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"Il Partito Comunista" - n° 279 - novembre 2000 - [.pdf]

PAGINA 1 - Rumorose imprese dell’ ETA - striminziti campanilismi reazionari e manovrabili
                   - Rinchiuso il proletariato palestinese ed ebreo nella trappola dei nazionalismi
                   - Elezioni americane - Danza di ridicoli omini sui bastioni del Capitale
                   - I telefonici costretti ad una difensiva sindacale di classe

PAGINA 2 - È il Comunismo il segreto che informa e spiega il mondo presente

PAGINA 3 - Il dominio dell’imperialismo : Le prime 200 imprese che governano il Mondo.

PAGINA 4 - Ferrovieri - Il CoMU alla prova delle RSU

(Per motivi di spazio la seconda parte della corrispondenza sulla "soluzione" data dalla borghesia inglese, ben coadiuvata dai falsi "sinistri", alla crisi dell’auto, è rimandata al prossimo numero).
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 1

Rumorose imprese dell’ETA
 Striminziti campanilismi reazionari e manovrabili

 Il marxismo considera un passo avanti la costruzione dello Stato nazionale borghese in un contesto storico di opposizione a forme sociali precapitalistiche reazionarie e caduche. Ovvero contro il colonialismo imperialista e per la creazione di Stati nazionali nelle ex-colonie, pre-condizione per la futura lotta del proletariato indigeno contro la propria borghesia. Questo è il nostro ABC sulla questione. Tuttavia, e grazie all’operato dello stalinismo in tutte le sue versioni, l’originale posizione marxista è stata tanto distorta che, confondendo i termini della questione, si è equiparato il socialismo alla costruzione di Stati nazionali.

È infatti anche tesi classica del marxismo, e pertanto della nostra corrente, che nell’area europea occidentale, dal 1871, si possono dare per chiuse le unificazioni nazionali in lotta aperta contro l’oppressione feudale e retrograda. Restava in piedi il caso dell’Irlanda, la prima colonia inglese, malamente chiuso all’inizio del secolo con la ferita aperta dell’Ulster. Da quel momento, dopo la collaborazione dei nemici borghesi francesi e prussiani nello schiacciare la Comune proletaria, qualsiasi rivendicazione di tipo nazionale nell’area non sarà che la manifestazione di interessi borghesi che cercheranno di trascinare il proletariato dietro a sé come carne da cannone.

Se nel 1871 queste tesi nazionaliste già potevano esser considerate reazionarie, oggigiorno, 130 anni dopo, sono arcireazionarie, e meramente controrivoluzionarie, nonostante l’orgia di atti violenti che in molti casi, segnatamente nel caso basco, le accompagnano e che portano a confondere più di uno. Anche quando il ricorso alla lotta armata non è la nota dominante, caratterizza i movimenti nazionalisti il fregiarsi di una fraseologia “socialisteggiante”, con l’obbiettivo di mascherare alla classe operaia i loro obbiettivi pienamente borghesi e di conservazione del sistema di schiavitù salariata.

L’ultimo decennio del millennio ha visto un “risorgimento” dei nazionalismi, svolgentesi però questi ormai in un ruolo ben diverso da quello rivoluzionario del secolo XIX. Si sono convertiti, per implacabile dialettica, in forze reazionarie che cercano di impedire il progresso storico. La loro funzione è ormai solo controrivoluzionaria, come si è dimostrato con lo strazio iugoslavo e in Africa, dove l’imperialismo ha attizzato l’odio etnico per il dominio dei mercati e delle materie prime o per la difesa di interessi geostrategici.

Quindi, se la forza del nazionalismo sembra oggi maggiore che mai, come si mostrerebbe nelle guerre balcaniche o nella “costruzione nazionale” delle ex-repubbliche dell’URSS, questo non è che l’apparenza del fenomeno, giacché tutto questo tormento storico non ha costituito in nessun caso un reale progresso. Le relazioni economiche e sociali erano già in quei paesi pienamente capitaliste e borghesi, e le tendenze centrifughe non sono state altro che una valvola di sfogo della terribile crisi economica che ha scosso il blocco capitalista dell’Est e un diversivo per le lotte operaie, delle quali si teme sempre la generalizzazione ed estensione internazionale.

Ma terreno di scontro è anche la arrancante Unione Europea, dove il rinfocolarsi dei nazionalismi, come in Austria, Belgio, ecc., viene ad intralciare il processo della sua “unificazione”. Tanto che è spontaneo sospettare un “intervento” dei servizi americani nel fomentarvi molte delle cosiddette “questioni nazionali”. Perché quello che fanno spudoratamente in America Latina non potrebbero ordire, magari con più discrezione, anche in Europa? È così facile far leva su larghi settori piccolo borghesi terrorizzati per il loro imminente trapasso nel proletariato, conseguenza delle spietate leggi del sistema capitalista.

I Paesi Baschi offrono uno dei casi più eloquenti di questo fenomeno, e probabilmente di questa “protezione”.

Nell’ampio lavoro pubblicato sulla stampa del partito dedicato al nazionalismo basco abbiamo dimostrato come questo movimento, fin dalle sue origini irrimediabilmente conservatore, abbia poi modificato l’iniziale anticapitalismo reazionario filocarlista e clericale, via via che il plusvalore estorto al proletariato iniziava a raggiungere anche le classi e gli strati che costituiscono la sua base sociale. Missione attuale di questo movimento, secondo le sue proprie parole, sarebbe la “costruzione nazionale” di Euskalerria, neologismo usato dai tempi di Sabino Arana per designare il territorio considerato come Basco.

Per il momento la internazionale classe borghese sta vincendo la partita: la ribalcanizzazione dell’Est si è mostrata come un buon antidoto contro la presa di coscienza rivoluzionaria, anticapitalista e antimercantile. E non si può escludere una soluzione borghese simile alla balcanica nelle zone più vulnerabili dentro l’Unione Europea, nelle condizioni di crisi economica e sociale che, sebbene non imminenti, si profilano all’orizzonte.

L’Europa è una giungla di nazionalismi nella quale le belve capitaliste sono pronte ad azzannarsi non appena le necessità del capitalismo lo esigano. Al proletariato, al suo schierarsi per sé nella guerra sociale, ancora una volta, l’ultima parola.
 
 
 
 
 
 

Rinchiuso il proletariato palestinese ed ebreo
nella trappola dei nazionalismi

 Sabato 11 novembre si è svolta a Roma una manifestazione nazionale di appoggio alla causa nazionale palestinese, proclamata da svariate sigle appartenenti alla multiforme costellazione che si agita, nel gergo fra costoro in voga, “alla sinistra di Rifondazione e dell’arco parlamentare”.

Il manifesto che la pubblicizzava sosteneva ed appoggiava la rivendicazione della formazione di un legittimo Stato palestinese comprendente i territori di Gaza, tutta la Cisgiordania e con Gerusalemme Est per capitale, sottoscrivendo piattamente il programma dell’OLP che è, non lo dimentichiamo, il comitato d’affari della borghesia palestinese. Gli organizzatori del corteo, ritenendo la rivendicazione nazionale di suprema importanza, si dichiaravano a favore di una prosecuzione dell’Intifada da parte delle masse palestinesi fino al raggiungimento integrale di tale obbiettivo.

Tutte le posizioni espresse dalle diverse forze che hanno aderito e partecipato al corteo hanno palesato un identico appoggio al mito interclassista, reazionario e anti-proletario, della utopia nazionale palestinese. Solo sui metodi da utilizzare per il risultato di vedere la bandiera patria palestinese sventolare su Gerusalemme i vari aggruppamenti accorsi apparivano divisi. Al fianco degli “intifadisti” nostrani e delle organizzazioni dei palestinesi in Italia, sfilavano in gran numero, venuti da tutta Italia, i “comunisti” di Rifondazione con relativa ala giovanile “estetico-oltranzista”, ondeggiante fra l’enfasi barricadera e la richiesta della soluzione diplomatica patrocinata dai governi europei! Davano infine bella mostra di sé tutte le anime pie delle varie associazioni pacifiste che reclamavano a gran voce una alquanto improbabile pacificazione dell’area fondata sui buoni propositi e sul diritto internazionale.

In questo assai fetido clima il nostro Partito è intervenuto con dei suoi militanti i quali hanno svolto una intensa opera di strillonaggio del giornale ultimo, che portava in prima pagina un corposo articolo inquadrante le vicende medio orientali nella ottica internazionalista e proletaria, unica del marxismo ortodosso ed incorrotto. Vi si denuncia come reazionario e controrivoluzionario il nazionalismo non solo palestinese, ma anche Pan-Arabo, essendo le pavide e flaccide borghesie della zona tutte legate a doppio filo all’imperialismo occidentale con il quale condividono il terrore dell’insurrezione delle plebi mediorientali, che metterebbe in discussione il loro potere basato sul bestiale aggiogamento delle masse diseredate. Si indica come unica prospettiva possibile e realmente emancipatrice delle masse arabe e degli sfruttati di tutta l’area, nonché ovviamente risolutrice della “questione palestinese”, quella della rivoluzione comunista internazionale, che nel Medio Oriente, sotto la direzione del Partito marxista mondiale, unifichi i proletari palestinesi, arabi ed israeliani contro le rispettive borghesie e contro l’imperialismo mondiale, al cuore e al cervello del quale dovrà colpire impavido il proletariato rivoluzionario d’occidente che, tendendo la mano ai fratelli di classe e di colore, espugnerà le fortezze del capitalismo mondiale.

Prospettiva questa non sappiamo quanto lontana, come dimostra il fatto che i proletari delle metropoli, imbavagliati e immobilizzati dall’opportunismo politico e sindacale, nonché in alcuni settori corrotti dalle sempre più misere regalie e garanzie “patrimoniali” concesse dalle proprie borghesie, non hanno accennato alla benché minima reazione classista, lasciando la piazza nelle mani viscide ed interessate delle mezze classi, incapaci di vedere oltre le squallide e forcaiole prospettive di Pace - Patria - Giustizia. Sfilavano queste nelle via di Roma consumando i propri riti consunti, ostentanti un radicalismo di maniera, ipocrita e avvizzito, in sfregio alle martoriate masse arabe che versano a fiotti il proprio sangue proletario in una mentita guerra tra nazioni, razze e religioni.
 
 
 
 
 
 
 

Elezioni americane
Danza di ridicoli omini sui bastioni del Capitale

Non passa giorno senza che la borghesia, obtorto collo, debba inchinarsi alla potenza della concezione materialistica del marxismo. Non si può non gioire dei colpi portati contro quella vera peste controrivoluzionaria definita dal partito la “teoria del battilocchio”, pestifera sia quando s’innalzi l’individuo d’eccezione a facitore di storia, sia quando si va in delirio per la generica persona umana, mai tanto corteggiata come in quest’epoca della storia in cui viene stritolata in massa come polvere nel mortaio.

Alcune perle pescate nel mare magnum della stampa borghese sulla imminente elezione del Big n.1 mondiale a capo della Repubblica a stelle e strisce, ci offrono l’occasione per fugare da qualche capa ancora tosta la vecchia canzone che la moderna poliedrica società capitalistica possa essere pilotata da una banda di tre o quattro più o meno minorati Nomi Illustri, siano essi genii del Bene o del Male. O, alla rovescia, che milioni di uomini si debbano immolare al solo scopo di appendere, per il collo o per i piedi, l’ex Big di turno.

Citiamo testualmente da “La Stampa” del 1° novembre scorso: «Bush è arrivato alla politica non per passione ma perché non sapeva cos’altro fare: avendo un padre che era stato presidente, un nonno senatore come Prescott Bush e un altro antenato presidente nell’albero genealogico della madre Barbara, cioè Franklin Pierce, ha intrapreso il mestiere più in voga in famiglia. A poco più di quarant’anni ha lasciato la vita dissipata e inventandosi una profonda conversione religiosa è stato “illuminato da Dio”, per usare le sue parole (...) All’uomo piace presenziare, stringere la mano, apparire in Tv, ma per lui un dossier da studiare o un argomento da approfondire sono vere e proprie torture (...) Fino a tre mesi fa era del tutto a digiuno di politica estera. Dopo una lunga serie di infortuni si è sottoposto ad un corso intensivo per apprendere almeno i fondamentali, cioè ha imparato a memoria i nomi degli attuali capi di Stato e quelli delle capitali.

«Al Gore, invece, è stato fin da giovane programmato per la politica da un altro genitore famoso nei corridoi dei palazzi di Washington, il senatore Albert. Per volontà del padre ha fatto il giornalista nel Tennessean, un foglio in cui si sono formati molti Democratici illustri (...) E sempre su suggerimento del vecchio è partito per il Vietnam proprio lui che era un attivista del movimento pacifista: un rifiuto sarebbe stato una macchia indelebile nella sua biografia politica (...) Gore, che è del tutto sprovvisto di humor, in un anno ha preteso di diventare un esperto di armamenti, lui che non sa distinguere un cannone da un carro armato».

Questo florilegio ci mostra non solo che sono stati elevati al grado di merce-genio certe specie di fessi da far paura, ma che oggi, in una società in dissoluzione, la passività delle masse — che non è per difetto di cultura o per mancanza di capi, ma per difetto di forza rivoluzionaria a seguito di note cause complesse e remote — diffonde tra i proletari la convinzione che bisogna guardare agli uomini del destino e che a determinare la storia siano i vari cambi della guardia dei “battilocchi”.

La concezione non muta se a quella che tutto concentra nella singola scatola cranica si sostituisce quella che vuole far passare il fatto storico per tutti i cervelli, anteponendo così alla lotta rivoluzionaria la preventiva educazione e coscienza, concezione già battuta in breccia dal marxismo in fasce.

È nota la connessione, in Marx, tra la funzione della grande individualità nella storia (e non solo dei Migliori ma dei grandi numeri, di interi popoli, di intere classi) e le condizioni economiche e l’umana attività in generale; la relazione che si stabilisce tra la condizione materiale media in cui vive un determinato agglomerato sociale e i corrispondenti riflessi nel campo cosiddetto sovrastrutturale dell’ideologia, della religione, della politica, dell’arte. «Nella produzione sociale della loro vita gli uomini accedono a rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà; rapporti questi di produzione che corrispondono a un grado determinato dell’evoluzione delle forze produttive materiali». Su tale base reale si èleva la sovrastruttura giuridica e politica, cui corrispondono determinate forme della coscienza sociale. Non è quindi la posizione economico-sociale dell’individuo che determina la sua ideologia. La formula di Marx è: «Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo della vita sociale, politica e spirituale in generale».

La passività dello spirito rispetto alla materia nella singola persona resta per noi fatto assodato, ma nel nostro determinismo la verifica non pretendiamo di averla alla scala individuale. La dimostriamo nel campo sociale con l’analisi storica ed economica e non escludiamo che la regola generale possa essere contraddetta in singoli casi, senza per questo intaccare la teoria.

Il marxismo rivoluzionario non è morto, e legge ancora la storia per antagonismi di classi avverse e non per protagonisti che recitano sulle poltrone ai vertici.

La rottura della determinazione dell’epoca borghese, per cui le vittime del sistema pensano con l’ideologia propria di esso, avverrà per la prima volta nella storia con la comparsa di un soggetto conoscente e agente che non è un persona, ma il partito rivoluzionario. Qui il “rovesciamento della prassi”.

Per fortuna lo stesso capitale, per contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto e imporre il suo tallone di ferro sul proletariato, è costretto a lavorare per noi. Come dice Engels, i capitalisti sono costretti a riconoscere in parte il carattere sociale delle forze produttive. Essi si affaccendano ad impossessarsi dei grandi organismi di produzione e di scambio, dapprima con società per azioni, poi per mezzo di trust e infine per il tramite indiretto dello Stato. Ma la borghesia si rivela con ciò una classe superflua, e tutte le sue funzioni sociali sono ormai svolte da funzionari stipendiati.

Se il capitalismo finisce col fare a meno delle Personalità, il comunismo comincia allo stesso modo. Gli operai vinceranno se capiranno che “nessuno deve venire”. L’attesa del Messia e il culto del genio, spiegabili per Pietro e per Carlyle, sono per un marxista solo misere coperture di impotenza. «La Rivoluzione si alzerà tremenda, ma anonima».
 
 
 
 
 
 

telefonici costretti ad una difensiva sindacale di classe

 La ristrutturazione del settore pubblico ha colpito con violenza le aristocrazie operaie, quei vasti settori della classe lavoratrice che, dal dopoguerra ad oggi, grazie a dure lotte ed all’obbiettivo valore particolare del loro lavoro, avevano goduto di condizioni economiche e normative migliori di quelle del settore industriale. Dal 1995, invece, parti nodali del sistema, come ad esempio la Telecom per le telecomunicazioni, sono state sottoposte ad un attacco che in pochi anni ha distrutto gran parte di quelle conquiste. La “privatizzazione” ha prodotto un gran numero di “esuberi”, una frantumazione capillare della contrattazione collettiva, un aggravamento dei ritmi di lavoro, un minor salario reale e soprattutto la divisione, oramai accettata, tra occupati e nuovi assunti, base indispensabile per un futuro ritocco al ribasso delle condizioni economiche e normative.

Il 1992 è stato l’anno dell’ultimo contratto collettivo prima della fine del monopolio; fu siglato dai sindacati confederali più la CISNAL, con Telecom ed Intersind. È stata questa l’ultima contrattazione “positiva”, che si colloca allo stesso livello d’altri settori di élite come Enel o FS. È stato anche l’ultimo contratto nella cui filosofia stanno, precise ed intoccabili, le regole per la determinazione di diritti, doveri, normative e livelli salariali.

Nel 1995 tutto inizia a cambiare: c’è la fine del monopolio, viene assegnata la licenza ad Omnitel per la telefonia mobile, localmente ad Albacom ed a poche altre ditte telefoniche, che inizialmente si occupano soltanto di nicchie di mercato. Omnitel (cioè Olivetti) aderisce alla Confindustria ed adotta per i suoi lavoratori il contratto dei metalmeccanici privati con l’integrativo della casa madre Olivetti. Albacom sceglie invece il contratto del commercio come altri gestori. Alcuni sceglieranno addirittura quello dei grafici. I sindacati tricolore prendono la palla al balzo e, con la scusa di non poter lasciare senza tutela quei lavoratori, accettano e siglano accordi con qualunque azienda. È l’inizio di un processo disgregante che, mancando un’opposizione sindacale che raccolga ampi consensi, porterà in pochi anni a decine di contratti separati e difformi.

Nel 1996 viene siglato un nuovo contratto, denominato di “settore telecomunicazioni”, cui si aggiungeranno gli integrativi Telecom e Tim (le cosiddette “armonizzazioni”). Se il vecchio contratto del ’92 era stato, pur con molte pecche, un contratto preciso e con formulazione di regole, questo apre, all’opposto, alla “libera” contrattazione delle parti, introducendo, come primo paletto, un’ampia ed indiscriminata “flessibilità” negli orari. Per ciò che riguarda l’aspetto salariale si ha un rapporto 80%/20% tra base contrattuale e “armonizzazione”, cioè integrativo. L’intera massa salariale (quella del ’92 con gli aumenti annui più quelli del nuovo contratto), rimane pensionabile, liquidabile e base di calcolo per i futuri aumenti. Le quote salariali del contratto di settore e quelle dell’integrativo-armonizzazione spettano sia al personale in servizio sia ai nuovi assunti.

In realtà, nonostante la denominazione, il contratto del ’96 rimane un contratto limitato alla sola Telecom. I sindacati confederali, infatti, si sono ben guardati dal forzare per farne base per tutte le nuove aziende che si stavano affacciando sul mercato.

I nuovi gestori, dal 1996 ad oggi, sono diventati circa duecento tra “mobile” e “fisso”, locali e nazionali, ed il caos contrattuale è via via divenuto totale, a tutto beneficio delle aziende. Le “licenze” per operare sono rilasciate dal Ministero delle Poste e Telecomunicazioni, ma il quadro normativo vigente non mette ordine nelle questioni contrattuali; anzi, con uno spirito “liberistico” che neppure la Thatcher aveva raggiunto nei suoi momenti migliori, sia il Ministero delle Poste e Telecomunicazione, sia quello del Lavoro, sia l’Antitrust, sia l’Autorità delle Comunicazioni di Cheli rimettono all’”accordo fra le parti” la questione di quale contratto applicare. Il gioco è sin troppo scoperto: gli interessi di aziende e sindacati collaborazionisti si fondono a solo danno dei lavoratori, che sprofondano sempre più in uno sfruttamento senza più vincoli, dovendo operare in condizioni sempre più precarie.

Dinanzi a tutto questo caos, lo stesso padronato, forse per questioni sue interne, cerca un punto fermo. La disintegrazione è avvenuta, l’opposizione, nonostante alcune importanti azioni di disturbo, ancora non riesce a sfondare e così nel 1999 CGIL, CISL e UIL decidono per la firma di un contratto per Wind simile a quello di Telecom del ’96 con un integrativo per i dipendenti provenienti dall’Enel. All’inizio del 2000 siglano un altro contratto per Blu ed Acea Telecomunicazioni, peggiori di quello di Wind quanto a salari e normative.

L’atto finale è del giugno scorso, quando viene firmato un contratto per tutte le telecomunicazioni, che ovviamente “guarda” in basso ricalcando quasi i salari di Blu e Acea, ma peggiorando le condizioni normative per il lavoro parziale, precario ed in affitto. Dopo aver determinato la disgregazione, si unifica sulle condizioni peggiori. Da un punto di vista salariale siamo ad un meno 10% rispetto a Wind, un meno 20% rispetto a Telecom ’99 e ad un meno 5% rispetto ai metalmeccanici privati. Ma, soprattutto, l’innovazione veramente pericolosa è che, come ribadisce anche l’accordo di armonizzazione Telecom firmato il 19 luglio, ai nuovi assunti andrà soltanto la parte di salario dell’unico “contratto di settore”. In soldoni, in Telecom un nuovo assunto avrà un 30/35% di salario in meno, cioè la differenza fra il contratto vecchio integrato dall’”armonizzazione” e il nuovo contratto di settore. È chiaro che la diversità salariale e normativa porterà immediatamente ad una inconciliabile contrapposizione di interessi tra lavoratori, che certo farà gioco ai vari padroni.

A settembre il nuovo contratto di settore, insieme a quello di armonizzazione, arriva nelle assemblee, dove i sindacati, con arroganza pari solo alla loro malafede, lo dichiarano “non discutibile” in quanto già firmato da CGIL-CISL e Uil, entità supreme al di sopra di ogni possibilità di giudizio. A questo punto la presa in giro è tale e i peggioramenti normativi e salariali così evidenti, che alle opposizioni di base rimane facile raccogliere la sfiducia. Con uno scatto d’orgoglio i lavoratori prendono unanimemente posizione contraria agli accordi, i sindacalisti sono sommersi da una marea di bocciature ed in alcune assemblee, per la presenza numerosa dei cassaintegrati, finisce anche a seggiolate.

Il 13 ottobre è il giorno dello sciopero dei sindacati di base (FLMU, Cobas, Slai-Cobas) al quale si uniscono due sindacati autonomi (Snater e Fialtel del Lazio). Lo sciopero ottiene un grosso successo, per la prima volta si attesta su quote significative di adesione e per i confederali è un ulteriore segnale dello scollamento nei confronti di una base che fino a pochi mesi fa controllavano a loro piacimento.

Il 6 novembre i confederali proclamano quattro ore di sciopero, che riporta adesioni molto basse. Lo sciopero del 10 novembre di tre ore dei sindacati di base e dell’autonomo Snater, viene invece dichiarato illegale per “mancata attuazione della procedura di raffreddamento” dalla Commissione di Garanzia, che invita alla revoca, pena l’attuazione delle misure di legge. Le organizzazioni di base decidono di rimandarlo al 24 novembre, espletate tutte le procedure legali, lacci che dovranno essere infranti se intenderanno veramente ridare allo sciopero le sue caratteristiche di azione di classe.

È questa l’attuale condizione di una categoria fortemente scossa nelle sue sicurezze ed orfana del mito della unità, che, se vorrà difendere con coerenza e speranza di successo le proprie condizioni di vita e di lavoro, dovrà riappropriarsi velocemente dei primi ed elementari connotati dell’azione sindacale di classe.
 
 
 
 
 
 
 
 

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E’ il Comunismo il segreto che informa e spiega il mondo presente

 La scienza della dialettica, che significa collegamento, relazione, afferma che leggi e connessioni valgono sia per il mondo naturale sia nella storia della società umana, contrapponendosi nettamente alla concezione metafisica. Il modo di vedere metafisico considera le cose nella loro fissità e ignora le leggi del loro sviluppo e della loro trasformazione, non si rende conto degli infiniti nessi, del complesso gioco d’azione e reazione, che esiste fra tutti gli elementi della natura e della storia umana. Esso rimane appiattito sulla logica formale, in virtù del quale una cosa non può essere nello stesso tempo se stessa e un’altra; causa ed effetto stanno sempre in rigida contrapposizione. Viceversa il pensiero dialettico, considera le cose nella loro connessione generale e vede nel mondo non una somma di cose, ma un processo, un continuo divenire. Non solo: in questo movimento le cose s’influenzano reciprocamente.

Per gli antichi filosofi greci, il mondo non era stato sempre fisso e immutabile ma era qualcosa che si era venuto a formare dal Caos primitivo. In essi dominava non l’idea di una natura che è, ma che diviene e trapassa. Questa concezione aveva trovato la sua massima espressione in Eraclito il quale affermava che non c’è materia senza movimento e tutte le cose sono intrinsecamente contraddittorie; sono queste contraddizioni che assicurano il divenire, senza di esse, stasi e morte incomberebbero nell’universo. Concezione ripresa in seguito da Kant per respingere l’ondata metafisica, di pietrificazione, che si era imposta attraverso il feudalesimo. Kant con la sua teoria della genesi di tutti i corpi celesti da masse nebulose respingeva l’idea assurda che attribuiva all’universo come uno stato assoluto che è invece relativo. Affermava appunto che la natura ha una storia nel tempo.

Quasi contemporaneamente all’attacco portato da Kant alla fissità del sistema solare, analogamente nella natura organica si ebbe un grande contributo dalle scoperte del naturalista Darwin che portarono all’elaborazione della teoria dell’evoluzione delle specie. La nuova concezione della natura era, nei suoi tratti essenziali, ormai completa: ogni rigidità era sciolta, ogni fissità era scomparsa. L’intera natura si muoveva in un perpetuo ciclo e flusso. Il bisturi della dialettica aveva scardinato il pensiero del vecchio ordine sociale, rompendo l’immobilismo degli antichi regimi feudali, bisturi «che i pensatori dell’epoca borghese applicarono al mondo naturale con una lotta che era il riflesso della lotta sociale rivoluzionaria contro i regimi teocratici e assolutisti, ma che non potevano osare di spingere alle applicazioni sociali» (nostro Tracciato d’impostazione, p.11).

Se quest’indiscusso merito aveva raggiunto la sua massima critica con Hegel, introducendo nel pensiero la luce vitale del movimento — così come, ad Omero che invocava la sparizione della discordia tra gli dei e gli uomini, Eraclito rispondeva che così facendo pregava per la distruzione dell’universo — noi marxisti rispondiamo a Hegel impostando la battaglia con le sue stesse armi, ma, rispetto al suo, il nostro metodo dialettico non è soltanto diverso, ne è l’antitesi. Hegel fa poggiare tutta la sua costruzione su una base astratta quale la Coscienza, l’Io, l’Uomo, commettendo l’errore come di “camminare reggendosi sulla testa”. Come Marx ripeterà tante volte, è dall’Essere che bisogna partire, e non dalla Coscienza che l’Io ha di se stesso; Pensiero e Spirito sono gli ultimi arrivati, i più deboli. «Al posto dell’Io collochiamo non l’uomo fuori del tempo, ma l’uomo del tempo nostro, il proletario salariato». Se con Hegel non si esce dalla triade Io-Non io-IO, e quindi non c’è superamento dell’individuo, Marx, in virtù del fatto che rende concreto l’uomo astratto di Hegel, «fa sì che l’operaio rientri non nello stesso singolo individuo, ma nella forma umana superiore, nell’uomo sociale, nel primo vero uomo che sia umano. Questo termine d’arrivo è la società comunista».

Per Marx è importante trovare le leggi dei fenomeni che si impone di indagare, cioè la legge della loro metamorfosi, del loro sviluppo. Scoperta questa legge, egli esamina nei particolari le conseguenze in cui essa si manifesta nella vita sociale per prevederne il corso. In questo senso la nostra pretesa di descrivere la società futura è fondata come quella dell’astronomo di prevedere le eclissi. In questa concezione del corso della storia il passato non fu un errare nelle tenebre, perché è attraverso tutta la ricchezza delle sue rivoluzioni che si è aperta la via al comunismo. Il progresso dell’umanità e del sapere non è continuo, ma avviene per grandi isolati slanci: «I baleni della conoscenza umana sono scioglimenti rivoluzionari di storici enigmi».

Noi sosteniamo che è possibile l’indagine sulle leggi della società futura in quanto diamo alla scienza della società umana, per quanto essa sia solo all’inizio, le stesse capacità che alla scienza della natura. Indagine che la moderna classe borghese non osa spingere avanti per non dover concluderne la relatività della propria forma sociale e decretarne quindi la morte ad opera della classe da essa generata: il proletariato. Per il marxismo la filosofia della storia non ha ragione d’essere diversa dalla filosofia della natura. Quale che sia il loro diverso grado di sviluppo, per la scienza della natura e per la scienza della storia ci serviamo degli stessi metodi d’indagine, allo scopo di stabilire uniformità d’eventi passati ed attuali, e da tanto assurgere a previsioni d’eventi futuri.

In questa dialettica, cioè scienza delle leggi generali del movimento e dello sviluppo della natura e della società umana, la contraddizione e la negazione non significano fine ma superamento. Non altrimenti accade nella storia, dove tutti i popoli civili cominciano con la proprietà comune del suolo, questa ad un determinato punto del suo sviluppo diventa una catena per la produzione, viene negata, soppressa e trasformata in proprietà privata. Ma ad un più elevato grado di sviluppo diventa anch’essa un limite per la produzione. Sorge l’esigenza che anch’essa sia negata. Quest’esigenza non implica il ristabilimento della vecchia proprietà comune primitiva, ma l’instaurazione di una forma molto più elevata, più sviluppata, il comunismo. Un cambiamento quantitativo ad un certo grado è un cambiamento nella qualità. La quantità si converte in qualità. Né mai dà qualità senza quantità.

Il comunismo, negazione della negazione, supera l’appropriazione privata. L’uomo ritorna a se stesso. Quest’uomo non è più l’uomo individuo, limitato ed egoista da cui partiamo, ma l’uomo sociale, il vero e primo uomo umano. «Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per se, dell’uomo com’essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione» (Marx, Manoscritti del 1844, pag. 111).

Marx scrive che la società comunista è il risultato dell’intera opera della specie umana durante tutto il suo divenire. La società è nella sua totalità un organismo vivente il cui presente è un momento del suo più grande ciclo. Essa nel suo divenire si dà forme di produzione differenti, di cui ciascuna, prodotto della precedente, è ricca di più determinazioni. Le sue contraddizioni sono in divenire, dapprima nel suo stesso seno, poi crescono con la società che l’incalza a misura della sua dissoluzione economica. È in questo senso quindi che chiamiamo comunismo non soltanto la società del futuro che nascerà dal grembo della matrigna forma capitalista, ma tutta la sua genesi storica. L’umanità nel suo insieme tende verso il comunismo. «L’intero movimento della storia è quindi tanto il reale atto di nascita del comunismo — l’atto di nascita della sua empirica esistenza — quanto è per la sua coscienza pensante, il movimento concepito e saputo del proprio divenire». Ed è questo comunismo, risultato di tutta la storia umana, presente nel grembo capitalista che spinge per nascere. È esso il segreto che informa e spiega il mondo presente. È esso che dà forza alle convulsioni sociali. È questo comunismo, che impregna l’uomo sociale fin dalla sua nascita, che già vive in quanto prepara il suo luminoso dispiegarsi nel domani.

Rivoluzione scontro tra due Forme di Produzione

Affermando che il comunismo non solo esiste già, in forma capovolta e alienata, ma è esso stesso la forza motrice del corso storico, risulta che esso non è un risultato posteriore alla crisi del capitale, tutt’altro, esso è origine e causa della crisi fatale del capitalismo, fino a spingerlo al punto di rottura e di scontro con la classe che da esso si è generato. Il proletariato, sola classe produttrice di plusvalore, agisce com’elemento distruttivo nel modo di produzione: infranta la legge del valore e liberato dal monopolio borghese, si dispiegherà a vantaggio della società intera.

Non indaghiamo qui, per quanto importante sia, sulla esistenza della società comunista, ma come essa nascerà, e dove risiede la realtà dello scontro rivoluzionario. Scontro che non è tra individui ma tra classi storiche, forma fenomenica di un più profondo confliggere, che vede come soggetti, prima ancora che le classi, due opposti modi di produzione: quello comunista contro quello capitalista. La questione della rivoluzione sta nell’urto di queste forze storiche, nel programma sociale d’arrivo, alla fine del lungo ciclo del modo capitalista di produzione. Nell’urto delle contraddizioni generate dalle forze produttive sociali, le classi si fanno portatrici di diversi modi di produzione, esprimendo la borghesia il capitale, il proletariato il socialismo. «Il divario degli interessi anche quotidiano e locale e l’antagonismo tra classe e classe (...) espressione di un fatto più profondo e determinante, che si estende a gran parte del mondo odierno e si svolge in una vicenda di decenni e secoli: la lotta tra un nuovo modo di produzione ben definibile, quello socialista reso ormai possibile dallo sviluppo delle forze produttive, e quello attuale capitalista difeso dalle presenti forme della produzione, della proprietà, dello Stato (...) Nell’infinito intreccio storico la forma che muore e quella che nasce determinano lo schierarsi dei loro agenti e seguaci, in conflitto tra loro, ma in diversissimi gradi edotti del corso del trapasso» (Classe, Partito, Stato nella teoria marxista, pag. 37).

Ecco perché, affermare che l’elemento essenziale della dottrina di Marx è la lotta di classe è un travisamento della dottrina e una deformazione opportunista. Delle classi Marx scoprì non la loro esistenza e la loro lotta, nota e costatata prima di lui, ma il fatto che la loro esistenza è legata a determinate fasi di sviluppo storico. Pertanto colui che si accontenta di riconoscere la lotta di classe non è ancora marxista. «Per quello che mi riguarda, a me non appartiene né il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna né quello di aver scoperto la lotta tra di esse (...) Quel che io ho fatto è stato di dimostrare 1) che l’esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2) che la lotta di classe conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi» (Marx Weydemeyer, 5 marzo 1852).

Il punto 1) ci dice chiaramente che sia la borghesia sia il suo antagonista il proletariato sono transitori, che la loro esistenza è solo una fase nello sviluppo delle forze produttive. Ad un certo punto del loro sviluppo queste vengono in contrasto con le forme tradizionali, tendono a spezzarne il cerchio e, quando vi riescono, si ha una rivoluzione.

Dinamica del Capitalismo

Il capitalismo, nella nostra visione dialettica, non è un punto di partenza né tanto meno di arrivo, ma solo una fase di transazione dell’umanità. Nasce espropriando i produttori personali, il suo dominio poggia sullo sfruttamento del proletariato, nuda forza lavoro, ed ha come fine l’autoriproduzione. Si riproduce in modo allargato, fin dall’inizio ha la tendenza inarrestabile a svilupparsi e a crescere incessantemente. A un momento dato della sua crescita questa quantità si trasforma in una diversa qualità, si muta nel suo contrario, si svalorizza.

Il movimento del suo sviluppo è anche il movimento delle sue crisi, come il processo della sua valorizzazione è anche il processo della sua svalorizzazione è della sua dissoluzione. L’autovalorizzazione del capitale è tanto più difficile quanto più essa ha già raggiunto grandi proporzioni.

Il capitale ha come fine non la soddisfazione dei bisogni ma la produzione del profitto. Poiché può realizzare questo fine solo uscendo da ogni regolazione si viene a creare un continuo conflitto. Il superamento dei limiti alla produzione del profitto si ottiene unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova è più alta. «Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso (...) Questi limiti si trovano continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo — lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali — viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente» (Il Capitale, libro III).

Siamo al cuore del problema, alla spiegazione decisiva della sovraproduzione, degli squilibri tra questa e il consumo, e delle conseguente crisi. La spiegazione si trova nella base economica del modo di produzione e nella legge fondamentale del capitalismo: la caduta tendenziale del saggio di profitto, dovuta ad un permanente sconvolgimento nella composizione organica del capitale, ad una continua rivoluzione tra capitale variabile, capitale costante e profitto. Cresce il capitale variabile, cresce il capitale costante, ma questo cresce più velocemente di quello: sempre maggiore massa si capitale costante è messa in moto dal singolo salariato. Anche se il saggio del plusvalore, quota non pagata del valore che il lavoro aggiunge alla merce, cresce, il saggio del profitto, rapporto fra plusvalore e ingigantita massa del capitale macchine e materie prime, viene tendenzialmente a cadere.

La massa di capitale si accresce sì, ma contemporaneamente diminuisce il saggio di profitto. La massa crescente dei profitti fa perdere di vista a borghesi ed affini la diminuzione del saggio, poiché la massa è una quantità fisica assoluta mentre il saggio è un rapporto. Saggio e massa — espressioni di uno stesso processo — evolvono in senso inverso, perché alla diminuzione del saggio, il capitale reagisce accrescendo la massa dei profitti e gonfiando la produzione. Il capitale reagisce aumentando la massa dei profitti, così esasperando ulteriormente le sue contraddizioni. L’enorme montagna di merci nella fase di prosperità, alla vigilia della crisi, che tanto soddisfa gli economisti borghesi, nasconde in realtà l’esiguo saggio di profitto che sarà fatale. La caduta tendenziale del saggio di profitto è foriera dello scontro e della catastrofe

Non potendosi fermare il ritmo di inferno dell’accumulazione, questa umanità parassita di se stessa, brucia e distrugge masse iperboliche di sopralavoro in un girone di follia, drogando le leggi della sua economia attraverso l’inflazione, il gonfiamento gigantesco delle spese improduttive, infiniti sprechi, il saccheggio delle ricchezze della natura, la crescente “mineralizzazione” della produzione e del consumo, l’elefantiasi delle spese militari, le enormi distruzioni di capitale nelle guerre incessanti, l’enfiarsi dei settori inutili di lusso. L’accumulazione che prometteva all’umanità sapienza e potenza la rende ora straziata e instupidita, fino a che non sarà dialetticamente capovolto il rapporto sociale che la contiene. Proprietà capitalistica e Formazione di plusvalore dovettero sorgere per la sua funzione storica, per rendere possibile la socializzazione, ma devono sparire perché questa possa continuare sgombrando il campo dalle pastoie mercantili. «Produzione contro scambio! Vulcano che promette la veniente eruzione sociale, contro morta gora che impaluderebbe la forza rivoluzionaria nel fango mercantile (...) Lo scambio pone l’accordo, ove la produzione pone l’antitesi» (Economia marxista ed economia controrivoluzionaria).

Questo fenomeno economico rivela che è lo stesso capitalismo a preparare le condizioni non solo materiali ma anche soggettive e politiche della propria eliminazione. «La produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione. Esso si dissolve nel proprio movimento per le contraddizioni delle sue parti antitetiche. Esso è la contraddizione vivente in moto. La madre dell’antagonismo ma anche la generatrice delle condizioni materiali e intellettuali per la soluzione di questo antagonismo» (Marx a Kugelmann, 17 marzo 1868).

Questa negazione non è ritorno all’indietro, ma il suo superamento, il comunismo. La proprietà privata in quanto tale e in quanto ricchezza è costretta a perpetuare la sua esistenza e con ciò, il suo opposto il proletariato. Il proletariato invece come tale è costretto a dissolversi e con ciò abolire il suo opposto che lo condiziona e lo fa proletario, la proprietà privata. «Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri affossatori» (Il Manifesto).

Tale teoria della morte del capitale, per non essere meccanicistica ma dialettica, deve appunto porre in evidenza il suo affossatore, il polo proletario del rapporto sociale borghese. Per Marx, il polo proletariato non è nulla se non quando è rivoluzionario, quando ha la sua anima, il suo programma e oppone il suo essere, cioè l’Essere umano, alla società borghese. Altrimenti si avvilisce e la sua anima è borghese, una cosa della società borghese. Allora non ha più vita, perché la sua vita è la rivoluzione.

Proletariato Soggetto della Rivoluzione

Nel suo stesso movimento economico la proprietà privata si avvia verso la sua dissoluzione, confermando una tesi basilare del marxismo e cioè il carattere catastrofico del suo esito, come lo fu il punto di partenza e il suo corso. La produzione, le istituzioni, i costumi crollano. In questo processo fisico violento sorgerà l’affossatore della borghesia, il proletariato rivoluzionario, non come un deus ex machina che cala dal cielo, piuttosto il contrario, proprio perché in esso è compiuta l’astrazione di ogni umanità.

Giusto Marx, se il comunismo è lo inizio e il prodotto di tutta la vicenda umana, l’alfa e l’omega dell’uomo, il proletariato moderno, ultima classe della storia, è il soggetto che, negandosi, viene ad identificarvisi. Il dispiegamento del comunismo è possibile solo grazie all’intervento politico attivo del proletariato, di: «Una classe della società civile che non è una classe della società civile, un ordine che è la dissoluzione di tutti gli ordini, una sfera che possiede un carattere universale a causa delle sue sofferenze universali, e non rivendica nessun particolare diritto perché nessuna particolare ingiustizia gli è stata fatta, ma l’ingiustizia per antonomasia; una sfera che non è in nessuna antitesi particolare con le conseguenze, ma in un’antitesi generale con le premesse (...) una sfera infine che non può emanciparsi senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, e quindi senza emanciparle tutte; che in una parola, è la perdita totale dell’uomo. Questa dissoluzione della società in quanto stato particolare è il proletariato» (Marx, Opere, III, pag.202).

La classe operaia è l’embrione vivo, che muta la sua forza soggettiva vivente in tutte le ricchezze. Le braccia — forza lavoro senza coscienza della loro somma opera — costruiscono giorno dopo giorno le basi della società comunista. La soggettività proletaria vincerà l’oggettività borghese, di cui essa e fonte, traformandosi essa, alla fine del processo, nell’ostetrica del parto della nuova società. Questo parto, che darà alla luce il nuovo modo di produzione, non sarà il frutto di una consulta delle teste, ma del maturare catastrofico dell’attuale sistema, abilitando ed obbligando i lavoratori a spezzare la maledizione sociale cui sono incatenati.

Questo il nostro materialismo determinista: «Gli uomini non sono messi in movimento da opinioni o comunque dal cosiddetto pensiero, da cui siano ispirate la loro volontà e la loro azione. Sono indotti a muoversi dai loro bisogni, che prendono il carattere di interessi quando la stessa esigenza materiale sollecita parallelamente interi gruppi» (Tracciato d’Impostazione).

Per noi marxisti soggetto della coscienza e volontà storica non è né il Dio dei cristiani né la “volontà popolare” dei borghesi, ma sono le forze impersonali del comunismo riflesse nel partito comunista, organo che solo può capovolgere il senso della prassi. Se il determinismo cioè esclude per l’individuo indipendenza di volontà e di coscienza, precedenti l’azione, mentre la materiale società dominante piega a sé la mente degli uomini, il rovesciamento della prassi — cioè la volontà cosciente d’agire che per la prima volta nella storia domina e precede l’azione — è possibile solo nel partito di classe in quanto risultato di elaborazione collettiva e storica.

Marx ha detto che sono gli uomini fanno la loro storia: è certo che la fanno, con le mani, con i piedi, e con le armi; materialmente la fanno, ma quello che noi neghiamo e che la facciano con la testa, per cui l’uomo agisce prima di aver voluto agire, e vuole prima di sapere perché vuole. Per i comunisti non occorre sondare nella testa di ogni singolo proletario per trarne la condanna a morte dell’attuale modo di produzione. «Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata pronuncia su se stessa producendo il proletariato (...) Ciò che conta non è che cosa questo o quel proletario, o anche tutto il proletariato si rappresenta contingentemente come fine. Ciò che conta è che cosa esso è e che cosa esso sarà costretto storicamente a fare in conformità a questo suo essere. Il suo fine e la sua azione storica sono indicati in modo chiaro, in modo irrevocabile, nella situazione della sua vita e in tutta l’organizzazione della società civile moderna» (Marx, La Sacra Famiglia).

È il suo essere di classe, condensato di tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che lo pone a ribellarsi e a scendere sul terreno della lotta e della violenza e che nel momento culmine assume il carattere di rivoluzione. Questa, inevitabile, non sarà dalle masse combattuta a seguito della comprensione razionale di principi generali, ma in difesa delle sue più immediate e materiali necessità. Marx ha cento volte ripetuto che la rivoluzione è un puro fenomeno naturale che parte dal basso: le violente contraddizioni accumulatesi costringono il proletariato a muoversi e a servirsi della lotta, della violenza per far valere i suoi interessi.

«Una rivoluzione è un puro fenomeno naturale, comandato da leggi fisiche piuttosto che da regole che determinano il corso della società nei tempi normali, e di più nella rivoluzione queste regole stesse assumono un carattere molto più fisico, la forma materiale della necessità si impone con maggior violenza» (Engels a Marx, il 13 febbraio 1851).

Questo atto di forza necessario, si ha quando il proletariato si manifesta infine come agente rivoluzionario di decomposizione e disgregazione. Riesce in questo nella misura in cui esprime e si sottomette alla guida dal suo Partito con l’attrezzaggio del quale perviene a rovesciare il potere borghese e ad imporre la dittatura del suo partito. Solo adempiuto a questo primo atto si passa alla trasformazione socialista della società, fatto anche questo distruttivo più che costruttivo; solo metodo che il marxismo conosce per costruire: cioè distruggere i rapporti borghesi di produzione e di proprietà, liberando così la società comunista dai mille impedimenti che la soffocano.
 
 
 
 
 
 

Il dominio dell’Imperialismo
LE PRIME 200 IMPRESE CHE GOVERNANO IL MONDO

 Il re è nudo, e noi lo diciamo forte e chiaro! Come nella ben nota favoletta un fanciullo, cioè il divenire che già c’è ed attende la sua ora per imporsi sul passato, non sta al gioco mendace dei vecchi sudditi e cortigiani ed urla l’evidente realtà che è davanti agli occhi di tutti.

Noi, il partito del proletariato, della classe rivoluzionaria, come il fanciullo della favoletta, abbiamo denunciato la vera essenza della new economy e della ancor più strombazzata globalizzazione: la verità è che il capitalismo avendo da tempo esaurito la sua spinta e funzione rivoluzionaria è stramarcio e nella sua attuale fase dell’imperialismo, come il vecchio re, cerca con ogni mezzo di ritardare la sua fine. I sempre più rari sussulti e brevi riprese non sono il segno della sua impossibile guarigione, bensì indicano il suo grave stato comatoso ed è ora che il suo becchino, dopo essersi ben sputato sulle mani, prenda la vanga ed appresti la fossa per tanto prossimo cadavere!

Fuori dalle metafore, la questione è a noi ben chiara. Abbiamo sempre demolito gli inutili tentativi degli economisti di regime di trincerarsi dietro nuove roboanti termini, come cercare di vendere un prodotto scaduto con una nuova più brillante etichetta: il gioco dura poco e la verità viene a galla. Così è successo per l’atteso superamento della crisi economica, che si protrae da anni e che gira per tutti i continenti. Le due nuove etichette, new economy e globalizzazione, si sono staccate ed è ricomparso il vero problema: la generale caduta del saggio del profitto, la generale sovrapproduzione di merci in regime capitalista nella quale il capitale inciampa nel suo ciclo di valorizzazione con l’enorme massa di capitali dei circuiti finanziari in affannosa ricerca di proficui investimenti.

Nell’articolo Già scritta nel marxismo la “globalizzazione”, su questo giornale n° 263/1998, a cui rimandiamo dato che quanto qui vuole esserne la continuazione, abbiamo ancora una volta chiarito che appunto la globalizzazione è un fenomeno tutto previsto dal marxismo e già descritto nelle sue linee generali già nel Manifesto del Partito Comunista del 1848. Lo stesso articolo riprende i punti fondamentali de L’imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin del 1916, assolutamente necessari per comprendere bene, senza farsi confondere dai falsi economisti di regime di oggi, la vera natura dell’ultima fase del corso del capitalismo alla scala planetaria.

Quindi nulla di nuovo. E con lo stesso nostro metodo di sempre leggiamo i continui processi di concentrazione e centralizzazione che sono alla base di tutti gli attuali sovvertimenti ed aggiustamenti strutturali in campo economico, ovvero le mosse e le contromosse che i gruppi di capitalisti approntano nel duplice tentativo di rimandare la loro collettiva sconfitta e nel frattempo cercare di eliminare i rispettivi concorrenti. Mors tua, vita mea, dovrebbe essere il motto all’ingresso delle loro dorate Associazioni.

Nello stesso articolo si fa riferimento ad una serie di dati sulla centralizzazione delle più grandi imprese capitaliste a scala mondiale riportati da Le Monde Diplomatique, relativi ad uno studio del 1995. Recentemente la stessa rivista ne ha pubblicato l’aggiornamento al 1998, che qui commentiamo per illustrare l’accelerazione e l’ampiezza assunta da questo movimento negli ultimi tre anni.

Prima di studiare gli sviluppi dell’attuale crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali in alcuni settori produttivi principali riprendiamo alcuni principi chiave dell’economia marxista, senza i quali si rischia di equivocare con le fumisterie borghesi o ancor peggio, leggere erroneamente i fenomeni in atto. Concentrazione e Centralizzazione

Nel generale sensazionalismo attuale in campo economico due importantissimi processi dello sviluppo capitalistico, i processi di concentrazione e di centralizzazione del capitale, molto spesso vengono confusi fra di loro ed i due termini usati in modo del tutto arbitrario. Devono essere rigorosamente distinti in quanto profondamente diversi.

Marx così definisce questi concetti ne Il Capitale, libro 1°, cap. 23/2: «Ogni capitale individuale è una concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, con il corrispondente comando su un esercito più o meno grande di operai. Ogni accumulazione diventa il mezzo di nuova accumulazione. Essa allarga, con la massa aumentata della ricchezza operante come capitale, la sua concentrazione nelle mani di capitalisti individuali, e con ciò la base della produzione su larga scala e dei metodi di produzione specificamente capitalistici. L’aumento del capitale sociale si compie con l’aumento di molti capitali individuali. Presupposte invariate tutte le altre circostanze, i capitali individuali, e con essi la concentrazione dei mezzi di produzione, crescono nella proporzione in cui costituiscono parti aliquote del capitale complessivo sociale. Allo stesso tempo dai capitali originari si staccano polloni che funzionano come capitali nuovi autonomi. Un’importante funzione esercita in questo fra l’altro la ripartizione del patrimonio in seno alle famiglie capitaliste. Con l’accumulazione del capitale cresce quindi anche più o meno il numero dei capitalisti.

Due punti caratterizzano questo tipo di concentrazione che è basata direttamente sull’accumulazione, anzi è identica ad essa. Primo: la crescente concentrazione dei mezzi di produzione sociali nelle mani di capitalisti individuali è limitata, in circostanze altrimenti invariate, dal grado di aumento della ricchezza sociale. Secondo: la parte del capitale sociale domiciliata in ogni particolare sfera della produzione è ripartita su molti capitalisti, i quali sono contrapposti l’uno all’altro come produttori di merci indipendenti e in concorrenza fra di loro. L’accumulazione e la concentrazione ad essa concomitante non soltanto sono disseminate su molti punti, ma l’aumento dei capitali operanti s’incrocia con la formazione di capitali nuovi e con la scissione di capitali vecchi. Se quindi da un lato l’accumulazione si presenta come concentrazione crescente dei mezzi di produzione e del comando sul lavoro, dall’altro si presenta come ripulsione reciproca di molti capitali individuali.

Contro questa dispersione del capitale complessivo sociale in molti capitali individuali oppure contro la ripulsione reciproca delle sue frazioni agisce l’attrazione di queste ultime. Non si tratta più di una concentrazione semplice dei mezzi di produzione e del comando sul lavoro, identica con l’accumulazione. Si tratta di concentrazione di capitali già formati, del superamento della loro autonomia individuale, dell’espropriazione del capitalista da parte del capitalista, della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi. Questo processo si distingue dal primo per il fatto che esso presuppone solo una ripartizione mutata dei capitali già esistenti e funzionanti, che il suo campo d’azione non è dunque limitato dall’aumento assoluto della ricchezza sociale o dai limiti assoluti dell’accumulazione. Il capitale qui in una mano sola si gonfia da diventare una grande massa, perché là in molte mani va perduto. È questa la centralizzazione vera e propria a differenza dell’accumulazione e concentrazione».

In estrema sintesi quindi noi intendiamo per accumulazione la riproduzione del capitale su scala più ampia, per concentrazione l’aumento del capitale dovuto alla capitalizzazione del plusvalore prodotto da questo stesso capitale e per centralizzazione l’unione di diversi capitali individuali in uno solo di dimensioni più grandi. Più avanti faremo uso di altre citazioni tratte da Il Capitale per spiegare i grandi movimenti finanziari che oggi vengono sbandierati come frutto di una “nuova” economia e della “globalizzazione”, che però è già stata analizzata e descritta compiutamente da oltre un secolo!

Come anticipazione di un successivo rapporto basti questa citazione da L’imperialismo: «I risultati fondamentali della storia dei monopoli sono i seguenti: 1) 1860-1870, apogeo della libera concorrenza. I monopoli sono soltanto in embrione. 2) Dopo la crisi del 1873, ampio sviluppo dei cartelli. Sono però ancora l’eccezione e non sono ancora stabili. Sono un fenomeno di transizione. 3) Ascesa degli affari alla fine del secolo XIX e crisi del 1900-1903. I cartelli diventano una delle basi di tutta la vita economica. Il capitalismo si è trasformato in imperialismo». Già tutto chiaro, tanto da demolire senza appello farneticanti teorie su un impossibile ultra-imperialismo pacifico, in grado di eliminare fame, malattie, crisi, guerre, ecc. Quello che oggi viene descritto come “economia globale” in sostanza è un vistoso incremento e una maggiore facilità degli scambi di merci e di capitali in tutte le direzioni e in tutto il pianeta, dovuto anche, come una fra le cause principali, alla generale dislocazione degli impianti produttivi, soprattutto quelli a basso contenuto tecnico o quelli più pericolosi, in tutti gli angoli del mondo ed in particolare là dove il costo della forza lavoro è più bassa. La centralizzazione delle grandi imprese

La spinta propulsiva all’unificazione di grandi masse di capitali, qui rappresentati sotto forma di grandi imprese transnazionali, è data dalla necessità di ridurre i costi complessivi per gli investimenti in impianti produttivi, riducendo al tempo stesso la quota di capitale destinata all’acquisto della forza lavoro. Il capitale costante, cioè quella parte di capitale che si trasforma in mezzi di produzione, ossia materie prime, materie ausiliarie e mezzi di lavoro, che non altera la propria grandezza di valore nel processo di produzione, assorbe una massa sempre più grande ed esorbitante di capitale, necessario per avviare produzioni di ogni tipo, sia in termini assoluti sia relativi rispetto la quota di capitale variabile, ovvero quella destinata all’acquisto, tramite i salari, della forza lavoro, la quale muta di valore nel processo produttivo in quanto riproduce il suo equivalente e in più un’eccedenza, il plusvalore.

Il rapporto fra il capitale costante e quello variabile, la composizione organica del capitale, assume oggi valori impressionanti e in crescita vertiginosa. Dominante, in questo continuo processo di centralizzazione di capitali da trasferire nei processi produttivi, al di là degli accordi fra trust e cartelli per la spartizione di aree di influenza e dei prezzi di mercato, non sono le alleanze fra le grandi imprese, ma l’assorbimento, per impossessarsi di tutte le innovazioni e migliorie tecniche necessarie ad invadere il mercato con merci a prezzi inferiori rispetto la concorrenza.

Al vertice di questo continuo processo di centralizzazione, che interessa, in diverse proporzioni, tutte le sfere della produzione capitalista, vi sono delle imprese multinazionali di enormi dimensioni e diffusione mondiale che meglio esprimono nella lettura dei loro bilanci l’intensità di questa inevitabile tendenza. I succitati quadri statistici presentati da Le Monde Diplomatique riguardano due livelli di grandezza: una serie riporta i dati delle prime 200 multinazionali ed una seconda riferisce delle prime 50 imprese mondiali. Il confronto riguarda il breve arco di tempo 1995/1998. Rispetto a similari quadri presentati da Lenin ne L’Imperialismo, relativi all’intervallo di tempo fra il 1904 e il 1909, oltre l’enorme divario quantitativo della massa della produzione, in quelli del grande rivoluzionario c’è il riferimento, che qui non compare, al numero totale dei lavoratori e di quello impiegati nelle grandi imprese. Non è una mancanza da poco, in quanto è sempre il pluslavoro non retribuito di tutti i salariati, sia quelli delle piccole officine sia dei grandi complessi, che dà vita ed energia al capitale, e non il capitale in sé, nemmeno se nelle “nuova” economia “globalizzata”. Questa è la nostra irrinunciabile analisi economica e posizione di classe.

Nei primi anni ’90 le compagnie transnazionali erano circa 37.000 con circa 170.000 filiali, ma il vero potere economico si concentra nelle prime 200, le quali sono state ulteriormente ristrutturate in profondità in funzione di attirare sempre più capitali da parte di investitori sempre più affamati di profitti. Così negli Stati Uniti, durante il solo 1998, Exxon ha assorbito Mobil per 86 miliardi di dollari, Travelrs Group ha acquistato la Citicorp per 73,6 miliardi, Sbc Communication la Americatech per 72,3 miliardi, Bell Atlantic la Gte per 71,3 miliardi, At&T la Media One per 63,1 miliardi. L’importo totale di queste fusioni-acquisizioni ha superato i 366 miliardi di dollari. Su scala mondiale esse hanno raggiunto i 2.500 miliardi e supereranno i 3.000 miliardi nel 1999. Dall’inizio del decennio le somme messe in movimento in tal modo si sono elevate a 20.000 miliardi di dollari, ovvero due volte e mezzo il prodotto interno lordo degli Stati Uniti (Le Monde Diplomatique, dicembre 1999).

La tabella che segue (qui non riprodotta) è stata così organizzata: in ogni colonna compaiono due dati, il primo si riferisce ai valori al 1995 e il secondo a quelli al 1998. L’elenco dei paesi è in ordine decrescente rispetto al numero delle imprese multinazionali attive nel 1995. Nei due resoconti della rivista francese non vi è alcuna precisazione rispetto gli accorpamenti “GB/Paesi Bassi” e “Belgio/Paesi Bassi”. I valori del rigo “I primi sei Paesi”, che comprende la Gran Bretagna, andrebbero corretti con la quota parte del rigo GB/Paesi Bassi, ma non avendo precisazioni in merito i dati sono riportati come li abbiamo trovati. Il rigo “Pil mondiale” riporta i valori del fatturato mondiale.Si noti subito che le sole 200 maggiori imprese mondiali si accaparrano l’enormità del 31% nel 1995 e del 27% nel 1998 del Pil mondiale. I dati dell’ultimo rigo “Unione Europea” risultano dalla somma di quelli dei paesi europei, Svizzera esclusa, presenti in tabella compresi quelli degli accorpamenti misti fra Gran Bretagna, Paesi Bassi e Belgio.

Dalla tabella emerge la grave crisi avvenuta in questo triennio in Giappone dove si riduce di un terzo il numero delle imprese multinazionali, col conseguente dimezzarsi del fatturato e la perdita del 15% dei profitti derivati da questo tipo di grandi imprese. Ma la caduta più marcata si è verificata nella Corea del Sud dove si è dimezzato il numero delle imprese, il fatturato si è ridotto del 55% e in sostanza non ci sono stati profitti. Di queste gravi crisi hanno immediatamente approfittato e beneficiato quasi esclusivamente le multinazionali americane che hanno incrementato il numero delle imprese a carattere mondiale (dalle cifre in tabella emerge che l’aumento statunitense rimpiazza la perdita giapponese: meno 21 questo, più 21 quello!). Il fatturato delle ben 74 imprese Usa cresce del 38% ma hanno quasi raddoppiato i profitti ottenuti. Il saggio del profitto, già elevato, balza dal 5,2% al 7,1%. È significativo il dato che ben il 52% del totale dei profitti di queste 200 multinazionali sia assorbito dal capitalismo americano.

Rispetto alla precisazione sul corretto significato della centralizzazione del capitale, che abbiamo riportato da Marx, in questa tabella sarebbe più importante e significativo conoscere il valore individuale di queste multinazionali, che qui potrebbero essere erroneamente intese di uguale dimensione, anche per quanto riguarda la forza lavoro impiegata. Non basterebbe conoscere la “capitalizzazione” in Borsa raggiunta da ogni singolo paese in questa fascia di imprese, cioè la cifra che si ottiene moltiplicando il numero delle azioni di ciascuna multinazionale per il prezzo corrente di ciascuna di esse ed infine sommando questo valore azionario di tutte le aziende di ciascun paese. Non è corretto né preciso dal punto di vista economico perché i prezzi correnti delle azioni risentono in modo significativo delle distorsioni speculative borsistiche e degli innumerevoli trucchi contabili che le aziende, soprattutto quelle transnazionali, adottano per penetrare meglio nei mercati e per aggirare gli ostacoli doganali e fiscali. Il valore ottenuto fornirebbe solo un parametro di confronto per il nostro obiettivo di conoscere la centralizzazione capitalistica raggiunta da questo transeunte modo di produzione, ovvero la strada già percorsa verso la sua meta finale: creare le basi produttive e di classe per cedere il passo, tramite la rivoluzione proletaria, ad un superiore modo di produzione senza classi: il Comunismo.

Tornando al commento della tabella vediamo che la Germania, ormai riunificata, con lo stesso numero di imprese aumenta fatturato e profitti, come pure la Francia e la Gran Bretagna, i Paesi Bassi e, in misura minore, l’Italia, mentre cala leggermente la Svizzera. La Cina si fa sempre più presente quadruplicando il suo fatturato, salendo nel 1998 all’undicesimo posto della graduatoria, anche se in percentuale sul globale raggiunge solo l’1%. Sparisce il Canada e compare la Spagna.

È interessante leggere la relazione tra il numero di imprese, il fatturato e i profitti dei vari paesi perché questo rapporto ci fornisce un indicatore della centralizzazione raggiunta dai capitali nazionali, la possibilità di accumulazione più rapida ed intensa e ne esprime anche la residua vitalità. Ad esempio il Giappone, con 41 imprese, ha un fatturato di 1.830 miliardi di dollari e profitti per 39, corrispondenti ad un saggio del profitto del 2,2%. Il calcolo va fatto così: capitale finale = 1830; capitale iniziale = capitale finale – profitto = 1830 – 39 = 1791; saggio del profitto = profitto : capitale iniziale = 39 : 1791 x 100 = 2,2%. Gli Usa con 74 imprese fatturano 2.776 miliardi di dollari e vantano profitti per 183, con saggio del profitto dello 7,1%, fra i più alti della tabella, e uguale al 52% del totale dei profitti di questo comparto produttivo. Queste cifre ci danno la dimensione del grande bottino americano.

Il relativo basso rendimento del Giappone è dovuto principalmente alla sua crisi in atto, mentre Gran Bretagna, Svizzera e Paesi Bassi hanno un saggio del profitto più elevato che il Giappone, la Germania e via via tutti gli altri paesi e simile a quello americano, segno questo di una relativa maggior vitalità di quei gruppi di capitali.

Veniamo ai totali di gruppo. Intanto va notata la inversione nell’andamento dei saggi medi del profitto, che nel totale mondiale cresce, nei quattro anni qui considerati, dal 3,3 al 4,8%, il che è dovuto alla brevità dell’intervallo considerato e alle fluttuazioni del ciclo economico. Analoga inversione si ha sia nel totale dei primi sei sia nel totale della Unione Europea. Di questa eccezione transitoria ha preso a pretesto in questi anni l’esercito sconfinato dei cantori le lodi del Capitale. Hanno da scendere, i profitti, tanto e alla svelta, da quell’enorme 4,8! E non potranno dar la colpa di questo a noi rivoluzionari, se solo nel trionfo oggi del nostro nemico vediamo riflessa la catastrofica recessione di domani.

Il rigo relativo ai primi sei Paesi dà la dimensione della centralizzazione raggiunta dai grandi fra i grandi che detengono ben il 90% del fatturato globale e dei profitti. Lo scontro, per ora solo commerciale, tra Usa ed Unione Europea, utilizzando le cifre dell’ultimo rigo mostrano una leggera debolezza europea che ha 70 multinazionali contro 74 americane, un fatturato di 2.541 miliardi di dollari contro 2.776, ma minori profitti di 106,5 contro 183, che danno una percentuale sul fatturato mondiale di 33,6 contro il 36,5 americano e un saggio del profitto del 7,1% per gli Usa e del 4,4% per la Unione Europea. Il confronto con il NAFTA (Usa, Canada e Messico) si risolve di fatto sempre con gli Usa visto il basso livello messicano e l’attuale scomparsa del Canada da questo comparto.

La seconda serie di dati riguarda la capitalizzazione borsistica delle prime 50 imprese mondiali al 1999, serie che, se anche solo parzialmente, risponde al precedente quesito sulla centralizzazione raggiunta dalle economie più forti. Fra queste 50 ben 33 di esse sono americane, corrispondenti al 66% del totale, con una “capitalizzazione” borsistica, che potremmo meglio chiamare prezzo in Borsa, di 4.901,2 miliardi di dollari, il 71,8% del totale; segue molto da lontano il Regno Unito con solo 5 imprese, il 10% rispetto il numero totale con un prezzo di 591,6 miliardi, l’8,7% rispetto il totale. La Svizzera al terzo posto è presente con 3 imprese e 249 miliardi, il Giappone con 3 e 478 miliardi; segue la Germania con 2 imprese e 199,2 miliardi e la Francia con 1 e 73,6 miliardi, chiude il gruppo “altri” con 3 imprese di 329,9 miliardi di dollari, corrispondenti al 4,8% del totale. Queste 50 imprese sommano un prezzo in borsa di 6.822,5 miliardi di dollari. Il dato più emergente è il grande divario tra il livello raggiunto dal gruppo americano con il 71,8% sul totale rispetto il secondo, quello britannico, che è di nove volte più piccolo, ulteriore conferma, attraverso altri dati, dell’enorme feeling degli investitori per lo strapotere economico statunitense.

Come già descritto da Marx il processo di centralizzazione è intrinseco ed irreversibile, il modo di produzione capitalistico non può farne a meno. Crisi e guerre di enorme portata possono solo rallentarlo, benché spesso lo favoriscano, per poi riprendere con rinnovato vigore. Il suo cammino non è lineare né pacifico né indolore ed il proletariato mondiale è il primo a pagarne il prezzo i termini di maggior sfruttamento, precarietà e licenziamenti. Ma questo processo però non è eterno e rinnovabile all’infinito perché il livello delle contraddizioni che esso produce all’interno della società intesa alla scala mondiale porterà il proletariato, per non soccombere nell’abbrutimento, a reagire violentemente per demolire alla radice l’intero sistema dei rapporti sociali che definiscono il sistema di produzione capitalistico.
 
 
 
 
 
 
 

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Ferrovieri
Il CoMU alla prova delle RSU

 Nel mese di novembre in ferrovia sono state rinnovate le Rappresentanze Sindacali Unitarie. All’ORSA sono andati da un quarto ad un terzo dei voti, come media fra tutti i ferrovieri. I giornali borghesi si sono vantati che i sindacati confederali ed i loro alleati potevano ancora contare su di un 70-80% delle preferenze, condizione questa che consentirebbe al padrone di imporre la prosecuzione di quel progetto di ristrutturazione che ha avuto nelle lotte dei macchinisti, ed oggi di gran numero di ferrovieri, lo scoglio più arduo da superare.

Limitato, comunque, il significato di simili elezioni. Anche l’ultimo referendum fatto in ferrovia era stato chiaramente stravolto nei risultati e soltanto le lotte successive hanno impedito l’applicazione integrale del contratto sottoscritto dai sindacati tricolore. I lavoratori non si lasciano ingannare da simili numeri e confronti della pubblicità padronale: contavano e contano sempre e soltanto sulle proprie forze e sui numeri giusti, quelli che realmente esprimono la loro autonoma capacità di organizzazione, di mobilitazione e di solidarietà di classe.

Per più di sei anni CGIL, CISL e UIL hanno spinto per ridimensionare, anche formalmente, queste strutture, appoggiando il progetto che prevedeva un accorpamento di questi organismi a livello regionale, nell’intento di controllarle meglio, specialmente per ciò che concerne settori come macchina, viaggiante e stazioni in cui la loro influenza si è ridotta nel corso del 1999/2000 ai minimi storici. Scosse, infatti, da quattro scioperi che hanno coinvolto tutto il personale ferroviario e non i soliti macchinisti, hanno cercato, in accordo con il padrone, di approntare tutte le difese possibili, tra le quali appunto questo tentativo ulteriore di “burocratizzazione”.

Va qui rilevato che, salvo chiedere alcune variazioni marginali, anche il CoMU ha apposto la firma a questo progetto, fatto questo di segno negativo. In più va apertamente criticato il metodo seguito: a suo tempo i coordinatori nazionali hanno ratificato l’accordo mentre gran parte dell’organizzazione non ne era a conoscenza. Ovviamente ben sappiamo che questo modo di procedere può talvolta rendersi necessario e non deve fare eccessivo scandalo, ma è importante ribadire la necessità di un rapporto, non tanto formalmente democratico, quanto sempre chiaro ed onesto, condizione indispensabile nella costruzione dell’organizzazione dei lavoratori.

Il CoMU e alcune minoranze di ferrovieri sono riusciti talvolta a ribaltare il senso delle RSU: un Coordinamento di questi organismi è stato parte attiva negli ultimi scioperi.

Ma è il CoMU che dovrà fare un salto di qualità, liberandosi dalla limitazione di mestiere e dai vincoli imposti dalla nuova aggregazione denominata ORSA, che lo vede collegato alla FISAFS, così da poter accomunare sulle sue posizioni e nell’azione tutte le altre categorie. È un’occasione questa che potrebbe favorire un’organizzazione più vasta, con la quale mantenere, o ristabilire, le condizioni favorevoli che oggi permettono un rapporto diretto fra categorie in tutti i posti di lavoro.

Fa parte di questo progetto anche una modifica allo statuto del Coordinamento, che lo liberi dal vincolo che permette l’iscrizione ai soli macchinisti, aprendo le porte ai tanti ferrovieri che vagano nel limbo di una non adesione sofferta, risultato del rifiuto della politica confederale. I risultati positivi non sono certo scontati, ma la forzatura imposta dai sindacati di regime, come spesso è accaduto in passato, può essere d’incentivo a superare le ristrettezze di una difesa ad oltranza relegata in una sola categoria.

Questa soluzione sarebbe la logica conseguenza del lavoro che ha portato tutti i ferrovieri a lottare uniti su temi importanti e decisivi come la “clausola sociale” o il NO a nuove espulsioni di forza lavoro. A negare insomma una ristrutturazione i cui risultati si possono leggere nelle peggiorate condizioni di altre importanti categorie come gli elettrici, i telefonici o i bancari, divise in più parti dalla privatizzazione, preda di molti diversi contratti che le rendono vulnerabili agli attacchi padronali.

Così, nei limiti concessi dai tempi e dalle situazioni, per i comunisti aver parlato con i lavoratori di come organizzarsi rispetto alle elezioni delle RSU, ha significato riproporre nuovamente quelle posizioni che da sempre gli hanno contraddistinti, posizioni che hanno come punto di arrivo sempre e comunque la rinascita dell’organismo sindacale di classe, condizione indispensabile per la reale e conseguente difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari.

Durante questo lungo cammino, che separa la realtà dalla prospettiva, stanno tutte le azioni e i comportamenti che favoriscono tale fine, nella consapevolezza della complessità e della delicatezza di un simile lavoro, ma anche nella certezza che la crisi del sistema capitalista rappresenta ogni giorno maggiore stimolo al raggiungimento di quel fine.

Per motivi di spazio la seconda parte della corrispondenza sulla "soluzione" data dalla borghesia inglese, ben coadiuvata dai falsi "sinistri", alla crisi dell’auto, è rimandata al prossimo numero.