Partito Comunista Internazionale

Studi di partito sulla Cina



Riprendendo la questione cinese
La questione cinese nel nostro lavoro di partito
 
[ Il Programma Comunista nn. 5/1970 - 6/1971 ]

 
 
 
Indice:
Introduzione - 1. Richiami storici - 2. La penetrazione imperialistica - 3. I rapporti sociali - 4. Le classi in scena - 5. La prospettiva marxista - 6. Il tradimento staliniano - 7. Le tesi di Stalin sulla questione cinese - 8. La situazione della Cina alla vigilia della rivoluzione - 9. 1925-1927: ascesa e sconfitta della rivoluzione proletaria - 10. Rivolta e massacro a Shanghai -11. La voce dell’internazionalismo - 12. Una ardente battaglia - 13. Si scopre il “Kuomintang di sinistra” - 14. Il secondo “tradimento” - 15. Il terzo atto della tragedia: Le rivolte del “raccolto d’autunno” e la Comune di Canton - 16. Il periodo delle “Repubbliche sovietiche” 1925-37 - 17. La “nuova democrazia” - 18. Il problema del potere statale in Cina - 19. La posizione del marxismo rivoluzionario di fronte alle rivoluzioni borghesi - 20. La posizione dell’Internazionale - 21. La posizione dello stalinismo in Cina -22. La linea di Mao - 23. Che cos’è la rivoluzione borghese? - 24. Stato proletario e stato borghese - 25. L’atteggiamento dello stato cinese verso la borghesia “nazionale” - 26. Le prospettive al 1956 - 27. Ciò che i Cinesi spacciano per "Costruzione del socialismo"
 
 
 
 
 
 
 
Introduzione

Prima di riprendere lo studio della questione cinese vogliamo ricordare che ha avuto nella nostra stampa abbondanti sviluppi, per diverse ragioni fondamentali, che non hanno alcun rapporto con la smania dei democratici borghesi di vantare prima, e di accusare poi di “imperialismo giallo” gli sforzi della nazione cinese per vincere la sua secolare arretratezza e divenire una grande potenza moderna, cioè capitalistica. In realtà, nella dottrina marxista e nella storia delle lotte di classe del proletariato mondiale, la Cina occupa un posto che solo il nostro partito ha saputo difendere, e continuerà a difendere, contro il tradimento del social-imperialismo russo e le falsificazione della storiografia nazionale maoista.

Prima di tutto dal 1920 al 1927 la Cina ha dato il solo esempio di un’azione anche solo relativamente indipendente della classe proletaria nella storia dei moti anticoloniali dei due dopoguerra. E la disfatta dei comunisti cinesi, imputabile essenzialmente alla direzione politica dell’Internazionale, ha avuto per le rivoluzioni dell’Oriente l’importanza che in Europa ebbe il fallimento della rivoluzione tedesca. È in Cina e negli anni ’20 che si è giocata la sorte dei proletari di tutte le colonie finora levatisi contro la dominazione imperialista. Sottolineando questa svolta storica, il nostro partito non ha mai negato né minimizzato la forza esplosiva degli antagonismi scoppiati in diversi paesi arretrati prima e, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale. Ma alle speculazioni di “sinistra” su eventuali sviluppi “socialisti” in questi paesi, esso ha costantemente opposto che nessun problema di azione rivoluzionaria può essere risolto finché si lasciano in soffitta le armi della dottrina rivoluzionaria marxista: il corpo di tesi del Secondo Congresso dell’Internazionale e del Congresso dei popoli d’Oriente di Bakù.

Il nostro partito ha ricordato queste posizioni programmatiche e tattiche sin dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale, quando grandi movimenti di indipendenza nazionale riuscirono a scrollare il giogo dell’imperialismo, e Mosca giurava di armare e dirigere la loro guerra santa contro il potere del capitale (Articolo “Oriente” in Prometeo, serie II, n.2, febbraio 1951). L’importanza della rivoluzione e la sconfitta proletaria del 1927 è stata pure sottolineata negli articoli “Rivoluzione e controrivoluzione in Cina” (Programme Communiste, nr. 20-21, 1962) e “Il movimento sociale in Cina” (nr. 27-28, 1964): citiamo i testi usciti nella nostra rivista internazionale, perché più completi di quelli apparsi in queste colonne).

Non è stato invece possibile, per ragioni contingenti, dedicare tutto il posto necessario né alla storia delle lotte di classe dal 1920 al 1927, né alla politica di Mosca, che riuscì ad isolare l’azione concomitante delle masse asiatiche e del proletariato della metropoli inglese per condurle separatamente alla sconfitta (ruolo delle “quattro classi” a Canton e del “comitato sindacale anglo-russo” a Londra; vedi però una sintesi in Prometeo, serie I, nr. 2 e 3, “La tattica del Comintern”, agosto 1946).

Infine, l’ammirevole lotta di Trotzki contro il tradimento dell’Internazionale in Cina dovrà essere presentata sistematicamente attraverso i testi che denunciano il rinnegamento delle tesi di Lenin e delle prospettive rivoluzionarie di un Ottobre asiatico (un brano del discorso dell’agosto 1926 è stato però riprodotto nel nr. 9 del 1967). Il partito affronterà questo compito collettivo con la migliore denunzia dell’attuale “cultura” del “socialismo in un solo paese”, ricordando che il proletariato di tutto il mondo ha una sola “cultura” da conquistare o difendere: la coscienza dei suoi obbiettivi di classe e gli insegnamenti storici delle sue lotte passate.

Un’altra ragione fondamentale assegna alla Cina un posto di prim’ordine nella nostra concezione e nella nostra critica dei movimenti nazionali borghesi, ed è il fatto che, dal 1917, è l’unico paese arretrato che si sia conquistate, a prezzo di innumeri sofferenze, tutte le condizioni politiche di un pieno sviluppo del capitalismo nazionale. I suoi dirigenti la presentano ai popoli oppressi come il “modello” della loro completa emancipazione: il nostro partito, invece, la presenta come un esempio dei limiti sociali della emancipazione politica borghese.

La nostra critica si è rivolta anzitutto alle tradizioni del “socialismo” maoista, di cui abbiamo provato che è figlio della sconfitta proletaria, erede legittimo del populismo di Sun Yat-sen ed ultima incarnazione del nazionalismo del Kuomintang. Fra tutti i partiti affiliati a Mosca, il P.C.C., fu, fino alla rottura cino-sovietica, quello la cui ideologia e il cui programma erano i più apertamente borghesi e la cui linea teorica ha sempre e soltanto riflesso la decomposizione ideologica dello stalinismo e le contraddizioni del capitalismo cinese (“Lezioni della polemica russo-cinese”, Programme Communiste n. 28-30, 1964).

Il partito di Mao pretendeva almeno di realizzare “a fondo” questa rivoluzione borghese? Abbiamo dimostrato che una tale pretesa non si giustifica né in teoria né in pratica, studiando la politica agraria del P.C.C. e le sue successive alleanze col partito di Chiang Kai-shek (“Il movimento sociale in Cina”, Programme Communiste nr. 28-35, 1965). Se la “democrazia nuova” ha messo più di vent’anni a trionfare, lo si deve non solo alla sconfitta del 1927, ma alle esitazioni e ai compromessi del socialismo piccolo-borghese, oltre che al peso della reazione internazionale. A questo proposito, due fatti sono stati sottolineati: l’influenza dei fronti popolari sulla lotta fra P.C.C. e Kuomintang negli anni ’30, e la collusione dell’imperialismo russo-americano nel fare ostacolo alla rivoluzione cinese.

Tali sono i limiti dell’emancipazione borghese già analizzati da Marx e ulteriormente rafforzati dalla senilità del regime capitalista: limiti politici, sociali e internazionali, che solo il proletariato era in grado di vincere nell’arena della sua lotta di classe. Questo aspetto è stato certo sviluppato di più nella nostra stampa e, per facilitare il lavoro politico delle sezioni, resterebbe solo da completare una lunga cronologia delle lotte di classe in Cina, che per ora abbraccia soltanto il periodo 1911-49.

Lo studio delle crisi economiche e politiche della Cina indipendente, dalla collettivizzazione accelerata fino alla “rivoluzione culturale” passando per il “balzo in avanti” e la rottura cino-russa, si iscrive in un’analisi e in una critica marxista non velate da anguste preoccupazioni per i destini del capitalismo nazionale né, ancor meno, dalle suggestioni dell’ideologia nazional-socialista cinese.

Per il fatto di aver realizzato tutte le condizioni politiche dell’indipendenza borghese, la Cina fornisce la prova più clamorosa degli enormi ostacoli che l’imperialismo mondiale può opporre alla creazione di nuovi centri motori del capitalismo. Dopo di aver vanamente sperato l’aiuto dell’America, poi della Russia, la Cina ha dovuto subire, accettare e teorizzare il proprio isolamento, fattore di crisi della sua economia e di equilibrio per l’ordine imperialista costituito dall’India al Giappone. Così privato di tutta la “cultura” materiale dei paesi capitalistici progrediti, lo Stato cinese ha rivelato più nettamente il suo carattere di classe opponendo al mondo borghese non le parole d’ordine della rivoluzione proletaria internazionale, ma la corsa folle alla “indipendenza economica”, la magra “cultura” del contadino arretrato e dell’operaio dissanguato fino all’ultima goccia.

La sorte della Cina borghese ha confermato la nostra duplice previsione: che dalla pace imperialistica non ci si deve attendere né progresso né sviluppo armonico delle nazioni, e che, cercando di liberarsi dalle leggi implacabili del mercato mondiale, lo Stato anche il più potente può solo imporre i rigori alle masse da esso controllate e aggravare tutte le contraddizioni “in seno al popolo”. Queste posizioni sono state illustrate sia in occasione della rottura Pechino-Mosca (“La Cina farà da sé” in Programme Communiste nr. 26, 1964), sia attraverso lo studio economico e teorico della serie sul “Movimento sociale in Cina”, e saranno riprese non appena potremo completare la nostra documentazione con statistiche ufficiali più recenti sulla “lunga marcia” del capitalismo cinese.

Il conflitto cino-sovietico venutosi ad accavallare alle difficoltà dell’accumulazione capitalistica in Cina, è stato pure analizzato in una prospettiva che non faceva alcuna concessione né alle contingenze locali né alle pretese divergenze ideologiche. Fin dall’inizio abbiamo dichiarato che non si tratta di una semplice bega di famiglia per decidere se lasciare nel mausoleo il cadavere di Stalin o gettarlo nella pattumiera della storia. Il conflitto si annunciava molto più profondo e durevole, perché rispecchiava la duplice pressione del mercato mondiale e degli interessi nazionali divergenti nel cosiddetto “campo socialista”. Abbiamo dimostrato che tutte le riforme economiche all’interno della Russia, come nei rapporti fra i paesi “socialisti”, dovevano necessariamente condurre all’isolamento della Cina e gettarvi, fin dal 1956, le basi della politica attuale (“Il movimento sociale in Cina”, VII, Programme Communiste nr. 37, 1966). La rottura cino-sovietica si presenta quindi come un caso particolare (e particolarmente netto) di quel fallimento del “sistema socialista”, che il nostro partito previde fino dalla sua nascita alla fine della guerra. Essa è la migliore smentita alla propaganda staliniana che pretendeva di aver creato un sistema di economia mondiale libero dalle costrizioni del mercato capitalista, e di offrire ai paesi arretrati, come sola possibilità di emancipazione, un commercio “eguale” e “mutuamente vantaggioso” con i paesi del nuovo blocco. La rottura cino-sovietica volta una nuova pagina della controrivoluzione mondiale: una pagina che si era aperta a Berlino, Poznan e Budapest, e che si chiude a Pechino.

Le Tesi sulla questione cinese (Il Programma Comunista nr. 23, 1964 e 2, 1965) riassumono questa esperienza storica delle rivoluzioni di Oriente imbrigliate dallo stalinismo, e ne valutano i risultati.

Secondo la nostra visione storica mondiale dei processi molecolari della economia e della politica, gli episodi della “rivoluzione culturale” cinese si inquadrano in un contesto nazionale molto più angusto, al quale i dirigenti pechinesi non riusciranno a dare la risonanza “proletaria” che lo stalinismo aveva conservato dalle grandi battaglie dell’Ottobre. Numerosi articoli della nostra stampa hanno già presentato la “rivoluzione culturale” cinese come espressione teorica e pratica del “socialismo in un solo paese”: altri sono stati poi dedicati alla polemica contro le varie filiazioni mondiali del maoismo, uno fra l’altro nel nr. 5 di quest’anno. Per altri riguardi la questione resta aperta al nostro studio collettivo, e sarà compito generale nostro svolgerla fino in fondo.

* * *

  La storia della Cina, e delle lotte sociali che vi si sono svolte in special modo negli ultimi cent’anni, è carica di insegnamenti per il proletariato di tutto il mondo, il quale trova in essa, e allo stadio più puro, la vera natura del capitalismo nella sua fase più senile, o imperialistica, il carattere in ultima istanza reazionario della borghesia dei paesi sottosviluppati in questa stessa fase, e infine, nel dramma cinese, l’azione controrivoluzionaria svolta dall’opportunismo internazionale negli ultimi quarant’anni. Una serie di lezioni alla rovescia, una serie di sconfitte e ripiegamenti che hanno insegnato, incidendole sulla pelle dei proletari, che cosa essi non devo fare per portare a termine la loro battaglia.

Un rapido cenno alla storia della Cina è necessario per rilevare gli effetti del capitalismo, già in nuce imperialista (anche se in Europa si può presentare ancora nella sua fase riformista), sul tessuto stabile ed equilibrato del millenario paese. Mentre vediamo, nel corso di innumerevoli secoli, le successive ondate di invasori venire assorbite in un breve periodo e in modo uniforme in tutto il paese, e amalgamarsi con l’elemento autoctono conservando intatta la organizzazione sociale preesistente, il capitalismo europeo riesce, in un breve volgere d’anni, a minare e sfasciare la Cina di sempre, e a ridurla in suo potere. Ciò è dovuto all’incontro tra le diverse forme di produzione, scontro nel quale la forma più arretrata viene spazzata via dalla più giovane e dinamica.

All’indice - All’inizio capitolo


1. Richiami storici

La storia del “Celeste Impero” ci si presenta uniforme dal suo sorgere ed affermarsi sino al suo crollo, ed è la storia di un modo di produzione, che Marx definì “asiatico” (vedi Forme che precedono la produzione capitalistica), caratterizzato da un lato da un potere centrale forte, unico per tutto il paese, il quale assolve il compito principale di costruire, coordinare e mantenere in efficienza tutta la rete idrica del paese (senza la quale la sua agricoltura sarebbe impossibile), di assicurare, mediante le altre opere pubbliche, l’efficienza della circolazione all’interno, di vegliare sui confini, di preparare e organizzare la difesa del territorio ecc., e dall’altro di una organizzazione dei comuni particolari, locali, che coltivano il suolo e provvedono da soli alla produzione dei manufatti necessari al lavoro e alla vita dei loro membri.

Queste comunità locali, inglobate nell’unità generale, proprietaria unica di tutto quanto esiste e in primo luogo della terra, riversano il loro plus-prodotto in tutto o in parte nel mantenimento dello Stato centrale.

Dipendendo da fattori naturali, geografici e fisici immutati, un tale sistema si perpetua attraverso i secoli senza subire variazioni. Quando, gradualmente e in un lungo periodo di tempo, si è formato uno strato di proprietari fondiari, specialmente tra i funzionari dello Stato centrale, questo, indebolendo il potere centrale e ostacolandolo nello svolgimento delle sue funzioni, si è riflesso immediatamente sul tessuto comune: l’abbandono dei lavori comuni di difesa dell’economia agricola e di regolazione del corso dei fiumi, determinando gravi carenze e autentici disastri, ha spinto le masse contadine alla rivolta e a una nuova ripartizione egualitaria delle terre. Giustamente è stato detto che «la storia della Cina non è tanto la storia delle dinastie che vi sono succedute, quanto delle potenti rivolte contadine che durante più di venti secoli fecero e disfecero quelle dinastie».

Questo equilibrio, o meglio, questo circolo vizioso della società cinese non poteva subire cambiamenti finché si scontrava con modi di produzione inferiore, tanto è vero che tutte le successive ondate di invasori dei popoli pastori o guerrieri dell’Asia centrale, pur riportando vittoria in campo militare, furono costretti ad adattarsi e a fondersi rapidamente nel paese conquistato senza nulla cambiarvi.

Solo il modo di produzione capitalistico, con la sua forza espansiva, riuscì a scuotere ed infrangere l’edificio sociale orientale minandolo con i suoi prodotti e il suo commercio, e frantumandolo con i suoi cannoni: «I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui esso abbatte tutte le muraglie cinesi (...) Esso costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe ad introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi» (Il Manifesto del Partito Comunista).

La “civiltà” borghese si presenta qui nei suoi caratteri più tipici: oppio, commercio e religione: fame e stragi per la Cina, ricchezza per gli azionisti d’Inghilterra di Francia e di Olanda.

All’indice - All’inizio capitolo


2. La penetrazione imperialistica

Ripercorre tutte le tappe della penetrazione del capitale europeo in Cina sarebbe troppo lungo: ricordiamo il processo per sommi capi. Dalla prima metà del ‘500, prima con i portoghesi, poi via via con inglesi, francesi, olandesi ed americani, si attua un continuo sgretolamento della potenza cinese con il commercio dei prodotti occidentali che pian piano prendono il posto dei manufatti locali distruggendo ogni tipo di produzione fino a quella familiare e impoverendo il paese. Gli ambasciatori e le delegazioni occidentali fanno atto di omaggio all’imperatore; nello stesso tempo si aprono i porti al commercio internazionale, e la presenza occidentale nelle regioni attorno alla Cina ne frena il movimento espansivo.

Quando poi il capitalismo ormai maturo interviene in modo sempre più massiccio nel tessuto sociale e il governo locale è spinto a difendersi da una penetrazione che lo porta allo sfacelo, lo scontro si fa immediatamente acceso. È il tempo delle “guerre dell’oppio”, monumento della civiltà borghese. Il commercio di questa droga, prevalentemente in mano inglese, aveva già funeste conseguenze nella società cinese: assottigliava le disponibilità d’argento (la moneta corrente in Cina) mandandolo a finire a Londra e Parigi, intaccava l’erario perché era un commercio illegale, minava le capacità di resistenza e di lavoro della società. Sparivano i capitali e le riserve necessarie per l’attuazione dei grandi lavori di regolamentazione delle acque, determinando l’abbandono dei lavori necessari con effetti disastrosi nelle campagne e negli approvvigionamenti alimentari. In occidente, tutto questo era conosciuto col nome di “calamità naturali”.

Per reagire allo sfacelo economico, il governo cinese intraprese una campagna di repressione del traffico della droga che lo portò, in breve tempo, allo scontro aperto con gli occidentali: dal 1839 al 1861 si combattono le tre guerre dell’oppio fra la Cina e l’Inghilterra e, in seguito, anche con la Francia. L’Impero, ogni volta sconfitto, deve sottostare alle imposizioni dell’imperialismo: apertura di quasi tutti i porti al commercio occidentale, basi e concessioni all’Inghilterra, alla Francia, alla Germania ecc.; pagamento di milioni e milioni di taels di indennità; concessioni di diritti doganali e portuali; legalizzazione del commercio dell’oppio ecc. ecc.

Ma l’imperialismo tende oramai allo smembramento dell’immenso paese e, valendosi oltre che della sua forza anche delle difficoltà interne dell’Impero (rivolta dei Taiping, 1850-64), prende sempre più piede nell’organizzazione statale e nell’esercito e, mentre riduce la Cina in un corpo in putrefazione, riduce la dinastia imperiale a un semplice paravento, difendendola dai nemici interni ma esautorandola da ogni effettivo potere. Contemporaneamente a questo processo, si svolge lo smembramento territoriale: l’Amman, il Tonchino e Formosa alla Francia; Hong Kong e altre concessioni all’Inghilterra; la Manciuria e la Corea al Giappone. Tutte le province tributarie del Celeste Impero sono strappate dall’Occidente: la Cina, racchiusa in un cerchio di appetiti imperiali, soffoca, l’economia è sconvolta e schiacciata, l’indipendenza negata, la potenza distrutta.

La spietata concorrenza dei tessuti occidentali porta in breve alla rovina la fiorente industria locale, determinando una crisi di enormi proporzioni. La fuga dell’argento blocca i capitali necessari alla manutenzione delle grandi opere di bonifica del territorio, l’esecuzione di nuove opere viene bloccata portando con sé spaventose carestie ed epidemie: nella seconda metà dell’Ottocento queste conseguenze arrivano al massimo; le carestie decimano la popolazione, distruggendo immense forze produttive e gettando tutta la società in un baratro di miseria e fame senza precedenti.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

3. I rapporti sociali

In questo processo si frantuma l’equilibrio passato e si vanno formando nuove stratificazioni sociali, nuove classi, che a poco a poco cominciano a far sentire il loro peso nella dinamica sociale.

Rotto il vecchio equilibrio, il campo in cui si riflette per primo questo dramma è naturalmente quello agricolo, sono i rapporti sociali all’interno delle campagne. La vecchia classe dei funzionari governativi, dei mandarini e dei militari, arricchendosi con il commercio e formandosi come grande borghesia mercantile, investe i propri profitti nelle campagne stappando dalle mani dei contadini e delle comuni agricole tutte le terre attraverso i prestiti usurai e il conseguente indebitamento delle masse, attraverso la fame e la miseria della maggioranza del contadiname costretto a vivere, a lavorare e a produrre su fazzoletti di terra insufficiente al suo mantenimento e quindi ridotto nella condizione di fittavolo o semi-fittavolo.

Valgono pochi dati per mettere in evidenza il fenomeno: le aziende tra 1 e 30 mu (un mu equivale a circa un quindicesimo di ettaro), cioè di un’esistenza nella fame senza scampo, sono il 68% delle aziende agricole e devono provvedere ad un 32% della popolazione, avendo un’estensione complessiva del 19% di territorio. Le aziende da 30 a 50 mu (media borghesia) rappresentano il 16% delle aziende, con solo 7% di popolazione e ben il 17% di territorio. Ci sono poi le grandi aziende dai 50 mu in su che sono appena il 7% di popolazione e l’enorme 64% delle terre coltivate. Questi squilibri giganteschi, che qui sono tratti come esempi soltanto da alcune provincie, si rendono insopportabili alla scala generale, differenziandosi ulteriormente fra il Sud, produttore di riso e con una polverizzazione accentuata della proprietà, e il Nord produttore di grano e quindi con aziende agricole più concentrate e moderne.

Si riproporrebbe così una redistribuzione delle terre, come da millenni avveniva in Cina attraverso le rivolte contadine, ma essa si rivela impossibile per l’azione paralizzante del capitalismo internazionale, per la presenza di una borghesia indigena, e per il crollo dell’impalcatura centrale dello Stato come organizzazione generale dell’economia agraria. La redistribuzione delle terre, avvenuta fino ad allora in modo “naturale”, ora si può iscrivere solo in un movimento più vasto, che implica la messa in moto di tutte le classi della società.

Di concerto con la nuova borghesia contadina si afferma una borghesia commerciale, i famosi “compradores”, che, alleati all’imperialismo e veicoli della commercializzazione dei prodotti occidentali, si ritagliano una fetta considerevole dei profitti, li investono nella terra o li mettono a frutto come capitale usuraio nelle campagne, e svolgono un’azione squisitamente reazionaria di fronte ai moti di indipendenza che vanno sorgendo nel paese. Infine si forma, numericamente piccolo ma concentratissimo, un proletariato, spinto nelle città costiere dalla rovina delle attività manifatturiere indigene precapitalistiche, e dalla fuga dalle campagne devastate dalla carestia e preda dei nuovi ricchi usurai.

Queste nuove classi, espressione dei nuovi interessi sociali in Cina, sono le protagoniste dei moti che dal 1900 ad oggi si scatenano nel paese. La vecchia Cina è definitivamente morta, uccisa dal capitalismo internazionale; la nuova Cina comincia a muovere i primi passi.

Questa nuova Cina è costruita dall’imperialismo nello stesso momento in cui crollano le vecchie strutture politiche e sociali; intorno ai porti aperti ai traffici si sviluppa una rete di attività che dal commercio e dai servizi ben presto invade l’industria; sono costruite ferrovie dai russi e dai giapponesi, e sfruttate in maniera sempre più massiccia le miniere di carbone e di ferro, soprattutto della Manciuria soggetta ai nipponici. L’occupazione straniera installa le prime strutture industriali: ha inizio la trasformazione dell’economia cinese. È una goccia nel deserto (ancora oggi la Cina è prevalentemente agricola), ma è già importante per il destino della nazione.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

4. Le classi in scena

In seguito alla distruzione del vecchio modo di produzione asiatico e ai problemi posti dall’avvio e dall’impiantarsi del sistema capitalistico nei rapporti sociali della Cina, si levano a combattere con nuove prospettive le vecchie e le nuove classe sociali. La rivolta dei Boxer introduce questa nuova era nei rapporti tra il vecchio impero e l’imperialismo nell’interno del paese. Scoppiata nel 1900 dilaga in tutto il paese e, anche se non riesce a concludere sul piano del potere e quindi viene sconfitta, dà la misura di quanto le contraddizioni introdotte dal capitalismo nel cuore della società abbiano rivoluzionato i vecchi rapporti. Riprendendo le rivolte anti-europee del secolo trascorso, quella dei Boxer si porta a scala generale, nazionale, ed è, nell’assedio delle legazioni a Pechino, una sfida, una dichiarazione di guerra a tutto l’imperialismo; il segnale che la Cina si sta effettivamente svegliando e che è tempo che le nuove forze prendano in mano e portino a termine i compiti che la storia affida loro.

L’entrata in campo della borghesia nazionale si ha, dopo i moti dei Taiping e dei Boxer, a carattere e partecipazione esclusivamente popolare, nel 1911 quando, sotto la spinta delle “quattro famiglie”, espressione che indica gli strati della grande borghesia, viene teorizzato da Sun Yat-sen un programma nazionalistico nel “Piano per lo sviluppo economico della Cina” che riflette tutte le illusioni e le indecisioni tipiche della borghesia cinese. Essa spera di portare a compimento la sua rivoluzione nazionale in modo pacifico, con la “comprensione” e l’aiuto dell’imperialismo, senza mettere in moto – questo il suo grande problema – né le tradizionali masse contadine affamate da un secolo di imperialismo, né, tanto meno, il piccolo ma già pericoloso proletariato indigeno, paventandone anzi l’entrata in scena e preparandosi a sventarne la minaccia, se occorre, nel sangue.

Gli attuali eredi delle tradizioni borghesi e nazionaliste della Cina di Sun Yat-sen possono agitare bandiere più o meno rosse: tutto dimostra come i sogni del 1911 non si sono realizzati se non nella misura in cui si è affossata una soluzione molto più radicale e decisiva: cioè l’aggancio di una rivoluzione radicale in Cina alle rivoluzioni proletarie in Occidente, in modo da costituire un fronte unico di guerra sociale che si desse il fine anche di realizzare le tappe della costruzione in Cina di un’economia moderna, non con lo spaventoso costo pagato dai proletari gialli fino ad oggi (e siamo ancora molto lontani dalla meta prefissa), ma con il minimo costo possibile, attraverso la utilizzo scientifico e razionale delle immense energie che una rivoluzione internazionale avrebbe espresso.

La classe operaia cinese, come il proletariato di tutto il mondo e di tutti i tempi, ha pagato e continua a pagare per la difesa del regime capitalistico internazionale, e non solo e non tanto per la forza dell’avversario diretto, quanto per l’opera di confusione e tradimento dei suoi interessi generali che l’opportunismo, travestito in mille forme, ha svolto in lunghi anni di controrivoluzione.

La prospettiva dei comunisti rivoluzionari non è fallita, come una certa categoria di falsificatori e di aggiornatori del marxismo vorrebbe far credere; è stata sconfitta, a Shanghai e Canton come nel resto del mondo, per il tradimento di coloro che oggi si proclamano eredi di quell’epoca di ardenti battaglie e che, fidando nella loro temporanea vittoria, nascondono di essere stati i promotori, gli esecutori, gli osannatori di ogni disfatta, a Mosca come a Pechino; essi possono ben stringersi la mano, anche se divisi da interessi nazionali, perché insieme hanno condotto la lotta contro il proletariato dei due paesi e del resto del mondo.

Dal 1911 la questione cinese assume importanza internazionale, in quanto le soluzioni politiche via via raggiunte avranno ripercussioni dovunque e forniranno il banco di prova più congeniale alle manovre dell’opportunismo stalinista. In realtà, due opposte concezioni della lotta dei popoli coloniali, e comunque a regime precapitalistico, si scontravano nella dinamica sociale in Cina: due concezioni che, nel contesto sociale mondiale in cui agivano, non rappresentavano “vie” interscambiabili per la rivoluzione dei contrasti sociali nel terzo mondo, che la storia dovesse ancora incaricarsi di avallare o respingere, ma due percorsi antitetici perché basati su opposte prospettive, uno negazione dell’altro. Si riproponeva in Cina il problema, già risolto dal marxismo, della doppia rivoluzione, della rivoluzione in permanenza e, di fronte ad esso, le vie, in origine parallele, delle due classi fondamentali dell’era moderna dovevano necessariamente biforcarsi.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

5. La prospettiva marxista

Le rivoluzioni nazionali della borghesia si compiono in Europa nella seconda metà dell’Ottocento.

I regimi arretrati, di fronte alla penetrazione capitalistica e al manifestarsi del suo carattere imperialista, vengono ad includere nelle loro maglie il nuovo modo di produzione e le categorie sociali ad esso collegate prima ancora di avere la possibilità materiale di adeguare le strutture politiche formali del regime precapitalista alla nuova realtà in movimento.

È questo il caso della Russia zarista, in cui la penetrazione del capitale straniero e il risvegliarsi del proprio al nuovo modo di produzione formano nel tessuto sociale arretrato isole concentratissime e ultramoderne di pieno capitalismo con tutte le conseguenze che questo comporta; in primo luogo, la creazione di uno strato proletario, minimo rispetto l’estensione geografica e la popolazione complessiva, ma posto direttamente e immediatamente dalle condizioni di capitalismo avanzato in cui si trova sul terreno di una lotta di classe antiborghese e anticapitalista. La minacciosa presenza di questo proletariato da una parte, la pressione del capitalismo internazionale dall’altra inducono la borghesia nazionale a toccare il meno possibile della vecchia e insufficiente sovrastruttura sociale precapitalista; pur subendo con disagio il giogo imperialistico, essa teme assai più l’avvento di una classe proletaria in pieno slancio che ha fatto proprie le lezioni delle lotte precedenti e che quindi non procede più per tentativi ma possiede già un indirizzo politico ben definito e completo e freme per attuarlo. In Russia, constatava Lenin, «la rivoluzione borghese è impossibile come rivoluzione della borghesia», e la corretta analisi di questa situazione, già considerata dal marxismo nelle lotte del 1848, costituì il punto di forza dei bolscevichi nella loro battaglia per la conquista del potere contro la concezione meccanicistica e reazionaria del menscevismo.

I marxisti non hanno mai considerato le rivoluzioni nazionali senza collegarle alla situazione generale, storica da cui si sviluppano. E perciò che essi, dal 1914, proclamano aperta l’era della rivoluzione proletaria in tutto il mondo. Anche nei paesi arretrati, anche nelle colonie, per il fatto di svolgersi nel quadro di un capitalismo giunto al suo ultimo stadio imperialista, ogni movimento sociale porta in primo piano la classe proletaria. Questa in Cina si trascinava dietro una classe contadina sfruttata dalla stessa piovra – la borghesia “compradora”, legata all’imperialismo da vincoli più forti di qualunque aspirazione all’indipendenza.

Alla classe proletaria dunque è affidata la realizzazione degli stessi obiettivi politici e nazionali borghesi, ma tale realizzazione non può avvenire senza la presa rivoluzionaria del potere, e questa o “transcresce”, come diceva Lenin, in dittatura proletaria poggiante sull’aiuto dalle masse contadine o, nell’inevitabile cozzo con la borghesia nazionale e internazionale, ha la peggio, e allora anche la trasformazione politica e sociale in senso moderno si arresta, ovvero si compie per vie contorte e deformi, attraverso compromessi, mezze misure, rinculi e, in definitiva, rinunzie, e col sacrificio di sangue e sudore delle classi lavoratrici delle città e delle campagne che nella lotta avevano profuso il massimo delle energie.

Questa prospettiva era ben chiara ai bolscevichi: il proletariato all’avanguardia della lotta imperialistica, non al suo rimorchio; il Partito comunista, alla testa del proletariato, non in coda alla borghesia, forte della sua autonomia di programma e di azione, lotta per il potere, nel più stretto collegamento con la battaglia proletaria nelle metropoli capitalistiche, nella cui vittoria risiede l’unica possibilità di sopravvivenza e di sviluppo di un regime politico comunista a cavallo di un’economia ancora in larga misura arretrata, e perfino di saltare la fase borghese nel quadro di «un piano economico generale regolato dal proletariato di tutte le nazioni».

Le tesi del 2° Congresso dell’Internazionale ribadiscono senza mezzi termini:

     «Esistono due movimenti che ogni giorno più divergono. Il primo è il movimento nazionalista democratico borghese, il cui programma è l’indipendenza politica nel quadro dell’ordine borghese; il secondo è quello dei contadini poveri e arretrati e degli operai che lottano per la propria liberazione da ogni specie di sfruttamento. Il primo movimento cerca, spesso con successo, di controllare il secondo. Ma l’Internazionale Comunista deve combattere un tale controllo e promuovere lo sviluppo della coscienza di classe fra le masse operaie delle colonie (...) Nel primo stadio del suo sviluppo, la rivoluzione nelle colonie applicherà riforme di pretta marca piccolo-borghese, come la divisione della terra ecc.; ma da ciò non segue che la direzione della rivoluzione nelle colonie debba trovarsi nelle mani dei democratici borghesi. Al contrario, i partiti proletari devono svolgere una intensa propaganda delle dottrine comuniste e, appena possibile, formare dei Soviet operai e contadini. Questi, come le repubbliche sovietiche dei paesi capitalistici progrediti, devono lavorare per affrettare l’abbattimento dell’ordine capitalista in tutto il mondo».

Era questa l’unica impostazione giusta per la Cina. Lo stalinismo la rifiutò subordinando il proletariato e la sua avanzata politica alla direzione piccolo-borghese e nazionalista del Kuomintang, concessa alla borghesia nazionale la gratuita patente di rivoluzionaria. La rivoluzione all’ordine del giorno era quella proletaria e il processo rivoluzionario non poteva svilupparsi che in quella direzione. Il tradimento dell’opportunismo consistette appunto nel portare il proletariato cinese allo scontro decisivo sul fronte sbagliato, per dare via libera, dopo la sua sconfitta, allo sviluppo, d’altronde stentato, di una società borghese con tutte le stigmate politiche e sociali oltre che economiche, che le sono proprie.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

6. Il tradimento staliniano

Di fronte alla prospettiva marxista di una rivoluzione proletaria, che nel suo svolgersi assolve i compiti al cui adempimento la borghesia nazionale è inabilitata, e che la sorpassa alla testa delle masse contadine e nell’allacciamento col proletariato mondiale, imponendo il proprio dominio e i propri obiettivi, l’opportunismo stalinista riprende nel 1925-27 pari pari la concezione menscevica della “rivoluzione per tappe”, attribuendo alla borghesia cinese, del tutto arbitrariamente, un carattere e un ruolo più rivoluzionario delle borghesie metropolitane per essere “schiacciata” dall’imperialismo mondiale non meno del proletariato.

Invece la borghesia nazionale dei paesi coloniali e semicoloniali, nel periodo storico in cui il proletariato agisce come forza autonoma, non è più la vecchia classe che ha lottato contro l’imperialismo all’epoca della penetrazione europea; non è più la classe che ha assistito fremendo alle guerre dell’oppio e allo sfacelo del paese; è una creatura del tutto nuova, legata al capitalismo internazionale nel campo sia economico sia politico, e paralizzata dall’insolubile dilemma di darsi una struttura moderna, quindi più rispondente ai propri interessi di classe (indipendenza e unificazione) senza mettere in moto forze sociali non più controllabili. Giustamente gridò Trotzki allora:

     «Una politica che ignori la potente pressione esercitata dall’imperialismo sulla vita interna della Cina sarebbe radicalmente falsa. Ma non meno falsa sarebbe una politica che parta da un’idea astratta dell’oppressione nazionale, senza conoscere la sua rifrazione nelle classi (...) L’imperialismo è in Cina una forza di primaria importanza. La sorgente di questa forza non risiede nelle navi da guerra dello Yangtze, ma nel legame economico e politico del capitale straniero con la borghesia indigena».

Purtroppo, quando i nodi sociali della Cina arrivano al loro scioglimento, l’opportunismo sta già impadronendosi dell’Internazionale Comunista, e le direttive che sono impartite al proletariato indigeno contengono già i semi della disastrosa sconfitta. Queste direttive consistono essenzialmente nella rinunzia al ruolo autonomo della classe operaia e del suo partito e nella capitolazione di fronte alle prospettive di egemonia borghese.

Nel 1924, dietro ordine di Stalin, il Partito Comunista Cinese entra a far parte del Kuomintang, abbracciando così i “Tre principi del popolo” di Sun Yat-sen, il programma ufficiale borghese, al quale dovrebbero corrispondere nella pratica le tre “tappe” della rivoluzione: la prima “militare”, che deve portare all’unificazione della Cina e alla cacciata dell’imperialismo; la seconda “educativa” che deve preparare il popolo alla democrazia; la terza deve realizzare la democrazia stessa. Nel linguaggio dell’opportunismo stalinista queste tappe si chiamano: “antimperialista”, “agraria”, “sovietica”!

Basta, per provare il mostruoso deviazionismo di una simile politica, ricordare le già citate tesi del 2° Congresso dell’Internazionale Comunista:

     «Appoggiare la lotta per l’abbattimento della dominazione straniera non significa sottoscrivere le aspirazioni nazionali della borghesia indigena, ma aprire al proletariato delle colonie la via della sua liberazione (...) Nel suo primo stadio, la rivoluzione nelle colonie non sarà una rivoluzione comunista, ma se fin dall’inizio una avanguardia comunista ne prende la testa le masse rivoluzionarie saranno avviate nel giusto cammino e raggiungeranno il fine ultimo attraverso una graduale conquista di esperienze rivoluzionarie».

L’ “avanguardia” comunista fu invece condannata dall’opportunismo ad una posizione di retroguardia nella lotta sociale: mentre i proletari venivano spinti dalla crisi verso posizioni sempre più rivoluzionarie sia contro l’imperialismo sia contro la borghesia interna, quella che doveva essere la sua testa, il suo stato maggiore, la sua organizzazione-guida, si confondeva nell’arcobaleno democratico-borghese, abbandonando ogni e qualsiasi ruolo autonomo, sposando le tesi nazionaliste e presentandole come proprie agli sfruttati. Le conseguenze di questo abbandono (che non può essere considerato un “errore”, in quanto le tesi, le parole d’ordine e tutta l’impostazione del problema da parte dell’Internazionale Comunista nei suoi anni di splendore non lasciavano il menomo dubbio sulla via da percorrere) non tardarono a farsi sentire nella lotta rivoluzionaria. Fu come se tutte le lezioni scaturite dalle lotte proletarie dal 1848 in poi fossero state dimenticate e rinnegate dalla classe; in realtà, e la sinistra avvertì subito il pericolo, erano i primi passi in campo aperto della reaziuone capitalista attraverso il suo agente all’interno della classe - l’opportunismo - per la sistematica distruzione dell’edificio teorico e pratico costruito in anni di fuoco da tenaci ed eroiche avanguardie: per lo sterminio dell’Ottobre Rosso; per l’affossamento della rivoluzione internazionale.
 

* * *
 

Come abbiamo sommariamente ricordato fu la degenerazione dell’Internazionale Comunista e dello Stato proletario russo ad imprimere un andamento negativo alla rivoluzione cinese nel 1925-27. Senza l’influenza della controrivoluzione mondiale, di cui lo stalinismo rappresentò uno dei pilastri più importanti, non si può né dare una spiegazione degli avvenimenti cinesi di quel periodo, né comprendere quelli successivi fino ad oggi.

La rivoluzione proletaria vittoriosa in Russia nel 1917 poteva resistere alle enormi pressioni interne ed esterne derivanti dalla arretratezza economica solo a patto di essere, come diceva Lenin, il preludio della rivoluzione mondiale. Lo Stato proletario russo subordinava dunque la sua stessa possibilità di esistenza come Stato proletario all’estendersi dell’incendio rivoluzionario all’Europa occidentale. La sua forza era strettamente legata alla possibilità che la rivoluzione dilagasse sempre di più nel mondo.

Questo era il senso della posizione di Lenin e dell’Internazionale sulle rivoluzioni nazionali ed anticoloniali, il cui ruolo dirigente veniva attribuito alla classe proletaria e al suo autonomo Partito Comunista e si denunciava ogni sottomissione del proletariato alla borghesia nazionale. Nell’epoca in cui il capitalismo è divenuto imperialista, cioè ha esteso il suo dominio alla scala mondiale, la borghesia è diventata controrivoluzionaria alla scala mondiale, e la borghesia delle colonie e dei paesi arretrati non è altro che una filiale della borghesia internazionale; essa dunque non può giocare nessun ruolo autonomo neanche nella lotta per l’indipendenza nazionale, e solo il proletariato alla testa delle masse contadine e semiproletarie può prendere la testa della rivoluzione “nazionale” e liberare i paesi coloniali dal giogo imperialista instaurando la propria dittatura di classe e collegandosi alla dittatura proletaria nei paesi industrializzati. Questa tattica era stata alla base della rivoluzione proletaria in Russia, che aveva chiaramente indicato come nell’epoca dell’imperialismo solo il proletariato come classe dominante può portare a compimento gli stessi obiettivi borghesi che la borghesia rinuncia ad assolvere.

Ma, sconfitta la rivoluzione proletaria in occidente nell’arco di tempo fra il 1919 e il 1923, il partito comunista in Russia si trovò alle prese con difficoltà insormontabili e la piccola borghesia, il contadiname, le forze generatrici del capitalismo riprendono coraggio e rialzano la testa ingaggiando con il partito una lotta terribile. Questa non si compie apertamente in nome della restaurazione capitalistica, ma dell’abbandono di ogni prospettiva rivoluzionaria alla scala mondiale, per procedere alla costruzione pura e semplice dello Stato nazionale e dell’economia nazionale in Russia. È sotto la pressione di queste forze sociali borghesi che, da una parte, si verifica la scissione sempre più profonda fra l’apparato statale russo e il partito comunista e, dall’altra, lo stesso partito comunista e la stessa Internazionale cominciano a deviare dalla giusta linea imponendo alle diverse sezioni tattiche contraddittorie e pericolose, come quella del fronte unico politico, nel tentativo disperato di resuscitare con espedienti formali la rivoluzione sconfitta in Europa.

In un processo di decadenza che va dal 1923 al 1927 circa, nonostante l’opposizione della Sinistra comunista internazionale, la controrivoluzione impersonata in Russia da Stalin e dall’apparato statale sottomette a sé il partito bolscevico e la stessa Internazionale comunista. In nome del “socialismo in un solo paese” gli interessi della rivoluzione mondiale sono subordinati agli interessi statali dell’URSS, la lotta del proletariato mondiale è sacrificata all’esistenza dello Stato nazionale russo, la prospettiva di Lenin e dei comunisti è capovolta e sostituita con la prospettiva borghese dell’edificazione del “socialismo” nella sola Russia.

È stato importante ricordare questi fatti perché il proletariato cinese sceso in lotta aperta proprio negli anni dal 1925 al 1927 porta sulla sua pelle i segni di questo completo rovesciamento della prospettiva comunista.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

7. Le tesi di Stalin sulla questione cinese

In diretta antitesi con quanto l’Internazionale Comunista aveva sancito al suo 2° Congresso del 1920 sulla questione nazionale e coloniale, Stalin concesse alla borghesia nazionale cinese una patente rivoluzionaria sostenendo che «il dominio dell’imperialismo mondiale faceva della borghesia cinese una classe più rivoluzionaria di quanto non lo fosse stata la borghesia russa nel 1917», e che perciò «non era possibile una rivoluzione proletaria in Cina, ma il proletariato doveva lasciare alla borghesia la direzione del movimento nazionale». La borghesia avrebbe portato a compimento la lotta di liberazione dall’imperialismo e la lotta per l’unificazione del paese contro i “signori della guerra”. Per tutto questo periodo, il proletariato e il partito comunista cinese non dovevano svolgere alcun ruolo autonomo, ma limitarsi ad appoggiare il movimento nazionale borghese. Realizzata l’indipendenza e l’unificazione del paese, la rivoluzione sarebbe passata dalla fase militare alla fase della riforma agraria ad opera della borghesia anti-imperialista; solo al termine di questa, si sarebbe aperta la fase “socialista” e il proletariato avrebbe potuto agire come classe autonoma e ingaggiare la lotta contro la borghesia per instaurare il suo dominio di classe. Le tesi di Stalin non avevano più nulla a che vedere con la prospettiva marxista e mettevano di fatto la classe proletaria nelle mani della borghesia.

Per giustificare la pretesa possibilità della borghesia cinese di mettere in movimento le masse contadine si varò la tesi falsa e bugiarda che in Cina esistesse una organizzazione feudale, come nell’Europa del XVIII secolo, nella quale cioè la terra è in possesso inalienabile della nobiltà e del clero e coloro che la lavorano sono servi della gleba. La borghesia europea del XVIII secolo aveva potuto giocare un ruolo rivoluzionario contro il feudalesimo proprio perché aveva potuto far leva sulle masse contadine che aspiravano alla proprietà del suolo. La borghesia poteva impunemente mettere in moto i contadini, che si sarebbero divise le terre appartenenti alla classe feudale, e successivamente queste sarebbero cadute nelle mani della borghesia per via puramente economica, attraverso il libero commercio del suolo e il successivo indebitamento dei contadini. Questo il processo seguito dalla rivoluzione francese, nella quale furono proprio i contadini a far piazza pulita del feudalesimo e a fornire le truppe agli eserciti napoleonici, per poi cadere nella più totale sottomissione al dominio delle banche e del capitale finanziario.

La borghesia cinese, secondo Stalin, sarebbe stata rivoluzionaria sia perché subiva il dominio dell’imperialismo mondiale, sia perché avrebbe potuto procedere alla spartizione delle terre mettendo in moto il contadiname povero.

 In realtà le cose non stavano per nulla in questo modo: da circa due millenni il libero commercio del suolo era ammesso in Cina, e questo faceva sì che le terre in possesso dello Stato o della Chiesa si fossero sensibilmente ridotte mentre la maggior parte di esse era detenuta proprio dalla borghesia, impersonata dall’usuraio di villaggio; non il nobile feudale, ma il ricco usuraio che era allo stesso tempo il “compratore”, cioè l’intermediario e lo spacciatore delle merci europee, era colui che possedeva la terra e la cedeva in affitto in microscopici lotti ai contadini. La classe borghese che Stalin pretendeva potesse mettere in moto i contadini era quindi proprio quella che li opprimeva e li sfruttava: ogni ripartizione del suolo sarebbe andata a diretto svantaggio della borghesia, ed è evidente che se il contadiname cinese rivendicava la confisca e la ripartizione della terra, doveva farlo proprio contro i borghesi.

Se la tesi espressa da Lenin e dall’Internazionale, che la borghesia era diventata controrivoluzionaria alla scala mondiale, e perciò ogni possibilità di vittoria delle stesse rivoluzioni nazionali risiedeva nella direzione del proletariato organizzato in maniera autonoma e alleato alle masse contadine povere, proprio contro la classe borghese, aveva un valore, essa lo aveva in special modo per la Cina. E se questa posizione fu rovesciata da Stalin con le conseguenze terribili che vedremo, non fu certo a causa di un “errore”: era la controrivoluzione borghese che stava abbattendo il dominio proletario in Russia, quella che distruggeva nello stesso tempo tutto il programma comunista alla scala mondiale e, sotto il manto fasullo del “socialismo in un solo paese”, mirava oramai alla sconfitta del movimento proletario in tutto il mondo.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

8. La situazione della Cina alla vigilia della rivoluzione

Il dominio imperialistico, indebolendo la dinastia imperiale, poi eliminandola completamente, aveva prodotto in Cina lo smembramento del territorio che, privo di un potere centrale, si trovava diviso in varie regioni sottomesse al dominio dei cosiddetti signori della guerra, capi militari assoldati dalle potenze imperialistiche che detenevano il potere fondandosi su eserciti mercenari formati da contadini senza terra, sradicati da ogni fonte di sussistenza e vaganti sull’intera estensione del paese. I signori della guerra proteggevano gli interessi della borghesia contro gli operai e contro i contadini, e se la borghesia si metteva contro di loro, almeno entro certi limiti, era solo perché aspirava all’unificazione nazionale come presupposto necessario del suo stesso sviluppo.

Nel 1911 la rivoluzione, che aveva abbattuto la dinastia imperiale ed instaurato la repubblica borghese sotto la presidenza di Sun Yat-sen, fu immediatamente fatta naufragare dall’intervento dei signori della guerra, sollecitato dalla stessa borghesia, che così dimostrava di non potere né tener testa al movimento delle masse né assolvere alcuno dei compiti neanche della rivoluzione borghese. La borghesia dunque era contro i signori della guerra solo entro certi limiti, perché nello stesso tempo era legata ad essi e se ne serviva nella repressione del movimento proletario. Nel 1911 Sun Yat-sen aveva spontaneamente abbandonato il potere nelle mani dei signori della guerra. Nel 1913 Lenin scrisse a questo proposito:

     «La rivoluzione cinese ha mostrato la stessa mancanza di carattere e la stessa bassezza del liberalismo, la stessa importanza esclusiva di una indipendenza delle masse democratiche, e la stessa delimitazione tra il proletariato e tutta la borghesia» (I destini storici della dottrina di Carlo Marx).

Il Kuomintang, o “partito del popolo”, rappresentava la borghesia e la piccola borghesia nelle sue aspirazioni nazionalistiche e antimperialiste. Esso non aveva alcun seguito tra gli operai e i contadini poveri che, fin dall’inizio della loro lotta si trovarono sotto la direzione del Partito Comunista. Le sue possibilità di movimento erano dunque limitate e risiedevano esclusivamente nella possibilità di sottomettere il Partito Comunista alle proprie direttive. Per questo Sun Yat-sen rifiutò nel 1922 il fronte unico fra i due partiti propostogli dall’Internazionale. I comunisti potevano, per il Kuomintang, essere solo dei sudditi, non degli alleati, e questo chiarisce già quale fosse la posizione della borghesia cinese verso il movimento proletario e contadino: voleva servirsene, ma senza nulla concedergli e in piena sicurezza. Avrebbe, si, proceduto contro l’imperialismo, ma solo nella misura in cui avesse potuto sottomettere completamente il proletariato e i contadini, in mancanza di che avrebbe sempre preferito marciare con l’imperialismo contro gli operai e i contadini. Solo la controrivoluzione trionfante in Russia e nel mondo poteva spingere il proletariato cinese a sottomettersi completamente alla borghesia. Fu quello che fece lo stalinismo dal 1923 in poi.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

9. 1925-1927: ascesa e sconfitta della rivoluzione proletaria

L’applicazione delle tesi di Stalin significò la sottomissione del giovane partito comunista cinese alla direzione borghese rappresentata dal famoso Kuomintang, il partito nazionalista borghese, che deteneva il potere a Canton. Nel 1924 il partito comunista cinese aderì al Kuomintang annullando così anche la sua indipendenza organizzativa. Fin dal 1923 la diplomazia sovietica aveva stretto collegamenti con il capo e teorico della borghesia cinese, il dott. Sun Yat-sen, e aveva stipulato accordi commerciali con la Cina denunciando i cosiddetti “trattati ineguali”.

Ma quella che all’inizio non era stata che la normale prassi dello Stato proletario russo nei suoi rapporti con lo Stato cinese, divenne dal 1923 una e vera e propria alleanza con la borghesia cinese. Nell’incontro avvenuto il 23 gennaio 1923 fra Yoffe e Sun Yat-sen, fu stilata la seguente dichiarazione comune che è un vero e proprio trattato di pace:

     «A causa della mancanza di condizioni favorevoli alla loro efficace applicazione in Cina, non è possibile in quel paese né il comunismo né il sistema sovietico. I problemi più importanti ed urgenti della Cina sono il completamento dell’unificazione nazionale e il conseguimento della completa indipendenza».

E questa dichiarazione comune seguiva ai deliberati dell’Esecutivo dell’Internazionale Comunista che il 12 gennaio 1923 aveva dichiarato:

     «In considerazione del fatto che la classe operaia cinese non è ancora sufficientemente differenziata come forza completamente autonoma, l’Esecutivo ritiene necessario che il giovane partito comunista cinese coordini le sue attività con quelle del Kuomintang».

Il Terzo congresso del Partito Comunista cinese tenuto nel giugno del 1923 lancia quindi la parola d’ordine:

     «Tutti al lavoro per il Kuomintang. Il Kuomintang deve essere la forza centrale della rivoluzione nazionale ed assumerne la direzione».

Come si vede da queste poche citazioni, la rotta tracciata da Lenin e dall’Internazionale per il proletariato delle colonie e semicolonie è già completamente rovesciata: alla borghesia viene riconosciuto un ruolo rivoluzionario nella rivoluzione nazionale, e si invita il proletariato a sottomettersi alla sua direzione. Il primo pretesto è che «la Cina non è matura per il sistema dei soviet», cioè per la dittatura proletaria. Se questo fosse stato valido in Russia nel 1917, non ci sarebbe dovuta essere una rivoluzione proletaria perché, dal punto di vista economico, la Russia non era certo più matura della Cina.

L’altro pretesto portato avanti, in pieno contrasto con le tesi di Lenin del 1920, è lo stesso che era servito in Europa per l’adozione della tattica del “fronte unico”. Il Partito Comunista, si diceva, era poco sviluppato in Cina, e qualunque azione autonoma gli sarebbe stata impossibile. Semmai, questa sarebbe stata una ragione di più per difendere il partito e la sua autonomia programmatica ed organizzativa, come chiaramente stabilivano le tesi del 1920. Ma quanto sopra era vero solo molto relativamente: il Partito cinese, costituitosi nel 1920, aveva ben presto guadagnato una notevole influenza fra le masse proletarie, che non erano, come quelle dell’occidente europeo, infette di riformismo ed opportunismo. Benché i suoi effettivi fossero effettivamente limitati, esso teneva nelle sue mani tutto il movimento di massa, e in particolare dirigeva i sindacati che andavano prendendo uno sviluppo enorme in tutto il paese. Fin dal 1922 il movimento proletario e contadino stava in realtà assumendo proporzioni immense, e questo movimento, che ebbe il suo culmine nel 1925 e negli anni successivi, non solo era quasi completamente controllato dal Partito comunista, ma era tradizionalmente avverso al Kuomintang, in cui vedeva l’odiata borghesia e mal sopportava l’alleanza, o meglio la sottomissione, alla sua politica.

Ben più importante di tutte queste considerazioni è tuttavia il fatto concreto che il movimento delle masse proletarie e dei contadini venne abbandonato nelle mani della borghesia, e nessun sforzo fu fatto per dargli uno sbocco rivoluzionario autonomo e per imprimere a tutta la rivoluzione di cui la Cina era visibilmente gravida una direzione proletaria. La dimostrazione più palese di questa crescita del movimento proletario è offerta dai seguenti dati.

Nel maggio 1922 si riunisce il primo congresso dei sindacati cinesi, che contano 200.000 iscritti. Ma il 1° maggio 1925 il sindacato generale pancinese conta già 570.000 iscritti; gli scioperi passano da appena 25 nel 1918 a 91 nel 1922; per il 1° Maggio 1924 a Shanghai sfilano in corteo 100 mila operai, e a Canton 200 mila, mentre a Wuhan, nonostante la legge marziale, le strade sono pavesate di bandiere rosse. E il movimento contadino avanza di pari passo attraverso la costituzione delle “unioni” contadine, che specialmente nel Guangdong ebbero un grandissimo sviluppo e già nel 1923 avevano sostenuto durissimi scontri coi proprietari terrieri e con l’esercito.

Questo movimento culminò il 30 maggio del 1925 nello sciopero generale di Shanghai, causato dall’uccisione di alcuni studenti ed operai durante una dimostrazione: lo sciopero si estese anche ai domestici e servitori di famiglie straniere e coinvolse diverse altre città da Canton a Pechino, interessando all’incirca 400 mila operai. L’11 giugno ad Hankow i dimostranti furono assaliti da truppe da sbarco inglesi, che fecero diversi morti. Il 18 giugno i marittimi di Canton incrociarono le braccia.

Il 23 un corteo di operai e studenti fu mitragliato a Canton dagli inglesi, che ne uccisero 52: la risposta immediata fu lo sciopero generale a Canton ed a Hong-Kong. 100 mila operai di Hong-Kong lasciarono la città e si trasferirono in massa a Canton. Qui gli operai in sciopero erano circa 250 mila, ed essi assunsero praticamente il potere, e con squadre operaie armate isolarono completamente la città. Il picchettaggio, non solo a Canton ma su tutta la fascia costiera e in tutti i porti del Guangdong, rese completo il boicottaggio delle merci straniere, soprattutto inglesi, paralizzando il commercio della Gran Bretagna in Estremo Oriente. Secondo dati ufficiali, il numero delle navi britanniche entrate nel porto di Canton, che dall’agosto al dicembre 1924 oscillava fra le 240 e le 160 al mese, nell’agosto del 1925 si era ridotto a un massimo di 27 ed un minimo di 2. Sull’onda del poderoso movimento il Kuomintang instaurò il suo potere a Canton e alla fine di giugno 1925 riunì il Guangdong sotto il suo controllo. Inutile dire che tutto questo avvenne sotto il patrocinio del Partito Comunista Cinese e dell’Internazionale.

L’azione del governo nazionalista di Canton è altamente significativa. Preso il potere sulle spalle del movimento operaio e liberato il Guangdong dai militaristi con l’appoggio determinante dei contadini, il Kuomintang rimanda all’infinito qualsiasi misura di riforma agraria col pretesto che «prima bisogna unificare tutto il paese e cacciare gli imperialisti stranieri». Nello stesso tempo mette in sordina anche le rivendicazioni immediate degli operai e si adopera con tutti i mezzi per far cessare lo sciopero, che blocca le merci inglesi.

Intanto prepara una grande campagna contro i militaristi del nord, a cui il Partito Comunista aderisce con entusiasmo. Il 20 marzo 1926, mentre fervono i preparativi della spedizione, Chiang Kai-shek, che comanda i cadetti dell’accademia di Wampoa ed il comandante il capo dell’esercito nazionalista, vibra il primo colpo alle forze operaie a Canton: con un pretesto, le sedi dei sindacati sono invase e devastate, i dirigenti arrestati. La stessa sorte tocca a diversi membri del Partito Comunista e ai consiglieri russi residenti a Canton. Gli operai vengono disarmati e le loro organizzazioni disperse. In poche ore Chiang ha in mano tutta Canton senza che il Partito Comunista e gli operai abbiano potuto muovere un dito. Ma questo colpo è solo la prova generale di quanto accadrà poi, servendogli intanto a rinforzare la “destra” del Kuomintang e ad intimorire i comunisti e la cosiddetta “sinistra”. Infatti, se pure Chiang fa pubblica ammenda per l’ “equivoco”, e promette di punire i responsabili, ha di fatto il potere a Canton e gli operai sono inermi e disorganizzati.

Da questa posizione di forza, Chiang convoca il comitato centrale ed esecutivo del Kuomintang per il 19 maggio e, nel frattempo, fa spargere la voce di un complotto comunista, che deve servigli ad attirare a sé la pavida borghesia cinese. Nella riunione del 15 maggio, Chiang propone una “riforma” del Kuomintang, in base alla quale si chiede al P.C.C.:
 1) di non nutrire dubbi né critiche nei confronti del dott. Sun e dei suoi principi,
 2) di depositare la lista dei propri militanti iscritti al Kuomintang; i comunisti, inoltre, sono dichiarati ineleggibili ai posti di comando del governo e dell’esercito e i loro effettivi sono limitati al 33% del totale a tutti i gradi successivi; infine i membri del Kuomintang non possono aderire a nessun’altra organizzazione.

È evidente che queste misure costituiscono il prologo della repressione aperta contro il movimento operaio, ma l’Internazionale Comunista le lascia passare sotto il più completo silenzio, mentre i dirigenti del partito si scusano addirittura con Chiang per i “malintesi” a cui la loro partecipazione al Kuomintang può avere dato luogo,e accettano tutte le disposizioni prese nei loro confronti, in nome del mantenimento dell’unità del fronte nazionale. Secondo il Partito Comunista Cinese:

     «Ritirarsi dal Kuomintang equivarrebbe ad abbandonare le masse lavoratrici e cedere alla borghesia la bandiera del Kuomintang rivoluzionario: in questo momento si deve seguire una politica di ritirata temporanea per poter rimanere nel Kuomintang»!

Ma la politica di sottomissione completa del P.C.C. al partito borghese era talmente spudorata che diverse critiche si levarono contro di essa in seno al partito, e nel giugno 1926 lo stesso Comitato Centrale fu costretto a proporre all’Internazionale «il ritorno del P.C.C. alla sua autonomia e l’abbandono della politica di sottomissione completa al Kuomintang, a favore di un blocco a due». Non si negava dunque l’alleanza con la borghesia e il suo partito, ma si chiedeva di poter partecipare a questa alleanza come organizzazione indipendente. L’Internazionale respinse la proposta, come anche quella di organizzare all’interno del Kuomintang delle frazioni di sinistra. Come lo stalinismo, ormai padrone dello Stato russo e dell’Internazionale, vedesse il compito dei comunisti cinesi nella rivoluzione, risulta chiaro dalla pittoresca frase di Borodin, che fungeva da consigliere di Mosca presso Chiang:

     «Nel momento attuale i comunisti devono fare per il Kuomintang il lavoro dei coolies».

Intanto proprio a Canton, cioè in quello che secondo Stalin era il centro della rivoluzione cinese, si stavano verificando fatti che mostravano chiaramente di che tipo fosse il “fronte rivoluzionario”. Nel luglio 1925, pochi giorni dopo l’inizio della spedizione contro il Nord, sedicenti rappresentanti di una sedicente Unione Sindacale Provinciale cominciarono ad attaccare, con la piena acquiescenza delle autorità, le sedi del sindacati operai, a disperderne l’organizzazione e, in alcuni casi, ad ucciderne i dirigenti. È una tecnica ben nota, che fu pure usata dal fascismo italiano nella sua opera di repressione del movimento proletario; e Chiang la userà costantemente anche in seguito. Gli operai non potevano far altro che difendersi, e per diversi giorni si ebbero scontri violenti nelle strade di Canton. Infine intervennero le autorità nazionaliste, ma solo per disarmare gli operai, imporre l’arbitrato obbligatorio, e proibire ogni sciopero finché durava la campagna contro il Nord.

I miglioramenti economici che gli operai di Canton erano riusciti a strappare in lunghe e dure lotte furono tutti annullati, e venne perfino ripristinato il sistema di lavoro “a contratto”, piaga del proletariato cinese. Nelle campagne del Guangdong il Kuomintang si abbandonò alla repressione aperta del movimento contadino. Le “unioni”, che si erano sviluppate con ritmo sorprendente, furono sciolte, i loro membri e dirigenti arrestati, le terre che i contadini avevano confiscato furono restituite ai proprietari, mentre non si adottava nemmeno la riduzione dei canoni di affitto del 25%, che pure era una rivendicazione del Kuomintang. E la stessa politica repressiva fu praticata tanto contro gli operai quanto contro i contadini, in tutte le regioni in cui giungeva l’esercito nazionalista.

Nelle campagne si scioglievano le organizzazioni contadine e si devastavano le loro sedi, si impediva ai contadini di armarsi contro i proprietari fondiari, e nello stesso tempo si negava loro qualsiasi appoggio dell’esercito nazionalista. Nelle città si usavano gli stessi metodi contro gli operai, distruggendo le organizzazioni sindacali rosse e sostituendole con sedicenti sindacati di stretta osservanza borghese, mentre si proibivano per legge gli scioperi ed era vietato agli operai possedere armi. Il governo “rivoluzionario” di Canton intervenne anche nello sciopero di boicottaggio delle merci straniere e il 10 ottobre 1926 addivenne ad un accordo per il quale, dopo 15 mesi dal suo inizio, il gigantesco sciopero cessava spontaneamente senza che nessuna delle rivendicazioni poste dagli operai fosse accolta. Il sabotaggio aperto di questa magnifica battaglia operaia doveva naturalmente servire a riconciliare la borghesia cinese con il capitale imperialista mondiale.

Nel dicembre 1926, infine, il generale nazionalista Li Chi-shen instaurò a Canton una vera e propria dittatura militare, ponendo gli operai sotto la legge marziale.
Mentre questi fatti si svolgevano nella grande città meridionale, era in corso la campagna contro il Nord, in cui le vittorie dell’esercito nazionalista si susseguivano proprio per l’appoggio che gli derivava dal possente movimento operaio e contadino, che i comunisti si adoperavano a sottomettere agli interessi del Kuomintang. Sulla onda dell’avanzata dell’esercito di Chiang i contadini si ribellavano e si organizzavano, gli operai non erano da meno. Secondo dati incompleti, nel 1926 gli scioperi furono 525 contro 318 nel 1925 e le organizzazioni sindacali crebbero in misura enorme. Nelle campagne come nelle città fu la sollevazione delle masse a cacciare i militaristi e a facilitare e addirittura anticipare le vittorie dell’esercito.

Ma in nessun caso il Partito Comunista tentò di prendere in mano questo movimento spontaneo per sottrarlo all’influenza della borghesia, anzi esso si sforzò di arginarlo deplorando gli “eccessi” dei contadini e le richieste “esagerate” degli operai che potevano spaventare la borghesia e mettere in pericolo l’unità del fronte nazionale. Così nel dicembre 1926 essi sabotarono lo sciopero di Wuhan, che aveva coinvolto più di 300 mila operai. E si inchinarono anche di fronte alla repressione aperta invitando le masse a limitare il proprio movimento in nome dell’unità con la borghesia. Questa tattica era dettata ai comunisti cinesi dall’Internazionale, ormai sottomessa agli interessi dello Stato russo. Erano questi interessi nazionali che rendevano necessario il sacrificio del proletariato cinese sull’altare dell’unità nazionale – unità che doveva permettere di aumentare l’influenza della Russia in Cina, dando un colpo alla potenza inglese in Asia – come, proprio nello stesso 1926, il grande sciopero dei minatori inglesi verrà sacrificato per ottenere accordi commerciali favorevoli allo Stato russo.

L’Internazionale vedeva il processo rivoluzionario in Cina in maniera rovesciata. Quanto più i fatti dimostravano l’assurdità della politica da essa seguita, quanto più la borghesia cinese si dimostrava apertamente controrivoluzionaria, quanto più apertamente reprimeva il movimento operaio e contadino, tanto più Stalin e l’Internazionale levavano inni alla necessità della “unità delle forze rivoluzionarie in Cina” e imponevano al partito di mantenerla ad ogni costo. Non solo, ma il Kuomintang, che nel 1923 e ’24 era ancora riconosciuto come un partito borghese che i comunisti dovevano soltanto appoggiare, nel 1925 e ’26 divenne nella definizione un partito «operaio e contadino», «il partito degli operai e contadini cinesi», «il partito capace di realizzare la liberazione dei contadini e di abbattere la dominazione imperialistica», «il centro della rivoluzione»; e il governo del Kuomintang fu dichiarato «il potere unitario degli operai, dei contadini e della borghesia» (preludio al «blocco delle quattro classi di Mao») e addirittura come «un governo simile al potere sovietico».

Citiamo alcuni documenti. Il 26 dicembre 1925, cioè alcuni mesi dopo la repressione degli operai cantonesi e la distruzione delle loro organizzazioni, e mentre la repressione infuriava nel Guangdong, Stalin dichiara al 14° Congresso del Partito bolscevico:

     «Al nostro partito è stato riservato il compito storico e l’onore di guidare la prima rivoluzione proletaria vittoriosa nel mondo. Noi siamo convinti che il Kuomintang (cioè il partito della borghesia) potrà recitare la stessa parte in Oriente e così distruggere alle fondamenta la dominazione imperialistica (...) se rafforzerà l’alleanza fra operai e contadini nella lotta in corso, e si lascerà guidare dagli interessi di queste due fondamentali forze della rivoluzione». In altri termini, Stalin non riusciva a trovare nessun miglior custode degli interessi proletari e contadini in Cina che la grande borghesia cinese! Ancora nel 1925 Stalin affermava: «Nelle colonie e semi colonie il blocco nazionale rivoluzionario può prendere la forma di un partito unico degli operai e dei contadini, quale il Kuomintang».

Il IV Esecutivo allargato dell’Internazionale riunito nel febbraio-marzo 1926 deliberava:

     «Il Kuomintang rappresenta un blocco rivoluzionario di operai, contadini, intellettuali e democratici urbani sulla base dei comuni interessi di classe di questi strati nella lotta contro gli imperialisti stranieri». E questo proprio nel momento in cui v’erano già chiarissimi esempi di come i “democratici urbani”, cioè la borghesia, intendessero gli interessi “comuni” con gli operai e i contadini. Alla fine del 1925, l’organo centrale dell’Internazionale aveva reso noto alle sezioni che «un governo Kuomintang molto simile al sistema sovietico è stato costituito il 10 luglio 1925 a Canton»!

Nell’ottobre del 1926, i dirigenti moscoviti inviano al Partito Comunista Cinese un telegramma in cui suggeriscono di «non inasprire le lotte contadine per non alienarsi i generali che guidano gli eserciti in vittoriosa marcia verso il Nord». E le tesi di Stalin e Bucharin al 7° Esecutivo Allargato dell’Internazionale nel novembre 1926 dichiarano apertamente:

     «L’abbandono progressivo della rivoluzione da parte della grande borghesia è storicamente inevitabile (...) Ciò non significa che la borghesia in quanto classe sia totalmente eliminata dalla lotta per l’indipendenza nazionale, in quanto anche un settore della grande borghesia può per un certo tempo marciare con la rivoluzione accanto alla borghesia piccola e media».

In questa stessa riunione il delegato del Partito Comunista cinese riuscì a dichiarare, sebbene in sordina:

     «Abbiamo praticamente sacrificato gli interessi degli operai e dei contadini (...) Il governo non ha neppure promulgato una legge sui sindacati (...) non ha accettato le nostre rivendicazioni agrarie (...) ha sempre preso le parti dei proprietari terrieri nei loro conflitti con i contadini poveri».

Questa dichiarazione, rispondendo alle tesi di Stalin, mostrava chiaramente in quale modo la borghesia cinese “collaborasse attivamente” alla lotta rivoluzionaria.

Ma né questo né il fatto che fin dal febbraio 1926 l’esercito nazionalista del Kuomintang avesse scatenato la repressione aperta contro il movimento contadino, impedì a Stalin di affermare, parlando della campagna contro il Nord:

     «L’avanzata dei cantonesi significa un colpo all’imperialismo, un colpo ai suoi agenti in Cina, significa libertà di riunione, libertà di sciopero, libertà di stampa, libertà di organizzazione per tutti gli elementi rivoluzionari in generale, per gli operai in particolare (...) Il potere di Canton è l’embrione del futuro potere rivoluzionario di tutta la Cina (...) esso è e non può che essere un potere antimperialistico».

All’indice - All’inizio capitolo 

 

 

10. Rivolta e massacro a Shanghai

All’opera del governo di Canton, distintosi nella repressione del movimento di massa; alle posizioni assunte da Stalin e dall’Internazionale degenerata che inneggiavano a questo governo mentre schiacciava il proletariato si deve solo aggiungere che alla fine del 1926 il Kuomintang fu addirittura accolto nell’Internazionale come partito “simpatizzante”, e questo pochi mesi prima che le sue truppe procedessero a massacrare gli operai di Shanghai.

Shanghai era la città industriale e commerciale più importante della Cina, e il suo proletariato era particolarmente combattivo. L’avanzata verso il Nord degli eserciti cantonesi aveva messo in movimento gli operai organizzati nei sindacati diretti dal Partito Comunista. Quando l’esercito nazionalista giunse a poca distanza dalla città, il consiglio generale dei sindacati proclamò in suo appoggio lo sciopero generale, a cui parteciparono circa 350 mila lavoratori. Era il 19 febbraio 1927.

Mentre le truppe che controllavano Shanghai reprimevano ferocemente lo sciopero, l’esercito del Kuomintang ebbe l’ordine di non avanzare sulla città e di non venire in aiuto degli scioperanti. Il Partito Comunista, nella sua posizione di sottomissione alla borghesia e al Kuomintang, non seppe prendere nessuna iniziativa. Dal 21 al 24 febbraio nelle strade della città si svolsero furiosi scontri armati, mentre l’esercito nazionalista era accampato ad appena 50 miglia di distanza!

Il 21 marzo fu proclamato un nuovo sciopero generale; questa volta esistevano anche piani precisi di insurrezione, naturalmente per favorire la vittoria del Kuomintang, e al termine di lunghi combattimenti gli operai assunsero il potere nella città, mentre l’esercito rimaneva fermo a Lunghua, uno dei sobborghi della stessa Shanghai. Era dunque chiara l’intenzione di Chiang Kai-shek di aspettare che gli operai fossero sconfitti e massacrati dalle truppe dei militaristi, prima di intervenire. Chiang aveva dato precisi ordini in proposito ai suoi generali e, se gli operai vinsero, fu solo per la forza del loro movimento e per il loro coraggio ed eroismo.

Data la posizione dominante di Shanghai nella vita economica della Cina, un potere proletario in quella città avrebbe significato automaticamente, dato lo sviluppo che il movimento rivoluzionario operaio e contadino andava assumendo, imprimere alla rivoluzione cinese una direzione decisamente anticapitalista. Gli operai e il Partito Comunista, che avevano in mano il potere, invece lo cedettero a Chiang Kai-shek, accolto a Shanghai come il condottiero della rivoluzione cinese. In omaggio alle direttive di Mosca, il Partito Comunista si sottomise al Kuomintang e consegnò nelle sue mani il magnifico movimento proletario.

Chiang Kai-shek incominciò col togliere i comunisti da tutti i posti direttivi importanti sostituendoli con persone di sua fiducia. Poi passò alla repressione aperta: il 12 aprile 1927, reparti scelti dell’esercito uniti ad elementi del sottoproletariato urbano assalirono all’improvviso e secondo piani ben precisi le sedi delle organizzazioni operaie, devastandole e uccidendo tutti quelli che vi si trovavano. Gli operai, colti di sorpresa, resistettero all’attacco in maniera eroica con le poche armi che avevano a disposizione, ma alla fine dovettero cedere. La sera del 12 aprile i sindacati non esistevano più; centinaia di operai erano morti; i dirigenti comunisti erano stati uccisi o si erano dati alla macchia.

Il giorno dopo, secondo la tecnica già usata da Chiang, i sindacati furono riorganizzati su basi “nuove”, cioè furono messi sotto le direttive degli elementi peggiori dei bassifondi di Shanghai, travestiti da “operai moderati”. Il 14 aprile, nonostante tutto, il Consiglio generale dei sindacati, disperso e braccato, proclamò lo sciopero generale. Pure in quelle terribile condizioni, 100 mila operai risposero all’appello.

Fu l’ultima, meravigliosa fiammata di una battaglia perduta. La borghesia cinese, i proprietari terrieri che vivevano sotto l’incubo della rivolta contadina, l’imperialismo internazionale, salutarono in Chiang Kai-shek e nel suo esercito i liberatori dal terrore rosso. E Stalin e l’Internazionale furono costretti ad ammettere che quello che avevano indicato alle masse come il puro campione della rivoluzione nazionale era diventato, dalla sera alla mattina, un bieco reazionario al soldo dell’imperialismo mondiale.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

11. La voce dell’internazionalismo

Erano mesi e mesi che l’Opposizione russa, riscattando le sue gravi corresponsabilità nella politica dei fronti unici politici e dei “governi operai” adottata dall’Internazionale, si batteva a corpo perduto perché fosse restituita al Partito Comunista Cinese la sua indipendenza programmatica, politica ed organizzativa, nel quadro della lotta di indipendenza nazionale, e si lanciasse agli operai e ai contadini in epica battaglia, la parola d’ordine non solo dell’armamento, ma della costituzione dei soviet. Essa aveva previsto, come era nelle tesi del 2° Congresso e in quelle di Bakù, la inevitabilità che le ali borghese e proletaria del movimento nazionale non solo si scindessero, ma entrassero in violento conflitto.

Il 3 aprile Trotzki, in un articolo che la censura staliniana cestinò, aveva preannunciato questa rottura, con il passaggio della borghesia del Kuomintang alla repressione armata del movimento operaio e contadino; la Cina avrebbe percorso lo stesso calvario della Polonia fascistizzata ad opera del partito socialnazionalista:

     «Se per la sua evoluzione il Pilsudski polacco ha avuto bisogno di tre decenni, occorrerà un periodo molto più breve perché il Pilsudski cinese passi dalla rivoluzione nazionale al fascismo nazionale (...) La politica di un Partito Comunista legato mani e piedi e funzionante come ufficiale di reclutamento degli operai per il Kuomintang, prepara il terreno all’instaurazione di una dittatura fascista in Cina nel giorno non molto lontano in cui il proletariato sarà costretto, malgrado tutto, a disertare il campo nazionalista (...) Spingere nel campo politico della borghesia gli operai e i contadini, e tenere il Partito Comunista in ostaggio al Kuomintang, significa condurre una politica che, dal punto di vista oggettivo, equivale al tradimento (...) Il Kuomintang, nella sua forma attuale, è l’incarnazione di un “trattato ineguale” fra borghesia e proletariato. Se la rivoluzione cinese nel suo insieme rivendica l’abolizione dei trattati ineguali con le potenze imperialistiche, ebbene, il proletariato cinese deve abolire il trattato ineguale che lo lega alla propria borghesia!».

La previsione, e la parola d’ordine corrispondente, non sgorgavano da particolari doti profetiche, ma erano il risultato di un’analisi marxista, quindi scientifica, dei rapporti di classe. Nelle tesi dell’Opposizione redatte il 7 aprile per la successiva riunione del plenum dell’Internazionale lo stesso Trotzki chiariva la posizione squisitamente marxista, che non è di sciocca indifferenza per le lotte antimperialiste di indipendenza nazionale, ma nemmeno di stolto misconoscimento delle forze e dei rapporti di classe che vi operano:

     «Una politica che ignorasse la potente pressione esercitata dall’imperialismo sulla vita interna della Cina sarebbe radicalmente falsa. Ma non meno falsa sarebbe una politica che partisse da una idea astratta dell’oppressione nazionale, senza riconoscerne la rifrazione nelle classi (...) La Cina è un paese oppresso, semicoloniale. Lo sviluppo delle sue forze produttive esige l’abbattimento del giogo imperialista. La guerra di indipendenza nazionale è una guerra progressista sia perché scaturisce dalle esigenze del progresso economico e morale del paese, sia perché facilita lo sviluppo della rivoluzione proletaria inglese e mondiale [era in atto proprio allora il poderoso sciopero dei minatori britannici]».

     «Ma questo non significa che il giogo imperialista sia un giogo meccanico che pesi “egualmente” dall’esterno su tutte le classi della Cina. Il ruolo enorme che il capitale straniero gioca nella vita del paese, ha per effetto che categorie importantissime della borghesia, della burocrazia e della casta militare abbiano legato le loro sorti a quelle dell’imperialismo. Senza di ciò, non si capirebbe il peso colossale dei militaristi nella Cina moderna (...) Sarebbe anche una profonda ingenuità credere che fra la borghesia dei compradores, cioè degli agenti economici e politici del capitale straniero in Cina, e la borghesia “nazionale” vi sia un abisso. Al contrario, queste due categorie sono infinitamente più vicine l’una all’altra, che la borghesia e le masse operaie e contadine. La borghesia ha partecipato alla guerra nazionale agendo come un freno interno, gettando continuamente uno sguardo ostile agli operai e ai contadini, sempre pronta a un compromesso con l’imperialismo».

All’indice - All’inizio capitolo

  

 

12. Una ardente battaglia

Incapace di porre le questioni in termine di classe, lo stalinismo ormai imperante vedeva invece i rapporti fra le diverse componenti sociali del movimento nazionale in Cina dall’angolo bottegaio di un machiavellismo miope: “servirsi” della borghesia nazionale come ci si serve di un utensile, poi buttarla da parte; starle alla coda per poi, un bel giorno, farle lo sgambetto, nello stile di un generale che dispone i suoi reparti sul campo di battaglia e li manovra a piacere suo.

Ancora il 5 aprile, pochi giorni prima del massacro di Shanghai, Stalin diceva ad una riunione di tremila funzionari di partito

     «Forse [!] Chiang Kai-shek non ha nessuna simpatia per la rivoluzione; ma guida l’esercito, e non può fare a meno di guidarlo contro gli imperialisti. Inoltre la destra del Kuomintang è in rapporto coi generali del Nord e conosce l’arte di demoralizzarli, di convincerli a passare armi e bagagli nel campo della rivoluzione [!], senza colpo ferire. Essa è pure collegata ai ricchi mercanti, e può bussare a quattrini [la rivoluzione affare di “quattrini”!]. Bisogna quindi utilizzarla fino all’ultimo, spremerla come un limone, poi buttarla via».

Era un vedere i rapporti di classe alla luce di un gioco da bambini. Poco dopo i tragici fatti di Shanghai mostreranno chi fosse a spremere e chi spremuto. Ma il punto è che i marxisti devono saperlo in anticipo, non lasciarselo ogni volta insegnare a prezzo di una sconfitta sanguinosa; devono aver chiaro fin dall’inizio quali saranno gli schieramenti delle forze sociali nel fuoco della lotta, e agire di conseguenza.

Quando, nel plenum di maggio del 1927, poco dopo Shanghai, Stalin e Bucharin si “consoleranno” del bagno di sangue proletario proclamando:

     «Il Comitato Esecutivo Allargato dell’Internazionale constata che il corso degli avvenimenti ha pienamente confermato la prognosi sull’inevitabile distacco della borghesia dal fronte unico nazional-rivoluzionario, e il suo passaggio alla controrivoluzione»,

Trotzki stesso ribatterà che è troppo poco prevedere il distacco della borghesia dalle masse proletarie nel corso delle rivoluzioni nazionali: quello che si deve sapere a priori, è che la borghesia pugnalerà il proletariato, gli si scaglierà contro in armi, cercherà di fermare nel sangue la rivoluzione prima che le sfugga di mano:

     «Dire che la borghesia deve necessariamente rompere i ponti con la rivoluzione nazionale è un cosa. Ma è una cosa completamente diversa dire che essa deve necessariamente impadronirsi della direzione del movimento rivoluzionario e del proletariato, ingannare e poi disarmare la classe operaia, lasciarla battere e dissanguarsi».

Fra la politica dell’Internazionale stalinizzata e quella tracciata nelle tesi del 2° Congresso era lo stesso abisso che fra il menscevismo e il bolscevismo:

     «Nella sicura previsione dell’inevitabile rottura della borghesia con la rivoluzione nazionale, la politica bolscevica è tutta tesa a creare il più presto possibile un’organizzazione indipendente del proletariato, a imbevere gli operai della più profonda diffidenza per la borghesia, a riunire e armare le masse nella forma più vasta possibile, ad aiutare con tutti i mezzi l’insurrezione rivoluzionaria dei contadini. Nella previsione del cosiddetto distacco della borghesia, la politica menscevica è tutta tesa a rinviare il più possibile questo momento, sacrificando a questo scopo l’autonomia politica e organizzativa del proletariato, ispirandogli fiducia nel ruolo progressivo della borghesia, predicandogli la necessità di autolimitarsi».

Servendosi dell’arma tanto cinica quanto idiota dell’adulazione e del corteggiamento, si può, certo, «ritardare l’ora del distacco della borghesia; ma di questo rinvio sarà essa a servirsi contro il proletariato». Giunta la rivoluzione doppia al suo fatale crocevia, non è che le due classi fondamentali della società si diano l’addio andando ciascuna per la propria strada; è che l’una salta al collo dell’altra, e se non è il proletariato a prendere alla gola la borghesia, sarà la borghesia a prendere alla gola il proletariato. E lo farà tanto più facilmente in quanto partirà dalla posizione di vantaggio del suo privilegio economico e politico; lo farà con tanto maggiore successo quanto meno la classe dominata non solo non vi si sarà preparata, ma avrà contribuito con la propria sottomissione, e con quella del suo partito, a mantenere la classe dominante nel sicuro possesso del potere.

Il primo atto della rivoluzione cinese si era chiuso proprio su questo oblio della lezione del 1848, del 1871, del 1905, del 1917, e del monito contenuto nell’indirizzo della Lega dei Comunisti di Marx ed Engels:

     «Il tradimento (della borghesia democratica) verso gli operai incomincerà dalla prima ora della vittoria». 

Vorrà la storia che il proletariato di Shanghai e di Canton sia condannato a percorre fino in fondo, in tutte le sue tappe cruente, il calvario della ricaduta dell’Internazionale nel peggiore, nel più bieco, nel più ottuso, dei menscevismi rifatti a nuovo: lo stalinismo!

Il massacro degli operai di Shanghai aveva dimostrato una volta di più che la borghesia cinese non poteva marciare al fianco del proletariato nella rivoluzione nazionale. Le tesi di Lenin e del 2° Congresso dell’Internazionale erano state clamorosamente riconfermate con il sangue di migliaia di proletari e di contadini poveri. Messa di fronte alla scelta, la borghesia cinese si era schierata con gli imperialisti contro il movimento proletario.

Questo era ormai chiaro per tutti, e richiedeva che almeno ora il Partito Comunista proclamasse la sua aperta rottura con la borghesia e si mettesse alla testa delle masse dopo aver riconquistata la propria indipendenza programmatica e organizzativa. Era questo che l’Opposizione russa facente capo a Trotzki richiedeva fin dal 1925. I fatti avevano pienamente confermate le sue denunzie e la sua prognosi sullo svolgimento della rivoluzione. In realtà, la strada da percorrere era una sola: o il movimento delle masse si sottometteva alla direzione del proletariato e del suo partito comunista, o sarebbe stato represso dalla borghesia controrivoluzionaria. O si andava verso la rivoluzione e la dittatura proletaria, o nemmeno la rivoluzione nazionale avrebbe avuto esito positivo.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

13. Si scopre il “Kuomintang di sinistra”

Ma l’Internazionale Comunista era ormai dominata dagli interessi nazionali borghesi impersonati dallo stalinismo, e questi interessi esigevano di trovare un alleato in Cina per controbilanciare l’influenza inglese. Alleato dello Stato russo poteva essere solo un potere statale, e allo Stato russo il proletariato cinese non dava nessun affidamento dal punto di vista diplomatico e commerciale. Per questo il massacro di Shanghai non segnò alcun cambiamento nella tattica imposta da Stalin ai comunisti cinesi. Chiang Kai-shek e una parte della borghesia cinese avevano “tradito”; l’Internazionale lo riconobbe sostenendo anzi di averlo previsto in anticipo, sebbene fino al giorno prima dell’olocausto niente di simile fosse stato detto. Ma il riconoscimento, per Stalin, non significava che il proletariato cinese dovesse finalmente muoversi in maniera autonoma e rinnegare l’alleanza con la borghesia: anzi, questa doveva addirittura rinsaldarsi. La “destra” del Kuomintang aveva tradito la rivoluzione? Benissimo: ma c’era una “sinistra” che, sconfessando Chiang, aveva costituito un governo secessionista a Wuhan: ecco dunque, nelle parole di Stalin, il «vero centro rivoluzionario», e ad esso i comunisti dovevano accodarsi! Se, dopo di aver distrutto il movimento proletario a Shanghai, Chiang Kai-shek si era installato con un suo governo a Nanchino appoggiandosi sull’ala destra del Kuomintang, era il governo di Wuhan poggiante sull’ala sinistra che doveva ricevere tutto l’appoggio del P.C.C.

Ma esisteva veramente una frattura in seno alla borghesia cinese? La Opposizione russa, giustamente, lo negava: v’era una divisione dei compiti o, quanto meno, una diversa valutazione sull’opportunità o meno di rompere subito con le minacciose masse proletarie e contadine, o servirsene ancora per qualche tempo, onde assicurare una base il più possibile larga alla rivoluzione nazionale. In definitiva, si trattava di una diversità nella valutazione dei tempi: l’ala destra aveva capito che una rivoluzione puramente democratico-nazionale era impossibile proprio per la presenza di un vasto movimento di massa, e si era alleata all’imperialismo per reprimerlo; l’ala sinistra contava di poter prima appoggiarsi al movimento delle masse, salvo a reprimerlo una volta raggiunta l’unità e l’indipendenza del paese. La sinistra, d’altra parte, aveva sempre appoggiato Chiang e anche adesso gli muoveva l’unico rimprovero di aver rotto precipitosamente l’alleanza col proletariato provocando con questo atto un arresto del movimento nazionale. Ora essa agitava lo specchietto della riforma agraria: concederle fiducia, ammonì Trotzki, 

    «significava mettere volontariamente la testa sotto la mannaia. La sanguinosa lezione di Shanghai è passata senza lasciar traccia: i comunisti vengono di nuovo trasformati in guardiani del gregge per il partito dei carnefici borghesi (...) La rivoluzione agraria è una cosa seria: in una situazione difficile, i politicanti di “sinistra” si uniranno dieci volte alla “destra” contro gli operai e i contadini».

Nelle sue tesi su “I problemi della rivoluzione cinese” Stalin invece affermava testualmente:

     «Il colpo di Stato di Chiang Kai-shek significa che nella Cina meridionale ci saranno d’ora in poi due campi, due governi, due eserciti, due centri: il centro della rivoluzione [!] a Wuhan e il centro della controrivoluzione a Nanchino (...) Questo significa che il Kuomintang rivoluzionario di Wuhan, conducendo una lotta decisa [!!] contro il militarismo e l’imperialismo, diventerà l’organo di una dittatura rivoluzionaria del proletariato e dei contadini. Perciò dobbiamo adottare la politica del concentramento di tutto il potere esistente nelle mani del Kuomintang rivoluzionario, del Kuomintang senza i suoi elementi di destra, del Kuomintang come blocco tra la sua ala sinistra e i comunisti. Ne consegue inoltre che la politica di stretta collaborazione tra l’ala sinistra e i comunisti all’interno del Kuomintang acquista in questa fase forza e importanza particolare. Senza di essa la vittoria della rivoluzione è impossibile».

Seguendo questa logica, la risoluzione di Stalin-Bucharin affidava la realizzazione della riforma agraria al governo del Kuomintang di sinistra» (nel quale ben presto entreranno due comunisti occupando i posti chiave del ministero dell’agricoltura e di quello dell’industria) ribadendo la necessità che fosse assicurato a tale governo tutto l’appoggio di un grande movimento di massa. Stalin, forse per calmare la violenta reazione della Opposizione russa, controbilanciava questa capitolazione di fronte alla presunta piccolo borghesia rivoluzionaria con la richiesta che si procedesse all’armamento degli operai e dei contadini come «principale antidoto alla controrivoluzione»; affermava però esplicitamente che non si doveva procedere alla costituzione di soviet operai e contadini, essendo questi possibili soltanto a rivoluzione agraria avvenuta... ad opera del sedicente governo rivoluzionario di Wuhan.

Trotzki rispose con straordinario vigore:

     «L’armamento degli operai e dei contadini è una ottima cosa. Ma bisogna essere logici. Nella Cina del sud vi sono già dei contadini armati, i cosiddetti eserciti nazionali. Ma, lungi dall’essere “un antidoto alla controrivoluzione”, essi ne sono stati l’arma e lo strumento. Perché? Perché la direzione politica, invece di stringere in un solo blocco l’intero esercito attraverso i soviet dei soldati, si è appagata di una copia puramente esteriore delle nostre sezioni e dei nostri commissari politici; e questi, in mancanza di un partito rivoluzionario indipendente e di soviet di soldati, si sono convertiti in un paravento del militarismo borghese.
     Le tesi di Stalin respingono la formula dei soviet con lo specioso argomento che sarebbe "una parola d’ordine contro l’autorità del Kuomintang rivoluzionario". Ma che cosa significano allora le parole "Il principale antidoto alla controrivoluzione è l’armamento degli operai e dei contadin?" Contro chi si armeranno gli operai e i contadini? Se la parola d’ordine del loro armamento non è una frase, una mascheratura, un sotterfugio, ma un invito all’azione, essa non ha un carattere meno aspro e radicale della formula dei soviet. Si può mai supporre che il popolo armato tolleri accanto a sé e sopra di sé il potere di governo di una burocrazia estranea ed ostile? Dichiarare che l’ora dei soviet è ancora di là da venire, e allo stesso tempo lanciare la parola d’ordine di armare gli operai e i contadini, significa voler seminare confusione. Soltanto i soviet possono, nel procedere dinamico della rivoluzione, diventare organi capaci di armare le masse e guidarle in battaglia».

La rivoluzione agraria non sarebbe mai stata condotta a termine da un governo piccolo borghese, sia pure “di sinistra”.

Nello stesso plenum del maggio 1927, in cui all’opposizione fu consentito di parlare soltanto per breve tempo e i delegati stranieri non ebbero neppure diritto di leggere le tesi dell’Opposizione russa, lo iugoslavo Vujovic disse:

     «Il governo di Wuhan potrà realizzare la rivoluzione agraria solo se l’egemonia del proletariato sarà assicurata. E l’unico mezzo per ottenere l’egemonia risiede non già nel fare concessioni alla piccola borghesia, che oscilla costantemente fra il proletariato e la grande borghesia, e infine passerà dalla parte del più forte, ma soltanto nell’organizzare le forze del proletariato e del contadiname e conferire loro una forma organizzativa, i soviet; cosa possibile soltanto se noi sapremo non solo mobilitare le grandi masse, ma conquistarle alla direzione del partito comunista (...) La rivoluzione cinese, la stessa rivoluzione agraria in Cina, potranno vincere soltanto sotto la bandiera dei soviet, sotto il vessillo del leninismo».

Ancora una volta i fatti dovevano confermare la verità della prognosi contenuta in ogni pagina dei testi fondamentali del marxismo. L’Opposizione russa, allora, sostenne un’epica battaglia in difesa, prima ancora che di se stessa, della nostra comune dottrina, scolpita a caratteri di fiamma nelle opere di Marx e di Engels e nei fatti del glorioso Ottobre bolscevico. Noi, che non abbiamo mai nascosto il giudizio sui limiti e insufficienze dell’Opposizione, siamo i primi a riconoscerle questo merito.

In Cina il famoso “centro rivoluzionario” stava intanto dimostrando nei fatti le tesi di Trotzki. In realtà esso, pur scomunicando ufficialmente Chiang, non osò intraprendere alcuna azione contro di lui, e proprio questa sua incapacità ad agire fece sì che i suoi nemici aumentassero di giorno in giorno. La borghesia rialzò la testa vedendo come Chiang avesse saputo far piazza pulita dei comunisti, e si oppose con forza ad ogni rivendicazione operaia chiudendo le fabbriche e trasferendo i suoi capitali a Shanghai. Quando i lavoratori reagivano a questi fatti di aperto sabotaggio, o si mettevano in sciopero spinti dalle loro terribili condizioni di vita (rese ancora più difficili dalla situazione contingente), il governo e lo stesso Consiglio Generale dei sindacati diretto dai comunisti li trattavano da “controrivoluzionari” e li invitavano a desistere dagli “eccessi” per non alienarsi le simpatie della borghesia.

All’indice - All’inizio capitolo 

 

 

14. Il secondo “tradimento”

Nelle campagne i proprietari terrieri videro nel colpo di Chiang il segnale della riscossa e incominciarono ad opporsi al movimento contadino organizzando le famose milizie padronali: i Min Tuan. Alle richieste di aiuto contro queste squadracce che i contadini rivolgevano al governo esso rispondeva deprecando gli “eccessi” del movimento rurale.

Alcuni generali si ammutinarono e passarono a Chiang Kai-shek. Le grandi potenze europee assediavano con le loro flotte la stessa Wuhan e non davano nessun credito al suo governo.

Intanto, nell’Hunan e nell’Hupeh il movimento contadino raggiungeva il culmine nella primavera del 1927: le leghe contadine crebbero fino ad organizzare circa 10 milioni di agricoltori. Si procedette alla confisca delle terre dei proprietari fondiari e alla loro divisione, si cacciarono dai villaggi i funzionari corrotti, si instaurarono tribunali contadini per giudicare i latifondisti.

Ma il governo, che nel frattempo – come abbiamo detto – aveva assunto due comunisti, uno al ministero dell’industria e uno al ministero dell’agricoltura, interveniva solo come freno alle azioni spontanee. In realtà tutto il programma agrario del governo di Wuhan consisteva nel rimandare la riforma agraria a dopo la fine della rivoluzione nazionale! E anche i comunisti non poterono mai dare ai contadini una direttiva, perché ogni riforma agraria seria esigeva che si attaccassero i privilegi della borghesia, con la quale invece volevano collaborare. Lo stesso ministro “comunista” dell’agricoltura fece sapere ai contadini che i loro eccessi sarebbero stati puniti, e che non si doveva a nessun costo attentare alla proprietà terriera degli ufficiali dell’esercito rivoluzionario. Ciò significava che nessuna proprietà doveva essere espropriata, dato che tutti i proprietari terrieri erano in qualche modo legati a ufficiali dell’esercito “rivoluzionario”.

Il governo rifiutava di mandare truppe ai contadini assaliti dai Min Tuan e dalle truppe dei generali ribelli, e nello stesso tempo impediva loro di armarsi e di usare per difendersi le armi che avevano a disposizione. Tutto questo ebbe per effetto l’abbandono del movimento alla repressione, che culminò nel massacro di Chang-sha, capitale dell’Hunan, il 21 maggio 1927. Si ripeté quello che era successo un mese prima a Shanghai, e questa volta per mano di un generale del governo “rivoluzionario” di Wuhan. Dal 21 al 24 di maggio si susseguirono le esecuzioni in massa di contadini: uomini, donne e bambini venivano ogni mattina ed ogni sera uccisi a colpi di mitraglia sotto le mura della città.

Subito dopo il 21 maggio i contadini fecero un tentativo per reagire e organizzarono le loro scarse forze in un esercito che doveva marciare su Chang-sha dove in quel momento si trovavano 1700 soldati circa. Ma all’ultima ora il Consiglio Generale dei sindacati dette ordine di non muoversi «perché il governo aveva nominato un’apposita commissione per far luce sull’incidente». I contadini si ritirarono, così Chiang Kai-shek ebbe il tempo di mandare rinforzi alla guarnigione di Chang-sha, e la “commissione di inchiesta” fu rispedita a Wuhan.

Da quel momento la reazione infuria in tutto l’Hunan e l’Hupeh, mentre il governo di Wuhan prende una posizione di aperta difesa della repressione. Il 26 giugno un suo rappresentante afferma:

     «Ho constatato che il movimento operaio e contadino, mal diretto dai suoi capi, era sfuggito al controllo scatenando un regno del terrore contro il popolo (...) Di fronte a questo stato di cose, i soldati di stanza nell’Hunan sono insorti in autodifesa»!

Proprio negli stessi giorni si era riunito a Mosca il Plenum dell’Esecutivo del Comintern, che aveva ribadito le posizioni di Stalin, invitando i comunisti cinesi a mantenere la loro alleanza al Kuomintang e a «frenare il movimento contadino usando l’autorità del partito», e si era limitato a chiedere, vagamente, che fossero processati e puniti i controrivoluzionari. Lo stesso giorno del massacro di Chang-sha, del resto, l’organo ufficiale del Comintern ribadiva il macabro concetto che gli «operai e i contadini poveri» erano «la base più sicura» del Kuomintang, quindi della rivoluzione cinese: in realtà ne erano le vittime dopo di esserne stati gli strumenti.

L’1 giugno un telegramma parte dal Cremlino: esso ordina al P.C.C.: 1) di confiscare le terre dei proprietari grandi e piccoli senza però toccare quelle degli ufficiali; 2) frenare l’azione “troppo vigorosa” dei contadini; 3) cacciare i generali infidi, armando 20.000 comunisti e scegliendo 50.000 contadini e operai per organizzare un nuovo esercito; 4) introdurre nuovi elementi operai e contadini nel Comitato Centrale del Kuomintang, per sostituire i vecchi componenti; 5) convocare un tribunale rivoluzionario sotto la presidenza di un membro conosciuto dal Kuomintang. Un colpo al cerchio e uno alla botte: appoggiare il governo, anzi rafforzarlo con nuovi elementi proletari, e insieme «organizzare un nuovo esercito»; procedere alla confisca di terre di grandi e piccoli proprietari, ma risparmiare quelle degli “ufficiali”, come se questi appartenessero ad una classe diversa; processare i controrivoluzionari, ma chiamare a presiedere la corte giudicante un membro della stesso partito che li alleva in seno!

Ignaro di queste disposizioni, ma prevedendo ciò che il recente Plenum avrebbe finito per decidere e acutamente sensibile agli sviluppi di una situazione drammatica, il 28 maggio Trotzki invia all’esecutivo dell’Internazionale una nuova lettera del seguente tenore:

     «Il Plenum farebbe bene a mettere una croce sulla risoluzione Bucharin, e sostituirla con un’altra così concepita: 1) i contadini e gli operai non devono fidarsi dei capi del Kuomintang di sinistra, ma creare i loro Soviet unendosi ai soldati; 2) i Soviet devono armare gli operai e i contadini di avanguardia; 3) il Partito Comunista deve assicurarsi una indipendenza completa, darsi una stampa quotidiana, dirigere l’opera di instaurazione dei Soviet; 4) le terre dei proprietari fondiari devono essere tutte confiscate senza indugio; 5) la burocrazia reazionaria deve essere immediatamente soppressa; 6) i generali traditori e i controrivoluzionari in genere devono essere fucilati sul posto; 7) bisogna dirigerci nell’insieme verso una dittatura rivoluzionaria mediante consigli di operai e contadini».

E, nel discorso del 1 agosto davanti al Comitato Centrale e alla Commissione di Controllo del Partito Russo, dirà rifacendosi al nuovo “tradimento”, quello appunto del Kuomintang di sinistra: 

     «Capite bene: non si tratta di tradimenti individuali di militanti cinesi del Kuomintang, di condottieri cinesi di destra o di sinistra, di funzionari sindacali inglesi, di comunisti cinesi o britannici. Quando si viaggia in treno, sembra che sia il paesaggio a spostarsi. Tutto il male sta nel fatto che voi avete avuto fiducia in coloro che mai avrebbero dovuto ispirarvela e avete sottovalutato la preparazione rivoluzionaria delle masse, la quale esige prima di tutto che si inoculi in loro la diffidenza verso i riformisti e i vari centristi di “sinistra”, come verso ogni spirito del giusto mezzo. La virtù cardinale del bolscevismo è di possedere questa diffidenza ad un grado supremo (...) mentre voi avete agito e agite in senso diametralmente opposto. Voi inoculate nei giovani Partiti Comunisti la speranza che la borghesia liberale si sposterà un po’ più a sinistra, e la fiducia nei politicanti liberali delle trade-unions. Voi impedite l’educazione dei bolscevichi inglesi e cinesi. Ecco da dove vengono i “tradimenti” che ogni volta vi colgono di sorpresa!».

Non era occorso molto tempo per lasciarsi prendere una nuova volta alla sprovvista: nel giugno 1927 la repressione imperversa in tutta la Cina. I sindacati sono dappertutto ridotti alla clandestinità salvo a Wuhan. I comunisti sono stati espulsi dal governo regionale del Jiangxi. Anche a Wuhan si comincia a parlare di espellere i comunisti dal Kuomintang, perché «non hanno tenuto fede ai loro impegni e hanno sabotato le azioni del fronte nazionale». I comunisti sono ritenuti responsabili degli “eccessi” del movimento agrario e del movimento operaio. In questa situazione, i ministri “comunisti” si offrono spontaneamente di abbandonare il governo pur di “mantenere l’unità”, ed effettivamente si dimettono. Ancora il 29 giugno, l’organo dell’Internazionale ribadisce:

     «Chi realizzerà la rivoluzione agraria? Per il suo passato storico, per la sua composizione sociale, per le prospettive del suo sviluppo, il Kuomintang può e deve essere trasformato in organo della dittatura democratica».

Il 15 luglio, anche a Wuhan si scatena la reazione aperta. Il consiglio del Kuomintang, riunendosi in quella data, impone ai comunisti membri del Kuomintang di abbandonare il loro partito. Nei giorni successivi si procede a mano armata contro i sindacati. Qualche giorno dopo Nanchino e Wuhan si scambiano telegrammi di felicitazioni e mettono da parte «ogni sentimento di avversità».

Così finisce il secondo atto della tragedia del proletariato cinese, sacrificato dallo stalinismo sull’altare dell’unità nazionale.

All’indice - All’inizio capitolo

 

  

15. Il terzo atto della tragedia:
Le rivolte del “raccolto d’autunno” e la Comune di Canton

Le conseguenze della sottomissione del proletariato e del movimento contadino alla borghesia, impersonata dal Kuomintang, avevano significato la distruzione fisica del movimento rivoluzionario in Cina. La borghesia aveva dimostrato ancora una volta di essere incapace di dirigere qualunque movimento rivoluzionario anche solo nazionale e i fatti del 1925-1927 avevano confermato punto per punto le tesi di Lenin e di Trotzki e dimostrate false le tesi di Stalin. Lo stalinismo, cioè – come teniamo ad affermare ancora una volta – la controrivoluzione che stava distruggendo la dittatura proletaria in Russia, aveva sacrificato ai suoi interessi di nazione il proletariato cinese.

Dopo il tradimento del governo “rivoluzionario” di Wuhan, la repressione e il terrore bianco si abbattono su tutta la Cina. Vale la pena di riportare alcuni dati dell’ondata repressiva condotta contro gli operai e i contadini da coloro che, secondo Stalin, avrebbero dovuto essere i condottieri della rivoluzione. La Cina Weekly Review del 20 agosto 1927 scriveva: 

     «Ecco i fatti della repressione. Da quattro mesi un massacro elevato a sistema si svolge nel territorio controllato da Chiang Kai-shek. Esso ha avuto per effetto la distruzione delle organizzazioni popolari del King su, del Chekiang, del Fujian e del Guangdong, cosicché in queste province le sedi del Kuomintang, i sindacati operai, le leghe contadine, le associazioni femminili, appaiono trasformate da organi battaglieri e decisi in organi docili e senza spina dorsale, così efficacemente “riformati” da non esprimere che la volontà del padrone. Negli ultimi tre mesi la reazione, muovendo dal basso Chang Jiang, si è estesa sino a spadroneggiare su tutto il territorio sotto il controllo cosiddetto nazionalista (...) Ai metodi correnti di fucilazione e decapitazione, sono subentrati metodi di tortura e mutilazione che ricordano gli orrori del medioevo e dell’inquisizione. I risultati sono stati impressionanti. I sindacati e le leghe contadine dell’Hunan, probabilmente i meglio organizzati in tutto il paese, sono completamente distrutti. I loro dirigenti hanno evitato di essere bruciati nell’olio bollente, sepolti vivi, strangolati lentamente con fil di ferro, per non parlare di altre forme di assassinio e di tortura al cui solo pensiero c’è da inorridire, emigrando o nascondendosi in modo da non poter essere facilmente scoperti».

La segreteria del Sindacato Generale dei paesi del Pacifico riferiva il 15 settembre:

      «Non passa giorno senza l’esecuzione di numerosi operai e sindacalisti (...) Il movimento di massa è oggi schiacciato. Tutte le organizzazioni sindacali e le leghe contadine vengono “riorganizzate”: in altre parole, prima si provvede a disorganizzarle, poi a disperderle, finché ciò che ne rimane è sottoposto alla frusta di un caporale qualsiasi. A Jiujiang come a Wuhan tutte le organizzazioni sindacali sono state sciolte e molti dei loro dirigenti giustiziati. Reparti militari hanno occupato quasi tutte le sedi dei sindacati, facendo strage della proprietà, dei documenti, dei preziosi archivi di queste organizzazioni (...) Quanto avviene a Wuhan è l’esatta ripetizione di ciò che era successo tempo addietro a Canton, quando il generale Li Chi-shen distrusse e poi “riorganizzò” i sindacati e le associazioni contadine; o del regime instaurato a Shanghai da Chiang Kai-shek».

Ma la decapitazione fisica del movimento, che fonti parziali riportano all’esecuzione di circa 25.000 proletari, comunisti e dirigenti operai e contadini, e la distruzione delle organizzazioni operaie e contadine, non furono i soli risultati che la reazione borghese ottenne. La politica di sottomissione al Kuomintang perseguita in tanti anni dal Partito gli alienò l’appoggio delle masse, che si sentivano tradite dai loro stessi dirigenti e che avevano perduto ogni fiducia nelle direttive comuniste. I contadini disertavano le loro organizzazioni e si allontanavano dalla lotta politica. Gli operai delle città non si mobilitavano più nemmeno per la difesa dei loro interessi immediati. Essi abbandonarono anche il Partito Comunista che, mentre nell’aprile 1927 contava ancora 60 mila aderenti di cui il 53% fra gli operai delle città, esattamente un anno dopo doveva ammettere di:

     «Non avere nemmeno una cellula sana fra gli operai dell’industria».

I sindacati controllati dai comunisti che all’inizio del 1927 organizzavano 200 mila operai nella sola Canton, alla fine dello stesso anno abbracciavano 20 mila operai e non erano in grado di dare un ordine di sciopero generale. Alla distruzione fisica del movimento si aggiunse la demoralizzazione e la sfiducia delle masse nei confronti dei comunisti. Il movimento era schiantato.
 

* * *


A questo punto Stalin dette ordine ai comunisti di insorgere «innalzando ancora la bandiera del Kuomintang rivoluzionario». La responsabilità della sconfitta fu poi addossata alla direzione del Partito Comunista Cinese, che si sarebbe rifiutato di seguire le direttive di Mosca. Alcuni dirigenti furono cambiati, e lo stesso partito che, quanto aveva in pugno un movimento di milioni di uomini, era stato costretto a sottomettersi alla borghesia, ora che il movimento era in rotta e la sua stessa organizzazione non era più se non l’ombra di se stessa, venne spinto sulla via dell’insurrezione. In questo modo Stalin gettò nella fornace di una disperata avventura gli ultimi residui delle forze rivoluzionarie.

È interessante vedere come, dopo gli ultimi tragici avvenimenti che abbiamo descritto, Stalin giustificasse ancora la sconfitta subìta dal proletariato cinese sostenendo che questo «aveva commesso un grave errore a muoversi in maniera autonoma contro la borghesia, prima che questa si fosse completamente screditata». La borghesia cinese si era screditata, è vero: ma, nel fare questo aveva anche distrutto la forza organizzativa del proletariato e dei contadini cinesi. La controrivoluzione mondiale, impersonata da Stalin, chiedeva il sacrificio totale del proletariato cinese, e la richiesta avvenne sotto forma di un ordine di “insorgere”, insorgere quando la sconfitta era sicura, mentre l’insurrezione era stata vietata quanto la vittoria sarebbe stata possibile!

Alla fine del 1927, il Partito Comunista Cinese, opportunamente “riformato” nella sua direzione secondo gli ordini di Mosca, dette il via ad una serie di rivolte contadine che trovarono il loro alimento nella disperazione delle masse sottoposte ad una spietata repressione, e che vanno sotto il nome di rivolte del raccolto di autunno. Tutte necessariamente fallirono, e significarono solamente la distruzione delle ultime forze rivoluzionarie del movimento contadino. A Wuhan e in altre città i comunisti tentarono con scarso successo di rimettere in moto il proletariato, ma in genere non erano più in grado nemmeno di proclamare uno sciopero dato che i sindacati erano stati tutti distrutti o “riorganizzati”.

A Canton, il 13 dicembre, il Partito organizzò una insurrezione cercando di approfittare di un momentaneo contrasto fra i diversi generali e signori della guerra che aveva allontanato dalla città le truppe del generale Li Chi-shen. Le forze del Partito a Canton erano dell’ordine di tremila o quattromila combattenti, fra cui un unico reggimento di cadetti dell’accademia militare di Whampoa. Ma l’influenza del partito sulle masse operaie era così ridotta che non fu possibile dare l’ordine di sciopero generale. Tutte le speranze di vittoria dipendevano da un attacco che cogliesse di sorpresa durante la notte le truppe del Kuomintang. Successivamente l’insurrezione fu anticipata dal 13 all’11, per ragioni di sicurezza. Nella notte del 10 gli insorti attaccarono vari punti della città; nel pomeriggio dell’11 una parte di Canton era nelle loro mani, ed essi procedettero alla proclamazione della Comune, costituendo un governo rivoluzionario, il quale poté solo, con mezzi di fortuna, stampare un proclama, distribuito agli operai per informarli che la tanto attesa rivoluzione era finalmente avvenuta, e che le rivendicazioni del proletariato e dei contadini poveri sarebbero state finalmente attuate dal nuovo governo sovietico.

Ma la meravigliosa opera di questo pugno di combattenti eroici giungeva troppo tardi, e si scontrò necessariamente con il reflusso del movimento delle masse. Le stesse parole d’ordine che pochi mesi prima avrebbero visto muoversi centinaia di migliaia di operai se fossero state lanciate quando il movimento era in piedi, ora che era distrutto riscossero l’adesione solo di una piccola parte del proletariato cantonese. La proclamazione della Comune non ebbe nemmeno il potere di far scendere in sciopero tutti gli operai, e furono i marittimi e i ferrovieri di Canton che provvidero al trasporto delle truppe destinate a schiacciare il governo rivoluzionario. In questa terribile situazione, tuttavia, i comunisti resistettero fino alla sera del 13 dicembre contro l’assalto di forze immensamente superiori. La fine dei combattenti significo l’inizio della repressione generale contro gli operai, che furono fucilati, bruciati vivi, decapitati a migliaia.

* * *

Il commento dell’Internazionale comunista, ormai completamente al servizio dello Stato russo, a questi fatti sanguinosi fu che essi «erano stati giusti e necessari» e che «v’erano stati soltanto errori di direzione a carattere locale». Tutto, insomma, andava per il meglio, e il Partito Comunista Cinese doveva procedere all’organizzazione di nuove insurrezioni «sulla cresta della marea rivoluzionaria di cui la rivolta di Canton era stato il primo annuncio». In realtà, con la Comune di Canton termina tutto un periodo rivoluzionario per il proletariato cinese. La classe proletaria si era mossa a cominciare dal 1920 e, insieme alle masse dei contadini poveri, aveva dato vita ad un movimento rivoluzionario di enorme ampiezza; un movimento che, sotto la guida del Partito Comunista, avrebbe potuto battere nello stesso tempo l’imperialismo mondiale e la borghesia cinese e imporre sulla Cina la dittatura proletaria. Ma questo movimento magnifico, che abbiamo cercato in poche righe di riassumere, non raggiunse questo obiettivo – che avrebbe significato la ripresa del movimento proletario alla scala mondiale – perché la sua forza era stata messa al servizio della borghesia cinese dalla politica dell’Internazionale comunista legata alla Stato russo ormai sulla via della completa degenerazione. Lo stalinismo vendette alla borghesia i proletari cinesi, e la borghesia schiacciò il proletariato indigeno e si assicurò una posizione di forza per schiacciare il proletariato di tutti i paesi.

Non a caso è proprio il 1927 l’anno in cui Stalin e suoi sgherri la fanno finita con l’Opposizione di sinistra in Russia.

Gli avvenimenti successivi e il carattere stesso della rivoluzione cinese, che nel 1949 porterà alla costituzione della Cina in Stato nazionale indipendente, si spiegano solo alla luce dei tragici avvenimenti del 1925-1927. Infatti la sconfitta del proletariato cinese e la repressione a cui fu sottoposto favorirono il trasferimento del moto rivoluzionario delle città alle campagne. Il successivo movimento rivoluzionario in Cina vede il proletariato completamente assente e si qualifica come un movimento piccolo borghese e contadino, cioè racchiuso completamente nell’ambito della rivoluzione nazionale borghese. Il partito che dirige questo movimento, anche se continua a chiamarsi Partito Comunista, di comunista non ha più nulla: è diventato nelle sue parole stesse il “vero Kuomintang”, cioè il vero rappresentante della borghesia e della piccola borghesia cinese.

* * *

 La sconfitta del proletariato poneva il Partito comunista cinese di fronte a due sole strade: o il ripudio della tattica seguita dall’Internazionale staliniana, e la riaffermazione del ruolo autonomo e dirigente del proletariato nella rivoluzione nazionale, o l’abbandono di ogni posizione proletaria e la prosecuzione della tattica che aveva portato il proletariato alla sconfitta. Lo stalinismo aveva sottomesso il movimento alla direzione della borghesia impersonata dal Kuomintang, e il Kuomintang l’aveva schiacciato. Si trattava di tirare le lezioni di queste esperienze e tornare alla tesi di Lenin, che a qualunque rivoluzione borghese il proletariato e i contadini poveri non possono dare altro sbocco che la loro dittatura; che cioè i contadini poveri devono schierarsi, anche nelle colonie, contro la borghesia, sotto la bandiera del proletariato rivoluzionario; oppure diventare il partito della rivoluzione borghese, subordinando lo sviluppo della rivoluzione alla esigenze del capitale.

Le forze oggettive spingevano verso questa seconda soluzione. Il proletariato era sconfitto, nelle città infuriava la repressione, la dittatura comunista in Russia era crollata sotto i colpi dello stalinismo e delle classi non proletarie, ogni possibilità di rivoluzione proletaria in Europa era, almeno per il momento, inesistente dopo che Stalin aveva sabotato lo sciopero generale in Inghilterra. Il Partito comunista cinese, forzato a ritirarsi nelle campagne, continuò esattamente sulla via intrapresa nel 1923: ribadì che i “Tre principi del popolo”, cioè la prospettiva borghese della rivoluzione, erano i suoi principi, fece in modo che il movimento rivoluzionario si distaccasse sempre più dalle città riprendendo le tesi di Stalin sulla necessità di una “tappa agraria” della rivoluzione; sostenne che la sconfitta del 1925-27 era stata solo un semplice episodio dovuto alla incapacità o al tradimento di alcuni dirigenti, e che la rivoluzione era passata «a un grado superiore di sviluppo».

Quella che nel 1923 e 1925 era, secondo Stalin, una temporanea e necessaria sottomissione del proletariato alle esigenze borghesi, divenne ora un fine in sé, il fine di tutto il movimento rivoluzionario, dal quale non solo ogni direzione ma ogni reale partecipazione del proletariato era esclusa. La conseguenza di queste posizioni fu l’allontanamento completo del proletariato dal movimento rivoluzionario, e lo stabilirsi di questo nelle zone più agricole e arretrate della Cina, da dove, dopo la seconda guerra mondiale, le armate di Mao dilagarono a conquistare le città. Il movimento contadino, che nonostante tutto persisteva ancora dopo il 1927, non servì a ridare ossigeno e forza al proletariato, ma al contrario tutte le energie superstiti del proletariato servirono a marcare il carattere contadino e borghese della rivoluzione. Dal 1927 in poi, il Partito Comunista Cinese, pur continuando a chiamarsi proletario e comunista, diventa il vero Kuomintang, cioè il vero partito della borghesia rivoluzionaria. La sua base sociale è costituita da contadini, i suoi obiettivi sono i Tre principi del popolo e la realizzazione dell’unità e dell’indipendenza, in nome non della dittatura proletaria, ma del “Blocco delle quattro classi”, cioè dello sviluppo borghese.

Senza tener presente tutto questo, non si può capire né il successivo andamento della rivoluzione cinese né le cause delle difficoltà in cui attualmente si dibatte lo Stato cinese; non si può capire insomma che cosa sia la Cina oggi, a meno di ripetere le solite vuote frasi sul “pensiero di Mao” (anzi del “presidente Mao”) e sulla “grande rivoluzione culturale” che non dicono nulla e nulla chiariscono agli occhi del proletariato occidentale, ubriacato dall’opportunismo di partiti sedicenti comunisti.

* * *

Il completo abbandono di ogni prospettiva comunista segna il termine del periodo rivoluzionario in Cina, che abbiamo tracciato a grandi linee negli articoli precedenti. La visione proletaria e comunista della rivoluzione mondiale, difesa dai bolscevichi e da Lenin contro i socialdemocratici, e che aveva portato alla vittoria della dittatura proletaria in Russia e alla formazione dell’Internazionale Comunista, si era spezzata contro gli ostacoli che la rivoluzione aveva incontrato in Europa e che avevano travolto anche il bastione proletario russo; il crollo del potere proletario a Mosca ha trascinato dietro di sé la sconfitta della rivoluzione cinese.

È il 1927 l’anno in cui l’opposizione di sinistra viene espulsa dal partito bolscevico e messa nelle mani della polizia segreta; è il 1927 l’anno in cui la corrente di sinistra viene estromessa da tutti i partiti comunisti di occidente. La sconfitta del proletariato cinese è dunque l’ultimo atto di una tragedia alla scala mondiale. Dal 1914 il proletariato aveva fatto il suo grande balzo in avanti muovendosi sul suo terreno di classe contro il modo di produzione capitalistico. La vittoria in Russia nel 1917, la sconfitta in Ungheria e Germania nel 1918-1919, la sconfitta in Italia nel 1920-1923, il crollo della Russia e la degenerazione dell’Internazionale Comunista, sono le tappe del grande dramma.

Il proletariato poteva vincere la sua battaglia solo alla scala mondiale; alla scala mondiale fu sconfitto, e la disfatta fu così completa che le sue stesse organizzazioni di classe passarono nelle mani del nemico e i partiti comunisti divennero quello che oggi sono: i più validi pilastri della conservazione borghese. Dal 1927 in poi, ogni movimento rivoluzionario in qualunque paese porta il segno di questa vittoria mondiale della borghesia e del suo modo di produzione, e sotto questo segno si sono svolti i movimenti nazionali rivoluzionari dei paesi coloniali, che non hanno mai potuto uscire dai limiti loro imposti dal dominio del capitale mondiale, e non lo potranno senza la ripresa della lotta rivoluzionaria del proletariato dei paesi a capitalismo sviluppato.

All’indice - All’inizio capitolo 

 

16. Il periodo delle “Repubbliche sovietiche” 1925-37

Espulso dai centri urbani della sconfitta del 1927, il P.C.C., riorganizzò le sue forze nell’entroterra agrario in cui l’opposizione al regime del Kuomintang non poteva essere tanto facilmente repressa.

Abbiamo visto come in questo modo il P.C.C. si fosse trasformato nel “vero Kuomintang” e avesse perduto qualunque caratteristica proletaria e comunista divenendo il vero rappresentante della rivoluzione nazionale borghese. Naturalmente, esso mantenne l’etichetta di partito “proletario”, ma niente nella sua politica indica che abbia seguito una linea aderente agli interessi della classe operaia. Fin dal principio subordinò la sua vita e le sue possibilità di vittoria alla capacità di barcamenarsi fra gli interessi contrastanti dei diversi strati sociali che si muovevano nelle campagne, e questo imperativo di unità nazionale e di “blocco delle classi”, che in definitiva significava sacrificare gli interessi dei contadini poveri e del proletariato alle necessità della formazione di uno Stato nazionale indipendente, è la caratteristica che contraddistingue tutto il corso della sua politica, fino alla presa del potere nel 1949.

È naturale, e non contraddice quanto abbiamo detto finora, che anche su questa base politica il P.C.C. riuscisse veramente a mobilitare il contadiname e la piccola borghesia rurale ed urbana, divenuti ben presto la sua base sociale. Da una parte il proletariato cinese aveva subito una sconfitta troppo cocente perché potesse riprendersi in breve come classe autonoma. Dall’altra, in questo stesso periodo, la degenerazione dello Stato russo e del movimento comunista alla scala internazionale raggiunse il culmine; la prospettiva della rivoluzione mondiale e della dittatura proletaria scompare completamente sotto il peso di una serie di sconfitte fisiche, e di un completo travisamento dei principi stessi su cui il movimento comunista era sorto. L’alleanza naturale fra controrivoluzione borghese e tradimento stalinista, di cui abbiamo mostrato gli effetti in Cina, e la vittoria di questa alleanza alla scala mondiale, fece sì che il proletariato fosse costretto per una intera epoca storica ad uscire come classe dalla scena della storia dopo di aver giocato un ruolo di primo piano nel decennio precedente.

L’indirizzo comunista rimase patrimonio della tenace Sinistra italiana, che lo difese e lo restaurò, non nella previsione di vittorie immediate sul nemico borghese, che ormai premeva il suo tallone di ferro sul collo del proletariato, ma di una non vicina ripresa del movimento di classe. Nell’immediato il proletariato e il suo programma comunista erano battuti; questo significava che per un intero periodo storico i movimenti di lotta in tutto il mondo sarebbero stati subordinati all’indirizzo della borghesia vittoriosa.

Le masse contadine e lo stesso proletariato cinese subirono anch’essi questa sottomissione; il P.C.C. la realizzò da un punto di vista programmatico ed organizzativo. D’altra parte il P.C.C. attuava, entro i limiti borghesi che abbiamo delineato, il programma di liberazione e unificazione del paese che il Kuomintang, spaventato da un proletariato all’attacco, aveva abbandonato. Nei confronti del Kuomintang, completamente sottomesso agli interessi dell’imperialismo mondiale e della borghesia compradora, scatenante campagne di vera e propria dilapidazione e saccheggio di ogni ricchezza a vantaggio degli imperialisti, e incapace di difendere perfino il territorio nazionale dall’invasione giapponese, il P.C.C. appariva necessariamente come il rappresentante degli interessi “popolari”. E se mille volte il P.C.C. sacrificò gli interessi dei contadini poveri e dei proletari a quelli della borghesia, questo era pur sempre qualcosa di meglio e addirittura di rivoluzionario rispetto alle repressioni, ai bagni di sangue, al saccheggio sistematico e al servilismo più vile messi in atto dal Kuomintang. Queste considerazioni servono a spiegare perché la politica del P.C.C., che niente ebbe mai di comunista, trovasse nelle campagne cinesi il pieno appoggio delle masse contadine, e potesse, sulla base di questo appoggio, sottoporre al suo controllo armato un certo territorio fin dal 1930, difendendolo per lunghi anni contro i ripetuti assalti delle truppe del Kuomintang.

Variabile a seconda delle fortune militari delle truppe “comuniste”, questo territorio fu detto “repubblica sovietica”, anche se di sovietico non aveva che il nome. Fu qui che il P.C.C. attuò la sua politica agraria qualificandosi non come proletario e comunista, ma borghese-moderato. I soviet del “territorio sovietico” non rappresentavano altro che forme vuote, in quanto il loro contenuto non rispondeva certo agli interessi dei contadini poveri. Lo ammette lo stesso Mao nel 1931:

     «Il loro appellativo non corrisponde a quello che in realtà sono (...) Essi non possono servire all’educazione politica delle masse (...) Gli intellettuali e gli arrivisti vi hanno facilmente partita vinta (...) All’inizio i piccoli proprietari terrieri e i contadini ricchi fanno di tutto per entrare nei comitati esecutivi, soprattutto alla scala cantonale: sfoggiando bracciali rossi, simulando entusiasmo, s’infilano con l’astuzia nei comitati esecutivi prendendo in mano tutto e riducono a semplici comparse i membri del comitato che rappresentano i contadini poveri».

Nella questione agraria, la prospettiva proletaria della nazionalizzazione della terra come base e punto di partenza di una radicale rivoluzione nei rapporti di produzione fu completamente abbandonata. Nel periodo 1925-1927, la necessità della nazionalizzazione della terra come base della rivoluzione agraria era concordemente riconosciuta perfino dal Kuomintang, il quale a parole aveva promesso di attuarla uno volta stabilito il suo potere su tutta la Cina. La rivendicazione della nazionalizzazione della terra è anche presente nel programma della Comune di Canton del 1927, e ancora nel 1928 il 6° Congresso del P.C.C. riconosce:

     «L’impossibilità di risolvere la questione agraria attraverso la via riformista borghese, attraverso piccole concessioni al contadiname agiato e agli affittuari, a causa del predominio della piccola proprietà fondiaria che non può neanche sopportare un abbassamento degli affitti, oltre che della mancanza di fondi agrari di manovra».

La soluzione della nazionalizzazione della terra era in Cina l’unica misura veramente rivoluzionaria, e anche l’unica possibile date le condizioni dell’agricoltura, in primo luogo per la necessità di un controllo centralizzato e perciò statale del regime delle acque; in secondo luogo per il predominio della piccola proprietà che impediva qualsiasi ripartizione egualitaria della terra; in terzo luogo per il fatto stesso che la maggioranza assoluta della popolazione agricola era costituita da salariati agricoli e da contadini senza terra.

Come abbiamo già indicato, in Cina la proprietà terriera statale era notevolmente ridotta e rappresentava nel 1929 solo il 6,7% dell’intera superficie coltivata, mentre il 93,3% si trovava nelle mani di proprietari privati. Mancava perciò quel fondo terriero in possesso ad una classe feudale da cui attingere per la ripartizione egualitaria, e questa diveniva una pura illusione e un reale pericolo per il successivo sviluppo delle forze produttive. Nel 1946, il ministero dell’agricoltura cinese dava i seguenti dati per tutta la Cina: 94 milioni di ettari coltivati da 329 milioni di contadini ripartiti in 63.200.000 aziende, cioè in media 0,28 ettari a testa (2.800 mq) e 1,48 ettari per azienda. Nel Sud della Cina coltivato a riso, la parcellizzazione era ancora più estesa che al Nord. Ripartire la terra in queste condizioni avrebbe significato condannare a morte l’agricoltura cinese e impedire qualsiasi possibilità di sviluppo delle forze produttive; è chiaro infatti che famiglie contadine di cinque persone in media viventi su 1,48 ettari di terra produrranno a stento quanto basta al loro proprio consumo fisico e in moltissimi casi non raggiungeranno neanche questo. Ne deriva che la nazionalizzazione del suolo è l’unica misura che, attraverso il trasferimento della rendita fondiaria allo Stato e alla concentrazione della proprietà terriera, potesse costituire la base per la formazione di una agricoltura moderna.

Ma sostenere questa rivendicazione avrebbe significato scatenare la lotta di classe nelle campagne, appoggiarsi direttamente sulla maggioranza dei contadini senza terra e dei piccolissimi fittavoli contro i contadini medi e ricchi e contro i proprietari fondiari. Questa linea, la linea cioè di una radicale riforma agraria, non poteva essere seguita da un partito che vedeva nelle rivolte contadine e nell’armamento delle campagne solo un mezzo per condurre a buon fine il compito dell’unificazione e dell’indipendenza del paese. Il P.C.C. rinnegò il suo programma agrario non meno del Kuomintang e, invece di tendere a scatenare la lotta di classe nelle campagne, tese a reprimerla, da una parte piegandosi alle illusioni dei contadini sulla ripartizione egualitaria, dall’altra opponendosi agli “eccessi” dei contadini poveri; cioè, da una parte prometteva la ripartizione della terra, dall’altra si opponeva ai contadini quando la prendevano sul serio e attuavano spontaneamente questa ripartizione.

Già nel 1931 il congresso pancinese dei soviet nelle “repubbliche sovietiche” adottò una legge agraria che non conteneva più la rivendicazione della nazionalizzazione, ma che è ancora più radicale di tutte le successive, compresa la riforma del 1950 a potere conquistato. Essa stabiliva: 1) la confisca di tutte le terre dei grossi proprietari fondiari; 2) la loro redistribuzione egualitaria; 3) la libertà per i contadini di vendere affittare o trasmettere in eredità le terre ricevute. Ma proclamava che «la nazionalizzazione del suolo non è possibile che con la vittoria della rivoluzione nelle zone più importanti della Cina e con l’appoggio attivo del contadiname a tale rivendicazione». A parte il fatto che la nazionalizzazione non fu attuata neppure dopo la presa del potere, questo era lo stesso punto di vista del Kuomintang nel 1922.

Al 1° Congresso dei lavoratori dell’Estremo Oriente, il rappresentante dei bolscevichi Safarov ribatteva:

     «Secondo quello che ha detto il rappresentante del Kuomintang, il governo del Sud prevedeva la nazionalizzazione della terra, ma questo progetto non fu eseguito soltanto perché questa misura rivoluzionaria richiede l’uniformità e deve essere realizzata in tutta la repubblica cinese. Prima è dunque necessario, secondo il Kuomintang, ripulire il territorio cinese dagli imperialisti e dai signori della guerra, e instaurare la democrazia in Cina. Non è un modo corretto di porre la questione (...) Per i contadini della Cina del Sud, la questione della nazionalizzazione della terra non è una questione che possa essere regolata dall’alto con misure amministrative: è una necessità vitale. Noi dobbiamo dunque realizzare questa misura rivoluzionaria anche in una parte piccola del paese, per mostrare ai contadini cinesi viventi in territorio occupato dalle forze nemiche che, dove il regime democratico è stato stabilito, i contadini stanno mille volte meglio. Senza una chiara comprensione di questo, senza un atteggiamento corretto sulla questione agraria, le grandi masse non possono essere trascinate al nostro fianco nella lotta».

Come si vede, le posizioni del Kuomintang sono diventate le posizioni del P.C.C. nel 1931. Inoltre, siccome la legge del 1931 provocò la reazione dei contadini ricchi, i quali cominciarono a sabotare la produzione nelle zone “sovietiche”, Mao stesso si fece portavoce dei loro interessi: alla conferenza di Tsuni del 1935 ottenne che le già blande misure della legge agraria fossero ancora più limitate, e difese il principio della ripartizione non su basi egualitarie, ma secondo le capacità di lavoro dei contadini; cosa che evidentemente tendeva a favorire i contadini ricchi possessori di strumenti e di scorte contro i contadini poveri.

Nell’ottobre 1934, sotto i colpi feroci delle offensive del Kuomintang, le armate del P.C.C. sono costrette ad abbandonare il Sud della Cina e a trasferirsi nel Nord: è la famosa Lunga Marcia. Vengono formati nel Nord nuovi territori “sovietici”, ma nel 1937, in seguito all’invasione giapponese, una tregua si stabilisce tra il P.C.C. e il Kuomintang per combattere gli invasori: il P.C.C. scioglie il suo governo e riorganizza il suo esercito come parte integrante dell’esercito nazionale. In nome dell’unità nazionale contro i giapponesi, le misure di confisca della terra sono abbandonate e sostituite dalla politica di ribasso dei canoni di affitto; in pratica i “comunisti” non fanno che mettere in atto le disposizioni di Chiang Kai-shek che proibivano di esigere dai contadini tassi di affitto superiori al 37% del prodotto di un raccolto.

Questo ulteriore abbandono di ogni misura radicale anche in senso borghese viene così giustificata da Mao nel 1941:

     «La linea del Partito è oggi fondamentalmente diversa da quella seguita nel passato, allora noi lottavamo contro i proprietari fondiari e contro la borghesia controrivoluzionaria; oggi ci alleiamo a tutti i proprietari fondiari e ai rappresentanti della borghesia che non si sono opposti alla guerra contro gli invasori giapponesi». Nel 1942 il C.C. del P.C.C. si esprimeva in questi termini: «La politica del Partito consiste nell’aiutare i contadini riducendo lo sfruttamento feudale, senza tuttavia eliminarlo completamente. Noi dobbiamo garantire ai proprietari le loro libertà civiche, i loro diritti di proprietà, i loro diritti politici ed economici, per fare aderire tutta la loro classe alla nostra lotta contro i giapponesi».

Il fronte nazionale reggerà per brevissimo tempo, in quanto il Kuomintang preferirà cedere ai giapponesi per aver modo di combattere i “comunisti”, ma il Partito Comunista non cesserà di proporre e di attuare unilateralmente il fronte e sacrificherà ad esso tutte le rivendicazioni del contadiname. Non c’è alcun dubbio che questa politica del P.C.C. ha, fra l’altro, ritardato di molti anni la caduta di Chiang e l’unificazione della Cina.

Se nel 1937, in vista del fronte unico antigiapponese, il P.C.C. si era completamente piegato alle prospettive borghesi affermando che: «I Tre principi del popolo enunciati dal dottor Sun rappresentano la base suprema della Cina di oggi. Il nostro Partito è pronto a fare tutto il possibile per rafforzarli», nel 1945 e poi ancora nel 1946, quando ormai la sconfitta dei giapponesi era un fatto acquisito, il P.C.C. tese la mano al Kuomintang in vista di una “pacifica” unificazione del paese, e solo quando si accorse che nessun salvataggio era possibile, dette vita a quella guerra civile che in pochissimo tempo doveva portare alla dissoluzione di quel putrido organismo.

Non solo, dunque, il P.C.C. non tenne mai in tutto questo tempo una politica comunista, che avrebbe dovuto tendere alla sollevazione delle masse dei contadini poveri contro i proprietari fondiari e i contadini ricchi, in vista della nazionalizzazione del suolo, e alla ripresa della lotta di classe sia nelle città sia nelle campagne, ma nemmeno seguì mai una politica borghese radicale e sacrificò sempre al moderatismo più gretto, e anche controproducente ai fine della lotta per l’unificazione della Cina, gli interessi sociali delle masse contadine. Dalla nazionalizzazione della terra esso passò alla ripartizione egualitaria, dalla ripartizione egualitaria alla ripartizione secondo le capacità produttive, per non scontentare i contadini ricchi, da questa ripartizione al semplice abbassamento dei canoni d’affitto per allearsi ai proprietari fondiari; parallelamente si svolgeva tutta la serie di tregue e esitazioni nella lotta contro il Kuomintang, nel tentativo di arrivare alla unificazione del paese senza scatenare grandi movimenti di masse e lasciando intatti i rapporti sociali e di produzione.

Questa fu la linea politica, moderata anche da un punto di vista borghese, seguita dal partito che oggi pretende di rappresentare il Comunismo agli occhi del proletariato mondiale. Da qualunque parte lo si guardi, esso si presenta come un partito piccolo-borghese, teoricamente e programmaticamente pasciuto dalle illusioni proprie del contadiname e in ogni momento della sua vita disposto a cedere alla borghesia più controrivoluzionaria in nome del superiore interesse della patria.

All’indice - All’inizi capitolo

 

 

17. La “nuova democrazia”

Nel 1949, a seguito di una campagna militare che vede gli eserciti del Kuomintang dissolversi, nonostante gli aiuti americani, il P.C.C. prende il potere e unifica la Cina. Ma quale potere viene installato? A quale classe appartiene il potere?

La formula usata dal P.C.C. è quella della “nuova democrazia”; il potere è fondato, secondo i “comunisti” cinesi, sul Blocco di quattro classi, i cui interessi sono e devono essere solidali. Non si tratta né della dittatura della borghesia né della dittatura del proletariato, ma di una democrazia “nuova” fondata “sul popolo”, ad eccezione dei proprietari fondiari e della borghesia compradora. Le quattro classi: proletariato, contadini, piccola borghesia e borghesia nazionale gestiscono insieme il potere politico. Le contraddizioni e gli scontri che fra loro scoppiano sono, nella definizione di Mao “contraddizioni in seno al popolo”, scontri secondari sulla base di interessi comuni rappresentati dalla necessità di edificare il grande Stato cinese. Ecco in quali termini Mao si esprime sul governo della “nuova democrazia”:

     «Alcuni esprimono i seguenti dubbi: quando avranno vinto, i comunisti non instaureranno la dittatura del proletariato, un sistema a partito unico come in Russia? Noi risponderemo a questo che, fra lo Stato della nuova democrazia fondato sull’alleanza di diverse classi democratiche e lo Stato socialista fondato sulla dittatura del proletariato, esiste una differenza di principio. Certamente il regime di nuova democrazia che noi difendiamo sorge sotto la direzione del proletariato, sotto la direzione del Partito Comunista. Tuttavia, durante tutto il periodo della nuova democrazia, non si potrà e di conseguenza non si dovrà avere in Cina un regime di dittatura esercitata da una sola classe».

Niente dittatura di una sola classe? Tutta la concezione marxista dello Stato crolla. Fin dal Manifesto dei Comunisti del 1848 i marxisti hanno sostenuto che lo Stato è «l’organo di dominio di una classe determinata», e che lo Stato cesserà di esistere solo quando non esisteranno più classi. Nelle classiche rivoluzioni borghesi europee, si era avuto il dominio della borghesia anche se in forma democratica; nella rivoluzione russa il proletariato aveva stabilito la sua dittatura. La borghesia classica aveva sì dominato molte volte con l‘appoggio della piccola borghesia e dei contadini, ma sempre comunque nel proprio interesse di classe. Per la Russia, Lenin aveva previsto nel 1905 la possibilità di una dittatura “democratica” degli operai e dei contadini, ma questo chiaramente significava che la classe proletaria con l’appoggio dei contadini poveri avrebbe dominato sulla borghesia. Nella stessa Cina e nei paesi arretrati, le Tesi del 1920 prevedevano che il proletariato avrebbe preso il potere appoggiandosi sulle masse dei contadini senza terra, e in stretto collegamento con la dittatura proletaria nei paesi avanzati, contro la borghesia controrivoluzionaria e contro i proprietari fondiari. Ma uno Stato in cui il proletariato, i contadini poveri e la piccola borghesia dominino insieme alla borghesia, il marxismo e la storia delle lotte di classe non l’hanno mai conosciuto e mai lo conosceranno.

In realtà, un simile Stato è una semplice mistificazione piccolo-borghese del tipo dello “Stato di tutto il popolo” di cui Engels rideva, e nasconde puramente e semplicemente il dominio della borghesia. Lo Stato della nuova democrazia è uno Stato borghese in cui le funzioni di sviluppo del modo di produzione capitalistico sono assunte non dalla borghesia in quanto classe sociale, ma dallo Stato che rappresenta gli interessi nazionali, cioè gli interessi dello sviluppo capitalistico. È lo Stato come capitalista generale che rappresenta in Cina gli interessi del capitalismo mondiale di fronte ad una classe borghese scarsamente sviluppata; è questo Stato capitalistico che si fa passare per rappresentante di tutte le classi del popolo. Non la dittatura di una classe sulle altre classi della società, non l’opposizione irriducibile fra proletariato e borghesia, ma l’alleanza fra le classi in nome del superiore interesse della nazione. Che cosa ha mai sognato di diverso, la borghesia dei paesi imperialisti? Che cosa sognano di diverso, i partiti opportunisti in occidente? Quale Longo o quale Agnelli ha mai pensato, per il miglior mantenimento possibile del sistema capitalistico, a qualcosa di diverso da quello che Mao scrisse nel saggio “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”?

     «È chiaro che continueranno ad esistere delle contraddizioni fra queste classi, e che quella che si manifesterà nella maniera più netta sarà la contraddizione che oppone il lavoro al capitale. Questo perché ognuna di tali classi avrà le sue proprie rivendicazioni. Velare queste contraddizioni, velare queste rivendicazioni specifiche, sarebbe ipocrisia ed errore. Ma, durante tutta la fase della nuova democrazia, queste contraddizioni, queste rivendicazioni particolari, non usciranno dal quadro delle rivendicazioni generali, e non si deve permettere che ne escano». La funzione specifica di uno Stato borghese non è mai stata definita con più chiarezza: non si deve permettere che le rivendicazioni particolari di una classe escano dal quadro delle rivendicazioni generali! Lo Stato borghese esiste proprio per impedire che le rivendicazioni specifiche della classe proletaria escano dal quadro generale dei rapporti di produzione borghesi. Che classe ha dunque vinto in Cina? Vogliamo rispondere con le parole stesse di Mao: «I Tre principi del popolo buttati a mare dai reazionari del Kuomintang sono stati ripresi dal popolo cinese, dal Partito comunista cinese e dagli altri democratici».

E altrove (“Sul governo di coalizione”):

     «La struttura economica della nuova democrazia, che noi cerchiamo di instaurare, risponde anch’essa ai principi di Sun Yat-sen.

All’indice - All’inizio capitolo

 

 

18. Il problema del potere statale in Cina

Prima di proseguire con la descrizione dei fatti svoltisi in Cina dopo il 1949, per arrivare ad una corretta interpretazione della rivoluzione cinese dobbiamo liberare il campo da un tragico equivoco basato su una mistificazione infame. Poiché i “comunisti” cinesi affermano che in Cina esiste un potere politico proletario, il fesso qualunque o l’opportunista cosciente può affermare, contro la nostra interpretazione dei fatti: va bene tutto quello che dite, ma, dato che il proletariato è al potere, bisogna inchinarsi alla realtà concreta (cavallo di battaglia dell’opportunismo di sempre) e riconoscere che il potere proletario in Cina si è trovato ad agire in condizioni originali, che gli impedivano di seguire i dettami del marxismo validi per l’Europa del secolo scorso; la vostra analisi dunque, per quanto ben documentata, risente di teoricismo e astrattismo.

Al fesso comune come all’opportunista cosciente noi rispondiamo che tutta la nostra analisi tende proprio a dimostrare che in Cina non il proletariato è al potere, ma la borghesia, impersonata non tanto dai quattro rappresentanti fisici di questa classe, quanto dallo Stato nazionalista cinese che incarna gli interessi dello sviluppo del modo di produzione capitalistico (indipendenza ed unificazione del paese, accumulazione del capitale, difesa della Cina come Stato nazionale accanto ad altri Stati nazionali, repressione di ogni movimento proletario autonomo ecc.) interessi ai quali ha sempre ispirato ed ispira la sua politica il partito di Mao.

All’indice - All’inizio capitolo



19. La posizione del marxismo rivoluzionario di fronte alle rivoluzioni borghesi

Pur riconoscendo la necessità della rivoluzione borghese, cioè di un rivolgimento che ha per scopo immediato la distruzione di poteri precapitalistici e di rapporti di produzione arretrati, per liberare i moderni rapporti di produzione, necessari al proletariato stesso per svilupparsi e combattere sul suo proprio terreno contro la dominazione del capitale e per la società socialista, il marxismo non ha mai posto questo problema in maniera astratta ma sulla base delle reali forze in gioco. È importantissimo ristabilire i cardini della dottrina marxista sul problema della tattica nelle rivoluzioni borghesi e nelle rivoluzioni nazionali: essi ci offrono la chiave per comprendere gli avvenimenti cinesi e risolvere il problema di quale classe in Cina abbia conquistato il potere e lo detenga oggi.

Il proletariato ha interesse alla distruzione radicale dei rapporti di produzione precapitalistici e allo sviluppo su scala mondiale dei rapporti di produzione capitalistici, che costituiscono la base reale del suo sviluppo come classe, e la premessa della futura società socialista. Perciò, in quei paesi dove si pone all’ordine del giorno la rivoluzione borghese (cioè il rovesciamento di classi e Stati preborghesi e la rimozione degli ostacoli che impediscono lo sviluppo delle forze produttive moderne), il proletariato, in quanto esiste, partecipa attivamente al rivolgimento, anche se questo non significa ancora lotta per i suoi specifici obbiettivi di classe ma lotta “contro i nemici dei propri nemici”.

A questa lotta partecipano anche altre classi e strati sociali interessati a liberarsi dall’oppressione di condizioni retrograde (la piccola borghesia urbana, i contadini, la stessa borghesia). Quale deve essere la posizione del proletariato di fronte a queste forze che si muovono anch’esse sul terreno rivoluzionario per i propri specifici obbiettivi? Marx nel 1848 e nel 1850 per la Germania, Lenin fin dal 1895 per la Russia, l’Internazionale Comunista nel 1920 per tutte le rivoluzioni nazionali e anticoloniali, hanno tracciato una linea netta e precisa alla classe proletaria. Questa linea consiste nell’affermazione che il proletariato deve sì appoggiare il movimento democratico rivoluzionario borghese (in quanto rivoluzionario effettivamente sia), senza però dimenticare neanche per un attimo il carattere limitato di esso e il fatto che, appena compiuto il rivolgimento, gli interessi dei vari strati sociali entreranno in antitesi immediata e diretta coi suoi, gli alleati di ieri diverranno i nemici di oggi, e il proletariato dovrà rivolgere contro di essi le proprie armi, per ingaggiare la propria battaglia internazionale contro il dominio borghese. Perciò il proletariato deve mantenere ad ogni costo e in qualunque situazione la propria autonomia politica e organizzativa, teorica e pratica, e avere ben chiaro che, mentre tutti gli altri strati sociali si fermeranno e cercheranno di fermare il movimento rivoluzionario appena avranno o crederanno di aver raggiunto i loro fini, il proletariato deve da solo continuare la lotta – la sua lotta – per l’abbattimento del dominio capitalistico.

Questo e solo questo è il senso della politica sostenuta dai bolscevichi, e tale posizione si legge ad ogni passo in Lenin. La famosa alleanza tra il proletariato e i contadini, che secondo gli opportunisti e gli stessi maoisti sarebbe la grande scoperta del “leninismo”, e che in Lenin è propriamente una convergenza nella lotta, ha questo solo ed unico significato: in una situazione in cui dominano rapporti economici feudali, o in genere precapitalistici, le masse contadine, e soprattutto i contadini poveri e senza terra, sono rivoluzionari, in quanto tendono a spezzare con la violenza questi rapporti per accedere alla libera proprietà del suolo e all’impianto della piccola proprietà contadina. In tale situazione (e solo in tale situazione!) il proletariato si appoggia al movimento contadino, sempre nel presupposto che impieghi metodi rivoluzionari e persegua scopi rivoluzionari, spingendo la rivoluzione borghese “fino in fondo”, cioè fino al limite nel quale la convergenza diverrà aperta divergenza e la classe operaia cercherà di innestare sul tronco della rivoluzione borghese, la “bella rivoluzione”, da esso portata alle conseguenze estreme, la propria rivoluzione, la “brutta rivoluzione”, la rivoluzione non più della “fratellanza universale”, ma della resa dei conti fra capitale e lavoro, la rivoluzione non più antifeudale ma anticapitalista.

Per Lenin, dunque, il confluire nella lotta rivoluzionaria contro l’ancien règime fra proletariato e movimento democratico borghese è un fatto temporaneo, e limitato a quei particolari paesi dove è ancora all’ordine del giorno la rivoluzione borghese: non riguarda in nessun caso i paesi in cui la rivoluzione borghese (cioè l’instaurazione di rapporti di produzione capitalistici) è da tempo compiuta e nei quali il proletariato lotta ormai soltanto per sé e per il suo fine comunista, e non ha nessun alleato. Ma anche dove ancora matura la rivoluzione borghese, la sua prospettiva è quella della doppia rivoluzione, che cioè da borghese si trasforma in proletaria.

La corretta posizione marxista, sempre sostenuta da Lenin e dall’Internazionale Comunista, dunque, vede la lotta del proletariato di ogni paese indissolubilmente legata a quella della classe proletaria internazionale, la sua stessa classe; nei paesi arretrati, riconosce che un appoggio temporaneo può venirgli dalle masse contadine e piccolo-borghesi, ma solo per quanto riguarda il conseguimento di obiettivi compresi entro l’orbita delle rivendicazioni nazionali e democratiche.

Detto questo, dobbiamo tracciare il reale cammino storico per definire esattamente i compiti del proletariato nelle aree arretrate. Le tesi di Lenin a questo proposito sono chiarissime: stabilito che il proletariato deve in ogni caso mantenere e difendere la propria autonomia sia di programma sia di organizzazione nei confronti dei movimenti democratici, Lenin nega che la borghesia in questi paesi possa e meno che mai voglia condurre fino in fondo la sua stessa rivoluzione, e sostiene che solo il proletariato, ponendosi alla testa delle masse povere, può capovolgere radicalmente i rapporti sociali precapitalistici. Il proletariato dovrà travolgere gli ostacoli che la borghesia necessariamente creerà alla rivoluzione, se occorre alleandosi con gli stessi avversari dell’antico regime, per il terrore che il potere passi al partito dei proletari, ai quali essa ha dovuto far ricorso per la lotta armata antifeudale, ma di cui paventa un’entrata in scena con obiettivi autonomi – come nel 1848 francese, austriaco ed anche tedesco. Di fronte allo spettro della “seconda rivoluzione”, i proletari devono sapere in anticipo che la borghesia cercherà di risolvere la questione del rovesciamento dei rapporti precapitalistici nella maniera più blanda, più pacifica e più meschina possibile, e non esiterà a scagliare contro di loro le proprie forze dell’ordine per impedire che diano lo “assalto al cielo”.

Fin dal 1848 e dal 1850 Marx indica come unica possibilità di riuscita della rivoluzione borghese in Germania, l’alleanza del proletariato con i contadini, sotto la sua direzione politica. Era ben chiaro a Marx, come lo fu successivamente a Lenin, che, nel quadro internazionale dei rapporti fra le classi, la borghesia dei paesi ancora dominati da rapporti di produzione precapitalistici preferirà sempre il compromesso con le vecchie classi dominati locali e con l’imperialismo, piuttosto che lasciarsi prendere la mano dalla classe operaia alla testa dei contadini, e non esiterà, se e quanto possibile, a praticare la repressione preventiva del movimento proletario organizzato.

Fin dal 1898, nel suo scritto I compiti dei socialdemocratici russi, Lenin traccia chiaramente la prospettiva della doppia rivoluzione dichiarando che l’attività “democratica” del Partito in Russia è indissolubilmente legata a quella socialista:

     «Convinti che, ai nostri giorni, una sola teoria rivoluzionaria, la dottrina del socialismo scientifico e della lotta di classe, può servire da bandiera al movimento rivoluzionario, i socialdemocratici russi cercheranno di diffonderla con tutti i mezzi, di difenderla contro le false interpretazioni, di reagire contro ogni tentativo diretto a legare il movimento operaio russo, ancora giovane, a dottrine meno precise»

. Lenin, dunque, difende la indipendenza programmatica, teorica e pratica del proletariato anche in presenza dei compiti democratici che esso deve assolvere: quanta differenza rispetto alla posizione del Partito comunista cinese, che negli anni ’20 ha fatto delle illusioni borghesi di Sun Yat-sen il suo programma finale!

Spiega successivamente che, nella lotta per il socialismo, il proletariato è completamente solo – cioè collegato unicamente con il proletariato internazionale – mentre nella lotta per la democrazia esso trova dei temporanei alleati in alcuni essenziali elementi della opposizione politica all’assolutismo:

     «A fianco del proletariato si schierano gli elementi di opposizione della borghesia o delle classi colte o della piccola borghesia o delle nazionalità, religioni e sette perseguitate dall’assolutismo, ecc. ecc. (...) Il sostegno che danno loro i socialisti non impone alcun compromesso con i programmi e i principi non socialisti: è l’appoggio di un alleato contro un dato nemico; se i socialisti lo offrono, è per affrettare la caduta del nemico comune; ma non attendono nulla per se stessi da questi alleati temporanei e non fanno loro nessuna concessione (...) Nel porre in rilievo la solidarietà con gli operai di diversi gruppi di opposizione, i socialdemocratici distingueranno sempre da questi gruppi gli operai, spiegheranno sempre il carattere temporaneo e relativo di questa solidarietà, sottolineeranno sempre che il proletariato è una classe a sé la quale potrà domani diventare avversaria dei suoi alleati di oggi. Si obbietterà: Questo indebolirà tutti coloro che lottano per la libertà politica nel momento presente. No, questo rafforzerà invece tutti coloro che combattano per la libertà politica, risponderemo noi. Forti sono soltanto quei combattenti che si appoggiano sugli interessi reali, effettivamente riconosciuti come tali, di classi determinate, e ogni tentativo di nascondere gli interessi di classe che già si agitano nella società contemporanea indebolirebbe soltanto i combattenti (...) La classe operaia deve assumere una posizione indipendente perché solo essa è un nemico coerente e irriducibile dell’assolutismo, perché soltanto per essa è impossibile ogni compromesso con l’assolutismo».

Nel 1912, nel saggio Sul diritto delle nazioni all’autodecisione, Lenin riprende in termini perfettamente marxisti la questione dell’atteggiamento del proletariato verso rivoluzioni borghesi e lotte nazionali. Chiarito che il periodo delle rivoluzioni nazionali borghesi si è definitivamente chiuso in Europa nel 1870, e che da allora in questa area geografica nessun appoggio del proletariato ad altre classi è possibile, mentre invece è necessario, seppure temporaneamente, nei paesi che ancora non hanno compiuto tale rivoluzione, Lenin afferma:

     «Il proletariato è contro un simile praticismo (il praticismo della borghesia nazionale): riconoscendo l’uguaglianza politica e l’uguale diritto per tutte le nazioni di formare uno Stato nazionale, esso attribuisce il massimo valore all’unione dei proletari di tutte le nazioni ed esamina ogni aspirazione nazionale dal punto di vista della lotta di classe degli operai. La parola d’ordine del “praticismo” è in realtà la parola d’ordine della accettazione senza critica delle aspirazioni borghesi (...) Gli interessi della classe operaia nella sua lotta contro il capitalismo esigono la solidarietà completa e la più stretta unione degli operai di tutte le nazioni, esigono che venga opposta resistenza alla politica nazionalista della borghesia, di qualunque nazionalità essa sia».

All’indice - All’inizio capitolo



20. La posizione dell’Internazionale

Nel primo dopoguerra, la vittoria proletaria in Russia e la creazione della Terza Internazionale pongono in primo piano la lotta rivoluzionaria del proletariato alla scala mondiale e offrono alle lotte dei popoli coloniali di Asia ed Africa un punto di riferimento nello Stato proletario. Le posizioni dei comunisti sulla questione nazionale e coloniale confermano pienamente la posizione seguita da Lenin a dai bolscevichi. Questa prospettiva ha ora la possibilità reale di tradursi in pratica; il proletariato e il suo partito devono quindi accentuare il loro carattere autonomo ed indipendente, pur nell’appoggio del movimento nazionalista rivoluzionario borghese e piccolo-borghese.

Le tesi di Lenin del 1920 scandiscono queste posizioni in maniera netta e precisa. Prima di tutto si afferma che non si deve prestar fede alle illusioni democratiche sulla possibilità di una uguaglianza delle nazioni e di una loro effettiva liberazione dal giogo coloniale in regime capitalistico.

La tesi 2 afferma:

     «Il Partito comunista, interprete cosciente della lotta del proletariato per l’abbattimento del giogo della borghesia, anche nella questione nazionale deve muovere non da principi astratti e formali, ma in primo luogo da una valutazione precisa della situazione storica concreta e anzitutto economica; in secondo luogo, da una netta separazione degli interessi delle classi lavoratrici oppresse, sfruttate, dal concetto generale degli interessi nazionali in genere, il quale esprime gli interessi della classe dominante».

La tesi 3 ribadisce il concetto dell’alleanza fra il proletariato dei paesi industrializzati e le masse lavoratrici dei paesi soggetti:

     «La Società delle Nazioni e tutta la politica postbellica dell’Intesa svelano questa verità (che cioè le democrazie occidentali sono i peggiori oppressori dei popoli coloniali) con ancora maggiore forza e chiarezza, rafforzando ovunque la lotta del proletariato dei paesi progrediti e delle masse lavoratrici dei paesi coloniali e soggetti, e affrettando così il crollo delle illusioni nazionali piccolo-borghesi circa la possibilità di convivenza pacifica e di eguaglianza delle nazioni sotto il capitalismo».

La tesi 4 conclude: 

     «La pietra angolare di tutta la politica dell’Internazionale Comunista nelle questioni nazionale e coloniale deve essere l’avvicinamento del proletariato e delle masse lavoratrici di tutte le nazioni e di tutti i paesi ai fini della lotta rivoluzionaria comune per l’abbattimento dei grandi proprietari fondiari e della borghesia. Perché soltanto tale avvicinamento assicura la vittoria sul capitalismo, senza la quale l’abolizione dell’oppressione e dell’inferiorità giuridica nazionale è impossibile».

La necessità assoluta di un movimento indipendente del proletariato e dei contadini poveri verso il movimento democratico borghese di liberazione nazionale, e del collegamento di esso con il proletariato rivoluzionario internazionale, è ribadito al paragrafo e) della tesi 1 che tratta in particolare dei paesi in cui predominano rapporti feudali o patriarcali contadini:

     «È necessaria una lotta risoluta contro i tentativi di dare una tinta comunista ai movimenti di liberazione democratico-borghesi dei paesi arretrati; l’Internazionale Comunista deve sostenere i movimenti nazionali democratici borghesi nelle colonie e nei paesi arretrati soltanto a condizione che in tutti i paesi arretrati tutti gli elementi dei futuri partiti proletari-comunisti di fatto e non soltanto di nome siano raggruppati ed educati nella coscienza dei loro compiti particolari, consistenti nella lotta contro i movimenti democratici borghesi in seno alla loro nazione. L’Internazionale Comunista deve concludere delle alleanze temporanee con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma non deve fondersi con essa e deve assolutamente salvaguardare l’indipendenza del movimento proletario anche nella sua forma embrionale».

Abbiamo cercato di rievocare attraverso queste citazioni la linea che ha sempre caratterizzato la posizione dei marxisti verso i movimenti rivoluzionari democratici borghesi nei paesi coloniali e soggetti. E da questo risulta chiaro che tutto il cammino della rivoluzione cinese si colloca al di fuori e contro questa prospettiva, e ne costituisce il rovesciamento completo. Stalin prima, Mao poi sono stati l’espressione più tipica della direzione borghese di un rivoluzione nazionale, della sottomissione ad essa degli obbiettivi e delle forze organizzate nella classe operaia.

All’indice -All’inizio capitolo


 

21. La posizione dello stalinismo in Cina

La teoria della rivoluzione “a tappe” è esattamente l’inverso della posizione marxista che era alla base, come abbiamo dimostrato, della tattica dell’Internazionale Comunista del 1920. Anche questa teoria ha un sua lunga tradizione ed è la stessa che i menscevichi sostenevano in Russia e la borghesia democratica in Cina. Ammettere infatti che in una rivoluzione nazionale il proletariato non può svolgere altra funzione che quella di appoggiare il movimento borghese fino alla conclusione della lotta è la dottrina tipica della borghesia; giacché questa linea significa: 1) spezzare il collegamento fra il proletariato di una determinata nazione e il proletariato mondiale, e vedere la rivoluzione proletaria, che è necessariamente internazionale, come un fatto di carattere nazionale; 2) sottomettere gli interessi di classe del proletariato a quelli della borghesia sostenendo che solo essa è in grado di condurre a termine la rivoluzione nazionale.

Questa posizione è l’esatto corrispondente del gradualismo riformista dei partiti opportunisti dell’Europa occidentale il quale affermava la necessità per il proletariato di portare a termine la rivoluzione borghese “incompiuta” attraverso la lotta per le riforme; e non per nulla Lenin mise sempre i menscevichi russi a fianco dei socialdemocratici destri di Occidente, come figli della stessa deviazione dal programma marxista che significa influenza della piccola borghesia sul proletariato. Pur presentandosi come una interpretazione della teoria marxista, questa posizione esprime gli interessi della borghesia nel campo proletario abbracciando la tesi che nelle rivoluzioni borghesi la direzione deve toccare alla borghesia e che solo dopo che essa abbia assolto tutti i suoi compiti democratici e nazionali si può cominciare a pensare di rovesciarla.

Questo naturalmente in quei paesi dove si pone all’ordine del giorno la rivoluzione borghese. Dove invece la borghesia ha già vinto la sua rivoluzione, si comincia a sostenere che questa non è ancora compiuta, e che perciò il proletariato deve aspettare per prendere il potere la realizzazione delle riforme.

Questa tattica, applicata alla Cina dalla Internazionale ormai completamente sottomessa allo Stato russo, ebbe per effetto, come abbiamo visto, la distruzione del movimento proletario e la sconfitta del 1925-27. Non si tratta di indicare un colpevole nella persona di Stalin, quanto di identificare una linea politica e dimostrare a quali interessi di classe essa aderisce. Quando avremo dimostrato questo, avremo anche risposto alla domanda: «Chi ha il potere in Cina?».

Già nel 1911 la borghesia cinese aveva mostrato di temere di più il movimento delle masse proletarie e del contadiname che il dominio dell’imperialismo mondiale e dei signori della guerra. Appena instaurata la repubblica, Sun Yat-sen rimise il potere nelle mani di uno di questi signori, e per tutto il periodo del primo conflitto mondiale tutte le speranze rivoluzionarie della borghesia cinese consistettero nel piatire la benevolenza dell’imperialismo. Dopo la guerra esse rimasero naturalmente deluse, ma nel frattempo l’onda della rivoluzione proletaria cominciò a scuotere anche la Cina, e negli anni successivi al 1920 si sviluppò un fortissimo movimento di lotta del proletariato completamente autonomo e diretto dal piccolo ma agguerrito partito comunista, mentre contemporaneamente si acuiva la tensione fra le masse contadine ridotte in miseria. È chiaro che in questa situazione si poneva all’ordine del giorno il compito dell’eliminazione del dominio imperialistico e della unificazione del paese, cioè un compito specificamente borghese.

Ma la borghesia cinese poteva realizzarlo? Anche se ciò fosse stato possibile (come Stalin sostenne), il proletariato avrebbe dovuto mantenere ad ogni costo la sua organizzazione e il suo programma autonomo nei confronti del movimento democratico e, pur riconoscendo la necessità immediata di appoggiare la lotta per l’unificazione del paese, avrebbe dovuto predisporsi a passare oltre e a combattere contro la propria borghesia, in collegamento con il proletariato internazionale e con la Russia sovietica. Qualunque fosse, dunque, il grado di rivoluzionarismo della borghesia cinese, il proletariato avrebbe dovuto sì appoggiarla, mai sottomettersi ad essa. Le tesi di Lenin e dell’Internazionale sono a questo proposito chiarissime.

Ma, in realtà, la borghesia cinese era legata a doppio filo all’imperialismo e ai signori della guerra, e temeva più di ogni altra cosa il movimento delle masse. Essa sapeva che il movimento del proletariato e dei contadini poveri, una volta iniziato, non si sarebbe fermato alla semplice rivendicazione della indipendenza e della unità nazionale, e sarebbe andato oltre, verso la riforma agraria e verso la dittatura proletaria.

Ma, senza la mobilitazione delle masse proletarie e contadine, diventava impossibile anche il raggiungimento dell’obbiettivo nazionale. In questo dilemma la borghesia cinese e il suo partito erano completamente impotenti, e speravano di uscirne con un pateracchio diplomatico con le potenze imperialistiche.

La borghesia fu la prima a spaventarsi quando, nel 1925, gli operai di Canton cominciarono a muoversi e, per prendere la testa del movimento, richiese alla Internazionale condizioni drastiche: sottomissione completa del proletariato, rinuncia assoluta, in nome della unità nazionale, ad ogni rivendicazione particolare di classe, scioglimento del Partito Comunista Cinese. La controrivoluzione vittoriosa in Europa, e che stava per abbattere lo Stato proletario in Russia, venne in aiuto alla borghesia cinese tramite la diplomazia russa che accettò quelle condizioni, che equivalevano a dire ai borghesi della Cina:

     «State tranquilli, noi faremo in modo che non si ripeta da voi quello che è successo in Russia nel 1917».

Nonostante tutto questo, il Kuomintang condusse la lotta sempre su due fronti: da una parte tiepidi tentativi di combattere i signori della guerra, dall’altra la repressione più feroce e decisa nei riguardi del movimento operaio e contadino, che pure si era completamente sottomesso agli interessi borghesi. Fino all’esito finale: nel 1927, il Kuomintang passa apertamente nel campo dell’imperialismo e schiaccia nel sangue un movimento di massa che nulla aveva fatto in due anni per organizzarsi in maniera autonoma, poiché era stato privato della sua guida naturale: il partito comunista e il programma marxista.

All’indice - All’inizio capitolo



22. La linea di Mao

La controrivoluzione mondiale si era affermata in Cina attraverso la tattica imposta al partito comunista dai dirigenti dell’Internazionale e dallo Stato russo, ed era riuscita a sconfiggere il proletariato e i contadini cinesi in una sanguinosa battaglia. Il contraccolpo internazionale di questa vittoria del capitalismo mondiale sugli operai cinesi fu terribile: l’Internazionale passò definitivamente nelle mani dell’apparato statale russo, le ali opportuniste dei partiti comunisti ebbero partita vinta e liquidarono l’opposizione di sinistra; l’apparato statale russo schiacciò e distrusse il partito bolscevico.

La controrivoluzione borghese continuò la sua opera in Cina attraverso il partito comunista riorganizzato su posizioni non marxiste, ma populiste e piccolo borghesi. Il movimento del proletariato non esisteva più; la controrivoluzione borghese era vittoriosa in tutto il mondo, e aveva fatto saltare attraverso la Russia lo stesso programma marxista. Il partito comunista cinese poteva risorge in due modi: o tirando le lezioni del 1925-27 da un punto di vista marxista, sconfessando tutta la politica adottata in Cina dall’Internazionale, smascherando lo Stato russo come borghese, e riprendendo in mano le genuine posizioni di Lenin, o sottomettendosi in maniera definitiva all’indirizzo politico della borghesia e divenendo il partito borghese che rinfaccia al Kuomintang di aver rinunciato ai suoi obbiettivi: diventando cioè il vero Kuomintang.

Le forze controrivoluzionarie alla scala mondiale erano troppo forti, e il salasso subito dal proletariato cinese troppo profondo perché la prima possibilità si potesse verificare, anche se per essa combatterono molti militanti nel tentativo disperato di riportare il partito sulla strada della rivoluzione e di risollevare il proletariato urbano dalla sconfitta. Lo scontro di queste due prospettive avviene negli anni dal 1927 al 1930 in seno al partito cinese.

Alla fine la linea per trasformare il partito in nazionale-borghese che ha il sopravvento è la linea di Mao. Il proletariato urbano è completamente abbandonato. La sconfitta del 1927 è classificata come episodio sfortunato dovuto alla incapacità dei dirigenti del partito e al tradimento di “alcune frange” borghesi; la politica seguita dal Comintern viene giudicata perfettamente valida, e si dice che la rivoluzione è entrata in una fase di sviluppo superiore essendo passata dalle città alle campagne; è ribadito il fatto che la rivoluzione deve svolgersi per tappe e che nella «tappa della lotta per l’indipendenza nazionale» bisogna cercare di «unire tutti quelli che è possibile unire», e perciò porre la sordina a qualsiasi rivendicazione autonoma del proletariato e dei contadini poveri. Il P.C.C. assume come suo programma i Tre principi del popolo di Sun Yat-sen e diventa, secondo l’affermazione dello stesso Mao, “il vero Kuomintang”, cioè il vero partito nazionale borghese.

All’indice - All’inizio capitolo



23. Che cos’è la rivoluzione borghese

Quando i marxisti parlano di rivoluzione borghese si riferiscono ad una cosa molto reale, cioè all’abbattimento degli ostacoli che si oppongono all’avanzare delle forze produttive in forma capitalistica; alla creazione di un terreno sociale e politico adatto allo sviluppo del modo di produzione capitalistico e dei rapporti di produzione borghesi. Non parlano e mai hanno parlato di una rivoluzione che debba essere condotta dalla sola borghesia in quanto classe fisica, in quanto strato sociale determinato. «La rivoluzione borghese è una rivoluzione che non esce dai limiti del modo di produzione capitalistico», sosteneva Lenin nel 1905, ma il marxismo ha sempre chiarito che lo smantellamento dei rapporti produttivi precapitalistici diviene ad un certo grado dello sviluppo storico una esigenza sociale, comune a diversi strati e classi, fra cui il proletariato in modo particolare. Si tratta cioè di una situazione in cui devono essere stabiliti rapporti di produzione più moderni a scala più ampia di quelli precedenti, e questi nuovi rapporti di produzione posso essere stabiliti solo attraverso lo sviluppo del modo di produzione capitalistico.

Tale rivoluzione è borghese nel senso che si muove nell’ambito degli interessi borghesi e non ne supera l’orizzonte. Lo sviluppo del commercio, la generalizzazione degli scambi mercantili e della produzione di merci, la loro estensione su scala più vasta, la liberazione del contadiname dai vincoli feudali e la sua possibilità di andare a costituire una massa di lavoratori salariati, lo spezzettamento dei latifondi e la codificazione del diritto di compravendita della terra, l’abolizione dei monopoli antichi che impediscono la libera concorrenza, tutti questi sono obbiettivi borghesi nel senso che favoriscono lo sviluppo del capitalismo, e perciò gli interessi della borghesia come classe. Ma rispondono anche agli interessi immediati di strati sociali che saranno rovinati e distrutti dallo sviluppo del capitale: i ceti contadini e piccolo borghesi, per esempio, e anche il proletariato il quale dallo sviluppo capitalistico non otterrà un miglioramento delle sue condizioni di vita, ma vi troverà la base del suo sviluppo di classe.

Anzi, la borghesia, come ceto sociale, non è mai stata favorevole a nessuna rivoluzione, perché in ogni sommovimento sociale e politico ha sempre visto, nell’immediato, una interruzione dei suoi traffici e un pericolo per i suoi profitti. Sarebbe dunque vano e assurdo, nell’analisi dei fatti storici, andare a cercare il carattere borghese della rivoluzione nel fatto che vi partecipano o no i borghesi, come sarebbe assurdo determinare come proletario ogni rivolgimento a cui i proletari partecipano. La caratteristica borghese o proletaria di una rivoluzione, come dei partiti che si pongono sul terreno della rivoluzione, non è data dalla loro composizione sociale, ma dall’indirizzo politico e dalla visione generale, dai limiti che il movimento si pone. Se non si ha ben chiaro questo aspetto della questione, non si può capire nulla dello svolgimento dei fenomeni storici.

Nella grande rivoluzione francese, ad esempio, non solo non fu la borghesia fisicamente alla testa della rivoluzione, ma la stessa ideologia rivoluzionaria e le stesse organizzazioni che condussero avanti il movimento non provenivano dalle sue file; nel 1789 essa era piuttosto favorevole ad un compromesso con la monarchia che le permettesse di condurre in pace i propri affari. Fu solo, da una parte, il movimento della piccola borghesia parigina e del nascente proletariato, dall’altra il movimento del contadiname che determinarono lo sviluppo della rivoluzione fino all’estirpazione di ogni resistenza feudale. Gli interessi reali e storici della classe borghese vennero quindi incarnati dagli strati piccolo-borghesi, i quali d’altronde non potevano né possono mai avere che una prospettiva borghese, e perciò realizzarono gli interessi della borghesia.

Il contadiname francese, la piccola borghesia urbana, il proletariato nascente realizzarono gli obbiettivi della borghesia, e perciò il potere che si instaurò in Francia fu un potere borghese anche se nessun elemento di questi vi fu fisicamente rappresentato. Che cosa rivendicavano di fatto i contadini? Rivendicavano la divisione delle terre feudali e la loro assegnazione in proprietà privata. Questo corrisponde al loro interesse immediato, e per questo interesse essi combattono. Ma la piccola proprietà contadina significa il commercio del suolo, la possibilità assoluta di comprare, vendere, lasciare in eredità la terra, e ciò significa immediatamente che la terra viene sottomessa al dominio del capitale finanziario; è appunto in nome della libertà di commercio che una parte dei contadini viene espropriata e cade nel proletariato, lo stesso avviene ad una parte sempre maggiore della piccola borghesia urbana, i mezzi di produzione si concentrano in mani sempre più ristrette, quindi il modo di produzione capitalistico prende uno slancio terribile e può senza ostacoli mettere le mani su tutta la produzione sociale.

La rivoluzione perciò si muove oggettivamente su una base e verso obbiettivi che avrebbero portato alla rovina i ceti veramente rivoluzionari e al predominio sia economico sia politico della classe grande borghese.

Se dunque la nostra analisi si limitasse agli aspetti più superficiali, e guardasse solo agli strati sociali che al movimento prendono fisicamente parte, dovrebbe arrivare alla conclusione che la rivoluzione francese fu la rivoluzione dei contadini e della piccola-borghesia, e il potere napoleonico il potere statale del contadiname. Al contrario Napoleone I rappresentava gli interessi generali della borghesia e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, appoggiandosi su contadini che, nel difendere i loro particolari interessi, difendevano il dominio grande borghese e ne ponevano le basi.

Lo stesso fatto si verifica in Russia nel febbraio 1917. La rivoluzione è avversata in tutti i modi dalla borghesia; ma le masse dei contadini e degli operai si muovono sul terreno borghese e, contro la borghesia, difendono gli interessi del suo dominio. Nel febbraio 1917 è il proletariato stesso che lascia il potere nelle mani della borghesia, cioè combatte non per i suoi interessi autonomi di classe, ma per interessi borghesi rappresentati da partiti come il menscevico, il socialista rivoluzionario e anche il cadetto, che non organizzano la borghesia come strato sociale ma ne realizzano le prospettive, proprio perché non vedono altro fine della rivoluzione e altro ordine sociale che quelli che corrispondono alla forma capitalistica. Solo quando alla testa delle masse proletarie si pone il partito comunista, il quale indica un traguardo che supera i confini della stessa società borghese e implica la distruzione dei rapporti di produzione capitalistici alla scala mondiale, solo allora la rivoluzione diventa proletaria, cioè la classe proletaria si muove sul proprio terreno e per i suoi propri interessi.

Il criterio con cui la teoria marxista analizza i fatti sociali ed identifica le classi e la loro lotta è quindi ben diverso dal criterio volgarmente statistico che si basa meccanicamente sulla posizione degli uomini rispetto al processo produttivo, per cui la classe borghese sarebbe l’insieme dei padroni di fabbrica e la classe operaia l’insieme degli operai; al contrario noi sosteniamo che si ha una classe solo quando le masse, che sono poste in una certa posizione dallo sviluppo delle forze produttive, esprimono un indirizzo politico autonomo, una particolare visione del divenire sociale che corrisponde ai loro interessi generali, e si muovono sulla base di questo indirizzo. Oggi, per esempio, la classe operaia, cioè la massa degli operai salariati, non si muove secondo il suo indirizzo di classe ma, dominata da partiti che, se pur composti da operai, esprimo le esigenze della conservazione capitalistica, si muove e si è mossa in difesa degli interessi del suo nemico, della classe borghese.

Tutta questa messa a punto è necessaria per chiarire che, quando noi sosteniamo che in Cina si è avuta una rivoluzione borghese e che la Cina attuale è uno Stato capitalistico, non intendiamo affatto dire che la borghesia come strato sociale a sé stante detiene il potere politico. Intendiamo invece sostenere e dimostrare che il potere stabilito in Cina nel 1949, e attualmente in vigore, esprime e difende gli interessi dello sviluppo e della conservazione capitalistica, e quindi della borghesia in quanto classe, il suo programma il suo modo di agire, i suoi rapporti con le diverse classi sociali e con gli altri Stati, in una parola la sua esistenza stessa sono totalmente inseriti nel quadro del modo di produzione capitalistico, e del suo migliore e largo possibile sviluppo.

All’indice - All’inizio capitolo




24. Stato proletario e Stato borghese

Quanto abbiamo detto finora a proposito della assunzione da parte del P.C.C. di tutte le caratteristiche di un partito nazionale borghese, a proposito cioè della sua trasformazione nel “vero Kuomintang”, è confermato ulteriormente sia dalla struttura dello Stato cinese sia dalla sua politica.

Come abbiamo già scritto citando lo stesso Mao, lo Stato di “nuova democrazia” non doveva essere né la dittatura del proletariato, né la dittatura «di alcuna classe particolare», ma lo Stato di tutte le classi della società cinese, esclusi i grossi proprietari fondiari e la borghesia compradora, che dovevano dominare in comune in vista degli interessi nazionali della Cina. In linguaggio marxista, ciò significa che lo Stato cinese è uno Stato che esprime gli interessi generali dell’accumulazione capitalistica appoggiandosi sulla piccola borghesia contadina e sottomettendo tutti gli altri strati sociali a questa esigenza primaria. In conformità con questa direttiva “popolare” la battaglia per l’unificazione del paese fu condotta nella maniera più blanda, e si cercò in tutti i modi di schierare tutte le forze possibili sul fronte della difesa nazionale.

Abbiamo già visto che fino al 1947 il P.C.C. fece diversi tentativi per arrivare ad un compromesso perfino con il Kuomintang, e sacrificò a questo obbiettivo di conciliazione anche le minime rivendicazioni contadine. La “guerra di liberazione”, che ebbe fine nel 1949 con la vittoria del P.C.C., non vide perciò lo scatenarsi di violente ed estese lotte fra le classi, ma fu anzi condotta secondo lo slogan di “riunire tutti coloro che possono essere riuniti”. La lotta si svolse solo contro il dominio decrepito del Kuomintang e contro i suoi sostenitori americani, mentre sul piano interno si conduceva una politica di conciliazione perfino con i proprietari fondiari, che solo nel caso che si trattasse di “controrivoluzionari incalliti”, cioè sostenitori di Chiang, dovevano essere repressi e privati della loro terra. L’urto fra le classi fu attutito il più possibile, e in molti casi gli interessi immediati delle masse furono sacrificati alla convivenza “pacifica” nel blocco delle quattro classi.

Per questa stessa ragione non si creò nel corso della guerra nessuna organizzazione specifica di classe del tipo dei soviet e delle Unioni Contadine, come si era avuto nel 1927. L’unica organizzazione esistente fu quella dell’esercito popolare inglobante tutto il popolo che, anche se il suo nerbo combattente era composto di contadini poveri, non si proclamava però una organizzazione di classe.

La Repubblica Popolare dunque non solo vide la presenza di diversi gruppi e partiti al governo dello Stato, ma teorizzò che tutto questo era necessario e utile, perché in Cina non una classe ma il “popolo” aveva assunto il potere. La stessa caratteristica non classista ma popolare si riscontra nel P.C.C., il quale ancora nel 1956 contava 10.730.000 membri, di cui il 14% operai, il 69% contadini, il 12% intellettuali. Per i malati di filocinesismo, e sostenitori del partito formato di soli operai, un bell’esempio davvero!

Ma è soprattutto nella politica dello Stato cinese che il suo carattere borghese risalta in piena luce. Non si può definire il carattere di classe di uno Stato come di un partito facendo la conta di quanti operai e borghesi esso contiene; allo stesso modo che il partito proletario si definisce per un certo indirizzo politico conforme agli interessi generali e storici della classe proletaria, lo Stato proletario si caratterizza per una politica che sta sul terreno della emancipazione proletaria e della avanzata verso la società senza classi. È la direzione della sua politica che permette di stabilire se si tratta di uno Stato proletario o meno.

Prendiamo in esame la politica dello Stato cinese. Il primo atto della Repubblica Popolare fu la riforma agraria. Dal 1949 al 1953 si procedette alla «Grande Ripartizione», che in realtà si limitò alla distribuzione ai contadini poveri di circa 700 milioni di mu sui 2 miliardi circa di terre coltivabili. In realtà, la ripartizione della terra non poteva costituire per la Cina la soluzione della questione agraria, dato il carattere particolare della conduzione agricola, da millenni estremamente parcellizzata. Infatti la terra era sì posseduta da un piccolo numero di proprietari fondiari, ma questi la davano in affitto a piccoli lotti ai contadini. La terra era dunque già divisa e una sua ulteriore massiccia ripartizione era tanto poco possibile che, come abbiamo ricordato, nel 1927 la rivendicazione del proletariato non era stata quella della ripartizione ma della nazionalizzazione, che fra l’altro avrebbe permesso la formazione di grandi aziende statali condotte da lavoratori salariati e con l’impiego di mezzi tecnici moderni.

La parola d’ordine della ripartizione era però la tipica rivendicazione dei contadini medi, cioè di quei contadini che già coltivavano un piccolo lotto di terra ma che volevano liberarsi del pesante affitto dovuto al proprietario fondiario. L’unico strato che beneficiò della ripartizione fu perciò appunto questo: non solo i contadini poveri, cioè privi di terra o con un appezzamento insufficiente alla loro vita, continuarono a rappresentare una parte notevole della popolazione, ma rimasero anche i proprietari fondiari e i contadini ricchi, sebbene i loro lotti fossero ridotti in estensione.

«Ogni contadino abbia il suo pezzo di terra» era questa la formula piccolo-borghese di Mao; ma ogni contadino non poteva, nella situazione della Cina, avere il suo pezzo di terra e la maggior parte dei contadini poveri rimase tale nonostante le promesse del partito al governo. Si vede chiaramente qui, e lo vedremo ancor più chiaramente in seguito, qual’è la classe che costituisce la base dello Stato cinese. Per ora ci limitiamo a citare dai resoconti dell’8° congresso del P.C.C., tenuto nel 1956 (cioè tre anni dopo la fine della riforma agraria), quale fosse la situazione dei contadini:

     «La popolazione rurale della vecchia Cina contava dal 60 al 70% di contadini poveri e di operai agricoli (...) Dopo la riforma agraria la situazione economica delle grandi masse contadine si è sensibilmente elevata e numerosi contadini poveri e operai agricoli si sono elevati (?!) allo stato di contadini medi. Tuttavia, vista la modesta estensione delle terre arabili nelle nostre regioni rurali in rapporto a una popolazione molto numerosa, i contadini nell’insieme del paese possiedono in media solo tre mu a testa, e in numerose regione del Sud, soltanto un mu o anche qualche decimo di mu. Così sussistono ancora nelle regioni rurali contadini poveri e strati inferiori di contadini medi per il 60-70% della popolazione».

Come si vede, la riforma aveva portato sostanziali miglioramenti solo ai contadini medi e ricchi, così liberati dal tributo dovuto al proprietario fondiario. Infatti subito dopo la riforma si verificarono “eccessi” da parte dei contadini poveri delusi nelle loro speranze, e il P.C.C. dovette reprimerli con la forza. Siccome poi la terra era stata data ai contadini in proprietà, con pieno diritto di compravendita e trasmissione ereditaria, subito dopo la riforma si verificò un altro fenomeno tipico: quello della espropriazione per via puramente economica dei contadini poveri da parte dei contadini medi e ricchi.

Ma la riforma del 1949-1953 non dimostra chiaramente un modo di intervenire nell’economia che non ha nulla in comune con la strada che porta verso il socialismo e che rappresenta un reale cedimento alle illusioni piccolo-borghesi del contadiname; essa dimostra altresì che gli stessi dirigenti cinesi e Mao in primo luogo erano vittime di queste illusioni e non avevano alcun legame con la teoria marxista e con la visione tipica del proletariato.

Dichiarava infatti Mao nel 1953:

      «Dopo la liberazione, l’entusiasmo dei contadini per la produzione nel quadro dell’economia individuale era inevitabile. Il partito comprende perfettamente questa caratteristica dei contadini in quanto piccoli proprietari, e sottolinea che noi non dobbiamo disconoscere e respingere l’entusiasmo dei contadini per questa forma di produzione (...) Per un periodo considerevole (...) la proprietà privata della terra deve essere protetta». E la legge agraria del 28 giugno 1950 afferma: «Il regime del possesso delle terre da parte del contadiname sarà instaurato allo scopo di liberare le forze produttive della campagna, di accrescere la produzione agricola e di preparare il cammino alla industrializzazione della nuova Cina».

È chiaro qui che l’effetto della cessione della terra ai contadini deve servire ad elevare le forze produttive e quindi va mantenuta per un lungo periodo di tempo. Ciò significa una valutazione illusoria della reale situazione dell’agricoltura: significa procedere alla cieca nel campo della economia, o meglio significa procedere con l’esatta mentalità del contadino medio. Infatti la divisione delle terre, se portò ad un miglioramento immediato delle condizioni di vita dei contadini, non provocò per nulla (e non poteva provocare) un accrescimento delle forze produttive. Da una parte i contadini “liberati” si preoccuparono soprattutto di raggiungere un tenore di vita migliore e la conduzione dei piccoli fazzoletti di terra rimase ai metodi arretrati in uso da millenni; dall’altra la stessa limitata estensione delle proprietà non permise il ricorso a tecniche più moderne, mentre l’industria non era in grado di fornire i mezzi per la meccanizzazione agricola.

Inoltre, dati i regimi delle acque, per l’estrema divisione degli appezzamenti e per gli scarsi mezzi di cui disponeva lo Stato centrale, si verificarono inondazioni e siccità che ridussero anche gli incrementi produttivi minimi previsti. Nel 1954, un anno appena dopo la dichiarazione di Mao che prometteva lunga vita alla piccola proprietà contadina, i fatti reali avevano già parlato il loro linguaggio perentorio imponendo ai dirigenti cinesi il passaggio alla collettivizzazione. In cosa consistette?

Leggiamo nei citati resoconti dell’ottavo congresso del P.C.C.:

     « È molto dubbio che essi [cioè il 60-70% dei contadini poveri] giungano a condurre una vita agiata persistendo nello sfruttamento individuale del loro pezzo di terra. Per questo i contadini poveri e i contadini non agiati che formano la maggioranza della popolazione rurale rispondono con ardore all’appello del nostro partito e sono desiderosi di intraprendere la via della cooperazione».

Mao, nel suo scritto del 1955 Sulla cooperazione agricola, era stato ancora più esplicito nel descrivere la tensione delle campagne cinesi: 

     «Come ciascuno ha notato nel corso di questi ultimi anni, la tendenza spontanea al capitalismo nelle campagne è cresciuta di giorno in giorno e si sono visti apparire dappertutto nuovi contadini ricchi. Molti contadini poveri, mancando di mezzi di produzione sufficienti, non sono ancora sfuggiti alla stretta della miseria; alcuni hanno dei debiti; altri sono obbligati a vendere o affittare la loro terra. Se lasciamo che questa tendenza si sviluppi, la divisione della campagna in due poli si aggraverà inevitabilmente giorno dopo giorno».

Ma lo Stato cinese ha la sua base sociale nel contadiname e non può permettere l’esplodere della lotta di classe nelle campagne. Il blocco sociale su cui si regge deve rimanere intatto. Perciò abbandona il suo indirizzo precedente e cerca di limitare il malcontento dei contadini poveri lanciando il movimento cooperativo. Ma perché non si scateni il malumore degli strati superiori del contadiname, che sono anche quelli le cui aziende sono più produttive, è necessario procedere con cautela.

Si comincia perciò con l’impiantare una forma di cooperativa di carattere “semi-socialista” dove la proprietà privata della terra è perfettamente riconosciuta e soltanto la gestione è comune: «Si tratta di un specie di cooperativa di forma elementare che implica degli apporti di terra come partecipazione ed una gestione unica, che lascia sussistere tuttavia la proprietà privata della terra e dei principali mezzi di produzione». Solo in un secondo momento queste cooperative si “riorganizzano” in una forma superiore, detta “socialista”, in cui non esiste più la proprietà privata della terra, salvo un piccolo appezzamento individuale, e i cui mezzi di produzione sono collettivizzati. Ma esiste una differenza nel computo dei compensi che la cooperativa dà a ciascun membro e che tengono conto dell’apporto in terre di ciascun contadino.

Lo Stato cinese cerca così ad ogni costo di tenere ferma una base sociale che gli si muove sotto i piedi e che minaccia di farlo saltare. Abbiamo visto come la collettivizzazione si proponesse di tacitare il malcontento dei contadini poveri; vediamo ora come lo stesso 8° Congresso descrive la politica del P.C.C.:

     «La politica di classe del partito nel corso del movimento di cooperazione agricola è quella di favorire in seno alle cooperative il predominio dei contadini poveri e degli strati inferiori dei contadini medi sorti dal contadiname povero dopo la riforma agraria e nello stesso tempo di stringere solidamente intorno a sé i contadini medi. Benché i contadini medi agiati e relativamente agiati siano in minoranza nelle nostre campagne, essi esercitano tuttavia una grande influenza sugli strati inferiori dei contadini medi e anche sui contadini poveri. Questi contadini medi agiati in generale danno il loro appoggio al Partito Comunista e al governo popolare (...) È tuttavia inevitabile che essi siano inclini ad assumere un atteggiamento ambiguo quando si tratta di prendere la via della cooperazione. In vista di consolidare l’alleanza con i contadini medi, il fattore chiave consiste nella applicazione rigorosa nel movimento di cooperazione della politica della libera adesione e del reciproco vantaggio (...) Non solo il partito proibisce di costringere i contadini medi ad aderire alle cooperative, ma ha prescritto di ammettervi in primo luogo i contadini poveri e gli strati inferiori dei contadini medi e di non ammettervi in generale i contadini medi relativamente agiati durante lo sviluppo iniziale del movimento di cooperazione. Il partito ha anche precisato che, prima e dopo l’entrata dei contadini medi nelle cooperative, soprattutto per ciò che riguarda le disposizione relative ai mezzi di produzione messi come apporto nelle cooperative, non è permesso nuocere ai loro interessi e non tenerne conto».

Risulta chiaramente da queste poche citazioni in quali contraddizioni dal 1949 si sia mosso lo Stato cinese nel tentativo di assicurare lo sviluppo capitalistico della Cina. È chiaro fin da ora che questo modo di muoversi non ha nulla a che vedere né con la dittatura proletaria, né tanto meno con il socialismo. Sono i travagli del parto di un capitalismo giovane che stenta a farsi strada in un paese in cui vigono rapporti di produzione piccolo-borghesi, e che è stretto alla scala mondiale nel ferreo cerchio dell’imperialismo internazionale. Lenin nota già nelle tesi del 1920 sulla questione nazionale e coloniale che la borghesia dei paesi coloniali tende a mascherare sotto il manto di un falso socialismo le sue necessità di sviluppo. È esattamente questa la situazione dello Stato cinese, come vedremo in maniera più precisa nel seguito di questo lavoro.

All’indice - All’inizio capitolo



25. L’atteggiamento dello Stato cinese verso la borghesia “nazionale”

Citiamo dai resoconti dell’8° Congresso del P.C.C. tenuto nel 1956:

     «Nella vecchia Cina, la borghesia nazionale era in contraddizione con l’imperialismo, con le forze feudali e con il capitale burocratico (...) Dopo la fondazione della Repubblica Popolare di Cina, essa ha preso posizione in favore della dittatura democratico-popolare (...) della prosecuzione della lotta contro l’imperialismo e della riforma agraria; ma essa aspira anche ardentemente allo sviluppo del capitalismo. Ne risulta che la nostra politica nei confronti della borghesia nazionale resta la stessa di quella applicata precedentemente: la politica d’unione e di lotta e della lotta per l’unione. E questo significa che noi abbiamo mantenuto, sulla base della alleanza degli operai e dei contadini, l’alleanza di ordine politico della classe operaia e della borghesia nazionale».

Il proletariato alleato con i contadini e con la borghesia “nazionale”; ecco l’essenza di quella che i “comunisti” cinesi chiamano “dittatura proletaria”. Infatti ben lungi da ritenere la borghesia nazionale, cioè la borghesia, come il nemico numero uno del proletariato, ben lungi dallo schiacciarla sotto il tallone di ferro di uno Stato che si pretende proletario, essi hanno scoperto in questa classe due anime: una favorevole al socialismo e una favorevole al capitalismo. Basta che il partito e lo Stato conducano un’opera di “educazione” intesa a reprimere l’anima capitalistica della borghesia, perché questa si trovi ben disposta verso il socialismo e rimanga l’alleata politica del proletariato.

Quale politica adotta lo stato cinese nei confronti delle imprese capitalistiche nazionali? Leggiamo ancora:

     «In questi ultimi anni noi abbiamo applicato, fermo restando lo sviluppo prioritario dell’economia di Stato, la politica di “tener conto sia degli interessi dello Stato che di quelli particolari”, degli interessi dei lavoratori e di quelli del padronato (...) Grazie a questa politica, gli operai delle officine private hanno potuto evitare la disoccupazione e i capitalisti hanno potuto realizzare alcuni benefici. È così che nel loro insieme le imprese delle industrie e del commercio capitalistici, favorevoli alla prosperità nazionale e al benessere del popolo, hanno potuto mantenersi e realizzare anche qualche sviluppo».

Naturalmente si intende andare verso la statizzazione di tutta l’industria ed il controllo statale sul commercio, ma è il modo di tendere a questo obiettivo che ora ci interessa.

In primo luogo notiamo che tutta la questione si riduce per i cinesi a un fatto ideale: invece di essere la borghesia come classe espressione di un modo di produzione sottostante, e perciò necessitata ad agire contro il proletariato; invece di essere gli interessi materiali contrastanti ed opposti delle classi a determinare la posizione sul piano politico ed ideologico, è al contrario la “ideologia borghese” a far sì che questa classe, o meglio, alcuni suoi elementi, si oppongano alla statizzazione.

     «Il principio fondamentale che seguono il partito e lo Stato è cercare, attraverso queste lotte [i movimenti di “rieducazione” del 1950 e ‘52], di ridurre ad un isolamento completo nelle masse popolari e anche nel seno della stessa borghesia un piccolo numero di elementi borghesi che persistono nelle loro attività illecite e stringere intorno a noi la grande maggioranza degli elementi borghesi desiderosi di osservare le leggi e i decreti dello Stato».

Lo Stato dunque svolge una politica di alleanza con la borghesia, limitandosi ad intervenire contro di essa nei casi più flagranti di insubordinazione e ad opporsi ai tentativi di ritardare il cammino dell’industrializzazione statizzata. L’attitudine di classe della borghesia viene giudicata in base a questo semplice criterio, che nulla ha a che fare col marxismo: se è favorevole alla statizzazione progressiva dell’industria, essa verrà difesa e protetta, e i suoi interessi salvaguardati; se contraria sarà repressa o “rieducata”.

Sempre verso la borghesia si segue una politica gradualistica che mira a non lederne gli interessi materiali ed immediati: l’industria non viene espropriata ai capitalisti ma riscattata: 

     «Noi abbiamo adottato una politica di riscatto graduale per la nazionalizzazione dei mezzi di produzione privati della borghesia. Prima della trasformazione dell’industria per settori interi in aziende miste [a “partecipazione statale” diremmo in Italia] il riscatto avveniva sotto forma di un sistema di distribuzione di benefici, consistente nel distribuire ai capitalisti certi benefici (diciamo un quarto) proporzionalmente all’insieme dei benefici realizzati. Dopo la realizzazione per interi settori del sistema di sfruttamento misto, il riscatto avviene sotto forma di un sistema di interessi fissi: cioè, in un periodo determinato, lo Stato attribuisce ai capitalisti degli interessi fissi, attraverso società di Stato specializzate, inoltre gli organismi di Stato interessati danno lavoro a tutti gli elementi del padronato capaci di assumere una certa funzione e prendono posizioni adeguate per assistere quelli che ne sono incapaci, al fine di assicurare la loro condizione di esistenza (...) Questa politica e queste misure sono state ben accolte dalle grandi masse, e anche i capitalisti non trovano alcuna ragione plausibile per rifiutarle od opporvisi».

In verità i capitalisti cinesi non avevano nessuna ragione di opporsi ad una politica simile: lo Stato cinese era il loro Stato!

All’indice - All’inizio capitolo


26. Le prospettive al 1956


Abbiamo sempre sostenuto che il preteso estremismo dei cinesi ha la sua radice non in una difesa del marxismo ortodosso o in una lotta della classe proletaria contro la classe borghese, ma nelle contraddizioni dello sviluppo della Cina come Stato nazionale. Così le prospettive date all’8° Congresso del partito nel 1956 erano tutt’altro che estremiste, e lo stesso “pensiero di Mao” tutto esprimeva fuorché la necessità della rivoluzione mondiale e della lotta a morte fra capitale e lavoro. È un periodo storico che i maoisti non amano molto ricordare; noi, al contrario, vogliamo riferirci ad esso perché è molto importante per valutare dal punto di vista marxista gli avvenimenti successivi.

A quel Congresso, nel discorso di apertura, Mao si espresse nei seguenti termini:

     «Il presente congresso ci pone il compito (...) di unirci, all’interno del paese come all’esterno, a tutte le forze suscettibili ad unirsi a noi, di lottare per fare della Cina un grande paese socialista (...) Considerando le condizioni del paese, è appoggiandoci sull’alleanza degli operai e dei contadini diretta dalla classe operaia, e collegandoci su vasta scala con tutte le forze suscettibili di essere collegate, che noi abbiamo riportato le nostre vittorie (...) Pur continuando a rafforzare l’unione del partito, bisogna anche continuare a rafforzare quella della nazionalità, delle classi democratiche [!!], dei partiti democratici e delle organizzazioni popolari: bisogna continuare a consolidare e ad allargare il nostro fronte democratico popolare unito, bisogna in tutti i campi del lavoro correggere con serietà ogni situazione suscettibile di compromettere l’unione del partito con il popolo (...) Abbiamo anche fra noi i rappresentanti dei partiti democratici e dei senza partito di Cina. Sono i nostri amici intimi che lavorano con noi, ci hanno sempre dato il loro aiuto».

E sul piano internazionale le prospettive erano le medesime:

     «Sul piano internazionale, è grazie al sostegno del campo della pace, della democrazia e del socialismo, con alla testa l’Unione Sovietica, e grazie anche alla simpatia profonda di tutti i popoli amanti della pace del mondo intero che noi abbiamo riportato le nostre vittorie. Solo certi gruppi monopolistici in alcuni paesi imperialisti che cercano di arricchirsi per mezzo dell’aggressione aspirano alla guerra e non vogliono la pace. Grazie agli sforzi continui portati avanti dai paesi e dai popoli amanti della pace, la tensione internazionale ha lasciato il posto a una certa distensione. Per ottenere una pace durevole nel mondo, bisogna che sviluppiamo ancora di più la nostra cooperazione amichevole con i paesi fratelli del campo socialista e che rafforziamo la nostra unione con tutti i paesi che amano la pace. Noi dobbiamo fare tutti i nostri sforzi per stabilire, con tutti i paesi desiderosi di vivere in pace con noi, relazioni diplomatiche normali sulla base del mutuo rispetto dell’integrità territoriale, della sovranità, dell’eguaglianza e del reciproco vantaggio».

È il linguaggio che veniva intonato nello stesso periodo da Krusciov in Russia al XX Congresso, che oggi per i maoisti segna la data della “restaurazione del capitalismo” in URSS, ma che allora proprio Mao salutava con queste precise parole:

     «Nel corso del XX congresso che ha tenuto poco fa (...) [il PC russo] ha formulato ancora un gran numero di giuste direttive e ha criticato le insufficienze che esistevano presso di lui. È certo che il suo lavoro conoscerà uno sviluppo di grandissima ampiezza».

Coesistenza pacifica su tutti i fronti dunque; all’interno con l’insieme dei contadini e con la borghesia nazionale; all’esterno con tutti i paesi “amanti della pace”. Che cosa c’è, in tutto questo, di diverso dal “revisionismo” che oggi fa tanto schifo ai “marxisti puri” come Mao?

La ragione di prospettive così poco rivoluzionarie sta nel fatto che lo sviluppo nazionale della Cina sembrava ancora svolgersi in maniera lineare e senza gravi intoppi. Mao prevede di raggiungere la piena stabilizzazione dell’industria in pochi anni e pensa che i capitali russi affluiranno copiosamente permettendo il conseguimento in breve tempo dell’industrializzazione del paese. Infatti anche le previsioni del congresso dal punto di vista dello sviluppo economico sono trionfalistiche:

     «Il compito storico estremamente complesso e difficile che consiste nel trasformare la proprietà privata dei mezzi di produzione in proprietà collettiva socialista è già per l’essenziale compiuta nel nostro paese. Attualmente la questione di chi trionferà nella lotta ingaggiata tra il socialismo e il capitalismo nel nostro paese è già risolta (...) Noi dobbiamo, nel corso di tre quinquenni, costruire per l’essenziale un sistema industriale completo, tenuto conto del fato che il nostro paese ha una forte popolazione e risorse abbondanti».

All’indice - All’inizio capitolo



27. Ciò che i Cinesi spacciano per "Costruzione del socialismo"

Abbiamo visto che, nelle previsioni del 1956, la trasformazione “socialista” dell’economia era, secondo i dirigenti cinesi «compiuta per l’essenziale» e per il resto avrebbe dovuto compiersi in pochi anni. Nella miglior tradizione staliniana, essi intendono per costruzione “socialista” l’industrializzazione della Cina e la nazionalizzazione dell’industria, la cooperazione nell’agricoltura e nel campo dell’artigianato e della piccola produzione. Una volta realizzato completamente questo compito, la trasformazione socialista sarà un fatto. In questa visione non marxista, né tanto meno leninista, il passaggio dal capitalismo al socialismo non è un capovolgimento totale del modo di produzione e delle leggi che lo regolano, ma un semplice cambiamento nei rapporti di proprietà. La nazionalizzazione dell’industria e l’eliminazione graduale della proprietà individuale dei capitalisti e dei contadini vengono presentate come socialismo. Restano in piedi tutti i rapporti e le categorie tipiche della società e del modo di produzione capitalistico: mercato, lavoro salariato, denaro, capitale, profitto. Restano in piedi le classi sociali: lavoratori salariati, borghesia, piccola-borghesia, contadiname ecc. È un “socialismo” con le classi, col commercio, col capitale, col salario! È, in realtà, la negazione del socialismo e il perpetuarsi come in Russia, del modo di produzione capitalistico sotto una maschera populistica e democratoide.

Dopo il 1956 le posizioni ufficiali dei dirigenti cinesi sono, è vero, cambiate; il connubio lattemiele del 1956 ha lasciato posto, sia all’interno sia all’esterno, alla verbale affermazione di un ritorno al “vero marxismo”. Ma la prospettiva che maschera da socialismo la semplice costruzione del capitalismo è rimasta la stessa. Lo dimostreremo nei prossimi studi.

All’indice - All’inizio capitolo


FINE