Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 334 - marzo-aprile 2009 [.pdf]
PAGINA 1 Primo Maggio 2009: Muore il Capitale - Morte al Capitale.
Crisi in Grecia e avventurismo piccolo borghese.
– A dieci anni dalla guerra alla Serbia.
Meno male che Silvio c’è.
PAGINA 2 Terremoti ed ingegneria borghese.
– Nuova pubblicazione del partito: “Il Comunista”, Organo del Partito Comunista d’Italia.
Individualità e anonimato nel partito.
La crisi e l’imperialismo per gli economisti.
PAGINA 3 Il Tempo fra Dio e Denaro.
PAGINA 4 Sindacati confederali e "di base" di fronte alla crisi: Finte svolte in Cgil - Tensione nei sindacati “alternativi” - La “costituenda“ Cub.

 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 1


PRIMO MAGGIO 2009
Muore il Capitale - Morte al Capitale

Questo Primo Maggio 2009 vede il capitalismo giunto alla sua crisi storica, che è assai peggiore delle precedenti. Le cause della crisi sono dovute alla sovrapproduzione di capitale e di plusvalore. Ciò non significa che la società non si potrebbe sviluppare ancora, ma è solo il capitale che non riesce a continuare ad accrescersi, senza misura. Nella crisi generale del capitalismo l’abbondanza genera la penuria. Il capitale, a causa della enorme sua ricchezza e della massa dei mezzi di produzione già accumulati, non riesce più a trarre ulteriore plusvalore dallo sfruttamento del lavoro. Nella crisi diventa evidente il contrasto fra le forze produttive e i rapporti di produzione, dando luogo all’antitesi di interessi ed alla lotta di classe fra i proletari e la borghesia dominante.

Oggi in tutti i paesi il regime capitalistico reagisce alla sua crisi aumentando l’oppressione di classe. Gli Stati borghesi si preparano allo scontro sociale promulgando leggi sempre più restrittive contro gli scioperi, appoggiandosi alle grandi confederazioni sindacati fedeli al regime e ai falsi partiti operai.

Lo sfruttamento capitalistico si intensifica mese dopo mese e le famiglie proletarie vedono il salario scendere. Cresce la massa dei disoccupati, di quell’esercito di riserva che nelle fasi di crisi si gonfia a dismisura, con l’effetto di tenere bassi i salari, di esercitare una potente arma di ricatto sugli occupati.

In questa situazione, i proletari devono tenere in primo luogo a difendersi riprendendo la via della lotta, recuperando l’arma degli scioperi, decisi ed estesi oltre le categorie, i settori, le località, e del loro coordinamento ed organizzazione in un Sindacato di classe sempre più centralizzato e diffuso, col blocco della produzione ed unione effettiva di occupati e disoccupati. Occorre una organizzazione sindacale territoriale per arrivare ad uno sciopero generale, senza preavviso e senza limiti di tempo e di spazio, aggregandosi intorno a quelle che sono le vere rivendicazioni operaie. È necessario che già da ora si formino organismi sindacali di classe che, fuori e contro i sindacati di regime CGIL-CISL-UIL-UGL, tendano ad organizzare i lavoratori superando le divisioni fomentate dal regime (pubblici e privati, giovani e vecchi, precari e “garantiti”, indigeni e immigrati).

Gli odierni rapporti di produzione sono protetti dal potere dello Stato borghese, che qualunque sia la forma del sistema rappresentativo e l’impiego della democrazia elettiva, costituisce l’organo per la difesa degli interessi della classe capitalista.

Il regime capitalistico conosce storicamente un solo modo per superare la sua sovrapproduzione: scatenare una nuova guerra mondiale che distrugga apparati industriali, infrastrutture, merci e apra la strada ad una nuova divisione del mondo tra nuovi imperialismi. Il proletariato ha già subito le conseguenze di due guerre mondiali, quella del 1914-1918, prodotta dalla crisi economica di inizio Novecento, e quella del 1939-1945, causata dalla crisi del 1929. I lavoratori non debbono accettare di essere scagliati contro i loro fratelli in un nuovo macello imperialista, per permettere a questo regime di sfruttamento e di rapina di sopravvivere a se stesso!

La lotta sul piano economico quindi non basta per distruggere il regime del capitale con le sue insanabili contraddizioni. Se al Sindacato di classe spetta il compito di unire ed inquadrare le energie proletarie, al Partito Comunista Rivoluzionario ed Internazionalista spetta quello di condurre il proletariato alla realizzazione del suo programma storico: abbattimento del potere borghese, instaurazione della dittatura proletaria, distruzione dei rapporti di produzione capitalistici.

- Riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario!
- Aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate!
- Salario pieno ai disoccupati!
- Rifiuto di ogni concertazione, compatibilità e sacrificio in nome dell’economia nazionale!
- Rinasca il sindacato di classe!
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Crisi in Grecia e avventurismo piccolo borghese

È un periodo di agitazione nella politica della borghesia greca riguardo a come può affrontare le conseguenze economiche e sociali della crisi internazionale e promuovere misure di austerità e tagli alle spese. Il problema centrale sembra essere l’alto deficit pubblico, quando la Commissione Europea sta esercitando una forte pressione sul governo Greco perché prenda misure per evitare la bancarotta finale e un alta inflazione in futuro, il che minaccia la già fragile stabilità nella Zona Euro. Avremo una visione più chiara della reale situazione dopo l’estate, perché una notevole parte del reddito nazionale deriva dal turismo.

Una delle principali conseguenze è la profonda crisi dell’assistenza sociale: le Casse di previdenza sono in profondo deficit dopo che sono state saccheggiate dallo Stato e dal padronato.

Il governo ha deciso di non dare quest’anno nessun aumento ai dipendenti pubblici. Per gran parte dei lavoratori nel privato la situazione è anche peggiore. Un terzo dei lavoratori e impiegati è senza sicurezza sociale, inclusi migliaia di immigrati. In alcune imprese, soprattutto nel nord della Grecia (Salonicco) i padroni hanno ridotto la giornata lavorativa e il salario, intimorendo i lavoratori con licenziamenti.

Una settimana fa vi è stato uno sciopero generale, indetto dalla Confederazione dei Lavoratori (GSEE) e dalla Unione Nazionale dei Dipendenti Pubblici (ADEDY). Come al solito lo sciopero è stato un successo soprattutto nel settore statale. Nella maggior parte del settore privato, incluse migliaia di piccole e medie imprese, non è presente alcun sindacato.

Le vicende di dicembre sono state seguite da una crescente onda di violenze avventuriste proveniente da diversi gruppi anarchici, di matrice piccolo-borghese, ispirati a dottrine nichiliste e a personalità come Netsayev. È l’anarchismo che ha tratto vigore dagli scontri di dicembre e sono gli anarchici ad attrarre i giovani. Quasi ogni giorno avvengono atti di terrorismo individuale, tafferugli, esplosioni di ordigni e attacchi armati, specialmente contro la polizia. Vi è una situazione che somiglia alla “strategia della tensione”. Per esempio, dopo le bravate “terroristiche” di due nuovi gruppi di “guerriglieri”, qualcuno, forse fascisti, ha tirato una bomba a mano contro il quartier generale di una organizzazione di sinistra che difende gli immigrati: per poco molti di coloro che erano lì dentro sono scampati alla morte.

Lo Stato cerca di sfruttare la situazione al massimo, passando nuove leggi “anti-terrorismo” e in generale attua una politica di “legge e ordine”.

In Italia, su Il Manifesto è apparso recentemente un articolo che prospetta in Grecia la possibilità di un colpo di Stato militare. In realtà non vi è nessuna lotta di classe in Grecia che imponga quella necessità e le possibilità di un colpo di Stato sono le stesse, per dire, che in Italia o in Spagna. Per il momento anche in Grecia la borghesia vive tranquilla di rendita, in assenza di un forte e combattivo movimento dei lavoratori, e privo dell’indirizzo del suo partito.
 
 
 
 
 
 
 
 


A dieci anni dalla guerra alla Serbia

Ormai è storia vecchia: le guerre si fanno per la difesa delle medesime loro vittime, per la emancipazione dei popoli oppressi, per riportare la pace da esse turbata, terrorizzando l’umanità per liberarla dal terrorismo. Le martellanti campagne mediatiche, accompagnate da macabri e truculenti reportage, sui bombardamenti di città e villaggi, sulle “inutili” stragi, sulle “pulizie etniche”, sugli “efferati” atti terroristici (in realtà auspicati, incoraggiati e compiuti da ogni parte) servono solo allo scopo di commuovere, e allo stesso tempo abbrutire, i proletari per spingerli a schierarsi sugli opposti fronti di guerra in solidarietà con le rispettive borghesie.

Tutte le guerre moderne, sono state combattute, da entrambe le parti, per queste nobili finalità. Nemmeno la propaganda nazista si astenne dal denunciare i nemici di essersi macchiati di crimini contro l’umanità: ed i fatti che denunciavano erano veri.

Ogni volta che a questa giustificazione della guerra il proletariato ha creduto, è divenuto carne da cannone e, nei paesi vinti come in quelli vincitori, ha dovuto sopportare il peso tanto della guerra imperialista quanto della successiva pace, altrettanto imperialista.

Quando invece il proletariato ha rifiutato di stare al gioco della concordia nazionale ed ha usato le armi per i suoi fini di classe e le ha rivolte innanzi tutto contro il nemico interno, si è sbarazzato della propria borghesia. Sapeva che rovesciando il potere capitalista del proprio paese non portava aiuto al “nemico”, non apriva le porte agli invasori, bensì poneva le premesse per l’abbattimento di tutti i capitalismi, in tutti gli Stati. Così fu la Comune di Parigi, così fu l’Ottobre russo.

Un’altra delle menzogne ricorrenti è quella secondo cui gli Stati a governo democratico sarebbero per natura pacifici, «ripudierebbero la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», come recita l’articolo 11 della Costituzione italiana! Quanta ipocrisia da parte del pacifismo borghese ed ex stalinista su questa formula pretesca. Infatti l’articolo così continua: «Consente, in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni: promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Questo lo scopo dell’organizzazione internazionale (una delle tante) chiamata Nato: assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni e per questo interviene dove c’è bisogno di porre dei “limiti alle sovranità”!

Ma una ancora maggiore garanzia di pace si avrebbe in quegli Stati a base costituzionale retti da governi democratici di “sinistra”.

Sono passati dieci anni da quel 24 marzo 1999 quando gli aerei della Nato cominciarono i loro bombardamenti pacificatori su Pristina, Podgorica e sulle periferie di Belgrado.

Da parte dell’Occidente, civile ed umanitario, si diceva di voler così mettere un freno alla pulizia etnica praticata dal regime di Milosevic nei confronti degli albanesi kosovari. Chi aveva organizzato e finanziato quella guerra civile e con quali sistemi e quali finalità era a tutti noto, ma veniva prudentemente taciuto.

All’epoca non c’era Berlusconi al governo, non c’erano gli “ex-fascisti”: l’Italia, nata dalla Resistenza, era guidata da un governo “di sinistra”, con a capo un ex-“comunista”. Ma questo non impedì all’italico imperialismo sciacallo di prendere parte attiva alla guerra, indolore per coloro che bombardavano.

Mentre inviava i bombardieri a sganciare esplosivo democratico sulle inermi popolazioni serbe, Massimo D’Alema si faceva promotore della “umanitaria” Operazione Arcobaleno a sostegno dei civili scampati ai bombardamenti. Animo candido, frequentatore di Assisi ed estimatore del “Poverello”! Poverello sì, avere un estimatore come D’Alema!

Per fermare il regime criminale di Belgrado, per più di due mesi e mezzo gli ordigni umanitari seminarono distruzione e morte nei quartieri proletari delle città e nei paesi di contadini, colpirono scuole, colpirono ospedali, treni ed autobus civili, carceri, televisioni pubbliche, e perfino l’ambasciata cinese. I morti di questa guerra umanitaria furono, tra i civili, più di 500, tra i militari svariate migliaia.

Da parte delle forze Nato non si ebbero perdite: Dio era con loro! O, almeno, loro erano vicini a Dio, visto che volavano e bombardavano da 5 mila metri di altezza!

Ora D’Alema, che non è più né presidente del consiglio, né ministro degli esteri e non avendo più cariche istituzionali può tornare a fare il “partigiano della pace”, il 12 gennaio scorso, intervistato dalla televisione Red, a proposito dell’invasione delle truppe israeliane a Gaza affermava: «Quello che sta accadendo è, non soltanto dal punto di vista dei costi umani, molto pesante e grave. Noi parliamo di una guerra, ma in realtà si tratta di una vera e propria spedizione punitiva. L’espressione “guerra contro Hamas” è il titolo che i servizi informativi israeliani danno a quello che sta succedendo (...) Un conflitto in cui muoiono novecento persone da una parte e dieci dall’altra difficilmente può essere definita come una guerra».

Viene allora a domandarci se, per caso, non abbia rivisto la sua posizione circa l’attacco del 1999 alle popolazioni serbe, che, giustamente, anch’esso, guerra non fu. Fu massacro. O se vogliamo, fu semplicemente imperialismo.

D’Alema il 23 marzo in una intervista, riportata il giorno seguente da Il Riformista, rievoca il comportamento del suo governo in occasione di questo attacco. Noi non possiamo che essere riconoscenti a Massimo D’Alema che, nella foia di presentarsi paladino degli interessi imperiali nazionali ed internazionali, si dimentica perfino di coprirsi dietro le solite menzogne umanitarie.

La rievocazione inizia con il riconoscimento chiaro e netto che il suo governo nacque come governo di guerra. «Per essere precisi l’Act order, che è in sostanza il meccanismo previsto dalla Nato con il quale le forze armate dei singoli paesi vengono messe in allarme e a disposizione del comando generale, era stato già deliberato dal governo Prodi. Un fatto scarsamente considerato. Fu invece una delle ragioni per le quali, dopo la caduta di Prodi, Scalfaro escluse che ci potessero essere elezioni anticipate. Ricordo che il Capo dello Stato mi disse: “Siamo in stato di pre-guerra, in queste condizioni in nessuno Stato civile si scioglie il Parlamento”. Vorrei che nelle ricostruzioni di quel periodo, spesso fantasiose, se ne tenesse conto».

Certo che bisogna tenerne conto! Tutti furono accondiscendenti e corresponsabili: Prodi, Scalfaro, l’ipocrita Diliberto (chiamarlo controrivoluzionario sarebbe troppo onore) che esprimeva la sua angoscia esistenziale quando affermava: «noi comunisti abbiamo moltissima difficoltà a stare nel governo, in questo momento». Ma ci stava.

Dice D’Alema: «Non ci fu mai un vero problema politico interno. Non si votò in Consiglio dei ministri, e nemmeno in Parlamento». Democraticamente venne smessa la democrazia. Ma nessun democratico, né della maggioranza né all’opposizione, si indignò per questo. Per i borghesi la guerra è una cosa seria: quando va fatta, va fatta! La democrazia è invece solo una farsa.

D’Alema ricorda poi di quando venne convocato negli Stati Uniti per ricevere ordini dal nuovo padrone: «Bill Clinton spiegò che la guerra era decisa». La giustificazione del padrone era «la necessità di proteggere le popolazioni kosovare». Ma lui, da persona navigata, sapeva bene che «le ragioni dell’intervento andavano al di là della vicenda specifica del Kosovo».

Questo però non gli impediva di essere pronto ad eseguire gli ordini del padrone: «Era buffo che avessimo un moderato come Dini che garantiva i serbi e un comunista come me che garantiva gli americani». E per questo suo atteggiamento “leale” ricevette pure gli elogi di Clinton: «Mi telefonò per ringraziarmi: “Grande operazione, condotta con grande lealtà”».

Infatti, all’intervistatore che gli ricorda: «Quando i caccia americani colpiscono la sede della tv serba lei è appunto a Washington per il cinquantesimo anniversario della Nato. Dini, indignato, protesta energicamente con gli americani. Lei lo smentisce: «Non si può stare a discutere ogni singolo bersaglio». D’Alema risponde: «Non potevamo fare polemica pubblica, perché questo avrebbe solo rafforzato Milosevic». Certamente, mai fare il gioco del nemico.

D’Alema però ricorda di essersi perfino opposto alle richieste di Clinton: «Non vi chiediamo di partecipare alle operazioni militari, è sufficiente che mettiate a disposizione le basi. Gli risposi: “Presidente, l’Italia non è una portaerei [questo sì, è parlare da uomini!]. Se faremo insieme quest’azione militare, ci prenderemo le nostre responsabilità al pari degli altri paesi dell’alleanza”. Era moralmente giusto ed era anche il modo di esercitare pienamente il nostro ruolo. Dopo il Kosovo, infatti, l’Italia ebbe un ruolo primario. Una parte della regione è stata poi presidiata da una forza multinazionale sotto comando italiano. È stata la prima volta che un contingente multinazionale serviva sotto la bandiera del nostro paese. Qualche anno dopo abbiamo avuto il comando della forza Onu nel Libano. Due dei momenti più significativi dell’impegno di peacekeeping di tutto il dopoguerra».

L’ex stalinista parla chiaro; la borghesia italiana ha bisogno del suo posto al sole, non può permettersi di non arraffare tutto quello che può, anche se si tratta solo di carcasse; proprio come fa lo sciacallo che si nutre degli avanzi del predatore.

Alla domanda se dopo le prime vittime civili dei bombardamenti avesse avuto pentimento per le sue scelte, l’estimatore del Poverello di Assisi risponde: «Pentito no, mai. Difendo il principio secondo cui ci sono momenti in cui l’uso della forza è inevitabile: quando si tratta di difendere valori come i diritti umani, che non possono essere accantonati nel nome della sovranità nazionale».

Questa è la vera faccia della democrazia e di tutti i democratici, soprattutto quelli “di sinistra” e di estrazione stalinista. Servi del capitalismo ieri, quando si dichiaravano comunisti ed erano schierati dalla parte dell’imperialismo russo; servi del capitalismo oggi che si dichiarano liberali e servono con altrettanta devozione l’imperialismo americano. Ieri ed oggi comunque nemici del proletariato.

Non ripudiano la violenza e la guerra, né di difesa, né di offesa, non arretrano di fronte alle stragi di popolazioni proletarie inermi. L’unica violenza che negano e che combattono è quella rivoluzionaria del proletariato. Non hanno cambiato bandiera, svolgono il loro compito controrivoluzionario a seconda di come sia più conveniente alla classe borghese. Perché il loro destino è indissolubilmente legato al destino del capitalismo.

Questo lo sanno bene, e sanno pure di quel famoso spettro che si aggira per il mondo!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Meno male che Silvio c’è

L’attuale capo del governo borghese italiano ha un singolare destino, di essere criticato soprattutto quando, per un motivo o l’altro, gli capita di dire la verità. Da diversi anni va dicendo che gran parte della Magistratura, e quindi lo Stato in quanto potere giudiziario, non è super partes ma spesso al servizio di questo o quel settore della politica o dell’economia.

Qualche dubbio lo avevamo avuto anche noi: nello Stato italiano fin dalla sua unificazione non ci è sembrato di notare un grande interesse della Magistratura nello scovare i responsabili di eccidi di proletari o nell’andare, ad esempio, ad indagare, per esempio, sulle cause della morte in carcere di anarchici, da Bresci a Pinelli.

Negli anni più vicini a noi abbiamo visto un noto banchiere italiano impiccato, con i mattoni in tasca, sotto un ponte di Londra; il lungo processo che ne è seguito ha dato il suo verdetto: suicidio. Ovviamente tutte le lamentazioni riguardano la mancanza di “garantismo” e di imparzialità tra le varie cosche borghesi, non quando ci sono di mezzo i proletari.

Il novello Peron italico ha anche avuto il grande merito di dire che il Parlamento è un’aula “sorda e grigia”, usando altre ma equivalenti parole, e che i parlamentari non servono a nulla se non ad eseguire degli ordini votando si o no a provvedimenti che neanche conoscono. Per il capo del governo italiano la Democrazia, il Parlamento, e anche la Costituzione, sono quindi degli strumenti che, ormai diventati inutili, è d’uopo gettare nell’immondezzaio.

Che la borghesia si metta a segare il ramo su cui è seduta non può che farci piacere. In realtà sulla democrazia noi comunisti, come i pochi borghesi sinceri e non rincretiniti, la pensiamo allo stesso modo: la differenza è che noi lo diciamo e loro non possono, anche se talvolta, gli scappa.

Il nostro auspicio è che i proletari, raccolta la sfida del nostrano Peron, si liberino dalla mitologia nazionalista e interclassista, sia nella forma della superstizione democratica e parlamentare sia in quella opposta del culto del capo salvatore, per avviarsi sulla strada maestra della lotta risoluta di classe e della rivoluzione comunista.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2


Terremoti ed ingegneria borghese

Fa parte della cultura tecnica di una società, e la caratterizza, il costruire una tipologia di edifici con scelta dei materiali, loro connessione, dimensione e forma tali da garantirne la durata per un tempo ragionevolmente indefinito.

Nei vecchi continenti molte città si presentano ancora con fabbricati che sono lì da molti secoli, in perfetto stato di conservazione e di utilizzo. Costruzioni assai ardite, le imponenti cattedrali rinascimentali o i grandi edifici civili o militari, pubblici e privati, almeno quelli in uso alla classe dominante, in zone fortemente sismiche hanno resistito senza danno ai peggiori terremoti.

Gli architetti e i capimastri che quei fabbricati, spesso innovativi, progettavano e costruivano non si affidavano ad alcuna particolare verifica numerica, disponendo solo della geometria e di un poco di statica grafica, non del computer e nemmeno del regolo. Non si riteneva di doverli assoggettare per legge a particolari modalità di calcolo strutturale. Scienza e sapienza gli derivavano da una lunga e condivisa tradizione, fondata, da una parte, su una grande scuola di studi critici, tecnico-estetici, dei capolavori dell’arte antica, dall’altra sulla provata esperienza del maestro artigiano che sa lavorare e conosce i diversi materiali e “sente” il fluire delle forze al loro interno.

Nel Rinascimento in Europa, questi fabbricati erano, per la committenza, molto costosi, sia per il compenso alle maestranze così qualificate sia per la scelta esigente dei materiali. Quando il finanziamento languiva non si risparmiava su quelle o su questi ma, semplicemente, si sospendeva l’esecuzione dell’opera: alcune sono tutt’oggi incompiute.

Modernamente l’arte edificatoria, rispetto a quella, è segnata da una doppia rivoluzione: tecnica ed economica.

Ovviamente la ricerca del profitto impone la riduzione dei costi, che nella crisi ormai deborda nel maniacale. Vi concorre anche la legge della concorrenza che, per aggiudicarsi l’opera, spinge le imprese a ribassi d’asta al di sotto del costo minimo per il buon costruire.

Inoltre, imponendosi il potere dal capitale nella società e l’interesse ad affrettare i cicli della sua riproduzione, vi assume sempre più importanza non l’edificio, ma la costruzione. Di un nuovo immobile interessa sempre meno il risultato d’uso e le sue lunghe rendite future a fronte del profitto industriale che è possibile ricavare dalla sua costruzione. La durata nel tempo dell’edificio diventa quindi da pregio difetto.

L’altra rivoluzione è quella tecnica, che ha fornito all’edilizia nuovi materiali dalle qualità di resistenza alcune volte superiori a quelle degli antichi laterizi e pietrame. L’Ottocento portò l’acciaio, il Novecento il calcestruzzo armato. Il secondo, meno costoso e richiedente minore manutenzione, si è così affermato.

Il calcestruzzo armato, oltre ad avere la essenziale capacità, di cui ogni muratura è priva, di resistere a trazione, dispone di praticamente infinite possibilità plastiche: arrivando in cantiere allo stato fluido si può gettare in casseforme di ogni foggia disponendosi nella conformazione spaziale più adatta a sostenere il proprio peso a resistere ad ogni tipo di sollecitazione, in particolare sismica. Più che dal calcolo, la resistenza di un edificio deriverebbe dalla sua conformazione e dall’equilibrio e proporzione delle parti. Ottenuto questo, qualcuno magari poi direbbe che è anche bello.

Questa tipologia avrebbe costi, almeno immediati di costruzione, sicuramente maggiori, del tutto incompatibili con la miseria della società attuale, che supera quella di molti precedenti modi di produzione.

Nel capitalismo ogni progresso si capovolge in danno (al contrario di Re Mida, che ottenne di cambiare tutto in oro, il borghese come tocca muta in merda). La migliori caratteristiche del calcestruzzo armato non si sono tradotte in fabbricati più saldi e duraturi, ma in membrature in proporzione ridotte: al posto di spessi muri portanti esili pilastri.

Inoltre la sagoma che viene data alle casseforme non è quella che accompagna le linee di forza dell’edificio, al contrario l’uso del calcestruzzo armato ha reso possibile il regresso della struttura portante ad un reticolo simile a quello della primitiva capanna: tronchi in piedi per sorreggere leggeri orizzontamenti. Essendo le maglie di tale intelaiatura necessariamente della forma di rettangoli, è inevitabile la loro minima resistenza alla deformazione e al collasso quando sollecitati dallo scotimento orizzontale prodotto dal terremoto.

Quindi, come tutti rilevano, sotto sollecitazione sismica, i moderni edifici rovinano mentre quelli più antichi, dove le pareti portanti in muratura siano ben connesse fra loro a formare una forma a scatola chiusa se non verso l’alto, hanno maggiori possibilità di resistere.

Ne segue la fragilità estrema dei fabbricati che ingombrano i brutti quartieri sorti intorno alle città in questo dopoguerra, infinita teoria di condomini, spesso di numerosi piani in altezza, abitati per lo più da membri della classe lavoratrice. In Italia quaranta città capoluoghi di provincia si trovano in Zona 2, sette in Zona 1, la più pericolosa delle quattro ordinate per gravità di rischio sismico.

Dal 1974 in Italia, ma è fatto generale, la borghesia, resasi conto della gravità del problema, emana una prima legge a normativa dell’edificare in previsione del fatto sismico, e viene ad individuare nel territorio nazionale zone diversamente minacciate. Praticamente quella prima legge obbligava a dimensionare le strutture di un edificio per resistere ad una data sollecitazione orizzontale dipendente dal grado di sismicità della zona, valutato con i metodi della geologia e della sua storia locale, maggiorato in caso di edifici importanti, e a carichi verticali ugualmente accresciuti.

Altre leggi si sono aggiunte nei decenni, in Italia e fuori, tendente ciascuna ad affinare i metodi di calcolo. Inerenti l’analisi del comportamento dinamico-oscillatorio dell’opera, sono giunti ad una complessità che ormai, anche per una piccola costruzione, trascende la possibilità computazionale di qualunque squadra di progettisti e richiede l’elaborazione automatica. Il risultato quantitativo e qualitativo di simile modo di “progettare” tende quindi a sfuggire alla capacità di verifica dello stesso progettista. La complessità della redazione dell’ultima normativa, del 2005, la renderebbe inapplicabile a giudizio perfino delle associazioni degli ingegneri, tanto che la sua entrata in vigore è stata sospesa.

La legge non prescrive semplicemente che l’edificio sotto sollecitazione mantenga comunque la sua totale integrità, ma è prevista tutta una gradazione di danni che vanno dalle lesioni fino al suo mancato collasso. E tutto questo in una dimensione probabilistica: esempio, evitarne il crollo con una probabilità dell’80% nei prossimi 50 anni... quando la conoscenza, per ogni punto del territorio, della curva di distribuzione di probabilità dell’evento di un terremoto di grado x o superiore nei prossimi n anni è, con ogni evidenza, solo di grande approssimazione: vale forse anche meno della vecchia esperienza popolare locale.

Si pensi che la città de L’Aquila, tagliata in due lungo una sua via centrale dal percorso di una faglia, non è inserita in Zona 1, ma nella 2!

Insomma scopo della legge non è la stabilità dei fabbricati, ma spaccare il capello in quattro per ridurre i costi di costruzione a spese della sicurezza, costi certo insostenibili per il modo di produzione capitalistico.

La “ingegneria sismica” è un prodotto quindi della decadenza capitalistica. Noi, che non siamo geologi né ingegneri ma comunisti, almeno nel macroscopico ci teniamo al determinismo e siamo certi che domani, finalmente distrutto il capitale, costruiremo abitazioni sicure, per quanto consentito dallo sviluppo della tecnica, non probabilmente sicure. E questo sia nel difficile e delicato lavoro del recupero dell’esistente sia nel reinventare vecchi, nuovi e mutevoli impianti di città dell’uomo.

Qui non completiamo l’argomento con il fatto notorio, e da tutti lamentato, che nello effettivo costruire, le leggi e i progettisti scrivono, i capitalisti fanno (sabbia di mare nei pilastri eccetera).

Lo stesso compianto funebre, per i morti, stavolta in Abruzzo, e per l’edilizia contemporanea, si tramuta nei media in un intrattenimento come gli altri, in una odiosa retorica di regime. Nessuno dice però che in regime capitalistico la vera Legge che comanda, a onesti e a disonesti, e comanderà finché questa società non sarà abbattuta, è quella del Profitto e che in suo nome è giusto e inevitabile corrompere controllori, collaudatori, periti, in totale intesa fra le mafie di destra e di sinistra e le rispettive imprese di costruzione associate.

Non solo il Capitale è ormai incapace di costruire città nuove, ma anche di tenere in piedi le vecchie. La manutenzione e il consolidamento del patrimonio edilizio sociale gli è una funzione impossibile. In particolare di fronte alla frammentazione della proprietà immobiliare e dell’istituto del condominio degli edifici.

Il capitale è entrato da tempo nella sua fase storicamente mortale, ha esaurito il suo portato progressivo è può solo distruggere. Mentre la società borghese si immiserisce sempre più ed è sempre più in balía delle forze della natura, le grandi concentrazioni industriali-finanziarie, già in bancarotta, si rifugiano sotto le ali dello Stato per emungere dalle sue casse enormi prestiti in anticipo di appalti per la “progettazione e costruzione” delle cosiddette “grandi opere”. In un clima di ineluttabile e incontrollabile fatalità, che già assomiglia a quello delle guerre e ne ha le stesse cause, questi interventi, del tutto inutili e condannati da ogni buon senso, servono a di rianimare il cadavere del capitale e vanno ad aggiungersi ai danni provocati dalle calamità naturali.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Nuova pubblicazione del partito
È ora disponibile in formato digitale il giornale quotidiano del Partito Comunista d’Italia

“Il Comunista”
Organo del Partito Comunista d’Italia

La collezione, dall’ottobre del 1921 all’ottobre del 1922, è disponibile in formato digitale (pdf). La collezione completa, esclusi pochi numeri mancanti o risultati illeggibili, su Dvd, è in vendita a Euro 90,00.

* * *

Ce l’abbiamo fatta! Dopo che i nostri compagni ci hanno lavorato per anni siamo finalmente riusciti a riportare alla luce “Il Comunista”, il glorioso quotidiano, “Organo centrale del partito Comunista d’Italia”.

Riguardo questa nostra prima edizione della collezione rileviamo che, per quanto gli originali dei numeri del giornale che abbiamo avuto modo di riprodurre fossero tutti in pessime condizioni, il lavoro è, insperatamente, risultato ottimo e tutte quante le pagine risultano ben leggibili. La riproduzione è però parziale: copre il periodo che va dall’ottobre 1921 all’ottobre 1922, 13 mesi. Inoltre la collezione non è completa, mancando in media cinque o sei numeri per ogni mese. Per poterla integrare confidiamo nei lettori che ci indichino ove reperire le parti mancanti.

Già il Partito ha riedito la serie dei periodici che nel Novecento hanno segnato il solco della nostra tradizione e della nostra evoluzione ed affinamento dottrinario. Facciamo questo non per soddisfare le manie di collezionismo, ma per mettere a disposizione dei compagni e dei proletari degli strumenti di viva lotta, oltre che insegnamenti teorici, sia in campo politico sia sindacale, ammesso che i due aspetti possano essere scissi.

All’indomani della sua costituzione il Partito Comunista d’Italia disponeva di tre quotidiani: oltre a “Il Comunista”, suo organo centrale, aveva “L’Ordine Nuovo” di Torino, con una tiratura di circa 30 mila copie e “Il Lavoratore” della Venezia Giulia. “L’Ordine Nuovo” era diffuso in Piemonte, Lombardia, Liguria, Parma e Piacenza; “Il Lavoratore” nella Venezia Giulia, la Venezia Tridentina, il Veneto; “Il Comunista” giungeva ovunque in qualità di organo centrale.

“Il Comunista” si pubblicò a Milano, a cura del Comitato Esecutivo, bisettimanalmente fino all’11 settembre 1921. Una serie di difficoltà, ben comprensibili, impedirono la perfetta regolarità delle sue uscite, tanto che in questo primo periodo apparvero soltanto 51 numeri, con una tiratura tra le 15 e le 20 mila copie ciascuno.

Il 15 settembre 1921 la Centrale del Partito si trasferiva a Roma. Il quotidiano però tardò ad uscire a causa del boicottaggio degli ambienti politici e giornalistici ostili al comunismo. Solo un mese dopo, l’11 ottobre, fu possibile riprendere la pubblicazione e con mezzi tecnici non adeguati ad un quotidiano, tanto che la tiratura non superava le 12 mila copie.

“Il Lavoratore”, storico giornale di mille battaglie dei socialisti triestini, era passato al nostro partito al quale, dopo la scissione di Livorno, aveva aderito la maggioranza della federazione regionale. Dopo pochi giorni dalla costituzione del PCd’I la magnifica tipografia de “Il Lavoratore” era distrutta da un attacco fascista. Ricordiamo che questo fu possibile solo per l’intervento della forza pubblica, non ancora fascista ma demo-liberale, che prima infranse la resistenza eroica dei comunisti asserragliati all’interno dell’edificio; la stessa forza pubblica, dopo averne cacciati i comunisti, lo consegnò agli incendiari fascisti. Però, grazie agli sforzi dei compagni giuliani, il giornale dal settembre 1921 fu in grado di riprendere le pubblicazioni con una tiratura di circa 16 mila copie.

Il Partito Comunista d’Italia poteva vantare di avere risolto in maniera perfetta il problema della unità di indirizzo della sua stampa, anche locale. Fin dall’inizio fu disposto che tutti i giornali, indistintamente, portassero il sottotitolo di “Organo del Partito Comunista d’Italia” e non si riferissero ad organizzazioni regionali o locali. Grazie ai già moderni collegamenti tecnici la stampa quotidiana veniva regolarmente seguita e diretta dalla Centrale del partito. Gli altri minori giornali locali traevano il loro indirizzo dalla stampa quotidiana e dalla corrispondenza tra la Centrale del partito e le redazioni locali. Questa perfetta organizzazione garantiva il massimo effetto politico nella diffusione a mezzo stampa delle direttive del partito e rappresentava la base migliore alla sua compattezza e azione disciplinata.

Mentre i testi classici della nostra scuola, le tesi politiche e gli studi sono volti allo scolpimento e all’affinamento della dottrina, gli organi di stampa rappresentano la sua esplicazione nella vita quotidiana, il pulsare della difficile attività del partito in tutti i suoi molteplici aspetti. Sono quindi importanti, indispensabili, per la formazione delle generazioni rivoluzionarie che verranno e che torneranno a scrivere nuove pagine non meno luminose di quelle per chiamare la classe alla lotta suprema e per gridare disprezzo e guerra al nemico di classe.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Individualità e anonimato nel partito

Il lavoro dei nostri compagni appare anonimo all’esterno del partito, perché è il prodotto di un’entità collettiva, che non si riduce alla somma dei singoli militanti, anche se naturalmente a scrivere questo o quel testo talvolta è una singola persona.

Le vicende personali dei singoli compagni, anche dei maggiori che la storia ha prodotto, si misurano nella loro capacità di immedesimarsi nella vivente tensione verso il comunismo e di liberarsi dalle miserie della società presente. Su questo punto siamo stati sempre intransigenti perché è connaturato alla nostra prospettiva.

La cosiddetta “vita politica” di un compagno, di qualsiasi compagno, ha un senso all’interno della vita del partito nel quale milita, e la singola mente che in quel momento sta lavorando è solo tramite ed espressione della produzione intellettuale del partito. Il lavoro dei compagni non è il frutto imprevedibile e inatteso di loro capacità personali, ma compito tendente a confermare la dottrina scientifica, anonima e comune, del partito.

Quindi la “biografia politica” di qualsiasi compagno si riduce alla storia del partito. Ma l’operazione viene sovente utilizzata a giustificazione da chi si allontana dalla milizia, mentre nel contempo rivendica la fedeltà agli “scritti” e al “pensiero” di un particolare individuo.

Questo non toglie affatto che ci siano e ci debbano essere rapporti personali di collaborazione tra compagni, anzi è necessario, e conferma l’assunto, e che si stabiliscano dei forti legami affettivi con alcuni compagni, con i quali si abbia avuto la fortuna di lavorare insieme.

Ma i comunisti “non si innamorano di nessuno”, cioè “si innamorano” di “tutti”, e di nessuno in particolare. E questo vale tanto per compagni del livello di Lenin e di Amadeo quanto per chiunque altro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


La crisi e l’imperialismo per gli economisti

Il Sole 24 ore del 15 febbraio riporta un articolo di un tale Dani Rodrik, professore di economia politica dell’università statunitense di Harward, il quale, dopo aver detto che il capitalismo ha una capacità quasi illimitata di reinventare se stesso (e su questo siamo d’accordo, soprattutto sul quasi), porge una soluzione già ascoltata da altre teste d’uovo della scienza economica borghese.

Leggiamo che, dopo il liberismo di Smith e l’economia mista (?) di Keynes, dobbiamo oggi confrontarci con la globalizzazione. Udite, udite; gli economisti borghesi hanno scoperto che il capitalismo è un fenomeno mondiale e che non c’è società, anche la più arretrata, che non ne sia avvinta.

Naturalmente l’economia di Keynes sarebbe mista perché lo Stato vi interviene nel mercato; come se questo non fosse già avvenuto nel secolo precedente in Prussia, Giappone, e altrove, anche se in contesti molto diversi.

Per il signor Rodrik è necessario «immaginare un equilibrio maggiore tra i mercati e le istituzioni che li supportano a livello globale. In certi casi servirà estendere queste istituzioni oltre gli Stati-nazione e rafforzare la gestione internazionale dell’economia. In altri casi vorrà dire impedire ai mercati di estendersi oltre il raggio d’azione di istituzioni che devono rimanere nazionali». È la vecchia illusione borghese di un controllo e di una gestione mondiale del capitalismo, che eviti le crisi economiche e i contrasti tra i vari imperialismi, e quindi la guerra.

Questa è una sciocchezza per almeno tre motivi :
1) Perché viene attribuita alla borghesia una coscienza di sé come classe, che non ha e non può avere.
2) Perché la crisi economica è necessaria in quanto insita nel modo di produzione capitalistico, e non dovuta a ruberie, ad assenza di regole (superstizione da azzecca-garbugli), a congiure giudaico-massoniche od altro.
3) Perché il capitalismo non può fare a meno dello Stato: il cane da guardia serve davanti alla propria proprietà, e non ad abbaiare all’ONU o in altri inutili e impotenti “vertici”.

I contrasti tra Stati e blocchi imperialistici sono inevitabili come è la loro conseguenza, la guerra. Ignorano questa permanente lacerazione borghese coloro che parlano di un super-imperialismo davanti al quale, o non sarebbe possibile fare nulla, o ci si dovrebbe dotare di una organizzazione politica anche immediatamente militare, e magari allearsi con formazioni borghesi “anti-imperialiste”, come i “sagrestani” sauditi di Bin Laden o altri. In questa ottica la lotta sindacale non ha alcun senso se non è immediatamente politica e militare. Dietro questa concezione “anti-imperialista” scorgiamo nascosti, ma non troppo, l’interclassismo e “la lotta delle nazioni proletarie contro le plutocrazie capitalistiche”, di mussoliniana memoria.

Il sorgere di ampie lotte di classe e di organizzazioni sindacali classiste è una condizione imprescindibile per portare tra i proletari la parola del partito sulla prospettiva della rivoluzione comunista, unica alternativa alla guerra e al massacro di milioni di proletari che essa comporta, massacro che continua nella pace borghese.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 3


Il Tempo fra Dio e Denaro

 Le banche falliscono, le borse crollano, il mondo finanziario, e con esso l’equilibrio capitalistico internazionale sembrano scossi da paurosi terremoti, per ora solo economici ma domani certamente sociali.

I rappresentanti dell’ordine borghese, ognuno nell’ambito della propria specifica funzione, si dispongono a difesa della conservazione. Ciò, in parole semplici, significa fare in modo che il proletariato non individui la propria strada, autonoma, rivoluzionaria, di classe, ma leghi il suo destino a quello della società capitalista.

Quale migliore occasione di questa per la Chiesa, per tutte le Chiese di ribadire e rafforzare la propria funzione di oppio dei popoli?

L’argomentazione emanante dal Vaticano si basa su di un sillogismo elementare. Il regime attuale non è in grado di garantire alcuna sicurezza ad alcuno, in quanto non solo le masse proletarie diseredate ma anche vasti strati sociali abbienti da un giorno all’altro rischiano di trovarsi, e si trovano, espropriati dei loro privilegi e dei loro averi. Cosa dice il Papa ? «Costruisce sulla sabbia chi costruisce sulle cose visibili e toccabili, come il successo, la carriera, i soldi (...) Apparentemente queste sono le vere realtà, ma questa realtà prima o poi passa: vediamo adesso nel crollo delle grandi banche, che scompaiono questi soldi, che non sono niente».

Che i soldi non siano “niente”, ormai, troppo tardi, se ne sono ben accorti, e in verità senza alcuna tempestiva ammonizione della loro Chiesa, tutti i piccoli borghesi che avevano investito “i risparmi” in titoli “sicurissimi” tipo quelli della Leeman... Ora si cerca di consolarli dicendogli che il tempo non genera denaro, che non basta affidare del denaro a qualcuno per vederlo cresce standosene comodi in panciolle...

Ma nessuno può negare che la Chiesa cattolica, fin dall’antichità abbia sempre condotto una strenua battaglia, teorica, contro il denaro, e soprattutto contro il denaro usato allo scopo di generare e riprodurre altro denaro. Il problema è vedere chi, tra i due contendenti, Dio e Denaro, sia risultato vincitore, chi dei due abbia assoggettato l’altro alle sue leggi naturali.

Per secoli l’interesse viene considerato dalla Chiesa come il più grave dei peccati, quello che nemmeno Dio potrebbe perdonare. Si badi bene, è considerata usura ogni forma di interesse, sotto qualsiasi aspetto, e a prescindere dalla quantità: è sufficiente che il denaro generi altro denaro. I predicatori medievali minacciano l’inevitabile fuoco dell’inferno per gli usurai, e i pittori non mancano di raffigurare il mercante/usuraio o l’usuraio/mercante nelle loro “danze macabre”, così come nei capitelli romanici il famelico peccatore, al pari di Giuda, stringe tra le mani la borsa del denaro.

I concili di Elvira, anno 300, e Nicea, 325, proibiscono l’usura ai chierici. Da Cliché, del 626, in poi la proibizione è estesa anche ai laici. Carlo Magno, che legiferava sia in ambito temporale sia spirituale, nel 789, con la Admonitio Generalis, ribadisce il divieto assoluto, per tutti i cristiani, del prestito ad interesse.

Urbano III nel decretale Consuluit, del 1187, stabilisce: 1. è considerata usura tutto quanto viene richiesto in più del prestito stesso; 2. riscuotere una usura è peccato condannato sia dal Vecchio, come dal Nuovo Testamento; 3. la sola speranza di un bene in contraccambio che vada oltre il bene stesso è peccato; 4. le usure debbono essere integralmente restituite ai loro legittimi possessori. Agli usurai, che sono automaticamente (latae sententiae) colpiti da scomunica, viene negata la sepoltura in terra consacrata.

Nel secolo successivo Tommaso d’Aquino afferma: «Prendere una usura per del denaro prestato è in sé ingiusto, poiché si vende ciò che non esiste, attuando manifestamente una disuguaglianza contraria alla giustizia».

Perché l’usura, l’interesse, veniva considerato il peggiore dei peccati? Per i teologi cristiani i prestatores, i cahorsini, i renovatores (questi erano i loro nomi a seconda che operassero in Italia, in Francia, in Provenza) commettevano due peccati simultaneamente: erano ladri e peccavano contro natura. Peccavano contro natura perché pretendevano che il denaro generasse altro denaro e ciò è impossibile: Nummus non parit nummos (Tommaso). In un documento del XIII secolo conservato nella biblioteca nazionale di Parigi si afferma: «Gli usurai peccano contro natura volendo far generare denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo o una vacca da una vacca».

Inoltre l’usuraio veniva considerato ladro: doppiamente ladro; primo perché si appropriava di denaro che non gli apparteneva, ma, soprattutto, perché oltre al denaro rubava qualcos’altro; qualcosa di più importante del denaro stesso, qualche cosa che andava al di là della materia e che quindi non poteva essere di proprietà umana, ma proprietà divina. L’usuraio rubava il tempo, ed il tempo appartiene solo a Dio. Cosa vendevano i prestatores se non il tempo che intercorre tra il momento in cui prestano e quello in cui avviene il rimborso? Tommaso di Chobham affermava: «L’usuraio quindi non vende al suo debitore nulla che gli appartenga, ma solamente il tempo, che appartiene a Dio (sed tantum tempus quod Dei est). E dal momento che vende una cosa che non è sua non deve trarne alcun profitto».

La scomunica contro il denaro dato ad interesse era stata quindi lanciata fin da quando, all’interno della società ancora feudale, dai rapporti e dagli scambi di pura sussistenza, basati quasi esclusivamente sul baratto, si era passati al commercio ed il mercato si sviluppava e progressivamente assumeva proporzioni sempre maggiori.

«Il mercante rappresentò l’elemento rivoluzionario in questa società nella quale altrimenti tutto era stabile, stabile per così dire per eredità. Il contadino vi acquistava per eredità non solamente il suo podere, ed in modo quasi inalienabile, ma anche la sua posizione di proprietario libero, di colono libero o dipendente o di servo della gleba; l’artigiano della città acquistava il suo mestiere ed i suoi privilegi corporativi, e per di più ciascuno la sua clientela, il suo mercato (...) In questo mondo fece la sua apparizione il commerciante, che doveva essere la causa della rivoluzione» (Marx, Il Capitale). Fu a causa di questa rivoluzione che il denaro, da portatore di un dato valore, divenne valore che aumentava, che valorizzava se stesso, che produceva profitto. E questo agli occhi della Chiesa non poteva che apparire stregoneria, opera del diavolo.

Ancora solo due Benedetti fa, il 1° novembre 1745, veniva promulgata l’enciclica Vix pervenit che, a proposito di denaro, mutui ed interessi, sentenziava in maniera netta, tale da non dare adito a fraintesi di sorta: «Quel genere di peccato che si chiama usura, e che nell’accordo di prestito ha una sua propria collocazione e un suo proprio posto, consiste in questo: ognuno esige che del prestito (che per sua propria natura chiede soltanto che sia restituito quanto fu prestato) gli sia reso più di ciò che fu ricevuto; e quindi pretende che, oltre al capitale, gli sia dovuto un certo guadagno, in ragione del prestito stesso. Perciò ogni siffatto guadagno che superi il capitale è illecito ed ha carattere usuraio. Per togliere tale macchia non si potrà ricevere alcun aiuto dal fatto che tale guadagno non è eccessivo ma moderato, non grande ma esiguo; o dal fatto che colui dal quale, solo a causa del prestito, si reclama tale guadagno, non è povero, ma ricco; né ha intenzione di lasciare inoperosa la somma che gli è stata data in prestito, ma di impiegarla molto vantaggiosamente per aumentare le sue fortune, o acquistando nuove proprietà, o trattando affari lucrosi. Infatti agisce contro la legge del prestito (la quale necessariamente vuole che ci sia eguaglianza fra il prestato e il restituito) colui che, in forza del mutuo, non si vergogna di pretendere più di quanto è stato prestato».

L’enciclica di Benedetto XIV – in un secolo che vedeva la nera nobiltà romana strozzata dai debiti contratti col ghetto – rappresenta l’ultima presa di posizione ufficiale della Chiesa rispetto ad una millenaria battaglia contro il denaro dato ad interesse.

Ma se la Vix pervenit ribadisce i concetti dottrinali della tradizione, al tempo stesso preannuncia la moderna definitiva sconfitta di Dio e la vittoria di Mammona, tant’è che, qualche passaggio dopo, deve dichiarare la propria resa: «Detto questo, non si nega che talvolta nel contratto di prestito possano intervenire alcuni altri cosiddetti titoli, non del tutto connaturati ed intrinseci, in generale, alla stessa natura del prestito; e che da questi derivi una ragione del tutto giusta e legittima di esigere qualcosa in più del capitale dovuto per il prestito. E neppure si nega che spesso qualcuno può collocare e impiegare accortamente il suo danaro mediante altri contratti di natura totalmente diversa dal prestito, sia per procacciarsi rendite annue, sia anche per esercitare un lecito commercio, e proprio da questo trarre onesti proventi».

Quindi quei concetti che, a prima vista sembravano tanto netti e decisi, attraverso un tipico ragionamento pretesco, servivano solo a mascherare la ritirata e la sconfitta: definitiva, storica, e, di conseguenza, la vittoria, definitiva e storica, di Mammona. Il Carducci, interprete dei sentimenti borghesi, finalmente cantava: Salute, o Satana, O ribellione, O forza vindice De la ragione! Sacri a te salgano Gl’incensi e i voti! Hai vinto il Geova Dei sacerdoti.

Avevano un bel dire i teologi che il denaro non può riprodursi: il dato di fatto materiale, tangibile, era che il denaro effettivamente si riproduceva e che non c’erano scomuniche che potessero impedirglielo. Alla società mercantile poco importava se il miracolo era frutto della bontà divina o della malvagità satanica. Scriverà Marx: «È assurdo parlare di Giustizia. La giustizia delle operazioni che avvengono fra agenti della produzione dipende solo dal fatto che queste operazioni derivano come conseguenza naturale delle condizioni della produzione. Le forme giuridiche, in cui queste operazioni economiche appaiono come atti di volontà di quelli che vi partecipano, come manifestazioni della volontà comune, e come contratti di cui il potere giudiziario può esigere l’esecuzione rispetto alle singole parti, non possono, in quanto semplici forme, determinare questo contenuto stesso. Esse non fanno che esprimerlo. Questo contenuto è giusto quando corrisponde al modo di produzione, gli è adeguato. È ingiusto quando si trova in contraddizione con esso. La schiavitù sulla base del modo di produzione capitalistico è ingiusta».

Quando dunque il prestatore divenne una figura indispensabile allo sviluppo della produzione, anche la Chiesa dovette affrontare il problema, ed adeguarsi “risolvendolo” nella dottrina. All’usuraio, che prima veniva condannato senza possibilità di appello al fuoco eterno e che doveva essere sepolto in terra sconsacrata, venne aperto un pertugio, solo apparentemente stretto e scomodo, ma che non precludeva la Salvezza nella vita eterna.

Si trattava, per il momento, di dare solo una possibilità individuale, in attesa di formulare più compiutamente una dottrina che lasciasse spazio alla liceità dell’interesse, cosa che non tardò ad essere perfezionata. Ai giunse quindi a formulare cinque condizioni in cui la richiesta di interesse non fosse considerata peccaminosa. 1. Il dannum emergens, individuato nella comparsa di un danno dovuto al ritardo di un rimborso. 2. Il lucrum cessans, impedimento di un profitto per il prestatore, che avrebbe potuto impiegare in prima persona la somma per un investimento. 3. Lo stipendium laboris: il banchiere doveva tenere una contabilità, fare operazioni di cambio, recarsi alle fiere, ecc., tutte attività che meritavano una adeguata ricompensa. 4. Il periculum sortis: il prestatore metteva a rischio il suo capitale che poteva non venir rimborsato o per insolvibilità del debitore o perché da esso truffato. 5. La ratio incertitudinis, concetto questo simile al precedente che riconosce la legittimità del calcolo del certo e dell’incerto. Insomma viene accettata in pieno la giustificazione borghese dell’interesse e del profitto, rintracciata nel “rischio” dell’investimento.

L’usura moderata, quella cioè che rispetta i limiti stabiliti per legge, diviene quindi legittima; a questa condizione anche Dio chiude un occhio. E poiché ne ha uno solo...

Visto che ciò che non è proibito è lecito, la Chiesa, già grande feudatario, attraverso tutte le sue strutture, a partire dalle sue più sperdute parrocchie fino al cuore del Vaticano, passa all’impegno a tempo pieno nella finanza capitalistica. Il denaro, un tempo definito “sterco di Satana”, è diventato linfa vitale dell’apparato divino in terra: banche, assicurazioni, speculazioni edilizie sono solo alcuni degli aspetti più noti ed appariscenti. Poi ci sono i canali sotterranei, quelli che episodicamente vengono alla luce in occasione di particolari scandali in cui il Vaticano fugacemente appare, ma, grazie ai Patti Lateranensi, subito scompare. Le finanze del Vaticano e della Chiesa sono infatti franche da qualsiasi indagine, o come la chiamano loro, “ingerenza”.

In una intervista rilasciata il 9 dicembre, il deputato Maurizio Turco afferma: «Chi ha la possibilità di aprire un conto presso la banca dello IOR (...) ha diritto ad un interesse sul 12% che è molto più alto addirittura di quelle che sono le intermediazioni partitocratriche sugli appalti. Si parla di un 4-5% di tangente sugli appalti; lo IOR ti dà il 12% se hai la possibilità di aprire un conto su quella banca, e la possibilità di aprire un conto su quella banca è nella esclusiva possibilità delle gerarchie vaticane. Se sei amico, non conoscente, amico, quindi socio, di qualche gerarca vaticano puoi aprire il conto IOR e disporre tranquillamente del 12% su un conto corrente, senza contare che se sei un po’ più intraprendente puoi scorrazzare nella maniera più riservata possibile su tutti i mercati finanziari internazionali. Se il paradiso fiscale in terra c’è è quello. Il Paradiso in terra è la banca del Vaticano».

Ma in Vaticano lo sanno che “costruisce sulla sabbia chi costruisce sulle cose visibili e toccabili, come sono i soldi” ? Che questi soldi “non sono niente e che possono scomparire all’improvviso” ? Che “solo la parola di Dio è fondamento della realtà” ? Sembra di no.

Pochi giorni prima della esternazione papale, da parte del clero italiano era stato lanciato un grido di allarme per il pericolo di vedere ridotto il flusso di denaro che lo Stato annualmente versa ai vescovi sulla base degli accordi bilaterali riguardo alla spartizione dell’otto per mille.

Se si assiste ad un aumento dei contribuenti che firmano a favore della Chiesa cattolica, ciononostante quest’anno il clero dovrebbe incassare dall’otto per mille ben 35 milioni di euro in meno. L’agenzia di stampa cattolica Adista rivela come le preferenze per la Chiesa di Roma, pur aumentate di 38.024 unità, lo siano molto di meno di quelle a favore dello Stato, circa 800 mila in più. Per questo motivo la ripartizione percentuale dell’otto per mille di coloro che non si sono espressi si modificherà sensibilmente e, per la prima volta da dieci anni, i vescovi incasseranno di meno.

Quale è stato il commento dei vescovi? «Che i soldi non sono niente?». Totò avrebbe detto: «Ma mi faccia il piacere!». E così hanno detto pure loro.

Secondo Adista, la Cei era già corsa ai ripari, con una lettera indirizzata ai cattolici italiani. Nel documento, intitolato “Sostenere la Chiesa per servire tutti” i vescovi avrebbero sollecitato sacerdoti, religiosi e catechisti a chiedere, senza nessun timore, più soldi ai fedeli «garantendo comunque la massima trasparenza nel far conoscere la situazione economica e i conti delle nostre parrocchie e di tutte le realtà ecclesiali».

Prosegue il messaggio pontificio: «(...) Di per sé tutte queste cose che sembrano la vera realtà sono solo realtà di secondo ordine (...) Solo la parola di Dio è fondamento della realtà (...) Realista è chi riconosce la realtà nella parola di Dio». Il che, nel loro linguaggio e intendimento, significa rassegnazione, attesa fiduciosa e passiva in Dio e nella Sua Giustizia, nell’avvento del Suo Regno: adveniat regum tuum!

Ma, visto che il Suo Regno non è di questo mondo, il sillogismo si conclude con l’invito alla sopportazione e paziente attesa della giustizia nell’Aldilà. Tanto il tempo non appartiene agli uomini... Se il proletariato abbocca, i preti si saranno ben guadagnati i soldoni che il borghese Stato laico e democratico, a regolari scadenze di tempo, concede loro a piene mani.

Sindacati confederali e “di base” di fronte alla crisi

Monta la tensione in campo sindacale. Tutti fanno i conti con la crisi e con le sue conseguenze economiche e sociali mentre si restringono le possibilità di compromesso. I sindacati di regime, per continuare ad ingannare e trattenere i lavoratori, sono costretti ad usare qualche parola e atteggiamento demagogico. Ma anche i sindacati anti-concertativi sono sospinti a riconsiderare se stessi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 4


Sindacati confederali e "di base" di fronte alla crisi
 

Finte svolte in Cgil

Nei giorni scorsi una nuova Triplice sindacale CISL-UIL-UGL ha firmato con la Confindustria il testo definitivo sul “nuovo modello contrattuale”. Invece la CGIL non lo ha firmato, facendosi forte di un referendum tra i lavoratori che avrebbe raccolto quasi tre milioni e mezzo di voti e un bel novanta per cento di NO all’accordo.

Non è il primo “strappo” della CGIL nei confronti del Padronato, del Governo e di CISL e UIL, dopo un lungo periodo di collaborazione e di piena intesa tra le tre Confederazioni. La FIOM non ha firmato il contratto Metalmeccanici e la CGIL Funzione Pubblica non ha firmato quello del Pubblico Impiego, e neppure quello del Commercio è stato siglato; questi tutti sottoscritti da CISL e UIL.

Difficile accusare queste ultime di essersi “spostate” verso i padroni: fedeli alla loro natura di sindacati bianchi e gialli, borghesi e di regime, hanno continuato a fare il loro lavoro di sempre. È la CGIL invece che stavolta atteggia mosse “intransigenti”.

Perché è cambiato il governo, dicono in molti, col Governo Prodi firmavano di tutto, si ricorda. È vero ma, secondo noi, governo e sindacati di regime sono un tutt’uno e quando la borghesia decide di “cambiare la scena”, questi e quello insieme si tramutano i panni. Per la CGIL si tratta solo di un nuovo atteggiamento, non di una nuova politica. La crisi morde e durerà ancora a lungo, i disoccupati aumentano e il malessere sociale si teme possa dare origine a contestazioni e forse a rivolte. Il ruolo della CGIL come sindacato operaio di regime è quello di cercare di impedire con ogni mezzo la rinascita, da una parte, della pericolosa “spontaneità” operaia e, dall’altra, di una vera e solida organizzazione sindacale di classe, ancor più pericolosa per la borghesia. Per questo il sindacato di Epifani non può non fingere di voler difendere i lavoratori, naturalmente con i metodi della concertazione e nel rispetto delle compatibilità nazionali borghesi, seppure pronunciando alcune parole che suonino meno ostili alla classe operaia.

Secondo la CGIL se l’accordo sul nuovo modello contrattuale fosse stato applicato già dal 2004, i lavoratori negli ultimi quattro anni avrebbero perso ben 1.352 euro, circa 350 l’anno. Non dice però l’Ufficio studi bonzesco quanto hanno perso i lavoratori a seguito degli accordi tra Confederali e Governo del 1992 e del 1993, inizio della famosa politica dei redditi nello spirito della concertazione! Del resto solo alcuni mesi fa la CGIL aveva presentato alla Confindustria una proposta di modifica del Contratto Nazionale molto simile a quella che adesso respinge con sdegno.

D’altra parte che la svolta ciggiellina sia una questione di facciata e non un cambiamento di politica sindacale è dimostrato dal fatto che i suoi “no” non si concretizzano nell’organizzare un esteso movimento di lotta per respingere gli attacchi del padronato e dello Stato alle condizioni della classe lavoratrice. Come è successo per tutti i lunghi decenni di questo secondo dopoguerra – fin dalla costituzione della CGIL non sulla base di una politica di classe ma sul modello nazional-corporativo – anche se, se, essa mobiliterà i lavoratori contro questo accordo, cercherà di mantenere la mobilitazione all’interno del sacro principio della difesa dell’economia nazionale. Restano solo parole anche le minacce di Gianni Rinaldini che afferma che la FIOM non applicherà l’accordo.

La funzione di questi sindacati di regime è ben riassunta nelle parole di un bonzo francese costretto a confrontarsi con l’esasperazione degli operai del settore siderurgico, colpiti da centinaia di licenziamenti, che hanno risposto sequestrando i dirigenti: «Il nostro scopo è evitare il peggio, comprendere, incanalare, accompagnare, calmare, impegnarsi nella ricerca di soluzioni». Insomma fare i pompieri.

Anche i sindacati “di base” sono diffidenti riguardo all’atteggiamento della CGIL. Il documento congressuale dello SLAI Cobas ad esempio così si esprime: «La CGIL con le mobilitazioni di questi giorni cerca di legittimarsi con il governo come l’unico sindacato che è in grado di subordinare i lavoratori alle esigenze poste dalla crisi in difesa dell’economia nazionale e che pertanto non può essere esclusa e ridimensionata nelle trattative». Si vedono qui più le “contraddizioni in seno al nemico” che quelle, assai prevalenti, fra le classi. La CGIL si offre sì per “subordinare i lavoratori all’economia nazionale”, ma la sua necessità è di “legittimarsi” con la classe operaia, e non “col governo”. Fra CGIL e governi borghesi, anche “di destra”, c’è antica e consolidata divisione del lavoro e non reale conflitto. Per “non essere esclusa dalle trattative” basterebbe alla CGIL mobilitare realmente la classe, cosa che non farà mai, nemmeno di fronte ad un governo “ostile”. Le sparate di Epifani e i scioperi rituali non sono per minacciare il Berlusca, ma per ingannare i lavoratori.

Però, nel quadro della polemica sorta nel sindacalismo “di base” sull’adesione o meno allo sciopero ciggiellino del dicembre scorso, lo stesso documento riconosce che «la valutazione del ruolo irrimediabilmente integrato della CGIL nel capitalismo e nella sua gestione concertativa e consociativa, non fa venir meno la necessità di seguire con attenzione le dinamiche delle mobilitazioni dei lavoratori e dell’insieme del conflitto sociale compreso quelle, ad oggi ancora prevalenti, interne a questo quadro, perché è nella lotta che possiamo dimostrare quanto la CGIL, come gli altri sindacati confederali, siano integrati nello Stato e come le loro proposte e mobilitazioni servano a controllare e sviare la forza dei lavoratori, frustrandone le aspettative».
 

Tensione nei sindacati “alternativi”

Forti tensioni anche nel campo dei sindacati cosiddetti “alternativi”.

Nello scorso numero di questo giornale abbiamo commentato gli esiti della riunione nazionale tenutasi a Roma il 7 febbraio scorso tra CUB, Confederazione Cobas e SdL Intercategoriale allo scopo di confermare quel “patto” di collaborazione tra organizzazioni sindacali “di base” già stabilito nella precedente assemblea di Milano di maggio.

Dopo quell’incontro fra sindacati, si è tenuto a Sirmione il 13 e 14 marzo il Congresso nazionale delle organizzazioni del settore privato della CUB; nei giorni dal 17 al 19 aprile si è celebrato a Milano il VI Congresso nazionale dello Slai Cobas, e infine, almeno per questa primavera, nei giorni dal 22 al 24 maggio, a Rimini si terrà il congresso “costituente” della “nuova” CUB, preceduto da una serie di congressi a livello regionale.

Nel nostro articolo mettevamo in evidenza come molte delle difficoltà nel processo che porta alla formazione di una unica organizzazione sindacale di classe, seppure richiesta dalla base degli iscritti, provenissero dall’atteggiamento degli attuali dirigenti che hanno sempre messo paletti e sbarramenti per difendere ognuno il proprio orticello, nel timore che unendoli, un’altra consorteria potrebbe prevalere. Naturalmente questo vero sabotaggio delle lotte e dell’organizzazione operaia non si dichiara ma si copre di panni nobili di tipo dottrinario, come si dice “politici”, e all’unità vengono opposti vari pretesti di tipo ideologico-partitico. Il più noto è quello della Confederazione Cobas, che si definisce “soggetto (?) politico, sociale e culturale” e rifiuta di aderire ad una organizzazione di natura difensiva-sindacale. Ma anche tra chi proclama di voler procedere verso la ricostituzione del sindacato non mancano le contraddizioni.

Proprio il giorno prima dell’assemblea romana che doveva formalizzare il “Patto di base”, il 6 di febbraio, il Consiglio Nazionale della Federazione RdB/CUB, con l’appoggio di tre dei sei coordinatori nazionali della CUB, esprimeva «la necessità improcrastinabile di giungere alla Assemblea Congressuale Costituente della CUB entro e non oltre il mese di maggio 2009 (...) al fine di rilanciare la CUB e di adeguarla ai nuovi compiti che la fase politico sindacale richiede», per «costruire un forte sindacato nazionale, indipendente, conflittuale e di classe, capace di fornire risposte adeguate al tentativo in atto di estinguere la funzione sindacale». Questa decisione non era condivisa dagli altri tre membri del Coordinamento e il documento del Consiglio Nazionale RdB/CUB dava inizio in pratica alla scissione dell’organizzazione.

Dopo alcuni mesi arrivavano allo scoperto le crescenti tensioni all’interno del Coordinamento Nazionale CUB, prima con le due manifestazioni separate, una a Roma e l’altra a Milano, durante lo sciopero generale indetto dal sindacalismo di base per il 17 ottobre 2008, poi con la diversità di valutazioni riguardo allo sciopero indetto dalla CGIL per il 12 dicembre: in quell’occasione una parte del Coordinamento decise di non scioperare quello stesso giorno, un’altra parte optò invece per farlo. Si arrivò così ad «una contrapposizione pubblica con tanto di comunicati stampa e pesanti accuse reciproche dei dirigenti dell’una e dell’altra parte», come ricorda l’Appello di attivisti sindacali CUB e RdB intitolato “No a qualsiasi ipotesi di rottura della nostra confederazione”.

Segnali che non danno molto a sperare sull’evoluzione del “patto di base”. L’Appello citato prospetta un percorso per cercare di evitare la rottura: «A nostro avviso l’unica strada che ci resta da percorrere per invertire radicalmente questa direzione di marcia è la convocazione immediata di un congresso nazionale di tutta la confederazione che, sulla base di una reale discussione democratica, permetta la presentazione di documenti programmatici e mozioni contrapposti; discuta e vari una linea programmatica; decida delle modalità organizzative; voti i quadri dirigenti della CUB. A fronte della profondità della crisi in atto, un’assemblea di routine non è sufficiente: serve il coinvolgimento di tutti gli iscritti in un reale e democratico percorso congressuale che possa avere potere decisionale».

Pare che nessuna delle due parti in causa sia intenzionata ad accogliere questo appello. L’indizione della “assemblea congressuale costituente” di maggio e la contemporanea apertura di un altro sito internet della CUB si configurano infatti come la presa d’atto che la “rottura” si è già consumata.
 

La “costituenda“ Cub

Chi ha voluto questa assemblea ritiene che la vecchia CUB non funziona e che essa deve essere rifondata su nuove basi.

Chi intende invece continuare sulla vecchia strada rifiuta ogni “forzatura autoritaria” ed è convinto che la stessa struttura centralizzata sia in se stessa da rifiutare e da respingere, perché porta alla “burocratizzazione” della struttura e, ineluttabilmente, alla sua involuzione politica e passaggio al nemico. Questo sarebbe storicamente successo anche a CGIL, CISL e UIL, che sarebbero divenute borghesi in quanto “centraliste”.

Certo non facile per i lavoratori districarsi fra questi “principi” astratti, quando, in realtà, le questioni formali e organizzative nascondono e sottostanno sempre ad un problema “politico”, cioè che riguarda le forze, i mezzi e i fini.

Le posizioni contrapposte sono ben riassunte da due documenti. Il primo, “Per una CUB realmente confederale”, datato 25 febbraio, è quello che indíce l’Assemblea nazionale costituente della CUB per i giorni 22-24 maggio a Rimini; l’altro è la traccia dell’intervento di Tiboni al Congresso delle organizzazioni CUB del settore privato che si è tenuto a Sirmione il 13 e il 14 marzo.

In questo secondo documento, che difende le posizioni della attuale CUB, ci si dichiara d’accordo per una “assemblea nazionale”, ma si denunciano le modalità con cui è stata indetta la “fantomatica” assemblea congressuale costituente, i criteri unilaterali con cui è stato deciso di eleggere i delegati, ma soprattutto si respinge il progetto di nuova organizzazione che si intende far uscire dall’assemblea. Vi si legge: «Si propone la trasformazione della Cub da Confederazione di 16 organizzazioni in una Confederazione strutturata in federazioni di categoria e inevitabilmente centralista. Il documento [di Rimini] sostiene tra l’altro che “il modello fondato essenzialmente sulla contrattazione aziendale non ha più senso” e che non “bastano le rappresentazioni consistenti negli scioperi generali indetti una o due volte l’anno”. A noi pare che, prendendo a pretesto la crisi, si vuole proporre per la Cub come nuovo, un modello storicamente fallito, vecchio più vecchio del vecchio, che è una delle cause che hanno determinato la trasformazione di CGIL, CISL e UIL in organismi burocratizzati privi di democrazia interna, subordinati alle politiche statali e alle imprese. Su due questioni vogliamo essere chiari il modello su cui è fondata la Cub non è disponibile né oggi né domani e la centralità per l’azione di un sindacato di classe è il suo radicamento e la lotta a livello aziendale».

Ecco quindi che, al di là delle polemiche sul metodo adottato dagli scissionisti, vengono fuori le questioni di sostanza. Quali caratteristiche deve avere questa “Confederazione Unitaria di Base”, si deve passare “dalle CUB alla CUB”, cioè da un’insieme di organizzazioni federate ad una unica organizzazione centralizzata, basata sulle organizzazioni di categoria, come afferma il documento di Rimini, oppure si può e si deve difendere l’attuale modello organizzativo di tipo federativo, basato essenzialmente sull’organizzazione nei luoghi di lavoro, come ribadisce il documento di Sirmione?

Il documento di Rimini dal procedere della crisi negli ultimi anni trae alcune conclusioni riguardo alle caratteristiche che deve darsi l’organizzazione sindacale: «La mutata composizione di classe, l’effetto disgregatore delle delocalizzazioni e della deindustrializzazione, l’arrivo di centinaia di migliaia di immigrati, (...) l’uso massiccio della precarietà, i licenziamenti in arrivo a migliaia, disegnano un nuovo atlante sociale e del lavoro che si dispiega non più solo nei classici luoghi di lavoro, ma anche massicciamente sul territorio e nelle metropoli (...) L’esigenza di reddito, di abitazioni accessibili ai ceti popolari, la necessità di favorire integrazione e convivenza, la sempre più marcata difficoltà per i redditi operai di arrivare a fine mese, la pressoché assoluta mancanza di servizi, rendono evidente la necessità di immaginare un sindacato capace anche di strutturare il suo intervento nei territori, in particolare in quelli metropolitani, per fornire organizzazione laddove è richiesta da quei soggetti che non hanno o non hanno più il luogo di lavoro come ambito principale del confronto e dell’aggregazione».

I dubbi riguardo all’organizzazione a livello di fabbrica difesa dal documento di Sirmione, ma che è centrale anche, ad esempio, nel documento congressuale SLAI Cobas, sono convincenti: «È sufficiente praticare la pur indispensabile vertenzialità aziendale o di categoria, è sufficiente auspicare che le lavoratrici e i lavoratori più combattivi si autoorganizzino nei luoghi di lavoro o nei territori senza fornirgli quella continua assistenza generale, gli strumenti del confronto politico e quel supporto per lo sviluppo la cui mancanza renderà difficile resistere alla repressione e stabilizzare le strutture?». La risposta è che «sta divenendo evidente che i modelli fin qui adoperati, le modalità di azione e di sviluppo che il sindacalismo di base ha assunto fino ad oggi non sono più adeguate».

Le conclusioni sul piano organizzativo a cui arriva il documento di Rimini sono chiare: «La CUB è stata pensata come una Confederazione di organizzazioni, in cui ogni organizzazione mantenesse la propria autonomia decisionale ed organizzativa e la Confederazione avesse una funzione di raccordo tra le organizzazioni e di rappresentanza politica generale. L’assemblea nazionale avvia un percorso di riassetto organizzativo con l’obbiettivo finale di realizzare la Confederazione Unitaria di Base (C.U.B.) quale unica organizzazione confederale articolata per federazioni nazionali verticali». Questo percorso “evolutivo” «dalle CUB alla CUB» intenderebbe dunque formare, nella prospettiva dell’acuirsi dello scontro di classe, un’organizzazione centralizzata e ben strutturata, disciplinata.

Per quanto ci riguarda, ovviamente, dobbiamo convenire che la funzione propria del sindacato è appunto quella di superare la dispersione dei lavoratori e delle loro lotte: al modello-limite borghese della trattativa individuale padrone-operaio, la tradizionale organizzazione di classe ha sempre teso ad opporre quello della “borsa del Lavoro”, da una parte il monopolio del Capitale, dall’altra quella dell’offerta di lavoro.

Di fatto ogni organismo tende a darsi la struttura che gli è più confacente. È vero che, in particolare per un sindacato, gli interventi dal centro servono a poco se non c’è una forza, una maturità e una rispondenza alla periferia e che non si può “centralizzare” quello che non c’è. Non ci si deve nascondere la debolezza intrinseca a molte delle organizzazioni della CUB, gli scarsi legami con i lavoratori in molte categorie, soprattutto dell’industria, la sua presenza saltuaria e discontinua in molte regioni, tutti motivi che contribuiscono a spiegare la sua scarsa incisività.

Ma dirsi per il “centralismo” o per la “autonomia” semplifica troppo il problema. Intanto si può “centralizzare” qualcosa che esiste, e che tende e vuole centralizzarsi, cioè che in potenza è già centralizzato. Quindi la reale “centralizzazione” del sindacato di classe, di questi tempi, più che un voto e delibera congressuale, che certo non nuoce, sarà il risultato di un lavoro non facile e non breve, che coinvolgerà una interazione e un flusso di militanti fra le strutture di tutti i livelli, da quello elementare, “di base”, aziendale, a quelli categoriali, a quelli territoriali, ai nazionali. Sarà la dinamica reale della lotta di classe a stabilire se prevarrà l’orizzonte categoriale o quello territoriale-nazionale al di sopra di esse, benché sia anche giusto cercare di fare delle previsioni in merito.

Inoltre, anche quando si chiede di “accentrarsi”, non si dice “su cosa” ci si vorrebbe “accentrare”. Non esiste la disciplina sul niente, né è possibile se non intorno ad un progetto seppure minimo ma condiviso di sindacalismo di classe. Una piattaforma rivendicativa allettante non basta.

Il sindacato che sempre più urgentemente occorre alla classe operaia non potrà costituirsi su base ideologica, non “di partito” né di “anti-partito”, non anarchico né marxista, non fascista o anti-fascista, non democratico o comunista. Deve però essere espressione della sola classe operaia ed opposto alla classe padronale borghese e a tutte le sue istituzioni.

La generale organizzazione difensiva operaia deve caratterizzarsi per i contorni ben definiti, accogliere esclusivamente lavoratori, sia quelli alla produzione sia i disoccupati, i precari, i pensionati; deve essere aperto a tutti i lavoratori indipendentemente dalle loro idee politiche, nazionalità, convinzioni religiose. Ma non alle altre classi e strati sociali, poiché questo non porta ad un rafforzamento ma ad un indebolimento dell’organizzazione sindacale.

Poi occorre arrivare al rigetto di molte delle cosiddette “scelte organizzative” della RdB e anche del SdL (ma che sono utilizzate da tutte le organizzazioni della CUB quando è loro concesso): la ricerca “esistenziale” del riconoscimento formale da parte del nemico, che oggi comporta l’adesione per delega al padrone; quella di utilizzare i permessi sindacali retribuiti e di servirsi di funzionari distaccati per anni che fanno i sindacalisti di mestiere; quella di firmare contratti inaccettabili nel contenuto al solo fine di poter partecipare alle trattative successive.

Il sindacato di classe, nel precipitare della crisi economica, rinascerà completamente autonomo da qualsiasi influenza e legame, anche indiretto, col padronato e con lo Stato. Di più, lo scontro sociale è destinato ad assumere aspetti tanto aspri che forse la nuova organizzazione sindacale dovrà proteggere i propri iscritti ed attivisti dalla repressione padronale e statale.

Interrompiamo qui questa nostra prima disamina in attesa dei risultati dell’assemblea di Rimini, sia dal punto di vista della partecipazione dei lavoratori, anche del settore privato, sia da quello delle modalità organizzative e dei programmi rivendicativi e di lotta che vi saranno decisi.