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"Il Partito Comunista"   n° 355 - settembre-ottobre  2013[.pdf]
PAGINA 1 Taranto: La classe operaia è rivoluzionaria o non è niente.
– In Sud Africa i minatori non si fermano davanti al piombo borghese.
La Cina, in Sudan o sulla Luna, non sfugge alla crisi del Capitale.
PAGINA 2 Riunione generale di partito a Cortona, 19-20 maggio 2012 - Sulla rovina di ogni mito borghese s’innalza la incontaminata scienza rivoluzionaria marxista [RG113]:  (segue dal numero precedente) - Il Terzo libro del Capitale - Produzione e prezzo dell’oro - Il riarmo degli Stati.
PAGINA 3-4 – Rapporti coordinati alla riunione di Cortona - Imprese Banche e Stati trascinati nel turbine della crisi di sovrapproduzione del capitale: il caso Grecia: (continua dal numero scorso) Come salvare le banche - La soluzione: socializzare i debiti - Ristrutturazione o saccheggio? - Schiacciare il proletariato e la piccola borghesia solo per guadagnare tempo - Un proletariato sottomesso e disponibile a tutto - Una sola via di uscita: la rivoluzione!

 

PAGINA 1


Taranto
La classe operaia è rivoluzionaria o non è niente

I fatti erano noti a tutti. Il gigantesco impianto siderurgico di Taranto, già Italsider, statale, poi venduto ai privati come Ilva, da sempre scarica in atmosfera, in mare e probabilmente nella falda ogni genere di terribili veleni e in grandi quantità. Nei campi per un raggio di venti chilometri attorno è proibito il pascolo; e le vacche paiono più difese degli uomini visto che nessuna ordinanza proibisce di abitare nella città ionica, adiacente allo stabilimento.

Dopo decenni di denunce e di controlli addomesticati da parte degli uffici comunali provinciali e regionali, generosamente foraggiati dall’azienda, il 26 di luglio la Magistratura, accertato il largo superamento dei limiti di legge per le emissioni nocive, ha disposto il sequestro degli impianti, la fermata della produzione in alcuni reparti fino alla messa in opera di adeguate attrezzature di trattamento e contenimento.

Questa insolita sollecitudine del magistrato si può forse spiegare come pretesto ad un ridimensionamento dell’impianto, vittima dalla situazione di crisi anche del settore siderurgico: di fatto la produzione, rallentata per l’ordinanza al 50% della capacità dei forni, corrisponde giusto a quanto attualmente il mercato richiede. Marchionne del fallimento aziendale dà la colpa agli operai, Riva lo darebbe alla magistratura. Altro vantaggio per l’Ilva sono le centinaia di milioni di euro che subito lo Stato ha offerto per mettersi, senza fretta, “a norma”.

La crisi della siderurgia nei paesi di occidente è ormai di vecchia data, anche in Italia impianti storici si sono lentamente estinti, come Bagnoli, o a stento sopravvivono, come Piombino. Se il profitto per l’Ilva è tuttora notevole, il tasso del profitto, calcolato su tale massa di materie prime più l’ammortamento dei giganteschi impianti, si riduce oggi certo a poco. Il trasporto dalla Cina dei prodotti concorrenti incide troppo, ma non dalla Turchia, la Russia e l’Ucraina, dove ancora le leggi e i magistrati cos’è la diossina fanno finta di non saperlo. Questo costringe il capitale anche in Italia ad esasperare la riduzione dei costi, se possibile peggiorando ancora la situazione sanitaria in fabbrica e fuori. Per esempio al posto del carbone ora in parte si brucia il pet coke, il residuo ultimo della lavorazione del petrolio, non altrimenti utilizzabile perché contiene tutte le peggiori schifezze.

Se ne deve dedurre che, a causa di leggi economiche non aggirabili, far produrre all’Ilva acciaio senza avvelenare operai e città è capitalisticamente impossibile.

* * *

Questa drammatica situazione viene fatta apparire come una questione di competenza del giudice di fronte ad una fondamentale industria nazionale da una parte, e di salute pubblica dall’altra. Opposizione che, nei termini alla moda, oggi si presenta fra sostenitori della crescita, la ideologia classica del capitale, e quelli della de-crescita. Senza ferro niente pane, si afferma; ma è un pane avvelenato, si risponde.

È chiaro che i comunisti non si accampano né con gli uni né con gli altri e sono contro sia la crescita sia la decrescita capitalistica. Fra l’altro, oggi, nella crisi, al capitalismo restano impossibili e l’una e l’altra, stretto nella morsa di dover crescere e non poterlo fare. Il capitalismo non può non crescere, lo dimostra la sua storia secolare, anticipata nelle sue leggi economiche scoperte da Marx. Questa è stata la sua funzione rivoluzionaria, che si prolunga oggi nella continua implacabile distruzione di se stesso, spettacolo grandioso davanti gli occhi di tutti. Il capitalismo, con l’aumento della sua composizione organica, è sé che avvelena per primo.

Quindi fra ambientalisti decrescentisti e i Riva & C. crescentisti non possiamo non preferire questi. I primi, espressione della impotenza piccolo-borghese, vogliono far tornare indietro il capitalismo, pretesa reazionaria e, per fortuna, impossibile; la omicida forza infernale dei secondi lavora, suo malgrado, a farlo storicamente saltare e giorno dopo giorno apre la strada alla internazionale rivoluzione comunista.

* * *

I 12.000 operai impiegati giorno e notte all’Ilva il salario lo scambiano con un duro lavoro e con la loro salute e delle loro famiglie. A Taranto di lavoro ce n’è poco, insicuro e mal pagato, e solo all’Italsider-Ilva si trovava un impiego decente.Ora l’ordinanza del tribunale è vista come un ulteriore attacco agli operai: avvelenati e disoccupati.

Non può sfuggire loro che, non la “ambientalizzazione” dell’Ilva, ma la sua sopravvivenza dipenderà da molti milioni che lo Stato elargisca. Forse anche con il trasferimento all’estero di alcune delle lavorazioni. E sicuramente si paventa una applicazione tarentina del metodo Pomigliano, con licenziamenti, riduzione dei salari ed inasprimento degli orari e dei turni.

Dietro i venefici vapori si nascondono quindi le motivazioni della elementare lotta di classe. A risospingerla nel fumo interclassista si sono subito adoperati i sindacati di regime, e nelle false alternative e diatribe dell’ecologismo. Fim e Uilm hanno indetto scioperi, simbolici ovviamente, “contro la Magistratura”; la Fiom contro la Magistratura, invece, dice che non si mette, come se i tribunali non fossero un apparato borghese e comunque dalla parte dei padroni e come se l’Ilva la pretura di Taranto non se la possa piano piano sgranocchiare, come ha fatto finora.

I sindacati hanno sposato la tesi della difesa non dei lavoratori ma del lavoro, cioè dell’azienda, fino alla turpitudine di esprimere solidarietà ai padroni inquisiti. Su questa linea gli operai dell’Ilva non possono non trovarsi prigionieri della fabbrica e delle sue necessità, più vicini, come si vede, al padrone che ai lavoratori delle altre categorie e ai sempre più appestati proletari e piccolo borghesi tutti della città. Un atteggiamento così prono al capitale e al suo Stato che fa apparire più ardito perfino l’interclassista “Comitato cittadini liberi e pensanti”.

Nessuno dei sindacati del regime borghese ha pensato che la naturale ed ovvia rivendicazione di classe è che gli operai dell’Ilva debbono in ogni caso ricevere un salario anche durante le operazioni di adeguamento degli impianti, insieme ai disoccupati di tutte le categorie, adeguamento da esigere in difesa della loro salute.

Solo un movimento con questa impostazione e respiro, quale i sindacati attuali non faranno mai proprio, può sollevare la classe operaia da essere solo un ingranaggio del capitalismo, sottomesso materialmente ed idealmente a tutti i suoi ordini e veleni, in balia delle sue alterne necessità. La reale esistenza della classe operaia è nella sua opposizione al capitale e nella ribellione ad esso. Al di fuori di questa vera guerra sociale, che, coerentemente perseguita porta alla sua negazione rivoluzionaria, la classe operaia non è niente.
 
 
 
 
 
 


In Sud Africa i minatori non si fermano davanti al piombo borghese

I tremila trivellatori della miniera Lomnin di Marikana in Sud Africa, in sciopero a oltranza per l’aumento del salario, hanno scritto col loro coraggio e il loro sangue una nuova gloriosa pagina della lotta di classe proletaria.

Soli, hanno lottato contro tutti i nemici: l’azienda, i suoi ricatti e le sue guardie armate; il crumiraggio organizzato dal NUM, il più forte sindacato di regime del Sud Africa; lo Stato borghese e democratico che a colpi di mitra ha cercato di piegarli, uccidendo 34 di loro. Ma nemmeno questo infame massacro è servito a fermarli: lo sciopero, ad oggi, lunedì 3 settembre, e ormai da tre settimane, continua.

Nelle miniere del Sud Africa, la maggiore potenza economica del continente, nel 2008 erano impiegati 518 mila lavoratori, il 7,8% della forza lavoro del settore privato e non agricolo del paese. A questi vanno aggiunti altrettanti occupati nell’indotto.

Sulle sue preziose riserve di materie prime hanno messo le mani, fin dal XIX secolo, le maggiori potenze imperialiste, tramite le grandi aziende del settore. Lo Stato borghese sudafricano si è fatto garante dello sfruttamento dei proletari del paese per conto del capitale mondiale – prima, durante e dopo l’apartheid.

La vittoria dei lavoratori in una singola miniera, quando in palio vi è, come alla Lomnin di Marikana, non un miserrimo aumento “compatibile con l’inflazione programmata”, per dirla all’italiana, ma di ben il 300%, rappresenta una minaccia agli interessi capitalistici, perché, per il numero e la concentrazione di miniere e per le grandi tradizioni di lotta del proletariato sudafricano, c’è il rischio che si generi un generale movimento di scioperi.

Lo sciopero alla miniera di Marikana non è un episodio isolato che rompe la pace sociale e nemmeno anomalo per l’entità delle rivendicazioni, per determinazione e per la violenza che ne è conseguita. Lo scorso anno la Camera del Commercio e dell’Industria sudafricana esprimeva “preoccupazione per la violenza, i danni alla proprietà e le intimidazioni che si sono verificate nella recente ondata di scioperi”.

Inoltre, da alcuni anni, sempre più spesso i minatori in lotta si sono trovati a scontrarsi non solo con l’azienda e lo Stato, ma anche con quello che un tempo era il loro sindacato, la National Union of Mineworkers. Nel 2009 il suo presidente, Piet Matosa, nel tentativo di fermare uno sciopero alla Impala Platinum Holdings Ltd., la più grande miniera di platino al mondo, presso Rustenburg, 40 km a Nord Ovest di Marikana, con 30.000 dipendenti, di cui circa 20.000 sindacalizzati, si prese un lancio di pietre dai minatori, rischiando di perdere un occhio.

Il 17 maggio dello scorso anno, nella miniera di Karee, sempre di proprietà della Lonmin e sempre nei pressi di Marikana, i minatori sono entrati in sciopero non contro l’azienda, ma contro la direzione regionale del NUM che aveva sospeso i capi del sindacato in miniera. Essendo lo sciopero avvenuto senza preavviso, per la legislazione del Sud Africa risultava essere “non protetto”, o, come viene erroneamente detto, “illegale”: i lavoratori possono scioperare ma l’azienda è libera di licenziarli. Evidentemente i capi del sindacato in questa miniera erano i veri rappresentanti dei lavoratori se questi, a rischio del licenziamento, hanno scioperato per difenderli... dal NUM.

La Lonmin non ha perso tempo e secondo una pratica consueta nel settore minerario in Sud Africa ha licenziato il 24 maggio l’intera forza lavoro composta da 9.000 minatori, per poi, terminato lo sciopero, riassumerne una gran parte. Processo attraverso il quale l’azienda seleziona il personale e riduce i salari, perché nella riassunzione vengono perse le minime migliorie legate all’anzianità e ai premi di produzione.

Ne è risultato che la maggior parte degli iscritti ha abbandonato il NUM per aderire alla Association of Mineworkers and Construction Union, un nuovo sindacato nato nel 1998 da una scissione dal NUM e che, a dire del suo capo Joseph Mathunjwa, conta ora 5.000 iscritti alla miniera di Karee ed è quindi il primo sindacato. Commentando quanto accaduto il portavoce nazionale del NUM, Lesiba Seshoka, ha affermato che nelle miniere “sta crescendo una cultura dell’indisciplina e siamo arrivati all’anarchia”, imputando questo principalmente ai giovani operai “arrabbiati e impazienti”. Sfogo che evidenzia le difficoltà di questo sindacato di regime a mantenere il controllo sui lavoratori.

Il 20 gennaio di quest’anno 4.300 trivellatori hanno iniziato uno sciopero a oltranza alla Impala Platinum Holdings Ltd. contro un accordo sindacale, firmato dal NUM a ottobre, che prevedeva un aumento salariale solo per i livelli più alti. I trivellatori chiedevano un aumento che portasse il salario netto a 9.000 Rand, dai 3.500 attuali, quindi un aumento di quasi il 300%. Il 24 gennaio l’azienda licenziava tutti i 4.300 trivellatori ma il 30 gennaio altri 12.500 lavoratori entravano in sciopero in solidarietà coi compagni licenziati. Il NUM invece accusava i trivellatori di impedire agli altri di andare a lavorare.

La Impala Platinum imputava all’AMCU la conduzione dello sciopero, definendolo “illegale”. Pare invece che i trivellatori abbiano iniziato lo sciopero per loro conto e l’AMCU sia subentrata con l’obiettivo di ottenere dall’azienda il riconoscimento dei cosiddetti diritti sindacali. Il NUM nel 2007 aveva raggiunto un accordo che riservava la contrattazione al sindacato che avesse la metà più uno degli iscritti, quindi al NUM stesso. Richiamandosi a questo accordo l’azienda si rifiutava di contrattare coi rappresentanti dell’AMCU e con qualsiasi altro rappresentante dei lavoratori che non appartenesse al NUM. I lavoratori in sciopero risposero di non riconoscere più il NUM come loro rappresentante.

Il 3 febbraio l’azienda licenziava anche i 12.500 lavoratori entrati in sciopero in solidarietà coi trivellatori. A questo punto i 17.500 licenziati formarono dei picchetti nei pressi della miniera per impedire la ripresa dell’attività. L’azienda cercava di rompere il fronte degli scioperanti annunciando la riassunzione di circa 4.600 dei licenziati. Picchettaggi e assembramenti condussero a scontri violenti fra scioperanti e crumiri, con tre vittime. Il 17 febbraio lo sciopero diventava sommossa, con l’erezione di barricate per le vie di Rustenburg, una stazione della polizia data alle fiamme e 350 arresti. Il NUM si prodigava apertamente nell’opera di crumiraggio, invitando i lavoratori di ritornare al lavoro. Il 21 marzo l’azienda affermava di aver riassunto 8.368 lavoratori, 1.074 dei quali trivellatori. La manovra congiunta dell’azienda e del NUM aveva alla fine la meglio e il 5 marzo, dopo sei settimane, lo sciopero terminava, coi trivellatori sconfitti e circa 2.000 minatori su 12.500 non riassunti.

Presso Kroondal il 2 agosto circa 200 minatori, licenziati durante un precedente sciopero a giugno, assaltavano la miniera di platino di proprietà dell’australiana Aquarius Platinum, alcuni armati di bombe incendiarie. Negli scontri morivano tre minatori.

Lo sciopero alla Lonmin di Marikana vede una simile disposizione delle forze in campo. A scioperare il 10 agosto sono stati i lavoratori peggio pagati, i tremila trivellatori, su un totale di 28.000 minatori. Sulla base dell’esperienza accumulata in decenni di lotte, nonché nelle recentissime delle vicine miniere della Impala Platinum di Rustenburg e della Karee di Marikana, i minatori si sono radunati armati con bastoni e machete, pronti ad affrontare la polizia, i crumiri del NUM e le guardie dell’azienda.

I trivellatori rivendicano un salario di 12.500 Rand, a fronte dei circa 4.500 attuali: anche qui si richiede di triplicare il salario. L’azienda finora non si era pronunciata sulla rivendicazione, ma per essa lo ha fatto il NUM che ha definito la richiesta “non sostenibile”.

Dopo tre giorni di sciopero, il 12 agosto, sono avvenuti i primi duri scontri fra scioperanti, crumiri e polizia, con 10 vittime. Alcuni scioperanti affermano di aver visto sparare cecchini del NUM e che membri del NUM erano all’interno di blindati della polizia perché voci provenienti dal loro interno parlavano fanakalo, la lingua di uno dei gruppi etnici da cui provengono i minatori, che i poliziotti non conoscono, essendo scelti, per meglio convincerli a sparare sugli operai, da altri gruppi. I lavoratori non si sono affatto limitati a difendersi: due poliziotti sono stati uccisi e forse anche due guardie di sicurezza, e fra le vittime operaie non si sa quali siano scioperanti e quali crumiri.

L’azienda, la stampa borghese, il NUM e il Partito Comunista del Sud Africa hanno descritto questi scontri come una lotta fra i militanti del NUM e quelli dell’AMCU, puntando il dito contro quest’ultimo. Ma i lavoratori, come è emerso nel seguito dello sciopero, se da un lato hanno cacciato il NUM, nemmeno hanno scelto come proprio sindacato l’AMCU né suoi rappresentanti come capi. Sicuramente, come avvenuto allo sciopero all’Impala Platinum, l’AMCU ha guadagnato consensi. Sarà da vedere se questo sindacato non è riuscito ad ottenere la fiducia dei minatori in sciopero oppure non ha voluto rappresentarli e, in questa ipotesi, se lo ha fatto per non esporsi troppo, fintantoché non dispone di forze adeguate a reggere uno scontro con il NUM, le compagnie minerarie e lo Stato borghese, o se perché, a questo scontro, non intende affatto arrivare, mirando invece a sostituire il NUM nel ruolo di sindacato concertativo e di regime. Pubblicamente l’AMCU riconosce la validità delle rivendicazioni dei trivellatori, i suoi militanti sono parte attiva dello sciopero, ma si dichiara estraneo alle violenze e rispettoso della legalità.

Il 16 agosto, dopo sei giorni di sciopero, la polizia ha aperto il fuoco su un gruppo di diverse decine di minatori con mitra, fucili e pistole. Alla fine si sono contati 34 morti. Diverse testimonianze sostengono che molti sarebbero stati uccisi successivamente, in una caccia all’uomo con investimenti di blindati e ulteriori colpi d’arma da fuoco ben mirati.

Ma a noi non interessa soffermarci sulle atrocità, evidenti, compiute dal nemico di classe, invocando una giustizia che non può esserci in una società divisa in classi. E non crediamo che, una volta dimostrato quanto sanguinari siano i borghesi, allora la cosiddetta “società civile” indignata muova un dito a difesa degli operai. Anche se le autopsie provano che la maggior parte dei minatori è stata colpita alla schiena, questo non ci porta a chiamarli vittime e innocenti: i lavoratori sono certamente colpevoli delle accuse loro rivolte, di difendere la loro vita, con i mezzi necessari per farlo, in questa e mille battaglie passate e future.

La polizia accusa i lavoratori di averla attaccata. Bene, va a loro onore! Sono questo coraggio e questa determinazione che rendono i proletari più vicini alla loro liberazione, cioè all’abbattimento del capitalismo, non il mostrarsi vittime, di un regime che è e non può non essere brutale e spietato, perché fondato sulla difesa del profitto. Pare che i trivellatori, dal primo giorno dello sciopero accampati su di una collina nei pressi della miniera, siano stati accerchiati e attaccati con gas lacrimogeni e idranti, sparati da blindati e da due elicotteri, e sospinti verso le postazioni della polizia pronta a sparare. Forse questi operai, armati di machete, hanno deciso di lanciarsi in attacco e rompere l’accerchiamento per poi, di fronte al fuoco di sbarramento, battere in ritirata volgendo la schiena alle mitragliatrici. Non una fuga come animali braccati, secondo la versione pietistica di chi spaccia l’oppio della pace democratica fra le classi.

Lo prova che non sono bastati 40 morti a fermare i minatori. Lo sciopero continua con adesione totale a due settimane dal massacro e a tre dal suo inizio. L’ultimo dato di venerdì 31 agosto indica una presenza alla miniera del 7% del personale, presumibilmente i capi, e perciò il totale blocco dell’attività produttiva. Ciò dimostra che i lavoratori erano consapevoli di rischiare la vita ed erano pronti ad affrontare il piombo borghese.

La fine dell’apartheid e la democrazia non hanno scalfito la continuità della statale dittatura borghese sul proletariato, dittatura che è di classe e non di razza. È per mistificare questa realtà che il governo, di “sinistra”, in Sud Africa, alleanza fra l’African National Congress e lo stalinista South African Communist Party, vorrebbe far apparire il massacro come una disgrazia, una anomalia da chiarire con l’inchiesta, invece che l’inevitabile prodotto dello sfruttamento capitalistico.

In realtà la borghesia sudafricana ora è in grande apprensione. Dopo gli scioperi di questi ultimi anni, in particolare quelli sopra accennati, in cui il sistema di controllo dei lavoratori attraverso il sindacato di regime si è dimostrato inefficace, perché gli operai chiedevano un salario adeguato non alle necessità dell’economia nazionale, cioè del capitalismo, ma a quelle della loro vita, per la borghesia è necessario dare un segnale, sparando piombo sui minatori, per rassicurare gli investitori nazionali e internazionali che i profitti non sono in pericolo e che il paese continuerà a fornir loro disciplinati schiavi-salariati a basso prezzo.

Questo non è bastato, e già adesso si hanno notizie di analoghe rivendicazioni: alla miniera di Thembelani, poco a Nord di Marikana, di proprietà della Anglo American Platinum, il più grande produttore mondiale, alla miniera di Rasimone della Royal Bafokeng Platinum, vicino alla Impala Platinum e oltre la cosiddetta “cintura del platino” nella miniera d’oro KDC a Ovest di Joannesburg.

I minatori in Sud Africa non hanno perso né una battaglia né, tantomeno, la loro guerra, che è la stessa medesima degli schiavi-salariati di tutti i paesi, qualunque sia il colore della loro pelle.
 
 
 
 
 
 


La Cina, in Sudan o sulla Luna, non sfugge alla crisi del capitale

Di recente, Wen Jiabao e Li Keqiang, rispettivamente Premier e Vice Premier della Repubblica Popolare Cinese, senza motivo alcuno detta “comunista”, hanno affrontato un intenso viaggio in Europa e in Russia. Gli enormi profitti accumulati dalla borghesia cinese le consentono di recitare la parte del leone e di investire in tutti i settori e in tutte le parti del mondo: energia, infrastrutture, banche, armi, tecnologia. Come sempre, tutto fa... Capitale.

L’incontro tra il premier cinese Hu Jintao e il presidente del Sud Sudan Salva Kiir a Pechino è una conferma dell’impegno della Cina per estendere la sua influenza anche sul continente africano. Vi si è affrontato il tema della rivalità tra il Sudan e il nuovo Stato del Sud Sudan, da poco separatisi con la proclamazione di indipendenza del Sud nel luglio 2011 in seguito al referendum del gennaio.

Salva Hiir ha messo in evidenza l’inerzia da parte della comunità internazionale nei confronti di Khartoum, che continua a sferrare attacchi lungo il confine, nonostante il ritiro delle truppe sudsudanesi da Heglig. Gli ultimi raid hanno fatto seguito a quelli di metà aprile su Bentiu, capitale dello Stato di al-Wahda, lontana 25 chilometri dalla linea del fronte: i bombardamenti hanno causato vittime e molti feriti sia tra i soldati sia tra la popolazione. Il tutto nella più totale indifferenza dei media del moderno e democratico occidente.

Ma Kiir non si è limitato a chiedere il sostegno di Pechino nel conflitto. Il suo viaggio era finalizzato soprattutto a ad ottenere maggiori investimenti. Kiir ha chiesto alla Cina di finanziare un grande oleodotto, infrastruttura strategica, per la quale i cinesi hanno già fornito supporto tecnico, che permetterebbe al Sud Sudan di esportare il petrolio senza dover sottostare alle esose richieste di Khartoum per il passaggio nelle condutture che dal Sud giungono a Port Sudan, nel Nord del paese.

È chiaro che il rampante capitalismo cinese punta in alto. E non è solo per modo di dire. Il 24 ottobre 2007 dal centro di lancio di Xichang in Cina era decollato “Chang’e 1”, sonda progettata per orbitare attorno al satellite lunare per un anno e rilevare una mappa tridimensionale della sua superficie per individuare i punti più adatti ad un atterraggio. Nel 2010 è stata lanciata con gli stessi scopi la sonda “Chang’e 2” e nel 2013 ne verrà lanciata una terza.

Nemmeno il capitalismo indiano intende restare indietro: Nuova Delhi ha stanziato 1,7 miliardi di sterline (circa 2 miliardi di euro) per un suo programma spaziale. Vorrebbe puntare all’obiettivo, del tutto propagandistico, di lanciare un primo astronauta “nazionale” nel 2015 e di farne sbarcare un altro sulla Luna nel 2020.

Qui ci scappa un ghigno: il Capitale potrà anche sbarcare sulla Luna o su Marte, ma non potrà mai sfuggire alle sue, terrestri e pedestri, contraddizioni, e alla sua condanna storica. Queste acrobazie militar-tecnologiche non possono non apparire ai sempre più diseredati del mondo, e alla scienza marxista, quello che sono, le ultime convulsioni di un malato terminale.
 
 
 
 
 
 
 

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Riunione generale di partito a Cortona 19-20 maggio 2012
Sulla rovina di ogni mito borghese s’innalza la incontaminata scienza rivoluzionaria marxista
[RG113]
Sommario e prima parte

Completiamo qui il resoconto della riunione a Cortona

IL TERZO LIBRO DEL CAPITALE

Il rapporto del mese di maggio sullo sviluppo della crisi, nei suoi aspetti finanziari, si è mosso su un terreno che non è quello della nostra teoria; in particolare è stato affrontato, sia pure ad un livello molto semplificato, ma non superficiale, il tema della contabilità capitalista dello Stato borghese, con le relazioni basilari che la caratterizzano. Pur da semplici dilettanti della materia, per evidenziare la profondità della crisi in atto, le sue apparenti motivazioni – effetti per noi, per loro cause – ci siamo mossi sul loro terreno: alla lunga anche le loro stesse “formule e relazioni” portano alla luce le contraddizioni profonde ed insanabili del sistema economico che pretendono di spiegare e governare, e ne smascherano l’essenza non riformabile, non sanabile.

Lo spunto ci è stato offerto da un “fondo” pubblicato su un giornale della sinistra borghese – la più infame, ai nostri occhi – nel quale venivano ripresentate, per contrastare la crisi del credito, le solite ricette dell’equilibrio nel movimento dei capitali, dello squilibrio nell’area europea della bilancia delle partite correnti a tutto favore della Germania ed a sfavore degli altri europei, dell’assurdo di ricercare la crescita attraverso il solo strumento dell’austerità e del risparmio, troppo da una parte e drammaticamente insufficiente da altre, sulla tesaurizzazione del sistema bancario a danno degli investimenti produttivi, sulla soluzione che può essere trovata solo a livello europeo e non alla scala dei singoli Stati, e sui drammi che sarebbero causati dal crollo dell’euro.

Illuminante ed impietosa, nel suo cinismo, l’osservazione che «una volta, per recuperare il divario (tra le diverse economie statali) si svalutava il cambio. Oggi si svalutano i salari o si aumenta la produttività».

Ed infine la panacea per tutti i mali: una “bad bank” in cui far confluire tutti gli attivi a rischio, con il finanziamento tramite la gran medicina degli “eurobond” – obbligazioni emesse dalla BCE, garantite quindi, udite udite, dagli Stati europei più in “salute” – per togliere spazzatura ed incagli dalle banche... Il solito trucco di socializzare le perdite, mettendole in capo, questa volta, ad una “superbanca centrale”.

Da tutte le formule presentate, è inutile andare a chiedersi da dove venga fuori il valore, cosa produca, nel ciclo economico, la ricchezza. Si trattano astratti flussi finanziari, che sorgono da imprecisate e non importanti sorgenti, e neppure ha senso chiedersi come, e dove in sostanza vadano a finire. Risparmio, reddito e consumo travestono algidamente le dinamiche della produzione, del valore, dei giochi finanziari; ma del resto, cosa si pretende di più da un “bilancio”? e borghese, per giunta!

Secondo questa schematizzazione, è il sistema finanziario, vero e proprio snodo fondamentale del meccanismo economico, che opera da collettore dei risparmi verso gli investimenti. Qui risparmio ed investimenti coincidono.

Per le nazioni, gli scambi che hanno verso “l’esterno” si complicano leggermente. Soldi che entrano ed escono in relazione a fattori diversi e da differenti sorgenti/destinazioni. La dinamica dei flussi finanziari in ingresso ed uscita, la relazione fondamentale sulla quale si incentra tutta la faccenda della comprensione della salute delle economie in funzione degli scambi internazionali, è quella del Saldo delle Partite Correnti. Il tutto misurato, come è ovvio, mediante l’equivalente generale, a misura di tutte le cose nel campo economico, il denaro.

Dunque, il SdPC è la somma della massa delle Esportazioni (in valore), dedotta la massa delle Importazioni – e questa differenza costituisce il Saldo Commerciale – a cui si deve inoltre aggiungere il saldo (saldo, sia chiaro, positivo o negativo) dei Redditi Netti dall’Estero (RNE), saldo dei redditi da lavoro e da capitale che si scambiano tra le nazioni; qui dentro ci stanno anche i flussi dei redditi da turismo dall’estero, ma è poca roba, fortemente stagionale, rispetto alle altre due voci preponderanti di gran lunga. È insomma quel che “gira” in termini di capitali tra le economie nazionali.

Il saldo RNE è un dato molto importante da prendere in considerazione per i livelli attuali di debito/credito degli Stati con l’estero. I redditi da lavoro sono abbastanza stabili e di entità enormemente inferiore ai movimenti di capitale, che costituiscono quindi la voce principale.

Ed allora Saldo delle Partite Correnti negativo significa, importazione di troppe merci e “importazione” – chiamiamola così – di “troppi” capitali; maggiormente, in questa situazione, pagamenti netti di interessi e profitti per i capitali esteri operanti nel territorio, quindi interessi pagati all’estero, interessi sul debito estero, in generale.

Questa variabile, per l’economia degli Stati capitalistici, rapportata come d’abitudine al PIL per correlarlo alla potenzialità economica generale, è molto importante perché mostra chiaramente la dipendenza non solo economica, ma anche finanziaria, di un paese dal resto del mondo; produzione e finanziamento.

Nella contabilità borghese è, o dovrebbe essere, uno degli indicatori principali per comprendere le dinamiche finanziarie tra gli Stati, assieme alla Posizione Netta sull’Estero, differenza, rapportata al Pil, tra i debiti finanziari verso l’estero e i crediti, il saldo fra la valutazione delle Attività e delle Passività finanziarie sull’Estero.

Per rendere evidente la tragedia di Grecia, dal punto di vista di questa contabilità borghese, sono stati presentati dei grafici, in particolare uno che correlava Investimenti, Risparmi e Saldo delle Partite Correnti, da cui risultava evidente che almeno fin dall’inizio degli anni 2000, in special modo dal 2005, la Grecia sarebbe entrata in una grave, poi gravissima crisi sul proprio debito verso l’estero. Un ulteriore grafico, per il Saldo Commerciale, i Redditi netti dall’Estero e il Saldo delle partite correnti, che evidenziava impietosamente che almeno dal 2004 la Grecia era presa irrimediabilmente nella spirale del debito estero; senza ragionevole speranza di poterlo saldare.

Si è poi evidenziato che questo debito era in massima parte non debito pubblico ma privato, e quanto fosse un’affermazione truffaldina quella per cui la Grecia – come l’Italia – avrebbe dilapidato i benefici derivanti dall’ingresso nell’euro, in termini di calo dei tassi di interesse.

Per le banche straniere, tedesche in specie, era molto più conveniente, in termini di tassi di cambio “fissi” – moneta unica – ma “variabili” per l’interesse, ed in presenza di un differenziale di inflazione a tutto svantaggio per la Grecia, prestare a greci invece che a tedeschi, indebitandoli fino all’estremo, perché poi ci sarebbe stato qualcuno, comunque, che avrebbe pagato per loro, o che avrebbe messo una toppa. Tutti sapevano, i dati erano parlanti e pubblici, non c’era da prefigurarsi cose particolari.

È il “Gioco delle Sedie Musicali” descritto da Keynes nel lontano ‘900 per spiegare, con una amara metafora, il comportamento della finanza. Tutti ballano al suono della musica, e tutti sanno perfettamente che ad un certo punto l’orchestra smetterà di suonare. Ma ognuno continua a ballare, non può fare altro, pronto a gettarsi sulla prima sedia disponibile quando tacerà la musica, nella speranza di non essere lui a rimanere in piedi.

Non c’è ragionevolezza, non calcolo razionale, non previsione, nella ricerca del profitto. La bolla si deve gonfiare fino allo scoppio, e il debitore strangolato a suon di interessi, anche se poi non potrà più restituire il capitale.
 

PRODUZIONE E PREZZO DELL’ORO

Come argomento collegato, è seguita una breve esposizione di materiale statistico sul corso del prezzo e sulla produzione dell’oro, che vistose oscillazioni hanno marcato negli ultimi anni.

La produzione sembra presentare un ciclo nella produzione abbastanza regolare, della durata medie di 32 anni.

Per l’esaurirsi dei vecchi giacimenti e la difficile scoperta di nuovi è probabile una caduta della produzione aurifera, a fronte di un aumento della domanda, soprattutto da parte di due nuovi grandi acquirenti: India e Cina. Ciò potrebbe portare, oltre alla normale spinta speculativa nei tempi di crisi, ad una tendenza all’aumento del prezzo.

Un primo grafico ha illustrato la produzione mondiale di oro a partire dal 1840 fino al 2004, che dimostrava l’andamento regolare dei cicli produttivi e la coincidenza dei minimi con le guerre, a partire da quella franco-prussiana del 1870 ed infine la coincidenza dei picchi produttivi con l’adozione delle politiche monetarie, il Gold Standard e le crisi petrolifere.

Altri dati riferivano le quote dei maggiori produttori, Cina di molto in testa. Seguiva la tabella sulle riserve auree da cui risulta che tutti gli Stati negli ultimi anni le hanno di molto ridotte.

In ultimo l’andamento del prezzo dell’oro, con andamento storico fin dal 1300. Dal 2000 al 2011 il prezzo del metallo è cresciuto di circa 6 volte passando dai 280 ai 1600 dollari per oncia.
 

IL RIARMO DEGLI STATI

È proseguito l’aggiornamento sui rapporti di forza militare fra gli imperialismi.

Pur nella loro estrema sintesi i dati diffusi dallo Stockholm International Peace Research Institute nel marzo scorso sono rivelatori dei grandi cambiamenti che stanno avvenendo nei rapporti di forza tra gli Stati imperialisti a livello mondiale.

La Cina e, più recentemente, l’India sono ormai grandi potenze e reclamano con sempre maggior forza un diverso accesso ai mercati e alle fonti di materie prime, più favorevole alle loro economie. Negli ultimi anni – complice anche la crisi di sovrapproduzione che ha colpito per primi gli Stati di più vecchio capitalismo, come gli Stati uniti d’America e l’Europa – la Cina, l’India e altri paesi di non trascurabile peso, come il Pakistan ad esempio, hanno fatto grandi passi in avanti anche sul piano del rafforzamento del proprio apparato militare.

Nonostante questo rafforzamento, gli Stati Uniti restano di gran lunga il primo imperialismo, l’unico in grado di intervenire con le sole proprie forze in ogni parte del mondo in tempi rapidi, e rimangono dunque i principali difensori dello status quo.

La recente dichiarazione di Obama riguardo al riorientamento della forza militare degli Stati Uniti per rafforzare la presenza di Washingthon nel Pacifico, delegando agli altri Paesi della Nato maggiori funzioni nella difesa dell’Europa e del Medio Oriente, è la presa d’atto di questo cambiamento nei rapporti di forza nel mondo.

L’avversario principale di Washington è Pechino. La Cina, infatti, prima e più dell’India, è oggi impegnata in un processo di riappropriazione di zone di influenza che le sono indispensabili per assicurare i rifornimenti per l’apparato industriale e favorirne la vendita delle merci.

Il rafforzamento della sua presenza nel Mare Cinese meridionale e nell’Oceano Indiano; la dura condanna di Pechino alla proibizione di Washington all’acquisto del petrolio iraniano; la ferma posizione della Cina e della Russia riguardo ad un eventuale intervento occidentale in Siria, sono al momento i punti più evidenti di una contrapposizione destinata a farsi sempre più aspra nella misura in cui il divario delle forze tra le due potenze andrà riducendosi e la crisi renderà intollerabile la pace borghese.

Siamo quindi passati all’analisi dei dati diffusi dal SIPRI.

La spesa per armamenti nell’anno 2011 per i 15 Stati che nel mondo spendono di più, in dollari correnti al valore del 2011, dà questo ordine:

Gli Stati Uniti d’America, con 711 miliardi di dollari, sono al primo posto e staccano ancora di gran lunga la Cina che, con 143 miliardi, si piazza al secondo posto; la Russia con una spesa della metà di quella cinese, è al terzo posto (72 miliardi); al quarto posto la Gran Bretagna (63 miliardi) e al quinto posto, con una spesa pressoché uguale, la Francia (62 miliardi); al sesto posto il Giappone (59 miliardi), al settimo l’Arabia Saudita (48 miliardi); solo all’ottavo posto l’India con 47 miliardi; la Germania con 47 miliardi è al nono posto; seguono poi il Brasile (35 miliardi); l’Italia (34 miliardi); la Corea del Sud (31 miliardi); l’Australia (27 miliardi); il Canada (25 miliardi) e infine la Turchia con 18 miliardi.

Se la stessa spesa per armamenti viene calcolata anche a parità di potere d’acquisto (PPP), cioè non semplicemente basandosi sul tasso di cambio della moneta ma considerando altri fattori economici come il costo del lavoro o delle materie prime nel Paese, la classifica cambia completamente: al primo posto restano gli USA (711 miliardi) sempre seguiti a grande distanza dalla Cina, che però vede quasi raddoppiato il suo bilancio militare rispetto al calcolo precedente (228 miliardi); al terzo posto troviamo l’India (112 miliardi) che nella prima classifica occupava l’ottavo posto, seguita da presso dalla Russia (94 miliardi) scesa dal terzo al quarto posto; al quinto posto l’Arabia Saudita (59 miliardi) la cui rendita petrolifera viene così in parte restituita all’Occidente; al sesto posto la Gran Bretagna (57 miliardi) e al settimo la Francia (50 miliardi); seguono il Giappone (45 miliardi), la Corea del Sud (42 miliardi) e la Germania (40 miliardi); in fondo alla lista Brasile, Italia, Turchia, Canada e Australia.

Molto interessante, tra i dati diffusi dal SIPRI, anche una colonna che riporta il cambiamento della percentuale di spesa per questi stessi paesi dal 2002 al 2011: al primo posto la Cina che risulta aver aumentato la sua spesa militare in 10 anni di ben il 170%; al secondo posto l’Arabia Saudita col 90%; la Russia si colloca al terzo posto con un buon 79% di aumento della spesa militare; gli USA, che hanno aumentato la loro spesa del 59%, sono al quarto posto, ma in termini assoluti sono il paese che ha riarmato più di tutti gli altri; l’India ha aumentato la sua spesa della stessa percentuale, 59%, ma in termini assoluti si tratta di una cifra molto minore; il Canada ha una percentuale simile, 53%; seguono Corea del Sud (45%) e Australia (37%); il Brasile (19%) e infine la Gran Bretagna ha speso in armamenti un modesto 18% in più. Tra i paesi che, sotto la pressione della crisi economica, hanno dovuto ridurre la spesa militare troviamo al primo posto l’Italia con un -21%, seguita dalla Turchia (-12%); dalla Germania (-3,7%), dal Giappone (-2,5%) e infine dalla Francia con un timido -0,6%.

Questi 15 paesi spendono attualmente in armamenti l’82% della spesa mondiale, 1.422 miliardi su 1.735 totali. Essi costituiscono dunque quel pugno di Stati imperialisti che si spartiscono i mercati e le fonti di materie prime con il loro peso economico, politico e militare.

I cinque Paesi che esportano più armi nel mondo sono, in ordine di grandezza gli Stati Uniti che si accaparrano il 30% dell’export mondiale, la Russia col 24%, la Germania col 9%, la Francia con l’8% e la Gran Bretagna col 4%.

Nel decennio 2002-2012 il volume delle esportazioni degli Stati Uniti è aumentato del 24% ed esportano soprattutto in Corea del Sud (13%), Australia (10%), Emirati Arabi Uniti (7%); le esportazioni di armi dalla Russia hanno subito un incremento del 12% e con principali acquirenti l’India, che ne assorbe un terzo, la Cina (16%), l’Algeria (14%); il volume delle esportazioni della Germania è aumentato del 37%, esportando soprattutto in Europa e la Grecia è il principale acquirente (13%), secondo la Corea del Sud (10%) e poi il Sud Africa (8%);

il volume delle esportazioni francesi è aumentato del 12% con principali clienti Singapore (20%), la Grecia (10%), il Marocco (8%); la percentuale delle esportazioni inglesi è cresciuta nel periodo solo del 2% esportando in Arabia Saudita (28%), negli USA (21%), in India (15%).

I 5 paesi che acquistano più armi sono l’India, che riceve il 10% dell’intero import mondiale, la Corea del Sud col 6%, il Pakistan col 5%, la Cina col 5% e, inaspettatamente, il piccolo Stato di Singapore col 4%.

Per l’India il principale fornitore è la Russia che vende a Nuova Delhi l’80% del materiale militare; la Corea del Sud si approvvigiona quasi esclusivamente dagli Stati uniti che le forniscono il 74% dell’import; il Pakistan riceve ormai quasi la metà delle forniture militari dalla Cina (42%), mentre gli Stati Uniti sono al secondo posto col 36%; la Cina riceve dalla Russia quasi tutto il materiale militare che importa (78%).

Singapore riceve il 43% del suo import in armamenti dagli Stati Uniti e il 36% dalla Francia. La città-Stato un anno fa ha concesso l’ancoraggio permanente nel suo porto di due navi da combattimento statunitensi, così diventando di fatto una base per la marina Usa. Questo accordo, unito a quello con l’Australia per lo stazionamento permanente di 2.500 marines nel nord del continente e quello ancora più recente di cooperazione militare con le Filippine, si inquadra nella volontà americana di creare uno sbarramento all’espansione cinese nel sud-est asiatico.
 
 
 
 
 

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Rapporti coordinati alla riunione di Cortona
Imprese Banche e Stati trascinati nel turbine della crisi di sovrapproduzione del capitale: il caso Grecia

(Continua dal numero scorso)
 

COME SALVARE LE BANCHE

L’istogramma che segue è interessante per molti aspetti, perché mostra l’ammontare dei crediti detenuti dalle banche dei diversi Stati nei confronti dei tre paesi debitori che sono sul punto di dover dichiarare la sospensione dei pagamenti: Grecia, Irlanda e Portogallo. Per avere una più completa visione della dimensione del rischio avremmo dovuto aggiungere la Spagna. Questi paesi non possono più rifinanziarsi sul mercato e devono ricorrere al Fondo Europeo per la Stabilità Finanziaria, detto Fondo “Salva Stati”.

Secondo il giornale “Mediapart” del 1° gennaio 2011, «alla fine del 2009 i crediti delle banche europee verso Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna rappresentano non meno del 14% del PIL dell’UE». Questa percentuale è notevole e spiega i timori della BCE. In Europa quelle più coinvolte sono le banche tedesche e inglesi, esposte rispettivamente per 249 e 243 miliardi di dollari, seguite dalle banche francesi, con 153 miliardi, e da quelle spagnole, anch’esse fortemente coinvolte soprattutto per crediti inesigibili nell’immobiliare per almeno 80 miliardi di euro. Per questo la Spagna è sulla stessa china di Grecia e Irlanda, una situazione certamente peggiore del Portogallo. Fuori d’Europa le banche che vantano più crediti nei confronti dei quattro paesi sono quelle degli Stati Uniti con 193 miliardi.Un’altra caratteristica interessante è che il debito pubblico, del quale molto si è parlato, è basso rispetto al debito totale, che comprende i debiti privati.

Il debito pubblico complessivo detenuto dalle banche di Irlanda Grecia e Portogallo ha raggiunto i 92 miliardi di dollari, mentre il debito totale è di 1.022 miliardi di dollari. Quindi, per sottrazione, il debito del settore privato è circa 930 miliardi. Il rapporto tra debito pubblico e privato è dunque di 1 a 10. Il debito pubblico è in gran parte detenuto da società di assicurazione e da fondi pensione.

Le banche possiedono pochissimi fondi propri in contanti, tra il 2 e il 3% dei loro cespiti, mentre il resto è costituito da titoli di ogni tipo: obbligazioni, azioni, effetti, tutti nient’altro che crediti. Quando, a seguito di una crisi, le aziende che hanno emesso quei titoli falliscono, le azioni perdono velocemente il loro valore, le famiglie non possono più onorare i loro debiti e, peggio, falliscono gli Stati, tutto il castello di carte su cui si basa il sistema capitalistico crollerebbe. È questo che avviene durante la crisi, soprattutto se persiste nel tempo e si allarga a scala internazionale.

Riportiamo una serie di curve che rappresentano il debito privato, purtroppo senza il debito delle istituzioni finanziarie.

Confrontando queste curve con quella del debito pubblico si può immediatamente vedere il cambiamento di scala: quella del debito pubblico va fino al 180%, quella del debito privato arriva al 350%. Gli Stati più indebitati sono l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna. Il debito di Italia e Grecia è più o meno equivalente alla metà degli altri tre. La crisi ha causato un forte aumento dell’indebitamento privato in Irlanda (il rapporto passa dal 189% nel 2007 a 293% nel 2010), al contrario per gli altri Paesi non vi è un cambiamento significativo, se non in seguito alla recessione; dal 2009 il debito tende a seguire una linea orizzontale e non diminuisce. A questo riguardo la Grecia fa eccezione, il debito privato risulta infatti inferiore a quello pubblico: nei due anni di crisi, 2008 e 2009, si è arrivati pressoché alla parità ma successivamente il debito pubblico è letteralmente esploso. Ecco i numeri:

GRECIA - INDEBITAMENTO IN PERCENTUALE DEL PIL
 Debito 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011
- pubblico 94,0 103,4 103,7 101,7 97,4 98,6 100,0 106,1 107,4 113,0 129,4 145,0 165,3
- privato 49,3 58,0 64,8 68,1 71,8 78,3 89,9 97,7 107,2 119,0 122,4 125,2 125,0

Ciò che conta non è tanto il rapporto tra debito e PIL, quanto la capacità di rimborsare il debito. Lo Stato argentino, quando si dichiarò in fallimento, era indebitato solo per il 30% del PIL; la Spagna ha oggi un debito pubblico di quasi il 70%, ma potrebbe raggiungere il 79% alla fine del 2012. Il debito della Francia per esempio è circa l’86% e probabilmente potrà superare il 90% alla fine del 2012. La capacità di rimborso è determinata dalla forza economica del paese, dalla sua bilancia commerciale e dalla bilancia dei pagamenti, e per lo Stato dal suo equilibrio di bilancio. Ma per la Grecia, come per la Spagna, il deficit di bilancio era considerevole e resta tale. Al contrario l’Italia ha un enorme debito pubblico, ma un deficit di bilancio basso, del 3,9% del PIL nel 2011, contro poco più del 5% in Francia, ad esempio.

Un altro fattore da tenere presente, che differenzia il settore pubblico da quello privato, è che quest’ultimo vede il suo debito generalmente diminuire durante le recessioni a causa dei fallimenti delle imprese e della loro liquidazione giudiziaria con i depositi bancari e i beni sequestrati per pagare i creditori. Anche le famiglie vedono le proprietà pignorate e i redditi requisiti, finendo in mezzo alla strada.

Ma non si possono sequestrare gli Stati. Se uno Stato come la Grecia dichiarasse la sospensione del pagamento del debito e tornasse alla valuta nazionale, non ci sarebbe solo il default sui titoli di Stato, ma le cambiali private, quando e se rimborsate, lo sarebbero in una moneta nazionale svalutata del 50 o del 70%. Questo spiega le paure della borghesia europea che si trova presa in un meccanismo infernale, quello della crisi del capitalismo europeo e mondiale che, originato dalla crisi di sovrapproduzione per la caduta tendenziale del saggio di profitto, sta adesso colpendo il capitale finanziario.

Quando in Europa si bloccassero interi settori del sistema bancario, con essi si fermerebbe l’insieme dell’economia: l’accumulazione del capitale non può realizzarsi senza il sistema del credito. Senza il credito la produzione si ferma perché nessuno ha i mezzi di pagamento sufficienti: né il capitalista che deve anticipare i salari e l’acquisto delle materie prime, spesso prima di aver incassato il prezzo di vendita delle merci prodotte nel ciclo precedente, né il commerciante che deve acquistare prima di aver venduto, e così via. Si arriva rapidamente ad una situazione di sovrapproduzione, la produzione si arresta, con la paralisi dell’intero sistema.

La BCE e il governo francese non sono stati gli unici a opporsi a qualsiasi dichiarazione anche parziale di mancato rimborso del debito da parte della Grecia. Anche il governo greco si è fermamente opposto finché ha potuto, perché, come abbiamo sottolineato, le banche greche sono pesantemente coinvolte in prestiti allo Stato, per una cifra di circa 50 miliardi di euro. La borghesia greca preferisce mettere alla fame la popolazione e soprattutto il proletariato, piuttosto che vedere la rovina del suo sistema finanziario e con essa la paralisi del suo intero modo di produzione.

Alla fine del 2011 è apparso a tutti evidente che la situazione diventava ingestibile: da 300 miliardi di euro, il debito greco saliva allora a 350 miliardi arrivando allegramente al 150% del PIL. Sotto la pressione degli eventi la BCE, il governo francese e i governanti greci si sono dovuti arrendere all’evidenza ed accettare i termini richiesti dal cancelliere Merkel.

Sotto forma di accordi, senza dichiarare in bancarotta lo Stato greco, e senza costrizioni apparenti sui finanziatori privati è stata organizzata una riduzione del debito greco ritagliata su misura per togliere da questo pasticcio le banche europee, soprattutto quelle francesi e tedesche. I borghesi tedeschi, da buoni protestanti, hanno presentato all’opinione pubblica questo sconto sulle obbligazioni come una punizione per i finanziatori che hanno prestato denaro incautamente.
 

LA SOLUZIONE: SOCIALIZZARE I DEBITI

Dopo mesi di negoziati tra i governi, la BCE e il FMI, e in seguito con gli istituti finanziari che detenevano il debito dello Stato greco, nel febbraio 2012 è stata attuata la riduzione del debito greco. Non conosciamo i dettagli della contrattazione, né il metodo di calcolo utilizzato, ed anche le informazioni da parte della stampa sono state piuttosto contraddittorie. Tuttavia, riferendoci ai dati Eurostat e ad alcuni dati che sembrano sicuri, possiamo comporre un quadro abbastanza realistico.

Sappiamo da Eurostat che all’inizio del 2012 il debito pubblico della Grecia era di 355 miliardi di euro. D’altra parte la BCE ne deteneva titoli per un valore iniziale di 47 miliardi di euro. Inoltre, notizia ripetuta spesso sulla stampa, dei 110 miliardi promessi dall’Europa, solo 73 erano stati effettivamente utilizzati.

A questo punto, sottraendo dai 355 miliardi il valore dei titoli detenuti dalla BCE (47 miliardi) e la somma stanziata dal Fondo Europeo per la Stabilità Finanziaria (73 miliardi), si ottiene la differenza di 235 miliardi di titoli detenuti da banche ed organismi privati.

Questo debito è stato deprezzato del 53,5%, che dà una devalorizzazione di 126 miliardi di euro e riporta il valore delle obbligazioni a 109 miliardi. Sarebbero 107 miliardi secondo la stampa, o almeno questo è il valore che viene citato più spesso. La BCE, per parte sua, ha accettato “generosamente” che gli oltre 47 miliardi di obbligazioni che detiene vengano scambiate al prezzo che ha pagato, vale a dire 40 miliardi di euro, ma non si discute nemmeno di scontare quest’ultima somma. Il che porta il debito a 220 miliardi di euro. La tabella che segue, mostra la ripartizione del debito tra i diversi organismi prima e dopo l’intervento.

RIPARTIZIONE DEL DEBITO GRECO
miliardi di euro
 
 Totale 
   BCE 
  FESF 
Privato
Prima
355
47
73
235
Dopo
220
40
73
107

Nella tabella seguente indichiamo ciò che sappiamo della ripartizione del debito privato.

La voce “Altri organismi greci” riguarda essenzialmente i Fondi Pensione che detengono 21 miliardi di dollari di obbligazioni. L’operazione di “sconto” non è stata esente da problemi e due Fondi Pensione minori hanno rifiutato di partecipare ai negoziati.

Per “Altro” intendiamo le compagnie di assicurazione, Fondi Pensione di altri Stati, le banche nordamericane e gli hedge fund, i fondi speculativi. In un articolo di giornale si poteva leggere che le compagnie assicurative europee detenevano circa 20 miliardi di euro di questa parte del debito.

RIPARTIZIONE DEL DEBITO PRIVATO GRECO
miliardi di euro
Banche europee
Banche greche
Altri organismi greci
Altri
52
50
30
103

Dopo questa operazione la Grecia si ritrova con un debito “ridotto” di 220 miliardi di euro, ma aggiungendo a questa somma il nuovo prestito di 130 miliardi concesso dall’Europa, si ritorna al punto di partenza: 220 + 130 = 350! La Grecia dopo l’operazione di ristrutturazione del debito si ritrova con lo stesso debito di prima.

Ma allora, qual’è stato lo scopo di questa ristrutturazione? Lo scopo è molto chiaro, trasferire il rischio dal privato al pubblico. In caso di default della Grecia il rischio per le banche sarà ridotto e saranno gli Stati europei che ne sopporteranno le spese, vale a dire in ultima analisi, il proletariato d’Europa! Questo è ciò che chiamano la socializzazione del debito. Questo è quello che le classi dominanti hanno fatto in Irlanda e Spagna, dove hanno trasferito i debiti, in tutto o in parte, dalle banche al dominio pubblico. Da qui è derivato il brutale e improvviso aumento dell’indebitamento di questi Stati.

Ecco l’analisi che ha fatto il giornale “Les Echos”, di orientamento liberale, in un articolo del 12 marzo 2012: «Il successo dell’operazione di cancellazione del debito tra Atene ed i suoi creditori privati porta in prima linea i creditori pubblici. “Il debito greco sta passando dalle mani private a quelle pubbliche, vale a dire all’FMI, all’Unione Europea, al Fondo europeo di stabilità (EFSF), e alla Banca Centrale Europea”, spiega Ioannis Sokos, di BNP Paribas. Secondo lui, la quota di debito detenuta dal settore pubblico salirà al 75% (quando il nuovo piano di aiuti finirà), contro il 35% di oggi (poco prima dello scambio dei titoli). L’EFSF sarà di gran lunga il più grande creditore di Atene, con un’esposizione di 167 miliardi di euro. I nuovi titoli di Stato greci emessi oggi per gli investitori rappresenteranno solo il 18% del debito nel 2015».

È evidente che lo scopo dell’operazione è stato quello di trasferire il peso del debito greco, e quindi il rischio, sulle spalle degli Stati, e quindi, in ultima analisi, su quelle della classe operaia, perché sarà ad essa che le classi dominanti presenteranno il conto in caso di fallimento.
 

RISTRUTTURAZIONE O SACCHEGGIO ?

Ma non è tutto, ci sono parecchie osservazioni da fare su questa operazione.

In primo luogo le banche e gli altri enti finanziari hanno ricevuto, in cambio delle loro vecchie obbligazioni svalutate, 30 miliardi di obbligazioni a breve termine del FSEF e il resto, cioè 77 miliardi (107 meno 30) in nuove obbligazioni greche a 30 anni i cui interessi saranno pagati in base al seguente calendario: i primi 3 anni i creditori dovrebbero ricevere il 2% di interesse, nei 5 anni seguenti il 3% e il 4,3% per i 22 anni che rimangono. Dunque, se tutto questo meccanismo andrà avanti, il che è ben lungi dall’essere sicuro, i creditori dovrebbero incassare:

77 M. euro x 0,02  x  3 anni =  4,62 M. euro
77 M. euro x 0,03  x  5 anni = 11,55 M. euro
77 M. euro x 0,043 x 22 anni = 72,84 M. euro
                      Totale = 89,01 M. euro

Alla fine dei 30 anni lo Stato greco avrà pagato 89 miliardi di interessi e dovrà anche rimborsare il prestito iniziale di 77 miliardi. Bisogna considerare infatti che, trattandosi di obbligazioni, durante il periodo del prestito il debitore rimborsa solo gli interessi e alla fine il capitale. Gli interessi dunque sono calcolati sull’insieme del capitale per tutto il periodo richiesto per la restituzione.

Ma lo strangolamento dello Stato greco e gli imbrogli non si fermano qui. Vediamo infatti a cosa servono i 130 miliardi di prestiti supplementari: 5 miliardi saranno utilizzati per pagare gli interessi in sospeso e 30 miliardi saranno pagati direttamente al FESF per rimborsare i 30 miliardi di titoli dati in cambio delle vecchie obbligazioni. Dunque i miliardi prestati non sono 130 ma solo 100. Inoltre 23 miliardi saranno versati direttamente alle banche per la loro ricapitalizzazione, cifra che potrà essere portata a 50 miliardi. Questo significa che lo Stato greco si ritrova con un debito di ben 75 miliardi invece dei 50 miliardi di euro dovuti prima della ristrutturazione del debito. Di questi 75 miliardi, 25 risultano dallo sconto che deve comunque alle banche greche, più 50 (di regalo alle banche) che deve al FESF.

Restano dunque solo 45 miliardi per portare avanti il piano previsto fino al 2015 quando, grazie a questa cura da cavallo, il paziente dovrebbe essere miracolosamente guarito.

Secondo i dati Eurostat lo Stato greco dopo la crisi del 2009 ha costantemente ridotto il suo disavanzo primario di bilancio, vale a dire il deficit senza gli interessi passivi sul debito, ma nonostante questo gli interessi aumentano. La tabella che segue riporta i dati del debito greco dal 2007 al 2011.

DEFICIT DI BILANCIO DELLO STATO GRECO
miliardi di euro
 
2007
2008
2009
2010
2011
Deficit primario
-4,467
-11,149
-24,651
-11,658
-3,788
Interessi
-10,680
-11,940
-11,920
-13,210
-16,000
Deficit totale
-15,151
-23,086
-36,566
-24,463
-19,788

Gli interessi da rimborsare sono saliti costantemente, da quasi 12 miliardi nel 2009 a 16 miliardi nel 2011, mentre il disavanzo primario è sceso da 24 miliardi nel 2009 a 3,7 nel 2011. In questo modo il disavanzo complessivo, in seguito all’aumento degli interessi passivi, rimane significativo anche se il disavanzo primario diminuisce e si avvicina a zero. Inoltre, con la contrazione del PIL a causa della recessione, il deficit in percentuale sul PIL potrebbe addirittura aumentare.

Un punto interessante riguarda il rifinanziamento delle banche.

Lo Stato greco in cambio dei 50 miliardi di euro che verserà alle banche riceverà delle azioni, e diventerà quindi azionista delle banche che avrà ricapitalizzato, ma queste azioni saranno azioni ordinarie, vale a dire che lo Stato greco non avrà voce in capitolo sulle banche greche per le quali si è pesantemente indebitato!

I nostri borghesi della Troika potranno sempre dire che lo Stato riscuoterà gli interessi; ma nonostante questo è lo Stato che ha contratto un debito di 50 miliardi di Euro per ridare fiato a queste famose banche ed è evidentemente il proletariato greco che ne sta pagando e ne pagherà il conto.

È evidente che il governo greco è d’accordo con tutti questi imbrogli e il salvataggio delle banche è stata la conditio sine qua non perché fosse accettata la ristrutturazione del debito.
 

SCHIACCIARE IL PROLETARIATO E LA PICCOLA BORGHESIA SOLO PER GUADAGNARE TEMPO

Per concludere sulla ristrutturazione del debito greco detenuto dall’Europa, ecco cosa dice Mitu Gulati, professore di diritto, che ha gettato le basi per la riduzione del debito greco, intervistato da “Les Echos” del 29 maggio:

     «Ci si può dispiacere che ci sia voluto tanto tempo per prendere coscienza della necessità di ristrutturare il debito greco. Sarebbe stato necessario che il processo fosse stato lanciato entro la metà del 2010 (...) Agendo con maggiore tempestività si sarebbero potuti evitare costi aggiuntivi ai governi della zona euro e anche le misure di austerità imposte ai Greci avrebbero potuto essere meno pesanti. Ma la BCE è stata totalmente contraria all’idea di una ristrutturazione del debito, per paura del contagio. Col senno di poi, si può invece constatare che a provocare il contagio è stato proprio questo rifiuto ad agire in fretta. Un altro fattore aggravante apparso chiaramente è che il governo greco non ha avuto alcun controllo sugli accordi per la ristrutturazione del debito.
     «Il fatto è che quando un Paese affronta una grave crisi, prima decide di smettere di pagare i suoi creditori e quindi avvia un negoziato per la ristrutturazione. In questo modo, i creditori sono spinti a cercare di raggiungere un accordo per poter riscuotere almeno una parte dei loro crediti.
     «Nel caso della Grecia, è successo il contrario. La Grecia stava negoziando mentre continuava a pagare i creditori, i quali quindi avevano tutto l’interesse a tirare in lungo le trattative.
     «Per Atene, questo ha rappresentato un costo da 60 a 80 miliardi di euro e indubbiamente il governo greco avrebbe potuto utilizzare meglio questi fondi.
     «Inoltre, l’idea che gli investitori avrebbero dovuto partecipare “volontariamente” alla ristrutturazione del debito – un’idea per mesi sostenuta dai leader europei – non aveva senso perché come possiamo essere certi che una banca che avesse accettato questo principio, avrebbe potuto davvero scambiare i propri titoli, mentre avrebbe potuto venderli prima, altrettanto bene, ad un hedge fund?».
Ecco dunque che il governo greco si è fatto strappare via dalla Troika da 60 ad 80 miliardi di euro, niente meno! Il cosiddetto aiuto dell’Europa e del FMI può riassumersi dunque così: saccheggio, truffe e attacco bestiale al proletariato e alla piccola borghesia greca. L’Europa sostiene la Grecia come la corda sostiene l’impiccato.

Questi accordi draconiani consentiranno alla Grecia di allontanarsi dal baratro? Nemmeno per sogno! L’unico risultato di queste misure di austerità è un aggravio della recessione, che a sua volta provoca un aumento del deficit, gettando nella miseria gran parte della popolazione greca. Il piano della Troika è totalmente irrealistico, e loro lo sanno.

Ecco cosa ne pensano alcuni economisti di tendenza liberale. Isabelle Couet, “Les Echos” del 3 marzo:

«C’è un’alta probabilità di un ulteriore sacrificio per i creditori di Atene fra alcuni anni. A questo proposito la pubblicazione del PIL, venerdì, è stata un triste presagio. L’attività nel 2011 si è contratta del 7,5% mentre nella sua prima relazione la Troika (UE, FMI e BCE) aveva previsto una contrazione del 2,6%. Le stime di crescita a medio termine sono troppo ottimistiche – afferma Jacques Cailloux della Royal Bank of Scotland – noi ci aspettiamo una crescita del 2,5% a partire dal 2015, mentre la Troika dichiara il 4%. Altra ipotesi irrealistica, secondo l’economista, riguarda il saldo primario (cioè il saldo di bilancio al netto degli interessi sul debito). Lo scenario di un avanzo primario medio del 4,5% tra il 2014 e il 2020 non è ragionevole. Senza ulteriori aiuti il livello del debito rispetto al PIL raggiungerà il 160% nel 2020».
Vogliamo riportare anche un intervista al capo economista di Royal Bank of Scotland, pubblicata su “Les Echos” del 22 febbraio:
«Le ipotesi formulate dalla Troika sulla traiettoria del debito sovrano greco mi sembrano eccessivamente ottimistiche. Vorrei aggiungere che il varo di un vero e proprio “Piano Marshall” con, per esempio, 100 miliardi di investimenti produttivi avrebbe permesso di risolvere rapidamente i problemi economici del Paese. Nei fatti l’accordo dell’Eurogruppo fa solo guadagnare tempo per evitare un fallimento disordinato del Paese. A vostro parere dunque – chiede il giornalista – non è certo che il debito greco possa tornare al 120% del PIL nel 2020, come previsto nell’accordo? Sicuramente – risponde il dirigente di RBS – Lo scenario di base della Troika prevede tra il 2014 e il 2019 un tasso di crescita del Pil greco vicino al 3% ogni anno. La cosa mi sembra troppo ottimistica. Inoltre, questo scenario di base prevede anche il raggiungimento, nello stesso periodo, di un avanzo primario di bilancio di più di 4 punti di PIL. Si tratta di obbiettivi difficili da rispettare in tempi di austerità fiscale e di adeguamento strutturale. A ciò si deve aggiungere che il governo prevede di abbassare di 10 punti percentuali le spese pubbliche strutturali, mentre negli ultimi tre anni sono rimaste sostanzialmente invariate e sono ad oggi leggermente al di sopra del 42% del PIL».
E Jean Marc Vittori sempre da “Les Echos” del 22 febbraio, scrive:
«Il debito pubblico della Grecia si è ridotto appena di un buon quarto. Esso resta troppo elevato rispetto ai mezzi del paese. Poi ci vorranno più soldi del previsto per ricapitalizzare le banche in Grecia, mentre le privatizzazioni renderanno ancora di meno rispetto al dato già rivisto verso il basso. Infine, la crescita non può tornare in Grecia a breve termine. Gli esperti della Commissione prevedono il suo ritorno nel 2014 dopo una caduta dell’attività molto più grave del previsto. L’ipotesi di un 3% di crescita dal 2015 sembra irrealistica. La Troika dei creditori pubblici (Unione Europea, FMI e BCE) lo chiarisce nel suo rapporto confidenziale: c’è una “tensione fondamentale” irrisolta tra la riduzione del deficit pubblico e il miglioramento della competitività del Paese, perché questo miglioramento passa attraverso la riduzione dei salari e dei prezzi che inevitabilmente farà salire il peso del debito in rapporto al PIL.
«In queste condizioni si sarebbe tentati di concludere dell’inutilità di questi salvataggi, che non funzionano mai. Niente di più falso, perché in questo processo lungo, doloroso e caotico l’Europa guadagna una materia inestimabile: il tempo. Il tempo per i prestatori privati, di assuefarsi alla prospettiva di perdere praticamente tutti i soldi investiti imprudentemente in Grecia. Il tempo per le banche di ammortizzare lo choc, scaglionando, trimestre dopo trimestre, le perdite sui loro prestiti ellenici».
Sottovalutazione della gravità della crisi, sovrastima della crescita tra il 2014 e il 2020 e delle possibilità di avere un avanzo primario per ripagare il debito; tutta questa operazione appare senza scopo. Perché dunque si impongono tutte queste sofferenze alla popolazione e soprattutto al proletariato greco? Lo scopo è solo di guadagnare tempo ed evitare un’esplosione del sistema finanziario europeo. Ma, nonostante tutti questi espedienti, non sarà comunque evitata!
 

UN PROLETARIATO SOTTOMESSO E DISPONIBILE A TUTTO

Per renderci conto della gravità della recessione in Grecia, basta guardare i dati relativi alla produzione industriale. La curva del diagramma che segue, disegnata sulla base dei dati forniti dall’ONU, rappresenta gli incrementi percentuali della produzione industriale greca dal 2000.

La produzione industriale, rispetto al massimo raggiunto nel 2007, nel 2009 era inferiore del 13%, nel 2011 del 25% e si può prevedere che nel 2012 lo sarà del 34%.

Questa drammatica caduta si riflette sul PIL, anche se, come abbiamo spiegato in altre occasioni, il PIL non dà affatto una misura dell’andamento dell’economia reale del paese poiché i valori e le modalità con cui è calcolato sono in parte truccati.

La Grecia non è sola in questa situazione disastrosa; Spagna, Portogallo, Irlanda sono nelle stesse condizioni. Il Portogallo, rispetto al massimo del 2007, nel 2009 ha visto la produzione industriale ridursi del 13% e, dopo un rialzo nel 2010, si è nuovamente ridotta del 13% nel 2011. Una proiezione della tendenza dà -15% per il 2012. In Spagna la situazione è ancora più grave e assai vicina a quella della Grecia: nel 2009 -22%, nel 2011 -23% e nel 2012 sicuramente -25%. In Irlanda la situazione a prima vista sembrerebbe migliore: nel 2009 -6,6%; nel 2011 + 0,6%; per il 2012 la proiezione dà ancora un +0,5%.

Inoltre, la Spagna, l’Irlanda e il Portogallo, accanto a un debito pubblico che sta crescendo, nonostante tutti i giri di vite, hanno un considerevole debito privato: in Spagna gli ultimi dati che abbiamo risalgono al 2010 e indicano un tasso di debito privato del 224% del PIL; per il Portogallo abbiamo lo stesso tasso; per l’Irlanda il tasso sale vertiginosamente al 293% nel 2010! Quanto alla disoccupazione, raggiunge quasi il 25% della forza lavoro in Spagna e oltre il 22% in Grecia.

Di fronte a questa situazione catastrofica, qual’è la soluzione della borghesia europea? Aumentare la competitività esasperando l’oppressione sul proletariato. Si tratta di dare maggior flessibilità “al mercato del lavoro” consentendo ai capitalisti di licenziare senza problemi e di generalizzare la pratica dei contratti a tempo determinato. Vogliono arrivare ad un sistema che permetta senza alcuna formalità di assumere un lavoratore quando sia necessario al padrone e di licenziarlo quando non se ne ha più bisogno.

Funziona già così per una parte del proletariato, la borghesia ed i suoi lacchè vogliono estenderlo, se possibile, a tutti i lavoratori; secondo loro è una questione di “giustizia”. La Grecia, il Portogallo, la Spagna, sono utilizzati come laboratori dove sperimentare questa politica. Negli ultimi tempi sono apparsi sulla stampa numerosi articoli che trattano della “flessibilità” del mercato del lavoro, della necessità di romperne le “rigidità”, e via di questo passo. Questo pretendono la BCE e i governi quando affermano che una delle priorità per rilanciare l’economia è la “ristrutturazione” del mercato del lavoro.

La società borghese non ha più i mezzi per accollarsi una massa crescente di disoccupati. Per stimolare l’accumulazione di capitale deve sostenere il tasso del profitto che compensi l’inevitabile sua tendenza al ribasso. Per arrivare a questo non c’è che una strada: aumentare il saggio del plusvalore abbassando i salari ed aumentando la durata e l’intensità del lavoro; occorre rendere più facile licenziare ed assumere operai, secondo le necessità dell’azienda; sostituire gli accordi nazionali e di categoria con accordi a livello aziendale e contratti di lavoro individuali.

È chiaro! Dal 1974 il capitalismo è alla sua quarta recessione globale e la borghesia è pronta a tutto per salvare il suo sistema economico e i suoi privilegi di classe. Oggi non esita a spingere cinicamente nella miseria ampi settori del proletariato greco, spagnolo, portoghese e irlandese, domani sarà la volta del proletariato italiano, francese e tedesco.
 

UNA SOLA VIA DI USCITA: LA RIVOLUZIONE !

Al proletariato di questi paesi si richiedono ancora sacrifici in nome di una futura ripresa dell’economia e, domani, di condizioni di vita e di lavoro migliori. Ma una eventuale ripresa economica, che sembra molto improbabile, sarebbe di breve durata e poco slancio.

I cicli economici variano da una durata di 7 a 10 anni e, a volte sono anche più brevi, di soli 5 anni. L’ultimo ciclo è terminato nel 2007, l’attuale si concluderà intorno al 2014-2017, ma forse anche prima. Come abbiamo accennato all’inizio di questo articolo, la crescita della produzione industriale è stata molto debole tra il 2000 e il 2007, o addirittura negativa nel caso dell’Inghilterra e dell’Italia e oggi, dopo la modesta ripresa nel 2010-2011, si è ben lontani dal massimo raggiunto nel 2007 (o addirittura nel 2000 per l’Inghilterra e l’Italia). Quindi possiamo aspettarci l’arrivo di una nuova recessione senza che ci sia stata nel frattempo una reale ripresa. L’Europa è di nuovo ufficialmente in recessione e a scala mondiale si assiste ad un significativo rallentamento del processo di accumulazione del capitale, segno dell’avvicinarsi di una nuova crisi di sovrapproduzione, con una grave crisi del capitale finanziario.

A cosa servono dunque questi sacrifici? Gli Stati di Spagna e di Irlanda, che avevano approfittato del ciclo precedente per sdebitarsi, si trovano oggi fortemente indebitati e in una situazione prossima al fallimento. La crisi che sta per venire, e che verrà questa volta con molta probabilità dalla Cina, sarà terribile. Questa volta, gli Stati non potranno più ricorrere all’indebitamento per evitarla.

La borghesia vuole far sudare sangue e lacrime al proletariato per salvare il suo modo di produzione. Ma che interesse hanno i lavoratori a sacrificarsi, a vivere come cani per mantenere questo modo di produzione basato sullo sfruttamento del lavoro salariato?

Il capitalismo ha svolto il suo ruolo storico di socializzazione delle forze produttive, e terminata questa funzione è diventato un modo di produzione obsoleto e reazionario che fa regredire l’umanità, l’abbrutisce e distrugge le fonti stesse della vita. Raggiunto lo stadio imperialista questo sistema produttivo non ha più nulla da offrire all’umanità e può sopravvivere solo scatenando periodiche guerre mondiali che permettano, dopo terribili distruzioni e massacri, di avviare un nuovo ciclo produttivo di plusvalore. A settant’anni dall’ultimo conflitto mondiale l’umanità si trova nuovamente sull’orlo di un nuovo scontro globale, ancora più terribile e distruttivo, i cui prodromi già si annunciano con i focolai di guerra costantemente accesi in Medio e in Estremo Oriente.

La borghesia, il cui destino è legato a questo modo di produzione, è diventata non solo una classe reazionaria, ma totalmente inutile e parassitaria. I lavoratori salariati costituiscono ormai la stragrande maggioranza della popolazione attiva. Tuttavia, larghi strati di loro sono “imborghesiti” per il possesso di riserve che danno loro uno spirito piccolo borghese e li rendono esitanti ed incapaci di solidarietà nella lotta. È questa la situazione che è alla base della stabilità della società borghese. Ma è una situazione che va rapidamente cambiando e gli strati di aristocrazia operaia si troveranno presto nella stessa miseria della maggioranza dei proletari.

Il proletariato, che vive del suo lavoro e non pesa sulle spalle delle altre classi, fa funzionare tutta la società e produce tutta la ricchezza. Esso non ha niente da perdere se non le proprie catene e ha tutto un mondo da guadagnare. Per far uscire l’umanità intera da questa manifesta crisi irreversibile del Capitalismo a livello mondiale, Rivoluzione proletaria, internazionale, comunista!