Partito Comunista Internazionale
LA QUESTIONE EBRAICA OGGI

Serie di rapporti presentati nelle riunioni di partito da ottobre 2004 a settembre 2007
 
 

Testo esteso in "Comunismo" nn. 60/2006-64/2008.


 
 
1.   Riflessioni su un tema rancido: chi è ebreo?
2.
Il mitico Popolo d’Israele
3.
Dietro le generalizzazioni la lotta delle classi
4.
Universalismi in conflitto
5.
Un’identità per la borghesia tedesca
6.
Il Focolare nazionale
7.
Davar, Dire e Fare
8.
Liberi dal Faraone-Capitale
9.
Trenta denari, Tradimento o investimento?
10.
Il comunismo

 
 
 
 
 
 


Capitolo esposto a Cortona, ottobre 2004.

1. Riflessioni su un tema rancido: chi è ebreo?
 

Il modo di trattare la Questione ebraica, oggi, lo conosciamo tutti, almeno a parole: si parte da una definizione sovrastrutturale di ebreo, allo stesso modo in cui si parlerebbe dell’essere cristiani o musulmani. Anzi peggio, e sappiamo perché. Niente di più odioso e falso, dal punto di vista del metodo proprio del materialismo storico e dialettico. Dopo che sembrava un elemento acquisto da tutti che non esiste una razza ebraica, allo stesso modo in cui non esiste una razza cristiana, con la ripresa della virulenza fondamentalista, non solo islamica, ma anche cattolica e, perché no, ebraica, si ripiomba con una facilità disarmante in luoghi comuni che ci si illudeva da tempo risolti. Ciò non toglie che si possa e si debba parlare della questione, se non altro per ribadire le nostre valutazioni generali e particolari.

Se ancora un maitre à penser come Sartre si dilettava a chiedersi sulle sue Reflexions sur question juive fino a che punto l’ebreo è più intelligente del cristiano, c’è poco da sperare nel modo di affrontare la questione da parte del pensiero borghese. Scriveva: «È in pari tempo vero e non vero che l’ebreo è più intelligente (...) Dovremmo dire piuttosto che ha la propensione per l’intelligenza pura, cui ricorre in relazione a tutto ed ogni cosa, che l’uso che ne fa non è ostacolato dagli innumeri tabù che opprimono ancora il cristiano, o dalle complicazioni estetiche nelle quali volentieri si crogiola il non ebreo. E dovremmo aggiungere che nell’ebreo si cela una sorta di appassionato imperialismo della ragione: non desidera soltanto convincere gli altri che ha ragione, il suo scopo è quello di convincere gli altri che al razionalismo deve essere attribuito valore assoluto. Si sente un missionario dell’universale, contro l’universalismo della Chiesa cattolica, dal quale è escluso; uno strumento capace di giungere alla verità e di stabilire un contatto spirituale tra gli uomini».

Parole certo suggestive. Ma di cosa parla Sartre? Dell’ebreo ancora una volta secondo il tabù piccolo-borghese, dell’appartenente ad una presunta razza particolare. Noi intendiamo parlare della questione ebraica, non dell’ebreo idealizzato e tabuizzato, delle sue implicazione nella storia antica e moderna, in particolare di quella della lotta di classe, nel corso della quale gli ebrei sono stati considerati a volte la personificazione stessa del capitalismo, o all’opposto del bolscevismo, secondo l’idea di un complotto contro i gentili.

Partendo dall’ebreo Marx, si deve subito dire che il tanto scandalo menato da certi critici e odiatori del comunismo, a proposito del fatto che la sua concezione della storia in fin dei conti non è che una escatologia, propria del fondamentalismo ebraico, sia pure immanentizzato, non costituisce affatto un pietra d’inciampo, anzi! Marx, nel suo studio del mondo reale che non ha nulla a che fare col mondo delle idee, prende in considerazione la realtà effettiva, o, come egli dice, empirica e materiale dell’uomo e del mondo in cui si trova ad operare. Inoltre prevede ed auspica il tempo in cui «la scienza naturale comprenderà la scienza dell’uomo, come la scienza dell’uomo comprenderà la scienza naturale, e in cui non ci sarà che UNA scienza» (Manoscritti economico-filosofici del 1844).

Mentre oggi quasi unanimemente si sottolinea quanto la cultura occidentale debba alle radice ebraiche, e non solo greche o romane, non si vede perché si voglia gettare non semplicemente un’ombra di discredito, ma vero odio nei confronti dell’ebraicità di Marx, tanto che si sottolinea il "battezzato Marx", quasi a rincarare la dose della condizione di gran parte degli ebrei, costretti a fingere per potersi integrare nella società dei gentili.

Poiché a noi non interessa come base di partenza la sovrastruttura ma la struttura, non fa per niente effetto, anzi ci conferma che tra gli elementi primi della cultura ebraica si riscontri lo stretto legame tra Dire e Fare, tanto che sia il verbo dire, deber, sia il termine dabar significano nelle stesso tempo Dire e Fare, Fatto e Parola, e che in ebraico non esiste il verbo Essere al presente, tanto che la traduzione dell’impronunciabile Jahvéè "io sarò colui che sarò", a sottolineare come la storia venga proiettata sempre nel futuro. Se nella concezione ebraica la storia è vista in questi termini, al contrario della nozione ciclica dei Greci, dovremmo adontarcene? Chi può negare che è nell’ambito dell’intellettualismo greco che matura la giustificazione della divisione in classi, fino alla concezione platonica del "comunismo aristocratico"?

Se partissimo dalla sovrastruttura per comprendere a fondo la natura della vita sociale, dovremmo prima chiarire da quali elementi base prendere le mosse, una volta riconosciuto che la cultura è una mescolanza di elementi diversi, per mediazioni molto complicate ed affascinanti. Ma una volta che abbiamo deciso di partire dalla struttura, non ci fideremo più né della storia escatologica né di quella ciclica, senza con questo ignorare che l’uso della lingua, di una lingua, può condizionare qualsiasi ricerca, o anche indirizzarci dove questa vuole. Il metodo a cui si attiene il materialismo storico è criticamente consapevole di questi problemi, ma non per questo si tira indietro nel tentativo di indagare all’interno delle condizioni materiali, che potranno smentire, o anche per certi aspetti confermare determinate coordinate di pensiero.

Allora l’ebreo Marx non può essere né condannato né semplicemente esaltato se in certi movimenti di base del suo pensiero sembra attenersi alla sua cultura d’origine, oppure se in altri può essere considerato un eretico, un sovvertitore d’ogni precedente scuola.

Precisati questi punti, anche la conoscenza e la valutazione globale della questione ebraica assume un significato diverso. In particolare una volta che una certa parte dell’ebraismo storico si è costituito in Stato, con tutte le conseguenze di questo evento.

Per tutta la seconda metà dell’Ottocento, fino alla costituzione dello Stato di Israele nel 1948, la tematica dell’ebraismo si è svolta all’insegna della problematica sulla diaspora ebraica, sulla presenza di cittadini ebrei nei vari paesi europei, fino alle congiure, vere o presunte, frutto di una volontà di quell’etnia di conquistare e dominare il mondo. La nostra interpretazione dei complotti, da qualunque parte provengano o s’ipotizzino, è nota: chi si occupa di storia sociale e delle classi non può cadere in simili fanfaluche. Eppure tensioni e conflitti tra gli Stati furono risolti in questa direzione: gli ebrei, frustrati per la loro esclusione, non potevano che ordire congiure...

Abbiamo abbastanza detto e scritto su questi temi, per cui ci sembra necessario vedere che cosa è successo una volta che l’assetto del mondo scaturito dalla Seconda Guerra imperialistica ha contribuito a portare alla formazione di uno Stato "ebraico", Israele. Non si può non considerare subito che il piano degli Stati borghesi dopo la sconfitta militare e politica – ma non storica e sociale – del nazi-fascismo fu quello di disinnescare la questione della presenza residua del popolo ebraico attraverso la creazione d’uno Stato indipendente, che attraesse nella "Terra Promessa" gli ebrei che lo volessero, in modo da bonificare della loro presenza i sovrappopolati paesi della distrutta Europa.

Come si vede si procedeva ancora secondo le vecchie categorie e tabù, come se ebrei significasse razza, con inconfondibili caratteristiche etnico-religiose. Nella nostra ottica sono sempre esistiti ebrei ricchi ed ebrei poveri, come inglesi borghesi ed inglesi proletari. Allora ed ora non siamo disponibili ad esercitarci in altre elucubrazioni sulla questione. Tanto per rendere l’idea citiamo una battuta attribuita al patriarca fondatore dello Stato di Israele Ben Gurion: «Il nostro Stato non sarà uno Stato normale finché non ci saranno ladri e prostitute come in tutti gli altri Stati». Che cosa fa dire l’esigenza di normalità, anzi, di normalizzazione! Dunque bisogna ammettere che la nascita di uno Stato "ebraico" non dissipa ambiguità ed equivoci.

La stessa insistenza con cui si sostiene oggi nella società civile che lo stermino ebraico fu "Male assoluto" indica che si vuole continuare a trattare l’argomento come assolutamente singolare, e dunque, si demonizzi o si santifichi, siamo al punto di partenza! Ogni volta che si è preteso di aver individuato la singolarità dell’ebraismo, ci si è resi conto di toccare un aspetto importante, ma non tale da esaurire la questione. Il nostro metodo ribadisce che per la via culturale o religiosa si possono dire solo delle mezze verità; ma se proprio ci si vuole tirare per i capelli, non ci rifiutiamo, e mettiamo a confronto le interpretazioni sovrastrutturali tra di loro.

Qual è la forma che meglio si attaglia a giustificare la moderna società capitalistica? Qual è l’ideologia che la rappresenta adeguatamente, ovvero, dalla quale il capitalismo ama farsi rappresentare? Oggi si risponde che il pluralismo delle idee non esclude nessuna interpretazione. Eppure, se solo si pensa al cosiddetto "pensiero unico", si deve ammettere che mai il Capitale ha rinunciato a cercare una concezione che unitariamente riesca a difendere il suo modo di vita sociale dagli attacchi nemici. Allora, se riandiamo alla storia passata, chi non ammetterebbe che nel passato si è visto nell’ebraismo l’immagine più calzante del capitale usuraio, odiato dal mondo feudale che vedeva nell’ebreo, senza fissa dimora, l’incarnazione stessa del denaro dato ad usura, e che costituì, nella forma dell’interesse, quella eccezione che poi sarebbe diventata la regola?

Ogni volta che determinate forme sociali hanno cercato un’espressione ideologica di supporto, sono nate tensioni viscerali tra i presunti portatori di visioni universalistiche. Sartre, andando a cercare la peculiarità dell’essere ebreo, la individua nella sua intelligenza, cioè in una ricerca quasi missionaria per l’universale,«che l’oppone alla Chiesa cattolica, dalla quale è escluso» (nonostante le insistenti domande di "perdono" che la Chiesa di Roma ha rivolto al popolo ebraico negli ultimi tempi, per far dimenticare due millenni di accuse di "deicidio", educando tenacemente all’odio).

Se la Chiesa cattolica è riconosciuta essere stata il baluardo del modo di vita feudale, con l’avvento della Riforma protestante, all’inizio dello sviluppo capitalistico in grande in Europa, lo spirito del capitalismo fu ideologicamente interpretato dal Protestantesimo, o cristianesimo riformato, in tensione con la casa madre di Roma. Per altro Hegel viene riconosciuto come l’ultimo filosofo cristiano che si è posto come teorico dello Stato etico, «certamente luterano, ma proprio per questo animato alle radici dalla fede cristiana» (Severino).

Ma allora chi rappresenta meglio oggi il capitalismo imperialistico in crisi? Che tipo di universalismo ideologico e religioso lo interpreta meglio? L’ebraismo, definito da Sartre come capace di celare un appassionato imperialismo della ragione, mentre il suo scopo è quello di «convincere gli altri che al razionalismo deve esser attribuito un valore assoluto», in che rapporti sta con il cristianesimo?

È evidente che la pretesa di individuare all’interno di una cultura o di una etnia l’aspetto specifico che la caratterizzerebbe è sempre parziale ed unilaterale; né siamo dell’opinione di poter stabilire a livello teorico chi debba rappresentare ideologicamente la borghesia, come se questa classe consistesse in una sorta di categoria dello spirito. Ciò non toglie che quanto dice Sartre degli ebrei, come quanto sostiene Severino sull’eredità hegeliana, toccano aspetti degni di interesse, alla condizione che si respinga la tendenza ad attribuire al popolo ebraico una coesione ed una organicità smentita in più d’una circostanza dalla storia. Potremmo dire di più: l’attribuzione ad ogni costo di caratteristiche specifiche ad una religione o cultura fa parte dello sforzo di dare una fisionomia inequivocabile ad una esperienza storica quanto mai frastagliata e diversa. Forse il complesso della "cultura europea" è proprio quello di non riuscire a definirsi, un evidente senso di inferiorità, mille volte manifestato, ed espresso con accuse nei confronti degli ebrei stessi.

Non a caso, uno dei filosofi europei più controversi, Nietzsche, oscilla nel giudizio sugli ebrei proprio in una sorta di confessione della sua ammirazione per essi, accompagnata spesso da tirate polemiche micidiali, anzi mortali. Ruba volentieri alla cultura ebraica quanto crede dovrebbe essere tipico di quella tedesca: «Noi tedeschi siamo hegeliani, anche se non ci fosse stato un Hegel, in quanto, contrariamente a tutti i latini, attribuiamo istintivamente al divenire e allo sviluppo un senso profondo e un valore più ricco che non a ciò che è». Ma guarda caso, questa peculiarità culturale è tipicamente ebraica, prima che tedesca!

Come si vede, per questa via non si va molto lontano. Eppure nessuno nega che l’amalgamarsi di elementi della cultura ebraico-cristiana con quella del modo greco e romano, insieme con l’influenza non indifferente del mondo islamico, hanno forgiato l’ambiente europeo, esercitando un largo influsso nella realtà antica e moderna. È vano però pretendere di aver trovato lo specifico ebraico, o quello greco, o anche romano, indipendentemente dagli apporti di altre forme culturali di vita e di organizzazione sociale. Se seguiamo il metodo del materialismo dialettico invece siamo in grado di ricostruire le basi del mondo antico e moderno: al nostro criterio di indagine non sfugge neppure la più ardua categoria teologica o filosofica, seppure non presa a sé stante e separata dai fattori economico sociali che l’hanno prodotta.

Se pensiamo come il mondo occidentale ha preteso di giustificare, per la via teologica, il passaggio della tradizione vetero-testamentaria al cristianesimo, una congerie complessa di elementi materiali viene messa fuori gioco: e ne dobbiamo spiegare la ragione. È proprio con il criterio o della ragione assoluta, o di un universalismo astratto, utile per qualche circostanza, che la concretezza della storia viene perduta.

Ancora oggi, e inevitabilmente, ci si esercita sulle ragioni che portarono alla crocifissione di Cristo. Mentre per quasi duemila anni si è addossata la colpa all’intero "popolo ebraico", solo di recente si è compreso il limite e l’arroganza d’una simile posizione: così si è "deciso" che il popolo ebraico non è più "deicida". Si è spiegato il perché? No. Si è deciso così.

Abbiamo la pretesa di veder meglio nella questione, senza esaurire uno dei nuclei più delicati del pensiero occidentale. Marx, nella sua Critica dell’economia politica, sostiene che la "popolazione" intesa in senso statistico non è in grado di spiegare e giustificare la composizione di una determinata realtà economico-sociale. Questa osservazione è utile e valida non solo per comprendere la società capitalistica di oggi, ma è applicabile anche al mondo antico. Può la "popolazione" spiegare la composizione della società ebraica del tempo di Cristo, rendere ragione degli interessi e dei fattori compositi che agitavano la sua vita interna durante l’occupazione dell’Impero di Roma? Certamente no. Anche quando gli ambienti religiosi hanno cominciato a studiare quel tempo attraverso discipline maturate nell’età moderna, come la linguistica, l’antropologia strutturale e culturale, l’economia politica, la sociologia, l’hanno fatto in via strumentale, come ad esempio si fa nell’enciclica Divino afflante spiritu di Pio XII, il papa tanto discusso a proposito della funzione esercitata durante la Shoah.

Ebbene, l’interesse espresso per quegli apporti non ha modificato per nulla il giudizio sulla natura del Vecchio e del Nuovo Testamento, compresa la nozione secondo la quale la crocifissione di Cristo è spiegabile solo come Mistero, religioso, unico e assoluto, non realizzabile in alcun modo. Si provi invece a valutare gli interessi che animavano il popolo ebraico, a conoscere la sua interna composizione sociale, i rapporti delle classi dominanti col mondo di Roma, e ci si accorgerà come le cose assumono un’altra dimensione.

Di questi aspetti la critica se n’occupa sempre di più, eppure, a livello di chiese e di Chiesa, non è stata in grado di portare le ragioni per le quali si è sostenuto che il popolo ebraico sarebbe colpevole in toto col suo organismo dirigente, il Sinedrio. Che cosa ha spinto a riconoscere l’assurdità di tale giudizio?
 
 
 

2. Il mitico Popolo d’Israele
 

Non saremmo materialisti dialettici se fossimo fautori d’una logica pura al di sopra dei fenomeni storici, indipendentemente dalla concretezza dei problemi naturali e sociali. Ciò non significa da parte nostra indifferenza al valore della logica e della stessa matematica, e perfino della metafisica. Ebbene, una delle questioni che non si è ancora liberata dalle antinomie e dalle contraddizioni è quella del rapporto parte/tutto, specie/genere ed altre coppie significative sulle quali si fondano e il linguaggio e i concetti. Quando parliamo della questione ebraica ed affrontiamo il problema della responsabilità e colpevolezza collettiva, o solo di determinati gruppi dirigenti quali il Sinedrio, siamo di fronte a questo problema.

Noi abbiamo sempre sostenuto la tesi per la quale prima della Logica c’è l’Azione, sia pure non un tipo di azione/movimento fine a sé stesso. Nello stesso tempo non ci impanchiamo a sostenere un’etica che non sia incarnata nel fare storico. Tanto è vero che i presunti "eterni" problemi della logica pura, o di quella matematica, vengono al pettine in determinati svolti, allorché l’urgenza anche teorica preme.

Ne è un esempio la discussione fra la teoria degli insiemi proposta da Frege e quella opposta da Russel, detta "dei tipi", sorta quando a livello storico stavano maturando questioni che esigevano un linguaggio chiaro, o in grado di prendere atto delle sue insuperate antinomie. Contraddittorio infatti può apparire il postulato del Frege secondo cui«ad ogni proprietà corrisponde sempre un insieme». Dato un popolo, un partito, un’organizzazione in generale, ci si domanda se il singolo "elemento" "appartenga o no all’insieme", e se sia, ad esempio, eticamente corresponsabile degli atti compiuti dall’insieme. Nelle società organiche l’appartenenza ad un’entità collettiva significa corresponsabilità organica; così si ragiona nello Stato etico. Nelle società atomistiche moderne, introdotte dalla teorica liberale, non è così: l’appartenenza non significa corresponsabilità, in quanto i diritti individuali vengono teorizzati come precedenti, "naturali", non costituiti dall’insieme Stato o organizzazione K. Chi ha ragione? Come stanno veramente le cose? L’antinomia è aperta.

Nel caso del popolo ebraico questa antinomia, che appare così aperta, nel corso storico non è sembrata neanche pensabile, almeno nella percezione inculcata e diffusa nella cultura "altra", in specie cristiano-occidentale. Per definizione il popolo ebraico doveva essere inteso come un tutto, responsabile e colpevole, se non altro per aver rivendicato per ragioni religiose di essere "il popolo ebraico".

Appare che siamo di fronte ad un’atroce vendetta. Ma se rimaniamo nell’ambito dei sentimenti e della percezione emozionale, difficile che facciamo un qualche passo in avanti. Se stiamo al contrario sul terreno concreto degli eventi politici-sociali, che naturalmente non escludono affatto le forti emozioni, siamo della convinzione che sia con l’impostazione logica di Frege sia con quella di Russel, assistiamo al classico caso in cui si pretende di parlare prima della Logica del discorso e del pensiero, e poi dell’Azione, degli eventi. Di cui le stesse questioni logico-semantiche sono tuttavia un aspetto non indifferente.

All’interno del popolo ebraico del tempo di Cristo erano presenti evidenti contraddizioni sociali, che mettono in discussione la nozione stessa di gruppo organico. Siamo consapevoli della cautela necessaria nel leggere una storia molto lontana, seppure necessariamente secondo lo schema della lotta tra le classi, e non pretendiamo certo di interpretarla con categorie e forme dialettiche inadeguate e di comodo. Eppure è il caso di ricordare che l’intreccio tra Sinedrio, con a capo il fin troppo noto Caifa, il rappresentante di Roma Pilato, e gli altri ceti che si muovevano in Palestina, consisteva fondamentalmente in interessi contrastanti tra loro, ma legati da alleanze esplicite o implicite.

Che il Sinedrio rappresentasse gli interessi religiosi e politici economici dei proprietari di terra, ostili sì alla dominazione romana ma disposti ad una reciproca tolleranza, mentre all’interno del popolo si agitavano, oltre che partiti, interessi opposti, che denunciavano e si opponevano violentemente all’imperio di Roma in combutta col Sinedrio, è chiaramente individuabile in ogni sia pur discutibile lettura della realtà di quel tempo.

Gli Zeloti, a cui sembra appartenesse Giuda, "il traditore", rappresentavano l’ala violenta, oggi diremmo nazionalista, che non condivideva la politica e l’azione dei numerosi Soteroi che pullulavano nella regione, e indicavano vie contrastanti nella interpretazione del messianesimo tipico di quella cultura. Di certo Cristo, che la successiva interpretazione delle chiese cristiane vedeva non come uno dei Soteroi, ma il Soteros per eccellenza, unico e inviato da Dio al suo popolo, ma in una versione esclusivamente o peculiarmente teologico messianica, non si trovava nelle posizioni di Giuda.

È inoltre aperta da sempre la diatriba sulla possibile rilevanza politica della predicazione di Cristo, che non poteva limitarsi a sostenere "la via del cielo", se solo pensiamo alla concretezza propria del sentire ebraico. Ciò non ci induce certo a stiracchiare la predicazione del Nazareno, ma nello stesso tempo a non intenderla secondo gli interessi religiosi di altre epoche più vicine a noi, preoccupate solo di relegare la sua figura nell’ambito di un empireo che è estraneo alla cultura del tempo.

Pur da questa essenzialissima cronaca si evince che la responsabilità della morte di Cristo attribuita al "popolo ebraico" nella sua estensione storico-temporale ed etica, costituisce un unicum irripetibile. Sono i proprietari e il sistema sacerdotale legato a Roma che, temendo la eversione dei Soteroi, per ragioni materiali prima che religiose, decidono sulla pericolosità del Messia, e si assumono la responsabilità della sua condanna a morte, con la complicità del procuratore romano Pilato.

Ma se torniamo alla precondizione logica che abbiamo tirato in ballo, ci rendiamo conto che ancora oggi, quando diciamo che un certo evento coinvolge una intera collettività, dobbiamo chiarire il senso delle figure retoriche e cui ricorriamo per raccontarlo. È venuto mai in mente a qualcuno di dire che i Greci, in quanto popolo, o meglio, gli ateniesi in toto, sono i responsabili della morte di Socrate? Oppure, per venire a tempi recenti, che "gli italiani" in quanto razza (inesistente), o in quanto unità etico-nazionale, sono colpevoli collettivamente della morte del duce?

La "teoria dei tipi" con la quale Russel crede di risolvere l’antinomia di Frege in realtà è il prodotto di una cultura e di un modo di sentire, quelli dell’empirismo moderno di marca anglosassone, che fonda il liberalismo come dottrina politica e teoria del diritto. Secondo la "teoria dei tipi" un insieme è sempre un oggetto di tipo diverso rispetto agli elementi che lo compongono. Sulla base di tale principio, che chiamano "principio fondamentale della teoria dei tipi", Russel erige la sua "teoria degli oggetti logici". Alla sua luce non ci può essere confusione tra il singolo uomo e il gruppo cui appartiene, popolo, partito, organizzazione. Il nesso tra parte e tutto che ha ossessionato la metafisica antica, in quest’approccio logico viene infranto.

Possiamo con questo dire che l’antinomia è risolta? Certo trova una soluzione possibile a livello logico. Quali le ricadute in campi affini, distinti o diversi? Non esiste colpevolezza di un individuo che possa essere derivata da un gruppo, popolo o partito. Il diritto borghese, nemmeno d’impianto romano, non conosce colpevolezza di gruppo: se una banda di criminali si macchia di un reato, il giudice non punisce il gruppo, ma deve cercare i livelli di colpevolezza specifica dei singoli componenti. Anche per noi comunisti, organicisti e anti-liberali per natura, l’adesione alla milizia del partito, per esempio, resta una scelta e una responsabilità individuali.

A proposito della questione ebraica si può dire che la Storia ha una logica, ma non è semplicemente Logica. O peggio ancora "logistica", come intesero gli aguzzini che provarono a risolvere la questione come se fosse un problema di organizzazione distruttiva. Eppure l’analisi della precondizione logica qualcosa dovrebbe insegnare: prima di tutto che non è sostenibile una interpretazione della storia risolta a colpi di deduzione o di induzione.

Il fatto che la questione ebraica sia stata sovraccaricata di senso, al punto che chi oggi negasse che l’olocausto è Male assoluto potrebbe essere accusato di non avere un codice morale, indica quanto su questo argomento gli animi continuino ad essere eccitati, anche se a ragione. A livello di storia e di storiografia si è giunti all’assurdo di far decidere ai tribunali se l’olocausto sia stato reale o solo immaginato: dai tempi di Galileo mai la ricerca era stata affidata ad istanze di questo genere. Anche questo è un segno di quanto sulla questione si sia speculato, ben lontani dalla ricerca e dal giudizio, che compete non tanto o solo alla storiografia, o ai tribunali, essendo prodotto della storia, che a sua volta non è riducibile a storiografia! Nella nostra nozione la storia veramente vissuta è una complessa dialettica di azioni fatte dagli uomini e di riflessioni su di esse.

Non esiste tribunale né di tipo giudiziario né storico-storiografico che possa dare una risposta definitiva alla questione ebraica né a qualsiasi altro problema aperto. Ne consegue che la pretesa di risolvere tale questione, come se essa non fosse ancora aperta e da comprendere nelle dinamiche che l’hanno determinata, come pure nelle sovrastrutture delle quali è stata sovraccaricata, è segno di arroganza e indizio di disegni politici da respingere. Dovremmo denunciare il fatto che continuano ad essere usate categorie, concetti e pregiudizi inadeguati e di comodo, che le forze politiche e culturali della borghesia in quanto classe non intendono mettere da parte per il fatto che sono utili per nascondere la vera natura e dinamica di eventi che hanno prodotto la cosiddetta "questione ebraica".

Perché allora categorie e pregiudizi, oltre che luoghi comuni, sono duri a morire? Perché sono continuamente alimentati in qualche misura da chi ne trae vantaggio.

Il primo dei luoghi comuni che è necessario affrontare approfitta del fatto che l’odio contro la modernità, diffuso a piene mani dagli ambienti più diversi, è distribuito nelle varie classi sociali, non escluso lo stesso proletariato. Secondo David Meghnagi:

«L’odio contro la modernità e tutto ciò che ad essa è apparentato, ha storicamente coinciso con l’odio contro quella parte della popolazione che dalla nascita del moderno traeva le occasioni stesse del suo ingresso nella società a pieno titolo (...) Gli ebrei restavano l’obiettivo principale di ogni discorso reazionario, in quanto immagine tangibile del cambiamento avvenuto col crollo del vecchio ordine feudale, immagine negativa stessa della modernità, simbolo e quintessenza del capitalismo e della democrazia, del socialismo e del comunismo».
Ecco il primo argomento. Poiché intendiamo vedere che cosa è successo di nuovo, come mentalità e come realtà concreta, con la formazione di uno Stato "ebraico", è utile analizzare prima l’aspetto che più inquietava le vecchie forze sociali prima dell’avvento del capitalismo. Senza questo retroterra non si comprende come lo Stato degli Ebrei rientri ancora una volta nel pregiudizio antiebraico: finalmente sappiamo dove stanno gli ebrei, e verso quale tipo di realtà vengono convogliate le energie ebraiche che non risiedono lì.

La nostra lettura dialettica degli eventi storici, in particolare della modernità inaugurata dal capitalismo che ha abbattuto il sistema feudale, ci mette nella condizione di giudicare non secondo un metro astratto e rigido, ma capace di comprendere, e non di giustiziare, tanto per parafrasare il monito di Benedetto Croce. I nemici della modernità, in nome della vecchia società divisa in ordini e non ancora in classi osmotiche, non potevano sopportare chiunque non fosse radicato in un determinato territorio: che vuol dire infatti "servo della gleba" se non contadino legato al feudo, in modo che non si trasformi in "ebreo errante", secondo l’epiteto che l’ideologia cattolica ha seminato a piene mani per tutto il millennio, segnando a dito lo sradicato, il diverso, l’incontrollabile?

I contadini che alla vigilia dello sviluppo industriale si ammassavano intorno alle grandi città, come Londra, non vengono marchiati a fuoco sulla spalla per essere riconosciuti e controllati, come se fossero automaticamente delinquenti, e non invece degli espropriati costretti a cercare fortuna nell’ambiente urbano? Ma chi sono l’emblema stesso della vita transumante, piuttosto che legata "al sangue e al suolo", come diranno i nazionalsocialisti nella loro martellante propaganda, storicamente, se non gli ebrei della diaspora? Ecco allora che da questo momento saranno assimilati ad essi i proletari che non sono radicati alla terra, perché per loro natura non hanno patria, essendo "un esercito permanente di emigranti", ieri ed oggi!

Se ci occupiamo della questione ebraica, lo facciamo in questa ottica, non tanto per la difesa d’ufficio di una realtà che si ammette deformata, manipolata, strumentalizzata per alimentare odi e pregiudizi, per mettere nello stesso sacco una diversità di problemi che hanno assunto un significato tragico sempre più grave, fino alle attuali migrazioni planetarie, nella fase imperialistica del capitale. Non ci fidiamo certo delle correzioni di rotta che si danno per buone oggi, allorché si chiede "perdono" e da ogni parte si leva la vacua litania: "mai più!".

Se allora, per la società degli ordini feudali, ebraismo è uguale liberismo-democrazia-socialismo-comunismo in un’unica sequenza e fascio, ci si domanda come certi liberali di oggi, certi democratici, certi "socialisti" e certi "comunisti" non riescano a vedere che la tesi del complotto è semplicemente un’aberrazione, e come non ci si renda conto che l’antidoto ad una teoria di questo genere non sia la fede che dopo l’olocausto tutti abbiamo finalmente capito e mai più assisteremo a nefandezze del genere!

La nostra versione della questione non ha niente a che vedere con simili ipocrisie e semplificazioni retoriche. Se il proletariato nascente si è trovato ad essere assimilato, non per etnia o religione, ma per condizione privata da ogni radicamento ad una terra e ad una patria, ciò non significa che la sua storia e la sua funzione storica debba essere confusa con un presunto "complotto ebraico". Sappiamo che nella semplificazione ideologica nazista ebraismo significa non solo capitalismo ma anche comunismo! Per verità dovremmo ricordare che furono i gesuiti a teorizzare, nell’ottica delle classi feudali e della versione chiesastica, che la sequenza inevitabile fosse liberalismo-socialismo-comunismo!

Il capitalismo, che ha avuto il merito di liberare i servi della gleba, ad un certo suo grado di sviluppo diventa il nemico della società di specie, non più progressivo ma a sua volta reazionario. Non ci stiamo dunque al gioco che tutto è uguale, di fronte alle ardue realtà della dialettica storica. Non siamo disposti, in nome né d’un insensato antisemitismo né d’un filosemitismo generico e riparatore, a rinunciare alle differenze che giustificano la lotta per la società senza classi.
 
 
 

Capitolo esposto a Torino nel maggio 2005.

3. Dietro le generalizzazioni la lotta delle classi
 

La generalizzazione abusiva come vizio retorico è vecchia quanto l’essere umano, ma non c’è dubbio che in determinate circostanze svolge una funzione ideologica specifica, e cioè quella di nascondere le pieghe della realtà, stirandole in modo tale da impedire la conoscenza delle sue complesse articolazioni, quelle che permetterebbero di addivenire ad una scienza rigorosa, o quanto possibile di essa. Non c’è classe dominante antica o moderna che non vi abbia fatto ricorso. Se pensiamo alle stesse definizioni teologico-ideologiche ci accorgiamo come il tentativo è sempre quello di coprire la realtà, come fa il Mito, d’un velo più o meno sottile che lenisca la sua vista "orribile", come ebbe a dire Leopardi.

Le generalizzazioni in campo ideologico ricorrono, come è noto, a un uso indebito del principio di induzione. Se diciamo che presso un certo popolo sono frequenti i ladri, non possiamo dire che tutti gli appartenenti a quel popolo sono ladri. Con gli ebrei se, a causa della proibizione a possedere la terra, succedeva spesso che si trovassero a praticare l’usura, oltre alle più varie attività di tipo artigianale e intellettuale, non possiamo generalizzare dicendo che tutti gli ebrei erano usurai.

Quando non si voglia o si abbia tempo per capire, si tende a dare un giudizio di comodo, spiccio e per questo senza un fondo di verità, e si ricorre volentieri alla generalizzazione abusiva. Quando però, al di là della tendenza a farlo per pigrizia, la si pratica scientemente allora l’uso diventa ideologico nel senso deteriore del temine. Che anche la cultura ebraica abbia avuto il destino di cader vittima delle generalizzazioni abusive nessuno può negarlo. Se vogliamo potremmo enumerarle: gli ebrei sono inaffidabili, usurai, sradicati, doppiogiochisti, proclivi all’ateismo, intellettualmente disonesti, sanguinari, affetti da delirio di onnipotenza, vittimisti. E, soprattutto, colpevoli!

Non esiste altro modo di trattare la questione che attendendosi ai dati storici, alle condizioni che hanno prodotto determinati comportamenti e codici etici.

Non si deve dimenticare che i metodi di trattamento del nemico anche nell’antichità classica, che coincide con il passaggio dell’ebraismo dal Vecchio Testamento al Nuovo, erano d’una crudeltà senza limiti. I Faraoni succedevano ai loro predecessori distruggendo i segni del loro passaggio, eliminazione di obelischi, di riferimenti, della memoria in generale. I cristiani non furono da meno, sia nei confronti degli egizi sia di tutte le altre culture considerate pagane, in particolare di quella ebraica vetero-testamentaria, letta tutta nella direzione dell’assoluta novità cristiana. Se non dimentichiamo non solo i fatti ma anche la mentalità interpretativa di essi, ci renderemo conto del perché, nell’ambito del dominio culturale cattolico-cristiano, gli ebrei siano stati le vittime designate di tanta durezza e violenza.

L’ultima e più grave delle generalizzazioni riferite al popolo ebraico è la colpevolezza. Chissà perché è quella che suggestiona di più, non solo i singoli, ma anche le organizzazioni. La storia intesa come colpevolezza implica la responsabilità, in positivo ed in negativo. Che nella storia dell’ebraismo questa nozione sia esasperatamente forte non c’è dubbio. Dio sceglie il suo popolo, e con esso stabilisce una alleanza; ma se il popolo vuole avere la sua assistenza incondizionata, dovrà essergli fedele, perché egli, sulla Bibbia, "è un dio geloso"! La responsabilità nella vita, che è poi la storia, ha questa valenza: si deve fare la volontà di Dio, sempre, in ogni circostanza dell’esperienza. Appena il popolo ebraico traligna, subisce la vendetta, giusta vendetta, di Dio. Questa dialettica ha così segnato la storia dell’Occidente che anche chi crede d’aver respinto l’ebraismo, più o meno consapevolmente si muove secondo lo spirito di esso. Il tema della responsabilità, della colpevolezza, una volta che la storia vada in una direzione non desiderata, si fa sotto! Ed allora via alla ricerca del colpevole, per punirlo, perché espii, in modo da ritrovare l’alleanza, che salva e porta alla Terra Promessa.

Ma si dovrebbe riuscire a giustificare perché viene riferita essenzialmente al popolo ebraico. Se facciamo qualche riferimento ad altre culture ci accorgiamo che gli stessi Greci hanno vivo il senso della responsabilità, tanto che il filosofo Anassimandro dice che la vita non è altro che il fio da pagare per esser nati, un po’ il corrispettivo della "morte che si sconta vivendo" del poeta ermetico Ungaretti. Ma i greci, in generale, attribuiscono, almeno fino alla nascita della soggettività con Euripide e Socrate, la responsabilità al Destino.

Dio, il Dio degli Ebrei è forse l’analogo del Destino? Se è vero che ogni sovrastruttura culturale (è inutile che ci si continui ad offendere per questo termine, che è valido in senso tanto oggettivo quanto figurato, poiché la cultura sta sopra, a volte copre e nasconde le strutture più profonde e basilari) d’ogni popolo o organizzazione sociale è il prodotto di una condizione base di tipo economico e sociale in senso lato, allora si dovrà spiegare perché gli ebrei si attengono all’alleanza col loro Dio unico, e perché i Greci pensano che gli stessi Dei sono sovrastati dal Destino. Non che la risposta sia automatica, ma per via dialettica dovremmo essere in grado, o almeno fare lo sforzo di ricostruire la questione.

Innanzi tutto il Mito del primato di Javè è da avvicinare con maggiore senso critico di quanto sia in grado di fare qualsiasi storia delle religioni. Nel VII secolo avanti Cristo si profila in terra d’Israele il movimento Solo Per Javè (si veda il lavoro di Lang, del 1967): prima del Dio geloso e unico si combattevano una serie di Baal, o Signori, compreso il famigerato Baal-ze-bu, o Signore delle Mosche, a noi tramandato come il diavolo. È tra lotte sanguinose e complesse contraddizioni che si fa strada il Dio della Bibbia! A livello sociale si tratta di riconoscere che si intrecciano interessi conflittuali tra una miriade di clan, popoli che abitano una regione tra le più fertili e contese, capaci di innescarne gli appetiti. Il movimento Solo Per Javè significa tendenza all’unificazione sotto un unico programma politico e ideologico degli ebrei del tempo. Certo, non siamo di fronte a lotte di classe come le intendiamo oggi, ci mancherebbe! Ma l’Unico Dio (e Lang, che è un Domenicano, lo riconosce) si apre la via in questo contesto storico.

I greci conoscono una storia di singole Poleis, ciascuna con propri problemi e sviluppi separati, e soltanto ad un certo grado di sviluppo di esse si assiste al tentativo egemonico di varie città, come Sparta, Tebe, Atene. E la sovrastruttura culturale la conosciamo: politeismo, poi sviluppo della filosofia come disciplina razionale.

Quasi sicuramente la colpevolezza di Israele affonda le radici nel sua elezione da parte di Dio tra tutti i popoli della terra. Non c’è dubbio, e la storia lo mostra in una infinità di occasioni, che qualsiasi classe in conflitto con le altre non si è limitata, come si pretende oggi, a opporre i suoi eserciti ed i suoi interessi contro il nemico, ma tutta la sua visione del mondo, rivendicando così la superiorità dei propri valori culturali e religiosi. Se oggi si tende ad escludere, anzi a scoraggiare lo scontro di civiltà per motivi e tattici ed ideologici, nel mondo antico nell’ora della guerra si mobilitato tutte le energie. Del resto, alla resa dei conti, circola anche nel mondo di oggi il Gott mit uns, la formula Dio e con noi! Non c’è allora da meravigliarsi se gli ebrei, complessivamente deboli, a forze quali Babilonia, i persiani, i romani abbiano opposto la potenza del loro Dio.

La singolarità della loro posizione è che questo Dio viene presentato con caratteristiche molto diverse in confronto ad altre culture. Innanzi tutto è un Dio trascendente e nascosto. Creatore di tutte le cose; ma dal nome impronunciabile, cioè dominabile, alludendo con ciò ad una potenza che neppure i suoi eletti possono utilizzare, invocare a cuor leggero. Poiché siamo di fronte ad una questione molto elevata, come tutte quelle che storicamente hanno segnato l’evoluzione umana, non possiamo cavarcela dicendo che gli ebrei ebbero così una trovata senza pari!

Ma certo questo tipo di divinità ha quel fascino che provocò uno sconcerto evidente anche nei suoi nemici: babilonesi, egizi, persiani, romani. La tradizione dice che i romani in particolare, pragmatici e disinvolti nel trattare le religioni dei popoli soggiogati, non intesero entrare nel vivo delle polemiche tra il Sinedrio ed i Soteroi, evitando così di impegolarsi nel loro gioco. Il loro Dio era la Lex, lo Stato, il resto questioni secondarie. Ma sappiamo anche che l’evento della condanna di Cristo scosse profondamente le basi del potere di Roma. La nostra tradizione – che non ha mai irriso i Miti e i grandi sistemi del passato, in quanto è capace di vedere in essi la giustificazione ideologica dei pulsanti modi di vita sociale, l’involucro lavico dei vulcani rivoluzionari di tempi diversi – spiega il fenomeno che fa del cristianesimo il culmine e l’inizio della crisi e del declino dello Impero Romano, che si regge sullo schiavismo. Al di là dei passaggi specifici di questa complessa realtà, non c’è dubbio che l’apparato sociale, politico, giuridico e religioso schiavistico è scosso profondamente, nelle varie aree dell’Impero, e trova nei movimenti e nelle lotte che vi nascono  elementi che ne minano le fondamenta.

Se facessimo un’analisi dettagliata dei programmi che vengono elaborati in alternativa al potere stabilito potremmo scoprire, col senno di poi, chi meglio interpretò le istanze del nuovo modo di produzione e di vita che stava maturando. Il messaggio che Cristo lancia agli sfruttati del tempo, da quanto risulta dai documenti organizzati dai 40 ai 60 anni dopo la sua crocifissione e trasfigurazione (quando, insomma è ormai un’icona e un Mito), è stato sicuramente purgato per necessità che si sono imposte col tempo e con l’evoluzione della crisi. Risulta in ogni modo che i Soteroi in generale facevano appello in vario modo alla lotta contro i potenti, sia di Roma sia territoriali, quali, nel caso che trattiamo, il Sinedrio di Gerusalemme.

Complesso e articolato è il modo di raccontare dei Vangeli: si oscilla dalla volontà di lotta "contro i mercanti nel Tempio", al rapporto da tenere con l’Impero, alla elaborazione più generale che indica il fine della lotta, compresa la natura del Regno futuro... che non è di questo mondo, secondo la ricostruzione interessata. Non si tratta qui di discutere il programma dei singoli Soteroi che conosciamo solo per parole riferite. Ciò che non può essere nascosto è che pullulano forme di resistenza ai potenti del tempo, che si difendono con il terrore delle crocifissioni, il martirio inflitto agli schiavi ribelli. Sul monte Calvario sono stati ritrovati circa duemila crani di crocefissi!

Non si può negare che un trapasso di modo di produzione, che si svolge in un lungo periodo, specie quando le forze produttive non hanno l’impeto di quelle moderne prodotte dall’industrialismo capitalistico, interessi in forme diverse aree diverse. Ma l’appello costante agli umili, agli schiavi, presente nel messaggio dei Soteroi, è stato interpretato nei secoli che hanno seguito il cuore degli eventi riferibili alla crocifissione di Cristo, subendo l’opera di rimozione d’ogni vero riferimento alla durezza delle lotte che si svolsero intorno alla sua figura, secondo la tecnica retorica collaudata della generalizzazione indolore, anodina. Ciò in particolare quando il Cristianesimo diventa, da Costantino in poi, sempre più religione di Stato, preoccupato di stemperare ogni sua portata rivoluzionaria o comunque scomoda nei confronti del nuovo assetto sociale. Costantino si impossessa dei segni rivoluzionari per vincere. Pratica non insolita delle controrivoluzioni, con tragica efficace applicazione, in altro millennio, dallo stalinismo.

In compenso si organizza la polemica dura nei confronti di chi non accetta il nuovo verbo. Ancora una volta niente di nuovo sotto il sole. Ma assume di certo un significato particolare l’astiosa e sorda lotta contro l’ebraismo, o meglio contro quelle correnti ebraiche che non riconoscono Cristo come Dio. Perché il cuore della polemica fu essenzialmente rivolta alla questione della vera o falsa divinità di Cristo? Tutti abbiamo imparato dall’antropologia comparata che, dopo che un movimento dallo stato nascente si istituzionalizza, i suoi capi, o meglio ancora l’eventuale capo indiscusso, tende a divenire oggetto di venerazione, mitizzato, tolto dal contatto con la realtà concreta perché assuma la dimensione dell’Icona inoffensiva! Allora tutto diventa Teologia, come nell’età moderna, in certe fasi, tutto diventa Ideologia, diatriba sottile giocata dai definitori, dai fini intellettuali che si scannano per una virgola.

Non ci si meraviglierà del fatto che un certo ordinamento del pensiero e di segni e parole possano tramandarsi nella cultura anche oltre il superamento di un determinato modo di produzione. La scoperta del materialismo storico e dialettico sta proprio in questo, che al cambiamento profondo d’una forma di produzione possono resistere precedenti sovrastrutture ideologiche-filosofiche, perché la nuova forza sociale al potere si darà da fare nel tentativo di trarre vantaggio anche da esse, ma senza che il nuovo assetto economico-sociale possa essere messo in discussione.

Questo va ricordato, poiché la resistenza della pregiudiziale antiebraica viene portata ad esempio del come una certa sub-cultura o superstizione possa resistere millenni, insinuando veleni, formando coscienze, condizionando scelte concrete nel campo dei rapporti sociali. In particolare il pregiudizio antiebraico avrebbe attraversato i secoli a causa d’una maledizione proveniente dall’Alto, senza che nessuna forza umana potesse rimuoverla.

In realtà, gli ebrei della diaspora, nel corso di due millenni, si sono radicati in varie realtà dell’Europa e del Mediterraneo, e infine nelle Americhe, esercitando la loro influenza culturale in vario modo, anche quando hanno dovuto subire pressioni e persecuzioni, inserendosi ed integrandosi in apparati significativi della vita sociale in generale.

Il punto cruciale, che tutti conoscono, è che nel modo di produzione feudale, nel quale è determinante l’economia agraria, agli appartenenti alla religione ebraica viene impedito il possesso della terra, in modo tale da trovarsi nella necessità di esercitare professioni e mestieri che il medioevo, con i suoi valori e i suoi tabù, considerava non degni per i membri della classe dominante ed estranei ai suoi interessi e al suo modo di pensare il mondo. Esercitare per secoli la professione di detentore di capitale monetario, o disporre delle conoscenze necessarie per svolgere arti liberali ha comportato la generalizzazione abusiva per cui essere ebrei significava essere usurai, svolgere attività proprie del commercio, che la mentalità dell’epoca assimilava a quella dei ladri.

Quando la pratica dell’anticipazione di capitale, con la nascita del moderno modo di produzione capitalistico, diverrà una delle funzioni fondamentali dalla società e quando saranno abbattute le cerchie chiuse feudali di produzione e consumo, è ovvio che l’ebreo, senza legami fondiari, sia che abbia affinato per secoli la pratica del prestito sia che eserciti un mestiere ovunque necessario, si trovi avvantaggiato. Da questo a pensare che il potere del denaro sia per intero nelle mani di ebrei ce ne corre. Ma, in virtù della generalizzazione abusiva, nell’Ottocento e nel Novecento gli ebrei cominceranno ad essere identificati come gli occulti motori del credito, della speculazione, fino ai nostri tempi, allorché la questione ebraica, nel senso di campagna antisemita, non solo non è conclusa ma sembra rianimarsi.

Tutta questa problematica non è risolta una volta fondato lo Stato di Israele, anzi più si intorbidisce nella polemica che confonde e accomuna antisemiti ed antiisraeliani, come se fosse la stessa cosa! Ancora una volta, se si respinge il nostro metodo di analisi della società borghese, non c’è modo di sbrogliarci da un intreccio di temi che sembra inestricabile, valido e strumentalizzabile per tutti gli usi.

Poiché non abbiamo mai abboccato alla trappola di spiegare la storia come serie ininterrotta di complotti di minoranze di qualsiasi tipo, ribadiamo la nostra visione della lotta tra le moderne classi sociali, escludendo che ne siano chiave di volta le diatribe culturali e religiose. Nello stesso tempo non rinunciamo a vedere in che modo si legano questioni religiose-dottrinarie-culturali in genere con la base economica e sociale, che oggi tiene in piedi un apparato di potere e di relazioni sociali sempre più micidiali per le sorti dell’intera specie umana, che professi una, nessuna o una miriade di fedi religiose.

Quando la sovrastruttura religiosa o teologica raggiunge il suo culmine, sistemata in un corpo dottrinario ben definito, e soprattutto difficilmente modificabile, significa che il modo di vita sociale ed economica da cui ha tratto origine ha raggiunto non solo il suo culmine, ma si è perfino già disgregato. Ogni classe dominante ha necessità di dotarsi d’un apparato di consenso adeguato, oltre che di strumenti di repressione materiale nei confronti delle forze sociali soggette. La stratificazione culturale, nel corso del tempo, è complessa; gli strati di questo tipo di terreno si amalgamano in profondità, ma non al punto di sfuggire allo studio della geologia marxista.

Che l’organizzazione d’una Chiesa o d’una religione sia particolarmente funzionale ad un dato tipo di organizzazione e classe sociale è fuori discussione. In particolare non c’è difficoltà ad identificare la dottrina cattolica come congeniale alla giustificazione del modo di vita feudale: ne è prova il fatto che con l’avvento del moderno capitalismo l’unità chiesastica si è infranta.

La domanda che si pone è: perché la Chiesa cattolica ha mantenuto ferma la condanna del popolo ebreo come deicida fino al 1966, data del documento Nostra aetate, fino ad allora lasciando questo anatema insostituibile a livello teologico e pratico? Che cosa ha convinto le gerarchie cattoliche a far cadere la condanna, fino alla richiesta di perdono nei confronti dei fratelli maggiori?. Solo le persone informate sono al corrente della questione e del nuovo atteggiamento e in generale poco si è discusso sulle motivazioni che hanno consigliato il rovesciamento del giudizio sull’ebraismo. Si preferisce restare sul puro terreno delle definizioni, proprio perché non si considera utile far conoscere a fondo le ragioni sociali e pratiche che per tanti secoli hanno congelato la condanna degli ebrei.

È proprio quello che invece ci interessa, in nome d’una analisi che riesca a toccare con mano ciò che muove e modifica sistemazioni credute intoccabili.
 
 
 

Capitolo esposti a Cortona nell’ottobre 2005.

4. Universalismi in conflitto
 

Nell’età moderna, o del capitalismo come modo di produzione che porta alla ribalta la borghesia in quanto classe, si assiste all’affermazione di nuovi universalismi, o visioni del mondo, segnati dal superamento dell’angusto modo di vita feudale, separato, chiuso in brevi cerchi a causa d’un livello limitato delle forze produttive. L’antichità aveva conosciuto l’esperienza ed il dominio di grandi Imperi, che avevano creduto di rappresentare l’umanità civilizzata, con l’esclusione di qualsiasi altro modo di vita concorrente. Con la cultura illuministica del Settecento l’esplosione della concezione razionalista aveva proposto una nuova forma d’universalismo fondato sul cosmopolitismo, sull’idea di progresso indefinito, in grado di rischiarare e liberare il cuore e la mente dell’essere umano da ogni tipo di chiusura, di dogmatismo, di oscurantismo.

Come poteva l’ordine chiesastico di stampo feudale non reagire e non condannare questa pretesa?

L’ebraismo, che si era forzatamente confrontato per lungo tempo con l’esperienza di culture diverse, costituiva esso stesso una forma, la più antica, di universalismo. Torniamo allora alla considerazione di Sartre dalla quale siamo partiti: «(L’ebreo) si sente un missionario dell’universale, contro l’universalismo della Chiesa cattolica, dal quale egli è escluso, uno strumento capace di giungere alla verità e di stabilire un contatto spirituale tra gli uomini (...) Nell’ebro si cela una sorta d’appassionato imperialismo della ragione, egli non desidera soltanto convincere gli altri che ha ragione; il suo scopo è quello di convincere gli altri che al razionalismo deve essere attribuito un valore assoluto».

E siamo così ad almeno tre tipi di universalismo, che si trovano inevitabilmente in conflitto per motivazione e provenienza. Troppi, diremmo, tenuto conto che se ci atteniamo alla loro base concreta, di tipo materiale, interpretano col loro punto di vista generale interessi e forze materiali in conflitto insanabile.

L’universalismo ebraico ebbe sicuramente un’influenza notevole nell’illuminismo: in un’epoca di grandi sviluppi nel campo produttivo è naturale che ad interpretare meglio il movimento siano quelle forze culturali che hanno avuto storicamente maggiore esperienza nell’affrontare i cambiamenti. Eppure ciò non significa che coltivare, per scelta o per causa di necessità, una forma di apertura comporti automaticamente di favorire la spinta verso il nuovo: la Chiesa cattolica, per auto-definizione universale, si trovò a chiudersi ed a chiudere davanti alla pressione delle forze produttive che stavano scardinando il feudalesimo.

Una volta che la borghesia ebbe partita vinta su tutti i fronti, fu la natura stessa del nuovo modo di produzione a decidere l’atteggiamento delle forme culturali: se il capitalismo aveva vinto sull’economia chiusa, a sua volta si troverà a dover chiudere per dar forma al mercato alla scala delle singole nazioni, aree economiche organizzate in forma statale.

Così, se l’ebraismo aveva contribuito alla formazione dello spirito illuministico, che comportava un inserimento ed una integrazione culturale prima impedite, presto, nell’ambito dello spirito nazionale dei singoli Stati più di prima sarà visto come l’elemento instabile, che non può essere contenuto nei limiti e nella logica "del sangue e del suolo", i due termini che verranno esasperati dai nazionalismi del Novecento, ma che già stanno affermandosi nella nozione romantica di identità. È sufficiente, a questo proposito, ricordare come un cattolico liberale, niente affatto estremista per carattere e formazione, come Alessandro Manzoni, sosterrà i requisiti propri d’una patria che si rispetti: «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor»! Non sono elencati in questo verso i caratteri dello Stato-nazione che finiranno per dimostrarsi l’opposto stesso dell’universalismo affermato durante l’apertura illuministica?

In questo clima sociale e culturale in cui tutte le convinzioni finivano per essere rimescolate, sia l’universalismo ebraico sia quello cattolico si trovarono a muoversi in una difesa estrema. Le forme organizzate dell’ebraismo, nelle varie comunità dell’Europa, erano preda di interni sussulti e rese dei conti. Si rifletta su queste considerazioni dei capi della comunità di Polonia, che esercitavano l’autorità della Kahal, che si estendeva ad ogni atto della vita quotidiana dell’ebreo: «Abbiamo gravemente peccato dinanzi al Signore. L’inquietudine cresce di giorno in giorno. Diventa sempre più difficile vivere. Il nostro popolo non ha un posto tra le nazioni. È anzi un miracolo che nonostante tutte le disgrazie noi siamo ancora vivi. La sola cosa che ci resta è unirci in una lega, tenuti insieme dallo spirito di stretta osservanza ai comandamenti di Dio e ai precetti dei nostri pii maestri e capi» (da S.M. Dubnow). Un documento come questo è sintomo d’una condizione destinata ad aggravarsi fino ai tempi più recenti, al punto di diventare l’emblema della condizione ebraica.

Ma la riflessione si fa sempre più drammatica anche nelle culture non ebraiche, segno che la modernità borghese costringe ogni ambiente a guardarsi dentro, per capire in che modo affrontare una realtà che sconvolge gli stili di vita correnti, tempeste che il dispiegato nuovo modo di produrre sta portando nelle forze sociali che fanno perno su culture consolidate, i cui principi apparivano eterni.

Intorno a questi problemi, che attengono al tentativo di giustificare lo sviluppo della società in senso borghese, sono sorte nel tempo, specie moderno, speculazioni a dir poco deliranti, che hanno mirato a fondare sulla razza lo Stato-nazione. Appena si parla di questo tema, la mente va subito all’aberrazione nazista e al suo infierire sulla condizione ebraica. Ma basta un minimo di conoscenze per chiarire che la pressione sul popolo ebraico data dai secoli precedenti, in modo tale che oggi nessuno si può permettere di nascondere le responsabilità che gravano sulla cultura delle classi dominanti, disposte a far leva su invenzioni e macchinazioni per stringere il cappio su minoranze da indicare come capro espiatorio.

L’elaborazione di teorie razziali non può essere decifrata a prescindere dalle condizioni materiali sulle quali si ergono in forma sovrastrutturale i più diversi elementi funzionali alla giustificazione e al consolidamento degli apparati di potere. Chi leggesse le tirate polemiche d’un Lutero, il capo della Riforma, contro gli ebrei crederebbe di essere di fronte ad un pamphlet nazionalsocialista; come pure chi prova a leggere qualche pagina di pensatori meno noti, ma determinanti nel perseguire lo scopo, si rende conto che l’elaborazione teorica della teoria della razza è stata affidata a personaggi perfettamente consapevoli dell’operazione che stavano eseguendo.

Lo Stato-nazione trova il suo completamento politico nell’Ottocento quando il capitalismo lo porta alle estreme conseguenze sul piano pratico e teorico. Ma l’Europa cristiana aveva a suo tempo preso le sue misure, a partire dalla Spagna dei centralisti re cattolici, che avevano cacciato gli ebrei nel 1492 (anno fatidico in cui veniva scoperto il Nuovo Mondo) come minoranza pericolosa e capace di intaccare l’Unica Fede. Il tema della purezza del sangue era già stata sostenuta in quei tempi, a prova che il razzismo moderno non fa che portare all’esasperazione motivi diffusi nelle varie classi sociali per deviare le energie sociali in direzioni utili per le classi dominanti, nefaste per quelle subalterne.

Com’è noto gli Stati hanno preceduto le nazioni: ciò che produce i moderni Stati-nazione è l’esigenza del capitalismo nascente di rendere omogenei mercato e popolazione su di un territorio, in modo tale da consentire l’integrazione delle forze produttive con i rapporti di produzione in un sistema complesso e interagente. La formula citata inclusa nel verso del Manzoni dice, di fatto, tutto di quanto è funzionale al borghese Stato-nazione: un corpo economico che riesca a nascondere la divisione fra le classi, antiche e moderne, della società, accomunato, ove possibile, dagli stessi sentimenti collettivi, da una comune lingua, dalla stessa religione, dallo stesso e condiviso senso della propria storia.

All’interno delle diverse nazioni storiche queste esigenze non sono mai state soddisfatte per intero. Sul piano delle idee e dei programmi ciò è dovuto al fatto che la borghesia non è mai riuscita ad avere un suo vero Partito, una sua visione nazionale organica a causa delle contraddizioni insanabili tra forze produttive e rapporti sociali di produzione. Ha sempre tentato di farlo per via ideale e con l’apporto della filosofia idealistico-spiritualistica, ma senza riuscirvi.

Questo spiega perché, proprio quando ad un ingigantito capitalismo i confini nazionali rimasero stretti e trascese in imperialismo si scatenarono al suo interno i nazionalismi con tutte le sue esasperazioni. In quest’ambiente e per queste necessità sarà inevitabile e senza quartiere la lotta contro i litigiosi, gli infedeli, gli ipercritici, i perfidi e malsani individui e gruppi, insomma tutte le sue componenti che non è possibile totalmente metabolizzare, anche loro malgrado, all’interno dallo Stato etico o dallo Stato organico, sempre perseguito e mai realizzato.

Se gli ebrei sono una di quelle minoranze che per tradizione non può essere integrata per intero, allo stesso ma diverso titolo non potranno essere autenticamente integrati i nullatenenti proletari, i contadini poveri, i paria, insomma, coloro che lo Stato pedagogico alla Mazzini ha sempre tentato di amalgamare, ma inutilmente. Insomma, lo Stato-nazione ancora oggi non è compiuto, e noi diciamo che non potrà esserlo mai!

Il passaggio dal cosmopolitismo settecentesco al romantico spirito nazionale, col suo particolarismo di tipo nuovo, comportava il passaggio necessario verso la formazione di mercati secondo aree più vaste ed omogenee, che permettevano alle forze produttive capitalistiche di svilupparsi ed accrescersi. La polemica contro lo Stato-nazione è quindi sterile altroché antistorica, per il fatto che il procedere dialettico delle energie sociali non si presta ad essere demonizzato. Eppure non si può negare che il cosmopolitismo appariva il terreno adatto all’ebraismo. Appena, finalmente, liberato dal ghetto, il nuovo clima nazionale lo costringeva ancora ad adattarsi alle restrizioni che abbiamo indicato: già aveva pagato un prezzo alto con la cacciata dalla Spagna e con la dispersione in tutta Europa, ora respinto ora attratto da nazioni in fase di formazione (si pensi alla politica di Federico II di Prussia).

L’universalismo ebraico urtava contro quello cattolico e cristiano riformato, che proclamavano un tipo di umanità uguale, ma secondo i parametri d’una visione religiosa che pone nell’aldilà la realizzazione dell’eguaglianza e della giustizia. In queste condizioni, specie nelle nazioni più volte ad un rigido centralismo, come ad esempio la Francia, riprendono le tensioni dure e sorde contro l’elemento infido e incontrollabile che sembra essere l’ebraismo: la tensione tocca livelli parossistici con l’affare Dreyfus in Francia. Nel frattempo, la formazione dei partiti operai, secondo le varie versioni ideologiche, porta ad accusare gli ebrei di essere presenti e attivi in queste formazioni, che nascono inevitabilmente con spirito universalistico di tipo internazionalista.

Che nell’ambito della tensione tra forme diverse e conflittuali d’universalismo la questione ebraica assuma un significato specifico, quasi simbolico, è una nozione diventata perfino luogo comune. Ma con i luoghi comuni è difficile andare alla ragione vera dei problemi.

È stato detto, giustamente, che le forme d’antisemitismo a livello storico sono state di diverso tipo, e che la più grave (ed ultima..?) è stata quella dell’"antisemitismo di Stato": che cosa significhi ciò, senza che si faccia un chiaro riferimento alla fase imperialistica del Capitale, non è per niente chiaro.

Il mito delle "società collettive prive d’elementi di tensione interna, prive di elementi di disgregazione" si attiva proprio allorquando, con l’avvento dei regimi fascista e nazista, si crede da parte della borghesia di opporre alle crescenti contraddizioni interne del capitalismo una società statale aggregata intorno a miti corporativi, dentro i quali non dovrebbe esserci spazio per qualsiasi tipo di minoranza non solo politica in senso convenzionale, ma razziale e culturale. Dunque l’antisemitismo di Stato va oltre la tradizionale tensione nei confronti delle minoranze, assumendo i contorni della «costruzione d’un tipo di Stato organico, che abbia risolto definitivamente ogni scollatura tra il cittadino e lo Stato stesso, secondo una comunità spirituale perfino biologicamente pura» (Collotti). Significa dire, con questo, che la lotta di classe è ormai alle spalle, superata e ricomposta nello Stato delle Corporazioni. Nella nostra versione, al contrario, è proprio in questa fase che la lotta di classe, quanto più occultata e repressa, tanto più è viva, com’è inevitabile nella fase imperialistica.

Dopo la Seconda Guerra mondiale, ad olocausto avvenuto, l’indagine sulla storia e sulla natura dell’antisemitismo ha assunto toni per i quali vale di più il classico "mai più!" che non la conoscenza approfondita della questione, al punto che se da una parte si è arrivati fino alla fuga di negare gli eventi, dall’altro si è preteso di sostenere che o si afferma che lo sterminio è il male assoluto, oppure si rischia d’esser considerati in qualche misura afflitti da una sorta di antisemitismo irrisolto.

Non c’è bisogno di sottolineare come la borghesia abbia sempre pescato nel torbido delle emozioni e dei sentimenti delle masse, che oggi vengono chiamati con termine quanto mai accattivante immaginario collettivo. Una volta che l’antisemitismo era divenuto di Stato, non fu difficile far leva su emozioni diffuse nel cosiddetto popolo. L’ultimo stadio dell’antisemitismo è il più vergognoso e devastante.

Se non ci si attesta sulle nostre posizioni, che considerano la sovrastruttura religiosa come eretta su basi materiali di lungo periodo, si fa presto ad essere travolti da falsi problemi che sviano le forze del proletariato dai suoi interessi e dalla corretta visione delle contraddizioni sociali. Sappiamo che le idee dominanti sono le idee della classe dominante, come dice Marx, cosicché tutto l’apparato ideologico di forza e di consenso viene mobilitato quando la tensione sociale si fa alta. Di questo si è avuta prova ogni volta che l’immaginario popolare è stato eccitato perché un capro espiatorio potesse funzionare da parafulmine.

Senza bisogno di scomodare l’opera di R. Girard a proposito del rapporto tra Violenza e Sacro, come titola una sua opera, siamo in grado di sostenere che la decadente borghesia europea era da tempo preparata a scatenare al momento opportuno le sue tensioni emotive contro qualcuno su cui convogliarle. Se però si pretendesse, come largamente si fa, che la questione ebraica si possa spiegare soltanto sulla base dei sentimenti, allora dobbiamo respingere questi tentativi che fanno dell’irrazionale la chiave di volta della storia e del suo corso.

Sarà allora necessario sottoporre a critica severa tutte quelle interpretazioni che non solo hanno eccitato sentimenti d’odio, arrivando a considerare gli ebrei al tempo stesso espressione dei lumi, del capitalismo, del comunismo, in un coacervo di giudizi, anzi pregiudizi, di cui non si era mai visto tanta virulenza, ma anche quelle interpretazioni che in nome della difesa delle vittime hanno preteso di farlo con la stessa arma, e cioè negando le ragioni storiche che hanno potuto essere sfruttate in questa direzione.

La più famosa, nel secondo dopoguerra, di queste posizioni, ammirata e considerata geniale, è quella della cosiddetta teoria della "banalità del male" sostenuta da Arendt, la quale arriva, in chiave parametafisica, a sostenere che gli ebrei sono stati perseguitati con una forma d’accusa e di violenza gratuita da parte di chi aveva perduto ogni criterio d’onore e di valore. Se a prima vista certe definizioni possono apparire accattivanti, saltano però a pie’ pari le contraddizioni storiche, finendo per fare più male che bene alla stessa realtà ebraica.

Del resto anche la Chiesa cattolica, che storicamente aveva alimentato l’odio contro i deicidi, quando si avvide del livello di persecuzione a cui venivano sottoposti gli appartenenti al popolo ebraico (e ne era al corrente, come documentato) arrivò a scomodare... il demonio, definendo appunto demoniaco il potere nazista, col quale nel 1934 aveva stretto un accordo! (Concordato preparato dal futuro Papa Pio XII).

Questo tema non vuole essere una digressione ma è una necessità da sciogliere se intendiamo non cadere vittime di suggestioni ed inganni.
 
 
 

Capitoli esposti a Parma nel gennaio a e Viareggio nel giugno 2006.

5. Un’identità per la borghesia tedesca

L’aberrazione dello sterminio ebraico ha talmente impegnato la sensibilità morale e la capacità dell’uomo di leggere la storia che ha spinto a trovare spiegazioni paradossali, quali quella di Arendt, che d’ebraismo certamente ne sapeva qualcosa: ad un certo punto la liquidazione degli ebrei finisce per apparire il prodotto d’una macchina burocratica talmente automatica da non poter essere fermata, in modo tale che il suo funzionamento appare gratuito. L’immagine sembra rendere l’idea del come il nazismo sia diventato ad un certo momento una macchina di morte talmente perfetta nei suoi ingranaggi da non porre nemmeno la questione se ai suoi esecutori si sia posto il dilemma o il dubbio dell’operazione.

La tendenza a concepire la storia e i suoi processi come fatali, inevitabili, senza via di scampo, ha un suo sinistro fascino, ma non ha nulla a che vedere con nostro determinismo. Il fatalismo è una giustificazione, che rinuncia a conoscere le forze e la loro effettiva dinamica.

Oggi si riconosce che «il meccanismo dello sterminio non era anonimo, ma ha avuto dei cervelli pensanti, e quindi espresso una volontà politica e una capacità operativa che erano l’espressione di un preciso progetto teorico» (intervista citata da E. Collotti).

Nel caso tedesco si era creata una visione simbiotica tra giudaismo e bolscevismo, segno che il criterio della demonizzazione del nemico affondava le sue radici in una concezione ideologica antica, preparata e diffusa nel tempo in ampi strati di classi e mezze classi. Il bisogno borghese di eliminare dalla faccia della terra lo spettro del comunismo non arretrò di fronte all’esigenza di trovare una matrice ideale che andasse oltre le reali motivazioni sociali, per spingersi verso mitologie ancestrali, religiose, esasperate, tali da mobilitare ed eccitare l’odio nei confronti d’un nemico considerato particolarmente sottile ed immondo. Se la nostra lotta storica si rivolge ai meccanismi d’un sistema sociale determinato, nella mentalità borghese di certe èlites dirigenti si rivolge contro una tabe dell’anima, rilevando così la perversità e nello stesso tempo la banalità d’una simile montatura ideologica.

Per fugare un incubo come il comunismo, l’ebraismo si prestava ad esservi identificato, e così catalizzare l’odio nei confronti d’una minaccia matura e maturata nella storia della fase suprema del capitalismo. L’identificazione del rapace ebreo col grande e nascosto capitalista delle banche è stato talmente rappresentato e abusato dalla propaganda che non c’è bisogno di richiamarlo all’attenzione. Rimane aperta la domanda del come l’ebreo possa essere nello stesso tempo identificato col bolscevismo, quasi che lo spettro che dicevamo possa essere percepito come un tutt’uno col suo contrario! Per la nostra dialettica storica l’imperialismo, che trova nel potere del capitale finanziario la sua espressione estrema, non può che produrre le condizioni per il comunismo, ma non certo per via razziale o meccanico-economicista. Sennonché è stato facile diffondere l’idea che il nesso è talmente elementare, che l’uno, l’imperialismo delle banche, non può non produrre il mostro del comunismo.

È con ciò spiegata la facile mossa propagandistica dell’ebraismo come matrice della degenerazione storica, fine del valore dello Stato-nazione, in un caos d’umanità senza connotati razziali distinguibili, melting pot tanto sociale quanto culturale, coacervo indifferenziato rimescolato da cima a fondo, qualcosa che col suo apolidismo sembra poter distruggere il mito della superiorità d’una nazione sull’altra, d’una tradizione sulle altre? Non propriamente, a meno che non si riconosca che se l’operazione fosse completamente spiegabile in termini razionali non sarebbe appunto irrazionale, frutto della suscettibilità, specie piccolo borghese, di cadere vittima dei miti, della paure, delle psicosi. Quest’identificazione dell’ebreo col capitalismo-comunismo ha potuto toccare la sfera effettivamente malata ed attaccabile delle cosiddette masse.

La posizione dell’ebreo Marx, che è poi quella del metodo materialistico dialettico, è nota: senza l’abolizione del modo di produzione e di cultura capitalistiche non si risolveranno le questioni storicamente più rilevanti, che assimilano gli esclusi e gli sfruttati, gli emarginati ed i reietti d’ogni tipo.

La nozione di nemico è filtrata e diffusa dal mondo ebraico-greco-romano antico nella cultura occidentale in generale. Si è voluto sostenere che l’olocausto è stato male assoluto, determinato da una folle volontà di annientamento del popolo ebraico, al punto che la formula banalità del male risponde alla convinzione secondo la quale, mentre le guerre hanno una loro logica, la volontà di annientare gli ebrei non l’ha avuta, corrispondendo al male gratuito, al gusto irrazionale di scaricare un odio non contenibile, fino alla messa in opera d’una macchina che agì secondo automatismi e non secondo volontà e governo.

Andando brevemente all’osso, si deve dire che l’idea di distruzione non può essere confusa con quella di annientamento. La nozione di Essere e di Nulla sta ai primordi della filosofia occidentale, e delle stesse religioni semitiche. Dovremmo sostenere, come affermò Lavoisier, che in natura nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma, per cui l’enfasi che si mette nel termine annientamento fa parte del linguaggio della guerra, secondo la quale il nemico che non può essere conquistato per essere assimilato, deve essere annientato. Non si dimentica che lo stesso Dio di Abramo, allorché Re Saul tornò dalla guerra senza aver annientato tutto del nemico, non solo l’esercito, ma anche donne, vecchi bambini, oltreché animali d’ogni genere, si vide togliere il trono, in favore del figlio David. Da che parte arriva insomma l’idea di distruzione integrale del nemico, se non da una nozione religiosa, totalizzante, oggi si direbbe fondamentalista, con termine quanto mai equivoco?

Per dare conclusione e senso a questa digressione è necessario prendere atto del fatto che le strutture di base del pensare le contraddizioni non si producono ad ogni stormire di fronde, e neppure nel movimento contingente, se è vero che la dialettica nel suo nucleo fondamentale è stata portata alla luce da Aristotele e sviluppata nelle sue interne leggi fondamentali da Hegel e poi dal materialismo storico: si combatte un certo nemico in quanto lo si vuole integrare nel nostro specifico modo di intendere la vita, gli interessi, la cultura, la visione del mondo.

Soltanto in pochi, al di là degli schemi, hanno avuto il coraggio di riconoscere che la cultura tedesca moderna, cioè borghese, in particolare, quella che avrebbe avuto il torto di produrre la cornice intellettuale e concettuale dello sterminio ebraico, traeva le sue coordinate di base dalla conoscenza e dalla gelosia nei confronti della cultura e perfino dell’ordinamento ebraico della grande storia vetero testamentaria, come Nietzsche stesso confessa. Se non si riconosce che una comune cultura produce il modo di intendere le nozioni di Essere e di Nulla, di Vita e di Morte, di amico e di nemico, non si ricava un granché dalla pura e semplice analisi dei fatti contingenti. La banalità del male rischia insomma di diventare una boutade per aggirare questioni di fondo, che affondano le radici nella moderna lotta tra le classi e gli Stati-Nazione, e nel loro concetto stesso di natura e di storia, di tempo ciclico e tempo escatologico.

Quando la nostra corrente con potente linguaggio rivendica la continuità della specie umana, lungo «l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale», rivendica la comune origine dell’uomo moderno da quel tipo antico. Proprio l’opposto di tutte le teorie razziste che attribuiscono ad una determinata, ed inesistente, razza particolare (ra in sanscrito significa semplicemente umanità!) il primato e l’attribuzione di caratteri in virtù dei quali sola meriterebbe di essere considerata veramente umana! Sono state le società di stampo capitalista che, per le loro necessità oggettive, mentre sradicavano milioni (oggi miliardi) di esseri umani per assoggettarli alla potenza coloniale o imperialista, hanno sempre cercato ragioni per giustificare il potere di una o più razze privilegiate, che avrebbero la missione di non lasciare deperire la vera umanità, quella che, non abbrutita dal degradante lavoro manuale, sarebbe capace di trasmettere e moltiplicare cultura, bellezza, civiltà!

L’odio antiebraico fa parte d’un delirio che ha un suo sottofondo di lucidità, come ogni follia è in qualche modo più razionale della comune ragione: è odio e paura della condizione proletaria! Parlare di banalità del male che avrebbe portato allo sterminio ebraico, significa non voler andare a fondo, «fino agli abissi del male, comportandosi come il medico che di fronte al delirio affermi "è tutto senza senso" e consideri con ciò chiuso il problema» (Freud). Di fronte ai presunti deliri di Hitler e camerati una certa cultura ha proposto di non andare a fondo, e perfino di vietarne la lettura, perché capace di travolgere la comune ragione ed il buon senso.

Nei Tre saggi sull’uomo Mosè, il problema viene affrontato da Freud come problema delle origini: l’odio contro gli ebrei è il riflesso di una identità carente dei popoli ospiti, l’espressione di una rivolta contro l’immagine primigenia del Padre. «Quale rovesciamento delle opposte e simmetriche accuse dell’antisemitismo secondo cui gli ebrei non posseggono una propria identità e nello stesso tempo ne conservano una irriducibilmente negativa e mimetica». Nell’ottica dei tre saggi non sono dunque gli ebrei che si devono assimilare, ma è la società che deve assimilarsi al loro discorso, farsi per così dire ebraica!.

Se il nazismo di Hitler aveva portato all’esasperazione l’esigenza di un tipo di Stato non semplicemente macchina, ma organismo dotato di spirito, in grado di dotare il popolo, come unità tra le classi, del senso della sua superiorità nei confronti d’ogni tipo di avversità interna ed esterna, nessuno può negare che nella fase imperialistica del capitale ogni borghesia ha tentato e tenta di far fronte alla proletarizzazione, il vero incubo delle mezze classi, che la logica del profitto minaccia continuamente di far piombare nella condizione di apolidi senza patria e senza valori di riferimento.

Dunque la ricerca di una identità forte non è soltanto propria dei regimi totalitari tentati dal fascismo e dal nazismo – e dallo stalinismo, nazionalista quanto il precedente modello italiano e successivo tedesco, e antisemita per la sua parte –  ma delle stesse democrazie, che, anche quando si danno le arie di tolleranti nei confronti dei proletari migranti da ogni latitudine, nello stesso tempo evocano spettri quali la globalizzazione, il mondialismo, la perdita di identità.

Allora, in effetti, l’odio antiebraico, senza concedere troppo ad un approccio psicoanalitico, e dunque fondamentalmente sovrastrutturale, rivela l’insicurezza della borghesia e dei suoi ideologi.

L’invocazione della discriminazione razziale da parte di Hitler non pioveva su un terreno asciutto, ma ampiamente imbevuto di queste convinzioni ed esigenze. Scrive nel Mein Kampf: «L’ebreo Marx poté trarre la conclusione ultima di questi errati concetti sulla sostanza e il fine di uno Stato: la società borghese tralasciando la concezione politica della discriminazione razziale, senza poter trovare un’altra espressione da tutti approvata, facilitò la strada ad un’idea negante lo Stato in sé. Già per questo argomento la lotta della società borghese contro l’Internazionale marxista è ineluttabilmente in via di fallimento. La società borghese ha da molto tempo perso le basi necessarie a sostenere le sue idee (...) Perciò il compito principale di un nuovo movimento fondato sull’idea razzista del mondo è quello di operare in modo che la comprensione dell’essenza e del fine della vita dello Stato sia evidente e unitaria. Si deve prima di tutto capire questo, che lo Stato non rappresenta un fine, ma un mezzo».

In un nostro articolo sulla questione ebraica e sulla natura del lavoro forzato dei campi di concentramento abbiamo a suo tempo sostenuto che l’operazione, decisa in senso stretto nel corso della guerra, aveva uno scopo niente affatto in contrasto con il concetto di lavoro proprio della nozione capitalistica in tempo di conflitto supremo: estrarre il massimo plusvalore dal proletariato, assoggettamento di esso ed assimilati in modo da ottenere più d’un risultato: non solo mezzi per la guerra a costo quasi zero, ma eliminazione fisica dei produttori costituenti un ostacolo per i propri fini di dominio.

I fautori della nozione di olocausto come male assoluto non solo sostengono ma pretendono di imporre la loro lettura, secondo la quale lo sterminio assume un significato esclusivo, in quanto intende annientare un popolo ed una religione. Tutti sappiamo, pena cadere in un negazionismo analogo a quello che riguarda l’ebraismo, che insieme ad esso l’annientamento riguardò altre categorie di uomini, in particolare oppositori irriducibili, quali i comunisti, oltre a diversi come zingari, incontrollabili e pericolosi per l’identità nazionale e di tendenze sessuali considerate abnormi. Non siamo forse davanti ad una sorta di imposizione davanti ad eventi storici che si ha interesse a considerare come metastorici? Quale interesse muove la storiografia corrente a calcare il giudizio sulla Shoah ed a glissare sullo sterminio degli oppositori politici mortali per la borghesia nel suo insieme? Non abbiamo certo l’intenzione di contendere il ruolo di vittime designate: ma il giudizio storico non può essere imposto.

Una ormai sterminata storiografia attesta che lo sterminio degli ebrei non fu un fulmine a ciel sereno, ma il punto di arrivo d’una serie di campagne circolate in Europa contro oscuri quanto poco credibili complotti orditi da essi contro i governi, che avrebbero portato alla conquista del mondo, al dominio ebraico, per sete di vendetta al potere. L’unicità dell’olocausto consisterebbe in questo: mentre fino al 1942 questo disegno è stato pensato e coltivato, ora finalmente si approfittava delle contingenze della guerra, del Reich in pericolo, per organizzarlo e portarlo a compimento. In realtà basta la pazienza di leggere le tirate polemiche d’un Lutero contro gli ebrei, per avere l’impressione di leggere la propaganda del nazismo.

È lecita la domanda sul perché, al di là degli odiosi pogrom messi in atto nella Russia zarista, delle accuse formulate durante l’affare Dreyfus in Francia, si sia mai passati ad un’operazione così sistematica e meccanica come quella dei campi.

Dovremmo inoltre passare in rassegna, dopo la dichiarazione Balfour del 1916, i tentativi e le congetture a proposito della possibilità di procurare una homeland che raccogliesse gli ebrei, in modo da normalizzare la loro presenza in varie regioni del mondo. Se si prescinde, come abitualmente si fa, dagli sviluppi della storia dopo la fondazione dell’Internazionale Comunista e si trascura il fatto, solo da noi sostenuto, che il Secondo Conflitto mondiale è stato il prodotto della controrivoluzione, allora lo sterminio ebraico può anche essere considerato un evento unico, il male assoluto. Ma se soltanto si prende in considerazione il fatto, appurato senza ombra di equivoci, che le potenze del tempo, dall’Inghilterra alla Francia, dalla Croce Rossa Internazionale alla Santa Sede erano al corrente della liquidazione degli ebrei, il giudizio storico prende un’altra piega.

Noi abbiamo sostenuto che l’essere riusciti a trascinare il proletariato nella seconda carneficina, in nome del Socialismo in un solo Paese da una parte e del Socialismo Nazionale dall’altra, ha significato la definitiva sconfitta e liquidazione dell’assalto rivoluzionario proletario mondiale del primo Novecento.

Perché fu possibile l’identificazione dei sediziosi ebrei con tutto ciò che avesse una relazione con la sedizione comunista? I miti, e quello del complotto, rispondono al verosimile e non al vero, ma si deve spiegare perché ha potuto funzionare un’operazione simile. Insomma, al di là delle facili demonizzazioni, per cui gli Ebrei rappresenterebbero l’elemento instabile e destabilizzante, sedizioso all’interno degli Stati, in che consisterebbe l’analogia tra ebraismo e comunismo? Innanzi tutto in una visione della storia in senso messianico piuttosto che ciclico, come è tipico dell’umanismo di ascendenza intellettualistica greco-romana, che ben si attaglia ai cicli, che si vorrebbero indefiniti, del denaro e del capitale, privi di cuore e di misura. In secondo luogo il monoteismo, che una volta immanentizzato, comporterebbe una concezione monolitica del potere e della storia, una concezione elitaria nella dottrina del Partito e dello Stato, che, dall’esterno delle classi, pretendono di possedere e di imporre la loro visione del mondo.

Il popolo ebraico può apparire una formazione organica, animata da uno spirito escatologico, fondamentalmente comunitario. Quando le società cristianizzate dell’Occidente finirono per vedere nella Chiesa universale la realizzazione compiuta del messianismo antico, questo invece nelle comunità ebraiche appariva ancora aperto al futuro, all’avvento dell’umanità redenta ed emancipata. A queste analogie si aggiungeva l’accusa secondo la quale i capi bolscevichi erano in grande maggioranza di origine e cultura ebraica, anche quando si dichiaravano apostati e secolarizzati. Il comunismo veniva inevitabilmente inteso come il complotto che, legando dialetticamente la massoneria cosmopolita all’internazionalismo proletario, non poteva che sfociare in un oggettivo patto capace di imporre il potere ebraico-comunista sul mondo intero.

Se è vero, come hanno sostenuto e mostrato scuole di storia moderne, come la Annales di Francia, che lo immaginario collettivo gioca nelle società di massa un ruolo di primo piano, saremmo di fronte ad un mito capace di sconvolgere le società dell’Occidente capitalistico.
 
 
 

6. Il Focolare nazionale

Una volta che col secondo conflitto mondiale la borghesia occidentale era stata capace di rinverdire la nozione degli Stati-nazione, dopo aver sconfitto gli Stati-nazione a governo nazista e fascista, aveva messo a segno un colpo di grande effetto: le nazioni e le patrie non potevano essere messe in discussione da nessun internazionalismo proletario, dopo che la stessa Russia sovietica si era messa ad amplificare quanto più possibile il mito della patria socialista. Il proletariato europeo, il più carico di storia, aveva servito la propria patria nell’illusione che il fine del socialismo potesse essere perseguito senza debordare dalla cornice nazionale: si sarebbe trattato solo di abbandonare gli eccessi dell’ideologia nazista e fascista che avevano esasperato, secondo le democrazie occidentali, la contraddizione tra storia nazionale ed emancipazione operaia.

Il mito del focolare approntato per gli Ebrei sparsi per il mondo avrebbe allora rappresentato lo sforzo umanitario inteso a rimpatriare un popolo, a riconsegnarlo alla sua antica Terra Promessa. Se entriamo nella realtà di questo mito assistiamo invece alle mene di potenze e di politiche volte, oltre che ad intervenire in una regione cruciale fra i tre continenti, a trovare una soluzione ad una mina vagante, utilizzabile in mille guise, ora per inventare complotti, ora per far balenare il pericolo di destabilizzazione, sedizioni e... rivoluzioni! Quale autonomia concedere e quale compito attribuire ad una formazione protetta (com’è noto proteggere non significa solo difendere, ma controllare da vicino!) in uno scacchiere d’enorme importanza strategica?

Poiché non è questa la sede per riproporre la storia dell’ebraismo e del sionismo, che sono entità ben distinte, anche se insistentemente strumentalizzate come una realtà unica, ciò che interessa è come ad un certo momento, non casuale, la fine del secondo conflitto mondiale, si arrivò alla costituzione dello Stato di Israele. La propaganda imperiale degli Stati vincitori sul mostro nazista la voleva presentare come una riparazione ad un senso di colpa per non aver voluto, prima, intervenire contro lo sterminio.

Si intendeva realizzare uno Stato-chiave, in grado di realizzare due obiettivi: avere non più a che fare con ebrei imprendibili, presenti in ogni piega della società civile, distribuiti in varie classi sociali, identificati come occulti finanzieri ovvero sediziosi comunisti, ma con una organizzazione normale, uno Stato tra gli altri. Sebbene con caratteristiche peculiari, non uno Stato teocratico, ma con connotati culturali inconfondibili. La definizione di Stato ebraico, secondo i moduli del costituzionalismo borghese resta tuttavia irrimediabilmente contraddittoria e irrisolta anche e principalmente per i diretti interessati e fonte e riflesso di continue tensioni sul piano etico-pratico e legislativo e perfino della dottrina rabbinica.

Noi sciogliamo il nodo: prima che ebraico lo Stato di Israele è borghese. Nella nostra ottica la formazione di ogni Stato in più si risolve, in ultima istanza, in una nuova sottomissione del proletariato, ogni Stato nuovo, che provenga dallo smantellamento del vecchio colonialismo o dalla volontà di riparare presunti torti storici, significa sottomettere il proletariato a quel nuovo assetto, al controllo ed alla repressione del suo apparato di forza e di consenso.

Se partissimo da un assunto in qualche modo metastorico, come si ama fare quando si parla dello Stato d’Israele, questa problematica potrebbe apparire pleonastica ed ininfluente; ma ai nostri occhi non è così. La formazione di uno Stato-nazione come quello ebraico era interamente radicata nella storia di quegli anni drammatici, e per questo l’operazione assunse un grande valore simbolico. Se l’ebraismo, nella propaganda dei nazisti, aveva potuto essere sbandierato come sinonimo di bolscevismo, antipatriottico, e non del tutto a torto, la formazione dello Stato ebraico ne continuava l’opera, venendo a negare un millenario tipo storico di ebreo senza patria. Lo Stato d’Israele è, come è stato scritto, la vittoria, postma, di Hitler.

Il super-ghetto micro-nazionale nel quale si sospingevano gli smarriti e spossessati reduci dei campi tedeschi, avrebbe dovuto essere l’espressione teorica e pratica che il socialismo poteva trovare asilo non solo all’interno delle patrie, ma delle razze, delle religioni, delle comunità agricole...

Saremmo ingenui se pensassimo che gli ex-alleati della Russia di Stalin non avessero compreso la vera natura del socialismo russo, potendo così dar inizio alla guerra fredda, come nuovo assetto della sistemazione imperialistica degli Stati. Questo non è indifferente alle ragioni della nuova formazione statale, se solo pensiamo alla funzione strategica che avrebbe giocato in tutta la metà del secolo scorso e fino ai nostri giorni.

Certamente gli Stati europei e del mondo credettero di poter tirare un sospiro di sollievo una volta che le loro realtà nazionali potevano dirsi liberate dall’ipoteca ad un tempo della giudodemoplutocrazia e dal bolscevismo come lo intendeva l’Internazionale prima dell’avvento di Stalin e della vittoria della controrivoluzione. Si, perché il polemico termine coniato dai fascismi non riguardava tanto e soltanto i più opulenti Stati nemici, ma un po’ tutti, impegnati com’erano a tentare di regolare i capricci e le bizzarrie del Capitale.

Se al proletariato d’ogni clima si fa balenare l’idea che all’interno dei confini d’una patria è possibile ottenere di più che attraverso la solidarietà con i compagni di lotta e di sventura d’ogni altro paese, vicino o lontano che sia, in determinate situazioni si può ottenere che sposi la causa del più becero e bieco dei nazionalismi. La tensione internazionalista del primo dopoguerra fu tangibile, e la borghesia tremò. Nel secondo dopoguerra il capolavoro borghese fu senza dubbio quello di convincere il proletariato a combattere in nome della democrazia "aperta al socialismo" contro il nazionalismo barbaro, cioè dichiaratamente deciso ad affossare le velleità politiche proletarie.

La fondazione dello Stato d’Israele appariva così un risultato esaltante: i dispersi d’ogni plaga d’Europa, diseredati ormai se non della vita, potevano finalmente godere d’un focolare, genericamente socialista, organizzato secondo la formula dei kibbutz, un socialismo che in altro non consisteva che nell’autogoverno aziendale e nella democrazia parlamentare.

Se gli ebrei potevano finalmente dirsi ricomposti, quale poteva essere il messaggio a chiunque si sentisse perseguitato, se non che la sola soluzione, sempre possibile, fosse nel rintracciare o riconquistare una sua Patria, sempre? Il nostro tema è invece che il nemico storico del proletariato è lo Stato borghese, qualunque forma assuma, popolare, democratica, aperta al socialismo o addirittura dichiaratamente socialista, com’era la patria russa degli stalinisti.

La patria degli ebrei si proponeva come aperta a chiunque condividesse una presunta comunanza di razza, pur sapendo che non esiste nessuna razza, né ebrea né ariana. Uno Stato emblematico, che è stato enfatizzato in tutto per il tempo in cui i suoi fondatori pionieri hanno contribuito ad organizzarlo.

Dunque una sua specificità lo Stato d’Israele appena costituito ce l’aveva: mentre gli Stati-nazione europei si erano formati sulla spinta dell’esigenza capitalistica di ritagliarsi mercati sufficienti per favorire la produzione allargata, sulla base di Stati già formatisi dopo la crisi del feudalesimo, lo Stato ebraico si realizzava in un’epoca che, nella nostra visione, non approfittava di alcuna necessità storica, sulla scorta dello schema di unica o doppia rivoluzione.

Come tutti gli Stati che si andarono formando nel processo di decolonizzazione seguito alla Seconda Guerra mondiale non potevano sfuggire a rappresentare ormai niente altro che lo specchio della spartizione mondiale da parte dei mostri imperialistici, lo stesso Israele non poteva considerarsi estraneo a questo schema generale ed a questa sistemazione complessiva. Con una peculiarità non indifferente: all’opinione pubblica veniva presentato come la definitiva soluzione d’un dramma millenario: il ritorno d’un popolo nella Terra Promessa! un evento unico nella storia moderna.

Sennonché in quella terra, che aveva nel mondo antico costituito l’incrocio di civiltà di grande spessore, situato nella zona temperata della Mezzaluna fertile, nel corso del tempo si erano stanziate popolazioni le più diverse, fino a che i semiti di fede musulmana avevano finito per prevalere, secondo un assetto di Stati e di culture rispondenti allo scenario politico-religioso islamico. Uno Stato che veniva a situarsi in una regione cruciale non solo per culture, ma a causa dello scontro tra imperialismi tra di loro distinti, cioè i declinanti, come Francia ed Inghilterra, pur vincitori della guerra, e quelli emergenti, gli USA e la presunta patria del socialismo, la Russia.

Che atteggiamento dovremmo avere avuto ed avere davanti a questa nuova realtà? Uno particolare, diverso, giustificato da interessi proletari? Certamente no, anche quando non accettiamo il cosiddetto indifferentismo in rapporto alle contese imperialistiche. Il sorgere di nuovi Stati nella fase imperialistica per noi significa spezzettare il proletariato, dividerlo in altrettanti rivoli separati, aumentarne il controllo e lo sfruttamento. Se pensiamo che le Nazioni Unite contano ormai, tra grandi potenze e piccoli staterelli più di 190 membri, ci si può rendere conto di come e di quanto il Capitale si sia rafforzato in rapporto alla classe operaia e livello mondiale.

Non tutti gli staterelli si misurano naturalmente dalla superficie e dalla popolazione, ma dal peso economico e sociale e dalla posizione strategica nel gioco delle grandi potenze in lotta tra di loro. Che lo Stato d’Israele occupi una posizione strategica nel gioco del Medio Oriente non ha bisogno di dimostrazione: questo Stato costituisce una sorta di testa di ponte americana e occidentale nella regione, una sorta di colonia militare ben armata e trincerata nello scacchiere. Se le potenze arrivarono all’appoggio ed all’aiuto finanziario perché sorgesse lo Stato ebraico, dopo aver titubato per quasi un secolo, una ragione ce la dovevano avere.

Non è dunque la nostra posizione d’inimicizia nei confronti d’uno Stato particolare, ma una posizione che considera gli Stati, tutti gli Stati, come prigioni del proletariato. Il che non ci fa certo tifare per la formazione del suo apparente antagonista regionale, lo Stato di Palestina, il quale in fieri, con l’attuale sua Autorità, svolge una funzione antiproletaria non meno odiosa dello Stato israeliano.

L’analisi dello scontro continuo e senza possibilità di soluzioni tra le due entità nella regione, sta a dimostrare che l’idea d’un antisemitismo o antisraelismo fra le masse palestinesi non solo non porta a niente, ma devia ulteriormente dalla giusta lotta quei diseredati, sicuramente mal messi nei confronti della propria borghesia non meno di quelli israeliani.

Lo scontro tra lo Stato d’Israele e il popolo palestinese, che si è trovato invaso da una marea umana tornata sulla Terra dei Patriarchi, ha polarizzato da lungo tempo le simpatie del proletariato mondiale, come se da questo scontro dipendesse la sua identità di classe. In realtà l’ambivalenza dell’opportunismo storico in rapporto a questo conflitto è espressione stessa della sua natura, ambigua e demagogica. Che i palestinesi rappresentino un popolo largamente angariato e composto in gran parte da masse di diseredati, proletari oggettivamente senza patria, non comporta dubbi, ma la pretesa che la classe operaia debba schierarsi a favore della formazione d’uno Stato palestinese, o al posto di quello ebraico o affianco ad esso, non rientra affatto nel programma proletario.

Il nazionalismo palestinese ha buon gioco nel presentare la sua lotta come corrispondente agli interessi del proletariato, a causa del trattamento bestiale e volutamente provocatorio esercitato dallo Stato ebraico. Ma il programma proletario generale non lo facciamo dipendere solo dallo sdegno che può suscitare il comportamento della classe nemica. Dobbiamo sottolineare che non è certo la formazione di un nuovo Stato che potrà alleviare le sofferenze proletarie, semmai aumentarle.

La matrice dell’atteggiamento filo palestinese è prevalentemente di stampo opportunista e staliniano perché, di fronte alle angherie dello Stato ebraico, si risponde con un programma di tipo borghese invece che proletario. Ciò costituisce la prova dell’incapacità di lettura della fase imperialistica del Capitale da parte degli esponenti e degli eredi della controrivoluzione in un’area determinante del mondo. Non solo, conferma la nostra tesi secondo la quale la contrapposizione tra Stati proletari e Stati plutocratici, propria del linguaggio di matrice fascista, è stata raccolta nella sostanza dell’attuale confuso terzomondismo degli eredi dello stalinismo, oscillanti ogni volta, ma sempre schierati con questo o quello Stato.

Chi non vede che nella opposizione fra Stato d’Israele e Stati arabi l’Italia – tanto per fare un esempio... – cerca una posizione equidistante, mantenendo un rapporto privilegiato e di principio con Israele ed un altro d’aperto appoggio umanitario alla causa palestinese. Insomma, la confusione diplomatica impera: si vorrebbe essere con tutti, ma al momento opportuno non ci si dimentica di stare col più forte, con chi, nella contingenza, sembra avere in mano la situazione. Nella nostra versione ciò costituisce l’estrema prova della saldatura tra repressione proletaria di tipo autoritario fascista e controrivoluzione di lungo corso.

Abbiamo anche la conferma che quanto più, come in questo caso, la tensione inevitabile tra gli Stati si carica di simboli e di senso per la portata religiosa o culturale del contesto, tanto più la mancanza di guida e di prospettiva per il proletariato mondiale comporta totale mancanza di azione autonoma nelle realtà più sanguinose dell’attualità politica. Lo scontro tra Stato ebraico e Stati arabi circostanti, in rapporto alla possibilità di formazione d’uno Stato palestinese autonomo, costituisce la cartina di tornasole della condizione proletaria in una fase storica nella quale lo scontro interimperialistico si aggrava e promette altri disastri.

Tutti sembrano accettare che le tensioni tra questi due Stati emblematici non può che essere sistemica ed endemica, come se la dannazione fosse il frutto di insuperabili ragioni di razza, di religione e di principio, piuttosto che di inconciliabili interessi di classe a livello generale. Insomma il focolare procurato al popolo ebraico scotta, venendo a turbare una realtà quanto mai delicata ed ingarbugliata. Non si può non vedere come una nazione così singolare, che rientrava nella sua terra dopo millenni, non poteva non trovare degli occupanti che lo stesso diritto borghese non poteva non considerare legittimi. Da comunisti, non ci avventuriamo in problematiche giuridiche, ma rimane il fatto che la formazione dello Stato ebraico appare ancora oggi fomite di tensioni senza sbocco. Dalle quali traggono i dovuti vantaggi, materiali e politici, i borghesi di entrambi gli schieramenti.

Per il movimento operaio, l’epoca delle battaglie da combattere per una qualche patria è finita con la fase imperialistica, almeno nelle aree non interessate alla doppia rivoluzione. Ciò non ci esime dall’essere al fianco dei proletari in qualsiasi entità nazional-borghese siano incapsulati. Non facciamo distinzione tra proletari palestinesi e proletari israeliani, il cui unico interesse è quello di fraternizzare, trovare modi di solidarietà e di combattimento, ove possibile, comuni.

Siamo anche abbastanza realisti da riconoscere che in questo clima surriscaldato il risucchio del nazionalismo da una parte e dall’altra impedisce quest’auspicata solidarietà, di modo che non rimane, almeno al nostro piccolo partito, che il compito di non confondere la propria visione delle cose, in attesa che siano eventi più generali a creare condizioni favorevoli al proletariato di queste due realtà storiche.

La situazione è emblematica del ginepraio che il sistema borghese riesce a creare ai danni del movimento operaio una volta che riesca a trascinarlo nelle sue mene e nei suoi giochi. N’è prova che gli stessi proletari dei paesi europei, che meglio potrebbero comprendere la condizione dei loro compagni presenti in quell’area, non riescono ad esprimere la loro solidarietà, seguendo la scia oscillante ed ambigua dei partiti ex-opportunisti, che fanno politica nel senso deteriore del termine, guardandosi bene dal far riferimento alla lotta di classe in quegli Stati, tutti impegnati come sono nella lotta per la Patria.

Nessuna animosità o viltà può impedirci di vedere e di dire quanto la storia presenta, senza cadere vittime degli stereotipi di cui invece si dimostra capace di servirsi la demagogia borghese, disposta a far leva sui sentimenti e sulle emozioni più intime non solo degli individui, ma delle stesse formazioni sociali.
 
 
 

Capitoli esposti a Torino nel settembre 2006 e a Sarzana nel gennaio 2007.

7. Davar, Dire e Fare

Se soltanto pensiamo al termine usato, quello di focolare, ci rendiamo conto del sapore nostalgico e del sentimentalismo profuso in rapporto alla storia dell’ebraismo, come se nei millenni nulla fosse cambiato nella fede e nella cornice religiosa dei suoi aderenti. Siamo invece convinti che, essendo la sovrastruttura religiosa il prodotto dei sottostanti rapporti economici e sociali, e dunque della vita concreta degli uomini, lo stesso monoteismo ebraico ha avuto modo di essere modificato dai cambiamenti che quella ha subito nel corso dei millenni. Dalla critica materialistica non possono esimersi anche le più sofisticate formule ideologico-religiose, poiché le condizioni concrete in cui gli uomini vivono li costringono a conformarsi a determinate forme economiche e sociali. Il popolo ebraico, come quello islamico, non fa eccezione.

Se ci avviciniamo alla storia ebraica come raccontata nella Bibbia, abbiamo modo di osservare che l’apparato politico che via via ha governato Israele presenta connotati rispondenti alle trasformazioni di una realtà sociale in continuo svolgimento. Se ci avventuriamo, seppure in forma sintetica e succinta, in certi svolti emblematici, queste affermazioni non appaiano frutto di formule consunte o di schematismi di maniera.

Sillabando un poco la lingua ebraica e la sua religione e cultura, senza nessuna pretesa di impancarci a teologi, ma nello stesso tempo senza tirarci indietro di fronte a una tematica quanto mai complessa e ricca, dobbiamo tentare di capire se e quanto è attendibile la nozione per la quale l’ebraismo costituirebbe, non solo una delle componenti essenziali della civiltà, ma l’inizio stesso dell’umanità. Teniamo conto che nella versione materialistico-dialettica non si parte dalla cultura comunemente intesa, ma dalle condizioni che hanno consentito la comparsa della specie umana, il suo sviluppo attraverso il lavoro, fino alla possibilità/necessità che, ad un certo livello di sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali che le contengono, il comunismo si imponga come l’esito inevitabile della vita umana sul nostro pianeta, pena la sua rovina e distruzione.

Com’è scritto, secondo il testo sacro dell’ebraismo, la Bibbia, In principio Dio creò e il cielo e la terra (Berescit barà Eloim et Aschamaim et Aaretz). Poiché da qualche parte bisogna pur cominciare, non c’è dubbio che la formula del cominciamento appare nello stesso tempo drastica e mitica. Tutto il tempo che fu necessario perché l’essere umano, o, prima ancora, la vita come la intendiamo facesse la sua comparsa sul Pianeta non solo ci interessa ma è parte integrante di una conoscenza che la società comunista sarà in grado di ricostruire. Per il momento siamo nella condizione di attenerci ad un metodo che ha il merito di non chiudersi all’interno di dogmi insuperabili, ma è disposto a prendere lezioni dall’evoluzione della realtà tanto naturale quanto culturale. In fondo il fascino della formula biblica sta proprio in questo: nello scegliere un incominciamento, e da lì partire per dare un senso generale complessivo all’intera storia umana-naturale.

Anche chi non conosce a fondo l’ebraismo nella lingua e nella cultura religiosa, sa che il tetragramma che contrassegna il nome di Jahvè, cioè Dio, composto delle consonanti iod, eh, waw, eh, non si deve pronunciare; chi si trova nella Scrittura davanti a questo termine, deve pronunciare o Elohim, o Adonai. Cosa significa? Nella lettura possibile che ci permettiamo di avanzare è che il nome di Dio, che la cultura greca traslittererà nel filosofico termine di Essere, è molto più vicino al termine sanscrito che significa respirare (Trombetti). Non a caso le quattro consonanti, gutturali aspirate, se potessimo pronunciarle corrisponderebbero ad una sorta di indecifrabile respiro, o come dice Isaia, a voce di silenzio sottile (kol demamà daqqad). Tutte le energie partono da queste lettere. Sono frequenti, nell’ebraico antico, frasi senza verbo, forse perché è sottinteso, non ce n’è bisogno, perché parlare è respirare in forma articolata, pronunciare in altro modo il nome di Dio (kabbalà). Il tetragramma non ha mai articolo, per cui si dice Dio, non "il Dio". Ciò che più colpisce è che Jahvè significa molto probabilmente non Io sono colui che è, ma più precisamente Io sarò colui che sarò: non esiste Presente, ma Tempo storico, che scorre incessantemente.

È inevitabile un’interpretazione: se è vero che la Bibbia comincia col classico In principio Dio creò il cielo e la terra, Dio, a questo punto, essendo Io sarò colui che sarò, indica che il fondamento/creatore non è una realtà/quiete, o principio immobile, detto dai Greci motore immobile, ma movimento. Noi sosteniamo, non per caso, che la realtà non è in movimento, ma è movimento. Il roveto ardente è la forma nella quale Dio si manifesta a Mosè.

Dobbiamo prendere atto che la cultura occidentale, ma non solo quella, trova nell’ebraismo una sua componente originaria che, non c’è dubbio, rapportata a quella greca o romana, porta con sé le caratteristiche di una cultura più vicina alle origini, ricca di intelligenza emotiva (oggi riconosciuta come diversa da quella razionale), espressa in una lingua scarna, povera, che arriva al massimo e cinquemila seicento parole, contro quella inglese moderna che raggiunge le 150 mila ed oltre, secondo il dizionario Webster.

Se la lingua è lo specchio di una cultura e del suo sostrato economico-sociale, ciò che colpisce in quella ebraica antica è che tra Parola e Fatto non c’è opposizione ma compenetrazione: Devar significa sia Parola sia Fatto! Come avviene nelle lingue più antiche, che rispecchiano un tipo di vita sociale ancora elementare, ma non per questo primitiva, anzi già ricca e capace di rappresentare simbolicamente i bisogni fondamentali ed i rimedi necessari, è stretto il nesso tra quello che noi chiamiamo teoria e pratica. Quando più il lavoro si allontana dalla pratica di tutti, per diventare sempre più espressione alienata di chi si sobbarca la fatica, mentre le gerarchie funzionalmente avocano a sé l’arte del governo ed i riti religiosi-sociali che garantiscono determinati assetti, tanto più la lingua diventa espressione di una divaricazione e di una contraddizione che nelle società di classe è scoperta ed evidente.

Se dunque Parola e Fatto sono espressi dallo stesso temine, vuol dire che tra i momenti della pratica sociale c’è sostanziale scambio. Eppure basta pensare alla funzione dei sacerdoti, e dell’organo Sinedrio durante la condanna di Cristo, quando la storia ebraica ha già circa duemila anni sulle spalle, per rendersi conto di come l’organicità della nazione ebraica fosse in crisi.

Come in poche lingue antiche, dalla radice/scheletro della Parola impronunciabile traggono origini tutte le strutture del discorso, il verbo, la costruzione, le proposizioni. Realtà/movimento e prassi/Parola/spirito non sono in contraddizione, sono Jahvè, non nominabile a cuor leggero. Per un popolo nomade, che si sposta e ha necessità di termini di riferimento, Jahvè rappresenta il temine fisso, vitalmente acceso, fuoco perenne, assoluto/relativo a cui tutto fa riferimento, nel tempo/movimento che scandisce i giorni e le opere. La Storia intesa come movimento con un fine nasce da questa concezione della vita (Escatologia).

In questa prospettiva la compagine sociale e religiosa è così sentita come un tutto organico tenuto insieme dall’alleanza con Jahvè, fino alle conseguenze che abbiamo analizzato, e cioè la responsabilità di tutto il popolo nelle sue azioni e nelle sue imprese. Non c’è dubbio che la responsabilità personale, o soggettiva come viene intesa nella moderna società borghese, non è prevista: se questa dimensione urta profondamente con la nozione di individuo che è stata elaborata nei tempi moderni, ciò non impedisce di riconoscere che il sentimento di comunità organica è quanto mai forte e consapevole, tale da essere difficilmente immaginato da una società atomizzata come quella attuale.

Determinate strutture etiche che hanno resistito fino ad oggi, non sono tanto facilmente superabili: quando diciamo che la stessa etica, nonché la politica, insieme con le sovrastrutture più volatili o spirituali, quali l’arte, la filosofia, nascono pur sempre dall’economia, dalle condizioni materiali, non intendiamo dire che esse sono legate meccanicamente alla struttura economica. Infatti un certa forma mentale, il carattere di un popolo, resiste anche dopo che sono state distrutte determinate forme produttive che le hanno determinate. La dialettica prevede proprio questo, e ci mette nelle condizioni di comprendere come e quando certe sovrastrutture possono essere risolte, fino a che punto possono resistere e talvolta diventare terreno di cultura e rappresentare una leva in mano alle classi sconfitte. Il nesso di causa effetto, insomma, tra economia e cultura non è automatico.

Nel caso della nazione ebraica si tratta di vedere fino a quando il rigido monoteismo resse dopo che per affermarsi, col movimento Per Jahvè soltanto nell’VIII secolo avanti Cristo, comportò dure lotte all’interno della società ebraica del tempo. Le pressioni esterne ed interne giocarono il loro ruolo nella realizzazione di un apparato di potere capace di rispecchiare la visione organica e comunitaria delle origini. Non c’è dubbio, infatti, che il giudizio sulla specificità dell’ebraismo fa leva sulla resistenza nei millenni della Tradizione, della verità religiosa, contro ogni cambiamento e contro ogni infedeltà. Nella realtà delle cose, al contrario, l’ebraismo è anche l’emblema della lotta che all’interno ed all’esterno viene combattuta tra adesione rigida, senza tentennamenti alla Torah, e sottile capacità di cambiare, di adeguarsi alle circostanze complesse della vita e della storia.

Se nella realtà moderna l’ebreo è stato assimilato all’intellettuale capace di spaccare il capello in quatto, analitico ed efficace in ogni tipo di ricerca e di adattamento, ma segnato per sempre dalla sua origine, un motivo ci deve essere. La lingua, ancora una volta, come specchio-rispecchiamento di questa natura dell’ebraismo, testimonia che tra gli elementi che la compongono c’è un organarsi così stretto e singolare, per cui tra lo scheletro-radice (il nome Jahvè) e la realtà materiale si assiste ad una compenetrazione evidente e suggestiva. Segno che l’attenzione ad essa prestata ha un valore ed un interesse per il materialismo storico e dialettico, il cui maneggio comporta per l’appunto la conoscenza dell’intreccio tra teoria e pratica, tra il Dire e il Fare!

Se si ha la pazienza, ma anche il piacere, di leggere integralmente il saggio di Bernhard Lang, si giunge alla conclusione-considerazione espressa nel periodo finale: «Il monoteismo soteriologico è più antico della dogmatica monoteistica, e la speranza è più antica ed originaria della fede». Detto da un Domenicano la cosa acquista un certo significato!

La lotta costante contro gli idoli accompagna l’ebraismo fino ai tempi nostri, e non c’è dubbio che la secolarizzazione di gran parte della cultura e religione ebraica stessa, con altre parole e concetti, parafrasa questa necessità: lottare contro tutti i surrogati e processi di sostituzione che impediscono alla specie di essere una, solidale, capace di un piano di liberazione da ogni schiavitù, e di governo della realtà in cui si svolge la vita degli uomini.

Ciò non fa altro che confermare l’interpretazione che della questione generale e del nesso che lega fede e religione/cultura fa lo scrittore di origine ebraica Pressburger: «La paura e la speranza di uscire dall’inevitabilità della morte, del dolore e del male, ha sempre prodotto la fede. Le religioni, che consistono invece nella speranza di essere redenti, vengono dopo la fede. E poi la fede è qualcosa di individuale, mentre la religione è un’elaborazione efficacissima per tirare fuori l’uomo dallo stato di bestia inferocita. La fede, a differenza della religione, non dà consolazione e certezze, anzi spesso porta ad uno stato di gran sofferenza» (intervista al Corriere della Sera del 7 aprile 2004).

Questo lo spirito diffuso nella società di oggi animato dalla cultura ebraica: che non significa uniforme interpretazione delle sue varie manifestazioni, ma sicuramente sintesi non solo di stati d’animo, ma di complesse vicissitudini storiche, durante le quali la religione, anche ebraica, ha fatto in tempo a diventare oppio dei popoli, e non più speranza di liberazione! Dal movimento Per Jahvè soltanto ai nostri tempi il percorso è lungo e accidentato, e ci conferma nella convinzione che la stessa religione del monoteismo ebraico passa dalle origini alla dialettica trinitaria del cristianesimo, trovando in Hegel il massimo interprete, per approdare inevitabilmente alla dialettica materialistica, che per bocca dell’ebreo Marx indica la necessità del rimettere in piedi tutta la realtà, fino alla comunistica ricomposizione del Devar che è non solo Parola, ma Fatto. Una lettura della storia che non accetta più di affidarsi a false promesse, utopie senza base reale, sogni illuministici.

Questo non significa certo pretendere di interpretare il partito e la nostra posizione come l’esito finale di queste storiche aspettative, ma il riconoscimento che determinati fondamenti teorici di base provengono da date esperienze che hanno lasciato una traccia indelebile nella storia delle specie. L’idea che la storia sia percorsa da una necessità/libertà, oggi provoca sarcasmi specie in larga parte del pensiero debole, ma è presente da sempre nello spirito umano. Naturalmente i sostenitori dell’individuo al primo posto se ne ricordano solo quando le cose si fanno difficili; ed allora sono tra i primi ad invocare la ragione, l’eroismo ed altri valori forti, compresa la religione.

A noi non interessano la retorica e le operazioni classiche di inversione soggetto-predicato che hanno determinato la fondazione della religio, come sopramondo che soprassiederebbe alle imprese ed alla vita degli uomini; ma ci interessa in modo primario in che modo e perché ciò sia stato possibile che si producesse nella mente umana. Per questo ripercorriamo le fasi salienti della lotta delle classi moderne senza accontentarci di sostare in questo luogo, ma risalendo ai primordi, per scovare quando ed in quale modo sia stato possibile l’operazione di inversione della prassi, nel senso di far camminare la realtà sulla testa piuttosto che sulle gambe.

Nella cultura e religione ebraica viene adombrato questo evento, allorché, a causa della ribellione, l’essere umano, Adamo, l’uomo fatto di fango, già assistito amichevolmente da Dio, è cacciato dalla sua sicurezza e avverte alle sue spalle i passi dello stesso Dio, minacciosi ed ammonitori. Ciò che prima era presente ad un tratto si manifesta come perduto. La lingua ebraica agli inizi non conosce il presente, proiettando le aspettative dell’uomo nel futuro, in una continua nostalgia per il giardino, paradiso di delizie e di certezze. Questa modalità mentale e del sentimento accompagna da allora ogni passo dell’individuo e dei gruppi sociali, per raggiungere nella storia moderna un’acme speciale, che ha spinto la riflessione teorica a tentarne una soluzione definitiva.

Si comprende allora come Hegel, il cristiano luterano Hegel, si sia tanto adoperato per dare un nome ed un volto alla Provvidenza che agirebbe nella Storia, fino ad identificarla nello Stato etico. Che cosa infatti rappresenta lo Stato, che Hegel concepisce come scopo dell’individuo, se non la soluzione che ripristina l’antica sicurezza perduta, la Terra Promessa riottenuta nonostante, anzi in virtù della colpa ebraica? «In Hegel questo concetto raggiunge una forma estrema, perché nello Stato razionale che può realizzarsi in Europa dopo la rivoluzione francese, egli vede non una semplice costruzione umana, ma la stessa presenza dell’Assoluto, dello Spirito stesso di Dio. L’aura divina, che prima della rivoluzione francese circondava il sovrano, è trasferita allo Stato: che dunque sta agli individui così come alla storia degli individui sta la storia universale» (E. Severino, intervista alla rivista Sette). Il movimento Per Jahvè soltanto, come un fiume carsico, riemerge così nei nostri tempi, inteso come una necessità/libertà, da Hobbes in poi identificata col mostro biblico del Leviatano, terribile, ma il solo capace di riconsegnare gli uomini alla sicurezza ed alla pace.

Se questo concetto e questa esigenza tocca perfino il filosofo antisemita per eccellenza Nietzsche, più citato che letto integralmente, vuol dire che mai come all’interno della civile società borghese l’uomo atomizzato ed alienato dal conflitto di classe si attende d’essere restituito al paradiso perduto! «Noi tedeschi siamo hegeliani, in quanto contrariamente a tutti i latini, attribuiamo istintivamente "al divenire e allo sviluppo" un senso più profondo e un valore più ricco che non a ciò che è». Una confessione esplicita di "ebraismo"... che passa per le vie alte della filosofia ma che rispecchia un sentimento ed un’urgenza diffusa nella cultura e nella società di classe.

Come raggiungere questo risultato, in termini pratici, se non sopprimendo l’elemento instabile, anti-Stato per eccellenza, rappresentato dai proletari, identificati per comodità con l’ebraismo sedizioso, apolide, senza fissa dimora, in diaspora permanente, a meno che non si assoggettino volontariamente allo Stato-nazione che offre loro sicurezza e futuro? Oggi si fa di tutto per enominare, escludere dalla responsabilità del genocidio, non solo di ebrei, ma di rivoluzionari comunisti, di elementi antipartito nella versione staliniana, forze controrivoluzionarie che, per gradi diversi, stava spingendo da tempo nella direzione della distruzione del nemico, per ripulire l’ambiente e preservarlo dalla contaminazione.

«Il concetto cristiano di Provvidenza divina trova in Hegel una potente formulazione razionale, ma può portare anche a quella concezione assolutistica dello Stato che in Germania ha favorito l’ascesa del nazionalsocialismo e in Italia del fascismo. Giovanni Gentile non è stato fascista: è stato il fascismo ad essere gentiliano, quando ha voluto darsi una veste filosofica; e Gentile proviene in linea diretta da Hegel» (Severino). Ciò è confermato dalla consapevolezza del filosofo attualista – fautore dell’eterno Presente, dello spirito in atto – della natura del Comunismo allorché identifica con esso ogni tentativo di scorciatoia in rapporto al suo progetto di Stato del lavoratore a cui aveva messo mano nella sua opera ultima Genesi e struttura della società. Ebbe a dire: «Chi parla oggi di comunismo è un corporativista impaziente delle more necessarie dello sviluppo di un’idea che è la correzione tempestiva dell’utopia comunista e l’affermazione più logica e perciò più vera di quello che si può attendere dal comunismo» (Dal Campidoglio, 24 giugno 1943). Come a dire: o noi, lo Stato corporativo, o il Comunismo! Lucido, no?
 
 
 

8. Liberi dal Faraone-Capitale

L’evento fondante della storia d’Israele è un atto di liberazione, il celebre Esodo dalla schiavitù sotto il Faraone, da collocare nel XIII secolo avanti Cristo: la formula reiterata Il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto è da considerarsi la confessione di fede originaria d’Israele. Ogni volta che nella storia il popolo ebraico si è trovato a subire una sconfitta ad opera di vicini o di Imperi, da quello babilonese a quello persiano e infine romano, la formula è ritornata a farsi sentire, e la fede della liberazione si è riproposta come l’unica condizione per il riscatto.

Di fronte alla storia ciclica di stampo greco, questa confessione di fede indica una nozione di tempo lineare ed escatologico: niente si ripete, perché tutto è destinato a compiersi nella liberazione e nella consegna della Terra Promessa. Che questa nozione di tempo abbia influito in una misura potente nella concezione della storia dell’Occidente non è una scoperta, ma vale la pena di ricordarlo, se non altro per sottolineare come in generale la visione storica umanistica delle classi dominanti è portata a rifarsi alla concezione greca, per la quale non ci sono fini ultimi da raggiungere, in quanto la storia consiste in un farsi e disfarsi governato da leggi insuperabili di tipo economico-naturale.

Ma l’atto di liberazione come valore fondamentale non è da intendere come teoria della libertà di tipo moderno e borghese. Per la mentalità ebraica, la liberazione è concreta, riguarda tutto il popolo e non semplicemente l’individuo. Il popolo ebraico aspetta l’avvento di un Messia inviato dal proprio Dio, capace di liberarlo dall’oppressione e in grado di dargli benessere e sicurezza, con chiara nostalgia del Giardino delle origini. Nella lingua ebraica la parola nostalgia viene espressa in almeno sette sinonimi, che la dicono lunga sul carattere di questo popolo.

Se insistiamo sulla concretezza del popolo ebraico e sulla sua adesione alla vita, non lo facciamo per esprimere una preferenza astratta contro l’intellettualismo di stampo greco. Nel caso della concretezza ebraica e dell’operazione delle teologie d’ispirazione ed influenza ellenistica, è importante osservare che leggere la condanna di Cristo in chiave esclusivamente teologica, in nome dell’idea di liberazione individuale, o di disegno sopranaturale, senza dire una parola sulle vere condizioni che portano alla condanna non solo di Cristo ma degli schiavi ribelli che nelle varie aree dell’Impero romano esprimono l’incipiente crisi del modo di produzione schiavistico, significa fare un’operazione che tradisce non solo il Crocefisso, ma i crocefissi, migliaia e migliaia messi a morte in quanto costituiscono una minaccia sia per l’Impero sia per le classi dominanti delle varie province, e non solo di Palestina. Nella predicazione dei Soteroi ricorreva insistente il motivo della lotta contro gli invasori romani, a seconda delle tendenze, e nel messaggio di Cristo si parlava, e lo attestano i Vangeli, di eguaglianza tra gli uomini, di liberazione ed uguale dignità degli schiavi. Si tratta di comprendere quali forze si confrontassero, non solo quali idee!

Mentre il pensiero borghese moderno, specie nelle sue formulazioni decadenti, che hanno con sussiego assunto l’appellativo di pensiero debole, ironizza sulle dottrine, al contrario noi dottrinari abbiamo sempre preso sul serio la loro importanza, come abbiamo sottolineato, per esempio, con le tesi sulla Invarianza storica del marxismo, presentate alla riunione di Milano del settembre 1952: «Il principio dell’invarianza storica delle dottrine che riflettono il compito delle classi protagoniste, ed anche dei potenti ritorni alle Tavole di partenza, opposto al pettegolo supporre ogni generazione ed ogni stagione della moda intellettuale più potente della precedente, allo sciocco film del procedere incessante del civile progresso ed altre simili borghesi ubbie da cui pochi di quelli che si affibbiano l’aggettivo di marxista sono davvero scevri, si applica a tutti i grandi corsi storici».

A distanza di oltre mezzo secolo da queste formulazioni, sosteniamo che esse valgono ancora più oggi, e si applicano bene alla questione ebraica nelle sue dialettiche evoluzioni. Tanto più hanno valore a proposito dello svolto storico segnato dall’avvento di Cristo, se non altro per il fatto che una ragione ci deve essere se ancora misuriamo il tempo dall’anno Zero della sua nascita! Si usa ancora la dizione dottrina cristiana per rivendicare la sua invarianza, anche se le chiese ne ostentano aggiornamenti per mettersi in sintonia col Secolo, che pur dicono, a parole, di disprezzare...

«Tutti i miti esprimono questo, e soprattutto quelli dei mezzi-dèi mezzi-uomini, o dei sapienti che ebbero una intervista con l’Ente supremo. Di tali figurazioni è insensato ridere, e solo il marxismo ne ha fatto trovare le reali e materiali sottostrutture. Rama, Mosè, Cristo, Maometto, tutti i Profeti ed Eroi che aprono secoli di storia dei vari popoli, sono espressioni diverse di questo fatto reale, che corrisponde a un balzo enorme nel "modo di produzione"».

Semmai ci permettiamo di chiarire che sulla natura filologica e concettuale del termine Mito c’è qualcosa da scolpire meglio. Il termine non significa, come si crede volgarmente, balla o menzogna, più o meno sublime; né il Mito si forma per un impulso o fronda di intellettuali. Pure nella nostra versione può valere la metafora secondo la quale la Dea avvolge in un velo il suo eroe per sottrarlo alla vista del nemico, e preservarlo così dalla morte (versione suggestiva di Freud!). La forma-Mito non è una sovrastruttura identica ad altre che sappiamo, come l’arte, la morale, la politica, dal momento che nel Mito sono avvolti e velati da ogni lato eventi materiali ed elaborazioni ideali niente affatto inventate dai sacerdoti impostori, come ama teorizzare la cultura illuministica e borghese. Ciò non significa difenderlo, ma capirne la portata. La forma-Mito resiste ai millenni, a volte, in quanto attraverso questa modalità interi modi di produzione possono essere trasmessi e conservati: quando il Mito si infrange, e il velo di Maia si lacera, devono essersi prodotte condizioni rivoluzionarie, che non nascono per volontà di alcuno!

Sappiamo bene come la forma-Mito si dimostri inadeguata a proposito della vicenda che riguarda Cristo e la sua condanna a morte per crocifissione. La difesa da parte della chiesa cattolica e delle chiese cristiane riformate della storicità della vita di Gesù e degli eventi che riguardano la sua vita pubblica è nota: non siamo dunque di fronte a un Mito in senso stretto, ma certamente ad una forma di mitizzazione: dopo la morte la Resurrezione... Sono stati teologi del valore di Moltmann a cogliere gli elementi della mitizzazione, in nome della ricerca delle condizioni reali espurgate dalle aggiunte, dalla pressione dell’immaginario collettivo, che pure ha una sua rilevanza da noi non negata, della fase che segue gli eventi cruciali che abbiamo detto.

Ma ciò che ha più peso nella nostra analisi è che, come già con Spartaco, sconfitto da Pompeo presso il fiume Sele in Lucania, si assiste alla lotta spietata di Roma contro gli schiavi insorti. In quell’occasione ne furono crocefissi seimila, sulla via Appia, fino a Roma. L’Impero, che rappresenta un sistema di potere socialmente fondato sul modo di produzione schiavistico, è in stato di tensione permanente contro le rivolte degli schiavi. Ciò si aggrava al tempo di Cristo. Sta maturando in vari parti dell’Impero un nuovo modo di produzione e di vita sociale, che sarà poi quello servile. Se non si tiene conto di questa realtà non è possibile rimettere sui piedi l’intera questione. L’adesione concreta ai dati ed agli eventi storici comporta, per essere credibile, la ricognizione delle condizioni in cui maturano ed in cui si svolgono fino al loro esito inevitabile.

Ci si domanda allora per quale motivo le stragi di schiavi, crocefissi secondo il supplizio brutale tipico della civiltà romana, possa nel tempo disincarnarsi, stemperarsi per essere ridotto e colto nel valore simbolico della morte di Cristo. Ci si risponde che l’alto valore simbolico di una morte è in grado di raccogliere l’intera eredità e testimonianza di tutta un’epoca: in questo consiste ogni operazione ideologica. Ma se poi prendiamo in considerazione in che modo la storia concreta viene elaborata e spogliata dei suoi elementi socialmente vissuti per assurgere a simbolo, fino all’incastro in un disegno generale e salvifico che si libera della miriade degli eventi per sceglierne uno, al punto di considerarlo esclusivo, stabilito ab aeterno, allora le cose prendono una piega che non regge alla critica. Sarebbe forse casuale che il figlio di Dio scelga, o per lui sia scelto dal Padre, di essere inserito in un contesto determinato? Perché questa scelta si realizza all’interno di quella fase storica, nella quale è possibile individuare condizioni e strutture tendenziosamente eluse e perfino enominate dall’operazione che mitizza, simbolizza, riduce ad icona? Senza lo svasamento dell’involucro ideologico non si arriva a nulla.

Non sono interrogativi estranei alla questione ebraica nel suo insieme. Abbiamo ricordato che la società e il popolo ebraico del tempo consistevano in un’articolazione che se non è certo assimilabile alle moderne classi comportava però esplicitamente una sua interna frattura, per la quale sul popolo di schiavi e di altri ceti si ergeva il potere dei proprietari della terra, dei sacerdoti, interpreti religiosi di quell’apparato. L’equivoco, durato due millenni quasi interi, secondo il quale l’intero popolo ebraico sarebbe colpevole della condanna di Cristo assume così un significato che si estranea dalla realtà vissuta nella quale le alleanze e le strategie politiche legano gli invasori e gli occupanti al potere locale, in questo caso al Sinedrio.

Non possiamo dunque rinunciare a tener conto delle condizioni specifiche nelle quali si produsse il fenomeno cristianesimo, come crisi e rottura dell’involucro ebraico, specie oggi, quando tutti sembrano animati dal desiderio di sparare sulle ideologie, senza sapere un gran che di esse, e meno che meno che cosa rappresentano come operazioni del pensiero. La responsabilità di tanta dimenticanza o ignoranza è di chi finge di non ricordare che Ideologia in Marxperché è con lui che si polemizza con maggiore acredine!assume il significato di operazione mentale che rovescia la realtà facendola camminare sulla testa: «Se nell’intera Ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico. Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo» (L’ideologia tedesca, 1846).

Eppure, se è vero che anche con il Dio di Israele e con Cristo si verifica la stessa cosa, è sufficiente fare un rapporto tra religioni e culture, in particolare tra i tre monoteismi, legati a filo triplo, e far uso di un sano relativismo, per rendersi conto che agli occhi sia degli ebrei antichi sia degli islamici la divinità di Cristo, la sua proclamazione di essere figlio di Dio, viene intesa come bestemmia, al punto che per l’Islam i kafiruna sono gli infedeli che pretendono che Allah si sia fatto un figlio. Per loro il fondamento dell’ateismo e del materialismo dell’Occidente, con tutte le sue conseguenze, dipende da questa bestemmia originaria. Immaginiamo che i cattolici ed i cristiani lo sappiano: se l’Occidente è il Satana, almeno per le correnti fondamentaliste, dipende da questa eresia di base.

Dovremmo allora dire che il fatto che Cristo sia inteso come Dio incarnato costituisce il primo passo della riappropriazione antropologica dell’uomo da parte dell’uomo. Del resto, basta fare appello ancora una volta al massimo dialettico idealista, Hegel, per rendersene conto: «Hegel è stato l’ultimo gran filosofo cristiano. Ben lontano dal ritenere che il cristianesimo sia, per quanto grandioso, un semplice mito che la filosofia deve lasciarsi alle spalle, Hegel pensa che il cristianesimo esprima in forma intuitiva (e pertanto inadeguata), il contenuto essenziale della ragione, in altre parole la verità più profonda a cui l’uomo possa guardare: l’unità di Dio e dell’uomo, l’unità degli opposti. Certamente luterano, Hegel; ma proprio per questo animato dalla volontà di andare alle radici della fede cristiana" (Severino, intr., citata).

Fino a Hegel la realtà cammina sulla testa, nonostante la sua dialettica, pur riconoscendo che la realtà è movimento. Chi ha fatto le spese, nel corso della storia, di questo ideologico, non casuale, interessato ed occhiuto "camminare sulla testa"? Le classi subalterne, il proletariato di tutti i tempi e paesi, in particolare quello moderno. Camminare sulla testa significa far credere che la realtà si muova in virtù delle Idee, e non delle gambe, che, in linguaggio esplicito, significano in virtù del lavoro sul quale poggia l’intera impalcatura sociale di classe.

Poiché le società organiche dei primordi sono state soppiantate dalle società di classe, con la loro potenzialità di conflitto e di sviluppo nella direzione della società di specie, è chiaro che la stessa società ebraica, nonostante il culto del Dio unico, si è divisa nel suo interno, frastagliata in forze in tensione tra loro, come abbiamo detto a proposito di quella che portò alla condanna di Cristo. Fingere di non vedere queste contraddizioni, ancora oggi, fa parte dell’occultamento ideologico di sempre: non a caso Hegel crede che lo Stato etico sia Spirito assoluto, al di là di ogni empirico contrasto. Ciò va ricordato e sottolineato per giungere alla valutazione critica complessiva dello sterminio degli ebrei, non per negare certo che sia avvenuto (come nella scorciatoia del negazionismo) ma per valutare quali fossero le interne condizioni dell’ebraismo stesso.

Ora è proprio questa "intuizione inadeguata" dell’unità degli opposti, di Dio e di Uomo, che marca la differenza tra la nozione hegeliana-cristiana e quell’ebraica, per non di dire quella materialistica-dialettica! Ma crediamo veramente che queste inevitabili differenze di pensiero e di idee abbiano avuto il potere di spianare la strada alla liquidazione ebraica? Ci vuole un bel po’ di coraggio e di faccia tosta per crederlo.

Nella storia umana che cammina sulla testa tutte le aberrazioni più orribili possono essere pensate e realizzate. Al contrario nella concezione della storia che cammina "sulle sue gambe" non sono escluse rese di conti tragiche, ma la ragione che le spiega passa per la dinamica di forze che nessuno libero arbitrio può pretendere di armeggiare a proprio piacimento, secondo un’analogia platonizzante tra individuo e polis che non regge al vaglio della dialettica. È impensabile che si possa governare lo scontro tra le forze sociali organizzate, gli Stati e le classi, con la stessa volontà che si pretende governi l’azione individuale. A questo riconoscimento erano arrivati anche i gesuiti che, dopo aver condannato Machiavelli, un secolo dopo, con Botero, riconobbero la ragion di Stato, per non abbandonarla più, anzi per portarla alle sue estreme conseguenze, come vedremo presto a proposito della strumentalizzazione reciproca tra Stato e Chiesa come andò configurandosi anche durante il nazismo. Questo è il rapporto più realistico tra forza ed elaborazione ideologica, che può spiegare la storia come "gran mattatoio", secondo la truculenta definizione dello stesso Hegel.

Dal movimento Per Javè soltanto ad oggi l’ebraismo ha provato sulla sua pelle queste insanabili contraddizioni, che nessun cristianesimo hegeliano, in verità, può illudere ed illudersi di aver sanato in una definitiva e spiritistica... unità degli opposti.

Il prezzo che paga chi pretende di continuare a far camminare la storia sulla testa è sotto gli occhi di tutti: i tre universalismi monoteistici, ebraismo, cristianesimo ed islamismo, mentre da una parte proclamano di volersi intendere, messi da parte gli odi ancestrali, dall’altra dimostrano di non potersi incontrare sul piano dogmatico. Ciò non fa che esaltare la nostra posizione, che vede nei dogmatismi non tanto una ottusa e pervicace chiusura o una durezza di cuore, quanto ad una loro necessità, il corrispondere di essi a determinare funzioni storiche che hanno svolto e che non possono rinunciare a svolgere. Da parte del campo laico-borghese si sostiene che il dogmatismo non ha senso alla luce del libero pensiero, del confronto delle idee: neanche una parola seria sulle ragioni che militano nella direzione dell’esercizio del dogmatismo stesso.

Elementi storici e critici, che mettano a confronto le reciproche impossibilità di addivenire ad un accordo che non sia soltanto diplomazia o buona volontà, proverebbe che i tre monoteismi, in realtà, mentre si esercitano nella difesa dei principi, mai si tirano indietro davanti a compromessi sul terreno pratico, prestandosi a svolgere funzioni di riserva o di supplenza ogni volta che il modo di produzione vigente lo richiede. Nell’attuale tensione tra imperialismi, per essere concreti, i tre fondamentalismi lungi dall’essere debellati, intervengono ciascuno secondo le esigenze della propria area di interessi, per dare man forte nelle questioni che richiedono l’appello al senso della propria cultura, della difesa dei cosiddetti valori irrinunciabili.

Il confronto ravvicinato tra ebraismo e cristianesimo, sia cattolico sia riformato, è evidente nelle relazioni che li hanno visti protagonisti in tutta la fase delle formazioni nazionali, per scoprirsi definitivamente nella fase imperialistica.

Sappiamo bene che il guscio vuoto delle fedi religiose non può nascondere l’adesione ad interessi quanto mai materiali e spesso volgari: si tratta però di comprendere quanto ancora la sovrastruttura ideologica-religiosa sia capace di portare acqua al mulino del dominio imperialistico nelle tensioni che si stanno estendendo a livello planetario. Se prendiamo come cartina di tornasole di queste attitudini i processi di secolarizzazione che interessano i singoli monoteismi, vediamo che l’ebraismo, forse paradossalmente più degli altri, ha maturato questo cambiamento, seguito dal cristianesimo riformato ed infine da un cattolicesimo che si barcamena tra tradizionalismo e rinnovamento. L’Islam, stando alle polemiche nell’ambito occidentale, appare più restio ad aprirsi alla problematica che in nome della modernizzazione comporta lo smantellamento di chiusure tipicamente teocratiche.

Lo Stato ebraico, ad esempio, nasce esplicitamente come stato laico, e mentre non esclude la partecipazione alla politica dei partiti religiosi, compreso l’ultraortodosso, parte dal presupposto che lo Stato non è confessionale. Nel mondo occidentale sappiamo abbastanza delle circostanze storiche che non hanno superato definitivamente le pressioni chiesastiche, anche se ormai non si rilevano atteggiamenti di ostilità esplicita della Chiesa nei confronti dello Stato, semmai, ormai, di coinvolgimento e reciproca legittimazione. L’Islam conosce dei processi di avvicinamento al modo di intendere i rapporti tra Stato e religione di tipo occidentale, ma in generale il processo è più lento e complicato, a causa di una storia specifica delle aree che lo riguardano.

L’ebraismo si presenta come una realtà estremamente composita e ricca di sfumature: la sua presenza come lobby nella realtà americana, per esempio, saputamente condiziona la politica del più potente imperialismo attuale. Questa complessa composizione, essendo il frutto della diaspora, dell’adattamento dell’ebraismo alle varie situazioni storiche e statuali, va avvicinata con molta circospezione, in modo tale da non cadere nell’equivoco per fugare il quale abbiamo scritto questo studio. Quello cioè di considerarlo come un popolo organico, senza interne articolazioni e senza coinvolgimento nella moderna lotta tra le classi.

Non abbiamo però timore a sostenere che il messaggio di quegli eventi antichi può e deve alludere oggi alla liberazione del proletariato soggetto ai nuovi Faraoni, il Capitale, con le sue Piramidi, o la Babele delle sue Torri, che un certo fondamentalismo islamico si illude di far cadere al di là della lotta delle classi, contro e come surrogato della lotta fra le classi. Ecco perché la nostra posizione è assolutamente unica e non collima con nessun’altra.
 
 
 

Capitoli esposti a Parma nel maggio e a Genova nel settembre 2007.

9. Trenta denari, tradimento o investimento?

L’accusa più corposa che è stata mossa da sempre all’ebraismo è quella di tradimento. Tradimento, diremmo, per cause abbiette: il denaro. Il fango che è stato gettato su Giuda di Cariot, detto Iscariota, è senza eguali nella storia. Ma, a causa della operazione metafisica che prevede un traditore perché il disegno divino si realizzi, si è finito per glissare sulle ragioni vere, o possibili, del tradimento stesso.

Ci viene rimproverato di ricorrere spesso, nel nostro linguaggio, all’accusa di tradimento, di partiti e dirigenze di sindacati operai, come origine delle sconfitte del proletariato e della causa comunista. È vero, non siamo di quelli che negano una realtà elementare: gli esseri umani, e le loro organizzazioni, tradiscono – si tradiscono. Ma abbiamo sempre sottolineato che, al di là dei sentimenti, che rivendichiamo, quei contraccolpi negativi, e decisivi, sono per noi dovuti a cause e processi storici oggettivi.

Nella causa del tradimento di Giuda nessuno ha saputo portare delle ragioni oggettive a proposito dell’operazione che valse al Cristo la sua consegna a Pilato e al Sinedrio. Non pretendiamo certo di avere l’esclusiva di queste dispute, ma non possiamo non tentare un’interpretazione: troppo comodo sarebbe tirarsi d’impaccio facendo un’icona della storia e dei suoi personaggi.

Che Giuda fosse il tesoriere dei Dodici è noto a tutti, come è noto, attraverso i Vangeli sinottici ed un’infinità di apocrifi, che Giuda l’avrebbe fatto, il tradimento, per trenta denari; per questa somma si sarebbe consumata un’operazione infame. Se Jacopone da Todi dice in Donna de’ Paradiso a proposito di Giuda che della consegna del Maestro "fatto n’ha gran mercato", dovremmo arguirne che la somma era considerevole. Giuda intendeva forse rimpinguare le casse per la causa? Qual’era la causa di Giuda e del suo movimento, quello degli zeloti? Certamente il suo era un partito o una frazione nazionalista che considerava Gesù troppo tiepido sulla questione dell’impegno politico, privilegiando le questioni che oggi chiameremmo culturali o religiose, ed evitando la lotta aperta, violenta e senza quartiere contro l’Impero romano e le forze collaborazioniste...

Sarebbe errato cedere alla tentazione di giudicare questo centrale svolto storico applicando le categorie del nostro tempo, segnato dal capitalismo industrial-finanziario, ad un modo di produzione diverso, quello schiavistico. Non cediamo certo a questi abusi, sapendo bene che solo l’analisi differenziata e dialettica permette di valutare la storia del passato. Nello stesso tempo non abbiamo elementi sufficienti per valutare la politica di Giuda, come del resto quella di Cristo. Ciò non ci esime però dalla necessità di sostenere che le circostanze determinate nelle quali si svolgeva la vicenda non possono essere comprese a colpi di mancato uso del libero arbitrio da parte di Giuda, come se la sua volontà fosse predeterminata dalle Scritture; oppure di entrare nei grovigli dei sentimenti e della psicologia di un personaggio rappresentato in mille modi, fino al celebre ritratto che ne fa Bulgakov nel suo Il Maestro e Margherita evocando la figura pilatesca del Vozhd Stalin, per aderire così ad una interpretazione soggettivistica.

A livello di ricostruzione storica, ed in particolare del modo di produzione della Roma del tempo, condividiamo la tesi secondo la quale «il modo di produzione "antico", orientato al valore d’uso del tempo di Cincinnato, aveva ceduto il posto al modo di produzione schiavistico, orientato al valore di scambio: certo, il capitalismo romano è quello che i critici chiamano "capitalismo mancato". Il capitalismo "mercantilistico" romano ha inventato una prima "economia-mondo", raggiungendo l’apice del sistema schiavistico della villa romana, dopodiché è finito nella stagnazione. Non si deve però confondere l’Italia con l’Impero: Roma infatti prima ha dominato l’Italia e poi le province» (G. Ruffolo: Quando l’Italia era una superpotenza: il ferro di Roma e l’oro dei mercanti). La provincia della Palestina del tempo di Cristo ha una sua economia, ed il potere romano è presente con la sua caratteristica, quella di dominare senza ingerirsi nelle questioni religiose e nelle tensioni di questo genere che sono tipiche della regione.

È in questo clima che la condanna di Cristo trova il procuratore Pilato piuttosto svogliato e urtato nell’affrontare la questione, ed il Sinedrio deciso ad approfittare dei suoi rapporti col potere romano per normalizzare i suoi problemi interni agitati dalla predicazione dei Soteroi. Applicare dunque pedissequamente lo schema dell’imperialismo di Roma che stringe un’alleanza con una "borghesia compradora" locale per dominare la Palestina fa un po’ gola, ma non è certamente proponibile meccanicamente. Poiché non ci siamo mai sognati di battere il capitalismo facendo leva su pregiudizi o polemiche morali, nel corso della nostra milizia storica abbiamo sempre respinto quei luoghi comuni che non avrebbero permesso di cogliere il nucleo reale del modo di produzione che intendiamo abbattere. Per questo non applichiamo le categorie storiche del capitalismo moderno ad un passato molto complesso e spesso oscuro, nonostante che certi ambienti lo pretendano chiaro e storicamente definito.

La domanda che poniamo è allora questa: è stato il tradimento di Giuda per una somma di denaro che ha valso all’ebraismo l’accusa di aver istituito l’usura, la passione sviscerata ed immonda per la vile pecunia? Sarebbe troppo semplice. È nel corso del medioevo che agli ebrei, in quanto infedeli (questo semplicemente significa la traduzione impropria di "perfidi"), viene interdetta la proprietà della terra e la possibilità di accedere ai pubblici uffici. Così si trovano generalmente a praticare le arti liberali, che in quel tempo non erano ambite come nel sistema borghese. L’accusa canonica contro il prestito e chi lo pratica – perché la maturazione dell’interesse si fa nel tempo, e il tempo è di Dio! – viene pronunciata però già dal sinodo di Elvira dell’anno 300, e poi accomunò sia la scolastica sia la Riforma protestante, dando vita a Shylock... e alle forme di antisemitismo di vario genere.

Se dunque la dialettica materialistica procedesse per pregiudizi contro il Capitale, non avrebbe nulla di scientifico, termine che rivendichiamo ancora e di più, nonostante il fango che si tende a gettarci sopra. La nostra lotta contro il capitalismo non ha niente a che vedere col socialismo reazionario e con i rigurgiti di demagogia populista. Si tratta di rendersi conto che l’odio antisemita è stato una delle risorse plateali di queste posizioni, che si atteggiano da sempre ad anticapitalismo, ma che non ne conoscono le dinamiche storiche, e soprattutto non le vogliono conoscere!

Se soltanto si riflette sulla retorica e sulla violenza tanto verbale quanto fisica a cui ha fatto ricorso una certa pubblicistica piccolo borghese, ci si rende conto dell’incapacità di questi ambienti di valutare non soltanto la storia passata, ma soprattutto di progettare il futuro. Quante volte ci si è chiesti: perché tanto livore nel fascismo e nel nazismo contro l’ebraismo? Perché con la formula "lotta alla giudodemoplutocrazia" si illusero di fare d’ogni erba un fascio, riuscendo la grande borghesia industriale e finanziaria a tirarsi dietro le mezze classi e cercando di trarre il proletariato alla propaganda nazionalistica portatrice di chiusura e di odio nei confronti del sentimento internazionalista, che comporta solidarietà con i proletari di nazioni diverse e lotta senza quartiere contro la propria borghesia.

Letteratura e saggistica hanno profuso così il loro veleno in una polemica di una violenza verbale senza limiti, al punto che basta confrontare le tirate polemiche di Lutero contro la sinagoga con i deliri nazisti per trovare una continuità sconcertante che ancora oggi si fatica a distinguere. E gli scrittori del nuovo secolo, s’intende il XX, futuristi o fascisti, oppure convertiti al cattolicesimo come Papini, si sono distinti in questo sport del terrore suggerito o insinuato: «L’Ebreo Errante è condannato dall’indomani del misfatto ad andare ramingo per tutti i paesi aspettando la trionfale rivincita della sua vittima (...) L’Ebreo seguiterà a percorrere, munito di molte tasche, le vie del mondo per raccattare i denari figliati dai trenta sicli di Giuda» (Storia di Cristo, 1921). Se è vero che prendersela con qualcuno, identificarlo come nemico giurato, equivale il più delle volte a proiettare le proprie fantasie malate, non c’è dubbio che nell’età moderna il rapporto della cultura occidentale col denaro ha significato, piuttosto che conoscenza delle proprie irrisolte contraddizioni sociali, scatenare odio contro l’ebreo, presunto responsabile morale.

La tradizione agraria, signorile, che ha permeato di sé il contadiname e perfino i ceti borghesi, che col denaro hanno stabilito un patto che si crede diabolico, si è dimostrata inconsistente nel mettere a punto una sua autentica scienza economica. Si tratta, come ben si comprende, non semplicemente di vagliare la funzione della moneta nella vita sociale, ma di individuare i nessi che ne giustificano la produzione e la riproduzione. Appena si analizza la natura del denaro, se non se ne coglie la funzione sociale, nel retropensiero si crede ancora al suo potere metafisico, se ne stigmatizzano i "vizi" insuperabili, l’attaccamento all’idolo, senza venire a capo della ragione dialettica di tale tabe dell’anima.

Noi sappiamo che c’è voluta la scienza e lo studio appassionato di Marx per trovare il bandolo della questione: per questo le diatribe anche violente contro l’elemento ebraico assumono senso solo se spiegate nell’ambito della Economia politica. La borghesia in questo terreno cruciale produce ancora essenzialmente carta straccia, per la sua incapacità costituzionale di conoscere e di conoscersi oggettivamente. Nell’analisi del processo di alienazione il materialismo storico individua l’origine della natura idolatra del denaro, tramite di una realtà che va indagata nelle ragioni sociali della produzione e della distribuzione, fino a saper vedere il superamento dei rapporti sociali vigenti, in nome di un progetto di specie non fondato sull’utopia, ma sul processo reale e storico.

Combattere i mali del capitalismo a forza di prediche moraleggianti non porta a niente. Anche se ormai perfino i più moralisti tra i critici del capitalismo non si danno più le arie di avere problemi nel considerare gli shekel come un bene da non denigrare e demonizzare. L’avidità del denaro, stigmatizzata dalla Scolastica e con eguale acredine dal riformatore Lutero, identificata anche fisicamente nell’ebreo, avrebbe allora fatto definitivamente il suo tempo. La stessa esegesi biblica oggi vede nella Parabola dei Talenti un incoraggiamento a metterli in opera piuttosto che a sotterrarli, secondo la tradizionale tendenza a tesaurizzare: una esaltazione del profitto e dell’interesse del denaro dato a prestito.

Ma non è con questi apparenti rovesciamenti di valori che si può vedere la fine di un sistema di produzione in metastasi evidente. La "trasmutazione dei valori", quand’anche potesse essere invocata, viene dopo e non prima i veri e storici rivoluzionamenti dei rapporti di produzione. Per questo fa un effetto di déjà vu parlare di ripresa dell’antisemitismo, come inevitabile odio da riversare sui residui esponenti d’una cultura inestinguibile, che nella bieca anche se non confessata vulgata di certi ambienti piccolo-borghesi non sarebbero stati sradicati dalla faccia della terra neanche con l’olocausto.

Chi si era illuso che l’avidità del denaro, e non, come diciamo noi, il profitto come fine, non avrebbe toccato il culmine fino a diventare l’ostacolo ed il limite ultimo del capitale, sogna ancora di riformare la società "rovesciando i valori", predicando, predicando... I più accaniti in quest’opera che non porta a nulla sono, non a caso oggi, i riformisti più radicali che, dopo aver storicamente condiviso le prediche, oggi abbracciano il valore del denaro e dell’interesse lamentandone la scarsa disponibilità mentre che, ben forniti e ripartiti, sarebbero capaci di compensare i molti mali del capitalismo. Ecco a cosa porta la cattiva coscienza borghese, anzi radical-piccolo-borghese di giovani sedicenti economisti, che credono d’aver scoperto il modo di riformare il capitalismo, anzi di "salvarlo dai cattivi capitalisti" (Rajan e Zingales). Il capitale viene riconosciuto come in pericolo, e dunque bisognoso di essere salvato dai pregiudizi... Siamo ancora lì: all’approccio sovrastrutturale, all’appello ai valori buoni contro quelli cattivi.

Non basta rovesciare la condanna degli shekel in esaltazione: ci vuole ben altro! Per loro "l’interesse è il più puro degli stimoli". Il vero vizio non è la greatness, non l’avidità del denaro, radice di tutti i mali secondo il vecchio moralismo: vizi sono la mancanza di "controllo" e la difesa dei "privilegi". «Bisogna incrementare e valorizzare al massimo i mercati finanziari, il "microcredito" o le "banche etiche" perché questi offrono alla "politica" strumenti di straordinaria efficacia per ampliare la libertà, ripartire i rischi, aumentare il benessere: ciò consente di promuovere l’azionariato popolare nelle privatizzazioni, di ridurre i rischi degli agricoltori, di migliorare la qualità della vita dei malati terminali...» Ecco come gli shekel potrebbero salvare il mondo! Una volta che non si demonizzi il capitale, che se ne scopra l’aspetto buono, il proletario, se lo vorrà, potrà trasformarsi in proprietario, o almeno in piccolo azionista popolare. Niente di nuovo sotto il sole riformista, non c’è che dire! Come sottoprodotto avremmo il superamento d’ogni antisemitismo, rigurgito di odio antiebraico, causato dai pregiudizi contro il denaro.

Se fosse così facile, se la logica del Capitale fosse questa, se non trovasse proprio nel profitto e nell’interesse il suo naturale limite storico! La logica del denaro non basta a spiegare perché, storicamente, la rendita e il profitto tendono ad averla vinta sul lavoro ed a perpetuare il suo soggiogamento. Chissà se i due genietti dell’economia hanno mai sentito parlare dell’azionariato popolare promosso dal Terzo Reich, dei tentativi ricorrenti non solo dei sistemi totalitari, ma delle stesse democrazie, in varie esperienze, di aprire alla "partecipazione delle masse" nella gestione del capitale?

E quando anche, come nell’altro lavoro dello stesso Zingales, Il capitale senza i capitalisti, auspica un capitalismo finalmente liberato dalle rendite d’ogni genere, non solo di quella classica dei proprietari di terra, ma di ogni rendita di posizione che inevitabilmente si determina nell’evolversi storico del sistema di produzione, ha mai sentito dire che già Marx descrive il capitale anonimo, non dei singoli capitalisti, accomunati ormai dall’unico fine: massimizzare l’accumulazione del Capitale in nome della Nazione, difesi nel loro Stato, o come oggi si blatera di azienda Italia, o Usa, come ieri di una Russia socialista e senza padroni?

Sappiamo da due secoli che Adamo Smith aveva ironicamente fatto notare che se immaginiamo due capitalisti chiusi in una stanza per trovare un accordo, discuterebbero di come far fuori la concorrenza. Non c’è capitalismo senza mercato, non c’è capitalismo senza concorrenza, ma soprattutto non c’è capitalismo senza monopoli e posizioni di rendita. E senza transcrescita in imperialismo. Se questi credono di poter abbattere definitivamente la formazione dei trusts, attraverso la realizzazione della concorrenza perfetta, sappiano che non sono certo i primi ad averci pensato.

Chi erano, secondo il solito pregiudizio, i detentori della rendita usuraria, se non i famigerati ebrei? Ed oggi, sono forse gli ebrei i detentori del potere bancario e finanziario, oppure il Capitale come potenza anonima mondiale? Si crede forse di rinverdire il liberal/liberismo con certi argomenti? Noi stiamo sul terreno del corso storico del capitalismo, non cianciando di vizi ancestrali, di cui gli ebrei sarebbero i responsabili da condannare in eterno, ma individuando nel suo sviluppo le condizioni inevitabili della sua fine.

Se i mali del capitalismo non sono l’avidità del denaro inteso come vizio, e la concorrenza perfetta è solo un’utopia, non possiamo negare che nell’ideologia borghese balena ogni tanto l’idea di un capitalismo pulito, liberato dalle contraddizioni più insopportabili, al punto che, se la parola non le suonasse diabolica, potrebbe anche intravedere il... comunismo! Ma nel comunismo, lo diciamo per una volta ancora, non c’è denaro, né mercato, né concorrenza, né imperialismo o egemonia delle nazioni più avanzate. Il comunismo è descritto ed anticipato a livello teorico come superamento di questi caratteri, e dunque nessuna Banca degli Investimenti mondiale, nessun governo globale dell’economia può pensare di prefigurarlo.

È scontata l’obiezione: dunque di colpo svanirebbero tutti i vizi che da tempo immemorabile sono stati denunciati non solo dalla morale, ma nella letteratura, nell’arte? Non è propriamente così, poiché la stessa avidità del denaro, identificata con la pratica usuraria, non è una tabe dell’anima, ma una conseguenza di determinate esperienze e relazioni. Basterebbe riflettere un momento su qualche sinonimo di denaro, per rendersi conto che l’entrata in gioco di questo mezzo di scambio corrisponde ad un certo livello delle forze produttive e della cultura umana. "L’equivalente generale" allude ad una misura che per lungo tempo ha svolto la funzione di tramite dei commerci umani, solo poi diventa il fine della produzione nel sistema del capitalismo, prima mercantile, poi industriale e finanziario. Il grande scandalo allora suscitato dalle parole di Marx secondo il quale la questione ebraica sarà risolta dall’abbattimento del Capitale non è poi così sfacciato, né sinonimo di sterminio... ante litteram!

Noi aggiungiamo che non solo la questione ebraica verrà risolta dalla fine del sistema di produzione capitalistico, che come i precedenti è nato, si è fatto adulto e dovrà soccombere, ma anche quella nazionale, quella islamica, quella cattolica, insomma tutte le reali o presunte questioni che si sono presentate come specifiche, ideologiche, in qualche modo senza soluzione possibile. Il Comunismo è la dialettica negazione, sintesi e superamento delle numerose particolarità che il percorso storico umano ha generato, ha saputo generare, sviluppare, consolidare e formalizzare in compiute e in sé coerenti visioni dell’uomo e del mondo.

Panacea di tutti i mali, allora, il comunismo? Lasciamolo dire nelle volgari polemiche. In realtà una necessità/libertà che la società si trova a dover affrontare, premuta dalle doglie di un parto che è sotto gli occhi di tutti. La realtà è gravida di nuove prospettive, di nuove forme di vita, senza le quali la società avvizzisce e si degrada senza limite, sacrificando in modo insopportabile le classi senza riserve che nessun azionariato popolare, nessuna diffusione capillare della finanza sarà mai in grado di riscattare.

Se nel lessico attuale permangono termini e riferimenti a sentimenti quali l’odio, il tradimento, la cattiva coscienza, non possiamo certo fin da ora inventarci una nuova lingua. Nella rivendicazione corretta di rimettere in piedi l’intera realtà, gli stessi sentimenti sono nella nostra nozione rappresentazione di sé che gli individui e le le classi si trovano a dare, con tutti gli aspetti ideologici che sappiamo e che abbiamo ricordato. Nella società comunista non ci saranno sentimenti? Ci mancherebbe altro! Ma se questi sono il prodotto di relazioni sociali fondamentali non potranno che mutare in profondità.

Quando si fa riferimento a pratiche sociali e a modi di sentire del passato, che ci appaiono odiosi, lo facciamo non per ribadire una immodificabile natura umana: questo è il criterio del modo di pensare statico e reazionario. Se non credessimo alla possibilità di cambiare dal profondo la natura umana così come si è configurata nelle società di classe, che ce ne faremmo del comunismo, della rivoluzione? Non il pregiudizio dovrà vincere, ma la capacità di leggersi in modo vero, cioè rispondente alle materiali, e felici, relazioni vitali – della produzione e della riproduzione – che l’uomo stabilirà con l’uomo.
 
 
 

10. Il comunismo

In linea di principio tutte le religioni e tutte le tradizioni fanno parte dell’evoluzione storica della specie umana, e le appartengono, nel bene e nel male. Non ci metteremo, allora, a dire che in qualche misura le rivendichiamo tutte, ma ammettiamo che nel disegno storico del materialismo dialettico il passato è parte integrante del processo che porta "inevitabilmente" al comunismo.

Ciò non ci impedisce, anzi, ci obbliga a vedere criticamente in che modo l’umanità del passato, dai primordi ad oggi, all’interno delle sue contraddizioni e poi divisioni di casta e di classe, ha prodotto le condizioni per il passaggio al comunismo. In questo senso, in previsione e nella prospettiva dell’avvenire, non siamo con nessuna religione, per quanto sublime possa presentarsi o si dia le arie di essere. Il marxismo si pone al livello teorico massimo e polemizza non soltanto con le volgari espressioni del capitalismo di oggi, ma con le manifestazioni di pensiero più cospicue del passato, che tentano di affrontare le grandi questioni non solo del momento ma in vista del futuro.

Per quanto abbiamo detto e considerato, neghiamo al sistema del Capitale nella sua totalità la capacità di dotarsi di un partito unico ed organico, laico o chiesa, capace di pensare e progettare secondo criteri che siano vantaggiosi per l’intera specie. Questo compito spetta alla nostra dottrina e tradizione (stavamo per dire... "religione"); dunque, lo facciamo, senza sottrarci all’impegno di dire quanto ci compete.

Innanzi tutto vogliamo osservare che è da tempo, dalla "fine delle ideologie" – come la borghesia ha chiamato il crollo del modello fascista-nazista e di quello stalinista, gabellato per comunista mentre è parte integrante della sua esperienza – che nessuno sembra azzardare di parlare di sistema. Sennonché di recente gli ultimi cervelli pensanti della cultura ufficiale hanno avuto l’ardire di tentarlo. Ci riferiamo, come ci è altre volte accaduto, al pensiero dei "neo-parmenidei" come Severino, che non manca di tentare una sintesi culturale, non solo dei tempi attuali ma dell’intero sviluppo occidentale, riuscendo a dire anche cose degne di interesse e di polemica.

La non tanto facile domanda è la solita e classica: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? tanto scontata quanto rancida. Ma poiché si vuole sostenere che le religioni hanno rialzato la testa dopo che la presunta "morte di Dio" sembrava aver celebrato il loro funerale, si tenta di decidere se veramente il "risveglio religioso", non solo dell’Islam ma del sacro in generale, sia autentico, e di che cosa sia segno.

Il merito di Severino è di ammettere, al di là delle facili suggestioni, che i sostenitori del "declino dell’Occidente" a causa dell’emergere di nuove culture dei continenti già oggetto di colonizzazione, non comprendono che «ogni razza è inevitabilmente iscritta in "strutture", e che la struttura oggi, e sempre più dominate, è il frutto più maturo dell’Occidente, e si chiama "tecnica"». L’Occidente allora, non solo quello degli ultimi due secoli, ma il più antico e profondo, che ha espresso la cultura ebraico-cristiana insieme con la greco-romana, sta all’origine della nozione di Tecne e delle sue conseguenze in tutti i campi della vita e del sapere.

Dire che la Tecne ha raggiunto il suo pieno sviluppo e dunque il suo acne con la moderna società industriale capitalistica, non solo ci trova d’accordo ma è proprio la base del materialismo storico e dialettico. Ma, si dirà, è il lietmotiv non nuovo, la solita minestra del primato culturale della civiltà occidentale che avrebbe il merito, o il difetto, di aver creato le condizioni generali della nozione stessa di Progresso, o di Umanità. Poiché ci siamo sempre occupati delle diverse tradizioni che si sono succedute nel tempo sulla crosta terrestre, viene spontaneo chiederci se abbiamo tralasciato non solo qualcosa di secondario, ma di non aver messo a fuoco la natura della storia, la sua direzione di marcia. Se la nozione di Tecne, e la volontà di potenza di cui è intrinsecamente espressione, viene da lontano, ne consegue che tutto l’apparato delle strutture è leggibile secondo questa base concettuale.

Ci siamo permessi di obiettare che le strutture, che fanno da contesto alle religioni, alle espressioni culturali, non sono semplicemente Tecne come volontà di potenza (sintesi certamente di effetto), ma modi di vita, di produzione, e di cultura. Le strutture, più generali delle stesse razze umane che si sono prodotte in una forma o nell’altra, danno corpo a quelle che noi continuiamo a chiamare sovrastrutture, cioè rappresentazioni consapevoli, di diversa natura, delle strutture stesse.

Ma non è tutto oro quel che riluce: è in corso l’ennesima operazione di manipolazione del pensiero e della teoria rivoluzionaria. Mentre in America Marx è tornato di moda nelle università come massimo teorico del capitalismo, in Francia ed in Italia non si vuole essere da meno. Il francese Attali, già consigliere di Mitterrand, nel suo recente libro di ben 418 pagine, Karl Marx, ovvero lo spirito del mondo, vuol dimostrare che si devono a Marx le grandi scoperte sulla natura del capitalismo. Ma, essendo egli vicino ad Staurt Mill, e dunque liberale, pur non credendo alla democrazia, sarebbero da ritenere "moraleggianti" e da tagliare soprattutto le parti del Capitale dove Marx indulgerebbe alla profezia ed alle prediche, da buon ebreuccio, come sappiamo.

Invece noi non possiamo parlare di Comunismo evitando di far riferimento all’analisi marxista del Capitale. La nostra versione è notoriamente opposta, perché l’analisi e le prediche sono l’una la faccia speculare dell’altra. Troppo comodo prendere quel che piace – l’aveva fatto anche il buon Benedetto Croce – ridurre Marx al metodo e non tener conto della sua filosofia, che sarebbe viziata di idealismo e d’altri difetti della peggiore specie. Di questa moda corrente il buon Severino fa anche peggio: non cita né Marx né il materialismo storico, ma si vede che vi attinge e lo manipola da par suo. Noi ci atteggiamo a delineare la natura del comunismo, che preconosciamo e anticipiamo, non per ragioni apologetiche, perché una volta che il materiale di studio del materialismo storico viene santificato, come avviene in tutte le chiese, con ciò è messo fuori uso.

La novità del mondo attuale, secondo Severino sarebbe questa: «Oggi il mondo è avviato verso una struttura di cui tutte le altre hanno bisogno – anche per combattere tra loro e prevalere le une sulle altre – si tratta dell’apparato scientifico tecnologico che costituisce l’autentica forma di globalizzazione (ed è essenzialmente diverso dal capitalismo). Ne riconoscono l’importanza anche coloro che sembrano più lontani da esso, come risulta anche da recenti dichiarazioni di esponenti del mondo cristiano e islamico. Ciò avviene perché continua a prevalere la convinzione che la tecnica, di per se stessa sia "neutrale" e divenga "buona" quando sia "usata bene", "cattiva" quando sia "usata male". Eppure essa è un progetto non neutrale: la crescita indefinita della propria potenza» (L’impossibile declino dell’Occidente, "Corriere della Sera", 3 novembre 2006).

Il bello delle affermazioni del filosofo è che ne dice una giusta ed una a modo suo. È vero, la Tecne non è neutrale. Nel senso che tutti sono stati e sono costretti ad usarla, secondo le sue regole, sebbene non in egual misura. Ma chi è in grado di "accrescere indefinitamente la sua (della Tecnica) volontà di potenza"? E può esistere un sistema sociale di vita e di produzione capace di padroneggiare la Tecne, in modo tale che non si ritorca contro la stessa specie animale che l’ha accumulata? La risposta la sappiamo: secondo Severino nessuno, perché la volontà di potenza della tecnica è destinata a travolgere tutto e tutti, come ha già ampiamente fatto col capitalismo. Quest’ultima affermazione è vera, la tecnica, nel suo accelerato sviluppo, ha già ampiamente travolto il capitalismo. È la nostra tesi centrale, che noi completiamo nella formula: il capitalismo ha prodotto le condizioni storiche per il passaggio al socialismo.

Certo, ci vuole coraggio a sostenere la nostra tesi in un ambiente storico che mai, sul piano contingente, sia era presentato così sfavorevole al proletariato e alle classi subalterne a livello mondiale. Ma non abbiamo dimenticato l’ammonimento di Marx: o socialismo o rovina di tutte le classi.

La smentita a questa tesi, e cioè il fallimento del cosiddetto socialismo reale, mentre per la borghesia sarebbe la prova dell’impossibilità del comunismo, per noi è conferma che il regime di cui siamo fautori o si realizza alla scala internazionale o è destinato a rimanere capitalismo ed imperialismo, anzi, a peggiorare le condizioni di questo assetto economico e politico.

La borghesia non a caso riscopre Marx come teorico del capitalismo, perché, pur odiando le sue conclusioni politiche, deve ammettere che la sua analisi del capitalismo è quanto mai pertinente; si illude di far uso delle sue analisi evitando, anzi combattendo le sue considerazioni generali quanto all’esito previsto. E che dovrebbe fare? non ha alternativa. Ma il fatto che rivaluti la teoria marxista per la sua interpretazione dei ritmi del capitale, è un’ammissione di sconfitta. Lo stesso Attali arriva dire: «Non si tratta di rivalutare il marxismo. Ho semplicemente voluto dimostrare che in molti scritti ed opere, forse lette male, forse sconosciute e censurate, forse interpretate a senso unico, è rimasta nell’ombra l’eccezionale modernità del pensiero di Marx. Nessuno prima di lui aveva intuito l’importanza della scienza e delle comunicazioni nell’evoluzione dei rapporti sociali. Nessuno aveva compreso l’ascesa della Cina e dell’India sulla scena mondiale».

Non si era sostenuto che il comunismo è una utopia dell’Ottocento, che chi lo sostiene integralmente, come facciamo noi, non è che un iguanodonte... e anche peggio? Come è possibile che ad un tratto il materialismo storico sia riconosciuto come la teoria che meglio di qualunque altra avrebbe capito la natura della modernità? Ma nella modernità i modi d’essere cambiano con una velocità impressionante, secondo le esigenze immanenti al modo di produzione capitalistico, che rivoluziona incessantemente le forze produttive, le quali inevitabilmente entrano in conflitto con i rapporti di produzione. Ecco, è questo, secondo i nuovi ammiratori di Marx, che non dovrebbe avvenire: la proprietà, le classi, i rapporti tra le classi, dovrebbero rimanere fermi, nonostante lo sviluppo di nuove tecniche, di sempre più alta volontà di potenza. Diciamo, una pretesa assurda, basterebbe un minimo di dialettica per ammettere che mutando la forza produttiva della Tecnica sono necessariamente sospinti alla trasformazione anche i rapporti di produzione fra gli Uomini.

Ecco che allora il materialismo storico avrebbe dovuto fermarsi, e non spingersi a preconizzare la crisi catastrofica della società fondata sul capitale, l’intervento della dittatura proletaria e il suo esercizio dispotico fino al socialismo inferiore e infine al comunismo. Questo Marx non avrebbe dovuto dirlo, e soprattutto le forze storiche a cui egli si rivolgeva, non avrebbero dovuto tentare di farlo. I proletari non avrebbero dovuto resistere al capitale, in modo radicale, organizzarsi prima in sindacati di difesa dei propri interessi economici e sociali, e poi in partito per dare l’assalto al cielo. Attali si ferma a Marx liberale e afferma: «Nessuno come lui aveva esaltato il valore della democrazia parlamentare, della libertà di stampa e dell’indipendenza della giustizia. Nessuno prima di lui aveva fatto l’apologia del libero scambio e previsto la fine del colonialismo. Può sembrare un paradosso o una provocazione, ma proprio Marx aveva sostenuto che il capitalismo è il migliore sistema economico e sociale rispetto ai sistemi che l’hanno preceduto. Non solo: aveva detto che il socialismo non è realizzabile in un solo paese e soprattutto che non era realizzabile in Russia».

Tutto vero, ma solo una parte del vero. Perché naturalmente si vuol dire che aver tentato il socialismo in Russia è stato un azzardo di Lenin, che sarebbe così il vero traditore del pensiero di Marx. Con questa operazione, secondo una storia controfattuale, cioè fondata su dei se, si cerca di immaginare cosa sarebbe successo se in Russia si fosse affermata la versione liberal-socialdemocratica del marxismo, cioè se avessero vinto i menscevichi, senza la forzatura dei bolscevichi, nel rispetto del liberalismo marxiano. No, non andò così, e noi lo diciamo realisticamente, non utopisticamente!

Comunismo indica, in senso etimologico, pienezza e comunanza di vita, possibile solo se ogni artificiosa separazione tra le componenti e le necessità della specie viene a cadere, viene tolta. La sua intuizione non è nuova, se l’idea di comunità organica risale e può riferirsi al comunismo primitivo. Ciò non significa che il secondo comunismo dell’ambiente originario intenderà riprodurre anche le immaturità e la chiusura in cerchi umani di breve raggio, ma che riconosce a quel grumo di vita, che più non era solo animale ma in storica evoluzione, una organicità naturale, cioè congeniale, utile alla nostra specie che, dopo lungo e tormentato corso, può essere ristabilita in forza del dispiegamento pieno delle potenzialità della società moderna, che col capitalismo ha raggiunto l’apice dello sviluppo tecnico e nello stesso tempo delle interne divisioni.

Comunismo è compagine vivente nella quale i termini di opposizioni antiche del dramma umano, uomo-donna, giovane-vecchio, sano-ammalato, savio-folle, colto-ignorante, discente-docente, anima-corpo, morti-viventi-nascituri, si ricompongono nella riappropriazione sociale degli strumenti della produzione e della riproduzione della vita. Tutte le separazioni, che sono contraddizioni reali, non semplicemente logico-mentali, dice Marx nella Critica al programma di Gotha, saranno affrontate e risolte. Non per decreto, ma in quanto saranno maturate già nell’attuale società le condizioni favorevoli al loro superamento storico.

Se questa pre-visione è apparsa ed appare ancora utopistica, è perché – direbbe Attali – Marx è stato "saccheggiato e frainteso". Ma non è sufficiente questa considerazione, che ha un suo fondo di verità. Attali attribuisce i mali della cattiva lettura, che è solo un aspetto del tradimento del metodo e dei contenuti del materialismo storico e dialettico, al fatto che «dal giorno della sua morte Marx è stato vittima del suo eccezionale successo e del suo immenso lavoro di studioso intellettuale; il suo pensiero è stato saccheggiato, utilizzato, esaltato, col risultato che il sogno più bello si è trasformato nella peggiore barbarie. Marx non ha mai scritto una riga sulla nazionalizzazione dei mezzi di produzione, e ha sempre sostenuto che il socialismo può nascere soltanto dopo l’estensione globale del capitalismo, mai al suo posto». I processi storici reali sono stati deformati dagli interpreti di Marx, che hanno adattato le sue previsioni ad operazioni insostenibili, quali l’idea del socialismo in un solo paese che si pretese di realizzare in Russia.

La rivendicazione della bontà delle idee di Marx e la considerazione che i movimenti che a lui si richiamano sono il frutto di una deturpazione del suo pensiero porta al solito schema: il fondatore era buono, ma fu frainteso dai seguaci, inadeguati al suo grande disegno. Ma è vero che, nella nostra ottica, non si può prendere dal marxismo quello che piace, o è adattabile sul momento in ordine alla cosa da fare sul piano contingente.

I progetti borghesi non acconsentono all’accrescimento "senza limiti" della tecnica, ma solo della tecnica che dà profitto. Questa è la differenza netta che opponiamo alle loro elaborazioni: le sovrastrutture, che non osano chiamare con questo nome, interagiscono con lo sviluppo della tecnica, e sempre più lo raffrenano, per impedire all’uomo di volare, proprio come farebbe il buon Dedalo col troppo audace Icaro... Il comunismo non è un sogno ad occhi aperti perché esprime la necessità di liberazione che le oggettive forze produttive chiedono, imprigionante all’interno di rapporti che tendono a comprimerle e sistematicamente distruggerle, nel timore che le forze sociali antagoniste riescano a rompere il guscio dell’uovo non solo fecondato, ma oramai pronto a schiudersi.

La lotta dei comunisti, prima ancora di un progetto sociale e di un impianto teorico, è lo stare dalla parte della classe operaia. Non nel senso religioso della "preferenza" per i poveri o i sofferenti, ma moto di primordiale indignazione per la sua condizione attuale e fede nella sua capacità di riscatto reagendo alle lusinghe della rassegnazione e della soggezione. Su questo punto oggi tutti sembrano aver mollato, perché smentiti e delusi.

Né l’azione dei proletari è una forma di libero arbitrio sociale, e tanto meno individuale, la voglia di aprirsi un varco contro gli altri, per brama di nuovi privilegi o del potere. L’azione comunista è il prodotto di non resistibili sollecitazioni che provengono dal magma storico, dal vulcano della produzione. Non nel mito di una catartica esplosione di volontà degli oppressi, ma di una necessità/libertà che determina i comportamenti e i pensieri dei componenti la classe lavoratrice, non una volta all’anno ma ogni giorno, sotto il giogo del modo di produzione capitalistico, che pretende fatica, sangue senza tregua, ed elargendo solo illusioni.

L’azione comunista non è opera di moralisti, che leggono la storia al rovescio, come se fosse il frutto di decisioni compulsate intorno ad un tavolo o davanti al tribunale della coscienza o della ragione. Si confonde spesso la pretesa libertà dell’individuo, che solo in limitate circostanze è capace di scelta, con le formazioni storiche, la cui dinamica non è la sommatoria delle volontà dei singoli. Gli effetti valanga delle rivoluzioni, come del resto le glaciazioni sociali, come quelle cui assistiamo in questa fase storica, non possono essere spiegati con la solita analogia tra individuo e società che risale a Platone e per cui «l’anima concupiscibile, irascibile e razionale varrebbero tanto per gli individui che per la polis».

La vita della specie è sicuramente storica: una volta ha avuto inizio. La teoria comunista però non si appiattisce né su un evoluzionismo meccanico né su un creazionismo di ritorno. Le origine della specie – e non dell’individuo – si legano alla natura, alla suo essere fusis, materia vivente, non necessariamente vita come la intendiamo nel senso biologico delle scienze di oggi. Così la vita della specie è in qualche modo eterna, e non finisce mai, a meno che l’attuale compagine storica decreti la sua rovina... come viene ogni giorno minacciato, a scopo intimidatorio.

L’obiezione della cultura dominante borghese la conosciamo: come sarà possibile vivere in una società senza mercato, senza competizione, appiattita in tutte le sue manifestazioni, senza... qualche guerra che funzioni da igiene del mondo, come è sempre stato? È chiaro che il legame con i guasti propri d’una società di classe non saranno certo spazzati via con tanta facilità. Né siamo dei socialisti utopisti che si mettono a disegnare al tecnigrafo gli assetti della futura realtà, fino a stabilire fin da ora quanti bottoni si debbano portare alla giacca.

Sappiamo che il processo attraverso il quale la presa del potere in Russia, che non poté essere seguita nell’Occidente, ha consentito si formasse nelle menti un’immagine capovolta del socialismo. La degenerazione del Partito e dello Stato russi ha così dato adito alla formazione d’un mito nel proletariato di tutto il Mondo e per tre quarti di secolo, quello appunto del socialismo realizzato. La nostra corrente ha le carte in regola poiché non ha aspettato 80 anni a denunciarne i guasti, come hanno ignominiosamente fatto gli opportunisti d’ogni risma, ma lo fece mentre gli eventi maturavano, subendo le ingiurie e patendo le persecuzioni interne. Ma andava fatto, come è dovere d’un organo, il Partito, che non è la stessa cosa né della classe dei lavoratori né dello Stato socialista in quanto conserva, anche nei momenti peggiori, la prerogativa di guida e di organo della rivoluzione. Se non lo avesse fatto, oggi non solo non si parlerebbe di queste cose in questa forma, ma l’idea stessa di comunismo avrebbe preso una piega anche peggiore.

Ciò non significa sottovalutare l’attuale fase storica, proibitiva per le sorti della classe proletaria nel mondo, che lascia passare come inevitabile che ben un miliardo di esseri umani viva nella fame e la stragrande maggioranza della popolazione sia sottoposta a quotidiana tortura per i voleri di una divinità crudele, il Capitale, che solo compensa i vizi di pochissimi degenerati. Questi elementi non li diciamo noi ma vengono sciorinati ogni anno dalla stessa presunta comunità mondiale che si riconosce nell’ONU. Si ammette che poche multinazionali nel mondo hanno più potere di oltre 50 Stati nazionali messi insieme. Eppure nessuno alza un dito, nessuno osa mettere in discussione l’attuale assetto di domino del capitale. La società di specie rischia di essere presa per una favola, mentre si riconosce che sarebbe una necessità. Nessuna tragedia è più grande di quella che si subisce senza reagire. Ma se è vero che il proletariato mondiale è la maggioranza almeno statistica della popolazione, e sempre crescente, non sarà possibile assoggettarla definitivamente.

L’esigua minoranza politica che siamo, per chi maneggia la dialettica, non è affatto incompatibile con questa enorme maggioranza di umanità oppressa dal Capitale. Se vinsero i bolscevichi, minoranza nel partito, sulla maggioranza menscevica, in un’epoca rivoluzionaria calda non fa ugualmente una grinza, e spiega il livore degli opportunisti che oggi misurano a base di numeri, di voti, di sondaggi, di maggioranze più o meno risicate. Affari loro... e purtroppo dei proletari che subiscono il loro fascino, oramai però... indiscreto!

Il comunismo per il momento vive all’interno di uno sparuto gruppo, che riesce a non sentirsi "solo" se sa rapportarsi alla sua storia, se sa vedersi come continuità con quella tradizione che permise la presa del potere. Questa esigua minoranza se commette questi errori rischia di non consegnare il testimone alle generazioni future:
1) Se sposta la sua battaglia dal suo terreno a quello del nemico. Questo sia nelle tesi, sia negli atteggiamenti tattici, sia nel modulo di relazione suo interno, improntato al centralismo organico. Spesso la degenerazione del partito è avvenuta, temporalmente, da quest’ultimo al primo campo e suo grave sentore è l’aver accettato qualsiasi forma di lotta politica al suo interno.
2) Se si illude di chiudersi a riccio nella sua tribù, e non si rapporta al movimento proletario in atto, per quanto debole possa essere.
Queste condizioni sono necessarie per proseguire in uno sforzo che mira al fine necessario.

Gandhi, da buon indù, ebbe a dire: non conta il fine, ma lo sforzo. Noi non siamo tanto masochisti da dire la stessa cosa, ma da una religione così antica dovremmo capire il fondo di verità che c’è anche in questa affermazione. Quando rivendichiamo l’idea e la prassi per cui il fine del comunismo non può non determinare il metodo di lavoro dei comunisti e che il loro partito non può atteggiarsi secondo gli stessi moduli dei partiti borghesi, non lo diciamo per romanticheria, ma perché senza questa pratica rigorosa e felice è storicamente provato che il partito viene meno ai suoi compiti, nonostante presunte buone intenzioni. Se questa affermazione suscita da ogni direzione il sorriso di sufficienza è perché ormai si è rassegnati ad accettare l’idea borghese secondo la quale la vita è lotta, competizione e poc’altro.

Se non provassimo gioia e dolore a condividere le vicende della serie delle successive classi storiche di oppressi, dovremmo e potremmo passare della parte opposta, fare del politicantismo, vendere un pezzo alla volta il nostro "patrimonio"... adattandoci a trovare qualche acquirente sul mercato.

Il comunismo, in atmosfera esterna borghese, vive nel partito. In esso cerca di affrontare tutti i problemi, dalla economia e dall’esplodere delle lotte sociali e delle loro espressioni politiche e statali fino alla storia naturale, alla teologia, alla logica, alla matematica.

I comunisti stanno dalla parte della classe operaia, non genericamente degli ultimi. Gli ultimi cui usano rivolgersi alcune religioni erano gli schiavi del mondo antico ai quali si rivendicava essenza umana. I proletari, gli uomini della moderna società borghese, sono il prodotto del processo capitalistico di distruzione di ogni loro specificità, non appartengono più ad alcun gruppo, razza o cultura, sono il prodotto della totale estraneazione dell’uomo. Per questo il comunismo è oggi pronto, possibile, a portata di mano.

Scrive Marx in Forme che precedono la produzione capitalistica: «Nell’economia borghese, e nell’epoca della produzione cui essa corrisponde, questa completa estrinsecazione della natura interna dell’uomo appare come un completo svuotarsi, questo processo universale di oggettivazione come estraneazione totale, e la eliminazione di tutti gli scopi determinati unilaterali come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo completamente esteriore», cioè «la ricchezza come fine a se stessa», «una cosa che si trova al di fuori dell’individuo».

Ma, «una volta abbandonata la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei consumi, delle forze produttive ecc. degli individui creata dallo scambio universale? Che cosa è la ricchezza se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia di quelle della cosiddetta natura, sia sia quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senz’altro presupposto del precedente sviluppo storico, la quale rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? nella quale l’uomo non si riproduce entro una determinatezza, ma produce la propria totalità? Non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nell’assoluto movimento del divenire?».

È ammesso ormai anche dalle classi dominanti che la specie umana si sta approssimando ad un punto particolare del suo arco millenario, dal quale è impossibile proseguire senza una discontinuità. Carlo Marx scoprì e descrisse la meccanica e le leggi di questa convulsione, di questo parto epocale, che definì fine della preistoria ed ingresso nella storia umana.

Difficile rappresentare con le nostre parole la dirompente esplosione di energia che scaturirà dalle braccia e dai cervelli di tutti gli uomini quando – liberati dalle costrizioni del bisogno e dello spreco, e dalle necessità della guerra interspecifica – potranno dialogare, e operare concordi e premurosi secondo un piano di specie che travalica le generazioni. Il comunismo sarà allora l’atteso espandersi ed approssimarsi dell’uomo alla sua dimensione cosmica, fino ad abbracciare ed identificarsi con le infinite felici interazioni nell’universo materiale, che vive, ama e conosce, e la cui musica e canto da sempre lo affascina e lo attrae.