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"Il Partito Comunista"- n° 302 - dicembre 2003-gennaio 2004 - [.pdf]


PAGINA 1 Guerra esterna ed interna.
– I volantini che i nostri compagni hanno distribuito fra i lavoratori in lotta:
      13 gennaio - «Il tranviere rosso» - Indirizzo dei comunisti internazionalisti ai tranvieri in lotta per l’estensione e la radicalizzazione degli scioperi;
       8 gennaio - La lotta degli autoferrotranvieri è un passo avanti verso la rinascita del sindacato di classe;
      22 dicembre - Sciopero degli autoferrotranvieri, un esempio per tutti i lavoratori;
       3 dicembre - Tranvieri milanesi - Questa è lotta di classe.
Latte rancido.
Apostati.
PAGINA 2 In Iraq si sfoga la crisi e la contesa imperialista.
– La nostra risposta.
PAGINA 3 – Conferenza pubblica.
     Iran-Algeria-Palestina-Afghanistan-Iraq.
     Fondamentalismi religiosi strumento del Capitale contro la lotta di classe.
PAGINA 4 O affamati, o troppo ingozzi delle schifezze capitalistiche.
Marittimi e cantieri navali.

 
 
 
 
 


PAGINA 1

Guerra esterna ed interna

Ostinati sempre a ribadire le vecchie posizioni della sinistra comunista rivoluzionaria, che rivendichiamo come nostre, continuiamo a sostenere che nulla è cambiato nei rapporti di dominio sociale sulla classe del proletariato nonostante che la borghesia capitalista si presenti oggi con la faccia democratica e popolare ed usi tutta la capacità del suo apparato propagandistico per far credere che la società attuale sia la migliore, la più moderna e più di ogni altra in grado di soddisfare i bisogni umani.

Noi, non per particolari capacità individuali, ma per il corretto uso della chiave di analisi marxista degli eventi storici, al paravento della Democrazia non ci crediamo, anzi affermiamo che proprio questo modo di presentarsi della borghesia è per essa il più confacente, e il meno costoso, allo scopo di illudere ed imbrigliare la classe dei lavoratori. Occorre impedire che questi, sempre più attacati nei loro reali bisogni sociali, scendano di nuovo decisamente sul terreno della lotta di classe, unico mezzo che può permettergli di strappare dai capitalisti condizioni di vita migliori, e tornino alla coscienza della inderogabile necessità di abbattere il sistema di produzione capitalista, basato sullo sfruttamento del lavoro salariato.

In realtà questo clima di pace sociale, dove si vuol far credere che gli interessi di classe si possano e debbano democraticamente comporre, permette alla borghesia di nascondere e organizzare meglio il suo apparato militare e repressivo, volto soprattutto contro il proletariato se dovesse uscire dalle righe della concertazione.

Una conferma, se ce ne fosse bisogno, della funzione dello democratico Stato borghese ci viene da un trafiletto di "Repubblica" del 18 ottobre (naturalmente a pagina 34!) in cui si riporta dalla "Gazzetta Ufficiale" del 25 luglio un provvedimento governativo che approva l’acquisto di «agenti biologici e sostanze radiottive adattati per essere utilizzati in guerra per produrre danni alle popolazioni o agli animali, per degradare materiali o danneggiare le colture o l’ambiente, ed agenti di guerra chimica». «Tra le sostanze che si progetta di usare – afferma l’articolo – gas nervini, ipriti, agenti defoglianti. E si dispone anche per l’acquisto di macchinari in grado di spargere detti veleni ed addirittura impianti atti a produrre plutonio 239».

Lo Stato italiano, imperialista quanto gli altri, non può esimersi da questa necessità. Ogni Stato ha bisogno di essere adeguatamente armato per far fronte a questa bisogna, sia nel caso che il divenire della crisi economica lo spinga ad esser lui per primo a dover muovere guerra, sia la debba muovere per secondo, ma sempre per la stessa ragione di rapina imperialista.

Per ottenere il consenso sociale alla guerra scendono in campo gli apparati dei media, con lo strillio di politicanti di destra e di sinistra (le cui posizioni coincidono perfettamente), con le ampie fumigazioni oppiacee delle religioni, con la “responsabilità” dei sindacati di regime. Tutti insieme mascherano al cosidetto “cittadino comune” la realtà della guerra, imperialista e di dominio, descrivendola come “crociata umanitaria” contro gli Stati a regime dittatoriale (per ora) che i paesi “civili” non potrebbero esimersi dal combattere.

Ormai gli squilibri economici e commerciali fra le grandi potenze fanno sì che l’ordine mondiale imperialista può essere imposto dagli Stati a capitalismo stramaturo – Usa-Europa-Russia-Giappone – solo con un’azione di guerra. Di qui la pretesa di essere gli unici ad avere il diritto a possedere e produrre armi di un certo livello di distruzione, ben significando la volontà di tenere militarmente soggiogati i concorrenti più deboli (momentaneamente) impedendo loro quell’armamento col quale anch’essi potrebbero rapinare le materie prime del pianeta.

Quello che la borghesia spaccia come una rivendicazione umanitaria – il disarmo – necessaria ad impedire altre guerre, non è altro quindi che una guerra di conquista preventiva, è già la guerra. E non saranno i lamenti dei pacifisti ad impedire l’acquisto – fin troppo apertamente proclamato – di “armi di distruzione di massa” da parte del governo italiano (che sostiene anche così l’industria nazionale: l’Italia è uno dei maggiori produttori di armi).

È questo il mondo dei borghesi. Ma all’interno di questo mondo esiste la classe operaia, i cui interessi, immediati oltre che storici, sono opposti a quelli nazionali imperiali. E la classe operaia, quando si porti sulle sue posizioni e sul terreno della rivoluzione comunista, è l’unico vero nemico e pericolo per la società dei borghesi. Ecco spiegate le reazioni isteriche cui abbiamo assistito contro un “normale” sciopero, definito “selvaggio”, di solo alcune migliaia di lavoratori, benché di un settore importante, che si limitano a rivendicare gli arretrati dovuti secondo accordi già stipulati.

Nessun democratico "oppositore" ha avuto nulla da dire sull’acquisto da parte dello Stato di antrace e gas nervino. Si sono invece dati al linciaggio pubblico dei lavoratori autoferrotranvieri di Milano e di altre città per i loro scioperi spontanei, in alcuni casi senza preavviso, indetti per il rinnovo del contratto di categoria ormai scaduto da due anni. I borghesi, che forse speravano di esser riusciti ad imbrigliare definitivamente le azioni di classe del proletariato sotto la cappa dei “diritti del cittadino”, appena hanno visto il proletariato di nuovo in lotta, al di fuori dei loro schemi della “concertazione” e del controllo dei guardiani sindacali, gli hanno scagliato contro tutto l’apparato propagandistico, giuridico e poliziesco, definendo gli scioperanti come criminali e cercando di metterli in contrapposizione con i “cittadini utenti” e minacciandoli, dopo averli precettati, di prendere provvedimenti penali in modo da evitare che queste azioni si ripetano.

Viene da pensare: cosa succederebbe oggi se i lavoratori delle categorie più importanti rivendicassero non miglioramenti rispetto al ‘91 ma semplicemente la rivalutazione reale dei salari da allora ad oggi? Se per alcune migliaia di tranvieri in alcune città abbiamo assistito all’immediata reazione di tutti gli apparati della borghesia contro di essi (seppure per ora limitata alle minacce) creando un clima di linciaggio intorno ad essi, è facile pensare che un movimento più ampio, con un “costo” necessariamente più consistente, costringerebbe la borghesia a far intervenire a sua difesa contro i lavoratori in lotta direttamente lo Stato con tutto il suo apparato repressivo, legale ed illegale, fregandosene della facciata democratica.

Il fantasma del “terrorismo” – in Italia ormai da un terzo di secolo – non è altro che il tendone dietro il quale, indisturbata e con la complicità dei cosidetti partiti di sinistra e dei sindacati operai ufficiali, la borghesia affina il suo apparato repressivo giuridico e propagandistico proprio in previsione che i lavoratori, spinti dal continuo peggioramento delle condizioni sociali, riprenderanno a lottare al di fuori delle regolamentazioni per dei veri miglioramenti.

Queste le considerazioni alle quali il proletariato di oggi deve serenamente giungere.

Noi solo ribadiamo che quello che sembra scandaloso ed incredibile all’opinione comune, opinione che ci viene imposta giornalmente con tutti i mezzi senza risparmio di costi, non è il prodotto della volontà di un personale di governo di destra o di sinistra, ma la normale necessità del sistema di produzione capitalista basato sullo sfruttamento del lavoro salariato. La borghesia capitalista non rinuncerà mai e per nessuna ragione a mantenere i suoi privilegi di classe e per mantenerli è disposta a tutto, compresa la guerra e con “mezzi di distruzione di massa” usati contro le popolazioni inermi ed alla repressione violenta contro la classe dei proletari qualora dovessero disobbedire e mettere in pericolo il suo dominio. Questa è l’essenza e la funzione dello Stato odierno, sia esso democratico, fascista, militarista o “pacifista”.

Quello che da tutti ci viene presentato come un sistema sociale che può e deve essere riformato e migliorato – nei suoi meccanismi tecnici di funzionamento o da sotto la cappa dei moralisti – è invece un sistema che noi definimmo non più riformabile già più di 80 anni fa’ e che oggi definiamo un cadavere che aspetta solo d’esser sotterrato. Se questo non è ancora avvenuto la borghesia può ringraziare proprio coloro con cui fa solo finta di litigare in quanto sono solo essi, partiti “di sinistra” e anche i più “sinistri”, sindacati, preti, intellettuali ecc., che le danno l’ossigeno necessario a vivere ancora impedendo alle classi proletarie di arrivare a ritrovare la propria strada storica.

Occorre che le classi proletarie ritrovino la propria rotta storica per poter sotterrare questo sistema di produzione, disumano come mai la storia ne ha conosciuti, ma anche per poter difendere le loro condizioni di vita, . Questo oggi per i lavoratori significa ricostituire le proprie organizzazioni di lotta votate solo alla difesa, con tutti i mezzi, della classe operaia, questo significa smascherare tutte quelle organizzazioni che oggi, pur definendosi operaie e di sinistra, nella realtà sono esclusivamente al servizio della borghesia e del suo Stato contro i lavoratori.

O i lavoratori riusciranno in questo compito, e noi saremo a loro fianco per trasmettere l’esperienza delle lotte passate, oppure dovranno rassegnarsi e sopportare qualsiasi ingiustizia sociale, compresa quella suprema di dover combattere, per gli interessi dei propri padroni, contro proletari di altri paesi, anch’essi sfruttati e costretti ad uccidere.

I tranvieri di Milano e di altre città, che hanno avuto il coraggio di scendere in sciopero al di fuori dei canoni imposti dagli accordi di “autoregolamentazione” e dalle leggi che limitano gli scioperi, ben accettate dai sindacati concertativi, che hanno rifiutato l’accordo siglato dagli stessi sindacati confederali di svendita del già dovuto, che rigettano questo accordo per il pieno riconoscimento delle loro richieste, si sono messi sulla buona strada ed hanno fatto un passo da gigante nella direzione giusta per la ricostituzione del sindacato di classe.

Ma, oltre a coinvolgere nella lotta il maggior numero di lavoratori della categoria e a cercare di estenderla e renderla comune ad altri lavoratori e ad altre categorie operaie, il risultato più urgente ed ancora da raggiungere è il costituire una nuova e stabile organizzazione sindacale, che sola può rendere possibile il movimento coordinato e la solidarietà di tutte le località, di tutte le aziende e di tutte le categorie. Solo stabilmente inquadrati in un nuovo sindacato, esterno ed indipendente dai carrozzoni confederali, sarà possibile quella necessaria azione comune di tutti i lavoratori per degli obbiettivi che sono oggettivamente gli stessi per tutte le categorie e contro lo stesso nemico.

Augurando la vittoria ai tranvieri per la loro lotta, siamo certi che presto gran parte dei lavoratori sentirà la necessità della lotta incondizionata contro questo sistema infame che produce solo ingiustizia sociale sperperando e distruggendo ricchezze e risorse umane infinite.
 
 
 
 
 
 
 


I volantini che i nostri compagni hanno distribuito fra i lavoratori in lotta:

13 gennaio
«Il tranviere rosso»
Indirizzo dei comunisti internazionalisti ai tranvieri in lotta
Per l’estensione e la radicalizzazione degli scioperi

Compagni, tranvieri!

I vostri compagni milanesi hanno ancora una volta incrociato le braccia senza preavviso né rispetto alcuno delle "fascie di garanzia", in barba alla legge antisciopero, continuando oggi compatti e ad oltranza nonostante la precettazione e il terrorismo di azienda, Sindacati confederali, Stato e giornali. Monza, Brescia e Bergamo oggi seguono a ruota.

Non lasciamoli soli! Questa è la strada giusta, non certo il referendum, di cui parlano CGIL e FAISA, in cui il voto di un crumiro ha lo stesso valore di quello un lavoratore che si è acrificato lottando e convincendo gli indecisi a seguirlo!

Tuttavia è importante capire che quanto si è fatto sino ad oggi ancora non basta. Affinché la lotta sia vincente è necessario fare un salto qualitativo, oltre che quantitativo.

Non basta cioè, per quanto vada fatto, aumentare il numero di ore di sciopero. È assolutamente necessario scioperare a) in modo compatto a livello nazionale, b) ad oltranza, c) possibilmente senza preavviso. Con questi comunque grandiosi scioperi spontanei, infatti, si corre il grave rischio di sfiancare lo sciopero.

Lo sciopero a scacchiera inoltre presta il fianco al grande pericolo degli accordi locali che se fossero ottenuti dalle aziende spezzerebbero il vostro fronte indebolendovi fatalmente.

L’obiettivo deve essere lo sciopero generale di categoria ad oltranza!

Ma per fare questo è assolutamente necessario un coordinamento e quindi un’organizzazione. Questo sarà il vero salto qualitativo. Il primo grande passo per la ricostruzione di un sindacato che difenda realmente gli interessi di tutta la classe lavoratrice, del sindacato di classe. Un passo che oggi o domani andrà compiuto. Un passo che se fatto oggi permetterà alla prossima lotta, che si annuncia molto vicina data la scadenza del contratto, di ripartire da un gradino sopra, da una posizione di assai maggior forza. È necessario che tutte le vostre energie profuse in questa lotta non sfumino nel nulla, o semplicemente nella memoria, ma si consolidino nella nascita di una nuova organizzazione agguerrita ed intransigente nella difesa dei vostri interessi di lavoratori.

Per questo il Coordinamento Nazionale di Lotta degli Autoferrotranvieri, nato a Firenze il tre gennaio e raggruppante i sindacati di base anticoncertativi, i soli che hanno appoggiato e portato avanti coi fatti la vostra lotta, rappresenta un’arma di grandissimo valore.

È necessario utilizzare quest’arma entrando in contatto con il coordinamento attraverso le organizzazioni di base presenti a livello locale per organizzare al più presto i nuovi scioperi nella prospettiva di giungere allo sciopero generale di categoria ad oltranza.

Se si decide di lottare, che almeno le energie, che si sono dimostrate essere eccezionali, siano utilizzate nel modo più efficace!

W la lotta degli autoferrotranvieri!
Per lo sciopero generale ad oltranza! Per la rinascita del sindacato di classe!
 
 
 

8 gennaio
La lotta degli autoferrotranvieri
è un passo avanti verso la rinascita
del sindacato di classe

Il movimento di sciopero dei tranvieri, che in molte città d’Italia ha spezzato finalmente la gabbia delle sempre più restrittive leggi antisciopero, ha rappresentato un esplicito rifiuto della politica concertativa del Sindacalismo confederale (CGIL-CISL-UIL) e autonomo (Faisa, Cisal e Ugl) che ha portato ad un accordo bidone che taglia i salari e offende la volontà di lotta dei lavoratori. Una serie di scioperi spontanei, allargatisi a macchia d’olio, ha portato in pochi giorni alla costituzione di un Coordinamento nazionale dei Sindacati di base e poi ad una Assemblea nazionale a cui hanno partecipato un centinaio di delegati in rappresentanza di una cinquantina di aziende di trasporto pubblico locale nella quale è stata decisa la creazione di un Coordinamento nazionale di Lotta degli Autoferrotranvieri. In poche settimane, sotto la spinta dei lavoratori, si è fatto un percorso organizzativo unitario che avrebbe richiesto mesi e mesi.

Lo sciopero di venerdì 9 gennaio 2004 rappresenta un altro passo avanti in questa direzione. La sua riuscita significa, più di ogni referendum, il rigetto dell’accordo del 20 dicembre scorso. Ma la lotta dovrà continuare per:
- la difesa del contratto nazionale e il rifiuto di qualsiasi trattativa locale;
- almeno 3.000 euro di arretrati e 106 di aumento mensile;
- rifiutare aumenti salariali legati al peggioramento delle condizioni di lavoro;
- respingere ogni azione disciplinare contro gli scioperanti.

Presto anche le altre categorie di lavoratori, se vorranno difendersi dal crescente peggioramento delle loro condizioni di vita, dovranno ricorrere all’arma classica dello sciopero senza preavviso e ad oltranza, infrangendo la legalità dei codici, preparandosi a fronteggiare la possibile repressione attraverso la solidarietà fra i vari reparti della classe lavoratrice.

Sarà questo un passaggio decisivo verso la rinascita di una organizzazione sindacale di classe su base nazionale, che superi le differenze tra le varie categorie, le divisioni tra settore pubblico e privato, rifiuti ogni tipo di collaborazione con lo Stato e il padronato, che abbia nel suo programma la difesa, senza compromessi, degli interessi dei lavoratori con i mezzi classici della lotta di classe.

Solo così sarà possibile respingere gli attacchi continui del padronato e dello Stato. Questi, sostenuti dall’intero arco dei partiti parlamentari e dal sindacalismo di regime, intendono salvaguardare rendite e profitti scaricando sui lavoratori salariati le conseguenze della crisi economica.

Solidarietà piena alla lotta degli autoferrotranvieri!
 
 
 

22 dicembre
Sciopero degli autoferrotranvieri
Un esempio per tutti i lavoratori

Lavoratori,

I risoluti scioperi dei tranvieri in molte città d’Italia significano il rifiuto della politica concertativa del Sindacalismo confederale, che ha portato ad un accordo che taglia i salari e offende la volontà di lotta dei lavoratori. Questi scioperi si oppongono all’intero sistema di relazioni industriali fondato sulla moderazione salariale, sulla politica dei redditi, sulla concertazione, sulla compressione del diritto di sciopero.

Questa lotta rompe finalmente la gabbia delle sempre più restrittive leggi antisciopero, varate negli ultimi anni dal Parlamento sotto la spinta del padronato e con la collaborazione del sindacalismo di regime, nell’illusione di bloccare la lotta di classe.
Gli autoferrotranvieri, come i lavoratori dell’Alitalia che nei giorni scorsi hanno bloccato l’aeroporto di Roma, hanno toccato con mano che gli scioperi programmati, annunciati, ristretti nel tempo e nello spazio, sono inefficaci, dei vuoti ed inoffensivi rituali che demoralizzano chi li intraprende e non colpiscono gli interessi delle Aziende.

Presto anche le altre categorie di lavoratori, se vorranno difendersi dal crescente peggioramento delle loro condizioni di vita, dovranno ricorrere all’arma classica dello sciopero senza preavviso e ad oltranza, infrangendo la legalità dei codici, preparandosi a fronteggiare la possibile repressione, attraverso la solidarietà fra i vari reparti della classe lavoratrice.

Tutte le organizzazioni del sindacalismo di base, superando dannose divisioni, hanno contribuito ad organizzare la lotta assieme ai lavoratori più combattivi e hanno espresso loro piena solidarietà; la CUB ha diffidato la Commissione di garanzia dal procedere a ritorsioni e punizioni, minacciando nel caso di rispondere con un’azione di lotta generale.

Lo sciopero nazionale degli autoferrotranvieri indetto dal sindacalismo di base per il 9 gennaio non servirà solo a respingere l’accordo al ribasso ma sarà un nuovo passo per costruire un’organizzazione sindacale che difenda senza compromessi gli interessi dei lavoratori, che sono opposti a quelli del padronato.

È questa la strada verso la ricostituzione di una ORGANIZZAZIONE SINDACALE DI CLASSE che, superando le differenze tra le varie categorie, le divisioni tra settore pubblico e privato, unisca la gran massa dei lavoratori in un unico, solidale fronte di lotta.

Solo così sarete in grado di respingere gli attacchi continui del padronato e dello Stato che, sostenuti dall’intero arco dei partiti parlamentari e dal sindacalismo di regime, intendono salvaguardare rendite e profitti scaricando sui lavoratori salariati le conseguenze della crisi economica.
 
 
 

3 dicembre
TRANVIERI MILANESI
Questa è lotta di classe

Il magnifico sciopero dei tranvieri milanesi, di esempio per tutti i lavoratori, porta degli insegnamenti fondamentali.

- Le leggi che regolamentano gli scioperi, non solo nei trasporti, sono in realtà vere e proprie leggi antisciopero: seguirle significa condurre lotte completamente inefficaci. Sempre più i lavoratori, se vogliono difendersi dai crescenti peggioramenti, saranno costretti ad infrangerle, quindi a prepararsi a fronteggiare le conseguenti ritorsioni padronali e statali.

- Gli scioperi proclamati dai Confederali nel rispetto di queste regole – da essi condivise e sottoscritte – si rivelano vuoti ed inoffensivi rituali che sviliscono l’arma dello sciopero, demoralizzano i lavoratori convincendoli dell’inutilità di lottare. Questo d’altronde è l’obiettivo di questi Sindacati di Regime.

- Scopo di ogni sciopero è provocare un danno al padronato (che i lavoratori pagano per primi con salatissime trattenute);

- Degli inevitabili fastidi imposti ai viaggiatori sono responsabili le amministrazioni inadempienti; responsabili sono i Sindacati confederali che impediscono la mobilitazione solidale e contemporanea di tutti i lavoratori.

- Dalle minacce padronali e statali la difesa sta solo nell’estensione della lotta e nel rafforzamento dell’organizzazione operaia. Il diritto di sciopero di difende... scioperando.

- Il fatto che queste azioni, che periodicamente si ripetono, a distanza di anni e in diverse città, non riescano a fondersi in un unico grande movimento di sciopero è dovuto alla mancanza oggi di un vero forte Sindacato di tutti i lavoratori.

- I lavoratori è urgente che ricostruiscano le loro organizzarsi, un nuovo sindacato, nazionale, categoriale e intercategoriale, che realmente esprima la loro necessità e volontà di lotta.

- Sul piano politico, tutti i partiti si sono tolti la maschera mostrando il loro vero volto antioperaio. Rifondazione, restando nella CGIL illude i lavoratori sulla possibilità della sua riconquista e ritarda così la indispensabile riorganizzazione dei lavoratori in un combattivo sindacato alternativo. Il suo giornale "Liberazione" fa una difesa a parole dei tranvieri milanesi ma non dà alcuna direzione per la lotta e nemmeno condanna il crumiraggio della CGIL.

Affinché la classe, tutta la classe, possa difendersi tutti i giorni, e in tutti i paesi, non basta una "bella giornata". C’è un gran lavoro di organizzazione e di chiarificazione da fare, al quale tutti i proletari sono chiamati, sulla strada che porta agli ulteriori obbiettivi e all’affermazione politica della classe operaia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Latte rancido

Si è da poco asciugato l’inchiostro sui giornali scritto per l’affaire Enron che altro inutilissimo fiume vi è versato – in moralistiche recriminazioni, banalità e sciocchezze cui nessuno crede – sull’affaire Latte. Riguardo all’Enron abbiamo ribadito la prospettiva rivoluzionaria che risaltava con chiarezza da quella crisi finanziaria e di malaffare borghese. Pare che il genio italico non abbia voluto mancare su tanto agone internazionale – USA, Francia, Olanda, Argentina e via nobilitando – e abbia deciso di fare le cose davvero in grande, mostrando cosa sia capace di architettare alla scala globale, seppure, pare, con mezzi alla fine casalinghi: una copiatrice, del “bianchetto” e nastro adesivo. Il tutto per una colossale truffa mondiale.

E questa volta la fregatura non l’hanno presa soltanto le banche del suolo natio, senza considerare, ovviamente , la stragrande quantità dei “piccoli risparmiatori”, fregati per definizione e necessità storica di classe, ma pure primarie banche USA, insieme a diversi Fondi di investimento.

Con i pomodori, americani d’importazione ma oramai del tutto naturalizzati “mediterranei”, lo sconquasso finanziario era rimasto più o meno nei confini nazionali e la fregatura contenuta alla meno peggio dal sistema bancario e prontamente scaricata sulle spalle, al solito, dei tanti aspiranti rentiers. Ma è col latte in scatola che da quel di Collecchio sul Reno una compagnia di ardimentosi è partita alla conquista del mondo, generando nel suo percorso avventuroso un buco proporzionalmente più grosso, in rapporto al prodotto nazionale lordo, di quello, immane, della Enron negli Stati Uniti d’America.

La domanda sorge naturale: ma questo Himalaia di soldi, al tirar delle somme, dove è andato a finire? Non certo nelle tasche di proprietari e sodali, dove la piccineria della “giustizia” li va cercando: la massa è talmente imponente che non sarebbe possibile tenerla nascosta. Una piccola frazione certo sarà stata arraffata, ma si tratta di argent de poche al confronto del totale. Il problema é di Economia Politica, di impersonali e generali determinazioni storiche, e non è aggredibile col ricorso alla lettera dei Codici Penali o col richiamo ai diritti e alle responsabilità di titoli proprietari, individuali o societari.

Scrive Marx nel Capitale: «Questi valori sono un capitale esclusivamente per chi li ha acquistati, per il quale quindi rappresentano il suo prezzo di acquisto, il suo capitale in essi investito. Per se stessi essi non sono capitale ma semplici titoli di credito. Se sono ipoteche essi sono semplici assegni su una futura rendita fondiaria; se azioni di altro tipo sono semplici titoli di proprietà che danno diritto a percepire una parte del plusvalore futuro. Tutti questi titoli non sono dunque capitale vero e proprio, né costituiscono una parte integrante del capitale, e non sono neppure in se stessi valore».

È evidente che questo genere di ricorso al credito sta in piedi sintantoché questi titoli hanno ragionevole certezza di essere onorati. La crisi industriale, nella forma della caduta dei profitti industriali prima e della sovrapproduzione di merce dopo, precede e determina, in generale, la crisi finanziaria. I capitalisti in crisi, pressati dalle scadenze dei pagamenti, vendono sottocosto o, nascondendo al pubblico le loro difficoltà, ricorrono al credito. Ora non per investire, per trasformare il risparmio in capitale, ma per pagare! Le condizioni di difficoltà nella riproduzione del Capitale non rallentano ma rendono necessario espandere ulteriormente il credito. A questo punto si innesca un processo per cui i titoli di credito, questo capitale fittizio che sopravanza drammaticamente l’effettivo capitale in funzione, e che servono adesso o a ricoprire i pagamenti degli interessi sui crediti precedenti o a finanziare altre acquisizioni (che si potrebbero rendere necessarie anche solo da un punto di vista esclusivamente speculativo, per tenere in piedi ancora per un po’ il meccanismo) o per pagare stipendi o acquistare materie prime e macchinari, continuano ad aumentare sotto la spinta della necessità di ottenere “altro credito”. O la crisi produttiva viene superata, con il che gli investitori riacquistano fiducia, o è il crollo. L’insolvenza manifestatasi in un punto si trasforma nell’insolvenza totale. Paradossalmente, il capitale effettivamente coinvolto non è che una porzione, in valore, di questi titoli – puri segni cartacei – ma nel momento del crack tutti chiedono contemporaneamente il rientro della massa dei crediti “sulla carta”. Il che, ovviamente, è impossibile.

Con la crisi lo stanco Dio Capitale viene a infine a rifiutare il rituale e diuturno immane sacrificio di ricchezza degli uomini, e su borghesi grandi e piccoli rivomita indigeribili titoli di credito ridotti a carta straccia. I “poveri investitori”, che hanno gettato i loro “risparmi” nel buco nero del meccanismo finanziario internazionale sotto forma di Promesse di Carta, che mai altro non sono stati, pesci piccoli si trovano oggi rovinati. Fra i borghesi impera una cinica massima: “ il tempo separa gli imbecilli dai quattrini”, e gli eroi di questo crack parmense sono certo meno cretini di chi a affidato loro i soldi.

Ecco la “indagine”, da qui la “indignazione pubblica” e i proclami si stanno sprecando. Scandalo, i catoni dell’economia si sono accorti che il capitalismo – ma solo quello italiano, per carità! – è un sistema marcio e truffaldino, «compromesso fino al midollo con il potere politico», impastato di scandali e corruzione, «senza regole», un capitalismo che «non sa più dove andare», animato dal massimo «disprezzo per i soldi» (degli altri). Un capitalismo «in agonia», contrapposto allo stesso sistema che sarebbe «più disciplinato» in altri paesi dove imperano, dicono, «moralità, regole certe e controlli ferrei». Nonché «pene rigorose» per chi sgarra. (Quando il borghese, anche “liberale” o “liberista”, è in difficoltà corre sempre ad invocare il bastone dello Stato). Se non si avessero giornalmente sotto gli occhi le tragedie e le infamie di questo sistema mondiale, ci sarebbe da ridere.

Intanto la “politica nazionale” prepara i coltelli per le sue solite private “rese di conti”, benché dalle Alte Sedi Istituzionali non faccia, ovviamente, mancare la sua voce “austera e responsabile”...

È noto che non ci interessano i turbamenti e dolori della piccola borghesia, che aspira alla sempiterna sicurezza del misero patrimonio a sinecura del suo eterno presente. Sicché, quando il capitalismo nelle sue fasi più turbolente e schizoidi svela compiutamente il proprio volto, fatto di miseria e e grassazione, fuori dal coro lamentoso, dai piagnistei del “come sia potuto succedere”, dalle invocazioni a “più rigorosi controlli”, sordi e refrattari al grido disperato che erompe da tanti petti, “ridateci i nostri soldi”, siamo pervasi dal buon umore per queste disgrazie di classe e leggiamo in esse non l’evento anomalo, la stortura, l’accidente, ma il naturale procedere di un sistema mondiale in decomposizione tenuto in vita dal lavoro forsennato e dalle sofferenze dell’umanità lavoratrice.

È evidente che il capitalismo costituisce ormai soltanto una ingombrante dannosa sovrastruttura, una iperbole sempre più incontrollabile di assurdi rapporti di valore fra merci e fra classi che vengono ad intralciare, ad impedire la efficiente e più razionale produzione di beni e soddisfazione dei bisogni. Che forse il latte degli stabilimenti di Collecchio, e delle collegate di mezzo mondo, non è buono e sano? Che forse i moderni impianti e le maestranze non sono ben predisposti a regolarmente riceverne, confezionarne e far giungere ogni mattina le quantità richieste a chiunque ne abbia desiderio? È il Capitale maledizione, il maleficio che pietrifica macchine e uomini, che impedisce loro, perfino, di vivere, che infine inaridisce la mammelle di ogni vera umana ricchezza. È ora della Grande Semplificazione Comunista, che rivoluzionariamente smonti ogni vincolo e apparato mercantil-salarial-finanziario, sola condizione perché l’umanità lavoratrice riprenda libera la via verso le grandi Complessità di cui è capace.
 
 
 
 
 
 


Apostati

Giornali e televisioni ci hanno propinato fino alla nausea le immagini del vice premier italiano (come sempre più spesso viene chiamato l’on. Fini) che, durante la sua visita in Israele, con tanto di zuccotto in testa e con aria da sacrestano, si aggirava in religioso raccoglimento tra i luoghi sacri dell’ebraismo. E da quei luoghi, non solo ribadiva la condanna nei confronti della parentesi razzista del fascismo, ma lanciava il suo anatema contro il fascismo in generale definito “parte del male assoluto”.

Il mondo politico democratico ha fatto finta di apprezzare positivamente la definitiva conversione di Fini e del suo partito, che ha aderito al completo a quella svolta ormai più che matura e, soprattutto, necessaria (non conta la decisione di Alessandra Mussolini, che ha abbandonato il partito per motivi di famiglia).

Non è da oggi che gli stalinisti hanno rinnegato lo stalinismo ed i fascisti non potevano che fare altrettanto.

D’altra parte l’Italia ha una tradizione plurisecolare di questa pratica che, nella seconda metà dell’800, venne definita “trasformismo”.

Di trasformismo si parlò quando i due schieramenti politici antagonisti, destra e sinistra democratico-borghese, d’un tratto si accorsero di parlare esattamente lo stesso linguaggio e di non aver niente di diverso da dire o da proporre all’allora ristretto elettorato. Non per questo cessarono le lotte tra i due schieramenti, anzi, in un certo senso si acuirono, ognuno accusando l’altro di avergli scippato il programma politico. La sostanza evidentemente era un’altra e cioè che tanto alla destra quanto alla sinistra quello che interessava era la gestione del potere.

Guarda caso è esattamente ciò che avviene oggi nel nostro Bel Paese. Tra AN e DS chi si trova più a sinistra? È Fini ad aver rubato il programma di Fassino od è Fassino che si è impossessato di quello di Fini? La verità è che sono ambedue al servizio dello stesso padrone Stato.

Alla organica unificazione delle sue due anime l’italica borghesia ottocentesca non tardò ad arrivare, ma ciò avvenne grazie ad un fattore ad essa esterno e cioè a seguito dell’affacciarsi all’orizzonte di un giovane e vigoroso proletariato organizzato, con un suo partito ed un suo programma indipendente. Anche allora, proprio come oggi, in nome di un positivo pragmatismo si assisté alla “morte delle ideologie”.

Per “ideologia”, che per la nostra scuola di sinistra ha sapore metafisico tant’è che preferiamo parlare di dottrina, possiamo dare questa definizione: “complesso sistematico dei concetti o principi posti alla base di un atteggiamento politico”. In altre parole, per un partito l’ideologia è l’identità e la coscienza della propria identità. La fine delle ideologie rappresenta la fine delle distinte identità politiche. A questo risultato deterministicamente arriveranno, anche se in tempi e con modalità diversi, tutti quanti i partiti borghesi compresi quelli che tutt’oggi continuano a mascherarsi dietro il nome di comunisti.

A riprova di ciò possiamo citare il recente intervento di Bertinotti al convegno veneto, organizzato dal suo partito: «La guerra è orrore: le foibe tra fascismo guerra e resistenza». Il dirigente di Rifondazione ha parlato di «rivedere criticamente il passato», di «fuoriuscire dalla cultura del comunismo da caserma» di «estirpare la violenza entrata in noi». E oltre alle foibe ha condannato i gulag staliniani e la sanguinosa repressione di Kronstadt. Bertinotti è costretto ancora a fare dell’equilibrismo, denunciare cioè tutta la pratica dei partiti da cui deriva e la sua stessa tradizione politica. Per altro non è ancora giunto, per lui, il tempo del completo rigetto del “comunismo” e quindi afferma: «Voglio eliminare quell’idea sbagliata di potere che ci siamo portati nella pancia per tanto tempo. E non perché non sono comunista: al contrario perché lo sono davvero».

Certo, certo, Fausto; anche Fini, non molto tempo fa, affermava che Mussolini era stato «Il più grande statista del secolo» ed ora lo demonizza: l’importante è cominciare, si arriva sempre a buon fine.

A commento si legge sul sito di Rifondazione: «Bertinotti applauditissimo è stato chiarissimo: occorre un balzo che rompa definitivamente con l’idea del comunismo come costruzione di sempre più alte forme di potenza, l’alternativa sta invece nell’operare per l’alternativa. Se la violenza è l’atto costitutivo del neoliberismo globale, il nostro asse – non c’è più dubbio – è la non violenza rivoluzionaria».

Anatemi contro il “male” vengono così lanciati sia da destra sia da sinistra e, cosa meravigliosa, ognuno esorcizza quel male dal quale è stato generato.

Ma si badi bene queste non sono le premesse per un sempre più vasto e completo trionfo della democrazia (a cui noi non siamo affatto interessati), al contrario sono le premesse per la applicazione, democratica e antifascista, dei metodi del fascismo contro la classe operaia (che i tranvieri già stanno sperimentando).

Affermammo già all’indomani della seconda guerra imperialista che il fascismo come metodo di conduzione statale aveva vinto a scala mondiale. Il fascismo è sopravvissuto alla sua “sconfitta”, ben vivo e vegeto all’interno della democrazia, dell’antifascismo e dello stalinismo. E non tarderà a riorganizzarsi anche dichiaratamente, con l’adesione di tutti gli apostati delle varie ideologie, non appena il proletariato si ripresenterà come classe autonoma sulla scena della storia.

Nel 1914 il rivoluzionario Mussolini tradì con la formula: “Guerra rivoluzionaria”.

Nel 2003 Bertinotti lancia lo slogan: “Non violenza rivoluzionaria”. Ma nei suoi confronti non si può parlare di tradimento, ma perché lui, al contrario di Mussolini, comunista e rivoluzionario non lo è mai stato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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In Iraq si sfoga la crisi e la contesa imperialista

La visita improvvisa del presidente siriano Bachar el-Assad in Turchia nella seconda settimana di gennaio, è stata giustamente definita “storica”; è infatti la prima nella storia dei due paesi che nel 1998 sono stati sul punto di entrare in guerra. L’avvenimento non ha avuto grande risonanza sulla stampa ma dà invece la misura della pericolosità della situazione che si sta creando in Iraq sotto l’azione degli apprendisti stregoni di Washington.

I due Paesi avevano già migliorato i rapporti dopo l’espulsione da parte della Siria del capo del Partito dei Lavoratori Curdi (PKK) Abdullah Ochalan, attualmente detenuto in Turchia, ma il recente incontro riveste un carattere di emergenza: la ragione è rappresentata dalla preoccupazione dei due Stati, confinanti con la regione settentrionale dell’Iraq, che gli Stati Uniti consegnino la regione nelle mani dei nazionalisti curdi.

La situazione militare nel paese occupato, nonostante la cattura di Saddam Hussein il 13 dicembre, continua ad essere contraddistinta da una efficace attività di guerriglia contro le truppe di occupazione – non solo statunitensi ma anche degli altri paesi, Gran Bretagna, Italia, Spagna, Polonia – mentre continua a crescere il sentimento antiamericano. Non passa giorno che i bollettini di guerra non registrino morti e feriti tra i soldati occidentali e nell’ultimo mese ben tre elicotteri sono stati colpiti in volo.

Le truppe occupanti, da parte loro, rispondono con sempre maggiore durezza agli attacchi e lo stesso nome adottato per una delle ultime operazioni antiguerriglia, “martello di ferro”, dà l’idea della strategia adottata, vasti bombardamenti su aree dove solo si sospetta che si rifugino dei guerriglieri, rastrellamenti di interi quartieri e villaggi, arresti in massa, uccisioni e torture di “sospetti”. Gli iracheni arrestati sono stimati a circa 10.000; in questi giorni Washington, come segno di “riconciliazione”, ha deciso di liberarne qualche centinaio.

Sul piano sociale la situazione resta tragica per la quasi totalità della popolazione; si parla di una disoccupazione del 70% della forza lavoro e anche la ricostruzione delle infrastrutture va a rilento.

I primi di gennaio gli ex soldati rimasti senza stipendio si sono scontrati a lungo con le forze britanniche e la polizia locale a Bassora; il 10 gennaio i militari britannici e la polizia irachena hanno represso duramente una manifestazione di disoccupati nella città di Hamara, uccidendo sei persone. Il 12 gennaio a Kut ci sono stati nuovi scontri, stavolta con i soldati ucraini, con una decina di morti e molti feriti, mentre lo stesso giorno a Samarra sette iracheni sorpresi a spillare petrolio da un oleodotto sono stati uccisi dagli americani.

A fronte di questa miseria giganteggiano i capitali per la ricostruzione, una prima rata di 18,6 miliardi di dollari che si spartiranno le imprese dei Paesi che hanno partecipato alla guerra.

Intanto l’Amministrazione statunitense, che in questi mesi ha forse avuto il tempo di prendere atto che occupare un territorio è più difficile che conquistarlo e ha potuto commissionare a qualche “esperto” lo studio della storia dell’Iraq fin dai primi anni della sua fondazione come Monarchia filobritannica, hanno deciso di accelerare il passaggio del potere, almeno formale, nelle mani di un governo iracheno fissandone la costituzione al prossimo giugno. Così si erano comportati gli inglesi che, dopo la sanguinosa rivolta del 1920-21, sedata solo con i bombardamenti e i gas venefici, posero alla testa del paese uno straniero, il principe ascemita Faisal.

Ma allo stesso tempo si stanno ponendo le basi perché questo governo non possa decidere nulla, squassato come sarà dal contrasto tra le diverse etnie, i diversi gruppi religiosi, i diversi schieramenti politici. Si intende porre il nuovo governo davanti ad alcuni fatti compiuti, la creazione di una regione sem’indipendente nel nord e la presenza militare americana fintantoché sarà ritenuta necessaria dagli strateghi del pentagono.

Washington si è servita dei curdi per stabilizzare il suo potere nel nord dell’Iraq e probabilmente è da loro che ha ricevuto in dono natalizio Saddam Hussein. Ma adesso i curdi rivendicano in cambio la costituzione di una regione indipendente di cui dovrebbero far parte anche la città di Kirkuk e le province di Niniveh e di Diyala, con il loro sottosuolo impregnato di petrolio. La prospettiva forse non dispiace agli Stati Uniti, che potrebbero meglio controllare un Iraq diviso in tre o quattro staterelli, così come stanno facendo nell’Asia centrale, da dopo che è crollato l’Impero russo, e come stanno facendo le borghesie europee nella ex-Iugoslavia.

Turchia e Siria al contrario paventano la nascita di uno Stato curdo ai loro confini, temendo il suo potere di attrazione sui milioni di curdi che, almeno nel caso turco, vivono sul suo territorio discriminati e perseguitati e paventando lo smembramento dello Stato iracheno, fondato come la Siria negli anni Venti del Novecento.

Stretta tra le pressioni degli Stati Uniti per un coinvolgimento più fattivo nella guerra e quelle dell’Europa e della sua stessa opinione pubblica per restarne fuori, come in effetti è accaduto almeno per quanto riguarda la richiesta statunitense di inviare in Iraq ben 10.000 militari, Ankara ha dovuto subire in novembre una devastante serie di attentati terroristici che hanno colpito due sinagoghe, il consolato inglese e una banca occidentale. Quelle bombe, chiunque la abbia preparate, sono state un severo monito per i governanti turchi a stringersi nella “guerra al terrorismo” propugnata da Washington.

La Siria si trova forse in una situazione ancora più difficile; inserita da Washington nella lista degli “Stati canaglia” nonostante la sua partecipazione alla guerra contro l’Iraq di dieci anni fa, è costantemente sotto la minaccia dell’esercito israeliano che qualche mese fa ha bombardato un campo profughi vicino a Damasco, indicato come base di guerriglieri palestinesi.

Anche in Palestina la situazione è in un vicolo cieco grazie alla politica, voluta da Washington, di guerra aperta contro i palestinesi.

Lo Stato d’Israele, lunga mano degli Stati Uniti in Medio Oriente fin dalla sua fondazione, e tanto più in questi ultimi anni, è in preda ad una profonda crisi economica a cui corrisponde anche una grave instabilità sociale che è venuta alla luce negli ultimi mesi, sia con alcuni importanti scioperi, ma anche col rifiuto di diverse decine di militari di combattere nei territori occupati, fino all’episodio di alcuni giorni fa quando l’esercito ha sparato su alcuni manifestanti pacifisti di varie nazionalità, ferendo gravemente un giovane israeliano.

Nell’area mediorientale si vanno accumulando una tale quantità di sostanze infiammabili che una piccola scintilla può bastare a fare scoppiare in qualsiasi momento un incendio inestinguibile.

Gli Stati Uniti, capofila di tutte le altre potenze imperialiste, sono in declino economico, assoluto e relativo rispetto ai nuovi industrialismi. Non possono salvarsi, né loro né gli altri, ma solo rallentare la caduta attraverso l’utilizzo – prima degli altri e contro gli altri – di quanto rimane loro della supremazia militare, diplomatica, finanziaria, monetaria. Ma i restanti capitalismi non gli sono da meno né in condizioni storicamente migliori.

Ogni giorno di più il capitalismo diventa intollerabile agli stessi capitalisti. Per questo, tutti, in rapida successione, saranno costretti a ricorrere alla politica militare nell’intento di “destabilizzare”, di “sovvertire” il tessuto mondiale delle produzioni e dei commerci. Il nodo gordiano dei cambi monetari impazziti, dell’ingorgo nei traffici delle materie prime, della concorrenza produttiva sempre più sbilanciata ci si illude di tagliarlo con la spada risolutiva della guerra, con le sue necessità di produzione, con la disciplina sociale che impone, con le sue distruzioni, imponendo sulle leggi dell’economia la legge di sempre dei “vincitori”.

In questa immolazione reazionaria, che riconferma il capitalismo, non togliendo la “violenza” che la produzione è sempre di merci e per il profitto, saranno coinvolte le maggiori potenze, dall’Europa alla Cina, al Giappone, all’India.

Non sono gli Stati Uniti il demone di questo nuovo secolo ma solo una delle sue materializzazioni. La forza contro cui il proletariato internazionale dovrà scontrarsi è il regime mondiale del Capitale. Solo spezzando il potere della borghesia a scala internazionale con la rivoluzione comunista lo spettro della guerra e della fame potrà essere finalmente schiacciato.

Il proletariato arabo, quindi e in particolare, non deve cadere nelle semplificazioni fallaci dei preti islamici che chiamano alla guerra santa contro gli Stati Uniti e l’Occidente, ma cercare l’unità di fini e di movimento del proletariato d’Occidente e d’Oriente nella lotta comune, lotta tra le classi e non tra razze o religioni.Elezioni in Irlanda del Nord

Coltivata rivalità fra poveriAlla fine di novembre si sono svolte le consultazioni elettorali nelle 6 Contee nord irlandesi ancora sotto il controllo di Londra per inviare i 108 membri a Stormont, sede di un parlamentino inutile e di un governo farsa senza particolari poteri, con i quali i vertici politici di Londra e di Dublino pensano, per la verità senza troppa convinzione, di risolvere la secolare, ed ormai ben irrancidita, “questione irlandese”.

I giornali italiani, a causa dei contemporanei “grandi avvenimenti internazionali” e delle continue beghe interne tra gli italici partiti borghesi, non hanno dedicato molto spazio all’avvenimento, se non a spogli avvenuti, con una certa preoccupazione per l’affermazione delle forze politiche estremiste. La maggioranza relativa è infatti andata agli ultra-lealisti guidati dal reverendo protestante Ian Paisley, al terzo posto si sono piazzati i cattolici nazionalisti del Sinn Fein di Gerry Adams, mentre i moderati unionisti di David Trimble e i socialdemocratici cattolici sono scesi al secondo e quarto posto.

Le questioni elettorali poco ci interessano. Ma è un fatto che le varie bande di politicanti sia Unionisti sia Cattolici non sono minimamente disponibili a indietreggiare in vista di un “processo di pace” giudicato allo stesso tempo inevitabile e impossibile.

Ad alimentare e mantenere la tensione anche fra i lavoratori stanno differenziazioni d’antica data: quelli protestanti si arroccano nell’atteggiamento di difendere i loro piccoli privilegi mentre i cattolici lamentano le continue discriminazioni sui luoghi di lavoro e i maltrattamenti da parte dei lealisti esaltati, dell’esercito “di occupazione” e della polizia.

Nei rioni cattolici di Belfast tre famiglie su quatto vivono sotto la soglia di povertà e la disoccupazione è mediamente del 50%; il tasso più “basso”, del 20%!, si registra a Shankill, enclave protestante di Belfast ovest.

Nel pubblico impiego solo un lavoratore su quattro è cattolico, stessa percentuale più o meno nella grande industria dove ai cattolici vengono assegnate le mansioni meno qualificate e più degradanti. I sindacati sono per i cattolici di fatto inesistenti e la dirigenza, pur consapevole della discriminazione, non fa nulla perché si appoggia ad una base formata da unionisti, esponenti di un aristocrazia operaia terrorizzata dalla concorrenza dei cattolici.

Silvia Calamati nel suo volume Irlanda del Nord, del 1994, descrive così la situazione della classe lavoratrice. «Nel corso dei secoli è stato imposta una precisa politica, basata sul divide et impera. Coloro che erano fedeli alla Gran Bretagna venivano ricompensati con l’assegnazione di una casa, di un lavoro e del diritto di voto; coloro che invece non sostenevano il governo inglese si vedevano negati tali diritti. I ghetti sono stati voluti dalle stesse autorità del Regno Unito per separare i lavoratori protestanti da quelli cattolici. La politica del divide et impera, la discriminazione anti cattolica ed il conseguente settarismo nelle modalità di assunzione dei lavoratori sono possibili solo grazie ad una precisa volontà di favorire una popolazione a discapito dell’altra. Poiché gli unionisti sono stati da sempre privilegiati, si trovano nella difficile posizione di difendere i propri interessi».

Recentemente un compagno inglese ci raccontava, su quanto c’entri in tutto questo la religione, il significativo aneddoto del dialogo fra due operai irlandesi: «Tu sei cattolico o protestante? - Sono ateo - Si, ma ateo-cattolico o ateo-protestante?»

Già Marx, nella Proposta di Risoluzione al consiglio generale dell’Internazionale, dichiarava nel 1869 «la borghesia inglese ha sfruttato la miseria irlandese per dividere il proletariato in due campi ostili». Continua: «Il semplice operaio inglese odia quello irlandese vedendo in lui un concorrente che provoca la diminuzione dei salari e dello standard of life. Egli prova nei suoi confronti antipatie nazionalistiche e religiose. Questo antagonismo tra proletari viene aizzato e rinfocolato dalla borghesia ad arte nella stessa Inghilterra». Prosegue: «Inoltre l’Irlanda è l’unico pretesto del governo inglese per mantenere un grosso esercito permanente e in caso di bisogno impiegarlo, come si è visto, contro gli operai inglesi dopo esser stato opportunamente addestrato in Irlanda».

Oggi il ruolo degli inglesi è stato preso dagli unionisti e l’irredentismo irlandese viene mantenuto a confondere la realtà delle classi.

Da comunisti ci attendiamo che tutta la classe operaia irlandese si volga alla lotta di classe senza cadere in integralismi nazionalisti e religiosi utili solo alle borghesie britannica ed irlandese, alle quali le divisioni del proletariato non possono che giovare. Come nel resto del globo invitiamo il proletariato dell’isola celtica a non farsi abbindolare da promesse elettorali e a non confidare nel “suo” parlamentino di Stormont, ma ad agire in prospettiva internazionalista e rivoluzionaria in un unico partito di classe.
 
 
 
 
 
 
 


La nostra risposta

Abbiamo così risposto l’appello per una Conferenza internazionale di tutto l’ “ambiente politico proletario” che ci è stato inviato dall’Argentina.

«Cari compagni, riteniamo con certezza che fra le nostre posizioni e le vostre vi siano delle imprescindibili divergenze di principio. Fra queste fondamentale è la concezione del partito. Noi, il nostro partito lo collochiamo nella continuità del partito storico, quello che fu di Marx e di Engels, da allora compiutamente definito. La fiaccola della dottrina marxista, confermata nell’attraversare le epoche più difficili del movimento, non si è spenta, nel secolo scorso per merito dell’opera della Sinistra comunista in Italia e al Partito bolscevico in Russia. Il partito di Lenin aveva mantenuta accesa quella fiaccola già da molti anni quando giunse la rivoluzione di Ottobre, nella quale si convertì in incendio. Il partito comunista non sorse negli anni di quella grande rivoluzione, al contrario si era battuto per tutta la sua esistenza senza nemmeno sapere quando la rivoluzione sarebbe giunta.

«Una conferenza come quella che progettate, del tipo che è solita proporre la CCI, fra organizzazioni che si rifanno a diversi principi, è fuori del nostro metodo e criterio: noi non mettiamo in discussione né possiamo accomodare ad altri i nostri principi. La via ovvia e naturale per chiunque si consideri daccordo con la nostra impostazione è quella di chiedere l’adesione, individuale, al partito. Chi non la condivide è giusto e bene che ne stia fuori.

«Nella maggior parte dei casi il desiderio di milizia comunista scaturisce dapprima da un moto di intuizione della giusta via e solo successivamente di comprensione e non è che si richieda al militante di conoscere e condividere l’insieme della sua teoria.

«Il partito storico ha tratto le lezioni dagli errori della Terza Internazionale e non vediamo perché debba oggi ripetere lo stesso preocesso e perché noi, per farne vivere un’altra, dobbiamo spingerlo a cadere di nuovo in quegli stessi errori. La Terza Internazionale giunse ad un culmine universale nella scienza politica del proletariato espresso nelle Tesi del suo secondo Congresso sul ruolo del partito: noi ripartiamo da lì. Saluti comunisti».
 
 
 
 
 
 
 
 

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Conferenza pubblica
Iran-Algeria-Palestina-Afghanistan-Iraq
Fondamentalismi religiosi strumento del Capitale contro la lotta di classe

Sabato 8 novembre il partito ha tenuto una conferenza pubblica a Genova su questo tema, anche per annunciare la prossima edizione di un testo a stampa che rielabora lo studio che stiamo qui pubblicando sull’Algeria. Togliamo in questo numero del giornale lo spazio dedicato alla serie algerina per riprodurre il testo dell’esposto alla conferenza.
 
 

Il fondamentalismo si è esteso in tutto il mondo islamico sulla scia della crisi economica del capitale che, da almeno trent’anni, finita la spinta propulsiva consentita dalle distruzioni della Seconda Guerra mondiale, sta sopravvivendo a se stessa. Sono state le economie più deboli a risentirne per prime e soprattutto le classi lavoratrici alle quali, private del loro partito e della prospettiva di classe, si propone l’oppio della religione e la rete di contenimento delle chiese.

Nel gennaio 1979 cade in Iran il regime filo-occidentale dello Scià Reza Pahalavi con la sua sfarzosa corte. Un lungo periodo di violenti scontri sociali erano stati seguiti da una feroce repressione di polizia ed esercito: il “Venerdì Nero” del settembre 1978 contò 2.000 morti in piazza in un sol giorno e l’arresto di migliaia di oppositori.

Il nuovo governo dei barbuti preti islamici si proponeva come nazionalista e antimperialista, oltreché osservante i parchi e semplici precetti della solidarietà coranica, in netto contrasto con quelli del “degenerato mondo occidentale capitalista”. Ben quattro milioni di iraniani in tripudio accolsero a Teheran l’ayatollah Khomeini al suo rientro dal confortevole esilio prima in Iraq poi a Parigi, dove nei giorni precedenti le diplomazie internazionali avevano pianificato e concordato tutto e di più.

Occorsero solo pochi anni perché divenisse evidente il rovescio della medaglia, mostrando un regime altrettanto dispotico, diverso solo nelle forme esteriori dal precedente. La natura reazionaria e antiproletaria del regime islamico si confermò dalla condotta della guerra con l’Iraq quando migliaia di ragazzini furono mandati al macello all’arma bianca o si facevano avanzare dei poco più che bambini sui campi minati per aprire il varco alle truppe regolari, immortalandoli poi come martiri ed eroi per Allah!

Poco spazio ebbero però le notizie di sommosse di operai in sciopero nella zona industriale del sud del paese. Questi, bollati come nemici della rivoluzione islamica, furono sterminati dai “guardiani della rivoluzione” inviati dal regime appena uscito vincitore da feroci lotte di assetto interno e di potere contro le ali moderate della coalizione che aveva portato alla caduta dello Scià.

Diverso è il caso della questione palestinese, con il suo eterno ed insolubile calvario e il quotidiano elenco di morti. È un caso così complesso, contorto, con doppi giochi politici, finanziamenti segreti di Israele e vendita di armi ai gruppi palestinesi, imbastardito da decenni di stermini che necessiterebbe una esposizione a parte. Alla questione palestinese abbiamo dedicato un ampio studio pubblicato su “Comunismo” n.12 al quale bisogna rimandare. Le cause del dramma sono da ricercarsi nell’azione in quell’area strategica delle grandi potenze imperialiste le cui decisioni furono avallate della Società delle Nazioni-Onu, sempre prona alle decisioni dei suoi finanziatori, su cui si sommano i contrasti dello sfruttamento capitalista.

Cinica ironia del pensiero piccolo-borghese è quella di affidare la soluzione della questione all’Onu, cioè al primo responsabile, impotente su tutto. Per noi invece la soluzione sta nella solidale alleanza di classe di tutto il proletariato del Medio Oriente, che sotto l’unica bandiera della rivoluzione comunista si liberi di tutte le catene che lo attanagliano ai voleri delle classi sfruttatrici.

È finita con un niente di fatto la questione afgana. Ricacciati sui monti i talebani, inizialmente finanziati dalla CIA e sostenuti dal governo americano in funzione anti Urss, la presenza degli Usa e dei loro alleati, Onu compreso, assomiglia sempre più a quella a cui fu costretta l’Urss dal complesso della guerriglia afgana, dove il reale controllo del territorio è minimo mentre si consolida il sistema di governo tribale e dei signori della guerra, con cui le forze multinazionali sono costrette a venire a patti. In sostanza i liberatori attuali sono accerchiati nelle loro roccheforti da cui possono andarsene e ricevere i rifornimenti solo tramite imponenti ponti aerei.

Finita la guerra-lampo, resta acuta la questione irachena, dove il laico e corrotto regime di Saddam Hussein è stato abbattuto sotto le bombe americane, foriere della democrazia stelle e strisce. Nel sud dell’Iraq si sta svolgendo una la lotta per il potere da parte dei locali fondamentalisti islamici sciiti, che vi vorrebbero instaurare un governo di tipo teocratico, sfruttando l’esperienza del vicino Iran. Il processo è in atto ma il principio sciita, secondo cui il potere civile va sottomesso a quello religioso e alla lettera del Corano, sembra non incontrare grandi resistenze e tutto dipenderà dal livello di sottomissione del futuro potere locale ai bisogni della “sicurezza” americana. Nelle zone a maggioranza sunnita invece la situazione è più dura per le forze americane e la stessa stampa accreditata in Iraq ammette che la destabilizzazione del paese è altissima e si è giunti alla tanto temuta, o forse desiderata, “libanizzazione” dell’area con una situazione estremamente instabile.

Al momento in cui scriviamo è iniziata la serie di attentati in Turchia mentre in Iraq la situazione si riaccende e da sporadiche azioni di disturbo contro le forze americane e italiane sembra stia iniziando un’offensiva pianificata e generalizzata a tutto il territorio con la provvisoria unificazione di tutte le organizzazioni antiamericane, l’impiego di armi più efficaci e la conseguente risposta americana. con rappresaglie sempre più violente ed estese.

Il Fondamentalismo islamico in tutto il Maghreb ed in Egitto è stato temporaneamente arginato, particolarmente in Algeria, ma quella stessa crisi che lo aveva generato si è ulteriormente aggravata, continua la sua opera di devastazione e tutto ciò fa prevedere in un tempo non troppo lontano ulteriori sovvertimenti ben più ampi di quelli trascorsi.

* * *

Nel 1996 il partito ha presentato sulla rivista “Comunismo” (dal n° 41 al n°44) uno studio col titolo Il Fondamentalismo islamico: una fuorviante prospettiva per il proletariato. In esso, dopo una breve sintesi storica e sul significato di alcuni termini specifici necessari per evitare incomprensioni, seguivano capitoli riguardanti specificatamente l’Algeria, la Tunisia, la Tripolitania-Libia, la Mauritania, l’Egitto e il Sudan.

Ma il caso riguardante l’Algeria, più vistoso, complesso, duraturo con violente ricorrenze nel tempo seguite da misteriosi silenzi che fanno pensare che nulla è ancora risolto, ha impegnato il Partito con un lavoro più ampio e approfondito che intendiamo presentare in un’unica pubblicazione, rielaborando quanto di esso è già apparso a puntate in una lunga serie di numeri di questo giornale.

Lo studio, frutto di un accurato lavoro storico ed economico, addiviene a dimostrare come il fondamentalismo del Fronte Islamico di Salvezza, con il mosaico delle sue organizzazioni paramilitari e terroristiche, spesso infiltrate da agenti dei servizi segreti, la catena di vendette trasversali, i misteriosi esili o il carcere all’estero dei suoi capi storici liberati e ricomparsi al momento opportuno, sia stato usato contro le masse sfruttate algerine e particolarmente contro il proletariato. I massacri bestiali e le numerose distruzioni di interi villaggi furono rivolti, per inspiegabile rappresaglia o per intimidazione, verso popolazioni inermi mentre nessuna azione violenta fu volta contro gli impianti industriali, petroliferi o gli oleodotti, bersagli facilmente vulnerabili seppure presidiati da “società di sicurezza” al soldo delle varie multinazionali.

Il lavoro è articolato nei seguenti capitoli: Geografia e storia dove forniamo un’accurata presentazione delle caratteristiche del territorio, delle basi storiche dello scontro tra la proprietà tribale e quella privata e dell’organizzazione agricola delle terre fertili. Segue il capitolo Insurrezione algerina, rivoluzione tradita del proletariato agricolo e dei Fellah, ovvero un’analisi del periodo compreso dal 1954 al 1962 quando il proletariato algerino si impegnò con grandi energie nella lotta di indipendenza dalla Francia, col solo risultato però di cambiare i suoi padroni. Il capitolo successivo: Bilanci e prospettive marxiste dell’insurrezione algerina presenta la nostra posizione rispetto alla questione agraria, nodo dell’economia algerina, e dell’economia urbana. Il periodo dal 1962 al 1978 è illustrato nel capitolo Lo stalinismo all’algerina ovvero la dittatura antiproletaria dove si analizzano le scelte economiche adottate nel periodo di Boumedienne e di Ben Bella quando si procedette allo sviluppo dell’industria pesante e si utilizzarono le rendite dell’estrazione petrolifera, la manna scaturita dal deserto, e si sacrificava l’agricoltura. Il periodo dal 1978 al 1988 è descritto nel capitolo Il capitalismo a volto scoperto: esplodono tutte le contraddizioni del degrado economico e sociale fino alle rivolte iniziate nel 1988 delle masse sempre più impoverite ed escluse da ogni possibilità di una sopravvivenza almeno dignitosa. Il regime risponde alle masse affamate con il suo terrorismo cui segue quello dei gruppi armati fondamentalisti. Ed è la storia degli ultimi anni. Il giudizio nostro su quei tragici avvenimenti è ripreso nelle Conclusioni, mentre un’appendice raccoglie articoli apparsi sulla stampa di Partito nel periodo in cui si svolgevano i fatti illustrati, più uno scritto di Marx, “Il sistema fondiario in Algeria al momento della conquista francese”, uno di Rosa Luxemburg, “I fasti della colonizzazione francese in Algeria” e l’approfondimento nostro, “La questione berbera”.

* * *

Nel 1991 in Algeria dopo la schiacciante vittoria elettorale del Fronte Islamico di Salvezza la vecchia classe dirigente mantenne il potere con un colpo di Stato.

Quell’azione fu intrapresa sia come forma di autoconservazione del vecchio regime, in cui i comandi militari avevano sempre svolto un ruolo egemone e determinante, sia come diretto interesse del capitale internazionale, che non si fidava dei capi del movimento fondamentalista e non lo riteneva uno strumento idoneo per la difesa dei suoi investimenti, crediti e affari e nel suo calcolo degli equilibri strategici nell’area sud mediterranea. È probabile che ai militari quella via fosse “suggerita” dall’esterno, tant’è che nessuna grande potenza si oppose, non furono interrotte le relazioni diplomatiche né attuata alcuna ritorsione economica, mentre in quel modo il Fondo Monetario Internazionale ebbe un’ottimo supporto in quel paese per attuare i suoi programmi economici per affamare le masse.

Il Fis, costituito solo pochi anni prima sulla scia dei moti contro il carovita, era apparso alle masse algerine come l’unica via per uscire da una gravissima crisi economica interna, aggravata da un pesante debito estero che assorbiva ogni risorsa del paese, provocata dall’impostazione dell’economia e dalla gestione clientelare e corrotta della vecchia classe dirigente che, privilegiando faraonici piani industriali finanziati con la rendita petrolifera, aveva trasformato l’Algeria da paese esportatore di derrate alimentari a importatore netto anche di generi alimentari di prima necessità.

Da ciò era partita una lunga serie di attentati nel paese, orditi da tutte le parti in lotta, uccisioni di europei non di fede islamica, mentre contemporaneamente in Egitto avvenivano assalti contro gli autobus dei turisti stranieri, da allora per molto tempo scortati dalla polizia, con impiccagioni quasi quotidiane dei fondamentalisti arrestati e le esecuzioni sommarie durante le “normali” operazioni di polizia.

Il nostro partito ha costantemente seguito questi avvenimenti con il metodo che lo contraddistingue, che esclude il sensazionalismo dello slogan facile sparato a caldo: non “condanna della violenza” in astratto, tantomeno preoccupazione per la “violata democrazia”, ma mente fredda e correttezza rispetto il nostro metodo materialista per la lettura di ogni avvenimento politico ed economico. A noi, al di là del riconoscimento degli aspetti tragici che i conflitti sociali provocano, preme conoscere innanzi tutto – senza adagiarci sul fatto etnico-religioso-culturale con cui la pubblicistica borghese cerca di motivarli – quale ruolo e compito storico vi svolgono le classi, ed in particolare il proletariato per la sua difesa, come si organizza, quali alleanze tattiche è costretto a subire se le forze storiche non sono ancora mature per la sua possibilità di vittoria.

Di ogni fermento religioso la nostra teoria si preoccupa di studiare le origini materiali nei termini dei rapporti di lavoro e di scontro fra le esistenti classi. Anche l’islamismo – con i suoi moderni “feroci Saladini” integralisti – è parte di un sistema economico-produttivo fondato sulla divisione e lo sfruttamento fra le classi, che in determinati periodi di crisi esplode nelle forme violente e che assumono esteriori connotati religiosi. Per il marxismo le religioni appartengono alla sfera della sovrastruttura ideologica di controllo, riflesso e complemento ciascuna della forma produttiva da cui emanano: si stabilisce una dialettica tra la base economica che genera la sovrastruttura di costrizione e di coscienza e la sovrastruttura che agisce in funzione di conservazione del sistema sociale.

I movimenti politico-religiosi richiamantesi all’islam, come l’attuale Fis algerino, che assumono forme esteriori di crociate e di massa, fanno derivare i loro principi politici dai testi della tradizione religiosa, dai quali la pratica quotidiana pubblica e privata discende direttamente. Di quelli, nel tempo, si possono riconoscere tre differenti periodi e gruppi, che sono sorti, coesistono e si combattono: Risveglio, Riformismo, Fondamentalismo.

Col termine Risveglio si indicano quei movimenti islamici emersi nel diciottesimo e diciannovesimo secolo sovente confinati in aree periferiche al di fuori della portata dell’autorità centrale. Fondati prevalentemente su base tribale tentavano di opporsi all’inesorabile crollo economico e commerciale del grande impero costituito dai quattro Stati dinastici principali: Egitto mamelucco, Turchia ottomana, Persia safavide e India mogul, attaccati militarmente dall’Europa e dalla Russia. La prima e forse più famosa manifestazione del movimento del Risveglio si ebbe in Arabia Centrale nel 1749 con lo scopo di riportare al potere il gruppo arabo da tempo emarginato.

Al contrario, il Riformismo islamico è stato un movimento urbano nato nel diciannovesimo secolo e durato fino al ventesimo e sviluppato un po’ ovunque, anche se in tempi differenti. I suoi capi erano funzionari statali, intellettuali e ulema (sapienti in materia coranica) tenacemente contrari alle interpretazioni tradizionali della religione e in aperto dialogo con la cultura e le filosofie europee, nel tentativo di far fronte a ciò che veniva considerato l’inevitabile condizione di declino dell’Islam. Studiando le fasi della civiltà europea i suoi esponenti speravano di scoprire i presupposti per la costruzione di utili strutture politiche e di una sana base economica per il trapasso del complesso del mondo arabo, prevalentemente agro-pastorale e mercantile, all’inevitabile economia capitalista. Auspicavano un mitico “ponte” fra le due “culture” quando ormai lo sviluppo capitalistico sbaragliava prepotentemente ogni ostacolo incontrato sul suo cammino, senza alcuna possibilità di un ritorno ad alcuna “età dell’oro” islamica o di altra religione.

Il Fondamentalismo, infine, è il movimento più recente. Nel 1918 non era rimasta che una minima parte del grande Impero Ottomano, che i califfi nei primi 130 anni dell’era musulmana avevano esteso dalla Spagna all’Afghanistan. L’Impero Ottomano pagò con il suo smembramento l’alleanza con gli Imperi Centrali nella Prima Guerra mondiale. Sotto il controllo anglo-francese si formarono diversi Stati e Protettorati, di impostazione laica, “democratica” ed europea, indipendenti però solamente sulla carta. Questi nuovi governanti fecero però atto di obbedienza formale all’Islam, che divenne ovunque religione di Stato e, per ragioni di opportunità politica, al suo clero fu riconosciuta, all’occorrenza, anche la capacità di fonte legislativa.

In questa situazione le protezioni polico-militari straniere e i cospicui depositi monetari derivati dalla rendita petrolifera versati nelle banche europee dai vari fantocci con fez e turbante dell’imperialismo del vecchio mondo, alimentavano i miti del Riformismo islamico, che divenne l’impostazione sovrastrutturale più rispondente alle necessità del vampiro capitalista in quelle aree, e per questo quella ideologia fu ovunque appoggiata.

La tradizione della chiesa islamica è semplice e non prevede un clero cui si demandi l’interpretazione dei testi e l’intercessione ai favori divini, a differenza di quella cristiana e in particolare cattolica. Nonostante questa semplicità si è formata nel tempo una casta di religiosi volti, oltre che al controllo dei fedeli, a gestire grandi rendite finanziarie. Si avvantaggiano della raccolta e del controllo delle offerte “per il sostentamento dei bisognosi”, storicamente stabilite in percentuali fisse simili alle decime una volta devolute al clero cattolico. La rendita petrolifera ha molto ingrandito quel giro, dall’originaria elemosina a carattere volontario del 10% del grano e del 2,5% degli animali e successivamente di oro e argento, divenuta una regolare imposta “a favore dei poveri” dell’umma, cioè di quella grande comunità per eccellenza di tutti i musulmani che non conosce confini statali ma solo religiosi.

In queste grandi concentrazioni monetarie e finanziarie, di supplenza nella accumulazione della ricchezza alle deboli borghesie industriali nazionali, incapaci di competere con i capitalisti d’Occidente, si trova un punto di partenza e di forza dei movimenti islamici, dei quali alcuni “integralisti”, altri “riformatori”, intenti a conciliare i semplici ma rigorosi precetti coranici con quelli della rendita fondiaria, dei profitti bancari, della finanza e in generale dello sfruttamento capitalista con tutto l’armamentario di regolamenti su mutui, interessi, ipoteche, leasing e quant’altro necessita all’economia capitalista senza Dio.

Due le maggiori correnti: la sunnita che riconosce la separazione e una relativa autonomia tra affari politici e religione e non prevede un’unica autorità superiore ma consente ai fedeli di seguire gli indirizzi di diversi capi religiosi; la sciita che invece reclama la totale sottomissione della politica al predominio della religione, elegge una figura carismatica come guida anche a carattere sovranazionale.

Come organizzazione attiva i Fondamentalisti attuali hanno un’origine e un passato relativamente recente, che segue le vicende della formazione degli Stati arabi moderni, e una collocazione opposta ai gruppi di potere locale individuati dall’imperialismo europeo prima, russo e americano poi, per governare sotto la loro tutela le nuove entità statali.

Nel periodo tra gli anni ‘30 e ‘50 la confraternita dei Fratelli Musulmani, fondata nel 1928 in Egitto da un sufi, maestro elementare, Hasan al-Banna, come società filantropico-religiosa divenne in poco tempo il più vasto movimento di massa a sfondo politico-religioso mai visto in tempi moderni.

A differenza dei vecchi riformatori arabi modernisti dei primi decenni del secolo, i Fratelli Musulmani avevano un programma radicale non per la riforma dell’Islam che potesse spiegare e comprendere le necessarie modifiche funzionali al nascente capitalismo, bensì per un ritorno agli antichi insegnamenti dei patriarchi da cui trarre gli unici fondamenti dell’ordinamento politico e sociale, ricorrendo per affermarli, se necessario, anche all’azione violenta. Per questo opporsi in modo deciso agli immensi interessi economici in gioco, la repressione che ne seguì dal 1954 al ‘66 fu violentissima: corda e catena non fu risparmiata per le migliaia di militanti arrestati. La repressione culminò con l’esecuzione di Sayyid Qutb, il primo ideologo dell’integralismo islamico, che nel frattempo si era esteso in Siria e in Libano.

Il risultato immediato ottenuto fu che il movimento si spaccò in due parti: una venne a patti col sistema e non costituì più un problema, l’altra divenne ancor più radicale ed intransigente condannando i governi non islamici, che dovevano essere distrutti.

La sconfitta militare dell’Egitto nel 1967 nella guerra con Israele fornì ai fondamentalisti una nuova occasione; dal ‘74 all’81 i gruppi che si erano riorganizzati si espressero in una consistente serie di attività violente tra cui le più eclatanti furono il sanguinario attacco al Collegio Tecnico Militare del Cairo, il rapimento e l’uccisione di un ministro del Waqf (era stato istituito un apposito ministero per la gestione delle ricche fondazioni pie e dei lasciti a scopo di beneficenza), scontri con l’esercito e la polizia nel Medio e Alto Egitto fino all’uccisione del presidente Sadat durante una parata militare nell’ottobre 1981 a seguito della firma della pace separata con Israele. Questo benché l’anno prima fosse introdotto nella costituzione il riconoscimento del diritto islamico come fonte fondamentale della legislazione e il multipartitismo, ovvero un colpo alla botte e uno al cerchio.

Il Fondamentalismo islamico recluta prevalentemente fra gli strati più poveri e sfruttati della società, salariati, contadini espropriati ed inurbati, i lavoratori e la piccola borghesia che ruota attorno all’economia dei bazar, e parte del clero; la loro adesione deriva, più che dal richiamo religioso e dall’efficacia della predicazione degli ulema, dall’enorme spinta della crisi capitalista che ha assunto diverse forme esteriori nei diversi paesi arabi: questa sì ha ricacciato “in un oscuro passato” le classi inferiori.

La teoria di questo movimento interclassista si riassume in tre punti fondamentali: 1) la modernità laica è il male per antonomasia; “infedeli”, e quindi da combattere fino alla distruzione, sono i religiosi e i politici che governano secondo schemi laici e moderni; 2) il solo rimedio al male è la ribellione condotta dall’avanguardia dei veri credenti; 3) ad un certo punto la ribellione diviene guerra santa (jihad) che comporta il sacrificio ed il martirio per amore della comunità.

Ma le differenze fra la diverse correnti, sette e rispondenze istituzionali, aperte o celate, locali o mondiali, dei gruppi Fondamentalisti non intervengono in modo determinante sui loro programmi sociali e politici. Si tratta sempre dello scontro tra gruppi di potere, sicuramente utilizzati dalle centrali dell’imperialismo, per il controllo degli Stati, laici o teocratici poco importa, ma unanimi per la difesa della proprietà privata, per la progressiva abolizione degli antichi beni collettivi, acqua, erba e terra, per il mantenimento della divisione fra le classi fondata su un “giusto salario”. Per noi si tratta di saper leggere gli sviluppi materiali degli eventi senza nulla concedere alla fantapolitica o farsi coinvolgere nelle dispute teologiche tra sciiti, sunniti, sufiti, wahhabiti o fondamentalisti: queste sette non sono che strumenti per dividere l’unità di classe dei proletari dei paesi arabi, per confonderli e distogliere le energie dal loro vero destino, la rivoluzione proletaria mondiale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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O affamati, o troppo ingozzi delle schifezze capitalistiche

Se gran parte dell’umanità è insufficientemente alimentata, tanto che la morte per fame falcia milioni di giovani vite, nell’occidente va diffondendosi la patologia opposta.

Per esempio il 65% della popolazione adulta americana è in sovrappeso, secondo i dati riferiti al biennio 1999-2000 forniti del National Health and Nutrition Examination Survey. La stessa indagine condotta tra il 1988 e il 1994 parlava di un 56% di sovrappeso. Nello stesso periodo la percentuale di obesi ha avuto un’impennata dal 23% al 31%. Un andamento che non risparmia i bambini, tra i quali la percentuale di obesità è cresciuta del 36%. Prevedono che, continuando di questo passo, la percentuale di obesi nel 2008 sarà del 39%.

Questo malessere non riguarda soltanto gli Stati Uniti: il resto del mondo si approssima molto a questi numeri, Italia compresa visto che negli ultimi 5 anni la crescita degli obesi è stata del 25%. Secondo alcune statistiche il 15% dei bambini italiani è obeso e in certe zone del Sud si arriva anche al 30%. «Negli Stati Uniti – a detta di Stefano Scucchi, alimentarista dell’Istituto Superiore di Sanità – nel 1990 i costi diretti dell’obesità, quelli, cioè, relativi alla sola cura delle complicanze mediche ad essa associate, hanno raggiunto il 6,8% della spesa sanitaria nazionale. In Olanda, fra il 1981 e il 1989, la spesa annua è stata del 4% circa delle spese sanitarie globali, mentre in Francia, nel 1992, circa del 2% delle spese totali del Servizio Sanitario Nazionale».

È ovvio che, anche se nessuno si azzarda ad ipotizzarlo e a provarlo, il capitalismo, quando consente di mangiare, lo fa nel peggiore dei modi possibile. Il fine della merce-alimento è il profitto. Il vezzeggiato “consumatore”, la cui “mano invisibile”, “razionalmente” oscillante fra uno scaffale e l’altro del supermercato, dovrebbe selezionare il “prodotto migliore”, di fatto è nella più totale ignoranza ed impotenza. Non dispone certo di laboratori di analisi né della possibilità di sopralluoghi nei luoghi di produzione, di preparazione e di conservazione degli alimenti. È costretto insomma ad ingozzarsi di carni agli ormoni e di ogni genere di schifezze.

Il ministro Sirchia, bacchettato come salutista, la butta sulla morale, che ha il grande merito per il capitalismo di non costare niente. Le “epidemie delle società del benessere” sarebbero causate, dice lui, da “sbagliati stili di vita”, da “cattive abitudini a tavola”. “Siamo noi i custodi della nostra salute”.

La reazione dei borghesi è peggiore del male: trarre profitto perfino dai mali che producono. Come, per esempio, il problema dei traffico e del trovare un parcheggio nelle mostruose città del capitale cessa di essere un problema nel momento in cui viene distribuito il Tariffario per la Sosta da parte di una apposita Società imprenditoriale, che rastrella rendita fondiaria e profitti, diventando quello che era un problema un moderno ramo di industria, per il quale una qualsiasi soluzione del trovare un parcheggio, o il non averne bisogno, sarebbe una vera, anti-sociale e anti-economica catastrofe.

Sul terreno di cui si parla qui, alimentare, viene presentata in Europa al sempre sovrano “consumatore” una “alternativa” al cibo “industriale” nella variante dei prodotti “biologici”. Questo non certo dopo uno studio che li confermi diversi da quelli “minerali” (gli aggettivi non li abbiamo scelti noi!) e più salutari per l’organismo, ma solamente per una guerra commerciale contro i “diabolici” OGM statunitensi. Di questi e di quelli forse fra qualche decennio scopriremo gli effetti. La cosidetta scienza borghese non ha mai indagato seriamente i meccanismi fisici e chimici della digestione e dell’assimilazione dei cibi, per trarne utili indicazioni circa le specie più adatte, il migliore metodo di coltura, le concimazioni, il periodo di raccolta, la preparazione, la conservazione, la cottura. Il senso di impotenza generato da questo vuoto di conoscenza positiva nella società presente viene colmato da ogni genere di superstizione alimentare.

Quel che è certo, insomma, è che la produzione degli alimenti è intrinsecamente in contraddizione con la loro produzione come merci. Nella futura società, quando il tempo medio che l’uomo dedicherà alla produzione dei bisogni della specie sarà di poche ore giornaliere, il resto della giornata l’individuo sociale si approprierà del sapere delle generazioni passate e presenti, tra cui una approfondita conoscenza sui cibi necessari ad una salutare alimentazione, in qualità e in quantità.
 
 
 
 
 
 


Marittimi e cantieri navali

Ancora un incidente su una nave mercantile. Al porto di Catania il 13 agosto su una nave portacontainer, la Vento di Scirocco, un elettricista dell’equipaggio, un italiano di Genova, è stato travolto da un carrello durante le operazioni di carico e scarico. I suoi compagni hanno potuto solo avvisarlo del pericolo incombente e assistere impotenti alla tragedia.

Mentre i commentatori borghesi e opportunisti parlano di fatalità, noi rimarchiamo il fatto che il sistema del trasporto marittimo impone ai lavoratori – per accelerare la rotazione del capitale – ritmi forsennati tanto in banchina quanto sulle rotte, incurante delle condizioni meteomarine proibitive per la navigazione o del grado di sicurezza nelle operazioni di carico/scarico.

È in questo ambiente economico e sociale che gli incidenti sul lavoro divengono una fatalità, quando la realizzazione del profitto chiede puntuale il suo tributo di sangue. Di casuale c’è ben poco. Il meccanismo è noto a tutti, ed è solo in relazione al proprio interesse che la borghesia chiede “migliore organizzazione” del lavoro, riforme di legge, più carità... Il proletariato può difendere la sua incolumità solo con la sua forza organizzata e ben diretta.

* * *

Di come il capitale distrugga le forze produttive, fra cui quella del lavoro, dimostrandosi, a questo grado di sviluppo, una struttura anti-storica, possiamo trarre numerosi esempi anche da recenti vertenze sindacali.

Ai cantieri navali Smeb di Messina, in crisi di liquidità e commesse, i 92 dipendenti sono stati collocati da mesi in cassa integrazione, in attesa tanto del salario dal lontano mese di aprile quanto del sussidio sociale che ancora tarda ad arrivare.

È la divisione internazionale del lavoro che spiega questa disoccupazione di maestranze molto qualificate e il loro “spreco”: ormai la corsa al risparmio sulla manodopera ha spostato nei bacini di carenaggio dell’Estremo Oriente la produzione di traghetti e mercantili, sebbene la tradizione industriale nel settore di paesi come l’Italia ancora sembra resistere, soprattutto perché si tenta di ricondurre a “coreane” le condizioni salariali e di vita dei lavoratori occidentali benché qualificati.

A Messina è successo che in agosto è stata acquisita dalla ditta una buona commessa di manutenzione della nave ro-ro (un traghetto per TIR) Hoccaj impegnato sulla tratta Livorno-Cagliari della società armatoriale livornese Marsea e foriera, dicono, di nuove altre commesse più redditizie. Per i lavori occorrerebbero solo 18 unità che, se impiegate, perderebbero il sussidio di cassa integrazione. I lavoratori, diffidenti del padrone che non paga le loro spettanze da mesi e senza precise garanzie sulla continuità del lavoro, il 25 agosto hanno occupato, portandosi dietro le famiglie, Palazzo Zanca, sede del comune messinese, dichiarando che non sarebbero tornati al cantiere se non fossero stati prima saldati degli arretrati.

Non sappiamo se la Smeb sarà capace di onorare il debito velocemente. È certo, invece, che i lavoratori devono continuare nella lotta per ottenere soddisfazione, diffidando dei sindacati di regime, sempre pronti a sacrificarli per il bene dell’azienda o dell’economia nazionale.

Il sempre meno prospero Occidente è immerso nell’arena della concorrenza mondiale, commerciale oggi ma che domani porterà alla guerra. Senza una visione internazionale ed internazionalista dei problemi, il proletariato messinese come quello coreano, recentemente protagonista di lotte coraggiose, resterà irretito nella propaganda aziendista e nazionalista delle proprie borghesie ed usato come inconsapevole massa di manovra per il conseguimento dei profitti, con sempre maggiore miseria e disoccupazione. Di contro, occorrerebbe un’alleanza internazionale dei lavoratori, un organo centralizzato di difesa sindacale e altro di lotta politica. Solo nel Partito Comunista Internazionale è il soggetto di una visione storica scientifica e consapevole della ineludibile necessità dello sbocco rivoluzionario dalle contraddizioni di questa società che, costituzionalmente, “per mare e per terra”, tende al comunismo.