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"Il Partito Comunista"   n° 346 - marzo-aprile 2011 [.pdf]
PAGINA 1 Primo Maggio 2011: Lotta di classe proletaria contro la crisi e contro le minacce di guerra borghese
Libia fra crollo del “socialismo islamico” e manovre degli imperialismi: La concorrenza tra imperialismi - La “resistenza” libica - Il preteso “socialismo islamico” - La situazione economica - Le forze armate libiche
La paura del comunismo
PAGINA 2 Da Hiroshima a Fukushima: Non si o no al nucleare, si o no al capitalismo
PAGINA 3 Basi della rivolta in Egitto: L’esercito-partito-Stato
La guerra e il capitalismo
PAGINA 4 Dimostrazione a Londra dei sindacati: Sciopero generale contro il Capitale!
Lettera dall’America: Il fucile del padrone e il tradimento dei sindacati contro la lotta operaia

 
 
 
 
 

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Primo Maggio 2011
Lotta di classe proletaria contro la crisi e contro le minacce di guerra borghese

Il capitalismo è ormai un inestricabile intreccio mondiale di lacci e catene che avvinghiano e ovunque opprimono i lavoratori. La crisi coinvolge tutti i paesi. Le sue cause sono la sovrapproduzione e la caduta del saggio del profitto. Esse sono ineliminabili: sono malattie incurabili e degenerative del capitalismo. La crisi non solo non passerà ma è destinata a diventare sempre più grave.

La crisi sociale del Nord Africa e del Medio Oriente è un episodio della medesima crisi mondiale che colpisce tutti i paesi industrializzati in Europa, ma anche gli Stati Uniti, il Giappone e la stessa Cina.

I moti sociali in Egitto e in Tunisia, spacciati come movimenti di giovani della classe media, affamati di democrazia e armati di telefonini e computer, sono invece rivolte di centinaia di migliaia di lavoratori, scioperi che si contagiano di fabbrica in fabbrica, ricostruzione di organizzazioni sindacali fuori e contro i sindacati di Stato e di regime e stanno dimostrando la forza del proletariato quando si mette in movimento.

Il capitalismo non solo non porterà né il benessere né la cosiddetta “democrazia” nel Nord Africa, ma esso, diminuendo i salari, aumentando lo sfruttamento e la disoccupazione, demolendo lo Stato sociale, sta distruggendo la base della finzione ipocrita della “democrazia” anche nei paesi occidentali. Con il continuo peggiorare delle condizioni di vita del proletariato e con la definitiva rovina della classe media e contadina, la lotta di classe divamperà ancora in Africa, in Medio Oriente, in Asia. Anche lì si dimostrerà presto che la “democrazia” è la maschera della dittatura del Capitale sulla classe operaia, e che essa sussiste solo per deviare la lotta dei lavoratori: di fronte alla classe operaia apertamente in lotta la borghesia mostrerà con le armi la natura dittatoriale del proprio dominio, come ha sempre fatto in passato.

Rinasca il sindacato di classe

Di fronte ad una crisi di questo genere la risposta del movimento dei lavoratori dovrebbe essere la più larga e generale possibile, ma i sindacati di regime, in Italia e nei principali paesi industrializzati, inquadrano i lavoratori di tutte le categorie allo scopo opposto: invece di unire i lavoratori li dividono. In un capitalismo in grave crisi da ormai tre decenni nulla fanno per l’unione internazionale dei lavoratori, al contrario alzano sempre più i muri dei confini nazionali e aziendali entro i quali tenerli prigionieri.

In Italia CISL, UIL, CGIL, e così pure la FIOM, pongono quale pietra angolare della loro politica sindacale la difesa dell’azienda e dell’economia nazionale. Ma questa si sta dimostrando solo la pietra che porta i lavoratori ad annegare sotto i colpi della disoccupazione e dei salari sempre più bassi.

Il Sindacato di classe non può che rinascere fuori e contro questi sindacati di regime. Esso deve impostare la propria azione sul principio opposto a quello di questi falsi sindacati: la difesa intransigente delle condizioni di vita dei lavoratori, rifiutando ogni responsabilità verso l’economia aziendale e nazionale, cioè capitalistica, perché consapevole che se questa affonda, la classe lavoratrice non muore con essa, ma ha invece la grande possibilità storica di prendere in mano la società e liberarla dalle leggi economiche del Capitale e dal lavoro salariato.

Il sindacato di classe non potrà rinascere che dalla spinta di nuove potenti lotte dei lavoratori. La sua ricostituzione potrà forse passare attraverso il riempimento degli attuali sindacati di base o di una parte di essi.

Quel che è certo è che chiamare a scioperi separati, sia dalla CGIL (6 maggio) che fra le stesse sigle del sindacalismo di base (USB, 11 marzo - CUB 15 aprile), è una pratica che indebolisce e non rafforza il movimento dei lavoratori. Lo sciopero, prima di tutto, non è la manifestazione individuale di un’opinione politica, ma un atto di forza. I lavoratori istintivamente comprendono che sono tanto più forti quanto più sono uniti. L’unione d’azione coi lavoratori mobilitati dagli altri sindacati non contraddice affatto la lotta contro il sindacalismo di regime per il sindacalismo di classe, ma la favorisce, perché è quando i lavoratori si sentono più forti che riescono a far proprie le parole d’ordine classiste ed a sbarazzarsi dei compromessi dell’opportunismo sindacale. L’ostinazione dei sindacati di base nel condurre scioperi separati è solo ideologica e da combattere duramente perché dannosa per tutti i lavoratori e per ciò che di genuinamente classista vi è ancora nello stesso sindacalismo di base.

Compagni, lavoratori italiani e immigrati !

Di fronte alla crisi che avanza e distrugge l’effimero benessere degli anni passati, le borghesie dei paesi industrializzati fomentano il razzismo contro gli immigrati per deviare il malessere dei lavoratori. La borghesia fa leva sulla parte più sprovveduta della classe operaia coltivando in essa la meschina illusione che chiedendo al padronato di far cadere il suo bastone sulla schiena dell’immigrato i lavoratori italiani salvino la propria. Così facendo invece gli operai favoriscono la propria sconfitta perché si privano della forza, sempre più importante e combattiva, dei lavoratori immigrati.

Non sono gli immigrati la causa del peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori ma è il capitalismo e la sua ineluttabile crisi, che in tutti i paesi del mondo abbatte i salari e distrugge lo stato sociale. Non vi è nulla di “nostro” da difendere contro gli immigrati, perché è il capitalismo che non è difendibile ed è destinato al collasso, e ai lavoratori tutti, anche indigeni, garantisce solo più miseria, sfruttamento, guerra. Gli immigrati saranno compagni di lotta dei lavoratori italiani contro questo infame sistema sociale.

Nessuna solidarietà col capitale

Il capitalismo è una lotta permanente fra Stati, banche, gruppi finanziari e imprese, ciascuno in difesa degli interessi del proprio Capitale, del proprio profitto.

In questa guerra ogni azienda ed ogni Stato borghese cerca di legare i lavoratori alle proprie sorti secondo il motto "siamo tutti sulla stessa barca": gli operai FIAT, ad esempio, devono sacrificarsi per rendere più competitiva la "loro" azienda e farla vincere contro le altre case automobilistiche; i lavoratori italiani devono sacrificarsi per rendere più competitiva l’economia nazionale del "loro" paese.

Alcune imprese e paesi vincono, altri perdono. Ma, sul piano sociale, vi è sempre lo stesso sconfitto: il proletariato. Accettando di legare le proprie sorti a quelle dell’azienda o del "paese", della "patria", i lavoratori sono spinti in guerra fra di loro, oggi a colpi di salari più bassi e ritmi di lavoro più alti, domani a colpi di fucile e di cannone.

La rivoluzione vincerà solo se la classe lavoratrice non piatirà il ritorno alla mistificazione democratica ma schiaccerà la borghesia con la forza della propria dittatura rivoluzionaria.

Compagni, lavoratori !

L’ineluttabile avanzare della crisi economica renderà sempre più insopportabili le condizioni di vita del proletariato di tutti i paesi e più dura la competizione commerciale capitalistica fino a trasformarla in scontro militare fra tutti gli imperialismi mondiali. Si porrà allora all’ordine del giorno l’alternativa: o guerra o rivoluzione.

È in prospettiva del generale scontro mondiale, per accaparrarsi posizioni di forza economiche e militari, che i vari imperialismi conducono le cosiddette “guerre umanitarie”. E, come quelli passati nella ex Iugoslavia, in Iraq, in Afghanistan, l’intervento in Libia ha queste finalità. Colà, una iniziale rivolta sociale delle masse povere, sull’onda di quanto avvenuto in Tunisia ed Egitto, è stata “sequestrata” dalle borghesie francese ed inglese, e trasformata in un conflitto imperialista per una nuova spartizione imperiale delle ricchezze del paese e contro la stessa rivolta.

È in questa prospettiva che la classe lavoratrice deve tornare a militare nel partito che incarna il suo programma storico d’emancipazione, il Partito Comunista Internazionale, per seppellire con la rivoluzione il capitalismo, il suo dissennato sfruttamento e sciupio del lavoro umano, e impedire un nuovo macello mondiale quale unica soluzione borghese alla crisi.
 
 
 
 
 
 
 
 


Libia fra crollo del “socialismo islamico” e manovre degli imperialismi

Quello che sta accadendo in Libia indica quanto sia ormai critica e vicina alla rottura la situazione politica internazionale e come i rapporti tra i diversi e contrastanti gruppi imperialisti, in continuo mutamento, stiano orientandosi verso la guerra generale.

Nel giro di pochi giorni, addirittura di poche ore, alcune delle maggiori potenze hanno deciso di entrare in guerra contro la Libia con la giustificazione “umanitaria” che era necessario difendere la popolazione della Cirenaica in rivolta, minacciata dalla ritorsione del governo di Tripoli.

La popolazione della Libia ha una sfortuna: vive in un paese con grandi riserve di petrolio, gas ed altri materiali strategici. Ha inoltre un altro punto debole, il suo governo si è affidato alla borghesia italiana, uno Stato imperialista vile e di secondo rango che non può difendersi e difenderla dalle brame degli altri più potenti.

Le borghesie in Tunisia e in Egitto stanno provando a far arenare la crisi sociale, almeno momentaneamente, sui bassifondi della “democratizzazione” del regime, sul modello del “cambiare tutto per non cambiare nulla”.

In Libia, invece, della rivolta contro il peggioramento delle condizioni di vita, incoraggiata dall’esempio degli altri paesi del nord Africa, ha subito approfittato una parte della classe al potere, sicuramente dopo accordi e sollecitazioni dagli Stati imperiali, in vista di nuovi accordi di spartizione rispetto a quelli sottoscritti da Gheddafi: la Francia per prima, ansiosa di fare lo sgambetto all’Italia che godeva in Libia di rapporti sproporzionati al suo peso.

Lo Stato libico si è difeso con la forza, facendo intervenire, subito dopo le prime scaramucce tra polizia e ribelli, l’esercito, l’aviazione, gruppi di mercenari stranieri e truppe speciali. Ma Gheddafi è stato abbandonato da una parte dello stesso personale del regime, da alcuni dei massimi livelli delle forze armate, dall’apparato diplomatico e membri stessi del governo e suoi più vicini collaboratori.

Ma anche i rivoltosi fanno appello all’orgoglio della nazione (ammesso che la Libia possa chiamarsi tale). Si è creata così una situazione di doppio potere, Bengasi e la Cirenaica in mano ai ribelli, Tripoli e la Tripolitania rimaste nelle mani del regime, il che ha portato alla guerra.
 

La concorrenza tra imperialismi

Se tutta la classe mondiale dei capitalisti è alleata in modo permanente contro la classe dei salariati di tutti i paesi, al suo interno i vari capitalisti sono in continua concorrenza tra di loro: ”mors tua vita mea” potrebbe essere il loro motto.

È quanto sta succedendo in Libia, e non per la tanto declamata libertà e democrazia, da 42 anni negate al popolo libico, ma per i futuri contratti di fornitura di petrolio e gas che devono regolari fluire verso l’Europa, essendo tutto il resto di minima importanza.

Ma proprio per la loro spietata concorrenza, ciascuno sperando in una posizione predominante sugli altri, Francia, Usa, Inghilterra, Italia ed altri si sono mossi ognuno seguendo logiche di schietto egoismo capitalistico-nazionale. La condotta della guerra si sta caratterizzando proprio per il continuo scontro tra gli “alleati”, ed i ribelli ne fanno le spese.

Gli Usa sono interessati al petrolio; la Francia a questo, ma anche ai giacimenti di metalli rari e quanto necessario per l’energia atomica nel Sahara, che continua a considerare il cortile di casa propria. L’Inghilterra pure, per non vedersi tagliare fuori da questo lucroso affare, pare abbia per tempo inviato addestratori in piccolo nucleo armato allo scopo di organizzare la resistenza militare in Cirenaica. Infine l’Italietta stracciona, come da secolare tradizione, sta con i piedi in due staffe: non può appoggiare il vecchio governo libico ma d’altro canto non può compromettere i suoi importanti affari nel paese essendo il suo primo partner commerciale.

Questa situazione conferma la nostra primitiva analisi che la tanto sbandierata Europa Unita, così unita non lo è affatto: è solo un apparente calmo condominio pronto ad infiammarsi al primo serio problema. La storia secolare dei vari capitalismi nazionali è zeppa di scontri economici che sovente sono finiti in variabili alleanze e in scontri militari. Non esiste una reale concentrazione di capitali sovranazionali propriamente europei che metta in moto un’economia unica. Troppe sono le organizzazioni produttive in continuo scontro commerciale per la sopravvivenza, vedi come esempio più evidente il comparto automobilistico. Né l’evolversi della generale crisi capitalistica fa immaginare un invertirsi di questo corso.
 

La “resistenza” libica

La costa libica, l’area fertile e popolata, è a forma di semicerchio: la concavità al centro è l’ampio golfo della Sirte, che bagna lande poco popolate; all’estremo orientale, verso l’Egitto, la Cirenaica con le importanti città di Tobruq e Bengasi, la seconda della Libia, all’altro estremo, verso la Tunisia, la Tripolitania con la capitale Tripoli. In mezzo e verso sud solo il ricco deserto. Praticamente ci sono due poli geografici, su cui gravitano le attività economiche e sociali e che potrebbero costituire entità indipendenti. Ovviamente la capitale e il territorio che la circonda ospitano i centri economici e politici più importanti e strategici. L’autostrada costiera Tripoli-Bengasi dovrebbe essere costruita a spese dell’Italia, come riparazione, si dice pretesa da Gheddafi, per i crimini commessi dall’esercito di invasione prima e dal governo coloniale poi durante la breve occupazione del paese.

Alla domanda “chi comanda oggi in Cirenaica” è difficile rispondere perché è evidente che colà manca una reale direzione politica, e di conseguenza militare, per organizzare una presa del potere. Pare che effettivamente la spontanea rabbia popolare, priva di alcuna direzione, abbia colto di sorpresa la sonnacchiosa piccola borghesia locale, che in tutta fretta è stata spinta alla testa della rivolta.

Ma partiti capaci di guidare le rivoluzioni non si inventano. Questo si è tradotto nell’incapacità di organizzare la difesa delle città liberate, tantomeno di vincere. Dopo un primo periodo di euforia, che appare dilapidato nell’inerzia, le forze lealiste si sono ricompattate e sono passate al contrattacco riprendendosi alcune posizioni perdute. Ora, quando gli insorti follemente confidano solo nell’intervento straniero, questo dai cieli mantiene l’equilibrio delle forze in modo che la guerra continui. Ha messo fuori uso i sistemi radar dell’aviazione libica e bombarda alcune colonne di mezzi corazzati dell’esercito regolare. Alcune città costiere, poco più che paesoni, sono alternativamente perdute e a fatica riprese dai ribelli. Questi sembrano esprimere delle scoordinate bande militari, con problemi di ogni tipo di rifornimento e che se lasciate a se stesse prima o poi verrebbero eliminate o si disperderebbero da sole.

Non è chiaro, se esistono, che fine hanno fatto e quale potere hanno i quadri e le forze dell’esercito libico passati all’altro fonte.

Pensare alla repentina nascita di un’organizzazione proletaria capace di prendere la guida degli eventi è pura fantasia, sia per la fuga di quasi tutti gli operai immigrati, sia per il ridotto numero dei locali, che in precedenza non sono riusciti a darsi proprie organizzazioni.

In questa situazione il gioco lo condurranno le diplomazie europee sulla testa della piccola borghesia libica e del proletariato libico ed europeo.
 

Il preteso “socialismo islamico”

Nel nostro lavoro di partito titolato: “Il fondamentalismo islamico nei paesi del Magreb: una fuorviante prospettiva per il proletariato” (in Comunismo, n.41-44 del 1997) abbiamo considerato i diversi paesi della sponda sud del Mediterraneo, e le condizioni del proletariato e delle altre classi oppresse, come il piccolo contadiname. Per ciascun paese abbiamo descritto il ruolo delle rispettive borghesie nazionali e delle varie strutture religiose, gestori e garanti del controllo sociale.

Alcune di quelle contraddizioni sono oggi esplose, una dopo l’altra, perché, quando la generale crisi capitalista presenta il conto a saltare per primi sono gli anelli più deboli e critici della sua infernale ed unica mondiale catena di sfruttamento.

Venuti alla Libia demmo una lettura del “Libro Verde”, una sorta di Vangelo scritto da Gheddafi, per fungere da ideologia nazionale, addivenente ad un fumoso “socialismo islamico”.

«Tutto ciò assomiglia ad una forma ibridata tra gli antichi consigli familiari-tribali ed i moderni comitati di quartiere, cui sono riservati la gestione degli affari minuti ed al massimo l’espressione di pareri ed opinioni sulle grandi questioni, che poi sono sempre risolte nella tenda di Gheddafi. Nulla di così rivoluzionario e sconvolgente per una società fino a ieri agro-pastorale, dove erano ancora molto forti i legami delle forme comunistiche della vita tribale, ben compresi quella della proprietà indivisa del suolo e dell’acqua, che per le sue risorse petrolifere è stata trascinata nel vortice della produzione capitalistica (...) Questo “Libro Verde” rimane come un propagandistico breviario di buone intenzioni mentre l’economia reale non va sicuramente verso il preteso socialismo islamico né verso quello bolscevico di Lenin. La generale crisi capitalistica ha già varcato le frontiere libiche».
Oggi, a 14 anni da quello studio, la crisi capitalistica ha distrutto quello che apparentemente pareva il regime più solido e “fortunato” del Magreb, galleggiante su un oceano di petrolio e di dollari. I beduini, costretti a sempre parchi consumi, hanno visto attraversati i loro deserti, oasi e coste da reti di oleodotti che portano altrove petrolio e gas ad un ritmo ben maggiore di quanta ricchezza e benessere rifluisca poi verso di loro. Mentre le statistiche sul prodotto nazionale lordo pro capite li descrivono come tre o quattro volte più ricchi dei cittadini dei paesi loro confinanti, la maggior quota della ricchezza nazionale sparisce in un carsico reticolo di poche famiglie.
 

La situazione economica

La dimensione di questa crisi e un quadro sull’evolversi della situazione la cerchiamo in “The world factbook” della Cia che pubblica i dati più aggiornati, al luglio 2010.

Può forse costituire un dato interessante il fatto che in Libia, prima della guerra, lavoravano circa due milioni di immigrati, colà arrivati per cercare una vita migliore, solitamente per salari molto bassi. La maggioranza erano egiziani e tunisini (elettricisti, idraulici, operai dell’industria, dell’edilizia, panificatori, pasticcieri) o provenivano dall’Africa centrale e dal Corno d’Africa (che fanno i mestieri più umili e faticosi); ma c’erano anche 60.000 bengalesi, ben 36.000 cinesi (lavorano nelle grandi opere pubbliche appaltate a imprese straniere), 30.000 filippini, 25.000 turchi 18.000 indiani, dall’Europa balcanica (personale ospedaliero). Gli italiani, nonostante i forti interessi economici dell’Italia, erano solo 1.500. I cittadini libici, sei milioni e mezzo, lavorano soprattutto nell’amministrazione pubblica e nel commercio.

Pare dunque che i lavoratori immigrati siano più numerosi dei lavoratori indigeni. Il tasso di disoccupazione resta al 30% ma non è dichiarato: le statistiche sulla Libia sono solo stime prive di continuità, in assenza di dati ufficiali.

I residenti libici, sono così ripartiti per fasce d’età: 0-14 anni il 33%; 15-64 anni il 62%; oltre i 65 anni sono il 5%. La media dell’età è di 24 anni, quindi una società giovane che cresce al ritmo del 2,1% l’anno con un tasso di fertilità di tre figli per ogni donna; la speranza di vita è molto alta: 75 anni per gli uomini e 80 per le donne. Il tasso di urbanizzazione, di abitanti nelle città, le più importanti sulla costa, è del 78%.

Leggendo le altre voci sugli indicatori sociali ne esce un quadro in apparenza equilibrato.

La base economica dipende principalmente dal settore petrolifero che costituisce il 95% delle esportazioni e l’80% delle entrate statali.

Questo il variare dell’indice dei prezzi al consumo dal 2002 al 2008: -8,8; -9,9; -2,1; -3,4; -1,0; +1,8; +2,2, successione che ci dice che da una fase di sensibile discesa dei prezzi si è passati ad una lenta crescita.

La produzione di petrolio è di 1,8 milioni di barili al giorno, con riserve stimate a 47 miliardi di barili. La produzione di gas è di 16 miliardi di metri cubi con riserve accertate di 1539 miliardi di metri cubi.

Queste sono le conclusioni dello studio della Cia sulla Libia:

«Consistenti rendite dal settore energetico accoppiate ad una ridotta popolazione fanno della Libia uno dei paesi col più alto reddito in Africa, ma solo una minima parte di questo raggiunge gli strati più bassi della popolazione (...) Per le caratteristiche del suolo la Libia deve importare il 75% dei prodotti alimentari necessari (..) Negli ultimi cinque anni sono stati fatti dal governo importanti passi per riportare il paese nell’ambito internazionale. Dopo l’annuncio della Libia di abbandonare il programma per la costruzione di armi di sterminio di massa nel 2003, l’Onu invitò a rimuovere le sanzioni applicate; gli Usa iniziarono a rimuovere le sanzioni unilateralmente dal 2004 fino alle ultime nel 2006. Questo attirò molti capitali esteri per gli investimenti, con l’intenzione di raddoppiare l’estrazione di petrolio nei successivi otto anni».


Le forze armate libiche

Infatti, saggiamente il colonnello, temendo di fare la fine di Saddam Hussein, si assoggettò alle pretese statunitensi nel settore militare e cercò di collaborare con l’Occidente.

Le spese militari libiche sono state stimate nel 2005 al 3,9% del Pil. Non è da escludere che la Cina, sempre a caccia di petrolio e buoni affari, o il contrabbando con l’ex Urss, sottobanco abbia sopperito in qualche modo alle esigenze delle varie armi.

Nell’esercito la coscrizione è obbligatoria e dura 18 mesi a partire dal 17° anno d’età; oltre a esercito, marina e aviazione per 50 mila unità regolari, la Libia dispone della Milizia Popolare, una formazione paramilitare di 43 mila uomini. Ovviamente non ci sono dati sulle milizie mercenarie di vario tipo e squadroni della morte fedeli al rais. Sulla carta le Forze armate libiche disporrebbero di un consistente armamento, prevalentemente di origine russa e risalente agli anni ’70 e ’80, ma molte di queste armi sono ormai obsolete e spesso inservibili.

A causa della crisi economica ma principalmente per l’embargo finito da pochi anni, l’armata libica è riuscita solo recentemente a dotarsi di alcuni sistemi di armamento più efficienti. La prova è che nel recente conflitto libico-ciadiano, dalla fine degli anni ’70 alla metà degli anni ’80, l’esercito libico, impegnato in quattro profonde incursioni nel Ciad, soffrì gravi perdite, soprattutto nel 1987 nella meglio nota come “Guerra delle Toyota” per l’uso dei suoi pick-up su cui venivano montati mitragliatrici pesanti, cannoncini e batterie lanciarazzi. Questa guerra si rivelò una pesante sconfitta libica che, secondo la Cia, perse un decimo del proprio esercito con la morte di 7.500 soldati e la distruzione o la cattura di attrezzature belliche per un valore di 1,5 miliardi di dollari, contro la perdita di 1.000 uomini del Ciad, sostenuto dalla Francia.

Per contrastare l’emigrazione clandestina dalle coste libiche verso l’Italia, Gheddafi pretese la fornitura di apposito naviglio e tecnici militari dall’Italia.
 
 
 
 
 
 
 


La paura del comunismo

In una delle sue tante apparizioni mediatiche, il nostro Primo Ministro ha affermato che in Italia è difficile governare perché c’è un’opposizione comunista che non permette di lavorare seriamente. A differenza che in altri paesi, dove i comunisti sarebbero diventati socialdemocratici, come in Germania, o laburisti, come in Inghilterra, in Italia invece i comunisti sono rimasti comunisti, afferma con una delle sue migliori facce di corno.

L’affermazione è ridicola e mostra l’ampiezza dell’ignoranza storica dei borghesi: vedere nella sconquassata e ridicola opposizione parlamentare italiana un’opposizione “comunista” è solo un prodotto delle loro paure. Non solo nei “democratici” che una volta si chiamavano (ma non lo erano) comunisti, ma anche nei partitucoli che conservano vergognosamente il nome di comunista, non c’è assolutamente nulla del genuino programma comunista.

Questo si caratterizza infatti per la dichiarazione rivoluzionaria di voler abbattere la proprietà privata, di socializzare i mezzi di produzione, di abolire la divisione dell’umanità in classi, di spezzare i confini e le ideologie nazionali e patriottiche ed ogni forma di oppressione di una minoranza sulla stragrande maggioranza dell’umanità.

Ebbene, niente di tutto questo si legge nella politica dell’opposizione “comunista”, parlamentare o meno, italiana. Al contrario, essi fanno a gara a chi si dimostra più patriottico, attento al bene dell’Italia, democratico, salvatore dei veri valori quali la famiglia, lo Stato, la proprietà privata, e chi più ne ha più ne metta in questo ciarpame vomitevole dell’ideologia capitalistica, già bollato più di 150 anni fa dalla dottrina marxista e oggi ancora appestante le menti ed opprimente i corpi degli uomini.

Ma l’affermazione del nostro Primo Ministro, che ogni tanto ripete questa barzelletta dell’opposizione “comunista”, è estremamente significativa della paura del comunismo che continua, ieri come oggi sempre uno spettro a tormentare il conscio e l’inconscio del capitalista.

E questo, per noi marxisti e comunisti, è un bel segno: vedendo comunisti anche laddove non ce ne sono (ricordiamo il maccartismo del secolo scorso negli USA), ogni capitalista sa e dimostra di sapere, che il suo vero nemico è il comunismo, che gli toglierà ogni proprietà degli strumenti di produzione e degli infiniti edifici finanziari che oggi gli consentono di sfruttare la classe lavoratrice.

Ma si rassicurino il Primo Ministro e tutti i capitalisti: questa paura che oggi provano, pre-vedendo un futuro più o meno lontano, non è nulla di fronte al terrore che proveranno domani, quando la classe operaia, ritrovando il suo essere e la sua funzione storica, scatenerà la più grande guerra di tutta la storia, quella degli sfruttati e degli oppressi contro gli sfruttatori e gli oppressori, per eliminare, e per sempre, ogni forma di sfruttamento e di oppressione e far nascere così la specie umana a se stessa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Da Hiroshima a Fukushima

Il Primo Ministro dello Stato giapponese ha affermato che la catastrofe terremoto, lo tsunami e la perdita di controllo sui reattori atomici, che piomba sul paese mentre è al fondo di una lunga depressione economica della quale non vede la fine, è la peggiore dalla Seconda Guerra mondiale e dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki.

Stavolta ad irraggiare i giapponesi è il capitale nazionale, però.

* * *

Le placche nelle quali si suddivide la crosta terrestre sono in movimento. Si accumulano così tensioni ai loro contorni, in corrispondenza delle faglie che le dividono, lunghe centinaia di chilometri. Quella energia elastica, quando si arriva alla rottura, si scarica nei terremoti. Per il mutuo sforzo di compressione una zolla è spinta sotto l’altra, con il fenomeno chiamato subduzione: quella che comprende il Giappone sta scivolando sopra alla placca del Pacifico.

L’Arcipelago si colloca sulla cosiddetta “cintura di fuoco”, i circa 40 mila chilometri del periplo di quell’oceano, che comprende molte fosse oceaniche e catene montuose vulcaniche, ed in particolare sul congiungersi di quattro diverse placche. Una zona quindi ad altissimo rischio sismico e di giganteschi tsunami: la maggior parte dei terremoti che avvengono sulla Terra, circa l’80%, si generano in quest’area, ed è risaputo da sempre il pericolo che vi incombe.

Il Giappone nel solo secolo scorso ne ha subiti due di grosse dimensioni: il primo, il 1 settembre 1923, di magnitudo fra 7,9 e l’8,4, colpì la pianura del Kanto, sull’isola maggiore del Honshu, con epicentro sotto la baia di Sagami. La scossa durò fino a 10 minuti e distrusse Tokio, il Porto di Yokohama, le città di Chiba, Kanagawa e Shizuoka e tutta la regione del Kanto. Il bilancio fu di oltre 177.000 morti. Un imponente incendio sviluppatosi dopo la scossa ridusse in cenere intere città. Il secondo, avvenuto la mattina del 17 gennaio 1995, fu a Kobe, della potenza di 6,9 gradi, causò 6.434 morti. La distruzione degli edifici fu immensa, oltre centomila edifici furono rasi al suolo e mezzo milione danneggiati.

Solo negli ultimi due anni si sono registrati nel Paese 5 o 6 terremoti di magnitudo superiore a 6.

Nel 2007 un terremoto già aveva danneggiato la centrale nucleare di Kashiwazaki-Kariwa con un dispersione di nuclei radioattivi dei quali mai si comunicò natura e quantità.

Lo scorso 9 marzo un terremoto di magnitudo 7,3 si era registrato nel nord del paese, con epicentro a 32 chilometri di profondità sotto il fondo del Pacifico e 130 al largo delle coste settentrionali dell’isola di Honshu. La Japan Metereological Agency aveva lanciato l’allarme maremoto, poi rientrato. Due giorni dopo, l’11 marzo, si è avuto uno dei massimi episodi sismici mai registrati, della durata di due minuti. L’ipocentro è stato sotto il fondo del mare, a circa 120 chilometri dalla costa nord-est del Giappone. Il brusco spostamento del fondale ha provocato uno tsunami, una gigantesca ondata alta fino a 15 metri che si è abbattuta sulle coste.

* * *

Nella storia non recente del Giappone il problema di costruire abitazioni adatte a resistere alle sollecitazioni sismiche fu trovato nell’impiego del legno, materiale ad alta resistenza a parità di massa, con ottima risposta elastica e che consente un efficace incastro fra le membrature.

Il capitalismo, distrutta la maggior parte delle foreste del pianeta, è ricorso a materiali meno costosi e che richiedono minore lavorazione e meno qualificata, prevalentemente il calcestruzzo armato, che consente edifici di molti piani, necessari nella società borghese-fondiaria per meglio compensare e ripartire la rendita del suolo, ma che, pesante, peggio risponde alle accelerazioni.

Non che sia tecnicamente impossibile costruire anche in cemento armato, o meglio ancora in acciaio, edifici resistenti al sisma. Lo avrebbe dimostrato, dicevano, il capitalismo proprio in Giappone, il quale, dopo la lezione del 1923, e a differenza che in Europa ed in America, si sarebbe dato a costruire infrastrutture ed abitazioni, perfino grattacieli, dimensionati e conformati per far fronte ai sussulti della terra. Forse questo è stato vero per alcuni decenni, quelli della potente ascesa del giovane capitalismo del Sol levante. Alla data del terremoto del 1995 quel ciclo e quel mito sono ormai chiusi.

* * *

Ma, stavolta, più che dal terremoto, le vittime sono state provocate dallo tsunami: si valuta più di diecimila morti e mezzo milione di senza casa.

Una, fra le innumeri, evidente dimostrazione della incapacità del capitalismo a distribuire razionalmente l’insediamento umano sul pianeta sono i centri abitati sulle coste dell’oceano Pacifico. La indubitata previsione che entro un non lungo numero di anni un potente maremoto si sarebbe abbattuto su quelle spiagge non ha impedito che città come Sendai e molte altre minori venissero a stiparsi proprio negli stretti fondovalle aperti al mare e di poco su questo più alti, che ben si sapeva che entro la successiva generazione sarebbero stati spazzati dall’ondata.

Bastava costruire appena sopra, o più indietro, lasciando in basso e sulla riviera solo le necessarie attrezzature marittime, portuali e di magazzinaggio.

Ma il capitalismo lo impedisce, perché è guidato dal saggio del profitto immediato. Per la legge della selezione naturale, cioè, della natura del capitale, il capitalista che non si conforma alla ricerca del massimo saggio del profitto, qui ed oggi, con qualunque mezzo e con qualunque conseguenza sul futuro o altrove, soccombe.

Costruire sufficientemente distante dalla battigia o pochi metri più in alto avrebbe aumentato i costi, di trasporto delle cose e di trasferimento dei lavoratori. Differenza molto piccola e certo infinitamente minore di lutti e delle sofferenze per il cataclisma e della fatica per tutto ricostruire, ma quello che conta è il qui ed ora ed è quella pur minima differenza di costi che, in particolare nella recessione e declino attuali, determina la sopravvivenza dell’uno e la morte dell’altro capitale. Qui la chiave di tutta l’urbanistica contemporanea, ovvero, della sua assenza.
 

Non si o no al nucleare, si o no al capitalismo

In merito abbiamo da dire la nostra, sintetizzata in questo titolo.

La produzione di energia tramite la fissione dell’atomo si basa sulla proprietà del nucleo dell’uranio 235 – un isotopo del normale uranio 238 presente in natura, e che ne costituisce lo 0,7% – quando colpito da un neutrone, di spontaneamente dividersi in un atomo di bario 144 ed uno di kripton 89 e di emettere 2 o 3 altri neutroni. In questa reazione c’è una perdita di circa l’un percento della massa, che si trasforma in energia: luce e calore.

Se i nuovi neutroni emessi vanno ad urtare il nucleo di un altro atomo di uranio 235 la reazione si rinnova da sé e non vi è più bisogno di fornire neutroni dall’esterno perché la produzione di energia si mantenga spontaneamente. Per raffrenare o quasi interrompere il processo occorre impedire che i neutroni emessi colpiscano altri atomi, il che si ottiene interponendo fra i blocchi di uranio un materiale che assorbe i neutroni, come per esempio la grafite.

La reazione è la medesima che fu utilizzata per la bomba che il 6 agosto 1945 fu sganciata e fatta esplodere 500 metri sopra Hiroshima. Tre giorni dopo, su Nagasaki se ne sperimentò una che invece utilizzava un’altra reazione nucleare, quella che parte dal plutonio 239. I morti, come sappiamo, furono dell’ordine delle centinaia di migliaia.

Dopo la guerra l’impiego delle reazioni del nucleo per produrre energia elettrica è stato relativamente semplice e i successivi diversi tipi di reattore che si sono venuti a proporre, fino a quelli oggi in progetto, hanno presentato poche significative varianti e migliorie. Il cosiddetto “combustibile”, cioè l’uranio 235, in forma di barre, viene inserito in una caldaia piena d’acqua; la pressione del vapore prodotto muove una turbina, che a sua volta fa girare un alternatore; il vapore, utilizzando l’acqua di un lago o del mare, viene quindi raffreddato per ritrasformarlo allo stato liquido prima di essere reimmesso in caldaia.

Gli inconvenienti nella produzione di energia nucleare sono che la reazione base non si risolve e si ferma solo al bario e al kripton ma continua e produce in cascata molti altri elementi, in proporzioni diverse, alcuni dei quali sono a loro volta radioattivi. Di questi alcuni hanno vita effimera ma altri perdono la loro radioattività in tempi lunghissimi, e non solo alla scala minima del capitalismo ma rispetto alla vita stessa sul nostro pianeta. Di questi, in particolare, sono dannosi per la salute delle specie animali, con meccanismi diversi: lo iodio 131, che dimezza la sua radioattività in 8 giorni, il cesio 137 e lo stronzio 90, che si dimezzano in 30 anni, e il plutonio 239, praticamente inestinguibile.

Una eventuale fessurazione della caldaia o, peggio, il suo lacerarsi a seguito di esplosione, come avvenne a Cernobyl e con incendio della grafite, verrebbe a liberare questi veleni nell’atmosfera, nei fiumi o negli oceani. Un ulteriore riscaldamento provocherebbe la fusione delle barre di uranio e plutonio le quali, penetrata la vasca di contenimento, si disperderebbero nel terreno.

Altra grave incognita è dove imprigionare le “ceneri”, cioè il “combustibile” esaurito, che rimarranno alcune per sempre radioattive e pericolose ai viventi. Il problema è facilitato dalla non grande quantità del materiale da stivare, circa 3 metri cubi annui per ogni reattore, ma, di fatto, ancora nessun paese ha trovato un luogo adatto dove dargli definitiva sistemazione, e ormai da 50 anni i fusti radioattivi aspettano la soluzione in magazzini provvisori.

D’altro lato viene fatto osservare che, rispetto al ricorso ai combustibili fossili, carbone, petrolio e metano, patrimonio di questi due ultimi che in un secolo il capitalismo ha sconsideratamente quasi dilapidato, l’energia nucleare, da una parte utilizza minerali più poveri, presenti in quantità e facilmente estraibili, dall’altra non produce CO2, la cui presenza nell’atmosfera si ritiene che venga a modificare il clima.

È evidente che, per gli enormi interessi che vi incombono, petrolieri, industriali eccetera, dubitiamo che il capitalismo possa riuscire a conoscere la delicata e complessa dinamica del clima, nel quale si sovrappongono fenomeni a ciclo brevissimo ad altri di molto più lunghi respiro, nonché la reale dimensione del suo mutare, ed escludiamo senz’altro che possa volere e potere modificare il suo corso, anche solo per mitigare gli effetti su di esso della sua congenita imprevidenza ed anarchia.

* * *

Queste, in estrema sintesi, le basi tecniche su cui si basa la produzione di energia di origine nucleare e intorno alle quali si svolge un inutile dibattito fra i suoi sostenitori e i suoi avversari. Inutile perché, di fatto, a decidere sarà Sua Maestà il Capitale, in un compromesso fra le varie lobby industriali, in un intreccio di interessi aziendali, geopolitici, strategici, che determinano comportamenti contrastanti, e anche sotto il condizionamento di fattori d’ordine militare. Ma il criterio di scelta che alla fine andrà ad imporsi sarà quello del costo minimo. Questo è il dogma che sovrasta tutti i contendenti, quando gli “ecologisti” per primi si affannano a dimostrare che non è vero che il “nucleare” costa meno.

Esempio: esiste un progetto di reattore, studiato al Cern e che porta il nome del fisico Rubbia, che utilizza il torio al posto dell’uranio e che non presenta il problema dell’autoinnesco, cioè che si spenge solo staccandogli la spina, oltre a produrre residui radioattivi di minore pericolosità. Ha un solo difetto, costa di più, e non ce lo possiamo permettere. Quella del capitale è la società della miseria.

Il merito storico del capitalismo è aver enormemente ridotto il costo dei beni, in termine di ore di lavoro necessarie a produrli. Per scaldar male una stanza d’inverno occorreva raccoglier legna tutto l’anno. Passati oggi due secoli – durante i quali, per ridurre i costi, che a scala aziendale significa aumentare i profitti, il capitalismo ha distrutto tutto quello che poteva distruggere – ormai il capitalismo produce troppo di tutto. Anche di energia.

L’energia è una merce, che ha il suo valore ed il suo mercato. I produttori di energia sono fra loro in concorrenza e fra loro prevale chi vende al minor prezzo. Ogni altra considerazione, in questa società, o è frutto di dabbenaggine o di malafede. Di energia c’è sovrapproduzione: non è che manca l’energia, manca ad un certo prezzo. In realtà in quasi tutti i paesi, e globalmente, la capacità produttiva delle centrali è superiore alla richiesta, quindi, se non per il capitale, il problema non esiste.

Nel comunismo, prima società umana che esce dalla sua preistoria, cessa l’affanno per la riduzione del costo per unità di prodotto, che si inverte nella ricerca della soluzione migliore, nella scelta della quale il fabbisogno di tempo di lavoro sarà uno dei fattori di minore importanza. Ridotte tutte le produzioni inutili e gli sprechi enormi del capitalismo, anche di energia, basterà per il soddisfacimento degli essenziali bisogni umani un tempo di lavoro molto ridotto, già oggi un paio d’ore al giorno, con le restanti energie ed interessi spontaneamente, liberamente e gratuitamente esplicabili, in ogni foggia e modo, appunto alla ricerca collettiva delle soluzioni migliori, in tutti i sensi, per i vivi e i nascituri, e, in generale, per tutte le forme di vita nell’universo mondo.

* * *

Tornando al Giappone, l’incidente occorso ai reattori della centrale di Fukushima è invece una prova del procedere cieco e criminale del capitalismo, anche in una delle sue società più evolute e mature. Anzi, diremmo, le due cose non vanno in senso inverso ma parallelo: più scienza e tecnica moderna, tanto più disprezzo per ogni ben prevedere, ben costruire e ben manutenere. Il fine primo della scienza e della tecnica borghesi è la riduzione dei costi: la tecnica migliore dà il prodotto peggiore.

Gran parte di quello che succede a Fukushima è segreto di Stato, e di classe, e come in una guerra le informazioni sono filtrate. La guerra, all’interno di tutti i paesi, del capitale contro la classe di chi lavora: la dittatura del capitale.

L’essenziale però è ugualmente ben leggibile.

Se c’è un posto al mondo dove non collocare un impianto vulnerabile e critico come una centrale atomica è nelle regioni ad altissima sismicità: in queste ne troviamo oggi 12 in Giappone, 3 a Taiwan, 1 in Cina, 1 in Pakistan, 1 in Iran, 2 in California. In più il Giappone, con 128 milioni di abitanti ed una densità media di 340 per chilometro quadro, è fra i paesi più densamente popolati.

Il capitalismo giapponese è arrivato ad essere in questo interguerra la terza potenza mondiale, superata da poco da quella cinese. Disponendo di fonti interne per produrre solo il 16% dell’energia è divenuto il più grande importatore al mondo di gas naturale liquefatto e di carbone e il terzo di petrolio. Per questo motivo la borghesia giapponese ha cercato con il nucleare di diminuire la sua dipendenza energetica.

Qui gioca la antistorica divisione in nazioni, portato e limite insuperabile del capitalismo, delle quali ognuna, nemica alle altre, deve provvedere a sé. Ma lo iodio immesso da Fukushima nell’oceano non si ferma alla dogana.

Però, costruire non a ridosso delle città, come oggi, comporterebbe lunghe linee di trasmissione dell’energia, che disperdono troppo, dicono. Nel frattempo, liberatici dal calcolo monetario, potrebbe soccorrere il puro idrogeno, l’elemento unitario, prodotto in una grande centrale nel deserto e distribuito poi ovunque occorre.

Non conosciamo le condizioni di manutenzione e di conservazione dell’impianto di Fukushima, costruito nel 1970, ma sappiamo che le stesse autorità del Paese ne avevano da tempo deciso la chiusura. In Giappone nel prossimo decennio 18 reattori, tra cui 5 a Fukushima, arriveranno all’età di quarant’anni, considerato il limite della vita di queste strutture, nonostante ci sia chi li ritiene pericolosi ben da prima. A fronte delle spese per costruire nuovi reattori i governi autorizzano il rischio di allungarne la vita, nonostante le leggi ne prevederebbero la chiusa. Il vantaggio, in Giappone e fuori, è dei produttori di elettricità: c’è tutto l’interesse da parte di chi gestisce questi impianti ad allungarne la durata che, già ammortizzati, portano solo profitti, oltre a rimandare gli enormi costi per il loro smantellamento.

A Fukushima al verificarsi delle scosse le barre di grafite sono scese al loro posto, ma, mancata l’alimentazione elettrica, fatto che doveva certo essere previsto, si sono fermate le pompe che circolano l’acqua, ancora necessarie per disperdere all’esterno il calore della reazione residua. Nemmeno si è avviato l’impianto di emergenza, mosso da un generatore autonomo. Nessun altro apparato di raffreddamento era predisposto. Sarebbe bastato, come installato presso altre centrali, un semplice circuito a termosifone, a funzionamento passivo, utilizzante la stessa energia termica del nucleo; oppure una condotta a gravità che attinga ad un serbatoio in collina. A questo punto i tecnici non hanno potuto far altro che fuggire, ed i due giovanissimi che sono rimasti a cercare di evitare il disastro l’hanno pagato con la vita.

Analoghi problemi al raffreddamento e danni si sono avuti in entrambe le centrali presso Fukushima, distanti 11 chilometri fra loro, e a più d’uno dei loro reattori, il che conferma la non casualità dell’evento.

Per ammissione della stessa società che gestisce l’impianto la situazione è uscita da ogni controllo, come ben dimostra il ricorso a getti d’acqua da lontano e dagli elicotteri per cercare di contenere la fusione delle barre di uranio ed evitare l’esplosione dell’idrogeno con l’ossigeno che si producono dalla dissociazione dell’acqua ad alta temperatura, con conseguente rottura dell’involucro del reattore.

Inoltre nelle piscine di immagazzinamento si trovano le barre esauste, ricche di plutonio, e in uno dei reattori si “bruciava” il cosiddetto Mox, una miscela di uranio naturale e plutonio.

L’acqua di raffreddamento gettata da fuori e quella uscita dal circuito primario, contenente elementi radioattivi, si è raccolta nelle vasche e nelle trincee di sicurezza. Da qui ha trovato una via al mare, vicinissimo.

Ad oggi è stata evacuata tutta la popolazione per un raggio di 20 chilometri, per altri 10 si prescrive di chiudersi in casa e calafatare porte e finestre. Dall’alto, le anime degli antenati hanno girato il vento verso l’oceano, spingendo, non a caso, il carico radioattivo sulla americana portaerei Ronald Regan, che ha presto invertito la rotta.

Oltre questo raggio, a prestar fede alle rassicurazioni ufficiali, l’inquinamento da elementi radioattivi nell’aria non sarebbe grave, dopo i picchi in corrispondenza delle esplosioni intorno ai reattori e dello scarico delle valvole di sovrappressione. Sicuro però che tutto l’impianto e per un raggio notevole diverrà terra proibita, e sicuramente è molto forte l’inquinamento del mare, con conseguenze che oggi nessuno può prevedere sulla vita marina e sulla economia e sulla dieta dei giapponesi e dei popoli del Pacifico occidentale.

* * *

Si capisce, noi non possiamo qui dirimere la questione “nucleare si o nucleare no”, compito che si porrà, forse, già la prossima generazione che, spezzato via questo putrido sistema di produzione, potrà allora decidere se utilizzare centrali nucleari o farne a meno. Oppure decidere di non decidere, spengere, per quanto possibile, le centrali esistenti e, nel dubbio, aspettare di sapere.

Se la preistoria della specie umana inizia con la scoperta del fuoco, che la distingue dagli altri animali, il suo vero ingresso nella storia, e suo pieno dispiegarsi nel comunismo, potrebbe esser segnato dal dominio su una forza diversa e superiore, quella che illumina il Sole e le stelle.

Ma l’utilizzo da parte dell’uomo della fissione, e domani della fusione nucleare, richiede, impone, il comunismo. Solo allora sarà possibile pensare ad un piano unico di rifornimenti, energia compresa, e alla progettazione e conduzione di centrali in modo non colpevolmente insicuro. Possiamo intanto prevedere che per alcuni decenni basterà fermare molte delle centrali esistenti in quanto non avremo bisogno di gran parte delle merci inutili che vengono vomitate oggi dalle industrie e che la razionale distribuzione delle produzioni porterà ad una drastica diminuzione dei trasporti; che la costruzione delle abitazioni sarà fatta in tutta ricchezza e non sotto la sferza del risparmio, con la giusta attenzione alla dispersione di calore. Tutto questo porterà ad una riduzione della richiesta di energia.

Non esiste invece una soluzione per la presente società, stretta tra l’obbligo del profitto e lo svilupparsi delle forze titaniche che ha evocato: sovrappopolazione, sovrabbondanza di merci, degrado forse irrecuperabile dell’ambiente in senso lato, insufficienza delle risorse naturali, presto anche degli alimenti di base (le scorte diminuiscono a vista d’occhio, gli analisti dicono che il prossimo anno di cattivi raccolti determinerà un colossale disastro alimentare).

È utopistico pensare di risolvere la questione nel capitalismo. I movimenti ambientalisti sono ineluttabilmente reazionari in quanto vorrebbero rappezzare questo sistema di produzione, che per sua natura è irriformabile. Solo il proletariato, una volta preso il potere, con metodi rivoluzionari, sarà riformista, nel senso che costruirà una nuova società fatta a misura dell’uomo e della natura. Oggi sia in Giappone, che già piange più di diecimila morti, sia nel mondo le reazioni degli abitanti sono state assai modeste. Perché è a tutti evidente che all’interno del capitalismo, la presente sistemazione è la migliore possibile. Il metodo democratico confermerà sempre il capitalismo e tutti i suoi eccessi.

Noi comunisti attendiamo che la latente forza del proletariato, che si accumula nella frizione fra le geologiche placche sociali, si risveglierà travolgendo con un’onda gigantesca la insipienza e la criminale stupidità della società borghese. È questo lo tsunami che attendiamo!
 
 
 
 
 
 
 

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Basi della rivolta in Egitto

La storia insegna che le sommosse e le rivoluzioni sempre si fanno non per qualche cosa ma contro qualcuno, che opprime ed affama le classi più povere e sfruttate. Così è stato in Egitto, anche se si cerca di far passare la richiesta delle folle a Il Cairo e altrove per una svolta verso un sistema realmente democratico borghese, oscurando dietro una fumosa cortina ideologica la fame e la disperazione delle masse. Queste sono sfruttate certamente da un regime dispotico e corrotto, ma sostenuto da tutte le democratiche cancellerie mondiali perché il vecchio faraone si è sempre comportato egregiamente come gendarme interno, sia contro i partiti islamisti sia contro genuine lotte di classe del proletariato. Al tempo stesso si era reso garante della pacifica circolazione marittima nel canale di Suez, nonché del delicatissimo equilibrio armato nella Palestina a tutto favore di Israele. In questo le varie amministrazioni americane lo hanno protetto e rafforzato concedendo, tra le altre cose, la licenza per costruire in loco carri armati tipo Abrams di ultimo tipo, per raggiungere un totale di 1000 tanks.

Ma tutto ha un costo e un prezzo da pagare. Ed è sulla dinamica dei prezzi dei prodotti petroliferi e di quelli alimentari che si è rotto l’equilibrio interno egiziano, punta avanzata della stabilità della sponda sud del Mediterraneo.

Partiamo con ordine. Questo equilibrio era sostenuto su una distribuzione di derrate alimentari di base, a bassi prezzi calmierati, finanziata con i ricavi della vendita della produzione petrolifera nazionale. Gli scontri sono iniziati quando il governo, a causa della consistente riduzione della rendita petrolifera, ha minacciato prima di togliere, poi di molto ridurre i sussidi alimentari.

Dopo le prime proteste, che ottenevano la promessa ai dipendenti pubblici di aumento delle pensioni e dei salari del 15%, che hanno suscitato ovviamente analoghe richieste dal settore privato, i conoscitori della reale situazione finanziaria dell’Egitto si sono chiesti dove il regime avrebbe trovato quei fondi che la situazione non concede. La semplice promessa avrebbe dovuto calmare la piazza per tirare un po’ avanti. Per quanto tempo, dove il 60% della popolazione campa con qualche euro al giorno e deve destinare il 50% del suo reddito alla spesa alimentare, non lo hanno previsto con esattezza. Nel 2010 i prezzi sono cresciuti del 12,8% mentre i salari, diversi per categoria, nettamente di meno, per cui l’aumento del 15% servirebbe solo a recuperare parte della perdita del potere d’acquisto dell’anno passato.

Un accurato studio della British Petroleum rivela che la produzione di petrolio in Egitto ha registrato un costante e rapido incremento dal 1974 (anno della falsa “crisi” petrolifera dovuta ai paesi arabi) fino al 1995, poi con il classico andamento “a campana” ha subito una discesa costante ed oggi la sua produzione è uguale a quella del 1983. Ciò che impressiona è invece è l’andamento dei consumi interni di prodotti petroliferi che sale progressivamente fino a superare nel 2010 il valore della produzione nazionale. Lo stesso grafico mostra la curva dell’esportazione netta di petrolio che dopo il massimo del 1995 nel 2010 tocca lo zero. Ciò significa che l’Egitto in solo 45 anni è passato dal ruolo di paese esportatore ad importatore di petrolio.

Analoga situazione per il gas naturale. A seguito di ciò dal 2008 l’Egitto non ha più stipulato contratti per l’esportazione di gas, dovendo provvedere al consumo interno.

Inoltre la mancata esportazione della produzione petrolifera porta con sé una caduta delle entrate statali sia dirette sia indirette dovute alla tassazione sui consumi interni, ora ben ridotti.

La crisi economica mondiale si traduce nella restrizione dei traffici commerciali mondiali e nella minore domanda petrolifera, due concause che hanno notevolmente ridotto il traffico mercantile nel canale di Suez producendo, per mancati pedaggi, un’ulteriore ammanco nelle entrate statali.

Secondo un rapporto informativo della CIA, con gli ultimi dati disponibili del 2009, e solo per quell’anno, a fronte di entrate totali per lo Stato egiziano di 47 miliardi di dollari vi sono uscite per 64 miliardi. Il rapporto stima per il 2010 un debito dell’81% sul PIL.

Ne è risultata inevitabile la manovra del governo di ridurre i sussidi sull’alimentazione. Ed inevitabile la rivolta popolare contro tale manovra, e contro la dilagante corruzione di tutto l’apparato di regime. La forbice del reddito fra classi ricche e povere, di per sé propria del capitalismo, si amplia in periodi di crisi. Spiegabile quindi la rivendicazione immediata di far fuori tutta la vecchia classe privilegiata, non essendo ancora colà mature le condizioni che possano portare alla prospettiva di presa del potere da parte delle avanguardie comuniste.

Altro fattore rivoluzionario è la rapida e costante crescita della popolazione che dai 20 milioni del 1950 passa ai 79 del 2010, quadruplicata in soli 60 anni con un tasso di fertilità medio di tre figli per ogni donna. La CIA sottovaluta, in questa situazione, la disoccupazione al tasso del 9,7% quando varie altre fonti stimano un ben più credibile 40%.

Per questo accresciuto numero di uomini occorre più cibo e più spazio per vivere, più infrastrutture per l’organizzazione produttiva e sociale, ma soprattutto più terra da coltivare in un paese confinato dal deserto sulle rive del Nilo; cosa che gli antichi faraoni avevano ben inteso organizzando di conseguenza tutta la struttura produttiva. Il capitalismo va invece esattamente nella direzione opposta: più terra per la rendita fondiaria urbana, industriale e turistica, ben più redditizia per i proprietari terrieri del riso, del grano, dei datteri o delle cipolle. Tanto che il ministro preposto ha dovuto dichiarare che l’Egitto oggi importa il 40% del suo fabbisogno alimentare, di cui il 60% del totale è grano!

Quest’anno il problema si è acuito a livello mondiale, come le rivolte in Asia, Sudamerica, Africa e del sub continente indiano hanno mostrato. Per due maggiori fattori: per primo c’è stata una forte caduta della produzione mondiale per cause climatiche, soprattutto per il maltempo in Russia; secondo la speculazione sulla borsa delle derrate agricole, che ne ha approfittato facendo impennare i prezzi al consumo. In più l’offerta alimentare si è contratta per la produzione di biocarburanti, sempre più richiesti come alternativa a quelli di origine petrolifera, che ha distolto terreno agricolo dalla produzione di alimenti. Ampi studi della FAO dimostrano che la produzione mondiale di grano ha avuto una leggera e discontinua crescita fino al massimo del 2008, dopo di che si abbassa sensibilmente.

Per i prezzi degli alimentari, «l’indice della FAO ha raggiunto il massimo da quando l’indice ha incominciato a essere calcolato nel 1990. L’incremento è tale da aver superato quello dell’estate dei record, del 2008, quando il barile di petrolio era arrivato a 147 dollari» (Corriere della Sera, 16 febbraio).

Nonostante l’aumento della popolazione mondiale, altrove la FAO ha sostenuto che questa sarebbe tutta ben sfamabile con l’attuale capacità produttiva; ma, continuiamo noi, solo una volta eliminato il feticcio merce.
 

L’esercito-partito-Stato

Lo Stato egiziano ha il controllo del canale di Suez. Un suo eventuale blocco provocherebbe un aumento dei prezzi delle merci per i maggiori noli su rotte più lunghe, soprattutto per e da l’Europa e gli Usa. Questo avrebbe effetti diversi quando si trattasse di importazione di petrolio, ovvero di prodotti finiti dall’Oriente, ovvero di esportazioni nell’altro senso. Non per nulla è stata allertata di fronte al canale una forza navale. La nave d’attacco anfibio Kearsarge, dotata di attrezzature per sbarchi di uomini e mezzi pesanti e con un ponte di decollo per elicotteri, è stata lì inviata il 6 febbraio ufficialmente per eventuali operazioni di evacuazione rapida di cittadini americani; anche la portaerei Enterprise, la più lunga nave da guerra al mondo, di stanza nel Mediterraneo si è portata, col seguito di navi scorta, davanti alle coste egiziane, sicuramente non per una crociera di piacere.

La grande borghesia egiziana, ben rappresentata e difesa dal suo esercito, è riuscita nell’immediato a gestire l’emergenza, facendo uscire di scena Mubarak, volente o nolente, ed evitando ogni intervento militare straniero, del resto del tutto problematico.

In Egitto l’esercito ha un ruolo molto importante nella vita politica, economica e sociale del paese. L’onore della casta militare risale ai tempi del generale Nasser che, con l’appoggio del generale Nagib, con un colpo di Stato rovesciò re Faruk. Due anni più tardi Nasser sostituì anche Nagib, rimanendo l’unico alla guida del paese. L’esercito, in particolare le forze terrestri, assunse il controllo dell’Egitto cooptando al suo interno le cariche di governo più importanti. Anche il suo fido consigliere e successore Sadat proveniva dall’esercito. A questo, assassinato da un gruppo di fondamentalisti come vendetta per il trattamento loro riservato, successe il primo consigliere, il generale dell’aeronautica Mubarak. Tutto era predisposto, prima della sua destituzione, per una successione verso il figlio Jamal, in una tradizione quasi dinastica. Formalmente questi potentati militari furono sempre confermati con esiti plebiscitari in libere elezioni democratiche.

Lo stato maggiore dell’esercito non è solo una casta di potere ma un sistema economico e politico. Ogni informazione statistica o industriale è considerata segreto militare, compresi molti dati economici, per cui sono disponibili solo delle stime. L’esercito controlla direttamente il 45% dell’economia non solo producendo autonomamente buona parte di tutto il suo fabbisogno ma anche beni di consumo per il resto della popolazione: cemento, tessuti, elettrodomestici di vario genere, derrate agro-alimentari tra cui olio, acqua minerale, ottenute su terreni di sua proprietà, pane dai forni dell’esercito. Il settore turistico nazionale generalmente è assegnato agli alti ufficiali in pensione come gratifica aggiuntiva. Il ministero preposto impiega 40 mila persone, per lo più civili, e realizza ricavi per circa 255 milioni di euro. Di fatto Stato e borghesia vengono in gran parte a coincidere.

Si stima che l’esercito sia composto da 400 mila effettivi ed altrettanti riservisti. Da circa 40 anni viene sostenuto economicamente dagli Usa con 1,3 miliardi di dollari l’anno, tanto costa la fedeltà militare egiziana! Ma un conto sono gli alti ufficiali, altro sono i soldati ed graduati subalterni cui poco arriva di tanta manna.

La strategia adottata dall’esercito nei recenti scontri sociali è stata nel segno della continuità nella gestione del potere, con tutto l’appoggio delle diplomazie straniere. Ha lasciato che la protesta si dirigesse verso la figura del vecchio presidente, consentendo lo sfogo della piazza, che ha di fatto accettato di tenersi entro limiti non violenti: la consegna data ai militari era di non sparare sulla folla se non attaccati. I quartieri chiave del Cairo erano presidiati dalle forze della Unità 777, le forze speciali.

Sacrificato Mubarak, con l’aria dei salvatori della patria i militari si sono presentati per gestire “la transizione” verso un nuovo presunto “sistema democratico”, dove comunque avrebbero avuto i loro uomini chiave per continuare nelle loro consorterie economiche, prima di tutto il turismo.

Alle borghesie d’Occidente ed Usa va bene così: la crisi economica necessita della massima stabilità, soprattutto in quell’aerea. Senza Mubarak è continuato il solito gioco: “cambiare tutto per non cambiare niente”.

È però continuata la lotta dei lavoratori, che protestano per migliori condizioni di lavoro e salari decenti. La casta militare ha dovuto allora gettare la maschera della libertà e presentare il suo vero volto di nemico di classe, sia come capitalisti danneggiati dagli scioperi nelle aziende tessili, sia come gruppo di potere che mantiene la sottomissione politica del proletariato. Ha annunciato quindi di aver modificato le regole d’ingaggio alle forze armate contro ogni forma di instabilità, scioperi compresi.

Come risposta alla ripresa degli scioperi dei lavoratori della Compagnia Filati e Tessuti d’Egitto, la più grande fabbrica tessile del paese con 24 mila dipendenti, il Consiglio Militare così ha dichiarato: «C’è chi organizza proteste che ostacolano la produzione e creano condizioni economiche critiche che possono portare ad un peggioramento dell’economia del paese (...) La continuazione della instabilità e le sue conseguenze provocheranno danni alla sicurezza nazionale. Il Consiglio Superiore delle Forze Armate non permetterà la continuazione di tali atti illegali che costituiscono un pericolo per la nazione e vi si opporrà prendendo misure legali per proteggere la sicurezza della nazione». In altre parole è la copertura legale perché l’esercito possa sparare sugli scioperanti.
 
 
 
 
 
 
 


La guerra e il capitalismo

La guerra mondiale è l’unica soluzione di cui la classe borghese dispone per far fronte al perdurare della crisi economica, alla non più gestibile e controllabile sovrapproduzione di merci.

Il capitalismo da svariati anni impera su tutto il globo. Le società, i modi di produzione, le morali esistenti in passato si sono dissolte, ovunque travolte dallo tsunami capitalista e dal suo mercato ed ormai solo poche e ininfluenti comunità si aggrappano a stento a schemi del passato.

Il mercato delle merci è ormai mondiale. La contesa per la sua spartizione impone le guerre, da quelle monetarie a quelle strategiche e guerreggiate. Anche se sono presentate come urto fra religioni, o “per la pace”, a seconda delle variabili in gioco e delle sovrastrutture ideologiche imposte, in realtà sono finalizzate alla suddivisione, in costante cambiamento, delle sfere di influenza, con la sottomissione degli Stati minori, Italietta compresa, alle grandi potenze imperialistiche.

Fu la crisi del 1929 la causa immediata che portò gli imperialismi a scontrarsi nel secondo macello mondiale, guerra salvifica per il capitale che sola riuscì a far ripartire la giostra dell’accumulazione, dopo le immani distruzioni di città, fabbriche, merci, e in particolare di uomini.

Oggi, e fin dalla metà degli anni settanta, il processo di crescita del capitalismo si è arrestato. Ovunque il capitale, morso dalla crisi, aumenta le condizioni di sfruttamento dei lavoratori per estorcere maggior plusvalore, ma l’elisir di lunga vita può donarglielo, domani, solo una guerra mondiale. Questo stato agonico del capitalismo ha costretto e costringerà gli Stati al ricorso alla guerra imperialista schierando i lavoratori gli uni contro gli altri.

È quindi evidente che i governi del mondo e i loro innumeri portavoce, precari funzionari a tempo determinato benché strapagati burattini della classe dominante, non hanno alcuna possibilità né di impedire le guerre né tantomeno provocarle. La loro personale intenzione, fintamente pacifista o maldestramente guerrafondaia, non conta nulla e rappresenta solo uno specchio visivo, oggi televisivo, presentato ad un proletariato che si vuole addormentato e indottrinato di nazionalismo. Il marxismo rivoluzionario da sempre considera la guerra non come una evitabile scelta politica di questo o quel governo, ma una inevitabile necessità economica di tutti i governi, in particolar modo dei predoni imperialisti.

La proclamata volontà di pace è solo apparenza, anzi, annuncio di guerra. Sarà rinnegato quanto giurato e firmato qualche settimana prima. Come non ricordare il Patto di non aggressione firmato da Molotov e Ribbentrop il 23 Agosto 1939 tra la Germania e la Russia “sovietica” ?.

Per salvare sua maestà il capitale, straziato dalle sue insanabili contraddizioni, la guerra dovrà essere lunga ed estesa, e in particolar modo distruttrice, col macello di milioni di proletari.

Così come la Seconda Guerra mondiale si preparava già ben prima del suo inizio dichiarato, nel settembre del 39, possiamo oggi affermare che le attuali guerre permanenti, da quel lontano 11 settembre 2001 sono il prologo, più o meno lungo, più o meno intenso, della terza carneficina mondiale.

Non facile fare in merito previsioni temporali esatte. Seguire quello che noi chiamiamo corso dell’imperialismo, ci porta a confrontarci con un apparente groviglio di accordi, patti più o meno segreti che ne avvolgono i predoni. Il continuo intrecciarsi di nuovi e vecchi legami, non rende facile la comprensione contingente. Ci consola solo, in parte, la constatazione che i giganteschi apparati di “informazione” degli Stati borghesi più spesso che no cadono nel ridicolo dichiarando tutto e il suo contrario nell’arco di poche ore e sono presi alla sprovvista da fenomeni colossali come, ultimo, la rivolta in Nordafrica.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Dimostrazione a Londra dei sindacati
Sciopero generale contro il Capitale!

Questo il volantino – titolo completo: “Per l’unità dei lavoratori al di sopra delle categorie - Per lo sciopero generale contro il Capitale” – che abbiamo distribuito a Londra il 26 marzo alla manifestazione indetta dalle Trade Unions contro i tagli imposti dal governo.

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La crisi attuale è il risultato della sovrapproduzione di merci e della tendenza del saggio di profitto a diminuire. Poiché oggi il profitto precipita e grandi quantità di merci sono a marcire nei magazzini, le forze del capitale peggiorano le condizioni della classe dei salariati, siano essi occupati o no. Sta raggiungendo un livello insopportabile il taglio dei salari, il prolungamento dell’orario di lavoro, i ritmi incalzanti, lo spostarsi dal lavoro a tempo pieno verso contratti a tempo determinato ed anche verso il lavoro non retribuito. Oltre a questo si sta riducendo anche il salario sociale, ovvero, la rete di sicurezza per il proletariato che fornisce una protezione contro malattie e invalidità, disoccupazione e povertà e, infine, contro la vecchiaia. Ora i padroni e il loro governo ci dicono che dovremo andare in pensione più tardi, pagare molti più contributi finché lavoriamo e ricevere di meno quando non potremo lavorare più. Non c’è da meravigliarsi che siamo preoccupati... e arrabbiati.

Compagni! Lavoratori!

La frenetica speculazione edilizia e la compravendita di titoli spazzatura che ha segnato l’inizio della crisi è un sintomo della crisi del capitalismo e non la sua causa. Il massiccio piano di salvataggio delle banche da parte del governo, seguito dalla figuraccia dei loro dirigenti che si regalavano bonus disgustosamente grandi, dimostra esattamente chi è che controlla questa società. Banchieri ed altri pirati che attingono alla ricchezza socialmente prodotta, stanno dicendo alla classe lavoratrice “andate a quel paese...”. Dicono i boss della finanza “noi ce la caveremo sempre, perché non sono i politici che possono comandare ai banchieri, ma siamo noi a dir loro cosa fare!”. Sta infatti diventando evidente a tutti che i partiti borghesi non sono altro che bande di speculatori, e le elezioni servono solo per scegliere chi avrà accesso alla lucrosa gestione delle attività capitalistiche.

Di fronte a questi attacchi intensificati del Capitale, i lavoratori hanno bisogno di stabilire un fronte unico per difendere la qualità della loro vita. Sarà necessario un fronte unico proletario, organizzato come classe, che incorpori sia coloro che hanno un lavoro sia chi non ce l’ha. Dovrà essere incentrato sulle reali esigenze economiche e, in prospettiva, puntare nella direzione di uno sciopero generale. I lavoratori non saranno così ingenui da consegnare il loro destino ad una varia coalizioni di partiti politici, vescovi e benefattori che si offrirebbero spontaneamente di agire per loro conto!

Compagni! Lavoratori!

In Italia, l’avanguardia dei lavoratori è stata costretta ad organizzarsi fuori e contro le organizzazioni sindacali ufficiali, come la CGIL. Questi sindacati sono chiaramente passati dalla parte della borghesia, in quanto sono disposti a modificare tutte le richieste e adattarle alle esigenze dei padroni e all’economia nazionale. Invece di limitarsi ad offrire servizi di consulenza o un’assicurazione per l’auto a basso costo eccetera, i sindacati devono ricordarsi che è la forza ad essere il fattore decisivo, come dimostra l’aumento dei salari del 15% recentemente conquistato dai dipendenti statali durante la recente sollevazione in Egitto.

La riscoperta della coscienza di classe dei lavoratori è sempre più vicina, anche in questa che si vorrebbe “società senza classi”, quando l’offensiva dei padroni diventa sempre più intensa ed evidente.

Ma per dare un senso a queste lezioni, la classe ha anche bisogno del suo partito, che agisca da depositario della sua storia, del suo passato, presente e futuro, e sia la forza che concentra la classe operaia nella sua missione storica, quella di regolare i conti con la fonte di tutti i suoi mali: il Capitalismo.
 
 
 
 
 
 
 


Lettera dall’America
Il fucile del padrone e il tradimento dei sindacati contro la lotta operaia

A Spokane, Washington – USA – ha avuto luogo una straordinaria lotta sindacale, con la solita minima attenzione a livello nazionale.

I lavoratori del caseificio Ruby Ridge lavorano in condizioni terribili: 12 ore al giorno senza pause, bevono l’acqua dagli stessi barili delle mucche, e sono costretti ad accettare un linguaggio offensivo ed insulti razziali. Quando, stanchi di sopportare questi soprusi, si sono ribellati ed hanno preteso un giusto trattamento, il padrone li ha affrontati con un’arma da fuoco. Questo Jay Gould dei nostri giorni, che fu padrone famoso per spezzare gli scioperi e ridurre le paghe, avrebbe detto: “Questo fucile è per i lavoratori che vanno con il sindacato”.

Nella ricerca di migliori condizioni i lavoratori provarono a rivolgersi al creditore della fabbrica, la Northwest Farm Credit Services, chiedendogli di tagliare i finanziamenti fino a quando le condizioni di lavoro non fossero migliorate. Non avendo ricevuto risposta il sindacato United Farm Workers ritornò alla NFCS con 30.000 firme. Come risposta, 12 lavoratori vennero licenziati dal caseificio, e nulla è stato fatto per aiutarli.

A peggiorare una situazione già pessima, il 17 febbraio scorso la Ruby Ridge ha tenuto fede alla sua minaccia portando a giudizio 17 persone. Si tratta chiaramente di una campagna intimidatoria per spaventare i lavoratori e raffrenare la loro lotta. Il sindacato UFW, va sottolineato, è stato altamente incapace. UFW è un sindacato piuttosto grande, legato ai padroni Democratici, che ha fatto ben poco per aiutare questi lavoratori.

Questa è un’ulteriore testimonianza che i lavoratori negli Stati Uniti, come ovunque nel mondo, dovranno ricostruire i loro sindacati su basi di classe per poter difendere i loro interessi. Questo significa lottare per stabilire collegamenti sempre più ampi tra i diversi settori; sganciarsi dagli stretti confini della fabbrica e dei luoghi di lavoro; sorpassare settori e regioni al fine di costruire, ancora una volta, un unico grande sindacato.

Ma questo sindacato di classe, a differenza anche di suoi grandi predecessori, che dimenticarono che la classe lavoratrice ha bisogno di combattere sia sul fronte economico sia su quello politico, dovrà arrivare a capire che la classe operaia ha un suo proprio programma politico, ed un suo partito politico, e gli obiettivi di entrambi, sindacato e partito, saranno ottenuti solamente quando lavoreranno insieme, nei rispettivi ruoli nella lotta della nostra classe.