Partito Comunista Internazionale Il lavoro del partito sulla marxista Teoria della Crisi

Riunioni di partito a Firenze del 20-21 dicembre 1975, 20-21 marzo e 16-17 ottobre 1976

Il ciclo di accumulazione e catastrofe del capitalismo mondiale


 



 

- Accumulazione semplice ed accumulazione allargata
- Produzione e consumo
- La teoria marxista della crisi nella terribile sua conferma storica
- Fenomenologia del ciclo economico capitalistico

(in Il Partito Comunista n. 21-29, 1976)












I comunisti si vantano di possedere una visione dei fenomeni sociali più generale, più realistica di quella degli altri partiti; essi non limitano la loro critica al modo di produzione attualmente impiantato, ma la estendono al susseguirsi storico delle diverse classi al potere ed ai rapporti giuridici e produttivi che queste mantengono.

Il materialistico dialettico, come riflesso nel pensiero dello scontro delle forze sociali, è la forma che assume la coscienza del partito del divenire storico dei rapporti di tali forze e le tendenze, ciò che ci fa riconoscere nella strapotenza del nemico la sua stessa condanna a morte e nella più periferica, incosciente ed incerta ribellione di pochi proletari la forza che potrà affossarlo. La potenza del marxismo, infatti, a scorno della schiera di preti, teorici, poliziotti e traditori assoldati dal regime, sta nel basarsi sulla realtà: non ha criticato il metodo del salariato perché ingiusto, disumano, violento, ma lo ha accusato di assurgere a vette infernali di ingiustizia, disumanità e violenza perché improduttivo rispetto ai bisogni della specie, e non in assoluto ma relativamente a quanto più efficiente potrebbe un diversamente adeguato articolarsi delle forze produttive già esistenti.

Il capitalismo più sviluppa le forze produttive, più rivoluziona e disciplina le energie lavorative, più assoggetta mediante la scienza la natura alle necessità della produzione, nella stessa misura accumula davanti a sé gli ostacoli da superare per la sua conservazione. La sua “missione storica” (il termine è di Marx e va inteso in senso materiale, ciò che l’ordine delle cose ha determinato che sviluppasse), il suo aspetto storicamente e socialmente utile, il suo progredire è proprio la causa del restringersi delle sue possibilità di sopravvivenza.

Questa contraddizione immanente il modo di produzione in ogni momento del ciclo produttivo e in ogni atto elementare di scambio, si manifesta in forma traumatica nella meccanica delle crisi economiche nelle quali si concentra lo squilibrio accumulato nelle precedenti fasi di slancio produttivo. Le forzature causate dal discostarsi delle leggi economiche dall’armonia delle leggi di natura, come si sarebbero espressi i primi utopisti, arrivano bruscamente al collasso, la crisi violenta distruttrice dirompe per lo squilibrio represso e permette il nuovo raccordarsi delle leggi del capitale alle condizioni del suo mercato, il raggiungimento di un nuovo equilibrio ma diverso dal precedente, permesso solo da una ulteriore crescita qualitativa delle forze produttive, origine e termine di un nuovo ciclo di accumulazione.

Tutto Il Capitale di Marx, che alla riunione non abbiamo fatto altro che riesporre leggendone direttamente alcuni passi, nella potenza della sua struttura è una rappresentazione dell’inferno capitalistico affrontato, con quel metodo scientifico che solo la passione rivoluzionaria permette nei fatti sociali; girone per girone, dai capitoli sulla merce a quelli della riproduzione semplice, giù giù in una gigantesca spirale che comunque converge in un unico imbuto: le crisi sempre più violente, l’impossibilità progressiva dell’accumulazione, dietro cui si affaccia minacciosa la rivoluzione sociale. Il capitalismo è modo di produzione storico questa la conclusione che scaturisce dall’opera gigantesca, schiaffo titanico sul viso di tutti i riformatori. Risanatori delle nazional-economie, nonostante i vostri buoni uffici, morrà.

Il Capitale non descrive il capitalismo in sé, ma nel suo divenire, non quello che è, ma quello nel quale trapassa: disegnare i limiti contro i quali urta il presente modo di vita associato – le forme della produzione – non è altro che tratteggiare le condizioni della distruzione dalle quali si libererà il futuro ordine. Se nel capitalismo il valore di scambio è forzato a coesistere e trova un limite alla sua realizzazione nel valore d’uso, nel comunismo la contraddizione si risolve nella “regolamentazione della produzione in base a un piano determinato in anticipo” e scioglie l’equazione, non mercantile ma oggettiva, fra i bisogni da soddisfare ed il tempo di lavoro sociale necessario per soddisfarli.

Tutti i movimenti rivoluzionari hanno posseduto, ben prima che le loro società si affermassero, una certa conoscenza, in positivo, del futuro assetto sociale per il quale lottavano, magari in forma di mistici avventi di regni divini. Il marxismo ne ha una negativa, descrive il presente infame e marca come non sarà il comunismo, conosce ciò che è necessariamente caduco nella società attuale, avvisa a cosa il moto rivoluzionario dovrà distruggere piuttosto che perdersi nelle congetture di ciò che si pretende costruisca. Tuttavia, per il metodo che impugna, la sua previsione della vita ventura di relazione è indicibilmente più approssimata, più vicina al possibile di quelle dei precedenti riformatori oltre che, ovviamente, della borghesia ormai cieca e superstiziosa anche sul presente.

Il rapporto esposto alla riunione mirava in particolare ad illustrare quale fosse nel marxismo la spiegazione delle cause e degli effetti delle crisi economiche periodiche.
 

Accumulazione semplice ed accumulazione allargata

A fini di sistematica espositiva Marx distingue la riproduzione semplice dalla riproduzione allargata. Solo la seconda è tipica del capitalismo. Nei precedenti modi di produzione i mezzi di produzione, non ancora capitale, pur producendo plusprodotto, non si accumulano sistematicamente. Basati principalmente sul lavoro agricolo, il numero e la qualità degli attrezzi cresce lentamente, e con essi la produttività del lavoro; finché può restare costante il rapporto fra il numero delle bocche da sfamare, braccia al lavoro e la terra è abbondante, non c’è bisogno di estendere la produzione più velocemente dell’avvento dei nati; cresce l’ampiezza della produzione, non la sua intensità. Solo una variazione d’elementi non immediatamente inerenti alla sfera della produzione può minacciare la conservazione di tali ordinamenti; un aumento demografico nel basso medioevo; un’invasione di merci capitalistiche in Asia. Al loro interno sono regimi statici. Al contrario il capitalismo è un continuo trasformarsi: il moto è nel contempo sua ragione e sua condizione di esistenza, “missione storica” e sua necessità. Genera in se stesso le condizioni materiali di una nuova società, mentre crea, concentra e educa la classe che gli strapperà le armi il potere.

È il regime della instabilità perpetua, una rincorsa disperata fra il concentrarsi, da un lato di mezzi di produzione sotto forma di capitale; con bardature statali di ferro e di menzogna, dall’altro della miseria di masse proletarie sempre più concentrate e minacciose.

La produzione delle corporazioni declina, quando si rende necessario l’utilizzo contemporaneo di arti diverse ed aumenta d’importanza l’utilità della collaborazione di maggior numero di lavoratori.

La necessità tecnica di concentrare nella stessa unità produttiva uomini, mezzi e conoscenze trovò, storicamente mutata dal passato, la forma di proprietà individuale, dell’accumulazione monetaria; una necessità sociale generale per affermarsi ed esplodere è determinata a fissarsi sul supporto di forme giuridiche preesistenti statiche ed individuali; il capitalista fa costruire ferrovie, fa creare città, ai suoi occhi tutto e soltanto per il tornaconto. Con lo sviluppo delle produzioni e dei commerci, con il concentrarsi delle fabbriche la persona del padrone svanisce in astratte anonime sigle collettive, che restano però titolari del valore del prodotto, il tornaconto, il profitto.

Ma ormai e sempre di più le conoscenze non hanno più confini fra un gruppo umano e l’altro, la sintesi di diverse civiltà ne accelera i progressi; la ricerca di nuove tecniche produttive, di nuove proprietà della natura, in sé parallela e collettiva, assume invece il carattere di concorrenza, apparentemente unico tessuto connettivo antagonistico fra gli uomini e le nazioni, lotta ad accaparrarsi e privatizzare il progresso sociale.

La selezione naturale fra le aziende però non è più arrestabile: l’irreversibile creazione del mercato mondiale rende impossibile il ritorno ad economie autarchiche del tipo medioevale o d’Asia, come anche nella impossibile e reazionaria prospettiva super-imperialistica. Tutte le aziende hanno bisogno del mercato il più esteso per esitare le loro pletoriche produzioni, sul quel terreno sopravvive l’industria che produce a costi più bassi, che a maggior dimensione e rendimento utilizza le forze naturali e le energie lavorative. Il fine meschino di perpetuare l’accumulazione di profitto spinge l’insieme del capitalismo a rivoluzionare senza pace i processi produttivi e con essi tutti gli aspetti della vita sociale.

La tendenza all’introduzione di nuove macchine, il più razionale uso di queste è una costante del capitalismo; crescono il numero ed il valore del macchinario e diminuisce il numero d’operai necessario a farlo funzionare, aumenta cioè costantemente la composizione organica del capitale, il rapporto fra capitale costante (materie prime e logorio dei mezzi di produzione) e capitale variabile (salari).

Contemporaneamente aumenta la quantità di merci gettate sul mercato.

Da un punto di vista generale, effetto dell’evoluzione del capitalismo quindi è:

1) Potenziamento della produttività del lavoro, con la stessa giornata lavorativa viene via via prodotta molto più ricchezza, merci più a buon mercato, mentre aumenta anche la parte di lavoro che l’operaio al termine della giornata trasferisce non pagato al capitalista. È questa la componente progressiva del capitalismo, benché oggi il pluslavoro se lo appropri il capitale. Che all’operaio per riprodurre la propria forza lavoro occorra un tempo di lavoro (necessario) sempre minore, in assoluto e come frazione della giornata, è condizione indispensabile a qualsiasi ordinamento sociale più elevato: la massa enorme di tempo di lavoro che, già oggi, eccede il necessario alla soddisfazione dei bisogni elementari del lavoratore e della sua famiglia, e che viene utilizzata per il mantenimento di schiere di borghesia e piccola borghesia fannullona, oltre che la folle accumulazione, potrà domani essere indirizzata, non essendo più assillo incombente la sopravvivenza biologica individuale per la grande massa dei lavoratori, verso tutte quelle attività più specificatamente umane, finalmente libere, sia collettive sia individuali, del pensiero e del corpo, così come la natura dell’uomo permette e quindi richiede, in forme ed in misure che oggi sono mascherate anche dalla previsione dell’infame commercio borghese del“tempo libero” e dello “svago”.

2) Rispetto alla medesima grandezza di capitale il valore prodotto (saggio del profitto) diminuisce. Infatti, impiegandosi il capitale in parte sempre maggiore in mezzi di produzione, i quali nel processo industriale si limitano a trasferire immodificato il loro valore al prodotto, ed in parte minore in lavoro vivente producente plusvalore, benché la produttività del lavoro cresca, la produttività del capitale diminuisce. Risulta quindi che evolvendo il capitale isterilisce, diventa meno produttivo di plusvalore e, quindi, per mantenere costante la massa di questo o per accrescerla è costretto da aumentare, e più velocemente, la dimensione del capitale totale messo in movimento, cioè ad estendere la produzione di merci.

La produzione capitalistica è sempre regolata dal risultato alterno dello scontro di queste due tendenze: portare al massimo la massa del profitto con la costante diminuzione della sua produttività specifica.

Le due tendenze inoltre s’influenzano vicendevolmente: un abbassamento del saggio del profitto induce i fabbricanti da un lato a rafforzare la loro posizione individuale sul mercato abbassando i costi di produzione, di solito aumentando ulteriormente la parte di capitale costante, dall’altro, per ottenere la stessa massa di plusvalore ad un saggio più basso sono indotti ad estendere la scala della produzione. Ma, come ben si vede, non appena la miglior tecnica, introdotta come reazione alla caduta del saggio del profitto, si sarà diffusa fra tutti i produttori, il vantaggio di produrre a costi minori diverrà la norma, significando questo una diminuzione nel valore della merce prodotta ed infine un ulteriore abbassarsi dell’inesorabile saggio del profitto.

Questo meccanismo, benché nel processo reale si complichi per fenomeni contrastanti che nel breve periodo possono anche invertire la tendenza storica, sintetizza l’anima infernale che perennemente conturba il panorama internazionale del capitalismo: nazioni che con velocità diverse assurgono a grande potenza concentrando sul loro territorio produzioni e traffici, per poi declinare e passare ad altre il predominio, flusso continuo di capitale da una regione dall’altra, da una produzione ad una concorrente, alternarsi continuo del ritmo dell’accumulazione con il tipico andamento ciclico, sempre terminante con una crisi, arresto nella capitalizzazione del meccanismo produttivo.

È evidente che, poiché la reazione alla caduta del saggio del profitto non ha l’effetto di opporsi, di rallentare il progredire di questo fenomeno, bensì di accelerarlo, l’insieme non può mai raggiungere una condizione d’equilibrio stabile, anzi si può dire che l’unico equilibrio possibile per il capitale è il moto accelerato, soltanto in un continuo estendersi della scala e della intensità della estorsione di lavoro non pagato trova una compensazione, un equilibrio dinamico fra le contraddizioni che lo scuotono. Molti esempi si potrebbero fare dei vari fenomeni che nel capitalismo presentano questo inesorabile andamento demente, che può sciogliersi solo al punto di rottura con la catastrofe.

I mercati sono ingolfati perché troppa merce è stata prodotta? In un regime non capitalistico, pre o post- borghese, la reazione della società sarebbe quella di risparmiare temporaneamente le energie lavorative o di deviarle su altre attività fintanto che l’equilibrio fra ricchezze e bisogni non sia ristabilito.

Nell’attuale modo di produzione questo è impossibile, anzi disastroso. Sembra tanto semplice, immediatamente comprensibile, congeniale alla natura del rapporto fra la sussistenza umana e l’ambiente ospite, eppure ad avanzare tale ipotesi non si trova né voce di economista né programma di alcun partito, dai destrismi agli opportunisti super radicali. A sostenere tale necessità in questo frangente di controrivoluzione oggi sono pochi comunisti stretti attorno al nostro nucleo di partito. E non a caso: questo elementare provvedimento è la morte del capitalismo, il succo del programma economico immediato della rivoluzione: disinvestire capitale, smantellare produzioni inutili.

Il terrore, che come campana a morte, tale proposta suscita in tutti i difensori dell’ordine, nazional-comunisti in testa, nasce dal riconoscere in essa la voragine nella quale il regime sta precipitando e la minaccia del muoversi del proletariato per quella esigenza indilazionabile.

Nel capitalismo un ingolfamento dei mercati, e per questo è stato rivoluzionario, non agisce da freno allo sviluppo tecnologico, ma da acceleratore: bisogna diminuire i costi unitari, introdurre macchine più veloci, aumentare la produzione; nuovi contesi mercati si aprono e sono inondati di merci, fino a che il fenomeno non si riproduce a dimensioni ancora più grandi, coinvolgendo più settori produttivi, tutte le regioni del mondo.

Il guaio per il capitalismo è che non può tornare indietro, ridimensionarsi. Ogni nuova scoperta, ogni ingegnosa miglioria nelle tecniche produttive non può essere cancellata, diviene, loro malgrado patrimonio non più dei capitalisti, ma perenne dotazione sociale, e per assurdo, è proprio la sfrenata concorrenza fra privati per la proprietà privata a diffondere e socializzare le scoperte ed a renderne irreversibile l’utilizzo generale. Obbligato quindi il capitale, in contrasto con la angustia mentale e codardia tipica del singolo borghese, a proiettarsi perennemente nel futuro, il suo procedere non può che compensare la troppa estensione con nuovo allargarsi, la troppa velocità con un’accelerazione, l’eccesso di capitale costante con l’acquisto di, magari nuovo, ma capitale costante, la sovrapproduzione con ulteriore produzione, il sottoconsumo del proletariato, che mai potrà consumare tutte le merci prodotte, con nuova proletarizzazione.
 

Produzione e consumo

Il capitalismo, abbiamo visto, è caratterizzato da una continua evoluzione della quantità e della intensità del suo modo di produrre alla quale corrisponde una opposta costanza delle forme giuridiche, dei rapporti di produzione nel quale la società è incardinata.

Marx, quando parla della vendita della forza-lavoro, afferma: «Il rapporto capitalistico durante il processo produttivo si rileva soltanto perché esso in sé esiste nell’atto della circolazione, nelle differenti condizioni economiche, nelle differenti condizioni economiche fondamentali in cui si contrappongono compratori e venditori, sul loro rapporto di classe» (Il Capitale, Vol.2, I.I.I).

Il capitalismo si definisce come rapporto fra gli uomini ed i mezzi di produzione, fra proletariato e monopolizzatori dei mezzi di produzione, prima del processo produttivo con la vendita della forza-lavoro, dopo nella ripartizione del plusprodotto fra le classi dominanti e nella distribuzione della ricchezza. In questo senso: «il processo di produzione appare solo come interruzione del processo di circolazione del valore capitale» (Vol.2, I.I.III). Anche da qui la nostra tesi che il regime da abbattere è asserragliato fuori dalla sfera della produzione immediata, fuori dalle fabbriche.

Parimenti tutto il processo s’inceppa periodicamente non per l’insorgere di difficoltà tecniche relative ai sempre più complessi processi produttivi, seppure sia infernale per i proletari il lavoro nelle galere capitalistiche, ma per la non rispondenza di questa produzione giganteggiante con la quantità di proletari che si offrono sul mercato e con la possibilità delle diverse classi di acquistare i mezzi di sussistenza prodotti. Nonostante la storicamente dimostrata caduta tendenziale del saggio di profitto il ciclo del capitale, per quanto riguarda il solo processo produttivo, potrebbe continuare all’infinito. Nel momento in cui la produzione si arresta gli impianti sono, infatti, al massimo della loro efficienza e capacità e chiedono solo di essere messi in movimento. Lo stesso per quanto riguarda la disponibilità di capitali. Capitali ce ne sono anche troppi, basterebbe che si... investissero (Investiamoli! suggerisce, trionfante per la tautologia discoperta, l’imbecillità opportunista). Ma il marcio non è lì: in teoria, da un punto di vista materiale, almeno fino ad esaurimento delle materie prime e dell’energia dei proletari del mondo, sarebbe possibile andare avanti in questa demente orgia produttiva, tanto è vero che in certi settori di particolare pestilenza già la produzione urta contro i limiti delle stesse leggi di natura.

La caduta del saggio di profitto ha come effetto immediato il dilatarsi della massa di capitale, nella grandezza che la storia ha mostrato, non essendo data alcuna misura né sociale né naturale; l’illusione del capitale è di produrre al solo fine di produrre. Il brusco risveglio si ha, quando le montagne di merci invendute protestano energicamente che una merce che si rispetti (sul mercato), prima o poi, deve servire a qualcos’altro che non sia la produzione stessa, che dal ciclo del capitale si esce solo con il lasciapassare del valore d’uso.

Da notare che l’utilità di una merce non è un dato assoluto, benché il capitalismo crei in continuazione nuovi e più estesi bisogni, anche del proletariato, la parte del reddito destinato al consumo individuale cresce, (quando cresce) in proporzione di gran lunga minore alla massa del plusvalore estorto. La sproporzione nasce quindi fra una mostruosa macchina produttiva di ricchezza (a parte la nostra critica di cosa e come viene prodotto) ed una massa di lavoratori che da questa ricchezza sono, e nel capitalismo saranno sempre, inesorabilmente separati. Per definizione il plusvalore si trasferisce al di fuori del proletariato. La spersonalizzazione del capitale e la concorrenza a coltello limitano inoltre anche la quota del plusvalore che l’industria può permettersi di distribuire al consumo improduttivo delle classi dominanti.

L’opportunismo si lamenta coi compari per le “Cattedrali nel deserto" (ci vorrebbero piccole canoniche intorno ove sarebbe più facile arraffare elemosinucce). Ma tutta la macchina produttiva capitalistica è una “cattedrale” che si è fatta il deserto intorno, che sottomette e centralizza in sé tutte le meno agguerrite unità produttive, concentrando in sé il mezzo ed il fine del suo movimento.

Quando la sovrapproduzione mondiale ha raggiunto un determinato livello, basta un niente, un fatto anche accidentale per innescare la crisi, un’imprevista oscillazione della domanda, un’alternanza stagionale ed il panico si diffonde improvviso fra gli agenti del capitale. Improvvisamente ci si rende conto che la enorme massa di merci già prodotta non potrà essere venduta al suo valore, che non ha valore, che i giganteschi impianti non potranno mai funzionare a regime tutti, contemporaneamente. Ma è solo grazie a quest’illusione che il capitalismo ha potuto procedere fino a quel punto e cerca di spingere ancora l’accumulazione anche quando i primi sintomi della sovrapproduzione si sono manifestati. È questa la situazione attuale. La prima reazione dei fabbricanti è di nascondere le difficoltà ai creditori, alle banche dal fido delle quali dipendono, di accelerare la produzione per abbassare i costi unitari e ritagliarsi un po’ di mercato.

Alla domanda, rivolta ad un agente di cambio dal giornale La Repubblica il 10 giugno, circa lo stato attuale dei bilanci delle imprese, quello risponde: «Malissimo. Molte aziende per procurarsi il denaro di cui hanno bisogno spendono l’8-10% del loro fatturato. In queste condizioni è impossibile che possano stare in piedi. Fino a quando riusciranno a farlo, nasconderanno le loro colossali perdite fra le pieghe dei bilanci, poi salteranno. E non sto parlando di piccole e medie imprese, ma di alcune fra le maggiori società del paese». È chiaro che tali imprese non solo stanno già producendo al di sotto del profitto medio, non solo al di sotto del tasso d’interesse bancario, ma addirittura con profitto negativo se vogliono accedere al mercato. È evidente che solo grazie all’intervento del credito finanziario che la situazione è così drammatica, ma anche che proprio per il suo intervento ha potuto trascinarsi tanto avanti.

Per mezzo del credito, infatti, non solo si può produrre prima e senza che esistano i compratori, ma si permette anche di utilizzare mezzi di produzione e materiali prima che esistano i loro equivalenti, sottratti alla società in cambio solo della speranza della continua folle espansione capitalistica. Si produce con capitali il cui valore ancora non è stato prodotto, inventando capitali, barando al gioco dello “scambio onesto” che è troppo angusto, ogni capitalista fidando d’aver terminato il suo ciclo prima che lo scandalo esploda. Tutti gli agenti del capitale hanno quindi un comune interesse a mollare i freni al carrozzone a misura che la china si trasforma in precipizio, né, del resto, potrebbero fermarlo, anche se volessero.

Il credito è lo strumento ultimo e più perfezionato del capitalismo nella illusoria tendenza ad emanciparsi dai suoi stessi limiti, del mercantilismo, dello scambio fra equivalenti.

È nel contempo la disfatta del principio liberistico per i quali i bisogni dei cittadini eserciterebbero una severa azione di selezione sui traffici capitalistici imponendo quella proporzione fra le varie branche produttive rispondente alla “domanda”. Non solo terribili crisi mondiali – maledette certo da tutti – sono scoppiate ed hanno avuto l’epicentro proprio nei paesi ove tale dottrina più rigorosamente informava la legislazione commerciale, ma è risultato all’evidenza che la fame di plusvalore ha dittato anche sulla natura della “domanda”, ritenuta sovrana modellandola a seconda dei suoi stravaganti bisogni.

Il credito si occupa, trasferendo capitale da un ramo all’altro secondo le evoluzioni del saggio particolare del profitto, di rendere contemporanea la crisi in tutte le sfere produttive ed in tutti i paesi. Non si tratta più, come può accadere, di sovrapproduzione di una determinata merce ma sovrapproduzione di merci, cioè di capitale – merce che non può proseguire la sua metamorfosi. È sovrapproduzione di capitale.

Date le particolari condizioni del mercato si manifesta improvvisamente la sproporzione fra la massa del capitale e la scala ristretta della riproduzione. Solo una parte del capitale esistente può continuare a produrre plusvalore, mentre una aggiunta di nuovo capitale avrebbe l’effetto, provocando il crollo dei prezzi, di ridurre la massa del plusvalore anziché accrescerla. La congiuntura per il capitalismo non ha via d’uscita, stretto da un lato dalla minore produttività del capitale, dall’altro dalla necessità di contrarre la scala della produzione. Gli effetti non possono essere che: drammatico crollo del saggio del profitto e parziale distruzione del capitale inutilizzato.

Distruzione di mezzi di produzione anche per il semplice fatto di restare inutilizzati o perlomeno sospensione della forma di capitale.

Le obbligazioni, le azioni ed in generale i titoli di proprietà su quote del plusvalore futuro perdono il loro prezzo di mercato in misura che tali futuri redditi perdono di certezza.

Il capitale che trovasi nella fase di capitale-merce, se lo si vuole trasformare in capitale-denaro, lo si deve scambiare ad un prezzo che è solo una piccola parte del reale prezzo di produzione: il capitalismo, nel periodo precedente la crisi ha assorbito una quantità di tempo di lavoro esorbitante il “socialmente necessario”; nella crisi la proporzione è ristabilita violentemente con lo scambiare la massa delle merci sovrabbondanti soltanto contro il corrispondente del “necessario sociale”.

Il capitale che trovasi nella forma di denaro, se oro od argento cessa semplicemente di circolare come capitale, di scambiarsi contro mezzi di produzione e forza-lavoro e si fissa come depositario di valore. Ma banconote a corso forzoso, titoli commerciali trovano la loro misura nella garanzia del loro funzionamento, nella circolazione stessa. La catena dei pagamenti, per l’insolvenza di capitalisti e commercianti si spezza. Con la perdita di valore delle merci svanisce anche il valore dei titoli di credito garantiti su queste merci. Il capitalismo si accorge improvvisamente del gigantesco bluff internazionale che per anni ha montato col sudore di milioni e milioni di proletari.

Con l’evolversi del regime, le strutture nazionali e mondiali si sono specializzate nel ritardare il momento della crisi sia economica sia sociale, nel rilanciarsi la bomba innescata al di sopra delle frontiere. Il successo imperialistico non è mancato, tanto è vero che, a prezzo dell’oppressione bestiale di masse enormi di proletari e semi-proletari, i periodi fra crisi e crisi, come già notava Engels, si sono prolungati, ma tanto più terribili si sono manifestate in questo secolo, fino ad assumere l’aspetto di vere e proprie catastrofi mondiali del regime capitalistico. La massa di capitale in eccesso è di così mostruose dimensioni che solo uno specifico e organizzato intervento distruttivo, concertato fra tutti gli Stati, può ristabilire l’equilibrio. Solo nel capitalismo le guerre sono così immediatamente mezzo di produzione, integrate nel suo ciclo ormai a ritmo semisecolare.

La crisi economica purtroppo, con le distruzioni che comporta, non segna, di per sé, la fine del capitalismo. La dottrina insegna e la storia ha dimostrato che la crisi, culmine e crollo dopo un abnorme periodo d’euforia produttiva, è anche la premessa materiale per adeguare le condizioni della produzione, del mercato e della disponibilità della forza-lavoro, ad iniziare un nuovo ciclo col saggio di profitto abbassato, adeguato alle rammodernate strutture produttive.

Marx nella terza sezione del terzo libro, che curò di ultimare personalmente, ove considera la legge della caduta del saggio del profitto con le sue contraddizioni cioè, il cuore infame del capitalismo, avverte che: «Il rallentamento sopravvenuto nella produzione avrebbe preparato – entro limiti capitalistici – un ulteriore aumento della produzione. E così il ciclo tornerebbe a riprodursi. Una parte del capitale, il cui valore era diminuito in seguito all’arresto della sua funzione, riguadagnerebbe il suo antico valore. Ed a partire da questo momento il medesimo circolo vizioso avrebbe ripetuto con mezzi di produzione più considerevoli, con un mercato più esteso e con una forza produttiva più elevata”. La sottolineatura è nostra.

L’esempio più significativo è quello della crisi del 1929 che, trascinatasi con alterne vicende, trova la sua soluzione internazionale nella guerra. Oggi il ciclo allora iniziato volge al termine e gli sconvolgimenti economici attesi sono di simile profondità.

Ma i falsi partiti marxisti e comunisti che dirigono le masse operaie sono scesi al di sotto della dottrina socialdemocratica dello sviluppo progressivo e pacifico. Di fronte all’evidenza della crisi, della quale, fino ad ieri escludevano anche il ritorno, pretendono di mettere a disposizione della borghesia la teoria economica marxista per lo scopo opposto a quella per cui nacque, vogliono “fare uscire il paese dalla crisi”. Noi sappiamo che il capitalismo mondiale uscirà sì dalla sua terribile crisi periodica, ma con distruzioni immani, mettendo i proletari alla fame.

La piccola borghesia si terrorizza, maledice lo sviluppo tecnico, il ricambio internazionale delle conoscenze, esprime previsioni apocalittiche nelle quali la sua rovina come cortigiana del capitale è assunta come fine medesimo della civiltà. Implora il capitale di frenare la sua corsa. Veramente vorrebbe frenare proprio tutto: frenare i consumi e fermare le nascite, che altrimenti saremmo in troppi e rischia di mangiare meno, frenare la produzione, ma non i suoi redditi che da questa le provengono, frenare l’eccesso di libertà insieme l’eccesso d’autorità, insomma prospetta un “medioevo prossimo venturo” fatto di tanti bunker ove, abolito per legge il mercato mondiale e con una riserva di manzo in scatola, possa aspettare rintanata al calduccio che la grandinata atomica tra i giganti imperialistici sia passata.

Al proletariato, ovviamente, tale prospettiva è preclusa dalle cose (e anche dalla stessa piccola borghesia naturalmente). Nella fase attuale il capitalismo sta cercando di ritardare l’esplodere della crisi, il blocco della produzione, il crollo verticale dei prezzi, milioni e milioni di disoccupati. Accordi internazionali fra Stati borghesi, divisi su tutto, sono d’accordo nel ridurre la parte del capitale in salari a parità di tempo di lavoro assorbito, mentre, ne parliamo anche in altra parte di questo numero di giornale, i sindacati traditori si mettono in prima fila per dare all’uopo il loro contributo di quinte colonne.

Tocca al proletariato rispondere fin da ora sul terreno economico, colpo su colpo, perché rinunciare oggi “perché c’è la crisi” costituirebbe grave ipoteca sul movimento, quando, chiuse le fabbriche nel pieno del crollo o alla sua conclusione, si tratterà di difendere la vita stessa del proletariato contro l’apparato politico e la disciplina militare internazionale del capitale, per disarmare una volta per sempre i suoi guardiani.

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La prima fu la sterlina a svalutare nel 1967: stavolta sarà il franco a segnare un altro significativo passo nel declino dell’economia delle vecchie potenze imperialistiche. E come allora protagonisti al di sopra degli imperialismi già massimi inglese e francese sono le più dinamiche o più estese potenze, l’americana e la tedesca, che in realtà si urtano. Gli sconquassi che ormai con continuità i flussi di dollari provocano a Londra, Parigi e Roma tendono sempre più a divenire episodi, scontri d’avanscoperta in terra povera della contesa per la sopravvivenza imperialistica degli Stati Uniti contro la risorta Germania occidentale. Obbiettivo reale degli americani all’immediato è costringere il Marco alla rivalutazione. La contrapposizione tedesca-americana è il risultato necessario, dal partito previsto, dello sviluppo capitalistico di questo dopoguerra: prima venti anni nei quali con impressionate velocità si ricostruiscono le potenze giapponese e germanica, l’imperialismo USA spadroneggia rapinando in tutto il mondo. Dal 1967, quindi, il capitalismo è entrato nella fase nella quale si sarebbero manifestati i sintomi della attesa crisi di sovrapproduzione, premessa oggettiva della storica e mondiale pedata proletaria a tutto l’odierno marciume.

Crisi monetarie da allora si ripetono in continuazione, regolarmente spazzando via i vari accordi fra Stati, tariffari, commerciali o monetari (ultimo il “serpente” che i tedeschi, già loro primi garanti, sono costretti a mollare come inutile fardello nella tempesta). Guai ai deboli, quando va male ogni “economia nazionale” bada a salvarsi affogando i fratelli.

L’aumento del prezzo del petrolio intervenuto alla fine del 1973 causa un forte drenaggio di plusvalore dai paesi che ne sono sprovvisti. La spinta dell’inflazione e la brusca caduta del saggio del profitto che ne deriva squilibrano ed esasperano la concorrenza internazionale a tutto vantaggio degli Stati Uniti che battono la moneta mondiale.

Dopo due anni di crisi internazionale ne esce netta la contrapposizione tra temporanei vincitori e vinti. La misura del distacco è segnata da colossali deficit o surplus delle bilance dei pagamenti. Nel 1976 chiuderanno in attivo, oltre ai paesi produttori di petrolio, soltanto Stati Uniti, Repubblica Federale, Giappone, Svizzera, Olanda e Belgio; tutti gli altri paesi industrializzati accuseranno in complesso un deficit nell’anno di 11 miliardi di dollari; i non industrializzati di 43 miliardi. La copertura di tali ammanchi è stata operata quindi con prestiti concessi dai tre maggiori, segnatamente da banche americane che ci guadagnano il controllo del mercato monetario; l’Italia è oggi, per esempio, debitrice dall’estero di 16 miliardi di dollari, la Francia di 18.

In questo dopoguerra di fetido benessere, dopo la non lieve crisi a passo decennale in USA del 1958 ove in 10 mesi la produzione industriale crollò del 15%, il primo paese industrializzato a denunciare recessione produttiva fu, non è un caso, proprio la Germania occidentale nel 1967, nella quale, dal novembre ’66 all’agosto successivo la produzione crolla del 19%. Francia, Gran Bretagna ed USA rallentano soltanto il ritmo. Due anni di ripresa ed è la recessione del biennio 1970-71, più grave in America, ma quasi tutto il mondo ne risente. Ivi meno 4% fra il 1969 e 1970.

Seguono ancora due anni di slancio produttivo, quasi un boom nel 1973. È il segno dello scatenarsi dell’inflazione a ritmi sconosciuti: i prezzi all’ingrosso sono cresciuti in USA del 14% nel 1973 e del 19% nel 1974, in Italia del 18% e del 41% (!), in Giappone 16% e del 31% (!). Bisogna risalire agli anni della guerra per ritrovarne di maggiori. Il fenomeno inflativo continua velocissimo nonostante la brusca recessione del 1974-75.

Infatti anche stavolta lo slancio produttivo ha breve durata: il primo paese ad interrompere la ripresa sono gli Stati Uniti nel settembre 1973, a novembre Germania, Gran Bretagna e Francia; l’industria giapponese continua invece ad espandersi fino al marzo, mentre quella italiana fino all’ottobre successivo regge.

La recessione colpisce tutti i paesi del mondo occidentale, compresi, finalmente la prova storica attesa, il paradiso socialdemocratico svedese e la ricca Svizzera. Il fondo della recessione si raggiunge nel luglio-agosto del 1975. Notevole è il terreno perduto: meno 9% la produzione in America e conteggiata fra le medie annue del ’74 e del ’75; -10% in Italia; -5% in Gran Bretagna; -11% in Giappone; -5% nella RFT. Non sono ancora ritmi "tipo 1929”, circa la metà (e per un solo anno di calo) ma da allora di gran pezza i peggiori. Corrispondentemente alto è il numero ufficialmente riconosciuto dei disoccupati che arriva all’inizio del 1976 al milione in Francia, due milioni in Italia, 1,4 milioni nella Repubblica Federale, un milione in Giappone, 1,4 in Inghilterra, 8 negli USA.

Prossimi necessari studi del partito sull’evoluzione della crisi tratteranno dei flussi monetari e di capitali. Qui riportiamo un prospetto degli incrementi percentuali delle produzioni industriali che ben evidenzia gli ultimi cicli brevi del capitalismo mondiale. Contrassegnati in nero gli incrementi denuncianti recessione o stagnazione. I dati provengono dai quadri statistici tradizionalmente curati dal partito e dai bollettini ONU.
 
 

Gran
Bretagna
U.S.A.
R.F.
Tedesca
Giap-
pone
Francia
Italia
1964
8,0
6,0
8,0
16,0
7,0
2,0
1965
3,7
8,5
5,6
3,4
1,9
4,9
1966
0,9
9,6
1,8
13,3
6,4
11,2
1967
0,9
0,8
-1,8
19,1
3,4
7,6
1968
5,3
4,7
12,3
17,3
4,2
6,3
1969
2,5
4,5
12,5
16,8
13,6
2,9
1970
0,0
-3,8
6,6
13,6
6,4
6,8
1971
0,0
0,0
2,0
3,0
4,0
0,0
1972
2,5
8,0
3,9
6,8
7,7
3,9
1973
7,6
9,3
6,7
15,5
7,1
9,6
1974
-3,5
-0,9
-1,8
-2,4
2,5
5,2
1975
-4,7
-8,6
-5,4
-11,3
...
-10,0
1976 feb.
0,9
8,6
7,6
12,7
...
3,6

Si direbbe un ritmo alterno del periodo di poco più di 4 anni, anni di crisi sono infatti stati: 1966-67; 1970-71; 1974-75. Limitandoci ad estrapolare meccanicamente questo periodo all’indietro possiamo osservare come vengano a cadere “in fase” quasi tutte le crisi o stagnazione produttive di questo dopoguerra: 1948-49 recessione nella vittoriosa America; 1952-53 crisi in Gran Bretagna e Francia, solo stagnazione nelle sconfitte Italia e Germania; 1957-58 (stavolta il periodo è di cinque anni) crisi in USA e Gran Bretagna, rallentamento nella Repubblica Federale e in Giappone; 1961-62 stagnazione di nuovo in USA e Gran Bretagna. Successivamente, in cadenza, le tre maggiori crisi internazionali avanti delineate.

Non è mancato a questo punto il mastodontico Istituto di ricerca statunitense che in onore a metodo empirico caro alla borghesia anglosassone, l’estrapolazione invece l’ha fatta in avanti: 1974 più 4 e si arriverebbe più o meno al 1978.

Un fatto è certo: nemmeno i borghesi osano più soltanto sperare in un futuro di piano e progressivo sviluppo economico e quindi sociale: la crisi del 1975, seppure profonda, è stata troppo beve per poter risolvere le contraddizioni accumulate in trenta anni di folle produzione in tutto il mondo. A fronte dell’immensa massa di merci invendibili già prodotte il capitalismo ormai ha bisogno di ben più drastiche distruzioni per poter riprendere lo slancio. Nell’imperialismo le crisi vanno aggravandosi ed estendendosi, come sappiamo dalla nostra teoria, dall’esperienze passate e come pure conferma il crescendo in profondità e generalizzazione delle tre appena passate.

Lo stesso meccanismo internazionale di dominio imperialistico col controllo statale sulle monete ha potuto ripetutamente ritardarne l’esplosione per ora scaricando sui paesi economicamente più deboli la necessità della contrazione produttiva e del mercato. Ma ha solo esasperato il fenomeno e non per molto. Dopo la recessione culminante nel 1975, l’attuale ripresa produttiva tende a far emergere soltanto i capitalismi più pestilenziali, si manifesta in forme stentate e deformi tali da escludere che si tratti dell’inizio di un nuovo ciclo economico nel quale il mercato torni ad una nuova espansione: al contrario, tutto fa pensare ad uno slancio effimero. In America l’espansione economica globale è stata del 9,2% nel primo trimestre dell’anno ma solo 4,4% nel secondo. I disoccupati nel giugno erano 7,5 per cento della forza lavoro ed un decimo di più nel luglio. In Germania, nonostante la ripresa, la disoccupazione si mantiene alta e si rimpatriano gli emigranti.

In tutti gli altri paesi, i tassi d’interesse delle banche centrali sono molto alti: 9% in Belgio, 9,75% in Francia, 11,5% in Gran Bretagna, ancora di più in Italia, significando che questa ripresa non è il portato di nuovi investimenti di capitale (e per fortuna! ma l’opportunismo piange...) e non si verifica quella sostituzione su tutta la superficie produttiva dell’esaurito capitale fisso come all’inizio di ogni nuovo periodo di accumulazione. Al contrario, non sono utilizzati pienamente nemmeno gli impianti esistenti, i disoccupati alimentano il lavoro nero tenendo chiuse le fabbriche.

Gli enormi passivi della bilancia dei pagamenti dei paesi meno ricchi sono il limite contro cui urtano le stesse esportazioni dei più floridi, ed i nuovi aggiustamenti monetari e il fallimento degli accordi europei stringeranno ancora più stretto il cappio commerciale intorno alla Germania occidentale. Questo paese è un concentrato delle contraddizioni del più marcio capitalismo: con la bilancia dei pagamenti in attivo da più di venticinque anni trabocca di capitali, ma non può permettersi di aumentare i consumi (orrore!) minacciato com’è dalla diabolica inflazione, disoccupazione al 6% della forza lavoro, ed è il paese più ricco del mondo, invidiato da borghesie ed opportunisti stranieri.

La Germania, pur dimezzata, è già troppo angusta per contenerne l’infernale capitale. L’incognita terribile della storia è: saprà la ripresa del moto proletario nel cuore dell’Europa procedere lo scioglimento militare della crisi capitalistica mondiale? Alcune esplosioni di meravigliosa collera di classe sembrano preannunciarlo.
 

La teoria marxista della crisi nella terribile sua conferma storica

Il rapporto sulle crisi economiche del capitalismo ha dapprima concluso la breve esposizione delle posizioni teoriche della nostra dottrina, già iniziata nei precedenti rapporti utilizzando lo specifico capitolo della Storia delle Dottrine Economiche di Marx. Nel testo, dopo aver individuate nel movimento del denaro la forma nella quale si separano per poi riunirsi violentemente i due momenti antitetici della società borghese, produzione sociale ed appropriazione della ricchezza, si rivela che tale possibilità formale, potenziale di crisi, trova la sua manifestazione reale e le sue determinazioni immediate nello sviluppo delle categorie tipiche del capitalismo: concorrenza e credito. Se la possibilità di crisi è già contenuta in astratto in ogni economia mercantile, solo nel capitalismo, ed in particolare nella sua forma più alta, l’imperialismo, queste divengono reali, cataclismi che periodicamente travolgono il mondo intero.

La spiegazione immediata delle alternanze del ciclo industriale, afferma Marx, va ricercata quindi nei fenomeni tipici della moderna riproduzione del capitale, fenomeni che dispiegano la loro potenza soltanto nella riproduzione allargata e quando sul mercato già si fanno concorrenza i diversi capitali.

Al fine di rappresentare ai compagni il complesso concatenarsi delle molte determinazioni che già Marx individuò del mutevole progredire del ciclo industriale, fu poi preparato un quadro nel quale la rete delle influenze relative dei singoli fenomeni della riproduzione, del commercio e del credito erano indicati con blocchi collegate da frecce. Il blocco indicava il singolo evento o l’invertirsi di una tendenza, le frecce, la direzione della causa-effetto in quel particolare momento del ciclo.

Come prima utilizzazione dello schema nella ricerca per la verifica empirica della validità della nostra interpretazione delle infami categorie borghesi, furono infine illustrati alla riunione grafici rappresentanti i valori effettivamente assunti dal tasso ufficiale di sconto, dal saggio dell’interesse e dal saggio d’inflazione in tutto questo dopoguerra, per alcuni paesi, mostrandone la rispondenza con le previsioni della dottrina.

* * *

Sul Capitale di Marx lo studio dei fenomeni delle crisi economiche non appare raccolto in un capitolo specifico. Nel corso dell’esposizione sia del Processo di Produzione, sia della Circolazione, sia del Processo complessivo della produzione capitalistica sono tuttavia frequenti, come abbiamo già visto, le anticipazioni su quei particolari aspetti contradditori del modo di produzione ove si urtano forze materiali, tendenze inesorabilmente divergenti, che appaiono come risultato ultimo già dalla descrezione delle strutture elementari dell’economia. Abbiamo velocemente passato in rassegna nei rapporti precedenti questi squarci sulla catastrofe del più ribollente, anche contro se stesso, regime di sfruttamento della storia. Mai manca in questi passi – ove più manifesto è il ribaltamento del potenziale progressivo del capitale nel suo contrario, nella sua distruzione – di apparire la possibilità, la maturità oggettiva e la necessità storica della produzione condotta secondo un piano comune, dell’armonia della società comunista.

Marx non riuscì a dare una struttura formalmente completa al suo lavoro, ha lasciato ai combattenti proletari solo le gigantesche fondamenta dell’indagine delle categorie economiche capitalistiche. Già queste però sono bastate a smentire e superare le scuole dell’economia borghese classica, mentre oggi alla classe dominante è precluso anche l’accesso alla battaglia teorica col marxismo: la teoria è un lusso impossibile per un regime condannato a morte, solo l’empirismo immediatista è utile per la sopravvivenza del turbine della crisi.

Scritti con l’intento di applicare i risultati dell’indagine delle forme elementari della merce, del plusvalore, nella sua origine e nella sua ripartizione, e del capitale nel suo movimento, ci resta una grande quantità d’appunti. Fra questi un capitolo raccolto nella Storia delle Teorie Economiche si intitola sulle crisi.

Brevemente qui Marx riespone in forma schematica le cause delle crisi. Vi si rileva come l’economista borghese Ricardo, terrorizzato dai risultati ultimi delle sue stesse ricerche sulla economia, che lo avrebbero portato alla conclusione del carattere storico del capitalismo, si sia scordato, nella sua descrizione della crisi, non solo trovarsi in presenza di produzione capitalistica di merci ma anche di produzione di merci quando sostiene: «Il produttore, producendo diventa necessariamente o il consumatore dei suoi propri prodotti o il compratore e il consumatore di prodotti altrui». Marx a questo punto è costretto ad abbandonare l’economia classica borghese: «Chiacchiere puerili degne di un Say, non di Ricardo – rimarca – Nessun capitalista produce per consumare il suo prodotto. Adesso si dimentica perfino la divisione sociale del lavoro. Chi ha prodotto non ha scelta se vendere o no: deve vendere. Ma appunto nelle crisi si presenta la circostanza che egli non possa vendere».

Nella produzione capitalistica complessiva, il susseguirsi necessario del processo di produzione e del processo della circolazione non fa che rappresentare nella singola merce elementare, a scala gigantesca, sociale, ormai mondiale, la separazione dell’acquisto e della vendita e delle sue caratteristiche di bene prodotto e bene consumabile.

Fin dalla prima sezione del Libro Primo, quella su Merce e Denaro, l’analisi già della forma elementare della ricchezza nelle società mercantili, il feticcio che incarna i rapporti economici fra gli uomini, porta in sé, nella sua circolazione, il germe di tutte le contraddizioni che nascono nel movimento delle merci nel suo complesso: «Se il farsi esteriormente indipendenti dei due momenti (vendita e compera), che internamente non sono indipendenti perché si integrano reciprocamente, prosegue fino ad un certo punto, l’unità si fa valere con la violenza, attraverso ad una crisi. L’opposizione immanente alla merce, il valore d’uso e valore di lavoro privato, che si deve allo stesso tempo presentare come lavoro immediatamente sociale, di lavoro concreto particolare che allo stesso tempo vale solo come lavoro asolutamente generale, di personificazione dell’oggetto e oggettivamente della persona, questa contraddizione immanente riceve le sue forme sviluppate di movimento nelle opposizioni delle metamorfosi della merce. Quindi queste forme includono la possibilità, ma soltanto la possibilità delle crisi. Lo sviluppo di tale possibilità a realtà esige tutto un ambito di rapporti che da un punto di vista della circolazione semplice delle merci non esistono ancora» (I, 3, 2a).

Per chi sa leggere qui è già contenuta la critica alla inadeguatezza di fatto del capitale a soddisfare i bisogni umani, la condanna della divisione in classi della società, perché oggi “l’oggettivazione della persona” si chiama lavoro salariato. E ci vuol altro che il risanamento dell’economia del gracidante Berlinguer. Qui sono classi che in tutto il mondo si urtano da più di un secolo, due modi di produzione e quindi di vita che si contrappongono: fra i due non ci stanno le riforme dei preti rossi assoldati dallo Stato ma la violenta distruzione del potere borghese.

Fa osservare Marx, questa possibilità di crisi è insita nella forma mercantile del ricambio sociale della ricchezza prodotta dalla divisione del lavoro. L’ampiezza di tale opposizione però non è definita da tale divisione, come non è indicata la forma in cui tale divisione si risolve. Fintanto infatti, pur affermatasi la divisione tecnica del lavoro, la produzione tende in misura predominante allo scambio immediato, fintanto si produce con la finalità del consumo, la separazione dei due atti avviene solo accidentalmente, per fatti naturali, per esempio un raccolto eccezionale. «In stadi in cui gli uomini producono per se stessi, non vi sono in realtà crisi, ma non vi è nemmeno produzione capitalistica». Quindi, per inciso, nello stadio successivo alla produzione capitalistica il consumismo, quando gli uomini torneranno a produrre per se stessi, non vi saranno crisi di questo tipo.

Ma questi appunti di Marx non vogliono essere solo una sintesi del lavoro passato bensì una traccia, un’indicazione potente delle direzioni in cui spingere l’indagine per la migliore conoscenza del movimento del capitale, così com’è comprensibile alla luce della sua struttura elementare. Riferendosi alla circolazione complessiva del capitale si dice: «La possibilità generale delle crisi è la metamorfosi formale del capitale stesso, la separazione, nel tempo e nello spazio, dell’acquisto e della vendita. Ma questa non è mai la causa delle crisi. Infatti non è che la forma più generale della crisi, cioè la crisi stessa nella sua espressione più generale. Ma non si può dire che la forma astratta della crisi sia la causa della crisi. Se ne ricerca la causa, si vuol appunto sapere perché la sua forma astratta, la forma della sua possibilità, da possibilità divenga realtà».

La ricerca deve tendere quindi a spiegare le alternanze del ciclo industriale che, mano a mano che il sistema capitalistico imputridisce, si trasformano in periodicità semisecolari nelle quali si concentrano tutte le contraddizioni dell’economia borghese.

Tutto il lavoro sulla economia di Marx converge sulla teoria delle crisi, la morte del capitale, sulla impossibilità della sua riproduzione con la rivolta del proletariato da esso stesso incolonnato.

La obiettività ed esattezza della potentissima indagine delle categorie dei borghesi è destino storico che sia scaturita dal loro nemico, dal proletariato, da una posizione interessata e di parte, la sola che possa abbracciare nella sua scienza tutto il corso dello sviluppo delle forze produttive dalla forma del monopolio capitalistico dei mezzi di produzione, al loro liberarsi dai lacci dei vigenti rapporti giuridici fino al superamento ed alla fine violenta delle forme proprietarie e nominative e l’erompere delle anonime potenzialità di vita collettiva.

La risposta del marxismo al problema è generale e non relativa ad un semplice parziale meccanismo della produzione che si inceppa: qualunque sia la causa accidentale che possa innescare la precipitazione distruttiva, il motivo primo e così esposto negli appunti:

«Che la produzione sempre allargantesi ha bisogno di un mercato sempre più largo, e che la produzione si allarga più rapidamente del mercato è il fenomeno che deve essere spiegato, enunciato cioè, invece che in una forma astratta, in una forma reale. Il mercato si allarga più lentamente della produzione, o nel ciclo che il capitale percorre durante la sua riproduzione – ciclo in cui non si riproduce semplicemente, ma su scala allargata, descrivendo non un ciclo, ma una spirale – viene un momento in cui il mercato sembra essere troppo stretto per la produzione. Ciò avviene al termine del ciclo».

Questo risultato a cui è potuta arrivare la nostra scienza di classe non poteva bastare. Più tardi compagni si cimentarono nel lavoro di indagini sulla riproduzione allargata del capitale, ricerca spinta giusto nella direzione qui indicata.

Per ora ci è più che sufficiente la tragica ripetuta conferma storica della vulnerabilità del nemico e, di fronte alla terribile crisi oggi alle porte, il chetarsi dei teorici prezzolati del benessere eterno, alla Marcuse e C. Quello che ci interessa indagare è il reale svolgersi della crisi, con il suo intreccio fra le determinazioni economiche e le reazioni sociali. Marx indica il modo della ricerca negli appunti con queste parole: «I singoli momenti che convergono nelle crisi debbono manifestarsi e svilupparsi in ogni sfera dell’economia borghese, e quanto più indaghiamo in essa, da un lato dobbiamo sviluppare nuove determinazioni di questa contraddizione, dall’altro dimostrare le forme più astratte della medesima come ricorrenti e contenute nelle più concrete».

- Essenza più astratta delle crisi: antagonismo fra il duplice contenuto della merce elementare nella sua metamorfosi.
- Forma più concreta: separazione della vendita dal consumo effettivo per l’intermediazione del denaro, separazione temporale ed individuale dei due momenti.
- Manifestazione più evoluta: il credito commerciale che permette di separare gli atti complementari delle vendite e dei pagamenti.

Si introducono le categorie capitalistiche, sul mercato appaiono merci come forma della metamorfosi del capitale. L’antagonismo della merce è ora quello M-D-M, le merci prodotte devono poter soddisfare non solo la domanda per il consumo, ma essere idonee a ritrasformarsi in capitale, nella quantità e qualità richiesta dalla scala mutevole della riproduzione. Si contrappone non più il singolo artigiano al singolo consumatore, ma masse di capitali impiegati in un dato ramo produttivo con gli altri capitali differentemente occupati.

Meno astrattamente: l’antagonismo si media col denaro e si separa e viene temporaneamente dilazionato con l’ulteriore sviluppo del credito di capitali. E questa forma è già abbastanza concreta da poter spiegare le crisi commerciali derivanti dalla connessione nella catena dei pagamenti.

Per l’ulteriore approfondimento, dice Marx: «la crisi reale può essere rappresentata solo dal movimento reale della produzione capitalistica, dalla concorrenza e dal credito».

Queste ultime sono le “nuove determinazioni”, le “forme più concrete” delle crisi, segnatamente nella fase di dominio del capitale finanziario.

È impossibile prescindere dalla concorrenza che si fanno le gigantesche concentrazioni di capitali per la spartizione del mercato. Le continue oscillazioni dei corsi dei cambi internazionali non ne sono che una conseguenza. È in questo senso che deve andare la ricerca e la interpretazione dei dati rappresentanti il corso empirico del mondo del capitale.

* * *

Quello del pendolo è l’esempio più comune che la natura ci offre di moto periodico. Dalla massa sospesa si osservano variazioni periodiche di posizione, velocità, accelerazione. Il crescere e il decrescere delle diverse grandezze per alcune è concorde, per altre no. Quando la quota della massa sospesa è minima, è minima anche la sua accelerazione, ma n’è massima la velocità; quando la massa sospesa raggiunge la sua massima quota la velocità invece si annulla ma è massima l’accelerazione. Impossibile stabilire in modo assoluto dove trovasi la causa e dove l’effetto: quando la massa si abbassa è la quota che genera la velocità, quando risale dall’altro lato è la velocità che si trasforma in quota.

Ci si potrebbe domandare da che cosa il fenomeno abbia avuto innesco – la spinta iniziale – ma anche in mancanza di una risposta è possibile studiarlo per come si manifesta nel suo ripetersi. Scritte le equazioni dinamiche del pendolo potremo prevedere la sua posizione in un istante futuro ed anche i fenomeni che si manifesterebbero qualora un sopraggiunto ostacolo si frapponga all’avvicendarsi dei periodi oppure.

Sono ormai quasi 140 gli anni della storia economica nei quali è accertato il verificarsi di periodiche alternanze nell’insieme dell’economia capitalistica. Gli economisti borghesi hanno raccolto una immane massa di dati e da questi hanno tratto svariate leggi empiriche. Come chi, senza conoscere il rapporto esistente in natura tra forza ed accelerazione, si mettesse a registrare tempi e posizioni di una massa sospesa non è escluso che riesca a trovare il più probabile moto futuro di un pendolo, senza però prevedere il comportamento in situazione esterna solo leggermente diversa, così tutti questi tentativi “econometrici” possono contenere anche una parte della verità.

È comunque certo che, come un milione di osservazioni empiriche della coppia forza-velocità non vale certo la sola terza equazione della dinamica (peraltro mai verificabile in esperienza terrena), così ben lungi dalla portata di ogni scienza borghese sono i nostri teoremi generali sulla economia capitalistica.

Sono riportati su Problèmes Economique del 6 ottobre alcune di queste teorie. Ne esiste una, detta dei Cicli brevi, secondo la quale il periodo della fluttuazione durerebbe circa quattro anni e mezzo, dei quali due e mezzo di fase di sviluppo economico e due di recessione. Già avevamo riferito nel lavoro sulla crisi (vedi Il Partito Comunista nr. 25) l’esistenza di tale periodo nella produzione mondiale. Si sono osservate anche periodicità di circa 8 anni, ma l’osservazione che certo più si avvicina alla più grande previsione storica del marxismo è l’altra detta di Kondratieff il quale, forse senza alcuna simpatia per Trotzki né tantomeno per la Sinistra, scopre una periodicità di 50 anni fra le grandi depressioni che hanno colpito il capitalismo: 1873, 1929 e 1975.

È quindi a disposizione una grande quantità di osservazioni che dovranno essere utilizzate dal partito, che solo ha la chiave per interpretarle pienamente, cioè nel loro contenuto rivoluzionario.

Prima di affrontare l’analisi del corso degli ultimi cicli del capitale così come sono rappresentati dalle statistiche, fu illustrata alla riunione una rappresentazione schematica, simile a quella che abbiamo dato del modo del pendolo, della successione dei fenomeni che si susseguono durante i cicli industriali e dei rapporti di causalità.

Le descrizioni dei fenomeni interni al ciclo così come sono date da Marx in diverse pagine del Capitale ed in parte riprese da Hilferding nel capitolo sulle crisi sono qui raccolte, rappresentate in forma di grafico.

Fenomenologia del ciclo economico capitalistico
Fenomenologia del ciclo economico capitalistico





Il singolo riquadro rappresenta un evento (ad esempio “Vendite forzate”), o una tendenza (“Proletarizzazione”); le frecce il senso del rapporto, dalla causa all’effetto, come si determina in quel particolare momento del ciclo.

Dall’alto verso il basso il fluire del tempo: in alto i fenomeni tipici dell’inizio di un nuovo ciclo, la ripresa dell’accumulazione, poi, scendendo, la fase della euforia produttiva, quindi il crollo della crisi e, nella parte più in basso, la stagnazione che le succede.

Di regola quindi la direzione delle frecce causa-effetto è dall’alto in basso o, al più orizzontale.

In senso trasversale invece si è cercato di dividere, a scopo espositivo, i fenomeni relativi alle sfere della produzione al centro del grafico, quelli del mercato e in genere della distribuzione e consumo a sinistra, e quelli della finanza e del mercato dei capitali a destra. Ciò non toglie evidentemente che numerose frecce attraversino l’inesistente confine fra le tre “zone”. Anzi notiamo subito come la crisi sia determinata proprio da queste determinazioni incrociate.

Il quadro inizia (essendo un ciclo poteva iniziare in qualsiasi punto) all’indomani di una crisi generale: l’effetto principale di questa è indicato nel quadro: “Generali distruzioni della crisi”. Altri elementi che caratterizzano questo particolare momento nel quale il capitalismo, dopo aver messo a ferro e fuoco e saccheggiato il mondo intero si ripresenta alle folle martoriate ringiovanito, “ricostruendo” e “democratizzato”, sono il riaprirsi dei mercati già saturi o riservati ai precedenti monopoli. Inoltre durante la crisi si sono accantonate nuove invenzioni tecniche, si sono aperti alla produzione capitalistica rami nuovi oppure non ancora invasi dal macchinismo moderno. La domanda di mezzi di sussistenza, seppur ridotta, non cessa mai, come subito riprende la crescita della popolazione, presenta nel “Torna a crescere la domanda”, in questo momento necessariamente di beni di prima necessità.

Da questo quadro escono quattro frecce: tre a sinistra verso il mercato delle merci, una a destra verso il mercato del denaro. Una determina, in considerazione del fatto che “La produzione delle materie prime è per sua natura lenta a adeguarsi alla domanda”, un “aumento del prezzo delle materie prime”. L’altra determina la “crescita immediata dei prezzi dei beni di consumo”. Si ricordi – lo vedremo al termine del ciclo – che i prezzi delle merci partono in questo momento da livelli molto inferiori ai valori, nonostante il fenomeno possa essere mascherato da una galoppante inflazione.

Per motivi di spazio dobbiamo rimandare la dimostrazione statistica dei fenomeni che qui ci limitiamo ad enunciare.

La risollevata domanda permette al capitale di riprendere più speditamente la sua circolazione. La pace (ci rifacciamo all’esempio della congiuntura del dopoguerra), la rinnovata certezza dei capitalisti nel loro Stato e nei loro investimenti permette che possa ricominciare l’emissione e la circolazione di capitale creditizio. Rispetto al momento della crisi nel quale i mezzi di pagamento spariscono dal mercato, ciò fa sì che il capitale in questo momento appaia abbondante, i tesori e le merci tenute inattive durante la crisi improvvisamente si trasformano in capitale monetario anelante a trasformarsi in capitale produttivo, mentre nello stesso momento la domanda di credito è ancora molto limitata dalla limitatezza stessa della produzione e dalla ripresa di fiducia del credito fra commercianti e capitalisti. Sempre quindi il saggio è basso all’inizio del ciclo.

Alla riunione fu mostrato un grafico rappresentante l’andamento del tasso ufficiale di sconto per alcuni principali paesi sull’arco anche di un secolo, verificando immancabilmente il fenomeno.

Sul piano dei rapporti internazionali la cesura della crisi ha provveduto ad annullare il peso dei debiti e degli enormi interessi relativi con vere e proprie bancarotte di singole economie nazionali nei confronti delle vincitrici. Le svalutazioni sono di tale dimensione da far perdere completamente alle monete nazionali ogni valore. Come, con lo sviluppo della finanza, le concentrazioni non tendono più a far uscire dal mercato le imprese meno produttive ma preferiscono sottometterle ad aggregarle alla loro potenza, così nell’imperialismo i vinti non sono salassati da riparazioni, sono letteralmente invasi da merci e capitali dal paese vincitore, in questa fase prestati a basso saggio di interesse.

Sono tutte queste le premesse per una fase di “Espansione”. Questa è determinata dalla prima ripresa della domanda, dall’andamento dei prezzi in ascesa i quali, per la loro stessa tendenza a crescere permettono di ostacolare la caduta del saggio del profitto.

In questo momento del ciclo è particolarmente sensibile la sproporzione fra la pur bassa domanda e la ancor più bassa produzione: c’è sotto produzione e sotto consumo pur essendo la domanda industriale ai valori minimi assoluti. Questo spiega gli alti valori dell’inflazione nei primi anni del ciclo.

È tuttavia tipico del capitalismo insieme ad una schifosa sottoproduzione cronica di beni di consumo che condanna l’umanità lavoratrice ad una vita di stenti, una contemporanea sotto-produzione di mezzi di produzione rispetto a quello che sarebbero i bisogni di accumulazione del capitale: nelle fasi ascendenti del ciclo, per l’innaturale euforia e il modo improvviso con cui si manifesta, esiste sempre una domanda di mezzi di produzione insoddisfatta. Se riguarda le materie prime quella crescente domanda spinge ad utilizzare terreni e miniere meno fertili provocando una tendenza la rialzo dei prezzi (petrolio) ed inducendo il capitale a cercare con la forza di trasferirsi la rendita (imperialismo). Quando invece provoca una richiesta non soddisfacibile immediatamente di mezzi di produzione (i termini di consegna degli impianti sono sempre lunghi) provocano temporanei aumenti di prezzo e sovrapprofitti nei rami specializzati nella produzione di macchine.

Già Marx notava che la sostituzione del capitale fisso, in particolare, con lo sviluppo del macchinismo sempre più gigantesco, non avviene in modo uniforme lungo tutto il ciclo industriale (e non è un caso che così lo chiamasse). La sostituzione del capitale fisso incorporato nei grandi impianti, chimici, siderurgici ecc. si concentra nel momento dello svecchiamento generale del capitale tecnico esistente, all’inizio del ciclo quando sono a disposizione masse di capitale inutilizzato a basso saggio di interesse, necessario data la lunghissima durata degli ammortamenti. Ne esistono le possibilità tecniche per il passato accumularsi di scoperte ed invenzioni, e le possibilità economiche perché soltanto in questo momento del ciclo si aprono al capitale “nuovi orizzonti” di dominio sui mercati.

La “ricostruzione” marcia al massimo: è il momento delle grandi opere pubbliche, centri siderurgici, edilizia, autostrade. L’espandersi largamente di queste produzioni ha, nel quadro due uscite: una “Cresce il tempo di rotazione del capitale fisso” date le sue dimensioni gigantesche, e “Aumenta la composizione organica del capitale”. Queste due tendenze convergono nella “Caduta del saggio di profitto”. Tale tendenza coesiste nel quadro con l’opposta, come già visto, “Ostacolo alla caduta del saggio del profitto” altrimenti determinata. In questa fase del ciclo, con l’aiuto del costante aumento dei prezzi, queste due tendenze si possono anche compensare a vicenda.

Dall’ingigantirsi del capitale costante esce un’altra freccia “Aumenta le rigidità della offerta” nel senso che più un capitale può produrre solo con immobilizzi crescenti di capitale fisso, più sarà produttivo, ma contemporaneamente più sarà obbligato a una scala determinata della produzione. Fintano la produzione lo permette sopravvive alla piccola produzione ed alla industria domestica ma, per esso è molto più difficile adeguare l’offerta alla declinante domanda nei periodi di crisi. Il fenomeno gli è però favorevole quando la domanda dei prodotti della grande industria è in ascesa: si tratta temporaneamente di una situazione di monopolio per cui in questo momento “prezzi e profitti sono maggiorati nella grande industria”.

Siamo entrati nel girone della “Espansione” produttiva. Una volta innescato il processo si auto-alimenta senza misura né limiti sociali e umani. L’insieme dei fenomeni fra i quali gli effetti risultano a loro volta cause è graficamente rappresentato da un percorso chiuso con frecce tutte nello stesso senso: l’accrescimento delle singole grandezze si esalta l’un l’altra e precederebbe accelerando all’infinito se contemporaneamente non si modificasse ed intervenisse una condizione esterna al ciclo a bloccare anche uno solo dei suoi passaggi.

Il ciclo “Espansione” è qui così rappresentato, senza pretesa alcuna di assoluta completezza nei particolari.

La fiducia dei capitalisti nel poter felicemente concludere il ciclo produttivo, nonché la fame di plusvalore li spinge ad allargare la scala dell’accumulazione: cresce di conseguenza la domanda; 1) di materie prime; 2) di macchine; 3) di forza lavoro. L’aumento della domanda e dei prezzi nel settore che produce mezzi di produzione porta ad una notevole espansione. Tutta la produzione capitalistica nella sua folle corsa appare costantemente in ritardo, proiettata in un ebete futuro, in gara fra le diverse concentrazioni nazionali. Nel complesso ingigantisce la massa del profitto, anche perché, per l’introduzione di macchine più veloci e per la facilità degli scambi, aumenta il numero di rotazioni dello stesso capitale nell’anno. Questo benché il saggio del profitto decresca per l’accrescersi stesso del capitale costante.

Dei maggiori profitti parte incrementano il reddito delle classi non lavoratrici, parte (prima chiusura su se stesso del ciclo) torna ad allargare quella accumulazione della quale era stato prodotto. La espansione della produzione sia di beni di consumo sia di mezzi di produzione progressivamente riassorbe tutta la parte disponibile dell’esercito industriale di riserva (questo è stato raggiunto in Italia solo alla metà degli anni ’60). Diminuisce progressivamente la concorrenza fra sfruttati, le lotte difensive consentono una temporanea ma sensibile crescita dei salari al di sopra del minimo di sussistenza per alcuni strati di operai: insieme al consumo delle classi ricche cresce anche il consumo dei proletari.

Ma lo smercio allargato dei prodotti ultimi della industria, anche per la continua tensione dei prezzi che si rende possibile, a sua volta è condizione e stimolo dell’espandersi della produzione.

Ben presto, il saggio del profitto contraendosi, la massa monetaria, accantonata in periodo di crisi, non è più sufficiente per alimentare una produzione, dilatatesi ed obbligata, se vuole arrivare prima delle concorrenti, a prevedere e precorrere la domanda (specialmente nella produzione di macchine). È indispensabile il ricorso al credito, in misura crescente via via che ci si inoltra nel ciclo. Infatti sia per l’andamento dei prezzi, sia per forzare la domanda di chi non possiede contanti, si gonfia il credito commerciale. D’altra parte la necessaria insufficienza o saturazione del mercato nazionale spinge i commerci sempre più lontano prolungando il tempo di circolazione del capitale e quindi l’ammontare complessivo degli immobilizzi.

Quando il saggio di interesse è basso aumenta la domanda dei titoli in borsa; all’inizio del ciclo quando sono particolarmente fondate le speranze di lunghi e consistenti redditi, le quotazione sono al massimo. La speculazione di borsa che ne consegue costituisce una ulteriore sottrazione di capitale monetario.

Nel corso del ciclo quindi il saggio di interesse deve crescere, anche a prescindere dalla svalutazione della moneta. Il denaro è sempre più caro benché il tasso del profitto sia sempre calante. Si arriva ad un punto nel quale il profitto realizzato in una impresa non è nemmeno sufficiente ad alimentare la accumulazione così come è imposta dalle necessità tecniche e dalla concorrenza. Le possibilità i “autofinanziamento”, come di dice, si riducono, il capitale della industria diventa, in proporzioni crescenti, di proprietà delle banche (imperialismo); una parte maggiore del profitto si deve convertire in interesse, per il capitalista monetario, il vero e proprio profitto industriale si riduce quindi per due cause concomitanti.

(Un bollettino di una banca tedesca afferma che dal 1972 al 1975 la parte che le società industriali americane si procuravano sotto forma di prestiti è passato dal 75% al 90%).

Quando il tasso di interesse raggiunge e supera il tasso del profitto l’impresa impreditorialmente lavora in perdita, lavora solo per la banca. È impossibile la presenza del personaggio del capitalista (nel senso dell’autonomo centro di accumulazione), occorre il direttore stipendiato. Di fatto è l’unione banca-industria, per quanto riguarda la ripartizione del plusvalore, dapprima, anche nella distribuzione delle risorse finanziarie e materiali, e della distribuzione dei prodotti poi.

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Interrotta nel numero precedente riprendiamo la descrizione dei processi tipici dei cicli industriali del capitale. In questo numero abbiamo trovato lo spazio per pubblicare lo schema simbolico la cui descrizione è in parte nel numero scorso.

Il passaggio dalla fase “espansione produttiva” a quella della recessione e crisi è mediata, nel quadro, dal fenomeno “la dimensione del mercato cresce più lentamente della scala della produzione”. Le determinazioni di tale fenomeno, vera dannazione del capitalismo, qui possono essere soltanto riassunte nell’effetto contrastante dell’aumento della produttività del lavoro sommato alla sempre più estesa “proletarizzazione”, da un lato, nella caduta del saggio del profitto dall’altro.

Tranne che nei momenti susseguenti una crisi paralizzante l’apparato produttivo è dimostrato che, anche se sussiste ancora una domanda di nuovi mezzi di produzione, la richiesta solvibile di mezzi di consumi immediati per la società cresce con velocità necessariamente inferiore rispetto al continuo gonfiarsi del capitale costante. Basti aprire un bollettino statistico di qualsiasi paese capitalistico e la verifica salta agli occhi: il ritmo di incremento dei consumi non è uguale, per esempio, a quello dell’acciaio. La realtà è che masse sempre maggiori di uomini tirano avanti al limite esatto della sopravvivenza.

La parte inferiore del quadro rappresenta il periodo della crisi. In esso vi si riconosciuto quattro distinti “vortici”, così abbiamo cercato di schematizzare i fenomeni di questo momento. Primo circuito ovvero la crisi monetaria. Via via che l’economia si approssima alla crisi cresce quella parte del prodotto che si accumula invenduta e dapprima incombe soltanto come minaccia sul livello dei prezzi. Il restringersi del mercato con i primi segni di difficoltà nella collocazione delle merci e la notizia dei primi mancati pagamenti degli effetti emessi dai commercianti privati provoca difficoltà dei pagamenti nel senso che, a causa della fittamente connessa rete di relazioni creditizie, un ritardo nel pagamento anche soltanto in alcuni punti si propaga a tutto il sistema, se non altro per lo svanire della fiducia dei creditori. Se il fenomeno perdura presto il credito fiduciario emesso da chi compra non è più accettato, “svanisce il capitale creditizio” i venditori pretendono il pagamento a più corto termine o addirittura in contanti. La circolazione in questo momento chiede denaro, l’insicurezza sul domani toglie ogni credito all’emissione privata; massiccio allora è allora il ricorso a titoli più garantiti, banconote e credito bancario. Ulteriore abbassarsi delle percentuali di “autofinanziamento”, ulteriore forte “spinta in alto del tasso d’interesse”.

Marx tiene a distinguere nettamente questa domanda monetaria dalla precedente domanda di capitale: a misura che la crisi si aggrava il ricorso alle banche sempre meno è motivato dal desiderio di allargare l’accumulazione per il futuro, sempre più dal bisogno impellente di pagare transazioni già passate, venute a scadenza. Così si spiega il contemporaneo alto tasso di interesse e la cosiddetta “pletora di capitale”: quando il capitale si ferma, la moneta deve correre. In sintesi abbiamo scritto “tutti vogliono vendere (i commercianti e gli ex-capitalisti), nessuno vuol comprare”. Per procurarsi i mezzi di pagamento liquidi gli industriali ed i commercianti sono costretti pena il fallimento a “vendite forzate”. Si mettono in vendita merci che il mercato non chiede (cioè non può pagare): la innaturale, intempestiva vendita rappresenta il sacrificio del valore di immense masse di merci sull’altare del denaro: pur di trasformare in denaro il valore delle merci si accetta qualsiasi prezzo, “solo il denaro è valore”.

La crisi creditizia converge quindi nel “crollo dei prezzi”. Fino ad oggi, 1977, questo evento non si è verificato, ma neppure, per ora, si è giunti ad un vero e proprio collasso del credito. Sul piano internazionale le sfasature temporali delle recessioni, ancora permettono cospicui trasferimenti d’oro e di altri mezzi pagamenti tali da poter rimandare il fallimento di certe economie sul mercato mondiale.

Il ciclo della crisi creditizia quindi ancora non si può chiudere attraverso i “fallimenti” provocati dalla deflazione con l’ulteriore protesto di cambiali.

Connessa alla crisi creditizia qui appare la crisi monetaria. Il suo meccanismo si è così schematizzato: l’aumento della concorrenza internazionale causa nei paesi più deboli un crescente deficit commerciale; quando le obbligazioni che ne derivano vengono a scadenza, sia che i pagamenti vengano regolati immediatamente in oro, sia che il metallo sia offerto come garanzia di nuovi prestiti, necessariamente deve diminuire il tesoro delle banche centrali. Contemporaneamente i governi sono spinti, dalle crescenti richieste di mezzi di pagamento e per frenare il tasso di interesse, ad emettere carta moneta senza alcuna corrispondenza con il valore dei loro tesori. È la premessa per una svalutazione monetaria non appena si contragga la massa dei mezzi di circolazione necessaria ed effettivamente richiesta dal mercato. Dopo che si sono deprezzate le merci è la volta della carta moneta che si dissolve nelle mani del borghese, tutti i suoi idoli eterni sono crollati e solo nel vecchio metallo giallo trova rifugio per la sua ricchezza. Ma attendere di convertire tutti i segni di valore in circolazione e tesaurizzati dalla società improvvisamente in oro è all’evidenza impossibile.

Nel settore “finanziario” del quadro è accennato il fenomeno principale delle crisi di borsa. L’aumento del saggio di interesse, contemporaneamente ad un declino della fiducia degli speculatori, produce una tendenza ad un “rientro” nel più sicuro investimento indiretto di tutti gli ardimentosi che in tempi grassi si erano avventurati nel gioco di borsa. Le vendite si affermano sugli acquisti i corsi azionari crollano. Questo, benché molto vistoso per il numero dei “piccoli risparmiatori” che coinvolge, ha un riflesso non immediato sulla produzione in quanto, al momento del crollo, i capitali rappresentati dalle azioni, sono stati già versati (all’atto della loro emissione) e messi in funzione; ciò che effettivamente crolla sono le speranze di facile arricchimento della piccola borghesia. Sono, però i pesci grossi a tirare la rete in questo momento, specialmente le grandi banche che rastrellano a basso costo titoli industriali.

Tutta la manovra puzza di catastrofe alla massa degli investitori, e precipitandosi a vendere, non fa altro che buttarsi nelle braccia del monopolio finanziario.

Resta infine la vera e propria crisi di sovraproduzione, come si manifesta nella riproduzione del capitale industriale. Anche per questa l’innesco più generale proviene dalla diminuzione relativa del consumo sociale. L’aumento delle scorte di merci invendute esaspera la concorrenza fra le imprese. La riduzione dei prezzi annulla tutti i margini, tutti i sovrapprofitti del periodo di prosperità. Nella sfera della produzione sopravvivono solo le aziende più produttive, quelle che maggiormente sfruttano la forza lavoro, compensando la diminuzione del tasso del profitto con un innalzarsi del tasso del plusvalore. È quello che sta succedendo nella fase attualmente attraversata dalla crisi: il numero degli operai occupati diminuisce, mentre il valore prodotto aumenta. Prima a fare le spese della crisi è la classe operaia. In un momento come questo, ricorrere a nuovi investimenti per salvare le imprese capitalistiche, come propone il PCI ai padroni, significa ignorare nel modo più totale la natura e le cause della crisi economica; eppure non è difficile conoscerle, basta non esser legati a doppio filo al carro (e alla borsa) del capitale! Lo abbiamo sempre scritto: la borghesia e i suoi teorici possono arrivare a rappresentarsi l’economia progressiva ed a cercare di pianificarla, non certo la forzata decapitalizzazione economica. E, loro malgrado, hanno ragione, la macchina produttiva borghese non si “decapitalizza” con un piano economico, si distrugge, previo ripulisti di opportunisti, economisti, ecc.

Infatti “l’ammodernamento degli impianti”, in generale, non è di questo momento, in questo momento riappare il lavoro nero, i tripli turni, la velocità delle macchine spinte oltre i limiti di sicurezza, si moltiplicano gli infortuni sul lavoro, le riduzioni di personale.

La crisi è una barbarie nella quale il capitalismo periodicamente precipita. Per il proletariato significa lavori forzati negli Ateliers nationaux, oggi leggi contro la disoccupazione giovanile. È un regresso per tutta la società, anche se, per alcuni aspetti dello sfrenato consumismo, il ritorno indietro può sembrare un sollievo. Lo stesso ritorno all’uso dell’oro, seppure tendenziale, non è forse un ripiegamento su forme arcaiche ormai abbandonate da secoli? Lo stesso per il lavoro domestico ed il lavoro nero, il fare a mano ciò che sarebbe già possibile fare a macchina. Le imprese meno agguerrite escono di scena, parte del capitale si ritira dalla produzione, non vi trova posto, abbiamo scritto “distruzione e deprezzamento del capitale”. Le aziende sopravissute sono caratterizzate da un più basso saggio del profitto, “il profitto si abbassa”. Ora è la concorrenza che riduce i profitti, quindi, con la ripresa produttiva, saranno i nuovi investimenti in capitale costante che manterranno basso il saggio del profitto.

Il ridotto saggio medio sociale del profitto respinge i nuovi investimenti di capitale, l’accumulazione si riduce al minimo. Ne consegue “disoccupazione crescente”, la concorrenza esasperata fra operai, diminuzione dei salari. La massa sociale dei salari si riduce quindi per un doppio motivo. Ma anche le rendite delle classi nullafacenti si contraggono per il diminuito tasso del profitto e per la lentezza dell’accumulazione. Diminuiscono tutti i consumi, sia dei proletari sia delle mezze classi sia il consumo produttivo delle industrie; la diminuzione dei prezzi viene ancora ad accentuarsi. Il prezzo delle materie prime, qualunque ne sia la provenienza, deve contrarsi, sia per la diminuita domanda, sia per l’abbandono delle peggiori miniere. Tendono quindi a specializzarsi nella produzione di determinate materie quei paesi che le producono a prezzo più basso, mentre per l’imperialismo s’impone il controllo politico sui loro governi.

Sappiamo che nel dominio del capitale tutti gli investimenti di valore, anche nei rami non produttivi, anche se investiti non in mezzi di produzione, per induzione ricevono lo stesso compenso che loro spetterebbe qualora investiti realmente come capitale. È così che in questo momento della crisi, quando il saggio del profitto industriale crolla, anche l’investimento fondiario ed il capitale commerciale ricevono un’uguale diminuzione di profitto. Come effetto non immediato questo porta alla concentrazione anche della proprietà della terra e del sistema della distribuzione. Le premesse oggettive per la ripresa sono quindi già prodotte dalle distruzioni della crisi.

Se il proletariato nemmeno stavolta saprà interrompere questo ciclo demente – come invece auguriamo che succeda – le determinazioni finali del quadro non sono che l’avvio di un suo nuovo svolgimento. Spetta alla rivoluzione mondiale evitare alla umanità ch’esso si ripeta ancora una volta.