Partito Comunista Internazionale Il lavoro del partito sulla marxista Teoria della Crisi

Rapporto alle riunioni di Cosenza, Ravenna e Piombino
Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx
L’espansione storica del volume della produzione industriale
(in Il Programma Comunista n. 9, 1958. Qui dalla raccolta in volume del 1991)


61. Crisi 1929 e Stati Uniti d’oggi
62. Senso dei sismi economici
63. Una parentesi per l’Italia
64. Tornando negli Stati Uniti
65. Crisi, deflazione e inflazione
66. La crisi nel pensiero di Marx
67. La diavoleria monetaria
68. Riprendiamo il confronto
69. Crisi del lavoro, non del capitale
70. I segni opposti al 1929
71. La elegante deflazione
 
 
 
[Tutti i dati numerici sono state riscontrati sul successivo volume ufficiale Historical Statistics of the United States, 1789-1970, Supplemento all’annuo Statistical Abstract]
 
 
 

61. Crisi 1929 e Stati Uniti d’oggi

Tutta la documentazione del trapasso economico USA mette in evidenza tali serie di differenze tra la fase del 1929-1932 e quella della recessione 1958 oggi attesa e temuta, che si deve concludere che tra le due fasi non vi è analogia e la crisi di interguerra del 1929 fu di gran lunga più disastrosa. Alcuni andamenti sono addirittura contraddittori; e il quesito è quello se si presenterà nell’avvenire una crisi mondiale con la stessa profondità di quella di allora. La nostra risposta deriva dalla fedeltà alla tradizione originaria dottrina marxista, ed è nel senso che una tale crisi verrà, e che essa precederà di molto una terza guerra mondiale che porrà prima di essa guerra l’eventualità di una ripresa internazionale della lotta di classe e della possibile guerra sociale, sola alternativa alla catastrofe del conflitto imperialistico.

Se i prodromi di oggi non sono ancora quelli di una tale grande crisi, essi vengono però a confermare la fallacia di tutte le scuole del benessere, e a ridimostrare la classica tesi marxista che nell’economia mercantile ogni elevamento della produzione, che solo consente un fittizio salire del tenore medio di vita, e di simulare un livellamento sociale, non fa che preparare l’inversione del processo di avanzata e la vera e propria crisi.

La vera e propria crisi che si porrà storicamente tra seconda e terza guerra mondiale sarà, più ancora di quella tra prima e seconda, internazionale e ne è una prova quanto andiamo sottolineando sulla collaborazione del capitalismo di Stato russo alle "misure anticrisi"; collaborazione che, culminando nella terapia della estensione del commercio mondiale tra i due pretesi blocchi, anche colla sola sua presentazione ideologica sta invece a provare, con forza dialettica, che la prossima autentica crisi di sovraproduzione colpirà ad un tempo tutte le mostruose macchine produttive del mondo, sarà la crisi della follia super produttrice che accomuna USA e URSS nella vantata, da entrambe, competizione emulativa.

E questa crisi metterà il mondo alla vigilia di un’altra guerra generale, se non lo metterà alla vigilia della rivoluzione, una delle cui condizioni è lo sviluppo, richiedente decenni, di un partito il cui programma sia distruttivo del "mito del produrre" e del "mito del consumare", legati dal "mito mercantile".

I dati oggi disponibili confermano tutta questa posizione e noi abbiamo in quanto precede cercato di richiamarli e riassumerli.
 

62. Senso dei sismi economici

Un dato concorde a tutte le crisi grandi o piccole esaminate è l’arresto dell’aumento dell’indice di produzione industriale fisica ed il suo ripiegare. Questo avvenne tra il 1929 ed il 1930 negli USA e sta avvenendo oggi, tra il 1957 e 1958. Le differenze sono qui quantitative soltanto, e non crediamo che si abbia tra il 1957 e 1958 una caduta pari a quella tra il 1929 e 1930 che fu del 12,7%, e arretrò poi per i successivi due anni del 17,3% e del 21,6% (in questo bilancio finale tralasciamo le crisi intermedie, rinviando a quanto ne abbiamo detto nei vari paragrafi tra il 45 e il 61, ed al prospetto generale).

Dato che per il 1957 si è avuto l’indice 522, per il 1958 dovrebbe dare, per tenere il confronto col 1929-30, 456, ossia 66 (= 552-456) punti di meno, e la perdita media mensile dovrebbe essere di 5,5 punti. Accennammo agli andamenti mensili, mostrando che fra febbraio 1957 e febbraio 1958 si è perso l’11%, e la caduta è cominciata con settembre. Da quel mese gli indici sono 526, 518, 507, 493, 485, 475 (febbraio) con le cadute in percento di 1,4, 2,1, 2,9, 1,5, 2,3. Ma sono mesi invernali in cui di solito la produzione segna il passo, e non è detto che la serie seguiti così sino alla fine del 1958.

Tuttavia anche ammesso che l’indice 1958 annuale sia 456, vi sono altre differenze quantitative da non trascurare. L’anno precedente a quello di caduta, il 1957, non ha avuto rispetto al 1956 che un aumento dell’1,0%, cioè è stato di indice quasi pari; mentre il 1956 aveva dato il premio del 3,0% sul 1955 e questo sul 1954 quello massimo ben noto dell’11,3%. La serie degli anni 1954-1958, ipotetica per l’ultimo, sarebbe questa: 451, 502, 517, 522, 456. Facciamo una stessa serie per gli ultimi anni 1926-1930, quest’ultimo primo anno di crisi. Dal Prospetto I abbiamo: 179, 182, 188, 205, 179. Se riduciamo il primo indice a 451 per meglio confrontare i due andamenti abbiamo la serie proporzionale: 451, 459, 474, 517, 451.

Gli scarti in punti da anno ad anno sono stati dunque nel 1926-30: 8, 15, 43, -66.

E sarebbe nell’immaginato periodo 1954-51: 51, 15, 5, -66.

Senza fare diagrammi si vede che le due curve sono molto diverse. L’ultimo anno anticrisi dette allora il progresso di 43 punti, questa volta è stato quasi stazionario con 5 punti in più. Ne segue che la perdita in punti (ridotti equipollenti) fu allora in due anni di ben 109 punti; ora sarebbe solo, nella nostra ipotesi per il 1958, di 71 punti. In tutto il quinquennio, benvero, allora furono zero punti, oggi sarebbero 5 punti, ma appunto ciò toglie analogia ai due decorsi. Allora si piombò alla corsa in avanti al precipizio, oggi vi è stato l’anno di stasi 1956-57 all’incirca sulla stessa quota.

Il diverso andamento anche per questo indice vale a stabilire che non è fondato prevedere che si abbiano ancora altri due anni di forte caduta nel 1959 e nel 1960, come avvenne nel 1931 e 1932.
 

63. Una parentesi per l’Italia

L’Italia ha avuto una serie di anni di progresso della produzione industriale mentre ora si segna il passo. Ma anche qui non è dato fare previsioni disastrose. La serie ascendente dura dal 1946, e dal 1954 gli indici sono stati (per 1913 = 100; vedi Prospetto I): 321, 350, 376, 402; con gli aumenti annui percentuali del 9,0, 7,4, 6,9. Volendo servirsi degli indici ISTAT riferiti al 1953, la serie dal 1954 risulta: 109, 119, 128, 138.

Viene ora annunziata una flessione degli indici, dato che quello di febbraio è stato 131,3, diminuendo da quello di gennaio di 140. Ma febbraio è stagionalmente un mese di bassa produzione in Italia, come dicembre come il disastroso bighellone agosto, che nel 1957 ha dato 116, contro 113 del 1956.

Dunque è solo da prevedere che nel 1958 dia sul 1957 un aumento minore dei precedenti anni, e qui è tutto (ci fu infatti il contenuto incremento del 4,0%). Infatti gennaio con 140 ha superato di due punti la media del 1957 e di cinque il gennaio 1957. Lo stesso febbraio supera il febbraio precedente di 2,3. Dunque anche qui non non siamo ancora al capovolgimento del fenomeno e la borghesia può dormire tranquilli sonni sociali ed elettorali malgrado certi diagrammi dell’Unità. Nel 1956 e nel 1957 l’indice per febbraio è stato una decina di punti sotto la media annua, che nel 1958 a tale stregua sarebbe sempre al disopra di quello 1957.

Se poi vi sono altri indici economici italiani che fioriscono proprio in questa primavera di schede, che non per nulla chiama tutti gli asini a ragliare d’amore, non resta che fare le condoglianze ai candidati di opposizione che non hanno migliori tromboni polemici per l’assalto alla diligenza del potere e all’orgia della concussione.
 

64. Tornando negli Stati Uniti

Il senso in cui si muovono gli indici tra il 1929 e 1958 è lo stesso anche per l’occupazione, che diminuisce. Anche qui lo scarto è solo quantitativo. Come percentuale di occupati sulla forza lavoro civile si scese nel 1930 rispetto al 1929 di 5,3. Per ora il 1956 ha guadagnato solo lo 0,1% e il 1957 è rimasto fermo. Non dobbiamo ripetere che fino a febbraio 1958 la percentuale dei senza lavoro era salita da 4,7 del febbraio 1957 a 7,7, il che vuol dire che la percentuale di occupati era scesa da 95,3 a 92,3, dunque del 3,1%. Non crediamo che si arrivi al 5,3% del 1929-1930, tanto più che marzo non ha dato aumento di disoccupazione (stando ai dati mensili 1957 avrebbe dovuto diminuire di 0,4 e non restare costante). Comunque qui il senso delle due crisi è lo stesso, sebbene la quantità sia diversissima.

Per finire di esaminare tutti i fenomeni concordi tra le due crisi, accenniamo al prodotto nazionale lordo per abitante in valore reale. Nel 1957 è caduto di solo 0,3% rispetto al 1956; e cadrà di qualcosa (se ebbe un -2,9%) nel 1958, ma nel 1930 rispetto al 1929 la caduta paurosa fu dell’11,0%. Oggi l’ultimo dato disponibile è il quarto trimestre 1957, che segna una piccola flessione sul totale del 1957 (-1,9%).

Un fenomeno molto relativamente concorde è quello della quotazione in borsa dei titoli azionari. Grazie alla folle euforia degli speculatori, nel 1929 avevano guadagnato sull’anno precedente il 30,5%. Nel primo anno di crisi la rovina fu del 19,2%; e andò aumentando come dai dati riferiti. Oggi che avviene? Nel 1955, anno del "boom", la salita è stata anche vertiginosa, ossia del 36,4%, ma nel successivo 1956 solo del 5,3%.

Nel 1957 vi è stata una tenuta con il 4,1% (invariata nel 1958 con 4,2%).

Nell’indice dell’Economist, dopo il 1957 si ha (per 1938 = 100) che il 1957 avendo dato tutto il suo corso la media di 331,4, il movimento nei mesi recenti è stato invece stazionario se non ascendente; da ottobre 1957 a febbraio 1958: 306,4, 301,8, 298,5 304,7, 304,0.

Tutto in stridente contrasto con l’andamento del 1930 ben noto.

Passando ai fenomeni che tra le due crisi sono stati discordanti, il primo, già a sufficienza illustrato, è quello del potere di acquisto del dollaro, che oggi va lentamente sia pure ma inesorabilmente declinando, il secondo è quello dei prezzi sia all’ingrosso che al dettaglio che sono in continua ascesa.
 

65. Crisi, deflazione e inflazione

Nella crisi di brusco arresto della produzione per eccesso di merci fabbricate si verifica il gioco di una aumentata offerta di tutte quelle che ingombrano i magazzini e devono essere assorbite dal marcato già saturo, e di una diminuita domanda da parte dei consumatori, siano essi lavoratori rimasti per la chiusura delle fabbriche senza lavoro, siano anche capitalisti cui le industrie distribuiscono minori dividendi per il crollo della produzione e dei profitti. L’equilibrio non potrà essere raggiunto, attraverso il lungo sconvolgimento generale, che vendendo le merci sovrabbondanti ad un prezzo, prima all’ingrosso e poi sia pure in misura meno drastica al dettaglio, inferiore al loro valore di produzione (non abbiamo detto ancora costo di produzione), che, se la economia capitalistica fosse capace di evitare la crisi, dovrebbe identificarsi col valore di scambio, compensando capitale costante, salari e plusvalore entrati in gioco nel processo produttivo normale.

Quindi nella condizione classica in queste crisi, a cui si accompagna il rovesciamento sul lastrico di masse di salariati e il fallimento di capitalisti che restando senza gettito di profitti debbono addirittura svendere i loro capitali fissi e strumenti di produzione, il fenomeno che subito esplode è il calo dei prezzi. Il capitalismo storico è l’economia degli alti prezzi dei generi di prima necessità, agrari, che interessano i suoi salariati quando la remunerazione è appena al livello che basta ad assicurare vita e riproduzione. Ma il capitalismo è nello stesso tempo l’economia dei bassi prezzi degli articoli manifatturati, e cresce fisiologicamente quando può avviare i suoi operai al consumo, insieme ai generi di sostentamento, dei suoi prodotti manifatturati.

La sopravvivenza del sistema capitalistico ieri ed oggi è stata sempre legata alla possibilità di questo doppio consumo, della saldatura al bisogno di cibo e del vestiario e dei mille bisogni di arredamento e di "istallazione" anche nelle case di quelli che vivono di lavoro. Nelle crisi tradizionali la mancanza di denaro tanto nei salariati che nei redditieri provocava come fatto immediato un calo ulteriore di tutti i prezzi agrari ed industriali, traducentesi in un amento del potere di acquisto del denaro, con relativo vantaggio anche dei lavoratori, ma sopratutto di quegli strati che possono tesaurizzare una certa somma di moneta, o realizzare delle riserve di varia natura, dai beni immobili ai mobili e strumentali.

Prima dell’epoca delle grandi guerre tali crisi cominciavano dalla sovrapproduzione e dalla invendibilità del prodotto per l’industria pesante; erano, sulla facciata che dava i primi allarmi, crisi di bassi prezzi, ed ovviamente di basse quotazioni dei titoli che esprimono il valore dei mezzi di produzione detenuti dai borghesi, mezzi minacciati da lunga inattività e paralisi, da incapacità di essere resi utili e redditizi dal lavoro umano.

Dal tempo delle grandi guerre che trascinarono nel loro vortice gli Stati più popolosi e potenti, e quindi anche prima dello scoppio della guerra europea e poi mondiale del 1914, le crisi cominciarono a prendere l’aspetto, a prima vista contraddicente quello classico, di salita dei prezzi e di richiesta di merci, specie alla grossa industria. La guerra è un maggiore consumo di merci in tutti i sensi, e di tutte le specie di merci che sono richieste in masse enormi per gli eserciti mobilitati. Tutte le industrie sono invitate a maggiormente produrre e vendere, sia pure al cliente Stato belligerante, che sa come trovare il denaro. La produzione è stimolata, i titoli delle più grandi industrie non crollano ma salgono; tutte le merci diventano rare per il consumo delle popolazioni e tutti i prezzi aumentano. Inutile sarebbe ritracciare il quadro, a tutti noto per dolorose esperienze, dell’inflazione della moneta.

La instabilità del sistema capitalistico è data dal fatto che la stessa trepidazione colpisce il mondo degli affari quando si delinea la crisi di bassi prezzi, o crisi di pace, e la crisi di inflazione, o crisi di guerra. Il decorso sia dell’una che dell’altra denuncia l’incapacità del sistema mercantile a sfuggire a tutte queste paurose oscillazioni.
 

66. La crisi nel pensiero di Marx

Occorre qui riportare in extenso un passo di Marx già adoperato nelle riunioni e citato nei resoconti sommari, per la sua grande importanza. È nel Libro Secondo del Capitale, capitolo XX, paragrafo IV: Mezzi di sussistenza necessari e mezzi di lusso. L’argomento troverà esposizione più sistematica in prossime riunioni e in ordine alla ripubblicazione in Programme Communiste, la rivista francese del nostro movimento, del sunto di economia marxista, che dovrà essere continuato.

«Ogni crisi conduce ad una diminuzione passeggera del consumo di lusso; essa rallenta e ritarda la ritrasformazione in capitale denaro del capitale variabile della sezione II, sottosezione b [nota: la sezione II della produzione capitalistica globale riguarda la produzione di generi di consumo; in essa Marx introduce, fino dall’epoca in cui poco si parlava di arredamento ed impianti e macchine domestiche, due sottosezioni, la a) per i generi di prima necessità, e la b) per i generi di lusso. Una buona formula per l’organizzazione economica sotto la dittatura proletaria sarebbe: a farsi fregare la seconda!], non permette che parzialmente detta ritrasformazione in capitale denaro dei salari pagati agli operai della produzione di lusso, mentre dall’altra parte essa crisi rallenta e diminuisce la vendita dei mezzi d consumo necessari. E conviene non dimenticare gli operai licenziati e resi improduttivi che ricevono per i loro servizi una parte della spesa di lusso dei capitalisti, divengono essi stessi una specie di articoli di lusso, e partecipano per una larga parte al consumo dei mezzi di sussistenza necessari.

«È il contrario che si verifica nei periodi di prosperità, e soprattutto al momento di un ingannevole apogeo [il "boom", dicevamo alla Riunione di Cosenza!] in cui altri motivi fanno ribassare il valore relativo del denaro espresso in mercanzie, senza che vi sia una reale rivoluzione nei valori e fanno dunque salire i prezzi delle merci indipendentemente dal loro proprio valore. (Si noti che nel periodo prospero è logico che i prezzi salgono e ribassi il potere di acquisto del denaro). Non solo aumenta il consumo dei mezzi di sussistenza necessari; la classe operaia in cui l’armata di riserva è divenuta armata attiva [leggi: pieno impiego] partecipa momentaneamente al consumo di articoli di lusso che altra volta non le erano accessibili, e si mette a prendere parte al consumo di articoli tali che fino a quel momento non costituivano per la maggior parte che mezzi di consumo necessari per la classe capitalistica. Da ciò una ulteriore alzata di prezzi.

«È una pura tautologia affermare che le crisi si producono per la mancanza di consumatori capaci di pagare gli articoli di consumo [di lusso]. Il sistema capitalistico non conosce che consumatori paganti, fatta eccezione per i mendicanti ed i ladri. Se delle merci restano invendute è perché non hanno trovato compratori in grado di pagare, ossia consumatori. D’altra parte poco importa che in ultima analisi le merci siano acquistate per il consumo produttivo o per il consumo personale. Se si vuole dare a questa tautologia un’apparenza più seria, col dire che la classe operaia riceve una parte troppo scarsa del suo proprio prodotto, e che per rimediare a tale inconveniente non vi è che da assicurarle una parte più grande di quello coll’aumentare il suo salario; allora noi [leggi: che neghiamo che la soluzione possa raggiungersi con il continuo elevamento dei salari anziché con la rivoluzione che sopprime il salariato] noi faremo rimarcare che tutte le crisi sono precisamente preparate da un periodo in cui il rialzo dei salari è generale, e in cui per conseguenza la classe operaia riceve in effetti una più larga parte del prodotto annuo destinato al consumo. Ma a dire dei nostri avversari, campioni della buona e sana ragione, tali periodi [il benessere...] dovrebbero al contrario prevenire le crisi. Sembra dunque, si deve proprio concludere, che la produzione capitalistica racchiuda in sé talune condizioni indipendenti dal buon piacere dei capitalisti; i quali non tollerano questa prosperità della classe lavoratrice che transitoriamente e come preludio di una crisi».

Questo passo di Marx si presta ad essere ben considerato, nel corso di questa ricapitolazione delle stimmate discriminanti della storia recente del capitalismo USA, il primo che ha a gran voce parlato di lusso e di consumi voluttuari per il benessere di tutta la popolazione – il più carogna!

67. La diavoleria monetaria

Ad un certo punto della trattazione sulla riproduzione semplice del capitale, ed avvertendo che la conclusione generale vale anche nello studio della riproduzione allargata, ossia della accumulazione capitalistica, Marx ricorda quale senso abbia il rappresentare tutto il movimento sociale della produzione capitalistica, divisa nelle note sezioni, colle stesse leggi con con cui si ripartisce il valore di una qualunque quantità di merce tra Capitale costante, Capitale variabile e Plusvalore. Tutta la costruzione non tende affatto, come pensano i proudhonisti antichi e moderni, ad accentrare tutto, "costruendo socialismo", con una diversa ripartizione, o peggio con la fesseria della "abolizione del plusvalore".

L’analisi marxista si basa sul fatto che nell’economia borghese tutte le transazioni debbono avere una misura monetaria, ed un certo volume di denaro deve circolare e alla fine riprodursi come capitale. Studiato questo sistema e la sua espansione si viene alla deduzione che esso è inseparabile dallo sfruttamento ed è storicamente caduco e degenerante.

Tale dimostrazione scientifica erige nelle sue "contro pagine" e se volete "contro formule" il programma rivoluzionario del postcapitalismo.

Quando Marx dice che non si vendono merci che a consumatori paganti, egli intende fare propria l’ipotesi avversaria che dice: quando tutto sia scambio tra equivalenti (leggi: del valore!) tutto camminerà bene senza catastrofi. E lavorando su tale ipotesi egli dimostra come viene la catastrofe. Egli quindi non ignora il credito (capitale commerciale, bancario), ma ammette che nel suo modello di società borghese si dia credito solo al capitale e non di consumo.

Ridotti agli estremi i borghesi hanno buttato via la teoria classica del libero scambio (e in fondo la legge del valore che i "comunisti" raccattano nella spazzatura) e tentano teorie del benessere in cui, come nella pratica statunitense, vi è la consegna: consumate e non pagate, ossia un vasto credito non di beni capitali ma di beni di consumo. Ora se Marx ha rovesciato le trincee della teoria dello scambio a contanti, per noi suoi scolari è un gioco passare sulle rovine di quelle dello scambio a credito (vecchia forma di economie medioevali e preborghesi su cui il capitalismo magnificava la sua vittoria rivoluzionaria, perché è un forma che puzza di servaggio e schiavitù).

Quando leggiamo in Marx il ridurre tutto ad equazione denaro e in prima linea mostrare che nello scambio totale sociale tutto va pari, ma persiste come nella azienda singola la estorsione di classe, dobbiamo saper dedurre che nell’economia socialista non vi è più equivalenza e scambio, né nel rapporto elementare né in quello integrale; che la formula del capitalismo resta sempre, malgrado Keynes e le vendite a rate, quella che si conoscono solo consumatori paganti, ossia paganti a contanti, e il credito su domani non cambia nulla a tutto il giro. La vera formula del socialismo è questa: il consumatore non paga, né oggi né domani; il denaro non occorre né oggi né domani.

Gli economisti sovietici dicono che non sono ancora all’altezza di passare al baratto. Ma il comunismo non è il baratto, che è solo il millenario embrione dello scambio e della legge del valore! Il comunismo è dare e prendere senza contare. La formula non è: daremmo un economista russo per dieci americani; o uno americano per dieci russi; ma piuttosto: facciamo la birra con gli uni e con gli altri.

Un "columinist" americano, a proposito di tutta la filosofia della recessione cui si abbandonano i superpagati esperti, mentre in America un austero inglese vede che si mangia e gavazza alle spalle di tutti i servi coloniali bianchi e di colore, scrive che un capo di una grande azienda pensò di sottoporre tutti gli economisti, trovati a sbafare stipendi, al parere di uno psichiatra; e che sottopose a confronto i test di una inchiesta con risposte si o no fatta tra gli esperti, ed una classe di giardino di infanzia dei figli degli impiegati. Risultate più utili le risposte dei bimbi rispetto a quelle degli economisti, il capo "fired them all", li liquidò tutti. Un insuccesso dottrinale e materiale dei teorici del benessere!
 

68. Riprendiamo il confronto

L’andamento del potere di acquisto della moneta conferma quanto Marx prospettò. Nei periodi di incremento produttivo e di alti consumi il dollaro è andato sempre perdendo di valore. I soli anni in cui ha fatto passi avanti sono stati anni di crisi: 1921, 1922, 1931, 1932, 1933, 1938, 1939, trascurando le oscillazioni minime come un piccolo ribasso di prezzi di consumo nel boom del 1955.

Oggi il potere di acquisto, sia misurato dai prezzi all’ingrosso che da quelli al dettaglio, continua a scendere. Effetto di benessere o di crisi? Gli economisti professionali perdono la testa e posti.

Che cosa è intanto successo dei salari? In generale dal 1929 sono sempre aumentati, anche se li esprimiamo in valore reale, pure avendo dovuto noi fare una riserva per il dettaglio degli anni dal 1928 al 1937. Da allora i soli anni con un qualche ribasso sono stati il 1938 e poi il 1945. La crisi di apertura e chiusura della grande guerra imperialista intermezzate da periodi di grande sviluppo degli affari, prendono la nuova caratteristica che danno sottoproduzione, disoccupazione e basso salario reale ad un tempo: passando dal liberalismo al benesserismo è il caso di dire: si stava meglio quando si stava peggio!

Oggi che cosa avviene? Dopo altro periodo di robusta salita del salario reale medio, che nel 1955, ha guadagnato il 7,7%, come nello stesso 1954 di crisi produttiva (la produzione industriale perde il 7,1%), il 1956 ha dato solo il +2,6%, e il 1957 il -0,1%. Non è facile prevedere che cosa darà il 1958. È certo che i prezzi e il costo della vita seguiteranno a salire, ma gli esperti prevedono lotte operaie per la difesa del livello salariale, mentre i capi sindacali propongono di dare un po’ di respiro agli "affari". Nessuno prevede o propone che si diminuisca, tenendo tutti occupati, la giornata di lavoro. Quale insania, avere qualche ora libera per studiare e fraternizzare, ma non per comprare una nuova motocicletta e qualche vestito di più alla moglie!
 

69. Crisi del lavoro, non del capitale

Se considerassimo per un momento la massa salari, ossia tutta la classe lavoratrice, tralasciando dunque il numero di occupati e disoccupati – come se la fraternità di classe vi fosse davvero – potremmo usare le cifre seguenti, per un ulteriore confronto, dopo aver avvertito che ci serviamo di quelle del "Labour Income" ossia reddito dell’industria, che accomuna i salari degli operai con gli stipendi degli impiegati delle manifatture, delle fabbriche ed aziende non agricole né commerciali.

Assumiamo le tre date gennaio 1956, agosto 1957, febbraio 1958, di cui la seconda rappresenta il massimo vertice raggiunto, e la terza è l’ultima di cui disponiamo. La serie è stata: 226,3, 249,7, 242,2 mld.$. Parrebbe, stando ai valori nominali delle remunerazioni, che una lieve discesa segua una forte ascesa. Ma ci interessa la remunerazione reale della classe industriale attiva, ed applichiamo gli indici dei prezzi, non del cibo, ma di tutti gli articoli al dettaglio, ammesso che oggi il lavoratore USA per tutto spende i suoi soldi meno che per mangiare! Gli indici sono, in quelle tre date, 114,6, 121,0, 122,5. Fatta la riduzione, ossia valutando tutto in dollari del gennaio 1956, la serie diventa: 226,3 236,5, 226,6 mld.$. Dunque il fenomeno è che una ascesa del "benessere" del 4,5% è stata seguita dall’inizio di una discesa del 4,2%, mentre apparentemente gli scarti erano +10,3% e -3,0%. Se, con riserva dei futuri annunci statistici (può darsi che si fermi la discesa del salario nominale, ma non quella del valore del dollaro!) teniamo conto che il nostro primo intervallo ascendente è di 19 mesi, e quello discendente di soli 6 mesi, abbiamo che ad un passo in aumento del salario reale del 2,8% all’anno, certamente considerevole, ed ignoto ai paesi ove i salari sono ancora di fame, è seguito un passo di diminuzione dell’8,2% annuo, veramente grave se un tale processo fosse continuo, e stranamente contrastante alle dottrine del crescente benessere.

Questo svolto brusco è dovuto al fatto che la disoccupazione si è venuta a sommare colla salita dei prezzi, coll’inflazione.

Siamo oggi in presenza dunque di uno svolto abbastanza brusco, ma esso, a differenza del 1929, riguarda la classe lavoratrice, non il capitale e suoi benefizi. Allora la vita della classe ricca divenne per non breve tempo un inferno, mentre a causa del ribasso generale gli operai, malgrado i vasti licenziamenti, riuscivano a mangiare, o potevano riuscirvi con un minimo fraternità di classe, cosa diversa e ben più efficiente dell’assistenza sociale e statale, attraverso la quale la classe dominante salva solo se stessa.

Sicuramente se avessimo oggi i dati, che una volta si davano, degli operai meno qualificati e pagati ("unskilled") il confronto sarebbe di gran lunga più eloquente.

Un indizio (per quanto insufficiente) lo possiamo avere dalle cifre del reddito nazionale totale ("national income") in cui confluiscono le entrate di tutte le classi sociali. Le cifre nelle stesse epoche sono state: 316,7, 347,3, 341,7 mld.$. Ridotte anche queste a dollari costanti del gennaio 1956 abbiamo i valori reali: 316,7, 328,9, 319,7. La salita è stata del 3,9%, pari all’annuo 2,4% e quindi si può dire che nulla è mutato rispetto alla massa salari. Invece la discesa è stata del 2,8%, pari al -5,6% annuo, ossia sensibilmente meno grave che per i salari e stipendi, che davano -8,2%. Ciò dimostra che tutti i redditi dei prestatori d’opera e capitalisti hanno migliorato la media generale, e quindi sono scesi molto poco – o nulla.

Qui si vede quale gioco fanno agli economisti borghesi e benesseriferi le abusate cifre "nazionali", in rispetto a quelle classiche di Marx che dalle statistiche odierne appena si possono abbozzare. Anche negli USA e colla corsa al benessere, è vero (nella misura in cui siano vere le cifre che non contengono gli evasi sovrapprofitti di capitale e il lucrosi investimenti) che la media ha migliorato del 2,4%, mentre la classe che lavora ha migliorato del 2,8% (dal che si vorrebbe dedurre che del benessere partecipa ogni classe) ma non si è potuto nascondere che nella recessione la media ha rinculato solo del 5,6% in rata annua, mentre la perdita per la classe operaia, compresi i ben remunerati specialisti e intellettuali, è già scesa dell’8,2%, il che, specie se pensiamo agli strati meno fortunati, è vera crisi.

Ma, politicamente, noi siamo alla ricerca non della crisi dell’operaio, ma della crisi del capitalista. A noi piaceva la crisi del 1929 in cui la remunerazione del proletariato non rovinò, bensì rovinò quella del padronato.

Gli scioperi per far salire i salari non risolvono, anche perché con quella specie di sindacati si chiudono in passivo, ma risolverebbe uno sforzo degli operai USA per capire la teoria dell’economia di casa loro, ed arrivare ad augurarsi la vera bancarotta delle corporazioni e dello Stato.
 

70. I segni opposti al 1929

Abbiamo mostrato come nel 1929-1932 i profitti netti e lordi delle imprese borghesi precipitarono e divennero perfino negativi. Da 8,6 mld.$ di profitti netti nel 1929 si cadde a -2,7 mld.$ nel 1932. Una vera restituzione del maltolto alla classe sfruttata, anche se vi fu il gioco delle tasse che fece affluire parte del denaro delle imprese alle casse dello Stato borghese.

Le cifre dei profitti lordi di tasse furono del 1929 al 1933 le seguenti: 10,0, 3,7, -0,4, -2,3, 1,0 mld.$, che mostrano bene il volume di merci che il capitale dovette mollare sotto prezzo dopo aver pagato ai prezzi antichi (non discesi) le materie prime, e dopo che i salari operai non discesero ma resistettero e migliorarono, salvo a discenderne la massa per la minore produzione e disoccupazione.

Nulla di simile nella recessione attuale. Abbiamo mostrato che dal 1956 al 1957 sono diminuiti i profitti industriali, malgrado la produzione fosse stazionaria. Che cosa accadrà nel 1958? Abbiamo ammesso che la produzione industriale diminuisca e con essa il prodotto lordo nazionale e il reddito nazionale, ma in proporzioni assai minori del 1929. Non è assolutamente pensabile una caduta dei profitti del genere di quella di allora: in un anno da 8,6 a 2,9 mld.$, ossia del 66,3%!

Ciò vorrebbe dire che al profitto di 26,0 mld.$ ne dovrebbe seguire nel 1958 uno di soli 8,8 mld.$, il che è fuori di ogni previsione. Solo nel 1939, ossia prima della guerra, l’industria USA ha guadagnato una cifra inferiore a questa, e non lo vedremo certo nel 1958 – se del resto le acque internazionali su cui regna una esosa bonaccia, si imbrogliassero, gli affari delle fabbriche USA, per una via o per l’altra, sarebbero migliori.

La differenza tra le due situazioni storiche viene ad insegnare che con le varie successioni di New Deal, dirigismo di Stato, interventismo economico, il capitalismo giunge non ad evitare le crisi, ma ad ottenere che queste gravino più sulle classi meno remunerate che su quelle più remunerate, il cui attaccamento ai benefizi elevati viene garantito dal complicato ingranaggio dei controlli statali. In ciò è una vittoria teorica del comunismo in quanto salta in aria la teoria di un capitalismo tollerabile dal punto di vista dei lavoratori, la quale ha cercato di alzare la cresta a spese della teoria liberale pura e classica, da cui Marx era partito proprio in quanto è per noi la più lontana, non la più vicina o facile a cedere all’ariete dialettico-polemico.

Una tale vittoria non ha potuto essere una vittoria politica quando il fascismo vinse in Italia, in Germania e poi in sostanza, nel verbo economico, dovunque; perché la vergogna dell’antifascismo fu il ripiegare sul verbo liberale, sulla pestifera democrazia.
 

71. La elegante deflazione

Che la recessione in corso non sia una cosa seria si vede, oltre che dal corso dei profitti di capitale, ben lontani dal fare le capriole di allora, da quello dei titoli in borsa.

Sappiamo a quale rovinio andarono soggetti dal 1930 gli stocks azionari! Orbene, una delle ultime notizie è che pochi giorni addietro, mentre queste pagine venivano tracciate, hanno toccato il peak, ossia il vertice massimo, di questo inizio tanto lacrimato del 1958.

Questo picco è stato alla quota 167,10 (indice dell’Associated Press) contro 154,30 alla fine d’anno (in base 1913 = 100 fu 543,4). Come conciliare con la previsione di catastrofi questa salita di quota dell’8,3%, quando abbiamo sott’occhio nel Prospetto XIV le cadute annue del 19,2%, del 35,0% e del 49,3% dal 1929 a 1932!?

Oggi il picco, allora il fondo del baratro.

Poiché per indispettire gli uomini di scienza dell’economia non abbiamo fatto teoria delle crisi, ma solo fotografia delle crisi, rifacciamoci alla fine ancora una volta la bocca buona colla caduta dei prezzi del periodo 1928-1933, che vogliamo contrapporre alla salita odierna testé trattata anche in rapporto alla iniziata caduta del salario.

Gli indici dei prezzi al dettaglio di tutti gli articoli, che oggi han preso la corsa, li troviamo per le serie 1928-29-30-31-32-33 nel volume ufficiale Historical Statistics of the United States, 1789-1945, edito come Supplemento all’annuo Statistical Abstract. Quegli indici (da noi passati in base 1913 =100) sono: 172,7, 172,7, 168,4, 153,5,137,7, 130,6.

Se invece prendiamo gli indici al dettaglio dei generi alimentari, la serie scende anche più presto: 163,4, 165,4, 157,2, 129,5, 107,9, 104,8.

Il salario settimanale in dollari nell’industria ha così variato: 24,70, 24,76, 23,00, 20,64, 16,89, 16,65.

Ciò ci pone in grado di sciogliere la riserva del Prospetto XIV sulla serie dei salari reali. Se la calcoliamo sugli articoli in generale al dettaglio, avremo una serie ancora discendente, ma assai meno di quella nominale: 24,70, 24,76, 23,59, 23,22, 21,18, 22,02.

Ma abbiamo bene il diritto di formare la serie con gli indici dei prezzi alimentari, se pensiamo che il salario era allora, in dollari, meno del terzo dell’odierno, lavativo, televisivo, frigorifero e chi più ne ha più ne metta. Ebbene salta fuori la serie ascendente dei salari reali di crisi, 1928-1933. Eccola: 24,70, 24,46, 23,91, 26,04, 25,58, 25,96.

L’aumento 1929-1932 (v. colonna 9b del Prospetto XIV) viene ben confermato, da: 24,46 a 25,58 si ha +4,6%.

Nel 1937, a crisi finita per i signori borghesi, il salario nominale era risalito a 23,82 circa come precrisi. Ma i prezzi avevano ripreso la corsa, e quelli generali avevano l’indice risalito a 144,8. Ciò vuol dire che il salario reale era appena 21,48 rispetto a 22,02 del 1933. Se poi prendiamo l’indice alimentari, che nel 1937 era 131,5, allora il salario in dollari reali rispetto al 1933 era crollato addirittura a 18,98. Tra 1933 e 1937 il salario reale in base ai prezzi al dettaglio generale perde il 2,5% e in base agli alimentari il 26,9%. È da allora che il salario reale è salito quasi regolarmente, e hanno rotto l’anima col benessere.

Ma la regola del benessere e della società "senza classi" statunitense è in conclusione pure questa. Quando va malissimo per i borghesi, va male, ma non tanto, per i proletari. Quando riprende ad andare bene per i borghesi, va peggio per i proletari.

Non vi è da scegliere tra capitalismo senza crisi e capitalismo in crisi, per i proletari. Vi è da lottare – e la lotta non sorge dal solo dato della crisi, ma da una forza politica tesa alla dittatura, nucleo della scoperta di Marx – per farla finita con il capitalismo, con crisi o senza crisi, deflato od enfiato.