendono sempre più dal capitale straniero. Le precedenti contraddizioni economiche e sociali si aggravano, altre ne vengono generate; da cui la crisi profonda e generalizzata tuttora in corso a tutti i livelli.

Quali queste contraddizioni? Come sono sorte? Quali conseguenze hanno avuto ed hanno? È possibile superarle?

All’inizio le specifiche basi economiche dei paesi l.a. condizionano i diversi modi di incorporazione ai centri metropolitani; per cui alcuni paesi si trovano in migliori condizioni di altri per lo sviluppo.

Occorre tenere presente lo sviluppo dei rapporti di produzione tipicamente capitalistici per spiegare le origini dei tipi fondamentali delle strutture socioeconomiche l.a., che, in base ai dati storici, distingueremo in due:

Tipo A Paesi in cui l’industrializzazione è frutto dell’espansione e della trasformazione del settore dell’esportazione di materie prime, che è predominante. Sono Argentina, Messico, Cile, Uruguay, Brasile e Colombia.

Tipo B Paesi che si industrializzano nel secondo dopoguerra sotto il diretto controllo del capitale straniero. L’industrializzazione è una conseguenza dell’integrazione monopolistica. Vi predomina il settore dell’esportazione primaria. C’è artigianato. Comprende tutti gli altri paesi l.a.; meno Paraguay, Haiti e forse Panama, che hanno in comune una struttura di esportazione agraria senza diversificazione industriale.
 
 

3. Storia economica fino al 1945
 

     ARGENTINA Significativa alla fine del XIX secolo. Tra 1900 e 1905 la produzione industriale è il 18% della produzione interna. Censimento 1920: 13.000 stabilimenti con 310.000 occupati.
     MESSICO Significativa alla fine del XIX secolo. Tra 1900 e 1905 la produzione industriale è il 14% della produzione interna. Inizio XX secolo: industria tessile 700.000 fusi e 20.000 telai modernissimi, 30.000 occupati. 1903 inizia la produzione siderurgica.
     CILE Primi tentativi ultimo quarto XIX secolo. Beni di consumo importati 1870 (89.6%), 1907 (48.5%) per l’aumento dell’industria manifatturiera nazionale. Durante la guerra del Pacifico (1879-1884) l’industria moltiplica per 10, 20, e anche 100 volte la produzione di vestiario, calzature, selleria, polvere da sparo, chimici e farmaceutici, affusti, caldaie, navi. Dal 1908 al 1928: produzione industriale +84%.
     URUGUAY Inizio alla fine del XIX secolo. 1875: leggi protezionistiche. Si sviluppa un’industria artigianale che tende a monopolizzare il consumo interno in alcuni settori. 1926: 6.329 stabilimenti industriali e 65.700 salariati (81% a Montevideo), che impiegano il 10% della popolazione attiva.
     BRASILE Significativa negli ultimi due decenni del XIX secolo. 1886: importazione di ferro e acciaio 12% dell’importazione totale. 1904: nasce il Centro Industriale con 338 soci. 1906: in 30 generi manifatturieri di largo consumo, l’industria nazionale soddisfa il 78% delle necessità interne.
     COLOMBIA Inizia verso la seconda metà degli anni ‘20. Dopo il 1930 i livelli di sviluppo industriale sono alquanto elevati. Prima della crisi la produzione industriale aumentava con meno del 3%; negli anni ‘30 all’11%.
     PERÙ Negli anni ’30 si sviluppano una quantità di industrie; però senza storia.
     GUATEMALA L’industrializzazione comincia negli anni ’60.
     EL SALVADOR L’industrializzazione comincia negli anni ’60.
 
 

Al 1975 Popolazione
milioni
PNL
  pro capite 
1.000 Lire
Addetti
agricoltura
%
USA 213  4.500  4
Italia 55  2.000 15
PAESI TIPO A
Brasile 105,5  669 46
Messico 58  851 45
Argentina 25  1.368 16
Uruguay 3,2 806 15
Cile 10,5 532 24
Colombia 24,5 420 38
PAESI TIPO B
Venezuela 12  1.596 26
Perù 15,8 509 45
Ecuador 380 51
Paraguay 2,8 334 53
Bolivia 5,6 274 55
Costa Rica 2 608 42
Nicaragua 2,1 456 49
Guatemala 5,7 410 61
Salvador 4 304 56
Honduras 258 66
Cuba 9,1 502 31
Domenicana 4,6 456 61
Haiti 4,6 116 77

Nel 1958 l’industria l.a. partecipava per il 3,7% alla produzione occidentale; per settori: le estrattive per l’8,4%, la leggera per il 5,3%, la pesante per il 2,7%.
 

- Paesi del TIPO A

Cause esterne che riducevano o interrompevano le importazioni hanno imposto una produzione locale e la costituzione di un apparato industriale. Si ha una sostituzione prima per i beni di rapido consumo, poi per quelli duraturi, e quindi per i beni di produzione intermedi. Ma la produzione pesante, di macchine per fare macchine, non si è sviluppata, con l’eccezione del Brasile.

La valuta straniera ottenuta con l’esportazione di materie prime (agricole o minerarie) è servita per importare le attrezzature e le materie prime necessarie per creare sul territorio nazionale fabbriche per la produzione di beni che prima venivano importati.

La Prima Guerra mondiale e la crisi del 1929 hanno anche favorito questo processo, iniziato da tempo in Argentina e Messico, anche per l’aumentata disponibilità di valuta straniera conseguente l’incremento dell’esportazione di prodotti necessari ai paesi in guerra.

Lo sviluppo di rapporti di produzione capitalistici, che a poco a poco diventano predominanti nei settori chiave dell’economia d’esportazione di materie prime, provoca lo sviluppo di un mercato interno, già presente in Brasile, Cile e Uruguay; meno in Colombia.

La separazione classista tra proprietà privata dei mezzi di produzione e libera offerta della forza-lavoro contraddistingue nella seconda metà del XIX secolo i settori dell’allevamento in Argentina e Uruguay, minerari e agricoli in Messico, del caffè in Brasile, del salnitro e del rame in Cile.

La seconda rivoluzione industriale (produzione in serie di macchine per fare macchine), specie in Inghilterra, apre un nuovo ciclo di espansione capitalista che esige aumentate materie prime e prodotti agricoli dai paesi dipendenti, che comporta la modernizzazione del loro sistema produttivo e l’espansione dei mercati interni per assorbire più prodotti industriali.

La ammodernamento tocca prima di tutto l’organizzazione sociale della produzione. Nei settori chiave si generalizzano i rapporti capitalistici che diventano predominanti con l’acquisto di forza-lavoro salariata sul libero mercato del lavoro. Questo è favorito dal processo di monopolizzazione delle terre nelle regioni più importanti da parte di una élite di proprietari terrieri. Le aree di economia di sussistenza e di autoconsumo si restringono liberando mano d’opera proletarizzata.

Questo processo non rivoluziona la situazione delle classi dominanti né intacca il loro effettivo potere economico e politico; anzi, con l’espansione dell’esportazione le oligarchie (proprietari terrieri, minerari, commercianti, esportatori) rafforzano il loro dominio. Si sviluppa il proletariato. Sorgono le classi medie. Si producono così le condizioni per la crescita della borghesia industriale.

Intervengono poi, a livello delle forze produttive, mutamenti tecnici. Con l’introduzione di nuovi strumenti e metodi di produzione e di trasporto aumentando le possibilità di capitalizzazione e, quindi, anche la produzione nel settore volto all’esportazione, che assorbe più mano d’opera a salari superiori, allargando il mercato interno. Settori complementari a quello dell’esportazione (agricoltura, commercio, trasporti e comunicazioni, servizi) sorgono e si espandono.

Se la domanda di prodotti industriali è soddisfatta dall’importazione dall’Inghilterra, con la proletarizzazione, operai e braccianti si rivolgono al mercato nazionale per i prodotti di basso costo. Quelle industrie che la soddisfano, e che sulla cui base si sviluppano, si trovano in migliori condizioni rispetto alle industrie straniere che devono tener conto del costo dei trasporti. La domanda di prodotti industriali nazionali (beni di consumo come tessuti, alimenti, scarpe, bibite, casalinghi) costituisce uno stimolo importante all’industrializzazione, oltre a quella di prodotti complementari concentrata nei grandi centri urbani.

Con l’urbanizzazione, il capitalismo urbano a lungo andare prevarrà all’interno del sistema. Lo sviluppo dell’industria formerà e accrescerà poi un mercato a propria immagine (Argentina e Uruguay).

Si estende il processo di accumulazione capitalista. L’industria si sviluppa per soddisfare la domanda anche delle classi medie (burocrati, professionisti, impiegati) e dei contadini. Sorgono industrie di materiali da costruzione, tessili, alimentari, mobilifici. Le stesse guerre interne l.a. hanno stimolato l’installazione di industrie, soddisfacendo considerevolmente la domanda degli eserciti (anche per alcuni tipi di armi, scorte ecc).

Questo processo si acuisce con le due guerre mondiali e la crisi del 1929: per la restrizione delle importazioni la domanda è insoddisfatta e la disponibilità di valuta estera è abbondante (durante le guerre c’è sempre espansione delle esportazioni dall’A.L.).

Il tutto è stato possibile per la presenza contemporanea in questi paesi di un mercato nazionale strutturato e di un settore industriale già organizzato sulla base di rapporti capitalistici.

La debole, ma significativa, industrializzazione della fine del XIX secolo si realizza all’interno del sistema capitalista mondiale, che conferisce a questi paesi la funzione produttiva di esportatori di materie prime; per tutti il settore economico più importante è quello dell’esportazione, nel quale (e in quelli ad esso complementari) agiscono le oligarchie dominanti (proprietari terrieri, minerari, commercianti, finanzieri) che controllano l’economia e manipolano per i propri interessi l’apparato statale. La borghesia industriale, e con essa il proletariato, sorge e si sviluppa all’interno di questo sistema oligarchico di dominio, che è parte del capitalismo mondiale.

Lo sviluppo industriale è frutto del sistema che stabilisce la divisione internazionale del lavoro. La meccanica del capitalismo mondiale, costringendo le economie periferiche a specializzarsi come monoproduttrici, provoca la loro modernizzazione, che, a sua volta, genera gli elementi che permettono di diversificare la produzione con lo sviluppo industriale. Lo sviluppo dell’esportazione finisce per stimolare l’industria che, sviluppandosi, si rende indipendente e, col tempo, tende a subordinare a sé l’esportazione, di cui comunque ha bisogno per sopravvivere ed espandersi.

L’A.L. dopo la conquista è un’area periferica, subordinata e dipendente rispetto all’espansione ed al consolidamento del capitalismo mondiale nelle sue forme commerciali ed industriali. Lo sviluppo del capitalismo l.a. non implica l’eliminazione radicale dei modi di produzione preesistenti. Passa da una forma dipendente di esportazione coloniale ad una di esportazione capitalista; per giungere infine a quella dipendente dal capitalismo industriale; queste forme però sono tutte interne al processo di sviluppo del capitalismo mondiale.

Per questi motivi l’A.L. non ha avuto né rivoluzione borghese né presa del potere rivoluzionario da parte delle nuove classi; proprio perché il capitalismo l.a. nasce e si sviluppa prima di tutto nel settore dell’esportazione ed anche la sua fase matura gli resta subordinata.

C’è stretta interdipendenza tra il settore dell’esportazione e quello industriale; con caratteristiche generali imposte dal capitalismo mondiale. I capitali prodotti dall’esportazione vanno all’industria; direttamente e indirettamente (col sistema bancario o i sussidi statali), rendendone possibile l’espansione. Gli interessi delle oligarchie e dell’industria si mescolano e sono complementari. I loro conflitti economici e politico-sociali portano al compromesso. La borghesia industriale l.a. nasce con tanti limiti nei quali ancora oggi è invischiata per cause connesse agli interessi del capitalismo mondiale.

Ciò nonostante, la borghesia industriale, espressione di un momento della storia l.a., conscia della forza che le attribuisce il controllo di una forza più avanzata di organizzazione sociale della produzione, ha preteso il controllo egemonico del potere, avanzando propri progetti di sviluppo economico-sociale. Ha dovuto farlo tramite movimenti politico-sociali impostisi sotto lo stimolo delle classi medie, della piccola borghesia e persino dei contadini e che esprimevano nei contenuti gli interessi reali di questi settori (“tenentismo” e “varguismo” in Brasile, rivoluzione contadina in Messico, Irigoyen e il “peronismo” in Argentina, il “batlismo” in Uruguay, il Fronte Popolare in Cile).

Le classi medie sono gruppi del settore terziario, non direttamente vincolati al processo produttivo, situati nei livelli intermedi tra i detentori diretti del plusvalore e la classe operaia: professionisti, burocrati, militari. Mancano di prospettiva storica. Sviluppatisi sotto la spinta dell’espansione dell’esportazione di materie prime e dell’industria, all’inizio fluttuavano tra oligarchie tradizionali e nuova borghesia industriale; con la successiva modernizzazione, da cui deriva espansione e creazione di nuovi impieghi e miglioramento del tenore di vita, prendono posizione in favore della borghesia industriale.

La piccola borghesia, all’inizio in espansione, identifica i suoi interessi con quelli della borghesia industriale. Le contraddizioni di interessi esploderanno nella fase monopolistica.

La classe contadina decade in seguito ad un processo lento ma progressivo di proletarizzazione provocato dall’estendersi del capitalismo alla campagna. Reagisce in modo piccolo-borghese, in quanto rivendica la terra. Appoggio ed orientamento può averli solo dal proletariato, ma finora l’incontro non c’è stato.

La borghesia industriale, che ha interesse a trasformare la struttura agraria per espandere il mercato interno, non ha potuto mettere in discussione dalla radice l’esistenza dell’oligarchia dei proprietari terrieri, della quale ha bisogno per l’industrializzazione. Il settore primario fornisce all’industria i capitali e la campagna la mano d’opera a basso costo spinta nelle città. Al capitalismo industriale ha fatto comodo intensificare lo sfruttamento dei mercati urbani.

Assente come classe il proletariato, tutti i moti contadini falliscono. Solo nel Messico la forza del movimento contadino armato ha svolto nelle campagne il ruolo della borghesia (in questo senso si può parlare di rivoluzione) eliminando vasti settori dell’oligarchia terriera, ampliando il mercato interno e aprendo canali di sviluppo al capitalismo locale.

Il proletariato, all’inizio del XX secolo, è debole; la sua percentuale sul complesso degli occupati è bassa. La sua organizzazione è difficile per il carattere artigianale di alcuni dei suoi settori importanti e per l’origine contadina di altri. Le lotte operaie nei primi due decenni sono orientate in senso anarchico per l’influenza di immigrati europei. Per i limiti propri dell’anarchismo non si è delineata una strategia generale di lotta per cui le lotte particolari potessero acquistare una coerenza tattica. Nei primi anni ’20 iniziano a costituirsi i primi partiti comunisti aderenti alla Terza Internazionale, la cui degenerazione li travolge completamente.

La borghesia industriale, spinta da condizioni favorevoli dopo la guerra 1914-18 e la crisi, è l’unica classe che può trarre profitto dagli antagonismi tra tutti questi settori e le oligarchie, per imporsi e rivendicare una partecipazione importante al controllo del potere. Essendo come classe socialmente minoritaria, usa le altre classi e i più diversi settori sociali come teste di ponte per farsi strada nei sentieri dell’ordine istituzionale.

Il governo di Calles e di Cardenas in Messico, di Vargas in Brasile, di Alessandri in Cile, di Battle e Ordonez in Uruguay e di Peron in Argentina hanno tutti rappresentato il culmine e il consolidamento degli interessi delle rispettive borghesie industriali nazionali.

Ma gli interessi degli industriali, pur se in contrasto con il sistema oligarchico, non lo possono mettere radicalmente in discussione perché ne hanno bisogno per sopravvivere, nella misura in cui la loro classe è nata come sottoprodotto di quel sistema.

Si mettono in discussione gli ostacoli maggiori all’industrializzazione; si esige la flessibilità dello Stato e si cerca la partecipazione all’uso del potere. L’oligarchia non viene definitivamente messa fuori gioco. Pur aprendo le porte dello Stato alla borghesia, l’oligarchia mantiene i suoi privilegi fondamentali. Il risultato di questo processo è il potere borghese-oligarchico a livello di compromesso, che si esprime nella sopravvivenza:
     a) – delle oligarchie all’interno delle classi dominanti;
     b) – del potere economico oligarchico con le sue forme politiche, che non vengono messe in discussione, pur indebolite dalla perdita della loro egemonia, continuando ad avere importanza.

Fino al 1950 la proprietà terriera non viene toccata, i privilegi delle oligarchie della finanza, del commercio e della esportazione sono fondamentalmente mantenuti e, nei periodi di crisi dell’esportazione, lo Stato interviene adottando una serie di misure che salvaguardano i loro interessi. Ma anche quelli del sistema nel suo complesso, infatti, finché l’esportazione rappresenta il settore economico fondamentale della società, determina le possibilità di espansione degli altri e, sulla base della sua espansione, si generano le condizioni che permettono all’industria di svilupparsi; essa finanzia il settore statale, che si espande al settore terziario.

Le oligarchie, ossia tutti i settori delle classi dominanti legati direttamente o indirettamente all’esportazione di materie prime ed i latifondisti, col loro compromesso mantengono il potere economico e politico, anche se subordinato agli interessi egemonici dello sviluppo industriale.

La borghesia fa anche concessioni alla classe operaia; senza rinunziare ai propri interessi. Anzi la legislazione del lavoro e sindacale e il riconoscimento di partiti "comunisti" sono concessioni interne al gioco della politica democratica borghese, condizioni funzionali al controllo della classe operaia. È il proletariato che, lasciandosi guidare dalla borghesia (vedi il "varguismo"), rinuncia ai propri interessi. La forza della classe operaia in appoggio di governi populisti è stata utilizzata sempre come spinta allo sviluppo borghese. Anche le classi medie si avvantaggiano in questa “rivoluzione borghese”.

Alla classe contadina non è mai stato concesso nulla.

La forma politica corrispondente è il populismo, cioè la concezione ideologico-dottrinaria che presenta gli interessi della borghesia industriale uniti a quelli di tutta la nazione e di tutto il popolo, sintetizzata nei Vargas, Peron, Cardenas, con l’uso ben calibrato del paternalismo oligarchico e del carattere modernizzatore borghese, che controlla e utilizza le grandi masse come strumenti di realizzazione della politica di sviluppo capitalista.

Sul piano economico a questa situazione corrisponde una politica protezionista, che cerca di dare impulso all’industrializzazione. Ma la questione agraria mostra che non si è mai realizzata una riforma che togliesse il monopolio della terra alle oligarchie terriere e aprisse la via all’espansione del mercato interno.

Sul piano sociale c’è stato un notevole passo avanti di marca esclusivamente borghese.

In merito al carattere nazionale, i settori imprenditoriali dell’industria hanno avuto la possibilità di affermarsi come borghesia nazionale nel periodo in cui si sviluppa il “processo rivoluzionario borghese”, dagli ultimi anni del XIX secolo alla fine della Seconda Guerra mondiale, che corrisponde al periodo di dispute tra i paesi capitalisti più avanzati per la redistribuzione delle aree di dominio.

La borghesia industriale l.a. si sviluppa e agisce come classe nazionale, perché i suoi interessi sono legati ad un progetto di sviluppo nazionale che è stato portato a compimento nel corso di tutto un periodo storico. Corrispondendo questo periodo con la seconda rivoluzione industriale, in cui i paesi sviluppati avevano bisogno di materie prime e prodotti agricoli dei paesi arretrati, che sono costretti a contendersi con tutti i mezzi, il dominio imperialista rivolge l’attenzione soprattutto ai settori primari, permettendo agli imprenditori nazionali lo sfruttamento delle attività industriali; mentre le guerre per la redistribuzione del mondo, passando per la grande crisi del ’29, generano le condizioni che permettono il via dell’attività industriale nei paesi l.a.

Il carattere nazionale si individua nella capacità di tracciare una strada alla nazione e di percorrerla in un dato periodo storico. Il che non implica eliminazione del dominio imperialista, che resta a far parte della coalizione di potere, rispettandosi la sua ingerenza nell’esportazione, ma escluso dal diritto di decidere della politica industriale del paese, talvolta in contrasto con gli interessi imperialisti (tariffe protezioniste, nazionalizzazione di fonti di energia come il petrolio).

Nel secondo dopoguerra poi, insieme alla snazionalizzazione della proprietà degli strumenti di produzione, viene snazionalizzata la stessa borghesia.

La borghesia industriale a partire dagli anni ’30 controlla il potere statale; anche se la sua gestione è svolta da oligarchie e borghesia insieme. Non è necessario che una classe detenga “in esclusiva” il potere politico perché ne detenga l’egemonia. Il potere politico di solito è diviso tra le varie classi dominanti. Solo in circostanze storiche specialissime è possibile che una classe da sola ne ottenga il controllo esclusivo. Lo Stato in quanto tale gode in questo periodo di una relativa autonomia; mai però, in quanto istituzione, può opporsi agli interessi del complesso delle classi dominanti.

Negli anni ’30 il settore economico fondamentale delle società l.a. è in genere il settore dell’esportazione primaria. Da questo provengono le principali risorse che permettono il mantenimento dell’apparato statale e buona parte dei capitali per l’industria. La politica di sviluppo segue senza dubbio una via funzionale agli stessi interessi industriali. Tutta qui la solida base dello Stato.

Lo Stato nella società borghese è uno strumento di dominio in mano alle classi dominanti e nessuna sua forma specifica e particolare (governi populisti, socialdemocratici, laburisti) può nascondere che gli interessi fondamentali che serve e rappresenta sono quelli dei proprietari dei mezzi di produzione industriale.
 

- Paesi del TIPO B

Le condizioni che permettono lo sviluppo dell’industrializzazione nei Paesi del Tipo B si realizzano dopo la Seconda Guerra mondiale e con caratteristiche diverse da quelle avutesi per i paesi del Tipo A.

Specialmente negli ultimi tre decenni del XIX secolo si sviluppa un processo di modernizzazione del sistema economico per l’aumento della domanda di prodotti da parte dei grandi centri capitalisti (nell’America Centrale più velocemente in Guatemala, El Salvador e Costa Rica, nell’America meridionale in Perù). Di riflesso si hanno più o meno profonde riforme liberali, espressione delle esigenze di espansione del capitalismo commerciale.

Il processo di ammodernamento, che segue come asse fondamentale l’economia del caffè, arriva a El Salvador con la legge del 1860 di estinzione dei campi comuni e alla divisione del latifondo, nel Guatemala nel 1871 all’esproprio delle terre della Chiesa, che sono frazionate insieme a quelle statali, quelle comuni e delle comunità indigene. Lotte violente (esclusa Costa Rica) esprimono il declino del settore indigeno dei latifondisti e dei commercianti, i cui interessi erano strettamente legati a quelli della Chiesa, cioè dell’unica antica aristocrazia di proprietari terrieri dell’America Centrale.

Il processo segna la decadenza di alcuni gruppi della vecchia classe dominante, ma, dando nuova vita al commercio estero, provoca la nascita di nuovi gruppi (commercianti, intermediari, esportatori) che danno luogo a una nuova espansione e ad un nuovo rafforzamento del latifondo. Il fallimento della parcellizzazione, tentata da riforme agrarie liberali, porta al nuovo concentramento della proprietà terriera. Si incrementano così gli istituti di credito, si rafforza il capitale bancario.

In Guatemala nel 1833 sorge la prima fabbrica tessile nazionale di 600 operai, nel 1874 nasce la prima Banca Nazionale col denaro derivante dalla vendita dei beni del clero, tra il 1878 e il 1890 si costruisce la ferrovia interoceanica per 3/4 con risorse nazionali.

In Ecuador con l’espansione dell’agricoltura di esportazione si sviluppa nella campagna costiera un’economia molto più dinamica di quella della Sierra, con caratteristiche nuove (pagamento di salari, impieghi di capitale e produzione generalizzata per il mercato). Si sviluppa così il commercio estero e quello interno, che determina la formazione di un importante settore finanziario. Si vedono sulla costa i primi segni di industrializzazione. L’attrattiva del salario provoca notevoli movimenti interni di popolazione; il rapido sviluppo del commercio getta le basi della futura crescita delle città. La rivoluzione liberale del 1895 dà il controllo dello Stato alla borghesia agraria esportatrice, modificando notevolmente i tradizionali rapporti di potere, spezza il dominio politico dei conservatori e del clero. Il processo di industrializzazione però si ferma quasi subito.

Gli effetti della riforma liberale nel Nicaragua sono limitati dall’assenza di una economia produttiva formatasi nel periodo coloniale. Il paese è ottimamente predisposto ad essere campo di battaglia per gli imperialismi inglese e statunitense, data l’ottima posizione geografica favorevole alla costruzione di un canale interoceanico.

Imprenditori stranieri organizzano e sfruttano le tre fasi dell’economia dell’Honduras: l’età dell’argento dominata dagli spagnoli; quella del bestiame, meglio del cuoio, che arriva alla fine del XIX secolo; infine quella della banana.

Il controllo sistematico e intensivo degli imprenditori stranieri sui settori produttivi chiave fa sì che la storia di queste società si sviluppi in stretta dipendenza dei paesi imperialisti; la qual cosa impedisce la formazione di un mercato interno articolato e l’estendersi delle industrie. L’avidità sfrenata dell’imperialismo per le materie prime e i prodotti agricoli limita l’inizio del processo di industrializzazione; come lo limita l’impossibilità delle classi dominanti locali di portare fino alle estreme conseguenze le trasformazioni strutturali avviate.

Il controllo estero dell’esportazione primaria, forma che assume, non permette a questo settore di articolarsi nell’economia nazionale se non in forma molto limitata; non si generano quindi gli stimoli e i requisiti indispensabili alla dinamizzazione dei settori secondario e terziario.

In Bolivia esistono proprietari nazionali nel settore dell’esportazione primaria, ma devono associarsi ai consorzi stranieri per l’esistenza di un mercato mondiale già stabile e controllato. Simon Iturri Patino rappresenta un caso isolato di interessi particolari (che non investe la classe dominante nazionale) che si orientano sulle richieste e sul modello di funzionamento del capitalismo mondiale.

In questi paesi la penetrazione imperialista assume la forma specifica di enclave: le classi dominanti locali non esercitano nei vari settori un controllo autentico. Gli utili vengono canalizzati direttamente verso le metropoli. La parte che resta nel paese serve al pagamento delle imposte statali, stornate per la maggior parte per benefici a favore dell’enclave (ferrovie, installazioni portuali, prestiti per lavori). L’enclave occupa sì manodopera nazionale, provocando una espansione dell’occupazione e quindi del mercato, ma funziona di fatto come un prolungamento diretto del mercato metropolitano, provenendo da qui i prodotti consumati. Spesso la forma di pagamento del salario è sostituita da buoni che l’operaio utilizza prelevando per le necessità di consumo merci dal magazzino della ditta, spesso prodotti agricoli nazionali; il sistema dei buoni è una forma di supersfruttamento del lavoro. Con l’enclave non si creano condizioni necessarie al funzionamento e all’espansione di un mercato nazionale. Se questo esiste già, ha vita asfittica.

I benefici del processo di ammodernamento dovuti all’enclave sono capitalizzati da questa stessa. Nei limiti molto stretti di iniziative statali (promosse sempre con fondi ottenuti dall’enclave) tutto è funzione di una dinamica il cui centro motore non è nazionale. Non esistono settori complementari all’economia d’enclave come potenziale di espansione del mercato nazionale. Per i loro limiti non stimolano la creazione di industrie per soddisfare i propri bisogni.

Le maggiori entrate dei gruppi dominanti locali (proprietari terrieri, commercianti), dei salariati, dell’alta amministrazione pubblica e militare, dei professionisti, creano una domanda soddisfatta dall’importazione e, in minima parte, da prodotti agricoli nazionali e artigianali.

L’accumulazione del capitale in questi paesi si riduce al processo di accumulazione metropolitano. Il modo di produzione capitalista si sviluppa nel settore primario (in conseguenza dell’espansione industriale dei paesi metropolitani), ma praticamente isolato dal complesso sociale, e quindi non si espande, non genera cioè le condizioni di sviluppo del processo di industrializzazione interno all’economia nazionale; coesiste e mantiene in vita modi di produzione non capitalisti.

In questi paesi non è mai esistita la borghesia industriale nazionale, come complesso di proprietari dei mezzi di produzione industriali nazionali. L’esistenza di classi dominanti è la condizione del supersfruttamento imperialista: esse sono tutori immediati del sistema di dominio, rendendo possibile la sua realizzazione. Per questi motivi non si ha una “rivoluzione borghese”.

In questi paesi non si sono realizzate le condizioni che rendono possibile il processo di industrializzazione. Durante periodi di crisi internazionale questi cadono in stati di stanchezza e di crisi.

I movimenti sociali, specie quelli degli anni ’30, assumono la forma di sollevazioni contadine (Sandino nell’America Centrale) e di "aprismo" (Perù), senza mai rappresentare momenti di un “processo rivoluzionario borghese”.

Nei settori rurali, i più importanti di questi paesi, la crisi provoca disoccupazione, diminuzione dei salari ed esodo verso le città, dove si accelera il processo di emarginazione e scoppiano rivolte (Ecuador) che contestano il sistema oligarchico imperialista.

Le classi dominanti rispondono con una politica apertamente repressiva: a livello economico col contenimento dei salari, a livello politico con governi dittatoriali, a livello militare con repressioni brutali ed anche con interventi USA (Nicaragua).

La precarietà numerica, organica e politica del proletariato non ha ancora la possibilità di aprire un processo veramente rivoluzionario.

Classi medie e piccola borghesia hanno innalzato la bandiera dello sviluppo borghese ("aprismo" peruviano), movimento senza possibilità di esistenza storica che marcia verso la rovina e la negazione dei propri propositi anti-imperialisti (APRA). Tutti i movimenti sociali di questo periodo sono a rimorchio della piccola borghesia e delle classi medie, ma la loro guida si mostra insufficiente per l’assenza di un reale programma di sviluppo economico e sociale realizzabile.

In questi paesi il “populismo” non rappresenta interessi borghesi chiari e coerenti; è difensivo, cerca di anteporre la nazione all’imperialismo, si afferma però più negando l’imperialismo che offrendo una effettiva alternativa di sviluppo; è oligarchico in quanto manipolato dall’oligarchia per ricattare l’imperialismo e nello stesso tempo contenere il movimento popolare.

I colpi di Stato sono una costante nella storia di molti di questi paesi. Le oligarchie così controllano i meccanismi di potere.

Queste condizioni generali sono durate fino alla fine della Seconda Guerra mondiale.
 
 

4. Imperialismo e America Latina - il secondo dopoguerra
 

Il processo d’integrazione monopolistica del sistema capitalista sul piano mondiale prende avvio alla fine del XIX secolo; ma solo nel secondo dopoguerra si compie e si consolida. La Seconda Guerra mondiale ne è stato il grande acceleratore, stimolando ulteriormente lo sviluppo delle forze produttive USA.

L’egemonia della superpotenza statunitense consolida la integrazione industriale, commerciale, finanziaria, politica, militare e culturale con la proliferazione di imprese “multinazionali”, che si installano dovunque, con gli accordi regionali di commercio, con la creazione di sistemi finanziari internazionali e di istituzioni ed organismi di coordinamento delle decisioni politiche e militari.

Le trasformazioni in A.L. degli ultimi tre decenni del XIX secolo, che improntano i primi quattro decenni del XX secolo, in conseguenza della nuova fase di sviluppo e di espansione dell’imperialismo, assumono una nuova determinata configurazione.

Nel periodo 1951-1955 in A.L. si registra la più forte entrata netta di capitali, 33 miliardi di dollari (pari al 30% delle entrate), che nel 1956-1960 salgono a 57, superati solo dagli 80 dell’Asia sud-orientale. L’imperialismo, assicuratosi il dominio delle fonti di materie prime e dei mercati, muove alla ricerca degli investimenti nei settori manifatturieri, che possono assicurare il massimo vantaggio.

Gli effetti prodotti dall’intensificazione delle entrate di capitali in A.L. sono:
     a) il controllo e il dominio del capitale straniero sui nuovi settori e rami produttivi che iniziano a svilupparsi;
     b) l’intensificazione della monopolizzazione, del concentramento e della centralizzazione dell’economia con l’installazione di grandi imprese, che assorbono imprese nazionali con acquisti, fusioni, associazioni;
     c) il processo di snazionalizzazione progressiva della proprietà privata dei mezzi di produzione nei settori industriali ancora controllati da imprenditori interni;
     d) l’integrazione sempre più articolata degli interessi delle imprese straniere con quelli delle classi dominanti indigene, espressa dalle politiche economiche nazionali come dalla integrazione delle politiche estere dei paesi dipendenti con la politica USA, accompagnata anche da una integrazione militare.

In conseguenza le classi dominanti l.a. abbandonano realisticamente i progetti riformisti di sviluppo nazionale autonomo, provocano la decadenza dei metodi populisti di manipolazione e di controllo delle masse proletarie e piccolo-borghesi, adottano in campo economico, politico e militare, misure sempre più dipendenti dal centro egemonico USA: con facilitazioni concesse alla penetrazione del capitale straniero; con l’adozione di orientamenti preconizzati dagli USA tramite il Fondo Monetario Internazionale per “ordinare” la vita economica; con tentativi di “riforme” sostenuti dall’Alleanza per il Progresso (ALPRO) tesi ad ampliare il mercato a favore dei consorzi multinazionali e a contenere lo scontento sociale in aree determinate; con l’allineamento tramite l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) alla politica estera USA tesa a bloccare tentativi di autodeterminazione e di opposizione e a facilitare la manipolazione e l’introduzione della politica imperialistica in A.L.; con diversi patti di aiuto, di cooperazione e di assistenza poliziesca e militare tesi a preparare la polizia e le forze armate all’esercizio efficiente della repressione contro i tentativi di sovvertimento dell’ordine costituito.

Così si abbandonano gli schemi nazionalistici e di “concessioni” alle classi popolari, il cui movimento tende a radicalizzarsi, sollevando rivendicazioni inconciliabili con la legalità borghese.

A partire dal 1963-1964 si assiste al crollo della legalità e all’adozione di misure sempre più repressive, spesso a seguito di golpes militari.
 

- Paesi di TIPO A

Con la nuova fase di espansione imperialista il capitale straniero penetra sempre più nel settore manifatturiero dei paesi del Tipo A. Apre e domina nuovi settori produttivi e toglie in molti casi agli imprenditori nazionali il controllo dei settori produttivi tradizionali.

Le borghesie nazionali l.a. a partire dagli anni ’50 sono integrate e sottomesse come classe all’imperialismo e abbandonano le loro ambizioni nazionaliste e i loro progetti autonomi.

All’origine dell’interesse che assume per l’espansione dell’imperialismo il controllo e il dominio del processo di industrializzazione dei paesi l.a. ci sono fattori economici che rendono necessaria l’esportazione di capitali e fattori che li spingono verso i paesi dipendenti:
     1) Il grande sviluppo delle forze produttive nei centri dell’imperialismo genera una crescente eccedenza economica e impone alle grandi imprese l’apertura di nuovi mercati, anche per la collocazione di macchinari invecchiati per l’intenso rinnovamento tecnico.
     2) Le borghesie nazionali resistono alla concorrenza delle merci straniere con misure protezioniste che stimolano l’installazione di industrie all’estero. Le imposte doganali, alte per i beni di consumo, accordano notevoli esenzioni ai macchinari. Le imprese straniere si espandono installando succursali nei paesi l.a., così facilitando il problema del rinnovamento tecnico in patria. Inoltre il protezionismo sulle merci consente prezzi elevati, che aumentano i guadagni.
     3) Disponibilità di mano d’opera numerosa e a basso prezzo che aumenta il tasso del plusvalore.
     4) Disponibilità di dollari, marchi, ecc., frutto dell’esportazione primaria, che le industrie straniere, dando in cambio i guadagni in moneta l.a., rastrellano per rimpatriare gli utili.
     5) L’esistenza di infrastrutture di risorse materiali ed umane, c’è un mercato interno formato, articolato e in espansione; ed anche risorse naturali e materie prime.
     6) I fattori di natura politica sono in rapporto con:
a) – i nuovi stimoli agli investimenti stranieri con la soppressione delle barriere fiscali: incentivi tributari, doganali, cambiari;
b) – le facilitazioni alla riesportazione degli utili;
c) – l’adozione di schemi del Fondo Monetario Internazionale volti ad un minimo di stabilità monetaria al fine di assicurare un più alto livello di accumulazione e stimolare il concentramento e la centralizzazione dei capitali;
d) – le politiche repressive contro il movimento operaio per assicurare un alto livello al tasso di plusvalore.
 

Le condizioni della penetrazione del capitale straniero nell’industria

Il capitalismo è un sistema internazionale; non è possibile una promozione dello sviluppo nazionale avulsa dallo sviluppo mondiale del sistema, tanto più per i paesi in "ritardo".

I paesi l.a. dipendono per l’industrializzazione dall’importazione di macchinari, impianti e materie prime (lavorate o semilavorate) dai paesi sviluppati. In A.L. la domanda di macchinari e materie prime per la produzione del settore 2 (beni di consumo) è soddisfatta dal settore 1 (beni di capitale) delle economie dei paesi sviluppati: nelle varie fasi, la necessità di importare macchinari è indispensabile al mantenimento ed alla continuità di funzionamento ed espansione del parco industriale.

La dipendenza dei paesi l.a. poteva essere superata, dal punto di vista economico, se il livello tecnico delle industrie pesanti nazionali avessero potuto soddisfare la domanda interna. Ma nessun paese l.a. è potuto arrivare a tanto. L’installazione di un parco industriale è solo iniziata e i paesi sviluppati hanno visto crescere il proprio mercato per il settore 1.

Fino agli anni ’40 non esistono condizioni per l’investimento diretto e intenso di capitali stranieri nel settore manifatturiero dei paesi l.a. Nel dopoguerra alle grandi imprese straniere non interessa più la vendita delle proprie macchine, ma il loro utilizzo diretto come capitale. L’esportazione delle merci diventa esportazione di capitale; la compravendita investimento straniero. Come? Con l’installazione di succursali; con l’acquisto della maggioranza di azioni di un’impresa pagata con l’apporto di macchinari; con convenzioni col capitale privato o statale per lo sfruttamento e l’apertura di nuovi settori produttivi.

Le grandi imprese straniere, detenendo la proprietà dei brevetti, possono imporre ai paesi l.a. i termini della loro utilizzazione. Quando le nuove tecnologie non sono alla portata dei paesi l.a., la domanda interna dei loro prodotti è soddisfatta dalla produzione straniera, i cui alti prezzi (prezzi esteri + tariffe doganali) facilitano e rendono più vantaggiosa l’installazione di succursali di imprese straniere. Create in origine per difendere gli interessi delle industrie nazionali, le barriere protezioniste favoriscono ora le succursali straniere e contribuiscono a frustrare le possibilità di sviluppo industriale autonomo; non potendo gli imprenditori nazionali contendere alle imprese straniere il dominio del mercato interno.

Le migliori condizioni di concorrenza delle imprese straniere rendono i loro costi di produzione molto più bassi di quelli delle imprese nazionali dei paesi l.a. Ma, diminuendo l’impiego di mano d’opera, la nuova tecnologia restringe il mercato, ostacolando lo sviluppo economico del paese.

Lo sviluppo delle industrie straniere crea i meccanismi che approfondiscono il controllo sui capitalismi l.a. La maggior parte dei guadagni delle grandi imprese va all’estero. L’economia l.a. si decapitalizza. Per supplire ai deficit della bilancia dei pagamenti si chiedono, sotto forma di prestiti, “aiuti” all’estero, che aumentano il debito estero, che a sua volta aumenta ancora di più i deficit rendendo necessario un sempre maggiore incremento del capitale straniero. Come un tossicomane, la droga lo uccide ma ne ha bisogno per vivere.

Venendo alla dipendenza politica, è l’imposizione nella vita nazionale della ingerenza straniera dalla quale le classi dominanti dei paesi l.a. sono condizionate. Esse non hanno mai goduto di una effettiva autonomia: dopo l’indipendenza divennero liberali-oligarchiche per il confluire dei loro interessi con quelli inglesi; si trasformano poi in liberali-democratiche, aprendosi alle classi medie, per adattare le loro aspirazioni moderniste e industriali agli interessi della esportazione di capitali USA quando questi presero il posto degli inglesi nel dominio dell’A.L.

In situazioni di crisi, le classi dominanti nazionali talvolta hanno fatto valere alcuni dei loro specifici interessi anche se in contraddizione con quelli imperialistici; e se il movimento popolare incalza con le sue rivendicazioni lo hanno utilizzato per ricattare in vario modo l’imperialismo ed ottenere concessioni e benefici ed ampliare il proprio margine di manovra. La crisi post-Vietnam ci dà la resistenza del Brasile al totale controllo USA sulla industria petrolchimica; il Brasile riuscì a conquistare la partecipazione statale. Lo stesso Brasile impedì la realizzazione del progetto per la creazione di un sistema di 7 grandi laghi in A.L., che avrebbe consegnato l’Amazzonia all’amministrazione diretta USA. Brasile e Argentina varano anche politiche militari relativamente autonome.

Ma queste mosse non mettono in scacco il funzionamento del complesso delle imprese imperialistiche penetrate nei settori chiave delle economie l.a.; né creano condizioni per politiche realmente indipendenti.

La necessità per il processo di accumulazione di realizzarsi tramite l’estero cesserà solo quando l’industria pesante e il settore 1 saranno interni alle economie l.a. L’installazione del settore 1, già abbastanza avanzato in Messico, Brasile e Argentina, ma non ha ancora completato le sue fasi fondamentali in nessun paese l.a. La divisione internazionale del lavoro, che riserva ai paesi capitalisti sviluppati il controllo monopolistico dei nuovi settori produttivi, i settori di punta, e ai paesi dipendenti l’industrializzazione e l’esportazione di materie prime e di prodotti con forte impiego di mano d’opera, è il fattore che frena questa tendenza.

Il nuovo orientamento dello sviluppo industriale crea una situazione critica, frutto dei seguenti fattori:
     1. La creazione di una struttura produttiva specializzata in certi settori, che soddisfa più la domanda mondiale che le necessità interne di questi paesi;
     2. L’aumento del tasso di sfruttamento del lavoro e una maggiore rimessa di guadagni all’estero, con aumento delle valute estere ricavate;
     3. La mancata realizzazione delle riforme necessarie all’espansione del mercato interno, che permette la sopravvivenza di strutture tradizionali, come la proprietà terriera.

Solo la piccola borghesia continua a credere alla possibilità di uno sviluppo autonomo, senza contraddizioni e senza lotta tra classi sfruttatrici e sfruttate. Le borghesie l.a. invece hanno capito che non possono mettere in discussione l’imperialismo senza mettere in discussione la propria esistenza di classe. Si adattano ad essere socie minori dell’imperialismo e per mantenere questa situazione reprimono con tutti i mezzi a loro disposizione le classi inferiori e adottano regimi di tipo apertamente repressivi, vedi in Brasile. La fine della dipendenza dei paesi l.a. dall’imperialismo potrà essere imposta solo dalla classe operaia con un processo rivoluzionario.

In Cile, Colombia e Uruguay l’industrializzazione ha raggiunto livelli relativamente elevati, ma ha ancora molta strada da percorrere per diventare autosufficiente. Lo sviluppo del settore dei beni di produzione è stato infatti fino ad ora piuttosto precario e quello dei beni di consumo duraturo non si è ancora completato. L’imperialismo, penetrato nel settore manifatturiero, ha favorito soprattutto lo sviluppo di industrie come gli elettrodomestici e il montaggio di automobili e solo recentemente ha cominciato ad installare qualche industria pesante, come la petrolchimica in Cile.

L’imperialismo ha preferito concentrare gli investimenti in Brasile, Messico ed Argentina sia per la maggiore estensione dei loro mercati sia per l’esistenza di una infrastruttura più sviluppata in economie più articolate.
 

- Paesi di TIPO B

Finita la Seconda Guerra mondiale il capitale straniero, alla ricerca di vantaggiosi mercati per i suoi investimenti, trova aperte le porte delle economie dei paesi del Tipo B.

In questi paesi l’antimperialismo borghese, forma a volte assunta dal nazionalismo, non rappresenta gli interessi oggettivi della borghesia industriale, unica capace di promuovere lo sviluppo del sistema capitalistico, in quanto questa non esiste. C’è un piccolo gruppo di imprenditori, poiché l’industria all’inizio è debole non arriva a configurare una classe sociale o, meglio, uno specifico settore delle classi dominanti chiamato borghesia industriale; configura piuttosto una ristretta piccola borghesia. Il nazionalismo è la politica della piccola borghesia e delle classi medie. Queste tentano di mobilitare i settori popolari; ma, tranne che in Bolivia, il tentativo non ha successo.

Il nazionalismo piccolo borghese è una farsa; nasce dalla negazione dell’imperialismo, ma si ferma lì, incapace di offrire una alternativa reale, capitalista, allo sviluppo economico e sociale. È un nazionalismo frustrato in partenza; chi lo preconizza non ha l’oggettiva possibilità di portarlo avanti. Espresso in movimenti politico-sociali, è destinato a fallire perché incapace di offrire concrete possibilità di contrastare il dominio del capitale straniero, che penetra sempre più nei settori più convenienti; sia estendendo il suo controllo ai prodotti dell’esportazione primaria (come il petrolio venezuelano), sia aprendo nuovi settori con investimenti industriali. Questi furono in percentuale molto minori che nei paesi del Tipo A, dirigendosi verso il Perù e il Venezuela, che avevano un’industria già minimamente sviluppata. Se anche l’industria di questi paesi si sviluppa – molto poco – sotto il controllo diretto del capitale straniero, la sua fonte di sfruttamento principale è sempre quella tradizionale: la produzione destinata all’esportazione primaria.

L’APRA (Alleanza Popolare Rivoluzionaria per l’America) peruviana e l’MNR (Movimento Nazionalista Rivoluzionario) boliviano sono le migliori espressioni della concezione di rivoluzione democratico-borghese preconizzata dalla piccola borghesia e dalle classi medie. L’APRA ha vinto più volte le elezioni, ma non ha mai conquistato il potere; l’MNR ha conquistato il potere con un processo rivoluzionario; ma è fallito nella politica antimperialista e di modernizzazione, pur avendo nazionalizzato le miniere e varato una riforma agraria. Il golpe dell’oligarchia appoggiato dall’imperialismo ha ristabilito il potere più reazionario.

Nel secondo dopoguerra l’MNR tende a una radicalizzazione solo esteriore; l’APRA tende a una conciliazione con le oligarchie e l’imperialismo, nonostante i 45 tentativi di rovesciare la dittatura di Pardo, il cui apice è la rivolta di Callao nel 1948: il I Congresso del movimento si ha nel 1931. Tanto ribellismo piccolo-borghese sfocia nella legalizzazione che lo compromette irrimediabilmente.

Va sottolineato che il Perù è, con il Venezuela, il più sviluppato dei paesi del Tipo B; e che dopo la Seconda Guerra mondiale gode di un periodo di relativa prosperità, derivata dalla varietà e dall’importanza dei suoi prodotti primari per l’esportazione (zucchero, farina di pesce, argento, piombo, rame, cotone, e petrolio pure), ricchezza che permette alle classi dominanti di varare una politica di ammodernamento che, pur servendo poco ad accelerare lo sviluppo delle forze produttive, porta una relativa calma nella lotta politica.

La Bolivia invece, malgrado la grande ricchezza delle sue miniere, è uno dei paesi più poveri del Tipo B. Le rendite dei suoi prodotti sono quasi completamente canalizzate verso l’estero. È del tutto trascurata dagli investimenti. Gli operai delle miniere sono supersfruttati e i contadini, in gran parte indigeni, vivono nella peggiore miseria. La terra, concentrata in gran parte nelle mani di latifondisti, viene malamente coltivata e la conseguente carenza di viveri costringe ad importare persino i prodotti alimentari indispensabili. L’MNR, fondato nel 1941, specula sul clima di costante malcontento; partecipa al potere nel 1943 con il governo di Villaroel a seguito di un golpe contro le oligarchie, che riconquistano il potere nel 1946, col beneplacito dell’imperialismo, riperdendolo nel 1951 in cui le elezioni vedono la vittoria di Paz Estenssoro, leader dell’MNR. Nuovo capovolgimento; poi nel 1952 scoppia la rivoluzione; ma Paz Estenssoro non riesce a portare a termine il processo di emancipazione economica e sociale in quanto, pur avendo colpito l’imperialismo nazionalizzando le miniere, e l’oligarchia realizzando la riforma agraria, fallisce nella formazione di una industria nazionale.

Il sabotaggio internazionale si intensifica e colpisce duramente i prodotti d’esportazione; la radicalizzazione politica accresce il disinteresse delle imprese straniere per gli investimenti industriali. La riforma agraria, pur introducendo una gran varietà di forme di proprietà (comune indigena, collettiva, grande capitalista), porta di fatto alla generalizzazione del minifondo e ad un processo di riconcentramento dei latifondi. In ambo i casi non si riesce a risolvere il problema dei contadini poveri né ad elevare la produttività ed ampliare il mercato interno.

La rivoluzione boliviana è stata solo un tentativo frustrato di nazionalismo piccolo-borghese. Questo non ha mai messo in discussione gli investimenti stranieri; li considera anzi una condizione indispensabile allo sviluppo industriale. Esso ha sottomesso alla propria influenza le classi oppresse, specialmente la classe operaia, che si è mobilitata più di tutte contro l’imperialismo ma per scopi antitetici ai suoi vitali.

Il fenomeno si è ripetuto negli altri paesi del Tipo B. Azione Democratica in Venezuela, averalismo in Guatemala, movimenti nazionalisti e antivelazquisti in Ecuador. Gli investimenti industriali stranieri non incontrano reali ostacoli di tipo politico e non vengono frenati quando vogliono dominare qualche ramo produttivo. Perciò l’industrializzazione di questi paesi nel secondo dopoguerra si sviluppa soprattutto sotto il diretto controllo del capitale straniero.
 

Fattori che nel dopoguerra permettono la penetrazione del capitale straniero nei paesi del Tipo B

1. Il tradizionale controllo delle enclaves sull’esportazione. Se l’esportazione è in mani straniere frutta poca valuta all’economia nazionale e, sotto forma di imposte, allo Stato. La scarsità di valuta e la mancanza di imprenditori con capitali nazionali fa sì che ad installare industrie sia solo il capitale straniero. I macchinari arrivano però non come merci, ma come investimenti di capitale straniero, la cui presenza è un dato di fatto della industrializzazione, una sua componente iniziale. Le poche industrie nazionali esistenti sono solo in condizioni di sopravvivere; nessuna impresa straniera moderna ha interesse ad affondarle per le condizioni superiori di concorrenza in cui si trova. La strategia del capitale straniero lascia alle precarie industrie locali i pochi rami produttivi tradizionali e si dà ad aprire nuovi rami industriali, specie destinati alla produzione dei beni di consumo duraturi. La maggioranza degli articoli che si iniziano a produrre è sconosciuta ai mercati nazionali, o perché non veniva importata o lo era in piccole quantità per il consumo di una minima parte della popolazione o perché innovativa (elettronica, articoli plastici).

2. Il crescente indebitamento di queste economie, frutto del ristagno nel quale hanno vissuto da tempo, che esige “aiuti” stranieri con prestiti e nuove trattative del debito estero che intensificano la dipendenza. L’installazione di nuove industrie straniere aumenta le rimesse all’estero dei guadagni, decapitalizza l’economia e rendendo inefficace qualsiasi politica borghese.

3. L’alleanza tra gli interessi delle enclaves e le oligarchie, complementari per perpetuare lo sfruttamento: l’oligarchia ha bisogno del capitale straniero per lo sviluppo nazionale, il capitale straniero ha bisogno dell’oligarchia per poter operare.

Mancando la borghesia industriale, il mantenimento del sistema è spettato alle oligarchie che, stroncando i movimenti popolari, si sono sempre più rafforzate. Velasquismo in Ecuador; Jmenez, Betancourt e Caldera in Venezuela; Perù; America centrale.

Qualcosa cambia solo negli anni ’60 (Cuba e poi Perù) poiché la sopravvivenza della oligarchia come classe dominante nazionale dipende sempre più solo dallo stretto legame con gli interessi imperialistici.

Caratteristica comune a tutti i paesi del Tipo B è che le industrie vengono installate sotto il diretto controllo del capitale straniero; partendo da un livello tecnico molto alto, il penultimo raggiunto dallo sviluppo nei paesi capitalisti avanzati; con un forte controllo monopolistico dei mercati; nei rami produttivi più redditizi, ignorando priorità sociali e nazionali.

È questo un processo di industrializzazione che accentua sempre più le componenti anarchiche e disgregatrici e approfondisce la latente crisi strutturale. Decapitalizzazione, incapacità di assorbire la mano d’opera, restrizione dei mercati, loro sfruttamento intensivo, sottomissione della popolazione al consumo di determinati beni, insieme acuiscono una serie di contraddizioni irrisolvibili.
 
 

5. Conclusioni
Le contraddizioni del capitalismo in America Latina
 

- Paesi di TIPO A

L’esportazione primaria, a lungo il settore più importante, consente lo sviluppo industriale dei paesi del Tipo A. Il compromesso tra le oligarchie dei proprietari terrieri e la borghesia industriale non consente la messa in discussione del modo di funzionamento della struttura agraria. Lo sviluppo industriale si è quindi fondato soprattutto sulla crescita dei mercati urbani. Questo limite all’espansione ha spinto:
     1. ad intensificare la protezione dei mercati per sostenere i prezzi, corrispondenti agli alti costi di produzione di un’industria a bassa produttività;
     2. a contenere i salari, in un più intenso sfruttamento della classe operaia;
     3. a continuare a spingere sulle esportazioni;
     4. a ricorrere a sovvenzioni e crediti statali.

Non cessa la necessità del capitalismo di aprire i mercati nazionali.

Ma la sopravvivenza della grande proprietà latifondista, con forte sottoutilizzo della terra (Brasile, Colombia, Uruguay, Cile) frena lo sviluppo del capitalismo nella campagna. Mentre la terra è monopolio di pochi proprietari, l’offerta di mano d’opera è abbondante. Così:
     1. i salari agricoli sono a livelli di sopravvivenza, con escluso il consumo di beni industriali;
     2. l’uso di macchine è limitato ai pochi moderni complessi agro-industriali per consumi standardizzati (esportazione, grandi città) con guadagni imprenditoriali elevati dato l’uso di tecniche ad alta produttività e l’impiego di mano d’opera a basso costo.

La struttura e gli interessi delle classi rurali si complicano e si diversificano. La condizione del latifondista è legata alla rendita da grandi estensioni di terra; quella dell’imprenditore capitalista all’uso della terra come strumento di produzione capitalista, ne abbia o no la proprietà. La rendita dei latifondisti è legata al mantenimento di una forma di proprietà incompatibile con il pieno sviluppo del capitalismo. Gli imprenditori capitalisti considerano l’agricoltura un campo di investimento di capitale; ma la valorizzazione e il rincaro della terra, concessa in affitto, provocano l’arricchimento progressivo dei proprietari terrieri.

Per mettere in discussione o liquidare il latifondo sarebbe necessario mobilitare la classe contadina, estremamente proletarizzata: ma il processo, una volta innescato, potrebbe rivolgersi contro i suoi stessi ispiratori. La soluzione d’altronde è irrealizzabile per il compromesso storico instauratosi tra le oligarchie agrarie e le borghesie industriali. Infatti dal settore agrario provengono le valute necessarie per alimentare il processo di industrializzazione. Inoltre, nella misura in cui la struttura agraria tradizionale resta in piedi, l’industria urbana può contare su una grande riserva di mano d’opera che, agendo da “esercito di riserva”, serve a contenere i livelli dei salari operai.

La borghesia si limita allora, intorno agli anni ’60, ad un graduale riformismo, raccomandato anche dal governo statunitense, al fine di veder ampliato il mercato e contenuto lo scontento sociale nelle campagne, che esplode in forme radicali, disgraziatamente non generalizzate. Si ricorre ad una serie di facilitazioni all’espansione del capitalismo nella campagna. Nelle zone di lotte sociali si cerca di ridistribuire le terre per diminuire il predominio del latifondo improduttivo. L’obiettivo fondamentale è l’espansione delle classi medie nella campagna, che interessa l’economia nazionale perché amplia il mercato e, dal punto di vista politico, perché attenua le tensioni sociali. È quanto ha fatto la Democrazia Cristiana con Frei in Cile, Carvalho Pinto a Sao Paulo e Miguel Arraes nello Stato di Pernambuco, entrambi in Brasile. Resta però la contraddizione di fondo e la necessità latente di rivolte contadine.

Il lento sviluppo del capitalismo nella campagna, mantenendo la struttura monopolistica della proprietà terriera, accentua il processo di proletarizzazione e disgrega la piccola economia di sussistenza.

I contadini si dividono in due settori: autonomi e salariati.

Gli autonomi si distinguono in:
     1. minifondisti, proprietari di piccoli appezzamenti di terreno che, utilizzando mano d’opera familiare, producono l’indispensabile alla sussistenza;
     2. piccoli affittuari, o mezzadri, o coloni che lavorano terre in affitto, che pagano tramite: a) lavoro con giornate per il padrone; b) una parte del prodotto; c) denaro.

Pur essendo sfruttatissimi dai proprietari, dagli usurai e dagli intermediari (i prezzi al consumatore sono tre volte quelli del produttore) aspirano ad affermarsi come piccola borghesia rurale.

I salariati agricoli vivono della vendita della forza-lavoro e sono predominanti nelle regioni più sviluppate. L’uso di macchine tende ad imporsi, rimpiazzando i metodi più antiquati e liquidando i piccoli proprietari, che si proletarizzano con esodo dalla campagna. Le rivendicazioni dei salariati agricoli sono tipiche della classe operaia, con la quale si identificano sempre più. La precarietà del lavoro e dell’applicazione delle leggi sul lavoro, e il carattere temporale dell’occupazione, rende difficile sia la loro organizzazione sindacale e politica sia l’esistenza e la continuità delle lotte. Ogni qualvolta hanno superato queste difficoltà, hanno dimostrato una notevole combattività.

Quando la lotta contadina si mantiene nei limiti borghesi, i contadini autonomi sono in prima linea per la riforma agraria, che resta forzatamente sulla carta, nonostante la miriade di rivolte che costellano l’intera A.L.

Nelle fasi superiori della lotta anticapitalistica, i salariati agricoli saranno in condizione, con gli operai urbani, di costituire l’avanguardia per la socializzazione della campagna.

I limiti sul potere economico e politico derivati dai compromessi della borghesia industriale si manifestano all’inizio come ostacoli al completo sviluppo borghese e, con l’avanzare del processo di industrializzazione, si acuiscono e aggravano la crisi. L’orientamento dato alla politica statale tende a conservarsi decennio dopo decennio. Se pure gli interessi dell’industria alla fine predominano, e lo Stato ne attua le infrastrutture, condizioni dello sviluppo borghese, il paternalismo dell’oligarchia continua ad esercitare la sua influenza.

Le contraddizioni tra gli interessi industriali e il complesso sociale si sono manifestate più che altro in relazione agli opposti interessi della grande borghesia industriale e della classe operaia; e, in minor misura, anche della piccola borghesia e delle classi medie. La borghesia industriale ha bisogno, per poter accrescere l’accumulazione di capitali, di una politica economica di contenimento dei salari e degli stipendi e di limitazione di crediti alle piccole industrie. L’adozione di questo tipo di politica economica repressiva dello Stato, che corrisponde chiaramente e senza equivoci agli interessi del grande capitale, ha portato ad un inevitabile scontro col movimento operaio e popolare, che con la violenza è stato disarticolato. Queste misure si sono però dimostrate insufficienti da sole a mantenere il controllo rigido sulle classi dominate.

Lo Stato borghese deve fare delle concessioni per poter organizzare e disciplinare il movimento operaio e popolare sotto il suo controllo. Crea così organismi di assistenza sociale, garantisce minimi diritti ai lavoratori e concede aumenti salariali che, pur non intaccando i livelli di accumulazione per il ferreo controllo cui sono sottoposti, rappresentano comunque dei freni alla politica economica borghese. Lo Stato deve creare nuovi posti di lavoro per le classi medie e deve mitigare la sua politica contro gli interessi della piccola borghesia, avendo bisogno del loro appoggio politico. In fase di espansione economica, queste concessioni non presentano problemi di realizzazione; nelle fasi critiche, inevitabili per il carattere ciclico del sistema capitalista, diventano contraddizioni che la borghesia deve cercare di risolvere con una politica sempre più violenta ed apertamente dittatoriale.

È questo il caso soprattutto del Brasile. Segue l’Argentina a spalla. Il Messico, ove c’è stata la più ampia “rivoluzione borghese”, la borghesia ha raggiunto una grande stabilità istituzionale, economica e politica. Nonostante il carattere fortemente repressivo del regime capitalista messicano, che si mostra in tutte le occasioni e contro tutti i settori che si ribellano alla politica borghese, la contraddizione tra la necessità dello Stato di proteggere gli interessi borghesi e la sua funzione di “amalgama” di interessi di altre classi, non ha assunto la forma di crisi come negli altri due paesi.

Lo Stato borghese, espressione degli interessi dello sviluppo capitalista a livello nazionale, ha bisogno di svolgere una politica che freni il processo di indebitamento, fattore costante di crisi. Ma si vede limitato in quanto rappresenta anche gli interessi del capitale straniero investito nel paese.

La politica di esportazione verso i paesi vicini si scontra con quella degli altri paesi l.a., nonostante la delimitazione dei mercati e i patti regionali di integrazione. I paesi più sviluppati si impongono sui meno sviluppati, al di là dei lenti accordi regionali e delle convenienze del capitale straniero e fino a scontrarsi con gli interessi dell’imperialismo centrale. È il caso del Brasile che, dopo la vittoria del golpe militare dell’agosto ’71 in Bolivia, vi ha diretto i suoi capitali per sfruttare le ricchezze naturali e investire nell’attività industriale. È anche il caso dell’Argentina.

È di ostacolo a questo piano l’incapacità di una politica di dominio sui paesi vicini che non leda i centri dell’imperialismo. Ne verrebbe ristretto proprio il dominio degli USA, e questi sono mal disposti a trasmettere il proprio dominio sull’A.L. ad alcun paese sub imperialista.
 

- Paesi di TIPO B

Nei paesi di Tipo B il bisogno di valuta per l’industrializzazione, e l’impossibilità di ottenerla per il controllo straniero sull’economia d’esportazione, si acuisce nel secondo dopoguerra in Perù e Venezuela e negli anni ’60 negli altri paesi.

È vero che gli investimenti industriali sono per l’80% opera del capitale straniero, ma la sua penetrazione è secondaria rispetto a quella, prioritaria, verso i paesi del Tipo A.

L’industrializzazione, promossa in funzione di interessi esterni allo sviluppo capitalista interno, alla ricerca di facili guadagni da settori limitati, è lenta e incompleta; i mercati sono inoltre ristretti.

Le grandi imprese internazionali vi installano solo industrie leggere e, per i beni di consumo duraturo, si limitano al montaggio. Questi mercati sono considerati di riserva per industrie situate altrove. L’industrializzazione rimpiazza e rovina l’artigianato e la piccola impresa nazionale.

La piccola classe operaia industriale è schiacciata da bassi salari e dalla disoccupazione. Stesse condizioni toccano ai contadini proletarizzati che incrementano le file dei numerosi settori marginali. I settori non industriali hanno vita precaria. Le classi medie ristagnano.

Le relative tensioni sociali e la conseguente radicalizzazione, espressa da una decisa tendenza conservatrice dei ceti abbienti e da atteggiamenti di malcontento e di ribellione dei nullatenenti, obbligano il potere alla permanente repressione politica e militare. I golpe diventano una costante storica; che, comunque, non risolvono la questione di fondo.

L’unica possibilità è il rafforzamento dello Stato, affinché possa agire da imprenditore e cercare di riempire le più gravi lacune dello sviluppo economico con il controllo del settore primario. Vedi i tentativi di nazionalizzazione primaria in Bolivia, Perù e, a livello di intenzioni, Venezuela. Vedi le costanti minacce di radicalizzazione della piccola borghesia spesso al potere. In Perù si è nazionalizzato il petrolio, si è fatta una riforma agraria, si sono statizzate alcune banche; ma, nello stesso tempo, si è arrivati a nuovi accordi col capitale straniero che si sono concretizzati in nuove concessioni all’imperialismo.

In questi paesi, Bolivia a parte, i tentativi di riforma agraria sono stati molto timidi. Il processo di modernizzazione ha riguardato le regioni dominate dalle enclaves e quelle in cui predomina l’agricoltura d’esportazione, controllata dal capitale straniero (settore della banana in America Centrale). La struttura agraria condizionando l’uso della terra, frena il processo di accumulazione di capitali nella campagna e rende impossibile ricavare risorse per lo sviluppo industriale; mentre aggrava le miserabili condizioni di vita di vasti settori contadini; che, respinti verso le città, vi costituiscono estese cinture di miseria.

Non si contano le ricorrenti rivolte contadine, che si crede di tenere a freno con la creazione di un vasto settore di contadini medi agiati (Perù e Bolivia; ed anche Venezuela e Guatemala), a spese s’intende dei settori contadini più sfruttati.
 

Riassumendo: quale l’orientamento generale in A.L.?

Sul piano economico si sviluppa un processo di monopolizzazione che riflette la centralizzazione e il concentramento industriale. La grande impresa straniera si afferma nei settori produttivi fondamentali.

Nei paesi del Tipo B il capitale straniero controlla le risorse naturali e l’industria manifatturiera che ha creato.

Nei paesi del Tipo A le compagnie multinazionali controllano i settori produttivi dei beni di consumo duraturo e di produzione. La proprietà dei mezzi di produzione e il controllo del processo si snazionalizzano.

Il capitalismo di Stato, che controlla i settori infrastrutturali, si rafforza e si allea al capitale straniero con cui spartisce il potere.

La struttura agraria monopolistica tradizionale, i monopoli industriali, il concentramento delle rendite, il basso incorporamento di mano d’opera nel sistema produttivo limitano la crescita del mercato interno.

L’industria, a causa della sua l’alta tecnologia, non può assorbire l’esodo dalle campagne provocato dal latifondo. Il settore dei servizi si gonfia a dismisura. La disoccupazione è sempre più elevata.

Sul piano sociale e politico, morto il populismo e l’illusione dello sviluppo nazionale autonomo, le ideologie e i partiti politici delle classi dominanti tendono a concentrarsi per fronteggiare le classi dominate. Iniziano i golpe militari, misti a transitori tentativi neopopulisti e liberalizzanti di inevitabile fallimento. I regimi politici delle classi sfruttatrici si radicalizzano (neo-nazismo in Brasile), a cui dovrebbe corrispondere la radicalizzazione della classe operaia in termini di lotta politica di classe.

I risultati dello "sviluppo dipendente" in Brasile, Messico e Argentina (Tipo A) rivelano tendenze sub imperialiste che, allo sfruttamento di altri paesi e alla conquista dei loro mercati tramite le esportazioni e gli investimenti nei settori economici fondamentali (risorse naturali e installazioni industriali), uniscono anche un certo dominio politico e militare. Il caso, in tono minore, di El Salvador nei confronti dell’Honduras è frustrato dalla inesistenza di un forte settore di beni di produzione.

In Brasile, Messico e Argentina l’industrializzazione è più sviluppata; la penetrazione industriale del capitale straniero è stata più intensa; il rafforzamento del capitalismo di Stato si è realizzato nel più stretto legame con il dominio imperialista; la rottura dei “compromessi” politici con le classi dominate è stata più radicale; ma sono anche più acute le contraddizioni generate dallo sviluppo capitalista. D’altronde il capitalismo ha bisogno di espandersi per sopravvivere e per espandersi ha bisogno di imporsi e dominare. Essendo difficilmente superabili gli ostacoli interni, la necessità espansionistica si pone con forza all’esterno.

Per Uruguay, Cile e Colombia (Tipo A) questa tendenza è incomparabilmente minore per specifici limiti demografici; per la presenza di enclaves (Cile); per la tardiva industrializzazione (Colombia).

Per i paesi del Tipo B, estremamente improbabile lo sviluppo all’interno del capitalismo, ci sarà un sempre maggiore sfruttamento imperialista, mediato dal sub imperialismo regionale; anche se la tendenza non è ancora reale in nessuno dei tre paesi.

Lo sfruttamento divide l’A.L.; ma lo stesso sfruttamento delle masse proletarie l.a. le unifica nelle lotta contro il capitalismo. Il ruolo profetico del marxismo è limitato oggi dalla pratica concreta dell’effettivo movimento sociale. Sempre più le contraddizioni del capitalismo nell’A.L. si accentueranno e imporranno soluzioni radicali. Lo scioglimento finale vedrà la dittatura proletaria schiantare la dittatura borghese.