Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
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"Il Partito Comunista"- n. 272 - dicembre 1999 - [.pdf]


PAGINA 1  – Fallimento WTO - IL COMMERCIO PORTA LA GUERRA NON LA PACE
                             – AFFONDANO NEL CAUSACOI DENTI DEGLI IMPERIALISMI
                             – Glass-Steagall Act - 1933-1999 - APRIRE LA STALLA PRIMA CHE LE VACCHE SIANO SCAPPATE

PAGINA 2  – YEN E DOLLARO NELLA MORSA DELLA SOVRAPPRODUZIONE

PAGINA 3  – OPERAI E CONTADINI OGGI IN RUSSIA
                             – LE ETERNE TRATTIVE DI "PACE" IN MEDIO ORIENTE
                                                                                       ALIBI PER LO SFRUTTAMETO DEL PROLETARIATO
                             – DOVEROSA PREMESSA

PAGINA 4  – ULTERIORE INCAROGNIMENTO NELLA POLITICA CONFEDERALE
                           – FERROVIERI IN SCIOPERO CONTRO UN CONTRATTO AL RIBASSO
                           – CONTINUA LA RECITA DELLE PARTI - Manifesto affisso dal partito
 
 
 
 
 
 
 



Prima pagina

Fallimento WTO
IL COMMERCIO PORTA LA GUERRA NON LA PACE

«Gli Stati Uniti fanno i conti con una sconfitta politico-diplomatica che non ha precedenti» con queste parole "L’Unità" del 6 dicembre, commentava a caldo il fallimento del III incontro interministeriale dell’Organizzazione Internazionale del Commercio (WTO) che si è svolto a Seattle, negli Stati Uniti ai primi di dicembre.

Sempre secondo il commento sarebbe stata la «fretta e l’arroganza» nella preparazione del vertice a condannarlo al fallimento: «Washington è stato frustrato nel tentativo di imporre all’Europa l’eliminazione progressiva dei sussidi agricoli, di vincolare i paesi in via di sviluppo al rispetto di norme standard di lavoro, di dare via libera al commercio di prodotti geneticamente modificati, di impedire un giudizio internazionale sulle pratiche anti-dumping». L’opinione è tanto più significativa perché proviene da un giornale campione di "tartuferia". Ma anche la Francia non ha nascosto una certa soddisfazione: «Meglio nessun accordo che un cattivo accordo», pare abbia commentato Jospin.

La clamorosa rottura tra i rappresentanti dei massimi blocchi imperialisti, Stati Uniti, Europa, Giappone, su questioni fondamentali per le loro economie, conferma che le contraddizioni derivanti da un’acculumazione stagnante a livello mondiale e che, nonostante tutti gli sforzi, non si riesce a rilanciare, stanno facendosi sempre più profonde aprendo le premesse di uno scontro sempre più aperto che, in mancanza di una ripresa rivoluzionaria, non potrà che sfociare in una nuova guerra mondiale. Che il commercio porta alla guerra e non alla pace è vecchia tesi marxista.

Il vertice era nato, come sempre in queste occasioni, all’insegna dell’ipocrisia politica: nella realtà ogni blocco economico vuole imporre agli altri l’apertura incondizionata delle frontiere per i propri prodotti ma, nello stesso tempo, cerca con ogni mezzo di proteggere, con vari escamotages, i settori deboli della propria economia; ogni blocco è "liberista" e insieme "protezionista"; le trattative non sono una questione di "diritto", di "regole" più o meno democraticamente decise di comune accordo, come vorrebbe far credere la propaganda borghese, ma scaturiscono dai rapporti di forza, che è fondata sulla economia ma si esprime anche come potenza militare.

Gli Stati Uniti, ad esempio, per bocca dello stesso Clinton che ha fatto sue le richieste dei sindacati, pretendono di imporre, in maniera strumentale, ai paesi economicamente più arretrati il rispetto di alcune regole sul lavoro delle donne e dei bambini. Ma sono gli Stati Uniti per primi a non rispettare queste regole; le multinazionali statunitensi spostano le loro industrie a bassa composizione organica nel Terzo Mondo proprio per sfruttare manodopera a bassissimo costo. D’altronde lo sfruttamento a sangue del lavoro di uomini, donne e bambini è uno dei pochi strumenti che hanno le borghesie dei paesi arretrati per rendere i loro prodotti concorrenziali sul mercato. Agli Stati Uniti non interessano, naturalmente, le condizioni dei lavoratori, ma vogliono disporre di uno strumento legale per bloccare certe merci concorrenziali con quelle nazionali.

Questa volta le borghesie dei paesi poveri, illudendosi di trovare appoggio in Europa e Giappone, che tentavano di evitare una sanzione delle loro sovvenzioni all’agricoltura, si sono rifiutati di firmare ogni accordo, adducendo che sono stati escluse, come di fatto è stato, da ogni trattativa.

Il vertice si è così chiuso con un nulla di fatto mentre ancora nelle strade fumavano i lacrimogeni sparati dalla polizia per allontanare migliaia di manifestanti, «conservatori e liberals, attivisti sindacali, ambientalisti, cittadini, chiese, organizzazioni di contadini», come riferiscono le cronache. Sono questi certo espressione di un crescente malessere e insicurezza che attraversa classi e ceti e che, in assenza di un movimento robustamente classista del proletariato, può assumere atteggiamenti illusori e anche reazionari. Un miscuglio dal quale la classe operaia si deve separare per non prestarsi a fare il gioco del nazionalismo economico e delle prossime politiche isolazioniste, per niente superate né incompatibili con la mondializzazione di oggi, e di sempre, della società borghese.

Il presidente del WTO, per difendersi dalle critiche dei manifestanti, ha dichiarato «Il WTO non è un governo mondiale né intende diventarlo. Non è il WTO che uccide le tartarughe o fa lavorare i bambini in fabbrica: la globalizzazione c’è, quello che vogliamo è che abbia delle regole». Non ha torto il superstipendiato burocrate; la ossessiva necessità di vendere, di vendere qualsiasi cosa possa diventare una merce, di vendere sempre di più è solo una conseguenza dell’aver prodotto sempre di più ed accumulato il Capitale sempre maggiori profitti in una spirale infernale. Non è no una necessità imposta dal WTO, è una necessità del regime del Capitale; è questo regime che impone lo sfruttamento bestiale della manodopera; è questo regime che condanna l’umanità ad un demente consumo perché ha già follemente prodotto. Globalizzato o protezionista, a seconda delle cicliche necessità dell’accumulazione, il capitalismo resta fondato sulla torchiatura di cinque miliardi di proletari, di senza riserve. Anche quando non sono ridotti alla fame, tanto più consumano tanto più sono schiavi e vittime di questo regime.

Non sono le regole del WTO che vanno riformate, non è la sua struttura da rendere più democratica, come pretendono i contestatori di Seattle. È la società del Capitale, affamatore e guerrafondaio che va abbattuta.
 
 
 


AFFONDANO NEL CAUSACO
I DENTI DEGLI IMPERIALISMI

Da tempo le truppe della Cecenia operavano in Daghestan. L’esercito russo sferra un attacco verso Grozny, capitale della Cecenia. La longa manus degli Stati Uniti, anche attraverso gli ascari NATO, vuole imporre la pax americana nella zona.

Il Caucaso, la Transcaucasia, che siano in Europa o in Asia (e qui si sfilaccia ogni definizione di continente), sono il luogo dell’arenamento dell’arca di Noè, nella quale, come è noto, entravano due esemplari alla volta. Qui si confrontano due esemplari di imperialismo, quello russo, assai in disordine ma non del tutto sconfitto, e quello americano che già si interroga sulle proprie possibilità. La Russia già umiliata per la causa serba, ultimo risveglio del pan-slavismo, si allea con la Cina, vecchio nemico, che non vuole avere problemi con i propri popoli turchi (Kalmuchi, Mongoli e Manchu), e con la Grecia, che non vuole avere problemi con la Turchia. Come piattaforma di partenza la Russia ha scelto l’Armenia, attrezzandone le basi con i Mig-29 e gli S-300 da difesa aerea, e forse utilizzando la Cina come tramite di fornitura.

Sul versante Usa-Nato si è formata una "libera alleanza", il GUUAM, cioè Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian e Moldava, sotto tutela della Turchia, piattaforma americana nella zona. Il GUUAM (che fa ricordare la piattaforma GUAM, un’isola, base dei bombardieri B-52 nel Pacifico) rappresenta la zona più colpita dal crollo dell’URSS. I paesi GUUAM quest’anno (stima EBRD) avranno un PIL inferiore del 50% a quello di 10 anni fa, annus sanctus del crollo del muro di Berlino; si salva solo l’Uzbekistan con un 90%. L’Armenia, che sta altrettanto male, si è invece alleata con l’Iran, che non gode di buona salute neanche lui.

Ma torniamo a Noè: fuori dall’arca sono rimasti in tanti, investiti dai flutti della trasformazione della zona dove i pesci grossi addentano i piccoli paesi, difficilmente reperibili anche su un buon atlante geografico. Nel Caucaso europeo si parlano ben 16 lingue, oltre a russo e greco, di origine indo-europea (slavo, ellenico e indo-iraniano, altaico, turco e mongolo, caucasico). Le religioni sono ortodossa, armeno-cristiana, buddista e musulmana. Alla formazione dell’URSS furono accettate ben 10 nazionalità più 3 minoranze in Georgia e Daghestan. Quest’ultimo gioisce della presenza di 36 etnie diverse. Questi staterelli esistenti o non ancora, hanno una popolazione da regione italiana: Georgia 5,5 milioni, Armenia 3,75, Azerbaigian 7,5. Anche sull’altra riva del Mar Caspio, sommando le popolazioni delle 5 repubbliche arriviamo a soli 52,5 milioni di abitanti, cioè più o meno come la Francia. Nessuno si occuperebbe di questi Stati nani, come nessuno penserebbe a quelli ancora più piccoli del Golfo d’Arabia, se non fosse per la grande quantità di greggio che possiedono e che l’imperialismo americano vuole ad ogni costo immettere sul mercato mondiale, e questo anche di più dopo il ricompattamento dell’OPEC e le ultime furbizie del Gran Califfo di Bagdad (blocco delle esportazioni).

L’Occidente entra nella zona per garantire i flussi del greggio con i vari progetti di nuovi oleodotti e gasdotti, che non possono che imperniarsi sulla Turchia, sia per la sua posizione geografica, sia per la sua potenzialità pan-turca, che i miopi borghesi dell’Unione europea, respingendo di fatto la sua richiesta di entrare nella combutta dell’imperialismo euro-occidentale e mettendola in coda dopo ben 11 altri paesi (tutta l’Europa orientale più Malta e Cipro), consegnano non solo ai sogni pan-turchi, ma nelle mani degli Stati Uniti. E con ciò l’Europa, in senso lato, si sbriciola ad oriente.

Alla Turchia, per parafrasare Blanqui nel suo "chi ha del ferro, ha del pane" (frase regolarmente rubata da Mussolini come tante altre cose del socialismo), si può applicare il motto "chi ha del greggio ha dell’acqua", in quanto la sua posizione di controllo sui fiumi Tigri ed Eufrate le dà la supremazia sull’Iraq e sulla Siria. E il rapporto sempre più stretto con Israele, altro padrone delle acque (del Giordano) nonché inquieto alleato americano, estende il gioco a tutto il Medio oriente, visto che anche l’Egitto, ultimo padrone delle acque (del Nilo) ed ennesima base americana, rifiuta di darne una sola goccia all’estero e funge da lacchè degli USA.

Se la guerra nel Caucaso è per il petrolio, il conflitto, come è stato detto molte volte, nel Medio oriente sarà per l’acqua. Un tempo, durante le tempeste, le navi buttavano olio sulle acque rabbiose per calmarle. Le navi americane che corrono i mari della zona non temono di queste tempeste: se va a picco l’Europa dalla poppa del Caucaso invece che dalla prua dell’UE e della sua monetina, l’Euro, non fa molta differenza, a 5 mila km di distanza non fa onda.

Solo altre forze scaturite dall’industrializzazione — il proletariato rivoluzionario — potranno farlo.
 
 
 
 


Glass-Steagall Act — 1933-1999
APRIRE LA STALLA
PRIMA CHE LE VACCHE SIANO SCAPPATE

Alla fine dell’anno, con un’ultima operazione di riforma del sistema finanziario americano, giunge a conclusione il processo iniziato negli anni ’70 di smantellamento dell’apparato di leggi del 1933 che avevano separato in compartimenti i diversi intermediari finanziari: chi prestava il denaro da chi lo prendeva a prestito.

Forti espansioni della finanza internazionale si erano avute nei due decenni precedenti la prima guerra mondiale e negli anni ’20, fino al 1929. Tra il 1929 e il 1932, anni della Grande Depressione, negli Stati Uniti 5.096 banche su 24.000 fallirono e la catena dei fallimenti divenne un meraviglioso veicolo di trasmissione della crisi.

Siccome i borghesi hanno sempre negato che la sovrapproduzione inevitabilmente si generi e che le crisi siano fenomeni ciclici necessari nel processo di riproduzione del Capitale, la colpa della grande crisi venne senz’altro attribuita al credito incontrollato, che certamente aveva alimentato la speculazione borsistica e immobiliare, per l’assenza di barriere nel sistema creditizio, che in effetti avrebbero potuto rallentare la trasmissione della crisi fra le banche. Nel 1933 quindi il Congresso americano approvò il Glass-Steagall Act, che veniva ad inquadrare rigidamente le attività bancarie e a separare queste dalle attività di intermediazione in titoli e di assicurazione.

Da allora fu scritta un’intera biblioteca di testi di economisti borghesi per lodare tale linea politica — presto adottata in tutti i paesi, democratici, nazi-fascisti e stalinisti — che, si diceva, avrebbe sancito il ruolo di uno Stato super partes atto ad impedire gli eccessi del Capitale. Si pontificò, di conseguenza, che il Capitale, infine "controllato" in così saggia tutela, avrebbe per sempre evitato le sue catastrofiche crisi e recessioni. Questo si insegnò, dalla "destra" alla "sinistra" sessantottina, con ovvii corollari controrivoluzionari, fino alla... crisi planetaria del 1975!

Nell’ultimo quarto del secolo che ai frastornati contemporanei ha dato i natali il mercato mondiale dei capitali si è enormemente sviluppato, travolgendo ogni barriera e coinvolgendo masse sempre maggiori di capitali monetari.

Il rallentamento della crescita relativa del capitale, succeduto alla precedente trentennale espansione alimentata dalle distruzioni della Seconda Guerra, ha determinato lo sviluppo del mercato finanziario internazionale secondo questi meccanismi: 1) accelerato movimento di capitali dai vecchi industrialismi in declino ai giovani del Sud e dell’Est del Mondo, a loro volta generatori di instabilità; 2) ricerca di nuovi mercati e sviluppo del commercio internazionale e delle grandi imprese che producïno e vendono in ogni paese; 3) fine del sistema dei cambi fissi, provocata dall’indebolimento dell’egemonia economica del capitalismo americano, quindi passaggio ai cambi fluttuanti, occasione di buoni affari per le banche commercianti in valute e per gli speculatori monetari; 4) enorme massa di debiti degli Stati in cerca di finanziatori in tutto il pianeta.

Questo trafficare, in cui operano diversi intermediari finanziari, è un mercato sui generis dove si tratta una merce sui generis: i capitalisti monetari vi cedono per un certo periodo il valore d’uso del denaro, come capitale alle imprese industriali e commerciali, ma anche come anticipazione di entrate fiscali allo Stato e sempre più come anticipazione di salari futuri al lavoratore-consumatore tramite il credito al consumo. Vengono così a sostenere un capitalismo decrepito e a dare sfogo alla sovrapproduzione. Le Borse, dove si trattano i titoli di credito già in circolazione, sono solo appendici di questo mercato.

In questo insieme di intermediazione finanziaria le banche hanno, ed avranno in futuro, un ruolo insostituibile per il capitalismo: nei capitalismi maturi l’80-90% della moneta disponibile per la circolazione delle merci e dei titoli è costituita dalla moneta scritta (con tecniche antiche o moderne la sostanza non cambia) nei conti delle banche.

Oggi le banche americane, costrette dalla concorrenza, non possono rimanere indietro rispetto a quelle che non hanno più o non hanno mai avuto i vincoli che l’amara lezione della Grande Crisi consigliò di apporre. La necessità di accorciare le operazioni tecniche della circolazione di una massa crescente di capitali finanziari ha reso più acuta la concorrenza fra i diversi tipi delle stesse banche americane, e fra queste e quelle degli altri paesi, fra la piazza finanziaria mondiale principale di New York e quelle di Londra, Tokio, Francoforte, ecc. o dei "paradisi fiscali", spingendo lo Stato americano ad eliminare le misure di controllo del sistema finanziario stabilite dopo il 1929. La forte concorrenza, beninteso, non si genera — né può essere disciplinata — nel sistema finanziario, ma dipende dal fatto che l’interesse bancario è solo una detrazione dal profitto industriale, il cui saggio, per determinazione economica storica di fondo, da trenta anni scende inesorabilmente.

La follemente esponenziale produzione capitalistica è oggi drogata da una grande espansione del credito, fra capitalisti individuali e fra centri nazionali, prima fra tutte quella del credito concesso dagli altri capitalismi al centro di stabilità del capitalismo mondiale, quello americano. Le borse sono in piena euforia, speculando con fede su una crescita futura dei profitti e sulla vita eterna del capitalismo. I titoli superquotati sono base di nuovo credito.

I capitalisti debitori e creditori si scambiano ipoteche sul plusvalore nascituro, la cui creazione e realizzazione richiede nuovo credito. La sola salvezza del capitale, quella di continuare a drogare la produzione, coincide con la sua rovina. Che sia definitiva è compito della Rivoluzione del Proletariato e del suo Partito.

Ecco perché alla fine di questo troppo illuso e disilluso ’900 il sistema finanziario è tornato ad essere libero da vincoli. In base ai recenti deliberati del Congresso americano i vari tipi di banche, le società per l’investimento o il commercio di titoli fruttiferi, le compagnie di assicurazione non dovranno più, per legge, avere ragione sociale distinta e potranno con controlli ridotti svolgere le funzioni di raccogliere depositi, concedere prestiti per tutti i tipi di finanziamento, eseguire pagamenti fra i conti di deposito, comprare e vendere titoli, operare sui mercati valutari, concedere mutui edilizi, vendere polizze assicurative e prestare come capitale che rende interesse il denaro versato da chi ha comprato le promesse di previdenza, fare consulenza finanziaria e da sensale nella centralizzazione del capitale con acquisizioni e fusioni di imprese. Ciò con filiali in tutti gli Stati dell’Unione.

Insomma, se nel 1933, alla fine della Crisi, i borghesi si dettero a chiudere le stalle dopo che le classiche vacche ne erano scappate, oggi, per il terrificante maturare, qualitativo e quantitativo, della universale crisi di sovrapproduzione, sono costretti — di essa sacerdoti — ad aprire quelle porte in anticipo sul deflagrare della distruttiva deflazione. In questo colossale auto-sbugiardamento è da leggersi, oltre che una vittoria della teoria marxista che previde allora l’impotenza di allora e di oggi, un fallimento delle misure difensive del regime capitalista contro se stesso, una conferma della incapacità degli stessi borghesi e delle loro armatissime istituzioni di imbrigliare le forze infernali che prorompono da sottosuolo dei rapporti di produzioni fondati sul mercato, il capitale e il lavoro salariato. Quelle forze si tradurranno presto — e finalmente — nella rovina dei vilissimi ceti medi col dileguarsi dei loro meschini risparmi. In questa salutare distruzione degli idoli le premesse del realizzarsi delle nostre ipotesi.
 
 
 
 
 
 
 


Pagina 2

YEN E DOLLARO
NELLA MORSA DELLA SOVRAPPRODUZIONE

Il contesto strutturale

Le indicazioni di una ripresa dell’accumulazione, dopo il rallentamento del ’98 e dei primi mesi del ’99 che avevamo constatato alla fine della primavera, si sono confermate. È un movimento che riguarda il Nord America, l’Europa e l’Asia e interessa anche Giappone e Russia dopo lunghissime crisi; in America Latina si ha ancora contrazione della produzione, ma con velocità che si riduce.

Questi segni di ripresa della crescita relativa non esprimono grande forza. Gli incrementi relativi sui mesi dell’anno precedente, pur riferendosi a valori iniziali bassi, sono spesso modesti e in diversi casi si tratta solo di fasi di recupero di livelli di produzione persi con la crisi. I giovani capitalismi asiatici stanno per riprendere i valori di produzione precedenti la crisi del ’97/98. Il recupero delle posizioni precedenti in Giappone riguarda una contrazione profonda ed è lungi dall’essere terminato. In Russia la produzione industriale è soltanto in fondo alla crisi, gli incrementi relativi da alcuni mesi sono elevati, ma riguardano masse di produzione che sono la metà di quelle precedenti la crisi. In Germania ed in Europa la fase di recupero, dopo la recessione dei primi anni ’90 e la lunga stagnazione, è appena terminata e il saggio di accumulazione di capitale è debole, nonostante si tratti di una fase iniziale di espansione.

Negli Stati Uniti la lunga espansione della produzione industriale continua da 8 anni con una crescita media robusta: nel ciclo in corso, che parte dal massimo della produzione prima della crisi del 1991, l’incremento relativo medio è del 3,3%. Nel periodo non breve che dal massimo raggiunto prima della crisi del ’75 va fino al ’98 compreso, di 23 anni, l’incremento relativo medio della produzione industriale americana è del 2,6%. Quindi in questi anni ’90 con quel 3,3% sono stati forzati i limiti del capitalismo senile americano, grazie anche a una grande espansione del credito con finanziamenti sia interni sia esteri e a tanta euforia per la ricchezza fittizia di borsa.

In Cina la crescita della produzione industriale, seppure ridimensionata rispetto ai grandi livelli degli anni precedenti, prosegue elevata. Ma è sostenuta da una grande spesa statale. Un prolungato calo dei prezzi, che significa anche svalutazione reale della moneta a cambio fisso, segnala sovrapproduzione per il mercato interno ed estero.

I movimenti dei prezzi alla produzione nelle maggiori potenze e di quelli delle materie prime, che restano sotto i massimi recenti, confermano che la ripresa della crescita non ha molto vigore e che la tendenza di fondo resta quella di cronica sovrapproduzione.

I recenti segni di ripresa della crescita non modificano il carattere del decennio che sta per concludersi. Gli anni novanta rendono più evidente la tendenza generale di lungo periodo avviatasi con la crisi del ’75, che è di calo dell’incremento relativo del capitale. Le crisi che dal 1995 si sono manifestate in superficie come crisi finanziarie e valutarie, solo apparentemente singole e casuali, sono state un fenomeno unico, effetto della sovrapproduzione continuata e della tendenza depressa internazionale e continueranno la loro successione.
 

Dollaro versus Yen

Il consistente apprezzamento, in corso da un anno, dello Yen sul Dollaro ha messo in ansia la finanza mondiale per la possibilità di un brusco indebolimento di questo, una svendita dei titoli fruttiferi in dollari e una tempesta valutaria e finanziaria.

Lo Yen fra l’aprile del ’95, al suo massimo, e l’agosto del ’98, a un minimo, si era fortemente svalutato sul Dollaro, passando da 82 a 145 Yen per Dollaro. Poi si è avuta la rivalutazione fino a 104 a fine settembre di questo anno, recuperando, ma solo la metà di quanto precedentemente perso. La rivalutazione non è stata provocata dalla piccola differenza fra l’inflazione nei due paesi, ma dall’azione dei capitali monetari sul mercato dei cambi per procurarsi la moneta necessaria all’acquisto di titoli fruttiferi giapponesi.

L’arresto dell’accumulazione di capitale in Giappone, che dura dal ’92, e la pletora di capitali monetari qui inoperosi avevano provocato uno spostamento di capitali monetari dai titoli giapponesi a quelli americani, favoriti dalla stagnazione europea e dalla crisi asiatica. Da circa un anno alcuni fattori spingono a un movimento in senso contrario. Secondo i criteri della lotta speculativa fra capitalisti la probabilità di una ripresa dopo lunga astinenza dell’accumulazione in Giappone, quella di un rallentamento dell’economia negli Stati Uniti troppo drogata dal credito, il rischio di un arresto della lunga corsa delle quotazioni della borsa americana e il prevedibile recupero di quelle giapponesi dopo lunga depressione hanno fatto prevedere la possibilità di maggiori guadagni nella borsa giapponese.

Altre considerazioni hanno spinto nello stesso senso di un recupero dello Yen sul Dollaro. Il deficit della bilancia commerciale americana (flusso di dodici mesi rilevato mensilmente) cresce sempre più rapidamente e ancor di più quello delle partite correnti (rilevato trimestralmente), che a quella precedente somma altre voci, fra le quali quella consistente del saldo con l’estero dei redditi di interessi e dividendi; sono deficit che fanno aumentare l’indebitamento estero. Invece questi due conti sono in attivo stabile per il Giappone.

Il deficit di bilancio e il debito dello Stato giapponese, impegnato massicciamente da anni in grandi spese nel ripetuto tentativo di arrestare la deflazione, sono rapidamente crescenti; mentre il bilancio statale in America passa all’attivo, debito ed emissioni nuove di titoli statali tendono a fermarsi: quindi aumenta relativamente la necessità di una massa di moneta in Yen per l’acquisto di titoli giapponesi.

Dalla fine della prima guerra mondiale gli Stati Uniti erano stati creditori netti nei confronti del resto del mondo. Dal 1985 il debito estero americano ha superato il credito verso l’estero e gli Stati Uniti sono diventati debitori netti. Da allora il debito netto, con l’aumento continuo del passivo e dell’attivo, è andato crescendo sia in termini assoluti sia in relazione al prodotto interno lordo; nel 1990 il debito netto era il 10% del PIL, per il 1999 è previsto al 25%. Per il Giappone analoga percentuale riguarda il credito estero netto.

Il debito lordo americano, che è quello che più conta per il cambio, è prevalentemente espresso in dollari, visto il ruolo internazionale di questa moneta. La sua crescita aumenta la massa dei titoli di questo debito detenuti da banche centrali, banche commerciali e imprese. E questi certificati di debito sono posti in circolazione come moneta sul mercato mondiale per la trasmissione dei crediti. Quindi, o all’estero si accetta di detenere una massa indefinitamente crescente di questi titoli, perché l’economia americana va bene e l’espansione del commercio internazionale richiede una massa crescente dell’unica moneta a circolazione veramente internazionale, oppure il Dollaro tenderà a deprezzarsi.

Il credito concesso a imprese e consumatori, per il suo livello, il suo movimento e il suo uso per acquisti in borsa, è un altro fattore di dubbi per i possessori e i commercianti di titoli sulla stabilità dell’economia americana e della sua moneta.

Le fonti statistiche danno, indipendentemente dalla nazionalità dei prestatori, l’indebitamento di produttori e consumatori uguale al 130% del PIL alla fine del ’98, con una crescita sull’anno precedente rispettivamente del 9% e del 8% e mostrano che l’eccedenza delle spese per consumi rispetto al reddito (personale e disponibile detratte le tasse) è crescente, il che è consentito dall’aumento del credito al consumo.
 

 Chiodi da ribattere

Nel considerare i fattori del movimento delle due monete abbiamo avuto a che fare con grandezze statistiche definite coerentemente alle teorie borghesi. Nei commenti che ne fa la stampa sono implicite le idee della borghesia sul capitale che rende interesse: l’idea che le trasformazioni del denaro da una forma nazionale all’altra siano in sé movimenti internazionali di capitali, oppure quella che il denaro, per proprietà intrinseche, sia capitale, come anche quella che ogni capitale monetario prestato diventi effettivamente capitale. Sono idee che il partito marxista, forte della sua teoria, ha sempre combattuto, le stesse che oggi alimentano la gran confusione sulla "finanziarizzazione dell’economia".

 Una fase di espansione della finanza internazionale non è un fenomeno nuovo, ma la confusione dei tanti articoli di giornale serve a far dimenticare: 1) l’esistenza del processo produttivo, dove viene sfruttato l’operaio e dove unicamente si crea tutto il plusvalore, e il cui incessante ampliamento comporta l’inarrestabile ampliamento dell’antagonismo di classe fino alla rottura storica dell’equilibrio; 2) che il plusvalore deve essere prodotto prima che cominci la sua suddivisione e che una di queste parti vada ai vari titoli fruttiferi; 3) che i parassitismi e godimenti di un sistema finanziario di intermediari e prestatori sempre più complicato non possono cancellare la caratteristica di fondo del capitalismo, che ha come motivo determinante la produzione di plusvalore per l’arricchimento e non per il godimento. Arricchimento, si intende, del Capitale, cioè accumulazione: è questo il meccanismo sociale che la rivoluzione deve abbattere. Come conferma la tragica lezione della controrivoluzione staliniana, che spacciò per socialismo la crescita forsennata del Capitale.

Quanto sopra per la circolazione del capitale finanziario, quella che parte dai capitalisti monetari prestatori, coinvolge banche, intermediari vari, commercianti di denaro e di titoli fino alle imprese e ritorna al punto di partenza. E il commercio? In un momento in cui tanto si blatera dei grandi affari, ma solo futuri, delle aziende commerciali utilizzanti Internet, ma ancora di più delle loro quotazioni di borsa già lanciatissime, è utile ripetere un elemento di base dello schema della riproduzione del capitale e cioè che il movimento del capitale commerciale è solo il movimento del capitale industriale nella fase di circolazione delle merci prodotte e che questo capitale commerciale, preso solo nella sua funzione di acquistare per vendere, partecipa al profitto senza prendere parte alla sua produzione e senza generare valore alcuno.
 

 Controtesi e Tesi

Nella considerazione degli avvenimenti che interessano la finanza la borghesia sviluppa le sue fantasie sul capitale che produce interesse, come è successo in occasione del movimento Yen-Dollaro. Per fare un esempio consideriamo che dei fondi americani od europei che amministrano capitale produttivo di interesse, dopo aver venduti dei titoli in loro possesso cambino Dollari o Euro in Yen e comprino titoli giapponesi. Vediamo i vari casi.

Se il titolo comprato è dello Stato e di nuova emissione, il denaro che lo Stato ottiene non finirà come capitale, ma a finanziare il debito dello Stato per spese improduttive di plusvalore. Non solo quella è la funzione comune delle spese statali, ma escludiamo che oggi il denaro ottenuto in prestito dallo Stato nipponico diventi anche in parte modesta nella sue mani capitale industriale, ché se questa possibilità esistesse il problema che l’accumulazione riprenda finalmente in Giappone non esisterebbe e i capitali monetari giapponesi non sarebbero andati all’estero.

Se il titolo dello Stato acquistato era già in circolazione, il venditore del titolo ottiene denaro, ma questo è solo potenzialmente capitale; questa possibilità dipende dall’uso che ne fa chi lo ha ottenuto in cambio del titolo.

Se l’acquisto riguarda azioni già emesse di società giapponesi, il fondo americano od europeo acquirente importa il titolo e versa denaro e il venditore giapponese esporta il titolo e riceve denaro: 1) il capitale dell’impresa le cui azioni sono passate di mano rimane invariato, fissato nel suo processo riproduttivo e in possesso dell’impresa giapponese; 2) il venditore delle azioni ottiene denaro, "capitale in sé", "latente", "potenziale". Questo denaro se finisce in consumi, in titoli di Stato o sosta temporaneamente fuori dalla circolazione non si trasforma in capitale; diventa capitale solo se va ad aumentare il capitale anticipato di una impresa, come nel caso che questa ottenga capitali con nuove azioni o nuove obbligazioni all’uopo emesse.

Inoltre una parte dell’afflusso di denaro dall’estero in Giappone, oggi massicciamente diretto in borsa, si sta trasformando in un gonfiamento dei prezzi delle azioni, mentre l’accumulazione del capitale cui le azioni giapponesi si riferiscono è ferma da tempo.

Qui altro chiodo da ribattere. Diciamo prezzo e non valore delle azioni: i titoli del capitale fittizio sono merci solo sui generis, hanno un prezzo ma non un valore, perché nel titolo non è lavoro oggettivato, ma l’attestazione giuridica di un diritto su porzioni di un plusvalore futuro. Basta già questo, l’assenza di valore, per stroncare la moda di questi anni di parlare di "creazione di valore per gli azionisti" in relazione a ogni possibile manovra per far aumentare le quotazioni delle azioni. Ma peggio dei giornalisti succubi di questa moda fanno i falsi amici della classe operaia, che criticano quelli solo perché, a loro dire, sosterrebbero l’esigenza di dare più dividendi agli azionisti e vorrebbero frenare l’accumulazione delle imprese e lo sviluppo dell’occupazione.

È una polemica finta fra due bande borghesi. In effetti il prezzo delle azioni cresce tanto più quanto più l’impresa si arricchisce, capitalizza gli utili, si amplia e accumula e può far prevedere una futura crescita dei dividendi. Ma con l’accumulazione non si ha parallelo sviluppo dell’occupazione, come sostengono nella finta polemica i rifondatori dell’opportunismo, diminuisce, in rapporto alla produzione, la remunerazione totale della forza lavoro. I falsi amici della classe operaia mostrano di attaccare la "rendita finanziaria", in realtà fanno campagna per lo sfruttamento e per l’accumulazione e sostengono il demone del capitale industriale. Senza lo sviluppo del quale il capitale fittizio dei titoli si affloscerebbe disperato.
 

 Il Capitale da prestito

In qualche commento di giornale compare la preoccupazione per il debito estero americano: «Oggi è quasi 2.000 miliardi di dollari, fra quattro anni sarà a 3.000 miliardi». La borghesia,anche quando sembra che abbia stravinto, ha sempre paura di nominare la sovrapproduzione di capitali come causa di crisi, che individua invece nell’abuso del credito e nell’eccesso di speculazione. Dovrebbe allora spiegare, dice Marx, come mai abusi ed eccessi avvengono regolarmente più o meno ogni dieci anni; e ciò malgrado essa, classe dominante, abbia ormai individuato il pericolo.

Quegli abusi ed eccessi sono effetti del tipo che non si oppongono, ma si sommano alla causa. Il debito estero americano esalterà la prossima crisi con lo sconquasso nella finanza e nei cambi. Ma la grande crisi, certa in teoria e visibile nel ciclo lungo dell’economia, verrà dalle contraddizioni di fondo del capitalismo: fra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali, fra vulcano della produzione e palude del mercato, fra produzione sociale e appropriazione privata di classe per l’accumulazione, fra aumento della produttività del lavoro e rifiuto di ridurre il tempo di lavoro.

I prestiti non sono fatti per essere rimborsati, ma semplicemente per ottenere un interesse regolare e sicuro. Aziende floride possono avere capitale in prestito (da banche e da obbligazioni) anche maggiore di quello proprio (versato dai soci, riprodotto con il lavoro salariato e cresciuto con l’accumulazione).

Questa è una distinzione fra due tipi di proprietà del capitale, ma la funzione del capitale nel processo riproduttivo, quella dell’accumulazione è unica ed è svolta dall’ente impresa, i suoi agenti involontari (consigli di amministrazione, dirigenti, azionisti controllanti, fondi pensione del lavoratori, consigli di gestione operaia ecc.) devono agire come "personificazioni del capitale".

 Il prestito sarà rinnovato alla scadenza se gli affari vanno bene, e poco importano i traffici del singolo capitalista monetario prestatore. Ciò vale anche per il capitale complessivo che opera sul territorio americano e per il suo debito estero.

Marx per studiare il meccanismo del capitale da prestito nel suo regime di funzionamento, all’inizio del capitolo 23 Libro III de Il Capitale per tre volte inizia altrettanti periodi con «Durante tutto il tempo in cui...» Dice che, come per il capitalista industriale (individuo o impresa) che utilizzi anche solo capitale proprio, durante tutto il tempo in cui il capitale funziona questo appartiene al processo riproduttivo, che ne ha il possesso, così il capitalista monetario durante tutto il tempo in cui il suo denaro funziona come capitale monetario deve prestarlo continuamente.

Il capitalismo negli Stati Uniti è il centro di stabilizzazione economico, politico e militare di un capitalismo mondiale morente e attrae i capitali da tutto il mondo, tanto più quanto più avanza la sovrapproduzione mondiale.
 

 Il debito americano

Il debito o il credito estero di un paese può essere calcolato nelle statistiche borghesi includendo o no alcune voci a seconda che interessino i problemi del cambio, del rimborso o del pagamento degli interessi. Nel dato prima riportato abbiamo fatto riferimento a quel bilancio di crediti e debiti verso l’estero che considera i biglietti di Stato circolanti all’estero, i conti bancari a vista o vincolati intestati a non residenti, i crediti e prestiti commerciali correnti, le obbligazioni di società o dello Stato e azioni (che sono sì debiti delle imprese, ma non rimborsabili); questo bilancio comprende fra i crediti le riserve della banca centrale, compreso l’oro, stavolta curiosamente abbassato da valore reale a titolo di credito su un debitore sconosciuto.

Quel dato esprimeva il rapporto del debito netto con il PIL. È questo un rapporto che può essere comodo per confronti con altri paesi, ma il rapporto significativo è quello degli interessi col profitto (guadagno di impresa più interesse più rendita fondiaria), dovendo necessariamente essere quelli minori di questo, se riferiti allo stesso periodo di tempo.

Il debito estero è un accumulo di debiti fino a una certa data, rilevato, attendibilità a parte, in quell’istante. I borghesi chiamano queste grandezze ammontare, consistenza, stock, dato patrimoniale. E confondono col capitale queste masse di ricchezza morta o i titoli di proprietà su di esse, in quanto tali, senza riferimento ai periodi di tempo in cui entreranno in rapporto sociale col lavoro salariato. Ciò «per dare ad intendere che figlino valore per virtù propria, oltre quello che genera il lavoro umano». Tutti i dati che stabiliscono paragoni fra, da una parte, patrimoni (propri o prestati) oppure capitali anticipati per un ciclo più lungo ma non consumati nel ciclo che si vuol considerare, e, dall’altra, il fatturato o il valore aggiunto o il profitto di questo ciclo, sono da trattarsi con la consapevolezza che sono utilissimi al nemico di classe per aggredire la teoria del plusvalore, la base viva e vitale del comunismo. Questa mette in chiaro il rapporto economico sociale prendendo in conto, per il prodotto di un dato periodo di tempo, sempre e soltanto il capitale costante effettivamente consumato, quello variabile impiegato che genera il plusvalore e il plusvalore stesso.
 

 Il privilegio del Dollaro

Un qualsiasi paese che sia indebitato verso l’estero, che non possa o non voglia pagare gli interessi né adempiere ai rimborsi con nuovi debiti, con oro o riserve ufficiali o con il valore di parti del proprio patrimonio, può rispettare gli impegni se ha uno scambio con l’estero che gli procuri come risultato moneta cartacea estera o crediti di questa accettati dai creditori. Questo perché il credito di cui gode il paese indebitato può solo sospendere temporaneamente la legge del valore, che impone lo scambio di equivalenti. Ed è per questo che per il corso storico del capitalismo e della contraddizione fra produzione e consumo possiamo fare astrazione dal credito. «Il capitalismo conosce solo consumatori paganti». Invece il problema della bilancia dei pagamenti nazionale o individuale aziendale non esiste nel comunismo, dove non si paga né oggi né domani, produzione e distribuzione sono sociali e a fini sociali della specie umana.

Ma gli Stati Uniti hanno conquistato, con la potenza economica e con due guerre mondiali, il privilegio di una moneta nazionale a circolazione e di riserva mondiali, quindi generalmente accettata dai creditori. E non lo molleranno se non con la sconfitta nel terzo macello imperialistico mondiale. I creditori esteri degli Stati Uniti accettano di essere pagati con altri debiti in dollari, che cedono alle proprie banche centrali o li usano per importazioni di merci americane, o per depositi bancari più o meno remunerati, o per comprare titoli fruttiferi come capitalisti monetari o titoli di proprietà di società per svolgere in loco la funzione propria del capitalista attivo, quella della accumulazione.

Pochi capitalisti (imprese o banche) lasceranno infruttifero un deposito in dollari in una banca americana, e se mai solo per brevi periodi: la tesaurizzazione per i capitalisti non è un fine, ma diventa periodicamente una necessità. Se usano questo deposito per comprare merci, il credito verso l’America sparisce; ma venti anni di bilancia commerciale con deficit crescente ci dicono che ciò mediamente non avviene. Se lo usano per comprare titoli fruttiferi o lo vincolano in banca, incassano gli interessi. Ma così il flusso di interessi che gli Stato Uniti devono pagare, anche se a tassi vantaggiosi, aumenta ogni anno.

E così che dal 1981 la bilancia commerciale degli Stati Uniti ha potuto essere ininterrottamente in deficit e questo essere mediamente crescente e il debito estero netto sostituire il credito netto verso l’estero dal 1985 ed aumentare sempre senza creare problemi al debitore.
 

 Manipolazioni monetarie

Il Giappone aveva chiesto l’impegno delle maggiori potenze per sostenere il Dollaro e frenare lo Yen. Gli Stati Uniti hanno chiesto al governo giapponese interventi per la massima forzatura del credito nel paese, anche quando la pletora di capitali giapponesi ha spinto a zero i tassi d’interesse, anche quando l’accumulazione drogata dal credito ha già fallito in Giappone alla fine degli anni ’80 e nonostante che sia in fondo proprio l’attuale grande eccesso di credito nel mondo il vero motivo delle preoccupazioni borghesi, più che la rivalutazione dello Yen.

La manipolazione richiesta dagli Stati Uniti consisteva in interventi della banca centrale del Giappone per acquistare dollari dalle banche giapponesi e nell’alimentare ancora, oltre quegli interventi, i conti che le banche commerciali hanno presso di lei con l’acquisto dalle banche stesse di titoli, per esempio statali. (Le grandi banche centrali, secondo i nuovi statuti redatti in previsione del prossimo terremoto finanziario, non possono più acquistare titoli statali direttamente all’emissione, ciò per ostentare indipendenza dai governi e dare fiducia allo Stato e alla sua moneta). Così le banche concederebbero più facilmente prestiti e gli imprenditori sarebbero spinti ad indebitarsi dalla sola prospettiva di prezzi in aumento e debiti svalutati.

Perché le imprese possano prendere grandi masse di capitali in prestito dalle banche e impiegarle senza aumentare la sovrapproduzione occorrerebbero nuove possibilità di buoni profitti e un mercato non saturo e solvibile, condizioni che non esistono di fatto, come confermano le grandi ansie borghesi. Occorrerebbe uno Stato-cliente, acquirente di nuovi massicci armamenti. Ma Stati Uniti e Cina non gradirebbero. E le condizioni del capitalismo mondiale non sono ancora quelle di una vicina crisi di guerra.
 

 Prosperità "virtuale"

Le imprese giapponesi che utilizzeranno il credito dovranno dare alle banche un’ipoteca su un plusvalore da produrre nel futuro. Anche i governi giapponesi che ingigantiscono il debito statale speculano su una crescita della produzione futura da cui ricavare i prelievi fiscali.

 Gli effetti della forzatura del credito saranno un’economia con più sovrapproduzione e più sovraspeculazione, in corsa demente. Il capitale arriva agli eccessi di credito speculando sulla produzione futura di plusvalore. Perché la base del credito è nello stesso fondamento del sistema capitalistico, nel suo insaziabile bisogno di plusvalore.

Anche senza credito la frazione di plusvalore realizzato, non consumata e destinata all’accumulazione, ancora massa di denaro prima di essere reinvestita, è una "polizza sul lavoro futuro". E per appagare la sete di plusvalore non è un problema la massa di circolante monetario necessaria, che può essere creata con qualche scrittura nei conti bancari. Sono i concetti espressi nella seguente citazione dai Grundrisse, Polizza del capitale sul lavoro futuro: «Questo plusvalore (quello non consumato dal capitalista, destinato all’accumulazione) è denaro (...) Il denaro, nella misura in cui ora esiste già in sé come capitale, è dunque semplicemente una polizza su lavoro futuro (nuovo). Oggettivamente esso esiste soltanto come denaro (...) Qui il capitale entra già in rapporto non più col lavoro presente solamente, ma anche con quello futuro (...) In questo suo aspetto di polizza, la sua esistenza materiale di denaro è indifferente e può essere sostituito da qualsiasi titolo. Al pari del creditore dello Stato, ciascun capitalista possiede, nel suo nuovo valore guadagnato, una polizza su lavoro futuro; appropriandosi del lavoro presente, si è simultaneamente già appropriato di quello futuro. Sviluppare in questo senso questo aspetto del capitale. Qui si rivela già la sua proprietà di sussistere come valore separato dalla sua sostanza. Qui è già implicita la base del credito».

I titoli cartacei attestanti le pretese dei creditori sulla produzione futura circolano come surrogati del denaro. Il circolante monetario «di per sé e soprattutto da quando esiste la moneta cartacea altro non è che un meccanismo sociale per dirigere la ripartizione del valore nascituro» (Vulcano della produzione o palude del mercato).

Questo "meccanismo sociale" può funzionare se esiste la divisione di classe fra borghesi e proletari; non è che il lavoratore salariato è tale perché non chiede o non ottiene qualche miliardo dalla banca per diventare imprenditore; non è il denaro che dà il rapporto fra capitale e lavoro salariato, ma è l’esistenza di questo rapporto sociale che permette la funzione svolta dal denaro; ossia è l’esistenza di una classe che possiede e si appropria continuamente dei mezzi di produzione e di sussistenza e una classe contrapposta di proletari liberi di vendere la propria forza lavoro e di ogni condizione necessaria alla produzione.

Il materialismo storico ha dimostrato che l’esistenza di queste due classi è il presupposto del capitalismo e che essa rimanda al precedente svolgimento storico nel quale in modo brutale e sanguinoso i piccoli produttori artigiani e contadini sono stati espropriati di strumenti e prodotti e sono state consumate le atrocità e le spoliazioni ai danni dei popoli delle colonie.

Alla negazione della proprietà individuale basata sul lavoro personale attuata dal capitalismo seguirà la negazione delle proprietà capitalistica, lo sviluppo del capitalismo conducendo alla violenta "espropriazione degli espropriatori" e a una società superiore.

Alla prosperità apparente basata sul credito segue bruscamente il crollo. Se il rilancio della produzione riesce in Giappone e in tutto il mondo con la droga del credito, forzando alla massima tensione i limiti capitalistici che la ristrettezza del consumo della maggior parte della popolazione stabilisce, il capitale mondiale ritarderà il suo avanzare verso la grande crisi, alla quale questo ciclo lungo lo porta.

 Ma il credito avrà accelerato lo sviluppo della massa delle forze produttive, la costituzione del mercato mondiale, base materiale della nuova forma di produzione e rese esplosive le contraddizioni del capitale.
 
 
 
 
 
 
 
 


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OPERAI E CONTADINI OGGI IN RUSSIA

Solo una nuova rivoluzione potrà risolvere i nodi della controrivoluzione staliniana e le contraddizioni del capitalismo.

La controrivoluzione in Russia trionfò spezzando l’alleanza operai/contadini poveri e facendo leva sugli interessi del ceto dei contadini medi. A questi la Rivoluzione aveva assicurato il pezzo di terra capace di sfamare e far sopravvivere la famiglia rurale; lo stalinismo, spinto dalla grave carestia, aveva concesso la ricostituzione di forme ancestrali di lavoro comunitario nel mir-colcos. Non proprietà della terra nel senso del diritto romano ma usufrutto perpetuo.

Ancora oggi nelle campagne vive quasi il 30% della popolazione. In America siamo al 2,7%, dieci volte di meno! Ammesso che la stessa percentuale di non urbani si dedichi all’agricoltura ciò vorrebbe dire che il valore di un chilo di farina in Russia costerebbe 10 volte tanto, ergo il costo del mantenimento e riproduzione della forza lavoro aumenterebbe in proporzione.

Nella condizione di colcosiano il contadino non è costretto da necessità economiche né a rendersi proletario e né a impegnarsi nell’accumulazione del capitale. Il suo appezzamento gli garantisce di che vivere e il lavoro nell’azienda collettiva costituisce una sicurezza di più, oltre ad esimerlo dall’accumulare un capitale fornendogli in uso le macchine agricole. Tale struttura di fatto è una garanzia del contadiname contro la sua proletarizzazione e contro l’abbandono delle campagne verso i mostri urbani.

Il nodo odierno non è facilmente solubile: anche se le terre comuni dei Colcos saranno gestite da un punto di vista capitalista tout court, mancherebbe la forza lavoro per farle funzionare in quanto il contadino continuerebbe a concentrarsi sul suo appezzamento e prestare al Colcos la sua mano d’opera controvoglia e saltuariamente, come e quando fa comodo a lui. Sembra quindi che sarebbe necessaria una feroce e sconvolgente riforma agraria finalizzata all’esproprio dei contadini in senso borghese, che trasformi i colcosiani in pauperi, in proletari senza riserve.

Una riforma di tale portata abbisognerebbe della forza, delle energie vitali che oggi il capitalismo russo ha già speso nella sua giovinezza, mentre la sua maturità oggi volge alla putrefazione. Nell’Inghilterra del ’600 per espropriare in massa la popolazione contadina i Landlord ricorsero alla violenza più bruta, il famoso codice cruento, che prevedeva l’impiccagione per il reato di vagabondaggio.

Solo una catastrofe sociale, guerra o rivoluzione, o anche naturale quale pessimi raccolti ripetuti, potrà scuotere dal torpore la campagna russa e liberarla dall’anacronistica conduzione colcosiana, con un piede ancora nel comunismo primitivo e l’altro nel già reazionario capitalismo.

Per il proletariato il mondo contadino russo è una palla al piede, oggi non più mobilitabile come nel ’17 per la distruzione dell’ordine esistente. Ancora più che nel ’17 si richiede la rivoluzione non in un paese solo ma nel mondo intero.

La crisi attuale in Russia, superiore di ampiezza a quella americana del ’29, non accenna ancora ad invertire tendenza. I miseri incrementi in percentuale di questi ultimi mesi sono niente a fronte dell’enorme voragine quando la velocità di crescita necessaria per risollevarsi da una così profonda e lunga crisi dovrebbe essere ben sostenuta, un balzo fuori dalla voragine. Una crisi che così si trascina attenderebbe solo la robusta spallata del proletariato russo e mondiale, solo che potesse ritrovare se stesso e il suo partito rivoluzionario.

Invece la soluzione borghese, nell’assenza di una forte ripresa mondiale che faccia da volano, non può che essere il riarmo. La caratteristica millenaria russa di Stato militare, dopo il collasso e l’umiliante ridimensionamento, dovrà necessariamente riprendere vigore. In Cecenia questa volta lo stato maggiore russo pare si sia preparato meglio, potrebbe essere il segnale di una riorganizzazione e ripristino della potenza militare.

Il potenziale bellico, ossia la capacità di riprendere un ruolo da protagonista nell’arena imperialista mondiale, esiste tuttora. Questa terribile crisi che ha sfasciato il vecchio apparato potrebbe aver agito da selezione in quanto, rottamato quanto di vecchio e superato, avrebbe conservato il necessario per ripartire su di una base più moderna ed efficiente. La tecnica russa, esclusa l’elettronica, dicono, mantiene un buon livello, soprattutto nel campo dell’aviazione.

Dal punto di vista sociale, nonostante le scarne informazioni che ci giungono, riferiscono di una tensione latente, che a volte sfocia in vere e proprie rivolte. Con piacere riportiamo una notizia di fonte borghese che conferma le nostre speranze.

Nella regione di Leningrado, a Sovietskij, le maestranze operaie della Vyborg hanno preso in mano le armi a difesa delle loro condizioni di vita. La fabbrica, che impiega 2.200 operai e produce cellulosa e cartone, due anni fa è stata ceduta dallo Stato russo ad un gruppo straniero.

Gli operai hanno subito intimato che i nuovi proprietari avrebbero potuto mettere piede nello stabilimento soltanto dopo aver pagato gli stipendi arretrati, oltre 8 milioni di dollari. Non ottenendo soddisfazione gli operai hanno preso possesso della produzione, riuscendo a far lavorare per più di un anno lo stabilimento al 60% della sua capacità produttiva. Nel mentre la proprietà borghese veniva ceduta ad un’altra società straniera, la quale si dichiarava disposta a saldare solo una minima parte degli arretrati.

Gli operai opponevano un categorico rifiuto al furto dello stipendio arretrato e, armi alla mano, si sono preparati allo scontro con i reparti speciali della polizia. Il quattordici ottobre 30 incursori del Ministero degli Interni assaltano la fabbrica ma, dopo aver ferito due operai, sono però costretti dal convergere di massicci rinforzi proletari a battere in ritirata cercando rifugio nei locali della mensa e portando con sé 8 ostaggi. Gli incursori sono stati incursati. Dopo 15 ore di battaglia il Ministero ordina la ritirata. La fabbrica ha ripreso a lavorare sotto la protezione della milizia operaia armata, controllata a debita distanza dalle forze di polizia.

Si noti che gli operai hanno rivendicato il pagamento degli stipendi arretrati e non sollevato lagne nazionaliste, indifferenti al tipo di proprietà, statale, russa o straniera, dando un esempio per tutti i lavoratori. Infatti, citiamo, «i lavoratori dell’Azienda Meccanica Leningradese si sono presentati a Sovietskij dicendo: Anche da noi le cose vanno male, spiegateci come avete fatto perché potremmo provarci anche noi».

Da rimarcare il ruolo dei sindacati ufficiali, che sono la fotocopia di quelli nostrani. Irina Ledenyova, vicedirettore del sindacato dei lavoratori minerari e metallurgici, così bonzeggia: «Il problema è che nessuno ha detto ai lavoratori chi ha comprato l’azienda e loro non riescono a capire che cosa stia succedendo». Per la brava Cofferatova il tutto si riduce a convincere i proletari dell’inevitabilità della crisi, e quindi informarli ammodo che i salari arretrati possono scordarseli.

Invece la realtà è che la fabbrica è ben redditizia e il gioco di farla passare di mano probabilmente aveva proprio lo scopo di fare scomparire dal passivo i 15 miliardi di lire di arretrati.

I lavoratori hanno risposto come dovevano, nessuna rivendicazione sull’autogestione ma la rivendicazione di classe del salario, sulla cui riduzione al minimo la società borghese vive e affama il mondo intero.
 
 
 
 
 


LE ETERNE TRATTIVE DI "PACE" IN MEDIO ORIENTE
ALIBI PER LO SFRUTTAMETO DEL PROLETARIATO

Alla fine di ottobre, ad Hebron, nella Cisgiordania "liberata", 14 lavoratori di una fabbrichetta, quasi tutte giovani operaie, sono morte bruciate per lo scoppio di alcune bombole di gas. Nel luglio 4 muratori erano morti a Ramallah, sempre nella piccola "Entità palestinese", uccisi dal crollo di una impalcatura costruita con materiali scadenti. Non sono episodi isolati. Sono decine di migliaia i manovali palestinesi costretti a lavorare 10-12 ore al giorno, spesso a nero e senza alcun contratto, per salari bassissimi ed in condizioni di costante pericolo.

Espulsi a decine di migliaia negli ultimi anni dallo Stato d’Israele, si è detto "per motivi di sicurezza", e sostituiti da lavoratori provenienti dall’Europa centro-orientale, dalla Russia e dall’Asia, buttati fuori dal Kuwait, sempre si è detto, a seguito dell’appoggio di Arafat all’Irak, i lavoratori palestinesi si sono ritrovati rinchiusi nei territori della cosiddetta "Entità", senza lavoro, senza prospettive, costretti a vendersi al padrone loro compatriota a condizioni ancora peggiori di quelle che un tempo erano loro offerte dal "nemico" israeliano.

I sindacati palestinesi, sull’esempio delle organizzazioni occidentali, sostengono apertamente la politica del governo, tutta tesa a proteggere quello che demagogicamente viene propagandata come sviluppo della "economia palestinese". «La parola d’ordine rispettata da tutti — scrive "il Manifesto" del 22 ottobre — è di non ostacolare, reclamando i diritti dei lavoratori, gli investimenti in Cisgiordania e Gaza degli imprenditori locali e stranieri su cui si fonda un progetto di sviluppo economico che si sta rilevando selvaggio e senza regole, che sfrutta un lavoro che si vuol far rimanere a bassissimo costo (...) Il segretario della CGIL, Cofferati, interrogato in proposito durante una sua visita in Cisgiordania, ha risposto "non si deve pretendere troppo da un sindacato che opera in circostanze sfavorevoli e in territori che non sono ancora uno Stato"». Il bonzo italico così non fa che difendere la tradizione del sindacato cigiellino che, fin dalla sua ricostituzione nel secondo dopoguerra, su stampo fascista come l’abbiamo definita, ha sempre sottomesso le esigenze della classe operaia a quelle supreme dell’economia nazionale e del padronato.

La debole e corrotta borghesia palestinese, cedevole e arrendevole sul piano politico verso lo Stato d’Israele, di cui oramai aspira solo a divenire vassalla, usa invece il pugno di ferro contro il proletariato nei territori passati sotto la sua amministrazione, grazie ad un apparato repressivo di prim’ordine, messo in piedi grazie all’aiuto congiunto di Stati Uniti ed Israele, nascondendosi dietro al mito sempre più consunto della creazione di uno Stato indipendente.

Ma gli strombazzati accordi di Oslo sono falliti, dato che Israele non intende assolutamente mollare la Cisgiordania. La responsabilità del ristagno delle trattative era stata attribuita dal governo palestinese, ma anche dall’opportunismo internazionale, all’indisponibilità del governo del "destro" Nethaniau, succeduto a sorpresa al laburista Rabin che, caduto sotto il piombo terrorista, dopo morto si è trasmutato da "falco" in "colomba". Noi comunisti abbiamo sempre ribadito invece che i governi di "sinistra" sono ancora peggiori di quelli di destra — perché ingannano i lavoratori — e che la politica degli Stati, soprattutto quella estera, non cambia con i governi ma segue delle linee direttrici dettate da esigenze profonde che non variano nel medio periodo.

Oggi, l’andata al governo di nuovo di un laburista ha portato ad una nuova farsa propagandistica; ritrovatisi nuovamente ad Oslo, stavolta ufficialmente e ancora sotto l’egida degli Stati Uniti, Barak e Arafat hanno tracciato un nuovo "percorso" che dovrebbe portare alla "pace": nell’occasione la diplomazia israeliana ha ribadito che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania non saranno smantellati, che non sarà restituito tutto il territorio della Cisgiordania ma solo alcune zone, le più popolate da palestinesi; che i profughi palestinesi non potranno tornare ma resteranno per sempre nei campi per rifugiati; che le risorse idriche della Cisgiordania e di Gaza resteranno sotto il controllo israeliano; che Gerusalemme non diventerà capitale del nuovo Stato palestinese (ammesso che si faccia mai).

A queste condizioni, a condizione cioè che i palestinesi accettino di vivere in alcuni bantustan, piccoli territori sovrappopolati e scollegati tra di loro, poveri e senza possibilità di alcun miglioramento sia economico sia politico, la "pace" si farà.

Una pace che agevolerà gli sporchi affari della corrotta borghesia palestinese come di quella israeliana, ma che non cambierà le terribili condizioni di vita del proletariato palestinese e che non aiuterà il proletariato israeliano a riscattarsi dalla sua sottomissione alla politica patriottarda e guerrafondaia.
 
 
 
 
 


DOVEROSA PREMESSA

Il lavoro di partito, sulla scorta di quelle che sono tutte le esperienze del nostro passato, non è mai stato e non sarà mai attività intellettuale, suo fine non è soddisfare la sete di sapere e la voglia di individuale erudizione. Assomiglia allo studio attento che i prigionieri fanno dei chiavistelli della prigione. Ciò che muove i compagni è l’insofferenza per le infamie dell’odierno ordine sociale, interamente fondato sullo sfruttamento del lavoro salariato, la comune passione e dedizione alla difesa del partito, la risolutezza a schierarsi nella lotta per la rivoluzione.

È solo nella preparazione del supremo obiettivo, il raggiungimento del Comunismo, che il Partito spende gran parte delle sue energie nel lavoro teorico e di indagine critica della storia e dei rapporti economici e sociali esistiti ed esistenti, alla luce della nostra dottrina. Studio e lavoro teorico intesi come mezzi, strumenti della rivoluzione così come la violenza e i fucili.

Forti della nostra sperimentata dottrina, non interessa ai comunisti la ossessiva ricerca di verità nuove; questa la lasciamo ai tanti servi prezzolati del capitale, all’esercito di intellettuali, pensatori, economisti e specialisti vari, indaffarati più che altro ad evitare di essere tagliati dal conto delle spese accessorie del regime borghese. Compito inutile per il partito è ormai verificare la immensa quantità di immondizia che fuoriesce dalle loro preziose testoline (fra l’altro ben poco di nuovo ma semplice riscaldatura di precedenti apologie spudorate della società borghese). Questa masnada di parassiti, che il proletariato deve combattere e dalla quale non ha nulla da apprendere, verrà spazzata via dalla rivoluzione, insieme al lavoro salariato, alla merce, alla divisione tecnica e sociale del lavoro, al denaro, all’individualismo e a tutte le categorie tipiche della odierna pestilenziale società borghese.

La milizia all’interno del Partito, travalicando le vigenti barriere della società divisa in classi, si collega allo sforzo e alla lotta che porterà alla luce la società nuova. Ogni incontro fra compagni è finalizzato ed inserito in questo ben noto, unico e condiviso piano programmatico, esprimentesi un organico, disciplinato, prestabilito e centralizzato lavoro, inserito nella più generale attività complessiva del Partito.

I nostri incontri con giovani che per la prima volta si avvicinano al partito vanno intesi come preparatori e saggio delle capacità a rafforzarne le file, con dedizione e passione. L’acquisizione, che è sempre progressiva e potenzialmente infinita, dei fondamenti teorici della nostra dottrina e della nostra ultracentenaria scuola, non è da considerarsi scuola che debba precedere la milizia e non va intesa come fatto esclusivamente individuale, che avviene nel chiuso della scatola cranica del candidato. È il riconoscimento e l’accettazione di un impersonale corpo dottrinario di classe, vivente e vibrante sintesi di necessità storiche riflesse in un secolare duro lavoro di critica e demolizione teorica e di battaglie pratiche di Partito a stretto contatto con la lotta incessante della classe proletaria.

In tale lavoro dell’organismo-Partito devono sapersi accogliere le capacità di tutto il ciclo vitale di ogni compagno, e ricevere il giusto apprezzamento, nel che solo il singolo percorre un segmento del passaggio dallo schiavo all’uomo. Solo in tal modo si può operare per la preparazione della forse lontana ma sicura vittoria rivoluzionaria.
 
 
 
 
 
 
 


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ULTERIORE INCAROGNIMENTO
NELLA POLITICA CONFEDERALE

Nel periodo storico attuale la classe operaia, eccettuate alcune fiammate di lotta in difesa dei propi interessi, è infognata nella pace sociale imposta dal regime borghese a livello planetario. Si producono solo confitti che non riescono ad uscire dal localismo e dall’aziendismo.

I sindacati di regime CGIL CISL UIL, a parte alcune diatribe interne di carattere demagogico e di gioco delle parti, sono uniti nella gestione della mano d’opera, funzionale alle esigenze dell’economia dello sfruttamento, all’aumento della produttività come necessità primaria della produzione.

L’apparato produttivo dell’economia capitalista si va sempre più trasformando sia dal punto di vista del capitale fisso sia di quello variabile. L’accentramento, l’innovazione tecnica insieme al sistema dell’appalto della produzione a più piccole imprese esterne riducono il costo del lavoro. Ma non basta, questo si accompagna, oggi in modo inasprito, ad un generalizzato attacco ai salari, all’occupazione e a tutte quelle "garanzie" che fino ad oggi hanno resistito nonostante i ripetuti colpi in anni precedenti.

Al fine che tutto ciò si svolga nel rispetto delle regole e della pace sociale la borghesia affila i suoi strumenti: 1) il sindacato di regime si propone sempre più come vero e proprio sindacato di Stato; 2) la sinistra sindacale, dibattuta fra gestione del malcontento operaio all’interno del sindacato e, con la sua parte più "estrema", tentativo di direzione del sindacalismo di base nelle secche del democratismo riformista e poi collaborazionista; 3) il governo che, attraverso la Commissione Lavoro della Camera (dove partecipa anche Rifondazione Comunista, in barba al nome che ancora usurpa), sta preparando una raffica di provvedimenti volti al peggioramento delle condizioni dei lavoratori ed al loro ulteriore controllo democratico; 4) la Confindustria, ispiratore primo, che conosce bene i propri conti e le sue necessità. Se ha dei contrasti su alcuni punti e fa attrito con le organizzazioni sindacali è solo perché vuole stringere i tempi. I tempi in effetti iniziano a stringere, la crisi bussa sempre più insistentemente e nel baratro che si aprirà son d’accordo tutti di farci finire il proletariato.

Questo attacco contro la classe operaia si articola in diversi affondi e su diversi piani.

La base e la struttura del sindacato

La CGIL nel 1986 aveva 2.863.975 iscritti attivi e 2.339.829 nel 1997, cioè il 18,3% in meno; la CISL -8,7% e la UIL +2,2. Nel totale la contrazione è dell’11,2%. Si noti che fra le due date l’occupazione in Italia non è diminuita, anzi lievemente aumentata, dello 0,3%. Fra i pensionati si inverte la tendenza: per la CGIL con un +61,3%, fino ad un +126,7% per la CISL e un +160,2% per la UIL. La CGIL conta ormai più iscritti fra i pensionati che fra gli attivi, la CISL è in pareggio.

Nel 1997 nella CGIL sono il 43% degli organizzati attivi della Triplice e il 55% dei pensionati; alla CISL il 36% e il 37%; alla UIL il 21% e l’8%.

Il tasso di sindacalizzazione dei giovani, che è già assai inferiore a quella della media di tutte le età, cala vertiginosamente negli ultimi due anni. Tiene solo la percentuale fra i giovani operai, sul 25%, benché anche qui ben al di sotto del 40% degli operai di tutte le età.

Il sindacato di regime tende a strutturarsi come il miglior consulente per le imprese. In questo spirito di "efficienza" negli ultimi anni il vertice della CGIL ha avviato un piano di rinnovamento dell’apparato, non soltanto con il taglio del 15% di funzionari e impiegati, ma con il tentativo di riconvertire parte del personale e di selezionare nuove leve al di fuori dei canali tradizionali. Il sindacato infatti vuol far fronte ai "nuovi compiti" come i Centri di Assistenza Fiscale e i patronati, che non si occupano più soltanto delle certificazioni del modello 730 e per i quali lo Stato gli paga £ 20.000 cadauno, ma potrà aprire sportelli su tutti i tipi di previdenze e consulenze, su diritto di famiglia, fiscali, sanità, risparmio, previdenza integrativa, mercato del lavoro. Tutte queste consulenze saranno, ovviamente, a pagamento ed andranno a rimpinguare le casse sindacali parzialmente in crisi per il minor gettito proveniente dal tesseramento.

Il sindacato recluta il personale necessario allo svolgimento di queste sue "funzioni" nel mercato del lavoro, come qualsiasi altra azienda capitalistica. Dovrà di conseguenza parificarsi nelle retribuzioni con le aziende sue concorrenti. Ce ne vorranno di stipendi sindacali, anche superiori ai 3,2 milioni netti di un Segretario Generale di Camera del Lavoro, per pagare fior di "professionisti" specialisti nei diversi settori. Corsi universitari negli States, a Boston, al modico prezzo di $ 25.000 per quei "sindacalisti" che vogliono imparare "politica economica" o "assetti proprietari del mondo finanziario e industriale", oltre ai "soliti" seminari alla Bocconi di Milano. In questa funziona l’Unione degli Studenti, che rappresenta un’importante incubatrice di nuove leve: 2 o 3 su 10 suoi iscritti finiscono per rimanere nel sindacato. Da sindacato di lavoratori, insomma, passa ad agenzia di consulenza per imprese, dipendenti e pensionati.

Il lavoro in affitto e a prestazione

Anche qui la Commissione Lavoro della Camera ha messo le mani peggiorando ulteriormente la legge così come prevista alla sua nascita. Nella fase sperimentale, necessaria a far passare l’idea e a verificare nella pratica eventuali resistenze, la legge parlava esclusivamente di mano d’opera laureata e "professionalizzata", escludendo le basse qualifiche. Oggi il nuovo decreto legislativo, già approvato, prevede ogni sfondamento. Il "riformismo radicale", adesso che il mercato dell’interinale è libero e senza "rigidità" ed esteso a tutte le basse qualifiche, protesta, ma solo per la sua esagerazione, perché comprende anche gli edili, categoria a più alta percentuale di infortuni. Tutto qui, come se il resto andasse bene.

Il "Fondo di formazione" previsto dal decreto rappresenta un’altra regalia alle cosiddette "Agenzie specializzate", nuovi servi, privati, della società dei padroni. La Worknet, per esempio, ha già piazzato 55 bidelli nella provincia di Roma per contratti di tre mesi, con possibilità di proroga se e quando fa comodo a loro. A Prato, provincia industriale italiana, sono già in corso gli sconti del 10% (agli industriali, figuriamoci al lavoratore!) sulle tariffe normalmente praticate dopo un accordo fra l’Unione commercianti e un’azienda specializzata in lavoro in affitto, la Manpower (si danno nomi esotici perché in italiano suonerebbe troppo mercato di schiavi). A Milano si è registrato il primo conflitto di interessi per la designazione di uno dei tavoli di trattativa fra il Comune e l’Agenzia privata di collocamento della Lombardia, di cui la CISL è uno dei soci. Il traffico di merce forza lavoro, fino ad oggi clandestino, viene così reso legale.

Un altro settore che il sindacato afferma di voler inquadrare è la categoria dei cosiddetti lavoratori atipici, quelli del "12%", tutti quei laureati o diplomati che attualmente lavorano con contratti di collaborazione continuativa. Nato questo settore nelle aristocrazie del lavoro, soprattutto per aggirare il fisco, è oggi utilizzato da molte imprese per avere mano d’opera, professionale ma non solo, a basso prezzo e a tempo limitato: nell’ultima proposta di D.D.L. della Commissione Lavoro della Camera si parla di 2 mesi come minimo contrattuale.

Questo specchietto (qui non riprodotto) ci può far capire una certa tendenza all’incremento nell’utilizzo di simili strumenti dello sfruttamento del lavoro: si riduce la parte di aristocrazia del lavoro (i professionisti) e viene ampliata la parte di mano d’opera comune, soprattutto nell’ambito dei servizi e della circolazione delle merci.

È ormai evidente che dietro alla parola "collaboratori" si nascondono dei puri salariati, venditori ma anche prestatori d’opera, a tempo determinato e senza altre spese né tutele. È interessante anche vedere come si estende la parte "indipendente" rispetto a quella dipendente.

Il nuovo collocamento

Oltre alle agenzie private nascerà il "nuovissimo" collocamento pubblico che dovrebbe consistere nella eliminazione delle "vecchie" liste e creazione di una "anagrafe dei lavoratori". In sostituzione del Libretto di lavoro ci sarà una Carta d’identità "telematica", che sarà anche "multifunzionale", con dati riguardanti assistenza e sanità. Questo, dice Morese, andrà in vigore dopo il 18 gennaio. A metà del 2000 dovrebbe essere pronto anche il SIL (Sistema Informatico del Lavoro) ossia una banca dati (che vuol dire lista) "elettronica" per imprese e aspiranti lavoratori. Il tutto — questo l’essenziale in tanto fumo "tecnologico" — non comporterà assolutamente alcun diritto per i lavoratori!

Nasceranno anche miriadi di agenzie, come a Padova attraverso gli sportelli Extra Point che, inizialmente finanziati dalla Regione, puntano a diventare agenzie per il collocamento degli immigrati, vista la forte richiesta che c’è nella zona.

Turni notturni

Varato il 5 novembre il Decreto legislativo in via preliminare; altri aggiustamenti e peggioramenti se li riservano per dopo. Adesso si limitano a fissare dei criteri generali, tutti comunque rivedibili in sede di contrattazione aziendale o territoriale. Priorità assoluta ai volontari, infatti, a causa dei bassi salari dominanti, il lavoro notturno è diventato quasi un privilegio, nonostante i gravi malanni che provoca. È individuato come soggetto il "lavoratore notturno", inquadrato da una serie di parametri: almeno 80 giorni lavorativi all’anno, almeno tre ore di lavoro giornaliero, almeno un terzo del suo orario normale; è invece considerato "lavoro notturno" solo quello dalle 24 alle 5 del mattino e se dura per almeno 7 ore consecutive!

I due livelli di contrattazione, ovvero, la riforma delle RSU

La Confindustria spinge per un unico livello della contrattazione.
Favorevole alla scomparsa o tendenziale scomparsa del contratto nazionale, D’Antoni ha detto: «Se l’obbiettivo deve essere quello di avvicinare quanto possibile la dinamica salariale all’andamento della produttività, è necessario che il salario sia contrattato dove si genera la produttività, o in azienda o nel territorio. È necessario che il contratto aziendale o territoriale diventi il più importante». Questa la posizione della CISL, in solo apparente contrasto con quella della CGIL, che sta spingendo per l’approvazione della modifica della legge sulle RSU che ne contempla l’estensione alle aziende sotto i 15 dipendenti. Ma il vero nodo è estendere e rafforzare il controllo della classe operaia e castrare ogni contrattazione locale, lasciando ai decreti legislativi e alla "concertazione", che "vola alta", il primo livello della ex contrattazione.

Precisa Cofferati: già l’accordo del ’93 prevede la contrattazione di secondo livello in tutte le imprese senza esclusione di dimensioni. Per quanto riguarda eventuali fughe in avanti nella contrattazione aziendale, il gran bonzo CGIL mette le cose in chiaro: la legge garantisce alla Triplice il "diritto" a rappresentare e il "diritto" a negoziare è già nell’accordo del ’93; ma non configura un "obbligo". E ancora: in realtà il potere contrattuale viene regolato secondo le modalità, ampiamente consolidate, della formula del cosiddetto "esercizio congiunto" tra gli eletti in fabbrica e le organizzazioni sindacali territoriali e nazionali.

Traduciamo dal sindacalese ma abbiamo già capito: ovunque sarà possibile soffocare la lotta operaia in fabbrica lo faremo; ove non fosse possibile, al fine di farla rientrare, è inevitabile darle corda, anche per circoscriverla alla fabbrica ed evitare che ne debordi. Si cercherà, in questo spirito, di eliminare anche di diritto quei momenti, già oggi ridottissimi, di discussione nelle fabbriche dei problemi dell’intera categoria se non di tutta la classe.

Ma coprire quel 70% di imprese che ancora non ha contratti integrativi è necessario per raggiungere, come dice D’Antoni, il vero risultato: una partecipazione vera dei lavoratori alla vita delle imprese, unico sistema perché davvero ci sia piena responsabilizzazione dei lavoratori con i destini dell’impresa. Responsabilizzazione ovviamente individuale, con salario individuale: la Fiat-Iveco concede già aumenti di merito anche al 3° livello.

Legge anti-scioperi e accordi settoriali

Mentre la Commissione Lavoro ha quasi ultimato l’ulteriore peggioramento della legge 146/90 (norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali) viene siglata una intesa nelle Ferrovie fra Sindacati e Azienda alla presenza dei Ministri Treu e Amato, che anticipa per il comparto più combattivo la definitiva castrazione per tutto il settore dei servizi.

Queste le misure in dirittura d’arrivo per tutti, praticamente le stesse dell’accordo per i ferrovieri: 1) maggiori poteri ai Garanti che potranno multare e precettare i lavoratori in caso di gravi pericoli per la persona; 2) al bando l’effetto annuncio; 3) si impedisce che scioperi diversi possono incidere sullo stesso bacino di utenza o sul medesimo servizio finale. Si prevedono multe anche in questo caso; 4) limite di una giornata di sciopero consecutiva e vari altri codicilli per lo spezzettamento. Multe, precettazioni, tentativo di impedire che diverse categorie possano solidarizzare e marciare uniti nella lotta.

Il diritto di sciopero non è mai stato un obbiettivo dei comunisti. Sappiamo bene che solo la lotta organizzata di classe può garantire unità e solidarietà classista e non ci aspettiamo niente da chi produce emendamenti parlamentari solo per illudere i proletari che la pillola da ingoiare potrebbe essere un po’ meno amara di come è.

All’ORSA (neo-nata organizzazione del sindacalismo autonomo delle F.S.), pur avendo sottoscritto tutti gli accordi precedenti anti sciopero, e che oggi ha detto No a questo ulteriore strangolamento, indichiamo l’unica strada possibile per non rimanere schiacciati dai rapporti di forza: lo sciopero senza limiti di tempo, lo sciopero nell’unità di lotta con le altre categorie.

La necessaria difensiva di classe

Si rende ancor più forte la necessità della rivendicazione di forti aumenti salariali, di più per le categorie peggio pagate, drastica riduzione della giornata lavorativa a parità di salario, obbiettivi fondamentali per la ripresa della lotta di classe, così come la lotta alla flessibilità/mobilità in fabbrica e nei servizi, che ha significato aumento dei ritmi, licenziamenti, aumento della disoccupazione, intensificazione dello sfruttamento e della concorrenza fra lavoratori, e alla caccia di un lavoro pur che sia. L’estrema incertezza che si preannuncia porta da sé la rivendicazione del salario integrale ai disoccupati

Ma per qualsiasi azione difensiva occorre la rinascita di un vero sindacato di classe che, evidentemente, oggi non c’è.
 
 
 
 


FERROVIERI IN SCIOPERO
CONTRO UN CONTRATTO AL RIBASSO

Chiudere la ristrutturazione delle Ferrovie e diventato per dirigenza F.S. e Governo un obiettivo oramai non più rinviabile. Premono non soltanto esigenze economiche ma spinte strettamente politiche: occorre ridimensionare e possibilmente eliminare quel nucleo di lavoratori che sostengono il Coordinamento Macchinisti Uniti, che con la loro decennale resistenza indicano a tutti gli altri l’esigenza della riorganizzazione, dal basso, dell’organo sindacale, fuori e contro la politica d’asservimento dei Confederali. Un piccolo nucleo che sembrava dover rimanere confinato nella categoria, seppure in forma maggioritaria, ma che al contrario ha saputo divenire punto di riferimento per il bisogno d’aggregazione di tanti ferrovieri. Ecco perché una ristrutturazione che ha già determinato 100.000 posti di lavoro in meno non può considerarsi pienamente realizzata se permangono intatti quei 18.000 macchinisti, sola categoria che ha mantenuto quasi del tutto intatto il suo organico in virtù di decine e decine di scioperi e soprattutto della loro organizzazione.

Ecco allora l’apparente cambio di strategia, cercando di imporre con la forza un CCNL senza precedenti, non soltanto in ambito ferroviario ma nell’intero mondo del lavoro. Un contratto eufemisticamente definito "di restituzione", in altre parole il primo contratto dal dopoguerra che prevederà un abbassamento dei minimi salariali e la diminuzione di ben sei giorni delle ferie. Un contratto che tenterà di introdurre un modo di lavorare "a vista", ovvero senza regole e senza diritti, nel quale il lavoratore si troverà isolato dinanzi allo strapotere delle F.S., ingabbiato in un orario di lavoro del tutto subordinato ai continui aumenti di produttività.

Una mossa quella di De Matté e Treu imposta da Confindustria, che sulle ferrovie ha sempre speculato e che vede nella nuova privatizzazione selvaggia non solo un pretesto per accumulare profitti, ma moduli per la gestione dei lavoratori di tutte le categorie. Finite, infatti, le vacche grasse della ricostruzione post bellica, oggi la feroce concorrenza internazionale impone un mercato del lavoro elastico e disponibile, cosicché, gettate a mare le garanzie degli impieghi a vita e dei salari "garantiti", si è data via libera al caporalato interinale ed alla ristrutturazione dei cosiddetti carrozzoni statali, provocando contraccolpi che sinora sono stati assorbiti grazie ad un ampio uso degli ammortizzatori sociali: sussidi e prepensionamenti.

Oggi però, finiti i daner, si attendono momenti ancora più duri, abbandonando del tutto la gestione della carota e dandosi solo alla frusta. Dare vita ad un ridimensionamento dei contratti fondendone diversi ed attestandoli sulle condizioni peggiori, oppure, come nel caso delle F.S., creare addirittura le condizioni per un abbassamento dei salari degli occupati, può essere la soluzione per costruire una testa di ponte al fine di riportare i lavoratori alle condizioni di trenta anni fa, facendo leva sulle migliaia di giovani che offrono lavoro.

Si cerca di passare alle maniere forti, visto che la presa sui lavoratori del logoro apparato "concertativo" è sempre meno salda, lasciando pericolosi spazi alla riorganizzazione di classe. È una debolezza questa ultimamente evidenziatasi con il progetto di legge sulla rappresentatività sul posto di lavoro: partiti da una soglia di ingresso del 5% si vorrebbe raddoppiare al 10%, nell’intento di tagliare fuori proprio le organizzazioni come il COMU. Questo, in particolare, ha deciso di formare — non senza una opposizione al suo interno — con UCS, FISAFS, SAPEC e SAPENT una confederazione, denominata ORSA, Organismo delle Rappresentanze Sindacali Autonome, per scavalcare questo sbarramento. La legge e stata quindi "temporaneamente" accantonata in attesa di tempi migliori.

Se dunque Governo e sindacati sono stati costretti ad accelerare i tempi, la loro azione ha però stimolato la protesta dei macchinisti che ha prodotto, dopo l’ultimo effettuato a settembre, lo sciopero del 12/13 dicembre, con ottimi risultati e percentuali di adesione al di sopra del 70%. Ma la protesta va oltre le sigle, tanto che il 18 dicembre, a Firenze, si ritroveranno i rappresentanti delle RSU di Toscana ed Emilia Romagna e d’altri Compartimenti per dare vita a un coordinamento che sostenga e favorisca le lotte future.

I ferrovieri non si consegneranno, come i sindacati di regime vorrebbero, nelle mani del nemico implorando clemenza, perché la razionalità spietata del padronato non è vincolata da alcun limite morale che stia al di fuori del portafogli. Al contrario i lavoratori devono proseguire sulla strada tracciata da anni di lotte, consapevoli che quest’ultima sfida era ed è inevitabile. Già l’aver costretto padroni e sindacati a mostrare il loro vero volto rappresenta una significativa conquista.

Il futuro non sarà catastrofico, come i falsi amici prospettano, se affrontato in maniera cosciente ed organizzata. Certo la lotta sarà difficile e pericolosa, ma, dopo aver letto quello che sta scritto sul nuovo CCNL, è evidente che fuori dalla lotta difensiva di classe non c’è un domani per nessuno.
 
 
 
 
 


CONTINUA LA RECITA DELLE PARTI
Questo il testo di un manifesto affisso dal partito

Berlusconi accusa di "comunismo" D’Alema e soci, i quali inorriditi respingono l’accusa. Ma il Berlusca sa benissimo che D’Alema è suo compare, che non è mai stato comunista, come sa bene che il socialismo reale di Russia era capitalismo. Compari, ieri come oggi, nel fingere di maledirsi al fine di confondere gli attoniti lavoratori, contro lo spettro che si aggira per il mondo: il Comunismo, quello vero!

La propaganda borghese continua a biascicare il solito esorcismo sulla "morte del comunismo", illudendosi che il capitalismo abbia vinto per sempre e sia l’ultimo anello della catena della storia. Però, se questa vittoria significa precarietà, miseria in tutto il globo, forsennato sfruttamento della classe operaia, offese incontrollabili alla natura, sofferenza e mercificazione di ogni aspetto della vita umana, allora è il marxismo che ha vinto.

Solo il temutissimo marxismo, dottrina per la emancipazione della classe operaia, descrive e spiega il fetido modo di produzione capitalistico, che: - Sopravvive solo succhiando il lavoro dei vivi, in una folle corsa all’accumulazione; - Nelle sempre più frequenti crisi palesa l’incipiente generale crisi di sovrapproduzione; - Si rigenera solo dopo le inumani carneficine delle guerre imperialiste.

A che servono allora tutte le chiacchiere della borghesia se non a gettare nello sconforto il proletariato, impedendo la lotta di classe ?

Nonostante la borghesia disponga di un regime, dai sindacati confederali ai partiti pseudo operai, dalla magistratura alla stampa a difesa dei propri privilegi, a difesa del suo dominio di classe, con terrore vede la rinascita di un movimento operaio. Compagni, lavoratori,

il soporifero dibattito sulla data dell’ulteriore peggioramento del sistema pensionistico, così come il terroristico procedere delle leggi antisciopero evidenziano la necessità della ricostruzione di un combattivo Sindacato di Classe.

La battaglia per la difesa del salario e per migliori condizioni di lavoro è la migliore palestra rivoluzionaria, tempra e cementa il proletariato, fiero della sua forza volta ad abbattere, sotto la guida del partito di classe, l’inumano modo di produzione capitalistico, per realizzare il suo secolare programma comunista.