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"COMUNISMO" n. 52 - agosto 2002
LA TECNICA
DALL’UBBIDIENZA AL CAPITALE
AL SOCIALISTA PIANO DI SPECIE
Serie di rapporti esposti alle riunioni di Napoli, Torino, Firenze e Genova, dal maggio 2000 al gennaio 2002



 
 
 
 

FORZE E FORME DELLA PRODUZIONE - La presunta autonomia della Scienza.
MANO-LAVORO-SCIENZA : Storica separazione della Scienza e sua opposizione al Lavoro - All’inizio era l’Azione
MOLOC O SALVEZZA ?
MA LE CLASSI CI SONO ANCORA... : La Scienza Computazionale - Pasti, telematici, gratis - Camaleonti, Ricci, Castori - Le Biotecnologie - Dalla Natura al Lavoro.
LA TECNICA NEL SOCIALISMO : Staliniani capovolgimenti - Verso il Piano di Specie - Energia, Massa, Accelerazione.
– SCHEMI GRAFICI:   - Il Prodotto del Pensiero nella concezione idealistica borghese
 - La Auto-produzione dell’Uomo nella lettura marxista (.pdf).
Dall’Archivio della Sinistra :
     - Sul Filo del Tempo - ANIMA DEL CAVALLO VAPORE (da: il Programma Comunista n.5/1953): IERI: L’uomo e la macchina - Lavoro ed energia - L’autocrate di fabbrica - Macchina e rivoluzione - OGGI: Dal cavallo al kilowatt - Pianificazione non è socialismo! - Pensiero e storia
     - Sul Filo del Tempo - FANTASIME CARLAILIANE (da: il Programma Comunista n.9/1953): Produzione, Scienza, Arte - Fecondità del numerus.
     - HANNO INVENTATO IL PANE CONGELATO (da: il Programma Comunista n.7/1954)
     - RAPPORTO ALLA RIUNIONE DI PIOMBINO (da: il Programma Comunista n.20/1957): Il mito dell’automazione - Processo di lavoro e macchinismo - L’alleanza Ricardo-Marx - Lavoro oggettivato e lavoro vivente - Nefasti del lavoro morto - Lavoro morto e scienza morta - Palingenesi del lavoro oggettivato - La trasformazione è esplosa - Un secolo di conflitto teorico - Keynesiano benessere - La putrefatta formula trinitaria.

 
 
 
 
 
 


FORZE E FORME DELLA PRODUZIONE
 

I fenomeni dell’evoluzione tecnica, che si svolge sotto i nostri occhi, potranno essere dominati e compresi solo sull’onda della rivoluzione proletaria.

L’atteggiamento borghese in rapporto alla tecnica assume invece oggi connotati ambigui o estremi: ci sono correnti che la osteggiano, altre che la considerano capace di risolvere ogni problema. Infine ci siamo noi comunisti, consapevoli criticamente che non esiste una tecnica in sé, ma esiste un livello di capacità di produrre e modi o rapporti di produzione, secondo i quali le tecniche di vario genere sono organizzate dalle classi, in un determinato ordine di subordinazione sociale. È questo che ci caratterizza, e che comporta per gli avversari una grande difficoltà, poiché non siamo disposti a ragionare in termini generici o astratti, di favore o di odio preconcetto in rapporto alle macchine.

A differenza di tutti siamo della convinzione che le forze produttive, ad un certo grado del loro sviluppo, non possono essere contenute all’interno dei vecchi e angusti rapporti di produzione. Quando la società è gravida, inevitabilmente, ad un certo punto, si fanno sentire le doglie del parto, ed una nuova società, fondata su nuovi rapporti, sta per nascere.

Si potrà dire che il parto è stato e sarà, storicamente, travagliato, ma dominare la tecnica moderna sarà possibile solo da parte di una nuova classe, non da un nuovo pensiero borghese o piccolo borghese che non si lasci sopraffare dalle macchine, la grande paura tipica di chi non sa vedere via d’uscita alla pressione del Capitale morto che fagocita e vive di lavoro vivo.

Rappresentare la Tecnica come il grande Golem invincibile, non è altro che la costruzione d’un idolo al quale sacrificare perché si plachi. Né è certo questa la dinamica e la dialettica capace di dare prospettiva al proletariato e, per esso, all’intera specie umana. La tecnica non è una struttura totalizzante ormai vincente ed insuperabile, come si cerca di fargli credere. Chi finge di non vedere il nesso tra forze produttive e rapporti di produzione è condannato a inventarsi l’Idolo, allo stesso modo in cui modi di produzione passati, incapaci di vedere la fine dello schiavismo antico, hanno dovuto spiegare tutto con l’avvento di un messianico Salvatore, da alcuni atteso ed accolto, da altri giustiziato.

Mentre il Partito, in rapporto ai processi della scienza, ne condivide la materia oggetto e sulla quale agisce per trasformarla, non può però far sua la forma che assume nel modo di produzione capitalistico. Il materialismo dialettico non nega alla scienza questa oggettività e questo atteggiamento, riconoscendogli una sua autonomia, distinta dall’ideologia borghese in generale, ma neghiamo da sempre, ed in maniera recisa, che possa darsi una scienza della natura e della società di tipo neutrale, al di sopra delle classi.

Una volta che si accetti e si entri nella lettura marxista della tecnica, ogni interpretazione o descrizione avversa risulta senza spessore e incapace di rendere ragione della dinamica interna alla produzione materiale della vita. La preoccupazione di non poter far fronte e di controllare le innovazioni tecnologiche, come oggi vengono definite, è il prodotto della debolezza oggettiva e storica della classe borghese, prima che del suo pensiero.

Il mito moderno, dal Faust ai rifacimenti più o meno suggestivi della nostra meno geniale cultura, hanno per oggetto la minaccia incombente su ogni ritrovato tecnico: l’alambicco che potrebbe esplodere, la scoperta che potrebbe mutare e sconvolgere la vita nelle forme già note, fino alla catastrofe che si può accompagnare alle possibilità distruttive dell’energia. Non sono forse, tutte, varianti del mito di Prometeo, a noi così familiare e caro?

Non è dato alla classe dominante dominare, anche a livello concettuale, la tecnica in quanto le forze produttive sono il fatto dinamico e solo relativamente controllabili in confronto ai rapporti di produzione, che costituiscono la forma che la realtà materiale “artificiale” assume nel rapporto sociale. La portata delle forze produttive costituisce l’elemento esplosivo, che mentre rompe il guscio delle costituite forme sociali di produzione, soltanto attraverso processi rivoluzionari si accomoda e si cristallizza in rapporti di produzione, all’interno solo dei quali l’elemento volontario è in grado di esercitare la sua influenza ed il suo controllo. La tecnica, come prodotto della mano sociale, può sfuggire al suo controllo: è quello che infatti continuamente accade nel modo di vita capitalistico.

Che cosa ci fa credere che il socialismo sarà in grado di dare forma e sicurezza, in modo che i rimedi della tecnica non siano peggiori del male per il quale sono stati inventati e messi in atto? Lo potremmo dedurre in negativo, dalla descrizione critica del vigente e debordante capitalismo.

Non esiste una tecnica al di sopra delle classi, frutto dell’ingegno umano generico. Ed invece la più diffusa delle imposture sembra, oggi come mai, imperversare: la tecnica libererà l’uomo dalle sue miserie e dalla sue difficoltà. L’operazione discende dalla rappresentazione che della realtà, sia naturale sia sociale, ha teso a dare storicamente la borghesia: nascondere le sue contraddizioni di base attraverso il mito della scienza e della tecnica, evitando di mettere in luce i rapporti sociali e la proprietà dei mezzi di produzione, dando a credere che il complesso sociale agisca e produca senza interne divisioni.

Ove questo è avvenuto, come nella società organica primitiva, ciò non trova obbiezioni da parte nostra; ma che la moderna società sia divisa in classi, non è scoperta di Marx, il quale onestamente lo riconosce, né gli stessi sostenitori del Capitale, oggi, lo disconoscono, semplicemente, respingendone le conseguenze logiche, negano che possa inficiare tutto l’apparato sia produttivo sia distributivo. La tecnica e la scienza avrebbero, secondo loro, il potere di non tener conto di queste fratture, anzi sanarle come se fossero un farmaco naturale.

Il cuore del materialismo storico è invece questo: la classe socialmente dominante sottomette, plasma ed organizza le forze produttive tecniche al fine della conservazione del suo privilegio; non c’è scoperta o ritrovato della tecnica che possa sfuggire a questa necessità. Perfino, anzi particolarmente, i centri di ricerca, dipinti come luoghi protetti dal turbine degli egoismi e degli interessi, in cui non ci si curerebbe d’altro che di trovare la verità delle cose, per poi applicarla all’approntamento di strumenti utili all’umanità, sono non solo condizionati, ma determinati dalle fonti di finanziamento che provengono dall’apparato produttivo più vasto, dal Capitale come sistema di vita sociale complessiva. Ciò è talmente evidente che non avrebbe bisogno di spiegazioni. L’analisi che del Capitale ha fatto Marx costituisce l’organica rappresentazione scientifica dei processi attraverso i quali il lavoro salariato, il capitale variabile, viene assoggettato al capitale costante in tutte le sue forme, da quelle del lavoro di fabbrica, ai banchi della ricerca più sofisticata.

Il Capitale, avido solo di profitto aziendale e immediato, facilmente sottomette tecnica e scienza in quanto, detenendo i mezzi di produzione e ogni ricchezza, può sempre corrompere i dirigenti dei centri di ricerca e costringere a mal progettare e mal dirigere i suoi tecnici-salariati. È questo fenomeno odioso ed evidente a tutti, perfino a molti dei tecnici e degli scienziati, diciamo così, onesti di questa società, tanto da diventare vox populi e oggetto di ripetute ed insistenti denunce retoriche, tanto ipocrite quanto impotenti. Infatti l’azienda che diversamente si portasse soccomberebbe. Ma, per altro verso, la violenza ottusa ed interessata del Capitale sul fare e sul conoscere umano si attua per via più profonda, sottile, sconosciuta e involontaria per gli stessi borghesi, attraverso le tare della loro intelligenza di classe che si manifestano in superstizioni, pregiudizi, insensibilità e in una massa di veri e propri sistematici errori. Un determinato astigmatismo di classe colpisce i suoi studiosi e i suoi progettisti. Questo dall’interno del sistema isolato, dall’interno della società del capitale,èdifficile da rilevare, come difficile sarebbe spiegare in un istituto per ciechi che il blu non è verde. Solo la borghesia rivoluzionaria, a suo tempo, poté vedere, e denunciare, i marchiani errori della scolastica medioevale in astronomia, medicina, ecc., mentre gli eruditi cardinali erano davvero convinti, e con prove, le loro mal interpretate prove, che la Terra se ne stesse nell’Universo ferma.

Se ce ne fosse bisogno un’altra conferma dell’assurdità del principio democratico: le classi avverse non si comprenderanno né convinceranno mai.

Ne deduciamo la previsione che, come il comunismo è l’uscita dalla preistoria umana, così si farà Scienza e davvero critica delle superstizioni attuali, peggiori, ne siamo certi, di quelle degli antichi sacerdoti, solo in una società post-salariale e post-mercantile e che solo in quel ritrovato non lacerato vivere la tecnica sarà volta davvero alla riduzione dello sforzo e della durata del lavoro.
 
 

La presunta autonomia della Scienza

Nonostante l’indeterminismo di moda, la dura legge del lavoro non è ancora riuscita a sottrarsi, in regime capitalistico, alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Ogni innovazione tecnica, scarnificata dai suoi aspetti fenomenici e dalle sue brillanti confezioni, porta con sé lo stigma e la dannazione della reazione a tale legge. Non c’è scoperta che possa vantare di essersi sottratta a questa sua legge di gravità, al pesante tributo alle ferree leggi del mercato. Questo ha inteso sostenere Marx in tutta la sua opera, insistentemente attento alla scienza, alle scoperte sulla dialettica della natura, da quella di Darwin e quelle di Morgan. Nessun indifferentismo da parte nostra nei confronti delle rivoluzioni alle quali è sottoposta senza tregua la produzione e la riproduzione del Capitale; ma senza deflettere dal ribadire che solo quella proletaria, che è sociale, cioè politica e non semplicemente tecnica, sarà in grado di sottrarre il lavoro alla condanna cui lo sottopone il regime di fabbrica.

Lo stesso susseguirsi delle rivoluzioni tecniche, da quella basilare della macchina a vapore, che permise il decollo del moderno capitalismo, fino alle ultime, come quella informatica e telematica, indicano che gli stessi settori di attività e di ricerca nei quali è andato ad invischiarsi il Capitale, non sono mai stati liberi o frutto di casualità: ogni apparente casualismo delle scoperte è stato premuto ed accompagnato da una forza più potente d’ogni serendipity, la nuova illusione che sembra animare le speranze degli scienziati senza principi, e cioè l’idea di affidarsi al caso, alla fortuna, che avrebbero il potere di far ottenere ciò che mai ci si sarebbe aspettati.

Quando ci presentano la scoperta del nuovo mondo da parte di Colombo, come il frutto del caso, mentre sembra attendibile dal momento che egli si aspettava di raggiungere le Indie, si dimentica che, nonostante l’insufficienza delle loro nozioni fisiche e veri e propri errori di calcolo geografico, le potenze del tempo erano alla ricerca dell’oro, come imponeva lo sviluppo del mercato del tempo in Europa. Qualunque potesse essere la terra da scoprire, l’imperativo era trovare oro! E l’oro fu trovato. Dunque, alla nostra scuola, si tratta di andare un po’ più in profondità in rapporto alle comuni e scontate ragioni ideologiche, religiose, politiche di superficie, o d’altro genere.

Le stesse caravelle, presentate poeticamente come dei fragili navigli, sono ben decodificabili, a livello tecnico, alla luce dello sviluppo delle forze produttive del tempo. Un’ovvietà, naturalmente, ma molto più seria della serendipity che stupisce gli epistemologi, gli studiosi di storia della scienza, a scarso di idee e di serietà investigativa. Se è vero che la penicillina venne scoperta per caso da Fleming, è anche vero che lo scienziato si trovava, non per caso, tra le muffe che avevano attratto la sua curiosità ed attenzione. Così, mentre oggi si vanta la telematica come la quintessenza delle mirabilie, non si ammettere che la ricerca matematica e logica è da quasi un secolo attivata, non tanto o semplicemente in nome della conoscenza pura, ma da spinte materiali che le chiedono di stringere i tempi, rimboccarsi le maniche, e trovare il modo di rendere applicabile la matematica al mondo delle macchine, in modo da realizzare strumenti che rallentino la caduta del tasso di profitto, che rendano le macchine più maneggevoli, facili al calcolo, fino al punto di attrezzare con esse e di esse non soltanto qualche cervellone grande come una stanza di qualche ministero, ma ogni azienda, se possibile ogni colletto bianco al servizio di sua maestà il Capitale.

Significa forse tutto questo che intendiamo dire che non c’è bisogno di ingegno? Vogliamo solo sostenere che l’ingegno non vive d’aria fritta, e che è possibile che si sviluppi nel bel mezzo della vita produttiva, anche quando si deve ammettere che c’è bisogno d’un certo tipo di isolamento e di distanza dalla prassi in senso stretto perché esso possa produrre i suoi frutti. È pensabile un circuito dialettico fra – il primo potenziarsi delle capacità di lavoro umane – l’affrancarsi dalla pressione permanente ed incombente di procurarsi i beni essenziali per vivere, dal cibo al ricovero contro le intemperie – la nascita del pensiero teorico, della riflessione sul lavoro dell’uomo e sulla natura, come attività distinta. In tal senso è stato determinante per la nostra specie il passaggio dalla condizione di cacciatore-raccoglitore nomade a quella di allevatore-coltivatore stanziale.

La formazione del cervello, e il funzionamento della sociale rete di cervelli, che hanno permesso lo sviluppo cognitivo più veloce, sono ancora da indagare e spiegare. Soltanto quando ciò sia stato compiuto, avrà veramente senso porsi il quesito irrisolto se gli universali siano reali, o solo nominali, se insomma abbiano ragione i logistici o gli psicologisti. Che la scoperta di rimedi per vivere abbia accelerato la formazione d’un cervello-mente in grado di produrre al suo interno delle sovrastrutture potenti (forse tanto, o troppo, potenti da illudersi di vivere indipendentemente dagli altri organi del corpo, come pure dal lavoro manuale) è una questione d’una attualità sconcertante, se pensiamo alle stupide promesse della borghesia che continua ad offrire più tecnica come base del Progresso e della Libertà.
 
 
 
 
 

MANO-LAVORO-SCIENZA

Storica separazione della Scienza e sua opposizione al Lavoro

Poiché abbiamo la dichiarata ambizione di legare in un sol arco gli uomini con la clava e l’uomo comunista prodotto dalla società moderna, ci preme individuare i motivi e le ragioni del progetto comunista e della sua necessità.

Il modo di stare al mondo è il prodotto di modi di vita sociale e di produzione diversi: ma mentre molte concezioni o non riescono o si rifiutano di trovare la comune umanità nelle epoche le più lontane tra loro, noi, che teorizziamo la traducibilità dei linguaggi e delle esperienze, anche quando sembrano incommensurabili, abbiamo l’esigenza di vedere chiaramente che cosa lega e che cosa divide, in modo tale da trovare le oggettive, materiali leggi tendenziali che accomunano e spingono verso la società comunista.

Che già la clava o l’amigdala sapientemente scheggiata siano rudimentali quanto efficaci prolungamenti della mano è indubitabile. Ma riconoscere nelle macchine prodotte dal lavoro sociale, oggi alienato e vilipeso dal modo di produzione capitalistico, ancora e ognor di più la mano potente che sarà domani quella della società comunista, appare ai più improponibile, specie dopo le vicende tragiche del secolo appena finito.

Noi, naturalmente, non demordiamo e restiamo della convinzione che lo sviluppo delle forze produttive spinge nella direzione della liberazione completa del lavoro e della classe proletaria, convinzione elementare che è il prodotto di scienza ma prima ancora di sentimento e di intuizione.

Il sentimento dell’uomo e della natura che caratterizza l’umanità arcaica è distinto da quello che anima il cosidetto uomo tecnologicomoderno, che non è altro che l’uomo alienato della società borghese. Mentre solo il partito di classe è portatore della dottrina scientifica del futuro comunista e ne intravvedere i vasti orizzonti, quello è invece ottuso dal lavoro diviso e specialistico, che esalta e sostiene.

Nella Bibbia, all’inizio, Genesi, si dice che “Dio creò il cielo e la terra”, e che questa era “deserta ed uniforme”. Come non vedere che nel Dio che crea e trae dall’informe la forma di tutte le cose sta la metafora umana e la sublimazione del suo lavoro?

Tekne è sinonimo di arte-artus-mano. Engels arriva a dire la “scoperta della mano da parte della scimmia”! La mano è l’organo che permette all’uomo di istallarsi nella natura, produttore delle proprie condizioni di vita. Da quel fatidico momento la mano non si limita a produrre rimedi generici immediati per la vita, perché ha prodotto, in via esponenziale, quegli utensili, che nella età moderna si identificano con le macchine, capaci di sostituirsi alla mano, fino alla possibilità dell’industria moderna di produrre in serie. Mentre le correnti idealistiche, da sempre, hanno cercato il motore della storia e dello sviluppo umano nella cosiddetta forza del pensiero, nelle idee, noi abbiamo sempre rivendicato il primato del lavoro, distinguendo le forze produttive – nei differenti modi di produzione, da quello schiavistico antico a quello servile del Medioevo a quello capitalistico moderno – dai rapporti di produzione che, mentre ne sono il prodotto, nello stesso tempo tendono a dominarli ed a plasmarli, fino ai tentativi di contenerli nella fase discendente del loro sviluppo.

Ciò non significa, contrariamente a quanto pretendono gli avversari politici ed ideologici, che non ci occupiamo delle sovrastrutture, comprese quelle squisitamente formali e teoriche. Purché non si pretenda di parlare né di filosofia pura, né di matematica pura, né di etica o estetica pure, che in generale sorgono allorché il vitale rapporto ed implicazione tra forze materiali e loro elaborazione psichico/formale viene meno, in virtù della tendenza delle classi decadenti a staccarsi completamente dal lavoro e dall’esperienza viva ed organica, per meglio illudere ed illudersi di conservare il primato.

Nella nostra previsione, nelle società organiche (ed il comunismo futuro, come quello rozzo e primitivo, sarà tale ma a livello di specie!) prassi e pensiero non sono in antitesi, anche quando sappiamo che ad un certo livello di sviluppo la teoria, come visione generale delle questioni, assume una sua relativa autonomia. Tanto è vero che siamo della convinzione che senza teoria rivoluzionaria non può esserci rovesciamento della prassi. Siamo rimasti soli a rivendicare questa “visione” del mondo, allorché i teorici socialdemocratici si son fatti beffe di questo arcaico comportamento. Ora, a costo di apparire ingenui, visto che storicamente ci siamo anche guadagnati l’epiteto di iguanodonti dal “frigido” Palmiro, noi crediamo alle “visioni”! Il che non significa che non rivendichiamo il materialismo dialettico come nostro necessario metodo scientifico!

Lo sviluppo delle specializzazioni, la divisione delle funzioni sempre più complesse hanno finito per scindere la società in classi e per provocare negli individui l’accentuazione di facoltà funzionali a queste differenze. Ma la concezione comunista ha sempre previsto il recupero della polivalenza delle capacità, l’apertura all’espletamento di lavori ed attitudini tra di loro diversi, quella genialità che il borghese moderno vede con sospetto o come perdita di tempo, di rendimento e aumento dei costi, e che invece nei migliori, come nel Rinascimento europeo, hanno espresso l’uomo multilaterale, aperto alle più diverse arti, operai-teorici, insieme inventori, costruttori ed utilizzatori di strumenti e linguaggi, dalle macchine di Leonardo ai vetri convessi di Galileo, che bene rappresentano lo spirito umano a noi vicino.

Per questo abbiamo un’ammirazione ed un rispetto per l’uomo arcaico non minore che per l’uomo prodotto, e schiacciato, dalle moderne forze produttive. In altri termini: la secolare tensione tra “fides et ratio” è superata nella teoria materialistica dialettica del Partito, che le comprende entrambe. In opposizione ai detrattori del lavoro manuale, inferiore, triadicamente rivendichiamo la possibilità di cooperazione ed accordo non solo tra mente e cuore, ma tra mano, cuore e mente, che riteniamo all’origine dello sviluppo di tutte le facoltà considerate più alte quali l’arte, la scienza, la filosofia, la speculazione teologica e matematica. Non sono però mente, cuore e mano di un individuo, ma di una classe i cui destini sono anticipati nel suo partito.

Attenendoci alla storia della evoluzione delle società e delle facoltà umane, se è vero che la corteccia cerebrale è la formazione più vicina all’uomo d’oggi, con i suoi 1500 centimetri cubici di capienza in rapporto al 450 del pitecantropo, ci sembra anche naturale e niente affatto abnorme che il primitivo non pensi idee, ma che queste gli appaiono dinanzi agli occhi: «compare l’idea dinanzi a lui come percezione sensoriale proiettata all’esterno, simile quasi ad un’allucinazione o almeno come un sogno estremamente vivo. Per questa ragione in un primitivo il pensiero può sovrapporsi alla realtà sensoriale, a un punto tale che se un europeo si dovesse comportare alla stessa maniera sarebbe preso per pazzo” (Jung, L’inconscio). Per gli aborigeni dell’Amazzonia, che non vanno dall’analista, il sogno è più reale della veglia.

L’allestimento dell’universo disanimato della scienza e della tecnica è un’acquisizione relativamente recente, anche se i fondamenti sono riscontrabili nella formazione logico/razionale di provenienza greca. Il passaggio dall’attitudine alla visione ad una valutazione del mondo di tipo oggettivante matura nella società segnata dalla divisione in classi tipica della polis: da una parte i padroni di schiavi, dall’altra schiavi e metèci. Chi ascrive al pensiero in quanto tale, e specificamente greco, questo risultato idealizza la democrazia ateniese, dimenticando le condizioni che l’hanno consentita.

Poiché noi riteniamo che nelle culture più diverse, ad un certo grado di sviluppo delle forze produttive ciò che è determinante è la sottostruttura economica e sociale, non abbiamo una esclusiva preferenza per la cultura di un’area piuttosto che di un’altra. Con chi dovremmo stare, se seguissimo il filo del pensiero e della cultura? E perché non dovremmo, specie oggi, non tener conto della filosofia e del pensiero cinese, giapponese, indiano?

Il materialismo storico marxista, espressione cosciente, dottrina scientifica della classe proletaria, trova nel sentimento comunista il fondamento, schierandosi dalla parte delle classi subalterne dovunque si trovino. Ciò contrasta con le necessità materiali della conoscenza e con i suoi metodi? Certamente no, anche se siamo in grado di distinguere e individuare le condizioni storiche e teoretiche che, nelle diverse aree, hanno accompagnato lo sviluppo della tecnica.

Non ci è indifferente la preoccupazione propria della scienza moderna, di espungere dalla nozione di materia spiriti e spiritelli, secondo la versione magica e superstiziosa tipica d’altri modi di vita del passato. Ma nella nostra concezione, “visione comunista” e “scienza” (con i suoi inevitabili apparati teorici, di tipo concettuale, secondo una determinata teoria delle idee quale ci è pervenuta nell’età moderna) non possono essere in contrasto. Ciò chiarisce una differenza fondamentale, secondo la quale mentre nel Partito è la “visione” e la “scienza”, nella classe che lotta, combatte anonimamente nel tempo e nello spazio, non è la “teoria”. I proletari lottano secondo le necessità, animati dal bisogno e da livelli di coscienza che non possono essere confusi con la nozione che di essa ha, storicamente e formalmente, l’organo della classe. Il partito non è indifferente alle emozioni e alle intuizioni istintive della classe, ma non può fare a meno della conoscenza teorica razionale dei processi economici che condannano la società borghese e spingono verso il comunismo.

Ancora una volta “fides et ratio” unite e non in contrasto, come se la fede fosse primitiva e la ragione moderna, sic et simpliciter, ma riconoscimento che la natura è governata da leggi e che il principio, indiscusso, del valore oggettivo delle conoscenze scientifiche e delle attività tecniche non può essere considerato, nella nostra battaglia, avulso dalla “visione del comunismo”, o dal senso che le opposte forze sociali attribuiscono alla realtà.

L’atteggiamento proprio della scienza consiste nel considerare come reale non ciò che si manifesta, ma solo ciò che essa, dopo controlli di corroborazione, può enunciare come oggettivo. La scienza viene sempre dopo l’esperienza. Riesce a fornire la prova (o la smentita) delle intuizioni, formula leggi e teorie nelle quali confluiscono sia la “visione del mondo” sia la considerazione razionale delle cose e degli eventi. La “visione del mondo” dei borghesi necessariamente produce la scienza borghese e la tecnica borghese!

Ancora una volta così possiamo dire che, nella nostra concezione, non sono sottovalutate le lotte immediate, le resistenze organizzate alla pressione della classe dominante che la classe proletaria è in grado di affrontare con le sue forze, ma nello stesso tempo si sostiene che la capacità di realizzare bilanci e verifiche spetta solo al partito in quanto organo che porta a sintesi l’uno e l’altro atteggiamento, e cioè sia la postura “rivelativa” sia quella “obiettivante” in rapporto alla realtà materiale.

Ne consegue che le tecniche, intese sia come metodiche produttive sia come capacità di rimedio in rapporto ai limiti ed alle manchevolezze, oltreché agli ostacoli che la realtà oppone, non sono per noi da astrarre come risultati in sé, ma sempre come prodotto ed interazione di concause, convergenza di forze nel parallelogramma sociale e naturale.

Ne discende che mentre non idolatriamo nessuna tecnica (neppure di ordine interno alla classe o al partito, tipo moduli organizzativi, astuzie di reclutamento o di combattimento, induzione di entusiasmi attraverso parole d’ordine) nello stesso tempo siamo disposti ed in grado di riconoscerne l’efficacia o la debolezza. Per principio non abbiamo da aborrire nessuna tecnica (il luddismo fu una reazione istintiva della classe contro le macchine che toglievano lavoro ai proletari), ma non ci aspettiamo da nessuna nuova tecnologia niente di risolutivo che abbia una qualche attinenza con la lotta per il comunismo.

In un mondo ed in un modo di produzione dove si tende a recuperare la “postura rivelativa” in rapporto al reale, fino al punto che dalla tecnica l’uomo alienato si aspetta quei miracoli che riducano le sue sofferenze e le sue privazioni di umanità, mentre in realtà l’effetto è il contrario, la dura esperienza delle difficili lotte delle classi subordinate sta lì a testimoniare che senza un organo di combattimento che non si lasci travolgere dai facili surrogati che durano un giorno, non è possibile che si liberino dalle loro storiche catene.

Da questo punto di vista, l’accusa rivolta al nostro movimento storico, di aver tolto col freddo del materialismo ai diseredati la consolazione dell’apparizione, che nella cosiddetta “postura rivelativa” della coscienza permetterebbe al reale di darsi in carne ed ossa, ricco di senso e di realtà per ogni soggetto, si accompagna all’accusa opposta, quella cioè di propinare miti e illusioni che si sovrapporrebbero alle “verità” delle fedi religiose o delle promesse magiche, tipiche delle epoche prescientifiche. È proprio il caso che ci si decida: o la rivoluzione è semplicemente un modello meccanicistico, che lascia che le cose maturino automaticamente per via puramente naturale, oppure è un’illusione che sostituisce altre illusioni.

Per questo, le due posture davanti alla realtà, sia quella “rivelativa”, sia quella “obiettivante”, assumono entrambe, al vaglio della critica marxista, il significato e la funzione di proporre un atteggiamento che non si preoccupa di trasformare, di rivoluzionare la realtà sociale e naturale, ma di riceverla in forma miracolistica, oppure il suo opposto, di accettare la tecnologia come portato oggettivo e immodificabile e che mai mette in discussione l’assetto fondamentale dei rapporti sociali. In tutti e due i casi ne discende una visione statica, descrittiva, invece che prescrittiva in rapporto alla realtà.
 
 

All’inizio era l’Azione

Nella nozione materialistico dialettica, che appare aberrante al pensiero corrente, eclettico o scetticheggiante anche nell’ambito “rigoroso” della scienza, all’inizio era l’Azione.

È per caso questa una scoperta tanto sconvolgente? In recenti esegesi si è riconosciuto che perfino il Vangelo di Giovanni, quando afferma “In principio era il Verbo”, non parla del Logos greco. Nell’area mediorientale, dove attecchì l’ebraesimo-cristianesimo, il termine Davar significa Parlare, Attuare, Essere, mentre il Logos significa Parlare, Contare, Pensare. Il Logos, che letteralmente allude alla natura filosofica del discorso, raccoglie e lega insieme le parole, fa ordine nei concetti, ma ne rimane spesso prigioniero.

Le questioni dell’ortodossia, la giusta dottrina, non sono opponibili a quelle della ortoprassi cha sempre hanno angustiato movimenti politici e filosofici, oltre che associazioni e chiese. Non a caso. Di “Padri Zapata” che predicano bene ma razzolano male, prima o poi si finisce tutti per averne piene le tasche. Si potrà obbiettare che non è facile trovare il modo di ovviare all’inconveniente. C’è chi si appella a costituzioni, leggi, norme, regolamenti, congressi, nei quali fare bilanci per controllare se le intenzioni, i programmi, sono stati eseguiti, se la parola data sia stata mantenuta, se insomma la pratica ha corrisposto ai patti. Tutto ciò indica che ogni teoria non si limita a conoscere la realtà, o peggio, come è di moda oggi, a interpretarla, ma agisce sulla realtà sociale e individuale, la trasforma! Questo da sempre.

«I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo» (II tesi su Feuerbach). Marx, sottolineando questa esigenza, nel senso della necessità della trasformazione rivoluzionaria, ha soltanto detto che una teoria astratta, che si limiti alla interpretazione, è semplicemente un’illusione, un’impostura che tende a nascondere la prassi delle classi dominanti, ieri, oggi preoccupate di spacciare per vera una concezione statica della conoscenza e della realtà. Il tentativo di attribuire al pensiero una verità oggettiva, continua Marx, «non è questione teorica, bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica».

Ma la Prassi dell’Homo Faber, e progenie, è appunto la Tecnica. La mano dell’uomo, la scoperta delle sue possibilità di plasmare la realtà, di accomodarla ai suoi bisogni, comporta che nel corso storico l’essere umano (non individualmente, ma in quanto organizzato in forme sociali) è riuscito a piegare la natura alle sue esigenze, anche se mai in modo definitivo. Il lavoro applicato alla natura comporta la scoperta di relative regolarità della stessa, delle sue leggi. Soltanto così è possibile parlare di tecnica, che infatti ancora oggi viene associata al concetto di strumentazione capace di trarre ed estrarre dal mondo oggettivo rimedi adatti alla vita.

C’è del vero nella convinzione che ogni livello acquisito della strumentazione utensile appare in ogni epoca e momento storico come il non plus ultra, un’avanguardia di effetti, il ritrovato ultimo che dà l’impressione d’aver risolto il problema in rapporto al quale è stato elaborato.
 
 
 
 
 

MOLOC O SALVEZZA ?
 

Che il coraggio e l’orgoglio col quale la scienza borghese demolì credenze ed errori millenari sia in declino, anzi, in una fase quasi marasmatica, è sotto gli occhi di tutti. Questa classe, che aveva superato confini ideologici e statuali, ripiega lasciandosi alle spalle macerie e... merci che non riescono a passare per l’imbuto stretto della sovrapproduzione relativa. Se lo sforzo di comprendere i processi sociali come quelli naturali fu potente e sincero, naturalmente perché necessario, a maggior ragione rivoltano lo stomaco gli atteggiamenti attuali, di quasi completo rigetto del metodo scientifico non solo in natura ma particolarmente nelle cosiddette “scienze sociali”, abbandonate al sociologismo, al pragmatismo, al probabilismo senza costrutto. Figurarsi il tedio che debbono procurare le nostre lezioni fondate sul materialismo storico e dialettico!

La natura della tecnica dovrebbe essere quella di ubbidire ad uno scopo. Ma è inevitabile che, come nella storia dell’apprendista stregone, i demoni evocati non possano essere esorcizzati. Che cos’è che nel dominio della tecnica finisce per sfuggire al controllo delle forze che l’hanno messa in atto?

Lo scopo della tecnica è pensabile come esterno alla tecnica stessa, che essendo puro mezzo, avente in sé la sua razionalità, dovrebbe essere facilmente neutralizzato e messo da parte purché lo si voglia. Ma nell’ambito sociale i mezzi produttivi sono cose che vivono di vita propria. Nessun modo di produzione può essere evocato o fermato dal potere politico per quanto forte. Anche nel caso del potere proletario, non è attraverso un decreto che si possa abolire il sistema di produzione del Capitale, solo perché farebbe piacere. Col potere proletario inizia un’epoca di grandi riforme sociali che porteranno al superamento del vecchio regime.

La razionalità propria della tecnica tende invece ad essere concepita come un Moloc insuperabile, proprio in quanto la sua intrinseca mancanza di scopo fa di essa una potenza ottusa. Di fronte ad essa non ci sarebbe altro che la reazione impotente di tipo luddistico, della distruzione violenta dell’oggetto che tende ad asservire la volontà e la forza viva dell’uomo. La feticizzazione della tecnica, ultimo grido teoretico, realizzerebbe la natura stessa della razionalità occidentale ormai dominante, anzi totalitariamente insuperabile. Insomma la Tekne sarebbe il nuovo Dio che non ammette altro Dio fuori di Lui: adorare o rimanere vittime.

Il circuito mezzi-fine, o fini, ha bisogno d’essere dominato anche a livello teorico, oppure la guida per l’azione diventa fine a se stessa. La Sinistra ha molto chiaramente desostantificato la Teoria, per non rimanerne vittima: quello che è successo all’opportunismo, che, dopo aver delegato a sacerdoti sommi la custodia del cosiddetto marxismo-leninismo con tratto d’unione, si è arreso all’evidenza... del primato e della vittoria della tecnica! L’irrealizzabilità-inutilità del socialismo così è diventata una nuova dottrina: chi si attardasse a pensare il contrario non è più nemmeno eretico (per mancanza di chiesa), ma semplicemente degno della nave della Medusa.

Ma le dure repliche della Storia non tarderanno a farsi sentire, se è vero che si ammette la crisi strutturale, l’ingovernabilità del mercato globale, la geometria frattale nell’ambito della gestione del potere politico, diviso tra le tentazioni nazionalistiche-localistiche ed il Governo mondiale ONU. Insomma ingolfamento evidente sia dal punto di vista teorico sia pratico.

Per il nostro partito il fine rimane il comunismo, ed il mezzo, o meglio i mezzi, tutta quella serie di passaggi necessari che vanno dalla lotta di classe allo Stato proletario. Chi lamenta che lo Stato proletario ha finito storicamente per assurgere a dignità e vergogna di fine in sé confonde le cose. E lo sa perfettamente. Non a caso, nel clima di bilanci catastrofici della fine secolo, i soloni storici non hanno fatto cenno a quelle correnti politiche che la degenerazione opportunista la denunciarono e combatterono a prezzo della vita dal di dentro prima e da di fuori dopo. Neanche una menzione (per fortuna!). La storia della Sinistra ha rilevato con insistenza non solo collusioni teoriche, ma pratiche forme di collaborazione, non tattiche, come si illudevano gli Stalin vari, ma strategiche. Ancora una volta i mezzi si sono trasformati in fini e viceversa.

Nessun neo-luddismo dunque da evocare come strumento rivoluzionario, ma la lotta operaia che sappia coniugare la difesa con intransigenza del lavoro con il fine politico.

La domanda più bruciante, spesso volgarizzata nelle salse più stucchevoli dei luoghi comuni, è quella del nesso tecnica-etica, e cioè fino a che punto l’uomo (Uomo con la maiuscola, è cioè l’uomo etico) sia in grado di padroneggiare le forze produttive, senza, come avviene all’apprendista stregone, esserne travolto.

Il nuovo demone, da tante parti esorcizzato, sarebbe la volontà di potenza che approfitterebbe dello sviluppo della tecnica. Il mito del progresso viene sostituito dal terrore per la troppa sapienza, perché il progresso, che avrebbe dovuto portare a tutti, democraticamente, miglioramento, affrancamento definitivo dalla miseria, continua invece a provocare contraddizioni insuperabili, la fame di quasi due miliardi di popolazione mondiale, lo sfascio economico-ecologico di intere aree continentali. Ecco allora la bestia, la tecnica che tutto domina, e che nessuno potrà mai dominare! Si obietterà che il pensiero borghese è pluralistico, e si permette di oscillare perennemente tra l’esaltazione della scienza e la sua demonizzazione! Troppo comodo. In realtà la borghesia è costituzionalmente incapace d’un Piano generale di Specie, prigioniera delle contraddizioni tra il lavoro sociale sempre più complesso e sofisticato, e l’appropriazione privata. Le vecchie, insuperate contraddizioni dei suoi tempi aurorali.

Se nel non lontano passato si potevano minacciare le classi subalterne con la religione e lo Stato per volere divino, oggi ci si propone di dominarle con il dispiegamento delle tecniche, che devono dare l’impressione del ginepraio babelico, tentacolare e incontrollabile, che non dà possibilità d’essere governato. Ma per noi non è che l’ammasso di Capitale morto che predomina su quello vivo, lo schiaccia, non gli dà modo di organizzare secondo le vere necessità ed i veri bisogni.

Nella concezione marxista la tecnica, lungi dall’assumere un significato ed una valenza categorico-astratta, viene affrontata di petto quando si riconosce alla struttura economica, alla produzione e riproduzione da parte delle società umane della vita materiale, di essere la base fondamentale sui cui si ergono le cosiddette sovrastrutture, da quelle di comando a quelle più sofisticate e generali, comprese quelle religiose e filosofiche in senso lato.

Dunque pane per i nostri denti. Ma ciò che caratterizza la nostra posizione è che è scolastico ed improprio pretendere di dare risposte astratte del tipo: riuscirà il nostro eroe (sempre l’Uomo!) a non essere travolto dai prodotti del suo lavoro? La questione è da trattare in forma dialettica: l’uomo, come ricorda Marx, è nello stesso tempo prodotto sociale ed attore, capace di intervenire attivamente nel “fare la propria storia”, ma non a suo piacimento e quando lo vuole, con le proprie mani! Apparentemente una soluzione salomonica: tanto alle forze produttive tanto ai rapporti di produzione...

Un certo livello di forze produttive, come dire un certo tipo di sviluppo delle tecniche, determina un certo tipo di rapporti sociali. Ma non esistono, nella nostra versione, tecniche in astratto, che non siano trattenute in dati rapporti di produzione, in grado di dirigerle per certi scopi. Fintantoché non scoppiano nelle loro mani, dando corso ad una fase di profonda crisi, di transizione verso nuovi rapporti di produzione.

Ed allora perché, nonostante il capitalismo ultra marcio, è il comunismo che sembra battuto definitivamente dalla storia? Perché soltanto una versione ultraimperialistica ed economicistica, propria della socialdemocrazia di sempre, ci può illudere di passare meccanicamente e gradualmente al socialismo. Le forze produttive, le tecniche, non sono neutrali, e nessuno può illudersi di dominarle a piacimento, né nella convinzione d’un equilibrio naturale costituito dal mercato, né di un falso dirigismo statalistico borghese, né di un connubio astuto delle due forme.

Queste elaborazioni teoriche non prive di suggestione non sono estranee al materialismo storico, che ha dato la sua valutazione e risposta: le forze produttive determinano particolari rapporti di produzione, che entrano in conflitto con esse, provocando una tensione ed una dialettica che spinge a nuovi assetti sociali. In questo senso il grembo della Storia è gravido di nuove realtà.

Questo determinismo storico che sfocia nel socialismo è stato capovolto dallo stalinismo, ereticamente, in socialismo che sviluppa le forze produttive, mantenute compatibili col mercato e col Capitale. Il mercato, teorizzò, è insuperabile. Come a dire: il socialismo non è che capitalismo meglio (?) organizzato, capace di distribuire più equamente... (ed abbiamo visto come!). In questo ingorgo teoretico (naturalmente... pratico!) la tecnica, la sua razionalità intrinseca è diventato il Dio invincibile, la fine della storia, il mezzo senza scopo, ed altre amenità di questo genere.

Come ristabilire allora il controllo del rimedio impazzito? Può il rimedio essere rimediato? I corti-circuiti teoretici, notoriamente, come i famosi “mali di testa” hegeliani, hanno bisogno della spada di Alessandro, che di fronte al nodo di Gordio dette la spiccia dimostrazione del come potesse essere sciolto.

La violenza dunque? lamentano i pensatori ufficiali. Abbiamo già detto che non un decreto può rimediare le cose, né il ricorso al cieco luddismo, ma una serie di dispotiche misure sociali sono necessarie perché il mezzo torni ad esser tale.

Il capitalismo vanta le sue tecniche come le uniche possibili, in qualche modo naturali, ed invece non sono che i suoi mezzi, forze produttive funzionali alla valorizzazione del Capitale. È il Capitale che da mezzo si è trasformato in fine, diventando il Moloc che agli occhi dei suoi adoratori appare insuperabile, e come fine e come mezzo.

La polemica aspra ed acida che si è scatenata contro la tecnica, dunque colpisce il basto, ma allude alla bestia. Incapace di dominare i demoni da essa stessa evocati, la società del Capitale ha intuito, con i suoi premurosi ideologi, che il risentimento nei confronti del progresso tecnico è un buon strumento per mettere in stato d’accusa tutta un’aspettativa sociale di emancipazione, così mascherando il vero obbiettivo della polemica. Si vieta di occuparsi della reale dialettica, non una parola dei rapporti tra le classi, del resto, a detta di molti, ormai superate dalla diffusione dei servizi, del terziario che rischia di diventare “quaternario”.

La tecnica è il rimedio posto in atto dall’uomo per far fronte dalla sua finitezza, alla scarsità primaria nella quale si è trovato a vivere. Ma il rimedio proposto dai riformatori sociali rischierebbe di diventare peggiore del male a cui vorrebbero dare soluzione. E siamo già in pieno esistenzialismo-catastrofismo. Si diffonde allora l’utopia della società a misura d’uomo, intesa come possibilità di controllo della tecnica col ritorno al buon tempo antico col romanticismo delle cose fatte a mano, favoletta per piccoli borghesi reazionari, almeno alla scala sociale.

Per i pensatori d’oggi che hanno cercato più di altri di cogliere il cuore della questione, da Heidegger a certi suoi seguaci e critici, una volta, secondo loro, attestata la cosiddetta “morte di Dio”, era inevitabile che qualcosa avrebbe preso il suo posto, una nuova deità, sconvolgente ed imbattibile, oltreché, naturalmente, eterna ed insuperabile: il non plus ultra, la tecnica. In che cosa consisterebbe questa sua potenza, che assoggetterebbe a sé ogni cosa ed in particolare ogni volontà umana, o umanistica? Il fatto di “basarsi su misure esatte, e criteri razionali”! I borghesucci temono questo potere della tecnica. Perché – a parte il luogo comune dell’omologazione che produrrebbe, con l’appiattimento dell’individuo, con la serialitàche replica, dissolvendo ogni traccia della mano (si pensi alla tanto rimpianta società a misura d’uomo, sulla quale non abbiamo mancato di ironizzare) – hanno paura, per un insuperabile senso di colpa, della brutalità dei loro rapporti capitalistici di produzione, che sono i veri produttori di estorsione, alienazione, e violentano non soltanto il lavoro proletario, ma la loro stessa cultura e tran-tran di vita.

La borghesia non è in grado di cogliere l’aspetto positivo, in senso dialettico, della sua opera di distruzione. Al contrario noi siamo storicamente in grado di cogliere tale positivo, e non soltanto l’aspetto nichilistico che sembra prevalere: «svilisca, alieni, azzeri l’individuo, a terrore e scandalo dei reazionari: lavora per la Rivoluzione. Renderà possibile che l’Uomo, dopo la rivoluzione, e la cancellazione d’ogni brevetto e monopolio, possa riprendere a studiare, senza l’incubo che le maligne sotterranee forze del mercato gli sottraggano le magiche creature del suo lavoro e del suo pensiero» (Il Partito comunista, maggio-giugno 2000).

La tecnica riflette la potenzialità della forza produttiva del lavoro sottomessa ad un determinato modo di produzione. Ed inevitabilmente, in quello capitalistico, in ogni prodotto anche il più affascinante, tecnologico e sofisticato, è stampato il marchio dell’appropriazione privata del profitto, la contraddizione palese che all’interno d’ogni strumento vede da una parte il lavoro sociale capace di tanto, e, dall’altra, lo stigma della specializzazione, dei limiti determinati dalla fretta che è stata necessaria per produrlo, con i difetti intrinseci ad un assemblaggio che si è svolto sulla spinta dell’interesse privato, col peccato d’origine d’una esigenza di classe che fa pagare il suo prezzo.

Si pensi alla recente collisione aerea sopra il lago di Costanza: l’apparato tecnico a terra per la rilevazione delle rotte in conflitto c’era ma, per mancanza di elaboratore parallelo di riserva, non vigilava durante le operazioni di manutenzione; nonostante questa, per il sacro dogma della riduzione dei costi, in servizio c’era una solo salariato a controllare le evoluzioni di cinque bestioni in attesa d’atterraggio. Dato l’affollamento sugli aeroporti, la normativa tecnica ha da poco dimezzato la differenza di quota da mantenere fra la pila di aerei in volo circolare finché non si liberi una pista di atterraggio, confidando su una nuova più precisa apparecchiatura tecnica di rilievo della quota che dovrebbe essere installata a bordo. È evidente che le nuove, davvero stupefacenti, capacità di misura delle distanze non servono oggi alla sicurezza dei voli, o d’altro, al contrario li rendono più insicuri, tutto essendo orientato al loro rendimento economico immediato e aziendale.

La tecnica, l’ultimo Golem, è insomma la più fragile delle creature: nelle mani del Capitale il suo pericoloso esplosivo aumenta ogni momento che passa. La tecnica non è al servizio dell’uomo, ma del suo idolo, il denaro e dell’accumulazione. Ogni volta che la tecnica tradisce, l’organizzazione capitalistica promette più controlli, organizza commissioni d’inchiesta. Ma non è in grado di sciogliere il suo enigma. Soltanto la talpa della rivoluzione è in grado di triturare i fondamenti sui quali si erge l’edificio capitalistico.

Alla nostra invarianza corrisponde, camuffata da movimento a tutti i costi, l’invarianza avversaria, della borghesia e il trucco resta uguale a se stesso: scambiare il soggetto col predicato. Per noi la tecnica non diventa né idolovittima sacrificale, poiché non si dà né scienza né tecnica al di sopra delle classi. Scienza e tecnica stanno tra di loro in un rapporto peculiare, che rispecchia il livello della lotta delle classi. Quando il vento soffia in favore del progresso la borghesia riesce a far credere che tutto sarà risolto a base di ordigni, strumenti, prodotti miracolosi. Quando invece emergono i guasti del modo di produzione capitalistico cambia il vento e l’immensa messa in scena viene smascherata tragicamente, con guerre mondiali o con rotture storiche della presunta pace sociale.
 
 
 
 
 

MA LE CLASSI CI SONO ANCORA...
 

La Scienza Computazionale

Il computer è comando, che si accresce quanto più si riproducono ed evolvono i suoi algoritmi, già non più contenibili appieno nei precedenti schemi della logica vero-falso prima-dopo e un po’ dialettici. Ciò conferma come le tecniche, quanto più escono dalla misura umana, cioè dalle mani dell’uomo, diventate macchine, finiscono per assolvere degnamente ai compiti per i quali sono state inventate.

Materializzata nel computer, forma assunta dal Capitalefisso, è scienza e memoria. La macchina sa e decide mentre, in modo sempre più evidente, il lavoratore, l’umano operatore, non si può permettere alcuna libertà, deve attenersi scrupolosamente alle regole (ed alle bizze, impuntature, rigidità, incapacità di auto-correzione) della macchina. Naturalmente i corti di cervello attribuiscono la “colpa” alla macchina in quanto tale, noi al contrario all’uso che se ne fa nell’attuale sistema sociale.

Che la scienza computazionale con le sue leggi, ma anche con le possibilità nuove che vengono identificate in flessibilità e potenza di memoria e di calcolo, grazie a linguaggi (software) in lento ma continuo e potenzialmente indefinito arricchimento, sia una scienza del comando a noi non fa né caldo né freddo, poiché conferma il nostro giudizio sulla cosiddetta tecnologia, sia essa di prima o quinta generazione. Non sono le macchine in sé ad essere autoritarie, sono i rapporti di produzione a dittare.

Invece non passa giorno che la nuova economia, fondata sulla comunicazione, con i suoi sostenitori più o meno critici, non si sforzi di convincersi e di convincere che si è aperta per ogni angolo della terra una nuova èra senza ritorno e senza spettri politici, quali il comunismo di stampo quarantottesco. Si nota, in questi interventi, più episodici che sistematici, il tentativo di dominare a livello teorico una materia quanto mai fluida ed incontrollabile, un tentativo di mettere ordine nel proprio campo orientato allo scopo di liberare l’ambiente sociale, che per noi rimane capitalistico borghese, dalla paura di nuove catastrofi o da repentini svolti che potrebbero mettere a soqquadro l’intera struttura. Né c’è da temere che da un momento all’altro sorga un nuovo Adam Smith che riesca a cogliere gli elementi portanti della materia.

La nostra attenzione ai processi tecnici che sottopongono l’economia a continui rovesciamenti non solo è di antica data, ma costituisce il nucleo della critica dell’economia politica. Respingiamo così, per cominciare, l’accusa di essere stati travolti dal vulcano dei cambiamenti economici, dalla quarta, quinta e non sappiamo ormai con quale ordinale etichettare, rivoluzione tecnologica. Noi, che oltretutto avremmo sempre peccato di materialismo economicista e determinista, saremmo veramente stati giocati da ingenui in casa nostra! In realtà l’intero impianto dei nostri avversari è d’una debolezza intrinseca tale da sfuggire alla presa polemica.
 
 

Pasti, telematici, gratis

Il primo argomento è costituito dal tema, sempre più dibattuto, della tendenza a smaterializzarsi dell’economia, sulla spinta della rivoluzione informatica: «la rapidità con cui i fattori comunicativi stanno prendendo il sopravvento sui fattori materiali della produzione, starebbero vanificando non tanto alcuni elementi della teoria economica (quali...?) ma il principio indiscusso che giustifica qualsiasi modo di produzione, antico o moderno, e cioè quello della scarsità». Tale principio, si rammenta, trovò lapidaria formulazione nel celebre slogan nessun pasto è gratis e sta a simbolizzare tutta la storia umana, come determinata dalla fine del regno dell’oro e dall’avvento, come dice Platone ne La Repubblica, dello Stato e della penuria dei beni. Da quel momento gli uomini sarebbero stati costretti a trovare rimedi sempre più efficienti per far fronte alle necessità della vita, sotto la spinta di imperativi di produttività e di quel contenimento dei costi che viene ogni giorno invocato da Stati, governi, imprese, indifferentemente in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo!

Prova di ciò sarebbe che nello stesso regime del comunismo reale, finalmente crollato, non si è stati capaci di sottrarsi alla pressione d’una legge tanto perentoria e naturale! Non torniamo alla polemica sul falso socialismo di matrice russa, col quale abbiamo combattuto ormai quasi per un secolo e che ci caratterizza in modo inequivocabile.

Ad ogni rivoluzione tecnica si ha la pretesa di scoprire nuove mirabolanti rivoluzioni sociali; mentre noi sosteniamo che finché starà in piedi la struttura capitalistica di produzione e distribuzione i principi base dell’economia resteranno quelli che il materialismo storico ha individuato, dal principio di scarsità, a quello dell’equivalenza lavoro/valore, alla legge della caduta del saggio del profitto.

Non è sconosciuto al materialismo storico e dialettico il fenomeno della tendenza del Capitale a diventare anonimo e a smaterializzarsi; la dannazione del Capitale è quella di dover passare, nelle sue metamorfosi, dalla produzione materiale (che oggi certuni chiamano hard, contrapposta a quella soft del terziario e dei servizi) alla distribuzione, che permette la realizzazione del profitto monetario, fino allo sviluppo del capitale finanziario, che ha raggiunto nella fase imperialistica dei nostri tempi forme supersofisticate, che però in niente fuoriescono dall’analisi dell’economia politica tracciata da Marx.

La tecnologia non ha impedito i tracolli della new economy, lo scoppio delle bolle di borsa, sempre più incombenti e minacciose che vengono presentate come “malattie infantili” destinate a stabilizzarsi: ci vuole un bel coraggio a chiamare malattia infantile la senescenza sclerotica del capitalismo; semmai siamo alle più strane iniezioni e fleboclisi che la storia dell’economia abbia mai presentato.

Lo stesso clamore intorno all’economia virtuale non deve meravigliare più di tanto: è anch’essa espressione della pretesa del Capitale a dematerializzarsi. Se è possibile ammettere che larga parte della sovrastruttura economia è ampiamente virtuale, ciò non ci impedisce di sottolineare che la cogenza della natura materiale dell’economia capitalistica (come del resto d’ogni tipo d’economia) non viene affatto smentita. La base materiale del capitalismo è e rimane la produzione industriale, al di là delle poesie sulla realtà virtuale, sui commerci facili via internet, sulle cedole che si possono tagliare prima che siano maturate. Tutti settori soft, del resto, telecomunicazioni eccetera, che oggi sprofondano nella recessione e nei fallimenti più e prima degli hard.

Le consolazioni sulla leggerezza dell’attuale new economy non devono ingannare: la realtà rimane dura e faticosa, con la necessità di tutti i sui passaggi. La materia non è tanto facilmente smentibile! Al contrario, con la rivoluzione informatica, c’è chi sostiene che la «produzione fondata sulla comunicazione (e in particolare sui nuovi media, come il tanto reclamizzato e globale internet) rappresenta un caso a sé nella storia economica». Lo sviluppo della comunicazione a rete cambierebbe le regole del gioco sociale e di quello economico, perché trasformerebbe il comportamento dei sistemi tecnologici fino a renderlo simile a quello dei sistemi biologici: «La mole di dati messa in circolazione rende i soggetti nella rete collettivamente geniali... allo stesso modo in cui un termitaio composto da milioni d’insetti di per sé stupidi, agisce come un sistema intelligente quando deve risolvere determinati problemi».

Niente più pericoli di bolle speculative e di improvvisi crolli nel campo borsistico e finanziario. La rete, infatti, contro ogni regola imposta dalla scarsità, creerebbe continuamente inedite opportunità di guadagno sotto forma di domanda di nuovi prodotti e servizi, ed è la stessa rete che crea risorse umane conoscitive e organizzative per soddisfare la domanda, alimentando un circuito infinito, perché libero da ogni vincolo di scarsità. La stessa legge della domanda e dell’offerta sarebbe rovesciata: dal momento che la rete è tanto più efficiente quanto maggiore è il numero dei suoi nodi, non avrebbe più senso la legge secondo cui un prodotto vale meno quanto più è diffuso. Al contrario, più un prodotto è diffuso più il suo valore, misurato in potenziale di connessione, sarebbe elevato. Infine: «da un sistema economico che funziona come un sistema biologico è poi lecito aspettarsi che sostituisca produttività ed efficienza con dinamiche di tipo “dissipativo”. Allo stesso modo in cui la natura spreca milioni di spermatozoi per fecondare un ovulo, o selezionare una mutazione favorevole tra migliaia di mutazioni incompatibili con l’ambiente, così l’economia di rete premierà solo chi sarà disposto a provare miriadi di idee sbagliate per pescare quella giusta».

Così, in piena turbolenza capitalistica, avremmo finalmente, con l’economia di rete, un innesto di elementi di socialismo, secondo la tesi opportunistica di sempre, da inoculare nel sistema capitalistico permeandolo dall’interno di economia organica. Già abbiamo dimostrato che le isole di socialismo, o di vita comunitaria, non sono che utopie che fanno comodo per mascherare il dominio complessivo, accentrato e tirannico del Capitale.

Nello stesso tempo però, ancora una volta, dobbiamo rivendicare che il sogno d’una libera comunità post-mercantile, che infranga ogni cerchio chiuso di produzione-consumo, ordinata secondo un piano non rigido ma certo unitario e complesso ed utilizzante strumenti evoluti, nella quale si riconosca che un’economia degna di questo nome reclama alti costi di produzione, uno spreco necessario per realizzare le condizioni umane più soddisfacenti, è niente altro che il Comunismo.

Ma i troppo ottimisti neofiti dell’economia di rete non osano negare il mercato, anzi idealizzano un mercato nemmeno nuovo ma, poco al corrente delle effettive condizioni storiche, più fluido, quello che sempre hanno invocato i liberisti. Alla nostra scuola non è mai stato libero, al contrario condizionato dai precedenti modi di produzione, dagli apparati politici a questi funzionali, spazzati via solo dalla furia delle rivoluzioni sociali, che hanno semmai funzionato da potenti acceleratori delle nuove forze in campo. Non c’è libero mercato senza monopoli, come non ci sono puri monopoli che si contendono le aree di libero mercato, in una competizione/contraddizione che porterebbe a “nuove possibilità economiche e sociali”, socialismo compreso.

L’economia di rete si vorrebbe che aprisse possibilità di commerciare in modo capillare, virtuale, capace sì di produrre servizi, ma funzionali ad un mercato intasato delle più prosaiche e volgari merci pesanti, prodotte dal mercato imperialistico. L’economia leggera della rete, che spera di soppiantare la grave economia reale, non fa pensare che alla distinzione già chiaramente delineata da Marx tra produzione di beni del settore A, destinati alla produzione di altri beni, e del settore B, destinati al consumo. Nella società capitalistica il processo non è verso la demercificazione dei beni, ma il contrario, verso la trasformazione in merce di qualsiasi bene necessario alla vita, dall’acqua da bere fino ai più immateriali prodotti del pensiero, se si vuole, internettati.
 
 

Camaleonti, Ricci, Castori

Scomparsa la parola comunismo dal vocabolario delle gazzette, si fa di tutto per far sparire anche quella di classe. Ma se è vero che le parole sono delle cose, è anche vero che non è enominando che si risolvono i problemi. Per questo i più avvertiti, ma non per questo meno fasulli, degli intellettuali delineano i possibili cambiamenti sociali alla luce delle grandi concentrazioni e fusioni di imprese a livello mondiale, che, quelle sì, non possono essere evitate. Allora tutto l’entusiastico ragionamento di democrazia dell’informazione sembra vanificato dalle dure (altro che leggerezza!) necessità delle imprese, anche quando multimediali (vedi vicende AOL/Time Warner/Worldcom).

Si sprecano così nuove teorie su ugualmente nuove realtà di classe. Credendo di scoprire fatti nuovi si son dati a scrivere: «La realtà sociale, dominata dall’informatica e dalle nuove forme di produzione e consumo di servizi altamente sofisticati, si complica di un nuovo fenomeno: la distribuzione del capitale culturale non è più identica a quella del capitale economico... ognuno di noi conosce l’uomo d’affari ignorante o il tassista laureato... il nuovo regime opera un catalogo delle virtù che rende obsoleti tutti i precedenti codici etici... premia qualità e modi di comportamento che prima erano sospetti. La virtù cardinale richiesta è la flessibilità, la capacità di affermarsi, la mobilità e la prontezza a imparare durante l’intero arco della vita». Fin qui niente di tanto straordinario: è una perfetta descrizione dell’ormai pluri-secolare figuro capitalista. Ma la trovata “poetica” consiste nell’aver proposto nuovi nomi per descrivere l’attuale composizione di classe, che peraltro non si nega, attribuendo alle varie couches simpatici nomi di animali, un po’ come nel campo dei partiti si sono affermate specie botaniche, almeno nei nostri paraggi (querce, trifogli, cespugli, notoriamente prediletti dai cani per alzarvi la zampa e farvi i loro bisogni).

I nuovi “produttori”, a detta dello scrittore, sarebbero: camaleonti, ricci e castori, mentre dietro loro, come sottoclasse, anzi, senza classe, starebbero i diseredati, la gens sans feu et sans aveu di nostra conoscenza. La tipizzazione dei nuovi produttori, così segue una distinzione curiosa delle loro strane attività: «i camaleonti sono agenti intermediari, avvocati consulenti, gente dei media o dello spettacolo, managers della scienza, del denaro e della informazione; la condizione del loro successo è di non aver nulla a che fare con la produzione materiale».

Sotto di loro starebbero i ricci, accomunati dalla “mancanza di flessibilità”, e protetti dalla loro corazza di spine. «Le istituzioni internazionali, nazionali e locali sono la loro tana. Burocrati d’ogni livello, amministratori, funzionari di partito, di leghe, di sindacato, di camere, di mutue».

Condannati invece a sparire sono altri tipi di animali e cioè i castori, occupati nei settori produttivi classici, che l’automazione, la razionalizzazione e l’internazionalizzazione confinano a livelli di reddito più bassi. L’autore fa riferimento ai settori dell’agricoltura «dove il processo è andato così avanti che può sopravvivere solo grazie a massicce sovvenzioni».

Infine arriva la quarta classe, per la quale non ha saputo o voluto trovare un nome, quella dei perdenti e degli esclusi, degli ultimi, come la chiamano certe correnti religiose: persone incompatibili col catalogo delle virtù del capitalismo digitale e, in queste prospettive, superflue che, neanche a dirlo, a livello mondiale costituiscono la stragrande maggioranza. Una sottoclasse di essa è a sua volta formata da disoccupati, profughi, sottopagati, che finiscono nella rete del lavoro nero, della prostituzione, della criminalità.

A conclusione dello strano quanto variopinto catalogo lo scrittore annette il suo avvertimento: «il capitalismo digitale (sic) può solo rafforzare queste tendenze... le conseguenze politiche di questo sviluppo sono incalcolabili». Come si vede, nessun nuovo Capitale in arrivo; molta sociologia d’attacco, un pizzico di fantasia e qualche unica verità. L’unica che ci sentiamo di veder riconosciuta: le classi, seppure con nome di animali (gli spiriti animali... del capitalismo?), ci sono ancora e nessun esorcismo digitale le ha potute smaterializzare.

Inutile dire che noi ci teniamo la vecchia nomenclatura, che basta e avanza per un’analisi ed una sintesi ben meglio orchestrata: quella che prevede una borghesia con tutte le sue sfaccettature, padrona degli strumenti di produzione, compresi quelli a base di silicio, ed un proletariato sempre più impoverito, in senso relativo, che, nelle aree di diverso sviluppo, si trova in una trincea storica dalla quale non potrà riaversi se non riorganizzandosi come classe politica e non solo economica e statistica. Ciò non toglie che le nuove tecnologie, rivoluzionando permanentemente le forze produttive, costringano il fronte proletario a reagire, non sempre con successo e con la migliore organizzazione.

Azzeccato però il nomignolo alla classe dei camaleonti. Si tratta della couche che, secondo i nostri criteri di riconoscimento, appartiene appieno a quelle mezze classi che, senza essere le effettive detentrici dei mezzi di produzione, trovano la loro collocazione come agenti di lusso del capitale, nella condizione di cambiare atteggiamento secondo il vento che tira. Sfruttano anche i lavoratori salariati, spesso sottopagati, delle dilatantesi società dei servizi.

Queste camaleontiche mezze classi, “che sentitamente disprezziamo”, si credono il sale della terra, il sostrato che permette tutte le mediazioni e le transizioni. Nella nostra ottica, al contrario, sono il terreno di coltura d’ogni espediente che impedisce il confronto diretto tra la classe borghese, che detiene gli strumenti di produzione, e quella che ne è invece non solo priva, ma ogni giorno di più spogliata, tranne che della forza lavoro, che è la sua esclusiva, scarsa e limitata risorsa.

Queste mezze classi, nella nuova collocazione all’interno della rivoluzione tecnologica informatica, sono definite la classe ansiosa, prigioniera della grande rete. Per l’anonimo Capitale funzionano da collante per esperimenti politici ed ideologici che vanno dal classico fascismo, all’opportunismo e al tradimento dichiarato della classe proletaria.

Vale la pena di citare dal libro “Le capitalisme zinzin”, di Erik Izraelewicz: «Il capitalismo bislacco che è sotto i nostri occhi, caratterizzato da una moltitudine di volti isterici, con sintomi da psicosi... Internet ci dà tanta libertà da renderci schiavi... Viviamo in un universo diviso in reti e sottoreti, tutto è interdipendente, per cui, come nella teoria del caos, basta il battito d’ali d’una farfalla in Occidente per provocare un terremoto in Oriente... l’intensità dei rapporti finanziari... fa sì che un piccolo errore provochi un cataclisma nell’intero pianeta. Si è più liberi e più schiavi allo stesso tempo. Una situazione simile alla schizofrenia, la schizofrenia della libertà: c’illudevamo che il progresso economico e tecnologico ci conducesse in un’era più grande stabilità e sicurezza, invece siamo spesso ai bordi d’un abisso. Si pensi alla brutalità dei movimenti economici, le borse e gli istituti finanziari non cadono, precipitano. Si pensi ai pericoli d’una guerra scatenata da una piccola etnia dotata d’una rete di mezzi informatici degni d’una grande potenza. Si era più sicuri nel Medio evo, si dipendeva molto di meno dalle “reti” dell’epoca e dalla socializzazione. La grande rete si comporta come il Lupo nella favola di Cappuccetto Rosso. Internet moltiplica libertà e prosperità da un lato, insicurezza e angoscia dall’altro... L’aumento della prosperità si accompagna alla nascita di una classe ansiosa, “the anxious class”, dilaniata sempre più da questa contraddizione».

Insomma, la reseaupolis, la città-rete, che nel giudizio di tanti sembrava la chiave di tutti i mali, il Nuovo Mondo con tanto di isole ed isolotti per tutte le robinsonate, si rivela un miraggio che, se in determinate circostanze toglie la sete, in altre, la maggior parte, la fa venire senza speranza di pronto intervento.

Ancora una volta, allora, è senza senso considerare le nuove forze produttive senza tener conto dei rapporti di produzione che le sottendono. È in grado la rete informatica di per sé di rivoluzionare i tradizionali, capitalistici, rapporti di classe? Evidentemente no. Si può detenere ferro o silicio, fabbriche fordiste o sparsi circuiti di produzione collegati solo dai fili del telefono, ma il risultato non cambia. Si può indossare una tuta blu sporca di grasso o un camice immacolato, ma gli strumenti di produzione rimangono, autocratici come sempre, ben stretti nelle mani dei detentori del Capitale. Non solo: nella nostra nozione, quanto più il Capitale attinge a nuove tecniche, tanto più si allarga la massa dei proletari e dei senza riserve, che sono tali non se appartengono ai servizi oppure alla fabbrica tradizionale, ma in quanto hanno a disposizione solo la forza delle loro mani, da quelle callose dei manovali alle dita sottili degli ingegneri!

È tesi ormai stantia quella che lo sviluppo tecnico ridurrebbe i ranghi della classe operaia, non più centrale, soppiantata dalle categorie dei cosiddetti servizi, di varia caratura. Per quello che ci riguarda non abbiamo mai idolatrato la centralità della classe operaia; ciò semmai è stato fatto, ante litteram, con la società dei produttori, ideata dal fascismo nascente, diventata poi il cavallo di battaglia del post-fascismo operaista ed opportunista. Noi sappiamo, proprio in virtù della teoria economica marxista, che il rivoluzionamento costante del modo di produzione capitalistico comporta un corrispondente rivoluzionamento della composizione tecnica del proletariato. Non solo non ci impressiona, per esempio, che la produzione di merci del settore agrario sia scalzata sempre più da quella del settore minerario e industriale. Ne siamo anzi oggettivamente favoriti, perché l’aumento della composizione organica del capitale costituisce la premessa della maturazione, poi dell’inevitabile crisi del capitalismo.

Noi restiamo dell’avviso che forza dirompente, nelle prime file delle schiere chiamate dalla storia a reagire allo schiacciamento e poi a rovesciare i rapporti di classe, sarà anche domani quella dei manovali, la massa del proletariato industriale ed agricolo, quelli della cosiddetta economia reale. Ma la classe operaia, l’ultima della storia, la classe che nega se stessa, non la definiamo in termini statistici o tecnici. La classe operaia è una prospettiva, un bisogno, una direzione e tendenza storica. Quella prospettica è vano cercarla nella purezza di date categoriesindacali nelle quali questa società morente imprigiona a vita, deforma e abrutisce i proletari, ma è accessibile solo dal punto di osservazione privilegiato ed esterno del partito di classe.

Insomma, tutto il chiasso che si fa sulla società dei servizi non è che una mascheratura dell’ideologia borghese, che però non riesce a nascondere la sua crisi, la marxistica ineluttabile caduta tendenziale del saggio di profitto, che non a caso è la bestia nera attuale del capitale globalizzato.
 
 

Le Biotecnologie

Ci sono stati momenti in cui la chimica è sembrata essere la chiave per penetrare i processi intimi della materia: oggi ci si avventura nel campo più complesso della biochimica, la biologia molecolare dei viventi e dell’uomo. Ma l’indirizzo che oggi sembra proporsi come foriero di grandi applicazioni, quello delle biotecnologie, può essere spiegato solo se affrontato col nostro metodo.

Abbiamo sempre mostrato come e perché i processi produttivi non sono separati da quelli riproduttivi, e come la riproduzione non può continuare ad essere semplicemente naturale o biologica, nel mentre la composizione organica aumenta nel campo produttivo. Se il ciclo è aperto, e comporta uno scambio continuo, è inevitabile che il Capitale invada sempre più la riproduzione naturale, intervenendo con le macchine, nel cuore stesso della vita. Il materialismo dialettico non solo non è a priori ostile all’intervento dell’uomo sulla natura, ma lo ha storicamente constatato da sempre, e riconosciuto come scambio necessario per lo sviluppo e la realizzazione di livelli più elevati di organizzazione umana. Nello stesso tempo non possiamo né denunciare né demonizzare lo studio sistematico delle origini della vita, compresa il rilevamento della mappa del genoma, che potrebbe permettere intanto la sconfitta di malattie e malformazioni.

Il problema, ancora una volta, non è astrattamente né morale né moralistico. La conoscenza oggettiva di questi processi, che non possono prescindere dal modo di produzione e riproduzione della vita, comporta per noi la valutazione dell’uso che ne viene e verrà fatto, valutazione che va riferita al bene dell’uomo comunista di domani, che solo in piccola parte è anticipato nel proletario di oggi.

Ormai, neanche i più accaniti fautori del Capitale negano che la scienza, la ricerca, dipenda dalle fonti finanziarie, e dunque riconoscono che non è indipendente dai grandi interessi economici. Il modo di produzione capitalistico si inviluppa e si avvita in una serie di contraddizioni che nascono da quella base: produzione sociale - appropriazione privata. Nel corso del suo sviluppo, dall’accumulazione primitiva fino alla sua fase imperialistica che sembra senza fine, è indubbio che produzione e riproduzione siano momenti inseparabili della vita e della storia, ma se entriamo nel nocciolo delle loro interne tensioni balzerà agli occhi che le nazioni e le aree che approdano alla modernizzazione capitalistica puntualmente fanno leva, agli inizi sulla sovrabbondanza di braccia, di forza lavoro, che gettano nel fuoco dell’accumulazione senza badare a risparmi (vedi oggi le miniere in Cina). La loro risorsa più importante, in questa fase non sono le tecniche, di cui sono debitrici nei confronti delle aree e paesi più avanti nell’analogo procedere. Si pensa prima di tutto a produrre, senza preoccuparsi troppo degli scompensi gravi che si vanno producendo nella vita della forza lavoro. Fino al momento in cui ci si rende conto che gli squilibri provocati in un modo di produzione che non è capace di progettare e sacrificare se non in nome e sull’altare del profitto, intaccano la vita produttiva, che si contrae, fino al punto di rendere precaria la riproduzione stessa.

Quando si sente dire che le biotecnologie saranno in grado di risolvere la fame delle aree più impoverite, non si dice altro che quello che si è secolarmente promesso: il progresso salverà tutti indiscriminatamente. Quando i paesi più avanti nella desertificazione riproduttiva, i paesi metropolitani, si trovano nel cuore della saturazione tecnico-tecnologica, allora assistiamo alla nascita di spinte e movimenti che si appellano alla natura, riproponendo l’antico mito che dovrebbe salvare contro la dannazione del mondo meccanizzato.

Mai saremo di quelli che storcono il naso davanti alla tecnologia. Semplicemente non accettiamo di parlarne, in quanto produzione della vita e delle condizioni per la vita, in modo generico ed indifferenziato come ha sempre fatto e continua oggi impunemente a fare l’ideologia borghese, in senso lato. Nessun borghese si avventura a pensare che la tecnologia, compresa la biotecnologia, sulla quale il Capitale è attualmente proiettato per brevettare nuove forme di intervento nella produzione e nella riproduzione, trova il suo interno limite nel Capitale!

Dovremmo noi piccolo partito, embrione clonato, poter rattoppare un deficit storico! (Ci permettiamo questa breve digressione biologica). Se clonare significa, come è noto, coltivare cellule per produrre nuovi tessuti, noi lo escludiamo. Ci fu chi ci provò, nel 1921, in nome della bolscevizzazione, proprio in aperta polemica con la nostra visione organizzativa di tipo territoriale: quelli che s’illudevano di creare, volontaristicamente, cellule di fabbrica, di caseggiato, d’ufficio, non si rendevano conto che non è creando cellule tutte uguali, tanto per moltiplicarsi, che si rafforza il Partito. Ancora una volta opponevamo la concezione organica, che prevede una complesso vivente, strutturato su una base programmatica, oseremmo dire genetica, ben precisa, quella che la storia tramanda e ordina.

Oggi la ricerca sulle biotecnologie afferma di poter giungere a coltivare cellule per correggere errori e guarire determinate malattie, ma il gran chiasso che se ne fa non è di buon auspicio. L’evoluzione della cellula, anche biologicamente parlando, non è graduale, ma risponde a leggi e processi dialettici... Tanto è vero che i comitati bioetici, che si vanno moltiplicando senza necessità, cercano di darsi una forma democratica, in modo che vi siano rappresentate le varie correnti politiche ed ideologiche, per camuffare o nascondere la sete di profitto di tutti e non ammettere che ciò che frena ricerca e scoperte non è che la contraddizione che stringe Scienza e Capitale, in un corto circuito senza precedenti.

La paura di creare mostri, di dar corpo ad un’umanità di schiavi, come pretendevano le ubbie eugenetiche dei nazisti, si sono travasate democraticamente in tutti gli ambienti della società civile: tale paura non ha altra base che quella che poggia sulla già esistente società di mostri, giornalmente prodotta e riprodotta dalla caserma delle fabbriche e dovunque viga e si perpetui il modo capitalistico di organizzazione sociale.

Hanno ragione di temere di peggiorare la situazione: il Capitale non può che sviluppare le condizioni d’un modo di intendere la vita che urta contro l’umanità di Specie, l’unica che non avrà nulla da temere dalla scienza e dalla tecnica!
 
 

Dalla Natura al Lavoro

In verità l’ideologia borghese, per quanto variegata e rispecchiante un arco di punti di vista che non si sono mai coagulati in una visione compatta ed unitaria, come quella che noi rivendichiamo al nostro modo di intendere e al nostro organo politico, si è mossa fin dalle sue origini tra due poli: il primo, d’origine roussoiana, ruota intorno al mito della Natura buona e della Società cattiva, che la corrompe, l’altro, opposto, ma non poi tanto, della Natura vorace ed aggressiva, che costringe l’uomo a difendersi, ad essere violento se vuole sopravvivere e far fronte a tutte le insidie.

Certamente la prima versione ha sempre affascinato di più, poiché ha dato il destro per teorizzare la reazione dell’uomo alla corruzione provocata dal vivere sociale e l’impegno a restaurare il regno della “Virtù”. L’altra, di impronta libertina e sensista, dà corpo alla corrente del materialismo volgare e meccanicista, che finisce per rappresentare la Natura come la grande Madre violenta che è, per definizione, azione e movimento e che coinvolge inevitabilmente nel suo vortice tutte le creature, da quelle animali e vegetali fino all’essere umano, giustificato, in questo modo, nel suo modo di reagire aggressivo, avido, violento. Una sorta di vitalismo nichilista che si è protratto fino alle estreme conseguenze nel Novecento, nei movimenti reattivi di tipo nazionalista, di matrice razzista, in nome dell’affermazione del più forte, che detta la sua legge proprio in nome della Natura, che solo lui interpreta adeguatamente. Il fenomeno stesso del nazismo, che viene imputato alla cultura tedesca, in realtà ha matrici più larghe, nel darwinismo sociale, che poco ha che fare con le scoperte del genio Darwin!

Accanto ad intuizioni “rivoluzionarie”, la borghesia presto piega ideologicamente le sue concezioni ai suoi esclusivi interessi, portando a conclusioni aberranti e odiose, che il materialismo dialettico respinge non in nome di un generico umanesimo, ma delle ragioni del proletariato, battendo in breccia il materialismo metafisico, nuovo Dio e nuova forma di idolatria che in buona misura ha filtrato anche correnti socialistiche, cadute nell’opportunismo.

La deificazione della Natura ha certamente un senso per la nuova classe: l’operazione si riscontra non solo nella cultura francese, ma anche in quella inglese, patria della rivoluzione industriale. Se le leggi di natura vengono deificate, basta proclamarsi ad esse devoti per mettersi in una botte di ferro. Le leggi del mercato comportano obbedienza, e non pretesa volontaristica di piegarle al proprio utile ed esigenze. Dalla favola delle Api di Mandeville, nella quale i vizi diventano virtù, alla considerazione del padre della economia classica A. Smith, cosa si fa se non affermare che il presunto egoismo (non solo individuale, ma di classe) finisce per rivelarsi come altruismo, una volta che venga esercitato con professionalità e impegno. Perché si crede che il macellaio o il birraio ci diano carne e freschi boccali, perché siamo capaci di indurlo in compassione? No, perché siamo dei compratori da tenere in debito conto e rispetto. Tutto ciò in nome della legge di natura che anima il mercato. Le leggi dell’etica e della morale, considerate fino a questo momento imposte da Dei, Chiese o Stati, vengono rivendicate come il piacere che la natura induce ciascuno a perseguire liberamente, pena il non assecondarla e ubbidire ad essa adeguatamente.

E noi, che cosa abbiamo da opporre? Una più edificante morale? Si potrebbe credere che in quanto materialisti dovremmo allinearci alla verità senza peli dei focosi libertini... Sarebbe troppo facile e troppo odioso! Il materialismo dialettico, una volta che affermi la verità della prassi, non esalta certo l’azione per l’azione. La specificità del materialismo storico e dialettico, semmai, è proprio quella di individuare i ritmi dell’azione e del movimento; quello che aveva fatto, in senso idealistico, e dunque da rovesciare, o meglio, da rimettere sui piedi, l’idealismo di Hegel.

Al contrario l’azione per l’azione viene affermata già nel Settecento, in un furioso tentativo di teorizzare il primato della natura, del suo interno agitarsi, da tutti i punti di vista fino all’esaltazione, non tanto metaforica o paradossale, del “crimine”. «È sensato e ammissibile che il più debole abbia la forza di offendere il più forte? Cosa siamo noi relativamente alla materia? (la questione ci riguarda da vicino, ndr). Può essa, creandoci, avere posto in noi ciò che avrebbe capacità di nuocergli? Tale stupida supposizione si accorda con la sublimità e la sicurezza con le quali la vediamo pervenire ai propri scopi? Ah! Se l’omicidio non fosse una delle azioni dell’uomo che meglio portano a compimento le sue intenzioni, permetterebbe che fosse compiuto? L’uomo non rimarrebbe impassibile ai colpi dell’uomo? Imitare la natura può dunque nuocere alla natura?... perché è dimostrato che essa non può riprodursi che distruggendo, non è agire conformemente al suo scopo moltiplicare senza sosta la distruzione? Non è forse cosa gradita cooperare ai suoi disegni?» (De Sade, La nouvelle Justine).

Ci si dica in che cosa differisce questo passo dal cosiddetto darwinismo sociale di stampo positivistico. Si provi a sostenere che l’ideologia borghese sarebbe degenerata soltanto con l’avvento del fascismo e del nazismo! Siamo lungi dal sostenere che la borghesia ed il suo pensiero, le sue sovrastrutture mentali sono le stesse nel ‘700 e nel ‘900, ma certamente, come si dice, la stecca si assomiglia al legno! Il pensiero borghese non poteva che svolgersi dalle sue premesse.

La Sinistra comunista, senza mai scadere nel sentimentalismo belante, che oggi sembra farla da padrone, rivendica che la sua lotta per il comunismo è fondata su un sentimento di base e originario, che mentre non è in contrasto colla scienza della società, nello stesso tempo non è da essa diviso. Stiamo per dire senza ombra di retorica che per noi veramente fede e ragione vanno d’accordo. Siamo arrivati a sostenere che difenderemo la nostra classe, se necessario, con cieca fede, facendo gridare al fanatismo. In realtà la cieca fede è adesione al programma storico di classe anche quando l’analisi e lo studio della realtà concreta sembrano incapaci di riscaldare il cuore e sembrano porre l’avvento del comunismo in un lontano e quasi impalpabile futuro.

Contro il materialismo borghese, mai e poi mai saremo disposti a sottoscrivere una versione e visione della realtà fatta di individui in eterna lotta, in un groviglio indiscriminato di tensioni e di conflitti che dovrebbero essere noti solo alla natura in quanto madre o matrigna. Sosteniamo che una semplificazione di questo genere è incapace di cogliere il divenire storico delle forze di classe, il loro scontrarsi, ma anche l’incontrarsi, il riconoscersi e stringersi di singoli all’interno delle classi inferiori, il loro unirsi, in determinati svolti storici, dando prova di empatia, di affasciamento capace di sentimenti e di disinteressata lotta solidale che spiana la strada al nuovo, ad affetti e rapporti sociali superiori, oltre la lotta intraspecifica tra gli esseri viventi, alla preistorica competizione che seleziona, elimina, distrugge.

La nostra nozione di materia e di natura è ben più articolata e mossa, ricca di interne ed esterne distinzioni di quella metafisica della borghesia; e ciò proprio in virtù del fatto che l’essere umano non è semplicemente parte integrante o appendice ultima di essa, ma un fattore attivo, capace di trasformarla. Naturalmente più o meno un’ovvietà, ma che merita di essere sottolineata in tutta la sua portata. Se la natura avesse un potere avvolgente ed esclusivo, allora sì che saremmo alle sua mercè, in bene ed in male.

La natura del lavoro e della produzione non ha avuto prima di Marx una spiegazione ed una giustificazione definitiva. Dalla concezione negativa, per la quale il lavoro è il prodotto della colpa, a quella positiva, per la quale il lavoro è preghiera, intervento positivo sull’ambiente, addirittura collaborazione alla attività creativa permanente della natura o di Dio, soltanto con l’avvento dell’economia politica classica è iniziata una valutazione radicalmente scientifica e critica della natura e della funzione di lavoro e tecnica. Marx non ha mancato di riconoscere la scientificità dell’apporto di personaggi come Smith e Ricardo, ma ha rivendicato al materialismo dialettico la scoperta completa delle ragioni e dei comportamenti fondamentali della specie umana nel suo svolgersi storico. Parlare, per noi, di lavoro e di strumenti produttivi in generale non significa niente se dimentichiamo le interne e specifiche sfaccettature del fenomeno produzione. Nella Introduzione del 1857 alla Critica della Economia politica, Marx sottolinea che la produzione è anche distruzione, che il lavoro è anche consumo, che il consumo è a sua volta anche produzione, in un cerchio che va spiegato dialetticamente. Non un circolo vizioso, come pensano i materialisti metafisici, ma un andamento contraddittorio di cui si tratta di individuare le linee di forza.
 
 
 
 
 

LA TECNICA NEL SOCIALISMO
 

Staliniani capovolgimenti

Da una ricerca del Partito Socialista Italiano di fine Ottocento si ricavava che l’operaio avrebbe potuto lavorare, con i nuovi mezzi, di allora, 4 ore al giorno, mantenendo lo stesso livello di vita, in modo da poter dedicare l’altro tempo alla sua educazione e a solidarizzare con i suoi simili. Se stessimo alle rivoluzioni tecnologiche del secolo appena trascorso, chissà dove potremmo spingerci. Ed invece, per ammissione ufficiale, il tempo di lavoro medio si è ancora allungato, in barba alla conquista storica delle 8 ore giornaliere. Non solo: si ammette che il lavoro nero, infantile ed altre vergogne è ormai all’ordine del giorno, non soltanto nei paesi a scarso sviluppo ma all’interno dei più evoluti paesi metropolitani, a cominciare dagli Stati Uniti! Tutto questo nonostante l’enorme capacità produttiva del lavoro moderno.

Né riduzione dello sforzo e della durata del lavoro promettono più i movimenti falsamente operai e socialistici, da quello ormai ex di Stalin e successori fino a Fidel Castro e agli infimi super-ex di tutto il mondo. Giunti al punto in cui siamo, con il tonfo del muro di Berlino, le giravolte di Castro (ma potremmo parlare diffusamente di Cina capitalistico-comunista...) è il caso di ribadire senza ombra di equivoco il nostro modo di intendere il nesso tecnica-socialismo.

Nel socialismo, prima ancora della razionalità del piano, viene la liberazione politica ed economica del proletariato dalla soggezione al Capitale; una volta che si dimentichi e che si sacrifichi questa priorità, si cade, come è avvenuto, nelle nefandezze dell’emulativismo di tipo real-socialista, nel nuovo idolo che la versione staliniana della controrivoluzione ha finito per identificare con la pianificazione.

Funzione dei Provvedimenti Rivoluzionari Immediati della dittatura comunista nel campo della tecnica e del lavoro non sarà lo sviluppo delle forze produttive, già fin troppo tese dal capitalismo. Esattamente al contrario tenderanno a ridimensionare da subito le produzioni, che per il 90% sono di prodotti inutili, con la soppressione radicale di interi rami d’industria o riduzione a pochi percento dell’attuale (estrazione del petrolio, per esempio). A differenza della pianificazione quantitativa e senza misura del capitalismo, che tutto è volto a violentare e distruggere, il Piano di Specie del socialismo avrà il compito di armonizzare i cicli di vita, proporzionare produzione e riproduzione in ritmi lenti, che sono quelli propri biologici dell’uomo e della donna, delle stagioni, del giorno e quelli complessi e a volte lunghissimi della natura. Solo distrutta la folle brama di plusvalore si potrà pianificare, poggiati sull’enorme crescita delle forze produttive ereditate dal capitalismo, per la prima volta nella storia umana liberi dal vincolo dei costi. Cosa possa comportare questo controllo cosciente a livello di specie e nella prospettiva temporale di alcune generazioni, le nostre menti di preistorici possono solo intravvederlo.

Tutto ciò che ha attinenza con la razionalità non è di per sé ostile alla nostra concezione della vita e della società, anzi; ma alla condizione che prima di tutto si affermi la negazione del lavoro salariato e lo si abolisca. Sappiamo bene quanto appassionati e tragici siano stati i dibattiti su come mettere in atto la politica della dittatura nella Russia, politicamente comunista ma economicamente arretrata e fondata socialmente sull’alleanza operai-contadini, e quali aberranti eresie si siano potute affermare sulla spinta di pressioni ed esigenze storiche che apparvero senza alternativa. Soltanto la sana teoria di Lenin e della Sinistra non perse di vista la globalità delle questioni, e nessuna necessità, né quella dello sviluppo dell’industria, né quello dell’agricoltura, che si contendevano la precedenza, poté aver la meglio sulla valutazione storica di fondo: la vittoria del socialismo non è una questione di tecniche più produttive, ma una questione prima di tutto politica, che cioè guarda quale classe è al potere dello Stato. Una volta che sia ridotta a fatto amministrativo, allora tutto è possibile, compreso lo stakhanovismo e l’assoggettamento nuovo al vecchio idolo, il Capitale, interpretato in chiave nazional-popolare. Per questo la Sinistra non ha mai rinunciato a porre la questione Partito fuori dalle pastoie amministrative o organizzative, perché anch’esse sono espressione del primato di tecniche, di manovrismi, di forme, piuttosto che di sostanza.

Chi ha insistito a cercare le ragioni delle differenze tra mondo capitalistico occidentale, e realtà orientale ed asiatica, non si è reso conto che le sovrastrutture, pur non essendo indifferenti, non costituiscono certo la causa del primato tecnico-tecnologico dell’Occidente. Nella contrapposizione storica tra i cosiddetti slavofili (come Stalin) e gli occidentalisti (Lenin e Trotki) c’è un pizzico di verità, ma si tende a dimenticare che ai marxisti interessava innanzi tutto il differente grado di sviluppo e di maturazione sociale del capitalismo fra Europa e Stati Uniti e Russia e Asia. Marx chiama asiatico un modo di produzione, quello della grande Russia, che non è esattamente da assimilare al medioevo. La questione tecnica non era risolvibile solo pianificando all’interno, nel paese solo, la costruzione di macchine o dell’elettrificazione, perché richiedeva profonde trasformazioni, e tecniche e sociali, tali da presupporre la solidarietà di un proletariato ben più forte e maturo, educato dalla grande industria e che disponesse di essa, come quello di Germania e dell’Occidente. Il drammatico problema rimase non lo sviluppo tecnico, ma il mantenimento del potere in Russia, nell’attesa della rivoluzione in Occidente.

Ora che il presunto comunismo asiatico russo è imploso è ancora più difficile avvicinarsi alle grandi questioni che impedirono al proletariato occidentale la presa del potere negli anni Venti. Certo è che, 1989, l’imperialismo russo non è caduto per debolezza culturale, tecnologica, ma perché, nella crisi economica, è stato sopraffatto dai concorrenti sul mercato mondiale.
 
 

Verso il Piano di Specie

La tecnica, come espressione della capacità di lavoro e di organizzazione, non è soltanto un rimedio, che allude inevitabilmente ad un deficienza di base dell’essere umano, ma la facoltà che, unendo la mente alla mano, permette di realizzare quella integrazione reciproca tra uomo e natura, che è stata bene definita da Marx nei Manoscritti “umanizzazione della natura e nello stesso tempo naturalizzazione dell’uomo”. Questo scambio equilibrato e razionale non è stato possibile, tradito dalla borghesia, nonostante che l’avesse a suo tempo promesso, perché le contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico le impediscono di muoversi secondo un Piano di Specie.

Contrariamente alle aspettative si riconosce che le differenze tra chi ha e chi non ha nulla sono ogni giorno acuite dallo attuale modo di vita: dove sta il segreto, l’arcano terribile di questo andamento delle cose? Inevitabilmente in un modulo di sviluppo che non è semplicemente quello determinato dalle storture della tecnica, bensì dalle tecniche dominate e governate dall’imperialismo mondiale. A che vale allora lamentarsi dei cosiddetti eccessi della globalizzazione se le spinte nella direzione dell’imperialismo sono state ampiamente analizzate e denunciate un secolo e mezzo fa dal Capitale di Marx? E quando Marx sostiene che le società di classe sono condannate ad uno scontro che porta alla dittatura del proletariato non esprime soltanto un desiderio, ma individua un processo storico e le sue leggi interne.

Solo il Comunismo come regime sociale dispiegato alla scala sociale è in grado di superare ogni tipo di feticismo. Il Comunismo costituisce l’abolizione del Capitale, e con ciò della merce come molecola fondamentale di esso.

La tendenza dell’ideologia borghese ad attribuire alla tecnica certe storture prodotte dal modo di produzione capitalistico è falsa e bugiarda. Colpendo, come fanno alcune correnti umanistiche, l’aspetto modernizzante del capitalismo, si ha la pretesa di salvare il sistema complessivo. Noi, al contrario, non solo non siamo ostili alle tecniche, ma siamo convinti che solo il comunismo sarà in grado di svilupparle in modo armonico, una volta che le classi non ci saranno più. Non ne facciamo una questione intellettuale, ma una questione pratica, quando il feticismo della merce non produce solo alienazione, ma fame effettiva di una buona parte dell’umanità intera. Chi intende restituire alla Specie la terra e le risorse perché vengano utilizzate per tutti, deve riconoscere che senza la lotta politica contro gli apparati che presidiano il Capitale a livello generale, non è possibile passare al riequilibrio, tanto propagandato, tra uomo e natura.

Nessun ostracismo allora alle tecniche in quanto tali, ma al Capitale che le sottopone al suo feticcio di base, il Profitto. Nel socialismo sarà possibile dare inizio effettivo alla riforma sociale di fondo: produrre a livello di specie per realizzare una distribuzione sociale, contro l’attuale insanabile contraddizione che ad una produzione ormai globalizzata fa corrispondere una distribuzione legata alla miseria dell’appropriazione privata dei prodotti. Ogni altra via è impraticabile, oppure è funzionale ancora una volta al regime capitalistico.

Solo l’abbattimento del potere politico borghese libererà la capacità di sviluppare e scambiare i nostri umani rapporti con la natura. Alla triade, presentata come eterna dall’ideologia liberale, Terra-Capitale-Lavoro, opporremo la diade Terra-Lavoro, propria del modo di produzione e di vita sociale comunista. Significa questo che siamo ostili allo sviluppo delle tecniche? Abbiamo detto un’infinità di volte no. Non abbiamo e non vogliamo, né possiamo, spartire qualcosa con le forme di socialismo reazionario, dallo Stato commerciale chiuso alla Fichte a tutte le vulgate reazionarie che vanno da Sismondi, Fourier, fino alle più o meno larvate nostalgie federal-populiste o no-globaliste che pretenderebbero di opporsi alle leggi dell’imperialismo alla scala mondiale attraverso ecologismi, commerci equi, regionalismi, apparentamenti subnazionali, locali, e così via.

Ma non siamo fautori della tecnica in quanto tale, per le ragioni che abbiamo finora esposto. Ed allora, quale sarà, quale potrà essere il legame tra conoscenze generali della natura e della vita e le forme di produzione che vigeranno nel socialismo? Una volta che la legge del profitto sarà abolita, non potranno rimanere contraddizioni tra lavoro, elaborazione delle tecniche più adeguate ed utili, e Piano generale di specie. Il regime sociale comunista non ha nulla da temere dalla tecnica, perché essa sarà il lavoro razionale, sorretto dalla conoscenza sempre più estesa e consapevole della natura e della società. Il lavoro ha soltanto bisogno d’essere riconsegnato al proletariato e da esso governato, all’ultima classe che non ha interessi privati da difendere.

Il socialismo, quindi, non nasce da un’esigenza di chiusura nei confronti della creatività umana, in nome della miope sicurezza, del garantismo, come si sostiene tra gli eretici d’ogni scuola. Marx formula la necessità del comunismo non per un impulso malsano cresciuto nella sua testa, ma sulla base d’una ricognizione storica dell’andamento oggettivo delle forze produttive, e della incapacità di tenuta e di controllo delle stesse da parte dei rapporti di produzione di tipo capitalistico. Certamente in questa determinante considerazione sta il riconoscimento per il quale le forze produttive costituiscono l’elemento dinamico e dirompente in rapporto alle forme di produzione. Detto in altri termini significa che la potenza del lavoro non può essere contenuta dalla pretesa privata di appropriarsene a buon mercato. Il lavoro raggiunge nel sistema capitalistico una complessa rete di relazioni, che oggi viene chiamata globalizzazione. In realtà la concorrenza, la lotta senza quartiere tra la miriade di intraprese private (o anche statali... poco cambia) spinge verso il monopolio, con inevitabile distruzione di forze produttive. Il liberismo originario, nelle sue varie formulazioni, vorrebbe impedire che il Capitale fosse animato da questa sua interna dinamica, e si affida a leggi antitrust per ripristinare il mai esistito buon tempo antico, in cui la libertà di impresa si sarebbe svolta senza i mastodonti che fagocitano i piccoli operatori economici... Altro che avvenire! L’ideologia borghese non è affatto rivolta la futuro, che non sa vedere né delineare; è rivolta al passato, come la sua malata memoria lo dipinge.

Nel nostro caso invece, per via dialettica, mentre c’è il riconoscimento della potenza del Capitale che ha rotto antichi ed angusti involucri, c’è l’individuazione dell’impossibilità per i nuovi di reggere alla pressione della potenza del lavoro sociale, che ha soltanto bisogno di essere liberato per dar corpo alla produzione di tipo socialista, in cui non c’è più contraddizione tra lavoro altamente organizzato in senso sociale ed appropriazione privata, non più in grado di progettare il futuro.

Non saranno certo gli ingegneri, i tecnici, tantomeno i filosofi, a loro sovraordinati, secondo ogni imbelle idealismo, a sovvertire la società fondata sul profitto, ma la rivolta della classe lavoratrice, dei classici manovali, quando sarà giunto il momento. Il socialismo, lo andiamo ripetendo da secoli ormai, non sarà il prodotto della bella e finalmente illuminata pensata dei filosofi, ma la necessità-libertà che verrà imposta dai processi sociali che non sopporteranno più le interne contraddizioni.

Gli operai sono in grado di abbozzare la rivolta contro le inumane condizioni di lavoro in cui si trovano. Ma la liberazione dalla soggezione di classe comporta lotte e sistemazioni di esperienza che non sono possibili col semplice passaggio del lavoro manuale e quello intellettuale, in senso graduale ed indolore. Se così fosse il passaggio da una tecnica ad un’altra non sarebbe stato altro che un lento affinamento delle vecchie forze produttive, un’aggiunta di nuovi ingranaggi e rotelle nel grande marchingegno dell’organizzazione del lavoro. A queste favole ha abituato a pensare l’ottimismo di maniera del mondo borghese, che noi abbiamo storicamente demistificato, e che ancora oggi, più che mai, deve essere smentito.

È necessario che il partito non perda di vista le linee critiche e programmatiche della sua tradizione. La tecnica non si muove come una natura semidivina tra gli uomini. La tecnica è il lavoro umano organizzato secondo forme e modi che non sono il frutto del caso, ma di determinati bisogni, alla cui risposta la società assume un fisionomia o un’altra. Allorché anche della tecnica si è fatta una divinità alla quale sacrificare, allora vuol dire che è finita la fase rivoluzionaria e progressista, ed un’altra, repressiva e ostile per le classi subalterne, ha preso il suo posto. La razionalità della misurabilità, della serie, diventa l’unico dio a cui preferire la considerazione e la difesa del lavoro salariato.

Nessuna idiosincrasia preconcetta dunque nei confronti della tecniche, comprese quelle mediatiche, informatiche, telematiche, che anzi dobbiamo usare come strumenti da piegare alla nostra causa. Del resto, se sappiamo meglio comunicare, trasmettere, parlare, non è affatto casuale. Dobbiamo, se fosse possibile, saperlo fare meglio dei borghesi, e l’esperienza non ci manca. Nell’Ottocento un’opera come il Capitale ebbe il potere di affascinare per la sua verità e potenza fiore di intellettuali dell’opposta barricata; ed ancora oggi ci risulta che nelle università americane, a titolo di conoscenza, le teorie “marxiane” sono tornate di moda. Non è questo che ci interessa, ed anzi dobbiamo combatterlo, ma è la prova che non dobbiamo cadere in trappole passatiste e reazionarie.

Quando diciamo che l’uomo è plasmato dai rapporti sociali abbiamo già detto tutto, sia che si viva nell’epoca del telegrafo, della radio o delle reti informatiche. Ciò che invece la borghesia non potrà mai acquisire per i suoi limiti intrinseci di classe è di concepire un piano di Specie, di farla finita con l’individualismo e con l’appropriazione privata, con la tendenza a concepire le tecniche come espedienti per l’estorsione del plusvalore, o come gingilli per i propri gusti da rimbambiti e piaceri di infimo livello.

La nostra concezione generale invece sente che l’organizzazione del lavoro, anche quella capitalistica, preme inesorabilmente nella direzione del socialismo. Al contrario il pessimismo borghese, che convive con l’apparente allegria di chi ogni giorno teorizza leggerezza e virtualità, si tinge, anzi è ormai coperto dal velo nichilista, proprio per la inconscia fobia nei confronti dell’apparato tecnico che minaccia, fagocita con la sua complessità sempre più inestricabile ai suoi occhi. Da qui la nostalgia per un pensiero ludico che non conclude nulla e non serve a nulla, misero surrogato della nostra previsione sociale, ed attuazione pratica nel partito, di tempo di lavoro e di studio disinteressato e non retribuito, necessario alla scienza e ad ogni vero progresso.

Non ci sono segreti particolari perché gli strumenti che l’uomo usa acquistino, o riconquistino, un’anima. La riappropriazione del senso del lavoro e della vita non sarà individuale, ma generale; quello che la mentalità piccolo-borghese non riesce ad accettare, perché non vuole rinunciare al sentimento proprietario, all’uso esclusivo delle cose proprie. Il rapporto che si stabilisce tra l’individuo e gli oggetti d’uso è oggi segnato dallo stigma di classe: ci si illude che il titolo proprietario possa piegare gli utensili e le espressioni del lavoro alle manie più insulse dell’individuo, nell’incapacità di vedere il frutto del lavoro collettivo, lì, a portata di mano per il godimento e la realizzazioni di tutti.

Il ciclo di vita delle tecniche necessarie per realizzare l’interazione capitalistica è inesorabilmente sempre più breve, presto cadono nella obsolescenza con lo stesso ritmo frenetico col quale il lavoro vivo si accumula in morto capitale fisso. L’abbiamo chiamato omicidio dei morti. L’uomo primitivo imparò a credere all’anima, come suo doppio o che immaginava potesse sopravvivergli. Oggi la coscienza delle masse anche di questa illusione è privata e dispera di produrre oggetti, o pensare principi, non diciamo eterni, come fu della poesia, dell’arte, della religione, ma soltanto duraturi, impedita dalla necessità di servire il profitto che tutto presto svilisce e distrugge. Nella produzione comunista questa scissione, che poi è stata il prodotto della sfasatura sociale e temporale tra produzione e distribuzione, tra momento lavorativo e godimento del frutto del sacrificio, non si verificherà, lo scambio mutuo tra cultura e natura permetterà di vivere, di produrre e di consumare, secondo un piano, di non immediato orizzonte, che abbraccerà e l’uomo e le cose da lui prodotte. Una resurrezione-riappropriazione del lavoro dei morti e dei vivi.
 
 

Energia, Massa, Accelerazione

«Se la massa non potesse trasformarsi in energia una candela non potrebbe brillare di luce. La luce quindi ha le sue radici in questo straordinario processo in cui la massa si trasforma in energia» (Zichichi). Si provi, con un po’ di fantasia (e neanche poi tanta!), ma dettata dalla passione e dall’entusiasmo, ad immaginare in che modo la massa del lavoro umano proletario si trasforma in energia rivoluzionaria. Ci si potrebbe obiettare che “non si vede”, confermando così che non c’è più cieco di chi non vuol vedere...

Si pensi, inoltre, alle accelerazioni che la massa del lavoro proletario ha subito, in due secoli di estorsione della forza lavoro, con le classiche “sfiaccolate” del ‘48, del ‘71, del 1917, e ci si renderà conto di quanto sia vera, e come venga confermata la teoria per la quale la massa è una grandezza fisica il cui modulo è rappresentato dal rapporto tra la forza applicata ai corpi e la loro accelerazione che, mentre nella fisica classica è intesa costante, nella relatività, invece, dipende dalla velocità.

La classe proletaria, e non i singoli proletari, è interessata all’applicazione della forza di accelerazione determinata dalle sempre nuove tecniche di produzione, provocando, nell’ambito dei rapporti di produzione, sussulti e sconvolgimenti che hanno portato allo scoppio rivoluzionario per ben tre volte in due secoli.

La relatività è confermata dal fatto che i tre sconvolgimenti principali non si ripetono secondo una pianta costante, ma aumentano di potenza e di proporzione, determinando un incendio mondiale, che si crede definitivamente sedato ma che invece proietta bagliori sinistri ancora oggi, non solo nella memoria, ma nella realtà storica e sociale. Certo, la Luce, la Scintilla (Iskra), non è sempre visibile... come avviene per lo scoppio delle bombe ad energia atomica.

Gli stessi disastri e macerie delle sconfitte non sono della stessa natura.

Anche a livello sociale, sia pure non meccanicamente, si verificano i processi che interessano la materia: ai nostri occhi, energia, massa, accelerazione!
 
 
 
 



 
 

Il Prodotto del Pensiero
nella concezione idealistica borghese
 

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LAVORO
PRODUZIONE E RIPRODUZIONE
DELLA VITA




MATERIA di LAVORO



 
 



- La Auto-produzione dell’Uomo nella lettura marxista (.pdf).
 
 
 
 
 

Dall’Archivio della Sinistra
 
 
 

Da: “Il Programma Comunista” - n.5/1953

Sul filo del tempo
ANIMA DEL CAVALLO VAPORE
 

Scopo principale delle nostre trattazioni – nelle quali è indispensabile il continuo ripetere dati richiami ai «teoremi» fondamentali, e meglio se con le stesse parole e frasi – è la critica del farneticamento sulle forme «imprevedute» e difformi del capitalismo modernissimo, che costringerebbero a rivedere la basi della «prospettiva» e quindi del metodo marxista.

Tale falsa posizione è facilmente messa in rapporto col disconoscimento, e meglio colla mai avvenuta conoscenza, delle linee essenziali della nostra dottrina, dei suoi principii cardinali.

Tutta la discussione in corso sulle forme rivoluzionarie in Russia, ed in Cina, si riduce al giudizio sul fenomeno storico dell’«entrata» dell’industrialismo e del macchinismo in aree immense del mondo, finora rette da forme terriere e precapitaliste della produzione.

Costruire industrialismo e meccanizzare è uguale a costruire socialismo, ogni volta che si fa con piani centrali e «nazionali». Ecco la tesi errata.

La classica identità storica marxista è tra macchinismo e capitalismo. La differenza tra impiego delle forze meccaniche in una società capitalista e in una società socialista non è quantitativa, non sta nella direzione tecnica ed economica portata da cerchie ristrette ad una cerchia totale. Essa è qualitativa e consiste nel capovolgimento completo dei caratteri capitalisti dello impiego delle macchine da parte della società umana, cosa ben più profonda, e che consiste in «rapporto tra uomini» opposto a quello del maledetto «sistema di fabbrica» e della divisione sociale del lavoro.

Tre forme storiche: industrialismo per aziende autonome; industrialismo per aziende sempre più concentrate e infine unificate nella direzione; socialismo; tutte e tre prevedute e descritte «dal primo momento» in Marx. Nulla di sopravvenuto, che inatteso fosse, o spezzasse i limiti dell’analisi, allora delineata per sempre. E chi parla di dogmi si freghi. Non conosciamo rinnegato, nella cui bocca non abbia fornicato tale parola. Mao-Tsetung la paragona a «sterco di vacca». Ebbene, buon appetito.
 

IERI

L’uomo e la macchina

John Stuart Mill, uno dei profeti del Capitale, nei suoi classici Principles of Political Economy (Londra 1821) dice che resta ancora a sapersi se le invenzioni meccaniche abbiano reso meno pesante il lavoro di un qualsiasi genere umano. Marx parte da questa citazione nello studio del macchinismo. Per la prima volta, nel campo delle scienze sociali, la discussione comincia con lo spostare radicalmente il modo di impostazione dei quesiti. Se la macchina sia un bene o un male, tutt’al più sarà un bel tema per saggio di letteratura. Marx centra ed orienta subito la questione sull’impiego capitalistico delle macchine. Questo, di diminuire il lavoro del genere umano, non ne era affatto lo scopo. Esso impiego, «come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, non mira cha a diminuire il prezzo delle merci, a raccorciare la parte della giornata in cui l’operaio lavora per se stesso, ad allungare l’altra parte in cui lavora per il capitalista». Tale rigorosa definizione (inizio del cap. XIII, primo Tomo) al solito contiene in sé, e lo vedremo facilmente, il programma comunista. Faremo noi a meno di macchine, per punirle di avere commesso tale porcherie? All’opposto, le impiegheremo in quanto, ed in modo che si possa, in un primo periodo, alzare i costi di produzione e abbassare la parte del tempo in cui l’operaio lavora per il capitalista, in periodo ulteriore «sviluppare la forza produttiva del lavoro» non per avere prodotti in quantità folli, ma per erogare meno lavoro.

Sempre per saggiare il metodo antimetafisico, riesce gustosa la noterella a piè di pagina, alle parole sul render meno grave il lavoro di un qualsiasi genere umano. «Mill avrebbe dovuto aggiungere: che non viva del lavoro altrui, perché è cosa certa che le macchine hanno grandemente aumentato il numero degli oziosi, cioè di quelli che si sogliono chiamare persone ammodo».

Dunque, se è marxista la tesi «le macchine erano indispensabili per arrivare alla rivoluzione comunista» effetto di lettura banale ed impotente è il luogo comune sulla marxista apologia del macchinismo moderno.

Dice Marx che i punti di partenza della «rivoluzione industriale» nel modo di produzione sono la forza lavoro nella manifattura, e lo strumento di lavoro nella grande industria. La forza lavoro sono gli operai, che anche nella manifattura impugnano utensili, ed hanno quindi strumenti di lavoro. Seguiamo il testo con una certa pazienza, nell’«analisi» dei caratteri del nuovo strumento di lavoro che chiamiamo macchina. Arriveremo a capire che le rivoluzioni sociali e politiche capitalistiche avvenute prima del secolo decimottavo, ossia quando lo strumento di lavoro era prevalentemente utensile manuale, e non macchina, hanno determinato rapporti sociali della forza lavoro (dei lavoratori) e rapporti politici, necessariamente prevedibilmente diversi da quelli di rivoluzioni industriali capitaliste (Russia, Cina) del secolo XX in cui lo strumento del lavoro è meccanico a vastissima scala. Restano tuttavia rivoluzioni storiche capitaliste, e borghesi. Una cosa è l’orgia di macchinismo, un’altra è la «costruzione del socialismo». Anche in esse – anticipiamo un poco – inevitabilmente l’ingresso della divinità-macchina porta con sé il sistema borghese della «autocrazia di fabbrica» e della esaltazione della produzione di merci. Marcia storica in controsenso di quella che mostrerà la rivoluzione socialista, e che per questo attendiamo nelle stesse forme in cui Marx l’attese, e che troviamo descritta leggendo la nostra Bibbia: Il Capitale. A marcia rabbia di ogni borghese «spirito libero»!

Che i progressi dello strumento del lavoro siano a disposizione di tutti al di là di confini, e di serie di generazioni, non è nostra peregrina trovata. La scienza è di tutti. Solo che oggi è di tutti i poteri capitalistici: solo domani sarà di tutto il genere umano, tipo anti-Mill.

Una noterellina: «Generalmente la scienza non costa nulla al capitalista; però questo non gli impedisce di valersene. La scienza degli altri è incorporata al capitale, precisamente come vi è incorporato il lavoro degli altri. Ma appropriazione “capitalistica” (virgolato nel testo) ed appropriazione personale sia della scienza che della ricchezza SONO COSE AFFATTO DIVERSE L’UNA DALL’ALTRA». Ometti, riflettete quaranta minuti. Marx comprova le tesi col fatto che il capitalista singolo, appropriatore e sfruttatore, in molti casi è un grosso asino in materia tecnica. Noi vi invitiamo a non più stupirvi del fatto che, se anche in Russia non vi è più nulla (?) appropriazione personale di lavoro altrui (ricchezza) ciò non toglie che vi sia in pieno appropriazione capitalistica di esso, avendo lo Stato capitalista russo potuto, ovviamente, appropriarsi senza spendere niente della scienza occidentale. Ha avuto dunque a disposizione tutte le invenzioni meccaniche e tecniche, e ha potuto saltare il lungo sviluppo che parte dalla bottega artigianale e passa per l’industriucola autonoma; ma non ha con ciò compiuto il chimerico salto della forma storica e sociale capitalista di produzione. Ma Marx aveva immaginato questo possibile? Si, limitatamente ad una condizione data da forze rivoluzionarie unitarie «anazionali» che avessero a disposizioni territori comparabili di industrialismo completamente sviluppato (esempio: Germania) e di industrialismo da sviluppare (esempio: Russia). Mancando tale peculiare rapporto deve interporsi la fase di crescita del capitalismo, che si presenterà come un’avanzata più nello spazio geografico, che nella successione del tempo, come una conquista più in quantità, che in qualità o per stadi evolutivi concatenati.
 

Lavoro ed energia

Torniamo alla dottrinetta. In un organismo che ha raggiunto duemila anni (ormai non speriamo più farlo fuori prima) come la chiesa romana, l’infallibile papa non insegna nulla, ogni parroco insegna tutto. Se ridete, riderete fesso.

Marx per definire la macchina parte dai concetti della fisica, e passa poi a quelli storici, che interessano per sciogliere l’immenso enigma del rapporto macchina-uomo.

La teoria meccanica della macchina semplice si occupa di quegli strumenti o dispositivi che modificano in forma più conveniente la energia loro applicata da un agente, che sia anche la mano dell’uomo: non producono nuova energia, restituiscono solo quella ricevuta. Sono la leva, il cuneo, la carrucola, e così via. L’uomo non può spostare dal suo luogo un sasso di dieci quintali con i suoi arti, ma se impugna appropriatamente una lunga leva riesce a farlo. Non saprebbe dividerlo in parti minori che possa poi sollevare, ma se conosce l’uso del cuneo infisso a colpi di mazza, vi perviene.

Socialmente si può dire: macchina semplice è quella con cui non si fanno affari. L’economia classica sa che lavoro è valore. Lavoro (quantità di lavoro) è la stessa cosa che energia meccanica. Il fisico dice: forza moltiplicato spazio (spostamento del sasso) ci dà energia. L’economista dice: numero di operai moltiplicato tempo di impiego ci dà valore. Ora, fino a che noi nella produzione non usiamo che la forza muscolare dei lavoratori, le macchine semplici, alle quali è giusto sia meccanicamente che socialmente assimilare gli utensili che l’artigiano isolato maneggia, non cambierebbe nulla. Colla leva quell’uomo sposta il sasso di dieci metri in otto ore: otto operai senza leva lo avrebbero rotolato dello stesso spazio in un’ora.

Meccanicamente si potrebbe dire che la macchina composta, intesa con un più o meno complesso di macchine semplici (ruote, leve, ingranaggi, ecc.) non apporti nuova energia, mentre lo fanno le macchine motrici, che trasformano in energia meccanica il calore dei combustibili ed altre forme di energia. Allora sarebbe del valore regalato, che permetterebbe di eliminare tanto lavoro da farsi fare fisicamente dagli uomini. Ma sarebbe così solo in un macchinismo comunista. In un macchinismo capitalista la relazione energetica, fisicamente vera, socialmente è falsa.

Finché vedremo che l’energia meccanica è introdotta per produrre più merci, e non per adoperare minor tempo umano di lavoro, dovremo dire che il trapasso, quali che siano le presentazioni ideologiche e giuridiche, è processo capitalistico.

Quindi Marx definisce il divario tra l’utensile del periodo sociale artigiano e la macchina del tempo capitalista non in base all’uso di forza muscolare sostituito da altre energie, ma chiamando macchina nel senso sociale non solo le macchine motrici delle diverse industrie e fabbriche attuali, ma anche le trasmissioni di energia (serie di macchine semplici che nulla aggiungono di energia) e le macchine operatrici che si applicano alla materia da lavorare, che la tecnologia volgare chiama macchine utensili (tornio, stampatrice, foratrice, e così via). Di più: siamo già nella fase del macchinismo anche quando la nuova macchina operatrice non è ancora mossa da energia meccanica ma dalla energia muscolare umana: macchine a manovella, a pedale, ecc.

Se così non fosse, Marx dice, dovremmo dire che la macchina, come fonte di energia non umana, esiste da molto tempo prima della fabbrica capitalista.

L’uomo infatti ha molto presto appreso ad adoperare altre energie naturali. Un semplice aratro tirato da due buoi sarebbe già, non un utensile, ma una macchina vera e propria, che del resto fa sì che un uomo ari superficie maggiore di quella che nello stesso tempo può dissodare colla zappa.

Ma allora, dice Marx, il telaio circolare di Claussen con cui un solo operaio fa 96 mila maglie al minuto, sebbene usato non da un primitivo ma da un moderno, sarebbe utensile, in quanto era mosso a mano, così come la macchina di Wyatt per filare. Diverrebbero macchine solo dal momento che il primo sia mosso da un motore, la seconda, come fin dal 1735, da...un asino.

L’animale fu una delle prime energie naturali usate dall’uomo in sussidio della produzione fin dai tempi antichissimi. Ma ve ne furono altre: il vento, i corsi d’acqua.

Non dunque questi casi sporadici o diffusi, di impiego di energia meccanica che non sia quella muscolare umana, possono definire il meccanismo capitalistico, ma l’introduzione della macchina utensile che precede di molto quella del motore meccanico (macchina a vapore). «È la macchina utensile che inaugura nel secolo decimottavo la rivoluzione industriale; essa inoltre serve di punto di partenza ogni qualvolta si tratta di trasformare il mestiere o la manifattura in una operazione meccanica».

Facciamo un passo indietro: col mestiere, ossia col lavoratore artigiano autonomo, isolato, siamo nel precapitalismo, nel regime corporativo-feudale. Con la manifattura siamo già entrati in pieno capitalismo. Si sono realizzate infatti le condizione note: riunione dei lavoratori in massa, capitale nelle mani di un padrone che è in grado di procurarsi i locali, di acquistare le materie prime, di anticipare salari. Prima ancora del meccanismo, la manifattura semplice è già passata a manifattura organica con la divisione tecnica del lavoro tra diverse operazioni che, sia pure col semplice utensilaggio a mano, sono compiute da artefici diversi, sull’ordine insindacabile del «padrone». È rinato questo termine del tempo schiavista, sostituendo ignobilmente quello meno odioso di «signore». Il signore era un vivente e combattente cavaliere, un essere umano, il padrone diverrà alla fine un mostruoso automa.
 

L’autocrate di fabbrica

Leggiamo in Marx, non l’apologia, ma la implacabile requisitoria contro il sistema capitalista di fabbrica. Lo strumento di lavoro, fin che era tale da essere adoperato dalla sola mano dell’artefice, lo era anche, o signori idealisti moderni, dalla sua mente, e un poco dal suo cuore.

Oggi all’utensile artigiano è sostituita la macchina utensile. Marx dice: «Lo strumento, come si è visto, non viene affatto soppresso dalla macchina: strumento nano nelle mani dell’uomo, esso cresce e si moltiplica diventando lo strumento di un meccanismo creato dall’uomo. Da quel momento il capitale fa lavorare l’operaio non più con un proprio utensile, ma come una macchina che maneggia i propri utensili».

L’immensa crescita della potenza dell’umano lavoro si accompagna alla degradazione, non all’elevamento, dell’uomo lavoratore. La mule Jenny era il nome dato ad una macchina per filare, con innumerevoli fusi. Col progresso tecnologico del 1863, grazie a un motore di appena un cavallo, bastavano due operai e mezzo per 450 fusi rotanti, e in una settimana producevano 366 libbre di cotone filato. Col filatoio a mano la stessa quantità di cotone avrebbe richiesto ben 27 mila ore invece di 150: la produttività è divenuta 180 volte più grande! Non è qui possibile seguire e sviluppare questi confronti di Marx, applicarli ad esempio a calcolare quanti paleggiatori sostituisce una delle macchine escavatrici e profilatrici di terra per opere stradali portate dagli americani qui dopo la guerra.

Della fabbrica il dott. Ure dà due definizioni. Da una parte la dipinge «come una cooperazione di varie classi di lavoratori adulti e non adulti, che sorvegliano con abilità ed assiduità un sistema di meccanismi operatori, posti continuamente in azione da un motore centrale» dall’altra come «un grande automa composto di numerosi organi meccanici ed intellettuali che operano d’accordo e senza interruzione per produrre lo stesso oggetto, essendo tutti questi organi subordinati ad una potenza motrice che si muove di per sé»

Marx mostra che «la seconda definizione caratterizza l’impiego che dei lavoratori fa il capitale nella fabbrica moderna». La prima invece può corrispondere al nostro programma: «il lavoratore collettivo, il corpo del lavoro sociale, appare come il soggetto dominante, e l’automa meccanico come l’oggetto».

Ma oggi invece «l’automa stesso è il soggetto, ed i lavoratori sono semplicemente aggiunti come organi coscienti ai suoi organi incoscienti». Avete udito, o liberali, liberatori di corpi e di spiriti e di coscienze, che ci incolpate di automatizzare la vita!? «Ure si compiace a rappresentare il motore centrale della fabbrica non solo come automa, ma anche come autocrate: in quei grandi collaboratori, egli dice, il benefico potere del vapore chiama intorno a sé miriadi di soggetti ed assegna a ciascuno di essi il suo determinato compito».

La centralità del concetto mostra che non si tratta, per la centesima volta, di descrivere il capitalismo, come perfino Stalin pretende, ma di scoprire i tratti sociali che la rivoluzione deve disperdere! Ecco altri passi.

«Nella manifattura e nel mestiere artigianesco l’operaio si vale del suo strumento, nella fabbrica esso serve la macchina». «Nella manifattura gli operai sono altrettante membra di un meccanismo vivente. Nella fabbrica sono incorporati ad un meccanismo morto che esiste indipendentemente da essi».

L’ulteriore comparazione di Fourier della fabbrica all’ergastolo, con cui il capitolo finisce, ricorda che nella galera i rematori erano incorporati alla nave, incatenati a vita ai suoi banchi, dovevano sospingerla, o con essa affondare.

«In ogni produzione capitalistica (ossia anche nella manifattura) in quanto essa non è soltanto processo di lavoro, ma accrescimento di capitale, è sottinteso che le condizioni di lavoro dominano l’operaio invece di essere da lui dominate (programma: il lavoratore collettivo socialista dominerà egli le condizioni del suo lavoro!); però è il macchinismo che dà a tale capovolgimento una realtà tecnica. Il mezzo di lavoro trasformato in automa, si presenta dinanzi allo stesso operaio durante il processo dello stesso lavoro, in forma di capitale, di lavoro morto che domina e succhia la sua forza vivente».

Fredda descrizione, non è vero, massa di volgari falsari?

Dunque non occorre la persona fisica del padrone individuale, che mano mano è sparita nelle pieghe del capitale azionario, dei collegi amministrativi, degli Enti parastatali, dello Stato politico divenuto (cosa vecchia) imprenditore e fabbricante, e nella ultimissima turpe forma dello Stato che pretende di essere «gli operai stessi» e poterli per questo legare ai piedi dei sinistri automi di acciaio.

Il dispotismo aziendale, che solo la rivoluzione comunista raderà dalle fondamenta, quando non avrà più inframmettenze intossicanti colle «lotte per la libertà politica» e simili miraggi popolari, è denunziato nell’industrialismo borghese fin dal suo sorgere, accompagnato da vere rivoluzioni di classe, ma truccato dal puzzolente belletto democratico. Non una sillaba è da togliere alla sentenza, che da 90 anni possediamo già formulata, e che purtroppo non si è ancora preso ad eseguire.

«Gettando alle ortiche la divisione dei poteri, tanto vantata dalla borghesia, ed il sistema rappresentativo, di cui essa si mostra anche più tenera, il capitale, come privato legislatore e secondo il suo talento, foggia nel suo codice di fabbrica il suo potere autocratico sui dipendenti. Questo codice non è che una parodia della regolamentazione sociale del lavoro, quale la esigono la cooperazione in grandi proporzioni e l’uso dei mezzi di lavoro comuni, specialmente delle macchine. Qui la frusta del conduttore di schiavi viene sostituita dal libro di punizioni dell’ispettore».

Ultimi fantasmi dei liberali: la autocrazia e la dittatura «nella vita», e non nella pallida menzogna legale non sono ricominciate con Mussolini, Hitler, Franco... neppure con Stalin e proconsoli... neppure con Truman, Eisenhower e servi sciocchi dell’Europa unita: sono un fatto tecnico legato al fragore dei grandi motori centrali, girino essi sulle sponde dell’Hudson, del Tamigi, della Moscova o del fiume delle Perle.
 

Macchina e rivoluzione

Ma «la macchina è innocente delle miserie che porta seco». Qui una pagina formidabile mostra la stoltezza degli economisti ufficiali, che non potendo spiegare i tremendi antagonismi uscenti dall’uso delle macchine, fingono di ignorarli e chiudono gli occhi davanti al fatto che «la macchina, trionfo dell’uomo sopra le forze naturali, diventa tra le mani dei capitalisti lo strumento per assoggettare l’uomo a quelle forze – che essa, mezzo infallibile per abbreviare il lavoro quotidiano, fra le loro mani lo prolunga – che essa, mentre è la bacchetta magica per accrescere i benessere del produttore fra le loro mani lo immiserisce». Quindi «per essi, chi svela quale sia la applicazione capitalista del macchinismo, si oppone alla sua applicazione in genere, ed è avversario del progresso sociale!».

La macchina, che nelle mani della collettività lavoratrice sarà fonte di benessere e riposo, diviene assassina nelle mani del capitale. Non perciò condanneremo la macchina.

Qui Marx cita un personaggio di Charles Dickens, nel suo famoso romanzo «Oliver Twist». È la difesa del gran malandrino Bill Sykes: «Signori giurati, senza dubbio la gola di un commesso viaggiatore è stata tagliata, il fatto esiste, ma la colpa non è mia, è del coltello. E volete voi sopprimere il coltello a causa di tali temporanei inconvenienti? Rifletteteci. Il coltello è uno degli strumenti più utili nei mestieri e nell’agricoltura, salutare in chirurgia, sapiente nell’anatomia, e allegro compagno nei banchetti. Condannando il coltello, voi vi ricaccereste in piena barbarie!».

No. Non vi ricacceremo in piena barbarie, e tale rischio non ci spaventa. Vi toglieremo solo dalle mani il manico del coltello-macchina.

La macchina sarà domani preziosa in un modo di produzione non mercantile, e la sua apparizione è stata altresì preziosa appunto per i rivoluzionari antagonismi che ha sollevato tra capitale e proletariato.

«È fuori dubbio che tali fermenti di trasformazione, il termine finale dei quali (il programma! o sordi) è la soppressione dell’antica divisione del lavoro, si trovano in aperta contraddizione colla forma capitalista di produzione e con l’ambiente economico in cui essa pone l’operaio. Ma la sola strada regia per cui un modo di produzione e l’organizzazione sociale che gli corrisponde procedono verso la loro dissoluzione e la loro metamorfosi, é lo sviluppo storico dei loro immanenti antagonismi».

Ancora una invettiva alla «divisione del lavoro», che il comunismo seppellirà. Dialetticamente era saggia nel tempo corporativo: nec sutor ultra crepidam: ciabattino, tieniti alla suola! Ma da quando «l’orologiaio Watt inventa la macchina a vapore, e il barbiere Arkwrigt il telaio continuo, un tale saggezza diventa demenza e maledizione»

Ed è anche con un grido di battaglia che si chiude questa parte dell’opera di Marx, dopo la dettagliata disamina della legislazione sociale sul lavoro e la limitazione della giornata di lavoro: «essa moltiplica l’anarchia e la crisi della produzione sociale, aumenta l’intensità del lavoro (Stachanov! Stachanov!) ed inasprisce la concorrenza tra l’uomo e la macchina. Distruggendo la piccola industria ed il lavoro a domicilio, essa sopprime l’ultimo rifugio di una massa di lavoratori, ogni giorno resi soprannumerari, e con ciò distrugge la valvola di sicurezza di tutta la caldaia sociale».

«Colle condizioni materiali e colle combinazioni sociali della produzione, essa porta a maturazione le condizioni e gli antagonismi della sua forma capitalistica, gli elementi di formazione di una nuova società, e le forze disgregatrici dell’antico».
 

OGGI

Dal cavallo al kilowatt

Già sulla base degli elementi tecnologici del suo tempo, Marx stabilisce appieno che l’introduzione della forza motrice meccanica (meglio, energia) accelera la concentrazione delle attività produttive in grandissime aziende, e la stessa legislazione sul lavoro nelle fabbriche agisce in tal senso: «eccitando così lo sviluppo degli elementi materiali, necessari alla trasformazione del sistema manifatturiero in sistema di fabbrica, le leggi, la cui applicazione comporta notevoli maggiori investimenti, accelera simultaneamente la rovina delle piccole aziende industriali e la concentrazione dei capitali». Più volte del resto abbiamo citato dai capitoli sull’accumulazione il passaggio famoso, illustrato colle modificazioni tecniche intervenute ad esempio nella siderurgia: «In uno speciale ramo della produzione la centralizzazione raggiungerà il suo limite quando tutti i capitali che si troveranno impegnati si fonderanno in un unico capitale individuale. In una data forma sociale tali limiti saranno raggiunti soltanto nel momento in cui l’intero capitale sociale si troverà riunito in una sola mano, sia di un unico capitalista, che di una società di capitalisti». Non meno notoriamente Engels traspose tale prospettiva ai trust, ai monopoli, e alle gestioni statali.

Se le stesse leggi mercantili che confluiscono nella produzione del plusvalore fornirono a Marx la base della dimostrazione, immensamente confermata dalla storia, sulla gigantesca accumulazione capitalistica in masse colossali, non meno vi influirono le nuove forme tecniche di produrre energia motrice.

Fino a che noi ci riferiamo alla macchina a vapore prima attuazione in grande dell’impiego di forza meccanica nella produzione, noi vediamo che la soluzione più appropriata è l’autonomia, in ciascuna fabbrica, della produzione del quanto di energia che le occorre. La centrale termica risolve tutto: specie dopo l’estrazione in grande del combustibile fossile, resa a sua volta grandiosa e dalle macchine e dalla forma capitalista della gestione mineraria (un volta largamente statale). Fino da allora è chiaro che il costo del cavallo-vapore diventa tanto minore quanto più grande è la caldaia, e quindi vi è altro motivo per soggiacere della piccola azienda alla grande: non si impone tuttavia un legame organizzativo fra fabbrica e fabbrica, potendo tutte trovare carbone sul «libero mercato».

Tutto ciò è mutato enormemente coi progressi della elettromeccanica. La convenienza di fare dell’energia una merce è divenuta decisiva con la creazione delle distribuzioni elettriche a mezzo di conduttori. Ogni fabbrica oggi tende non a produrre, ma a comprare la sua energia.

Il motore centrale di Ure poteva comandare le macchine operatrici, e gli uomini ad esse resi servi, in piccolo raggio: quello consentito dalle trasmissioni a mezzo di «meccanismi semplici»: alberi a puleggia, cingoli, ingranaggi conici... Nessuno aveva nemmeno trovato utile distribuire vapore sotto pressione ad altri con lunghe tubazioni: le enormi dispersioni di calore rendevano il sistema antieconomico.

Facciamo un’ipotesi gratuita: che prima di scoprire l’elettricità dinamica e la corrente elettrica si fosse scoperto il gas metano naturale. Anche questo è un combustibile fossile, di origine organica come quello solido e liquido. Ma a differenza di quelli (quello liquido è incanalabile come merce, non come combustibile, per motivi tecnici ed economici) si può distribuire con reti. Lo stesso sarebbe sorta la necessità di uno stretto legame di organizzazione tra tutte le fabbriche, alimentate da una stessa distribuzione.

Infatti il consumo di energia di ognuna non può più variare ad arbitrio della locale direzione, poiché potrebbe accadere alla centrale unica di restare a corto di energia, o di doverla «buttar via». Invece il capitalista dell’azienda a motrice autonoma poteva a suo piacere escludere forni e caldaie, ovvero impiantarne altre per aumenti di produzione.

Dipendendo tutto il piano di impiego degli operai, servi delle macchine utensili, da quello dell’energia assegnata, tutto il meccanismo industriale sociale si adegua a queste nuove norme, si collega, si centralizza, si subordina ad una infinità di discipline.
 

Pianificazione non è socialismo!

Un tale adeguamento e disciplina di reti generali non è mutamento di tipo storico di produzione: l’azienda resta azienda, il lavoratore resta un salariato, più e non meno astretto nella autocrazia degli automi di fabbrica. La normativa generale da cui sono uscite le mille e mille odierne leggi speciali, non è una rivoluzione sociale: inutile per il lettore immerso nella vita moderna estendere il confronto dall’energia motrice per le officine e stabilimenti che fabbricano manufatti, alle mille altre reti di comunicazioni, trasporti, servizi di ogni specie.

Anche l’antichità amministrava motori non autonomi. Autonomo era indubbiamente l’animale domestico, e tanto più potente l’azienda o il podere quanti più cavalli o buoi possedeva. Autonomo era il motore a vento, ma invece dipendente dal capriccio della natura.

Non autonomo, almeno sul lungo percorso di uno stesso corso d’acqua-fiume o «canale industriale» era il motore ad acqua. Ed ecco leggi di antichissimi Stati dare una precisa disciplina affinché nessuno modificasse il dispositivo dei «salti» per consumare più energia idraulica della macina, poniamo sita a monte o a valle. Una sentenza 1810 di una commissione liquidatrice dei privilegi sociali in Calabria dice tra l’altro: «Sia libero ad ognuno il costruir delle macchine idrauliche, pur che non si rechi con ciò danno alcuno alle macchine già esistenti».

Regime liberalissimo: quello di Gioacchino Murat. Immaginate un moderno regime che sia tanto liberale da dire: sia libero ad ognuno il costruir delle macchine elettriche, e attaccarle al primo filo che trova!

In tutti i tempi dunque il pubblico potere ha dovuto regolare e coordinare le attività produttive e le energie, tanto più in quanto era tecnicamente inevitabile la loro dipendenza da una stessa rete, da uno stesso flusso materiale di fonti di energia: e vi è parallelo completo tra il flusso di acqua in carica e quello degli elettroni dal conduttore a dato potenziale.

Ed allora, dimenticando per un momento lo svolgimento degli episodi storici peculiari e i nomi dei condottieri, domandiamoci come farebbe un organismo sociale e di potere che dovesse industrializzare un paese finora arretrato. Naturalmente esso non si aspetterebbe di ripercorrere una lenta via dalla corporazione senza lavoro in comune, alla manifattura senza macchine utensili, alla fabbrica con macchine utensili ma senza motori a vapore, alla grande industria colla sua centrale termica, ma passerebbe in modo immediato allo impianto di centrali elettriche, e fin che possibile idroelettriche, usando i mezzi moderni della scienza applicata per captare acque e creare salti, per distribuire poi date quote, stabilmente fissate in un piano di progetto, alle singole officine che dovrebbero produrre manufatti per il consumo.

La stessa ragione mercantile della concorrenza sul mercato mondiale nello acquisto di quanto è indispensabile a simili impianti, istraderebbe in quel modo i supposti poteri, da poi che ogni altra via sarebbe più costosa e implicherebbe maggiori erogazioni ad economie «estere».

Le pretese differenze tra il capitalismo russo e quello che si sviluppò, poniamo in Inghilterra, Francia, Germania, America, non consistono dunque e non significano un passo verso una diversa forma sociale che sfugga al sistema dispotico di fabbrica e alla divisione sociale del lavoro ed alla frenetica intensità del lavoro, ma nel più rapido e diretto arrivare a questo stesso sistema.

La storia sta a ricordarci che il 22-29 dicembre 1921 all’ottavo congresso dei Soviet si pongono le basi della industrializzazione pianificata, adottando il programma della elettrificazione di cui è noto come Lenin fosse un formidabile propugnatore.
 

Pensiero e storia

Nonostante la disposizione da parte dell’uomo dei nuovi possenti mezzi forniti dal dominio della energia elettrica, la legge sociale del trapasso da uno all’altro dei tipi di produzione non è stata spezzata. Autonomo o pianificato dal centro, a vapore o elettrificato, l’ingranaggio produttivo in costruzione in U.R.S.S è capitalistico.

Possono i trovati di scienza pura ed applicata usciti dalla mente umana cambiare e formare il corso storico? Ci potremmo chiedere se la forma interatomica dell’energia, dato che in un pugno di materia oggi inerte è racchiusa più energia a milioni di cavalli e di kilowatt che nel corso di un fiume solenne, consenta di tornare alle aziende locali autonome, ad un’economia «liberale», ad un’analoga ideologia umana. Così non può essere, e del resto i mezzi per scatenare una simile eruzione di energia, spezzando i primi nuclei, consistono in energia di fonte meccanico-elettrica a tali potenziali, mille volte superiori a quelli del motore industriale che schiavizza braccia ed anime umane, che nessuna società di capitalisti, ma solo lo Stato politico, si è posto al controllo della impresa.

Dal modesto cavallo, prima bestia e poi HP, che azionava la filatrice rotante, ai milioni di volts del «ciclotrone», enorme è il cammino. Ma già Marx, nella trattazione che abbiamo studiata, ricorda che Cartesio e Bacone, per i quali gli animali da lavoro erano «macchine», e che erano ideologici precursori del capitalismo ritenevano che «un cambiamento nel modo di pensare porterebbe ad un cambiamento nel modo di produrre e alla dominazione pratica dell’uomo sulla natura». Cartesio, nei «Discours sur la méthode», fa il vaticinio che «invece di una filosofia speculativa quale si insegna nelle scuole se ne possa trovare una pratica, colla quale conoscendo la forza e le azioni del fuoco, dell’aria, dell’acqua, degli astri... sia dato valersene chiaramente quanto negli attuali mestieri... contribuendo al perfezionamento della vita umana».

Da Marx, noi poniamo una simile realizzazione al termine della difficile corsa storica, ma non riteniamo che la forza creatrice del pensiero generi forze di produzione nuove, bensì lo svolgimento e il contrasto dei processi sociali si rifletta nelle conquiste del pensiero.

Inutile dunque, con la volontà il sogno o l’illusione, o le cento risorse di deformazioni del pensiero e dell’opinione, cambiare nome al fatto ed al processo inesorabile e pretendere che sfruttando la sola «intelligenza meccanica» del moderno capitalismo, allievo cartesiano obbediente e superante il maestro, si riesca a identificare un sistema di compressione capitalista del lavoro e dell’uomo, con il perfezionamento della vita: al quale – nell’attuale svolto storico – non basta il lavoro dello spirito, ma occorre un’altra guerra sociale, condotta dalla forza materiale di uomini contro uomini, classi contro classi.
 
 
 
 
 


Da: “Il Programma Comunista” - n.9/1953

Sul filo del tempo
FANTASIME CARLAILIANE

(...)

Produzione, Scienza, Arte

Perché la nostra specie di bestie è definita «sapiens»? Non certo perché abbiamo vinto alla «Totocreazione» contro l’asino e il pappagallo (rispettabili, vien fatto spesso di pesare, temibili concorrenti). L’uomo è la sola specie vivente che ha scienza, perché ha lavoro. Ma l’Arte non sta in un cielo più alto che la Scienza o il Lavoro, sta proprio tra i due. La classica contrapposizione tra le due energie che ci reggono è tra Natura ed Arte. La specie animale sugge alla sola Natura, la specie Uomo produce sempre maggior parte di quanto lo fa vivere. Produzione è Arte.

Se la prima bestia a lavorare fosse stato un immortale e sterile Robinson, che non doveva trasmettere a compagni e successori le regole del suo tagliare certe piante per farsi una palizzata ingiro alla capanna, l’Arte non sarebbe stata, in quanto solo avrebbe rilevato la armonia di quella cintura organizzata rispetto al cespuglio in cui si cela lo sciacallo.

Perché Arte ed Arto sono la stessa parola? Perché non dal cervello e dall’assoluto spirito venne la immisurabile ricchezza delle umane costruzioni, ma dalla mano che prima modificò il ramo e la pietra in vista della ricerca di alimento. Ultimo arriva lo spirito, altissimo parassita di ignoti e millenari sforzi, ebbrezza superba della vita differenziata e collocata sull’altare di miliardi di immolate vittime in semplici umili atti che resero possibile ogni successivo passo, ogni rudimentale conquista, caldo e illuminato di entusiastiche altezze di cui sconciamente si chiama solo generatore, ignaro di quanto costò la prima fisica scintilla scaturita dal fondo delle gelide savane, a dispetto degli Dei, e com’era difficile a braccia intirizzite trarre dall’attrito di due legni mossi a velocità impossibile la temperatura di accensione. Quanti e quanti millenni dopo si seppe che occorrono 427 chilogrammetri per ogni caloria? Ma quando si datò la più gigantesca conquista? Ed ha essa uno stupido nome?

È ben chiaro che una tale deduzione degli ultimi risultati dell’Arte, e più dei massimi che non sono proprio gli ultimi, cade contro la censura spietata dei nostri nemici di partito e di classe, e che le loro concezioni si costruiscono col percorso diametralmente opposto. Ed è altrettanto chiaro che l’opposizione disperata e accanita si lega strettamente alla difesa della teoria del Genio che sovrasta l’informe massa, in quanto solo questa vale a battere in breccia la nostra ricerca di leggi storiche che, al di fuori di ogni attesa dell’apparire di Eletti, scrive il crollo degli attuali poteri di classe e la inesorabilità della Rivoluzione.

Per orientare qualche nostra navicella la cui bussola non funziona, prendiamo il rilevamento del Nord assoluto rivolgendosi a Croce. Non che questi sia tanto banale da ricusare di ammettere le influenze da noi indicate tra creazione artistica e ambiente di condizioni naturali e sociali, e decorrere di storici eventi: sol che questo complesso di elementi relativi gira intorno ad un dato assoluto senza del quale quelli restano inerti, e quindi appare spiegabile che un simile quid sia contenuto e venga a splendere misteriosamente in quell’unico Cranio. Ma non facciamo il gioco di formulare noi la controtesi con parole che a buon diritto sarebbero ripudiate.

(...)

Fecondità del numerus

La musica si ferma nella memoria per i suoi dati meccanici e fisici. Il ritmo è numero, è misura esatta del tempo. La tonalità e l’accordo sono effetto di rigida proporzione matematica tra il numero di vibrazioni che colpiscono l’orecchio. Questo è il primo strumento di misura di cui si è servito l’uomo: l’occhio, qualitativamente tanto più ricco, è quantitativamente soggetto a sbagli grossolani.

Il fatto pratico è che grazie alla musicalità del canto in coro fu possibile primieramente trasmettere ed insegnare norme ad una collettività, e quindi consolidare la sua conquista rispetto alla vita dei bruti: l’arte produttiva. L’uomo cantò per campare, non per divertirsi, o per avere scoperto un piacere assoluto ed «inutile», come Kant pretese scoprire. Era l’unico mezzo che rispondesse a questo scopo utilitario: tenere viva la specie e svilupparne la potenza, quando non vi erano altri archivi che la memoria di tutti.

Elucubrazione e novità nostra? Roba vecchia di tremila anni. Nella mitologia greca le nove Muse sono figlie di Mnemosine, dea della memoria.

Se anche l’usignolo ha il senso del tempo musicale e del tono, ciò prova soltanto che la musica è più vicina ad una funzione naturale e materiale che ad un approdo lontano del puro spirito.

Stantia è l’obiezione che, trovato, molto tempo dopo la scrittura del linguaggio, il modo tecnico di scrivere la musica, otto segni delle note conterrebbero qualunque meraviglioso spartito.

È una conquista elevatissima della conoscenza umana stabilire due entità tra loro uguali: il primitivo non conosce sensoriamente che concreti oggetti di cui nessuno è uguale agli altri: due pietre, due foglie, quattro uccelli, e all’inizio si ferma al cinque, numero delle sue dita.

Pitagora nell’antichità va famoso per aver assimilato nella sua scuola musica e matematica: entrambe erano numerus. Il fatto che con lo stesso «passo» si va da uno a due e poi da due a tre, sembra oggi non solo facile e chiaro, ma immediato e banale, anche per il bimbo della prima classe. Ma esso fu un risultato maturo e strabiliante. Il «principio di ricorrenza» che autorizza a trattare con quel metodo la serie infinita dei numeri, non è evidente, non è assiomatico, non è dimostrabile per logica deduzione, e quindi non si trova nelle categorie dello spirito, ove basti pescarlo. È un risultato raggiunto empiricamente dal collaborare di innumerevoli esseri nella vita della specie parlante, cantante e contante, si passi il bisticcio.

Ebbene, come nel principio di ricorrenza sono contenuti i più ardui teoremi dell’alta aritmetica e la matematica tutta, e le equazioni della relatività generale di Einstein comprese da dieci uomini ogni milione, e quelle della teoria unificata per ora ancora misteriose, così nelle sette note di Guido d’Arezzo sta la Nona Sinfonia. La complessità e l’altezza dipendono dalla lunghezza e dalla ricchezza del lungo cammino.

Che sia stata scritta la Nona Sinfonia è straordinario. Ma non è meno straordinario che chiunque possa eseguirla. Senza di che essa non potrebbe commuovere anche uomini che non hanno una lingua comune. Il suo valore universale non era dunque dato in partenza, ma è l’arrivo di un lungo cammino, di infiniti camminanti.

(...)
 
 
 
 


Da: “Il Programma Comunista” - n.7/1954

Hanno inventato il Pane congelato
 

Tra i provvedimenti adottati dal governo rivoluzionario della Comune, sorto a Parigi il 18 marzo 1871, figurò quello sulla abolizione del lavoro notturno dei fornai. A qualcuno può sembrare si tratti di episodio senza importanza. In realtà, la liberazione di una categoria di lavoratori salariati, oltremodo oppressi dalla tecnica produttiva e dagli ordinamenti sociali della produzione, traduceva in pratica il senso della rivoluzione del proletariato parigino.

Ciò che il riformismo, di vecchio o nuovo conio, di confessione socialdemocratica o staliniana, non sa concepire, è che la liberazione delle masse lavoratrici avviene al di fuori e contro il meccanismo salariale. Solo chi è schiavizzato dall’esigenze spietate di un modo di produzione che si fonda sullo sperpero pazzesco della forza di lavoro sociale, solo chi deve stare rinchiuso almeno otto ore nell’ergastolo dell’azienda essendo forzato a produrre merci che nove volte su dieci non rispondono ad alcuna utilità sociale, ma solo all’interesse della speculazione, può comprendere come persino il miglioramento salariale più alto lasci intatta la schiavitù del lavoro salariato. Il lavoratore salariato rimane un oppresso anche quando riesce a possedere il micromotore o la Ford, un oppresso dell’officina, della ’na, dell’orario di lavoro. E chi più oppresso del lavoratore del pane, del fornaio, costretto a lavorare sempre di notte?

Abolendo il lavoro notturno dei fornai, la Comune volle significare che la rivoluzione dei lavoratori non è miserabile questione di centesimi, di aumenti di paga, di più quattrini da spendere; ma, al contrario, è radicale sovvertimento dei rapporti di produzione e delle condizioni di lavoro imposte dal feroce parassitismo capitalista. Sotto il capitalismo, il lavoro vivente è dominato e soggiogato dalla tecnica produttiva e dai rapporti di produzione. Il socialismo non potrà liquidare la macchina statale borghese se non spezzando la macchina produttiva capitalistica, se non distruggendone il malefico potere di dilapidazione della forza-lavoro sociale, sulla quale la divisione in classi si regge. Ogni ingranaggio della macchina produttiva dovrà girare, sotto il socialismo, in vista di alleviare la fatica dei produttori, fino a trasformare il lavoro in bisogno fisico, non più schiavitù economica, degli uomini. E quando, rifiutandosi di sperperare la forza-lavoro in oggetti inutili o dannosi, che oggi costituiscono la grande maggioranza delle merci capitalistiche, i produttori potranno lavorare sei, quattro, due ore, un’ora al giorno, verrà a cessare la maledizione del lavoro notturno.

Ma, ottant’anni fa, all’epoca cioè della Comune, l’abolizione del lavoro notturno dei fornai veniva a creare, ovviamente, degli inconvenienti ai consumatori. Ora non più. Oggi si confeziona negli Stati Uniti il pane congelato. Con un sistema molto semplice, il pane e prodotti affini sono congelati non appena escono dal forno. Il sapore e la freschezza restano intatti e possono essere conservati per anni interi. La stampa americana, da cui ricaviamo questa importante notizia, narra che i componenti la spedizione polare dell’Ammiraglio Byrd, tornando nell’accampamento lasciato quattro anni prima, trovarono in una baracca del pane naturalmente congelato. Fatto sgelare, il pane risultò ottimo. Oggi, a venti anni di distanza dalla scoperta, un migliaio di negozi alimentari nelle regioni orientali degli Stati Uniti vende il pane congelato, che viene spedito anche in paesi lontani come l’Italia, l’Inghilterra, la Germania e la zona del Canale di Panama.

Nelle mani dei capitalisti e dei bottegai, la nuova confezione del pane mirerà unicamente a ridurre il prezzo di produzione, eliminando lo spreco del pane raffermo. Soprattutto, sarà possibile impiantare grandissimi panifici ad alto potenziale produttivo, non più sconsigliati dalla necessità del rapido smercio del pane. Il pane invenduto potrà conservarsi in frigorifero. Ma siffatta innovazione tecnica non migliorerà le condizioni di lavoro dei fornai, i quali continueranno a lavorare otto ore difilato di giorno e di notte. D’altra parte, per molti di loro, la nuova tecnica panificatoria significherà disoccupazione e miseria.

L’invenzione della congelazione del pane arreca un altra conferma dell’assoluta razionalità del programma comunista. Quando sosteniamo che la produzione socialista permetterà di ridurre la giornata di lavoro ad un paio d’ore, i soliti fessi, che sanno tutto degli scandali del giorno o delle delizie malenkoviane, sono soliti ridere idiotamente. Poter congelare il pane e conservarlo indefinitamente, significa che è possibile non dover confezionare pane ogni giorno, ma poniamo, una volta per tutto l’anno. Non è detto che il capitalismo non vi potrà arrivare, ma lo potrà fare solo nell’ambito dei rapporti vigenti, per cui gli operai addetti alla confezione del pane continueranno a lavorare otto ore al giorno, per tutto il tempo occorrente alla fabbricazione. Nei mesi e nei giorni rimanenti o rimarranno disoccupati oppure saranno ingaggiati a produrre, giorno e notte, per un turno di almeno otto ore, in altro ramo della produzione, merci che potranno essere indifferentemente cannoni atomici, automobili di lusso, o, perché no?, sigarette alla marijuana.
 
 
 
 
 



Da: Il Programma Comunista, n.20/1957.

Riassunto del Rapporto alla riunione di Piombino, 21-22 settembre
TRAIETTORIA E CATASTROFE DELLA FORMA CAPITALISTICA NELLA CLASSICA MONOLITICA COSTRUZIONE TEORICA DEL MARXISMO

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12. Il mito dell’automazione

Negli ultimi anni e soprattutto per i progressi tecnici dell’industria americana, alla cui economia meno pesa una rapida rinnovazione degli impianti fissi anche tuttora produttivamente validi e quindi costosi, si è sempre più parlato dell’automatismo nella produzione, che ha preso il bel nome di automazione. È sembrata una delle novità giganti del nostro tempo, del secondo dopoguerra, la sostituzione con passo travolgente del lavoro dell’uomo con l’azione di automi meccanici privi di vita e di pensiero che si dirigono da se stessi, si autoregolano e si autoguidano. Socialmente è sorto, come se fosse nuovo ed originale, il problema della riduzione delle maestranze industriali in drastici rapporti, e della prevedibile alta disoccupazione che ne sarebbe sorta, impedendo a grandi masse di uomini di guadagnare danaro e di spenderlo, di conseguenza, anche per comprare la massa enorme di prodotti sfornati dalle installazioni inanimate degli stabilimenti pressoché deserti, ma perennemente ruotanti a sfornare prodotti per il mercato.

Un pari smarrimento ha preso da un lato gli economisti del capitalismo e quelli della banda opposta, del falso socialismo russo. A pari distanza dalla scienza rivoluzionaria del marxismo, essi non sapevano che si trattava di un problema anzitutto già posto; e quindi già risolto per una via maestra, ben diversa dai metodi slavati della «intelligenza» borghese. Nel gergo di questa società decadente un problema è una qualunque noia, una nuova «frana» che si aggiunge al tran tran di ogni giorno, e che si tratta di scansarsi di dosso e levarsi di torno con qualunque serqua di luoghi comuni, in modo che dopo essersene liberati senza disturbo dei propri affaracci lo si possa vantare «risolto».

I capitalisti questa volta se la sono cavata meglio ponendo avanti la sacramentale «diminuzione dei costi di produzione» che sarebbe la salvezza della civiltà scientifica e meccanica, e si presterebbe nelle loro storte formule ad elevare il medio tenore di vita, con la illusione di sopire ogni urto di classe.

Facile sarà far tacere costoro e il loro goffo inseguimento emulativo alla sovietica formula del «pieno impiego», e condurre all’assurdo le loro dottrine sulla democratizzazione del capitale. Una democrazia economico-giuridica è da secoli un assurdo storico; la sola forma che potrebbe in astratto corrispondervi è quella della micro-azienda produttiva, della spartizione degli strumenti di produzione tra i lavoratori individuali. Più forca della forca.

Ma quelli che sono rimasti più nell’imbarazzo dinnanzi alla prospettiva di una produzione totalitariamente automatica sono gli innumerevoli marxisti di mezza tacca, che abbondano anche tra le non fitte schiere di quelli non legati allo stalinismo, e al post-stalinismo. Come faremo, si son detti questi poveri uomini, a sostenere che tutto il valore che la società aggiunge in ogni ciclo della sua dotazione deriva dal lavoro dei salariati, quando la produzione non richiederà più lavoro né sforzo alcuno, non solo di natura muscolare, ma nemmeno intellettuale, dato che le macchine sono integrate da apparecchi che da sé si danno la briga di calcolare e progettare tutto? Cadrà la legge del lavoro che genera valore, la dottrina del plusvalore, e tutta la nostra costruzione critica della economia e della forma di produzione capitalistica...

Ora il fatto è questo, sebbene gli immediatisti, che sono quelli che incollano pedestramente la sottrazione quotidiana di plusvalore al singolo operaio, questo antagonismo contabile chiuso in una busta, lo scontro tra due epoche, due forme di produzione, due mondi – che ha con l’episodio pecuniario un legame logico, ma dialetticamente mediato da passaggi rivoluzionarii su antitesi di ben altra ampiezza di respiro, su archi immensi di tempi di spazi e di modi – si siano condannati a non capirlo per correre dietro a filosofie dello sfruttamento e della autonomia dell’esecuzione dal dirigente; il fatto è questo: che stavamo aspettandolo da un secolo.

Al macero le leggi del valore dello scambio equivalente e del plusvalore: con la loro caduta nel nulla cade la forma stessa di produzione borghese. Le prime valgono fino a che la seconda vive, e quando la scienza e la tecnologia per quanto secolare monopolio di classe le infrangeranno non sarà che l’esempio supremo della rivolta delle forze produttive contro le forme che devono crollare.

Questa dottrina dell’automatismo nella produzione si riduce a tutta la nostra deduzione della necessità del comunismo fondata sui fenomeni del capitalismo.

La trarremo dal citato testo originario di Marx [Fondamenti della Critica dell’Economia Politica]: ma è chiara da sé e da tempo.
 

13. Processo di lavoro e macchinismo

Tutta la nostra dimostrazione potremo trarla dal testo «ufficiale» del Capitale citando i capitoli sul lavoratore parcellare e il suo strumento, la manifattura e la grande industria meccanica (tema trattato alla riunione di Roma, 5 luglio 1952); ma il testo che abbiamo adesso è particolarmente espressivo, e senza motivi di ritegno nel mostrare il legame stretto tra la dinamica interna e il suo rovesciamento rivoluzionario, mosso non dal fatto che esso sia «troppo sfruttatore», ma dalla necessaria violenta generazione di una forma che fronte e fronte lo nega e ne capovolge tutti i caratteri.

Ad evitare malintesi in relazione alla solita insana pretesa che il marxismo sia una dottrina «in continua evoluzione», e che i testi di anni diversi si siano abbandonati a costruzioni poi dimenticate (!) o sostituite, sarà bene stabilire che, nelle mille pagine di cui si tratta la stesura segue la stessa linea di quella del Capitale e tutte le stesse teorie vi sono svolte nella stessa sostanza e forma, colla stessa esatta terminologia e con le stesse espressioni matematiche; e con gli sviluppi del II e III libro del Capitale come raccolti da Engels. Dalle pagine del capitolo «sul Capitale» (che ha le stesse sezioni dell’Opera pubblicata in seguito: Processo di Produzione del Capitale; Processo di Circolazione del Capitale; il Capitale come portatore di frutti – trasformazione del plusvalore in profitto; Appendice sulla storia delle dottrine economiche) sarebbe facile riportarne molte in cui la stessa espressione trattata a proposito dei tre termini che formano il capitale circolante (costante, più variabile, più plusvalore uguale prodotto totale) è data in forma narrativa, aritmetica ed algebrica.

Quindi il brano sulla produzione automatica è «valido» non solo per il pensiero marxista del 1857, ma anche per quello di Marx fino alla sua morte, e dei marxisti fino al 1957 e dopo.

Partiamo dalla pagina 584 dell’edizione tedesca di Mosca.

«Lo strumento di lavoro, quando viene incorporato nel processo della produzione capitalistica, attraversa diverse metamorfosi, di cui l’ultima è la Macchina, o piuttosto un Sistema automatico di macchinismo».

(Prendiamo qui col lettore questi accordi. Ci riserviamo di fare nostri commenti, ma le sottolineature sono sempre quelle del testo originale, e preferiamo adottare spesso le maiuscole dei sostantivi alla tedesca).

Continua il testo. «(Sistema del macchinismo; quella automatica non è che la piena ed adeguata Forma di tal Sistema; e per la prima volta trasforma il Macchinismo in Sistema). Il Sistema è posto in movimento da un Automa, Forza motrice che muove se stessa; questo Automa consta di molteplici organi meccanici ed intellettuali, in modo che gli Operai non sono determinati che come Arti coscienti dell’Automa stesso. Nella Macchina, più ancora del Macchinismo come Sistema automatico, lo Strumento di Lavoro è trasformato, giusta il suo valore di uso, ossia giusta la sua materiale natura, in una Esistenza adeguata al Capitale fisso ed al Capitale in generale, e la Forma nella quale esso, come Mezzo immediato di lavoro, viene assunto nel Processo di produzione del Capitale si cambia in una Forma posta dal Capitale stesso ed a lui corrispondente».

L’autore qui ha stabilito che lo strumento del lavoro divenuto capitale fisso ha perduto del tutto il carattere che aveva nella produzione immediata (o parcellare, a cui vorrebbero rinculare quelli che noi chiamiamo per tanto immediatisti e forcaiuoli). «La differentia specifica della macchina non è per nulla, come era per lo strumento di lavoro, di trasmettere l’attività dell’operaio all’oggetto, ma tale attività si presenta sempre più come opera della sola macchina sulla materia prima – il lavoratore assiste e vigila contro le sregolazioni».

Non possiamo rinunziare alla eloquenza di questo passo, segnalando per un momento la pena che fanno quanti cianciano: dopo il dato del moderno automatismo, occorre «rivedere» tutte le posizioni marxiste!

«Non è più come per lo Strumento che il Lavoratore animava come Organo della sua attività e della sua abilità, e di cui il maneggio dipendeva dal suo virtuosismo. La Macchina invece, che possiede forza e destrezza in luogo e al posto del Lavoratore, è essa il Virtuoso, ed è dotata di un’anima propria grazie alle leggi meccaniche in essa agenti, e consuma per il suo movimento le materie strumentali come ad esempio carbone, olio, ecc., come fa l’operaio coi suoi alimenti nutritivi. L’attività dell’Operaio, ridotta a una pura astrazione di attività, è in tutti i sensi determinata e regolata dal movimento del macchinario e non inversamente».

E qui attenzione. «La Scienza che costringe le inanimate strutture della macchina ad agire come Automi secondo lo scopo della sua costruzione, non esiste in una coscienza del lavoratore, ma attraverso la Macchina agisce su di lui, come un nemico Potere, come il Potere della Macchina stessa».

Su queste parole scritte or è un secolo, quando cioè le «idee del XVIII secolo» di cui Marx parla nella sua Introduzione, avevano sul mondo un potere di suggestione immenso, ed in ogni modo costituivano una tappa storica innegabile ancora minacciata dai ritorni delle Restaurazioni, riflettano quanti si prostrano oggi alla adorazione della Scienza in generale, e vi invitano i lavoratori, e ne instillano in essi il reverenziale timore, dimenticando che essa è innanzitutto Scienza e superiorità tecnologica monopolio di una minoranza sfruttatrice; e di più che fino a quando i rapporti di produzione restano mercantili monetarii e salariali tutto il Sistema della automatica macchineria forma un mostro che schiaccia sotto il peso della sua oppressione una umanità schiava ed infelice, e questo è il Mostro che domina tutto il quadro tracciato da Marx della società presente, il Capitale stesso, spersonalizzato, e perfino «declassato» come nelle nostre frequenti conclusioni, in risposta a vaneggiare che in un terzo del mondo sia sparita la Classe Nemica, la Borghesia.
 

14. L’alleanza Ricardo-Marx

La contrapposizione fondamentale del sistema marxista è qui in evidenza. Ogni valore presente nella società capitalistica deriva da lavoro umano. Quando supponiamo di essere in un’economia totalmente capitalistica, ogni valore è capitale, e sotto questa espressione storica indichiamo tutta la «ricchezza» di una società borghese, la categoria intorno alla quale cominciarono a lavorare gli economisti classici del nuovo regime. Ogni ricchezza, essi dissero, è tale in quanto è capitale, ed ha valore in quanto accumulazione di lavoro umano.

All’inizio storico della moderna società borghese un’alleanza «scientifica», o se vogliamo ideologica, temporanea ebbe corso tra la scienza economica borghese, allora nuova, vergine, rivoluzionaria, e la germogliante economia teorica legata alla nuova classe proletaria che al seguito della borghesia faceva il suo ingresso nella storia. Le due ideologie avevano in quello svolto un nemico comune, ossia l’ideologia sociale degli «anciens régimes», sorta dagli stadi di produzione che precedettero la manifattura capitalistica e la sua suprema forma, l’industria meccanica. Le figurazioni preindustriali dei fisiocratici, come nel famoso Tableau di Quesnay (vedi nostra serie sulla questione agraria) pongono la sorgente della ricchezza solo nella natura (fisis in greco) e al più nell’incontro tra il lavoro umano e la potenza naturale: la coltivazione agraria.

Un aumento di ricchezza può, nel Tableau, essere atteso solo dallo sviluppo dell’agricoltura, e sono indicate come classi produttive quelle dei proprietari fondiari e dei lavoratori della gleba. In una sola classe detta degli improduttivi il Quesnay relegò in un fascio solo quelli che in effetti, socialmente e politicamente, erano gli alleati di allora nella Grande Rivoluzione: industriali ed operai. In ogni produzione di merci inorganiche il valore, la ricchezza, passavano senza dare incrementi o rendite; si ritrovava alla fine del ciclo tanta ricchezza monetaria quanta se ne era consegnata.

Borghesi e proletari, prima di disputare tra loro sulla provenienza degli incrementi di ricchezza, attaccarono insieme la visione fisiocratica e fecero a giusta ragione nascere, ricchezza – e modernamente capitale – solo dalla manifattura o, nelle campagne, dalla intrapresa industriale agraria, col fittavolo borghese e il salariato rurale. Contestarono al redditiero fondiario di essere solo il prelevatore arbitrario di una parte del sopralavoro nato nell’intrapresa borghese.

Uguale posizione hanno la scuola di Ricardo e quella di Marx nei riguardi dei mercantilisti, i quali agli albori delle forme capitalistiche teorizzarono che il crescere della ricchezza generale trova la sua fonte non nella produzione, rurale o manifatturiera, bensì nello scambio delle merci sul mercato interno e soprattutto internazionale, ove si generavano vasti profitti come era l’apparenza dei secoli del colonialismo e delle guerre commerciali. Anche contro costoro il contrattacco di Ricardo e dei suoi trova in linea Marx: lo scambio, la circolazione devono essere sostenuti improduttivi contro i mercantilisti, quanto la proprietà fondiaria contro i fisiocratici.

Come nella storia della lotta di classe, la guerra dottrinaria tra la classica economia borghese e l’economia marxista, nasce dialetticamente come un’alleanza: dalla parte capitalista si pensava di eternare la solidarietà dei salariati col capitale d’intrapresa; dalla parte marxista si sapeva in partenza che la solidarietà non era che contingente e l’antagonismo definito fino da allora nel suo corso storico immancabile: Marx difese le tesi di Ricardo e le sue leggi: valore che nasce solo dal lavoro, aumento di valore, di ricchezza e di capitale che nasce da plusvalore, equivalenza nello scambio generale di tutte le merci. Ma Ricardo, pensando da illuminista del secolo XVIII, sosteneva che queste leggi erano il finalmente raggiunto «assetto naturale della società umana»; Marx ben sapeva e stabilì per sempre che si trattava delle leggi di una grande fase storica di passaggio, il modo capitalista di produzione, che come aveva avuto un principio avrebbe avuto una fine, e che le leggi dell’economia futura sarebbero state ben altre. Marx difendeva i caratteri reali della società industriale capitalistica nelle loro «differenze specifiche» dalle assunzioni reazionarie. Ricardo le difendeva come il permanente ideale umano di assetto economico; e non poteva scorgersi il disegnarsi del secondo schieramento, del successivo schieramento antagonistico tra borghesi e proletari, tra capitalisti e comunisti.

Vano dirsi marxisti se non si intende questa doppia posizione, per cui il far bene attagliare la legge dello scambio del valore e del plusvalore ai fenomeni del mondo e del tempo borghese, significa direttamente far coincidere la vittoria del programma proletario e comunista con la caduta di queste leggi proprie di un modo transitorio della produzione e dell’economia.
 

15. Lavoro oggettivato e lavoro vivente

Per gli economisti della scuola classica ricardiana quando tutta la ricchezza della società ha preso la forma di capitale si ammette che il capitale possa aumentarsi, fenomeno base di tutte le società moderne, unicamente per la via di un apporto di lavoro solo parzialmente consumato, al più sostenendo che una tale utile rinunzia a consumare o astinenza possa essere praticata anche dai componenti la classe imprenditrice.

In loro è già la distinzione netta tra capitale fisso e capitale circolante e Marx ha studiato in profondità tutte le idee dell’ottocento e prima su questo punto. Con essi si può ben dire che nella produzione sono adoperati tanto il capitale fisso che il capitale circolante, in quanto si tratta della produzione di merci. Ma se si tratta di incrementare la produzione delle merci, non fosse che per l’incremento della popolazione, si entra nel processo di produzione del capitale che è quello che è dominato nella costruzione teorica di Marx per la prima volta in modo completo. Allora Marx dice che il capitale fisso non produce capitale aggiuntivo (o valore), ma questo nasce solo dal capitale circolante, e da quella sua parte che è il capitale variabile, ciclicamente riservata all’acquisto di forza lavoro.

Tutto il capitale ed il valore sono, come origine, lavoro umano. Ma solo la parte del capitale circolante che definiamo variabile è lavoro attuale, vivente.

Sappiamo che il capitale costante circola, dato che prende alternativamente la forma monetaria nel ciclo di acquisto di materie prime, materie ausiliarie, rinnovi di impianti fissi per la parte logorata, e poi viene riprelevato dal prezzo di vendita dei prodotti. Ma è solo il capitale lavoro, ossia la spesa salari, che entra nella circolazione contro una somma di denaro, e ne esce aumentato del plusvalore. Questa parte del capitale è lavoro attivo, fecondo, vivo o vivente, sia in quanto è opera del fattore vivo della produzione, l’uomo, sia in quanto il fecondarsi e generare è caratteristica di ciò che vive.

Il capitale costante che circola, e il capitale fisso che è anche costante quantitativamente ma non è circolante nei cicli successivi, bensì una sola volta al tempo della costruzione degli impianti o macchine, non cessa di essere un valore, che non sa generare altro valore, ma esce egualmente da un lavoro di cicli anteriori. Marx quindi suole chiamarlo lavoro morto, lavoro congelato, e nel passo che ci riguarda lavoro oggettivato (altrove materializzato) o vergegenstandlichte Arbeit. In tedesco Gegenstand vale Oggetto; quello che sta di contro (gegen) al soggetto.

Stiamo leggendo in Marx il romanzo del lavoro oggettivato.

D’accordo con Ricardo, e a dispetto di economisti del suo tempo che egli e Marx riducono a mal partito, e di economisti del nostro che risollevano vane difese di cause perdute e giudicate, il Capitale Fisso, e in primo luogo la Macchina, è relegato tra il valore sterile, incapace a figliare, privo di vita, di anima, inanimato, come Marx dice altra volta.

Chiederemo ogni marcia dell’accumulazione di valore a valore, al gioco del lavoro vivente, parte variabile del capitale circolante, inesauribile fonte di fecondità e generatore di vita nuova e più ampia.

Negando ai controrivoluzionari contemporanei di Ricardo, che amoreggiavano col Medioevo feudale, e a quelli contemporanei nostri, che amoreggiano con la vetusta ormai società del Capitale, ogni diritto a dare vita al lavoro oggettivato, all’Automa meccanico, noi lo disonoriamo per il motivo che lo disonorava Ricardo; ma la grandezza dialettica della nostra costruzione è che una volta chiuso, in un nuovo cataclisma rivoluzionario, il ciclo che Ricardo vedeva eterno, il freddo mostro del lavoro materializzato muta il suo volto, il suo compito ed il suo destino; riprende (se così osiamo dire in presenza di una stupenda formulazione di cui Marx credette dopo spengnere alcune luci abbaglianti) un anima nuova ed umana, risuscita dal pianto e dal lutto delle generazioni schiacciate dai sistemi di classe, rompe la maledizione che legava Scienza e oppressione sociale, e lascia stringere il legame tra il sapere della specie, conquistato in una inenarrabile serie di lotte, e il benessere sicuro dell’uomo sociale, dell’uomo specie, libero dalle miserie, dalle infamie individualiste, privatiste, soggettiviste. Forse anche al romanticismo doveva Carlo Marx pagare per noi un tributo se del lavoro vivo fece un morto oggetto, e lo riscatto poi col linguaggio da profeta a dono di felicità e di vita. Ma non fu quella una cattiveria hegeliana come egli scrisse più tardi senza pentirsene, bensì potente scienza sperimentale, se oggi con le sue pagine rispondiamo alle mancanze e ai vaneggiamenti di una forma sociale che è giunta alla putrefazione. Ed esse vibrano di verità, e benché secolari, mandano una luce attuale ignota alle elucubrazioni di questo tempo.

Resti a noi e a chi legge inteso che capitale fisso, macchina, sistema automatizzato di macchinario, impianto produttivo, strumento di produzione in forma capitalistica, lavoro oggettivizzato o morto sono, nel corso della trattazione, termini equivalenti.
 

16. Nefasti del lavoro morto

Il testo di Marx andrà a suo tempo pubblicato per intero, il che non possiamo fare ora; e ci limiteremo a trarne alcuni passaggi dando loro un ordine che, se facilita la dialettica, toglie luce e potenza all’eccezionale esposizione. Ma non vediamo, nel nostro compito di stretti scolari divulgatori, altra via per girare l’eterno scoglio: Marx è troppo difficile; i testi non si capiscono; l’autore cambia tesi da pagina a pagina; lo sviluppo è denso di contraddizioni intriganti (!!). In effetti il gioco della dialettica è qui tanto serrato e ad alto potenziale che il personaggio che abbiamo chiamato tale a solo fine di semplificare, il Lavoro Oggettivato o Capitale Fisso, quasi in ogni periodo appare il protagonista bianco ed il nero, lo sterminatore ed il redentore.

Noi lo porteremo sul proscenio, da poveri buttafuori, prima di tutto nella veste sinistra che ha nel periodo e sotto il regime capitalista. Dopo lo faremo ricomparire tra gli squilli ormai insoffocabili della Rivoluzione Comunista.

«Nella nozione stessa di Capitale il processo produttivo consiste nella Appropriazione da parte del Lavoro Oggettivato, del Lavoro Vivente». «Il Lavoro Oggettivato appare, nel corso dello stesso Processo di Lavoro (che si è trasformato in un Processo di Produzione) come la Potenza Dominante in rapporto al Lavoro Vivente».

«La trasformazione dello strumento di lavoro in macchinismo si effettua, fisicamente come socialmente, riducendo il processo di lavoro ad un semplice momento del Processo di Valorizzazione del Capitale». «La forza dominante del Capitale Fisso è per la sua stessa Forma il Capitale come Appropriazione del Lavoro vivente».

Queste proposizioni, di cui abbiamo solo mutato l’ordine, sono di facile accezione se lette riportandosi al passaggio storico che è presente alla mente dello scrittore. Nel nostro caso, il passaggio dal lavoro artigiano al lavoro associato dell’industria meccanica. Nel primo quale la «forma di appropriazione»? (Il lettore può qui confrontare lo scritto «Proprietà e Capitale» nella rivista Prometeo, I serie). Il produttore artigiano è proprietario del suo strumento di lavoro: ciò vuol dire che lo è anche del luogo di lavoro e della materia prima che trasforma (ha nel ciclo tanto denaro da comprarla). La conseguenza è che il lavoratore parcellare detiene il prodotto manufatto, lo vende dove vuole, e fa tutto suo il prezzo della merce-prodotto. Questo è un vero processo di lavoro, ossia un processo di produzione di merci.

Ma in questa forma ben presto le forze produttive non si possono sviluppare e si passa alla grande macchineria. Il produttore non è proprietario né della macchina, né della fabbrica, né della materia prima; permuta la sua forza lavoro, unico suo possesso, in un salario tale da alimentarlo e renderlo atto a figliare (proletariato). Conseguenza: chi si appropria il prodotto? Forse il lavoratore? No, nemmeno per una briciola: esso va tutto, la risposta da facile propaganda è ovvia, al capitalista, al padrone, al borghese. Anche Marx se ne servirà molte volte. Ma qui la sua costruzione sale a quelle altezze in cui ogni concessione al successo imbecille per la via del minimo sforzo è disdegnata. La formula giuridica è disprezzata. Chi si appropria il capitale prodotto dal lavoro vivente (plusvalore) non viene presentato come persona umana né come classe umana: è il Mostro, il Lavoro Oggettivato, il Capitale Fisso, monopolio e fortilizio della Forma Capitale in se stessa, Bestia senza anima e perfino senza vita, ma che divora ed uccide il lavoro vivo, il lavoro dei vivi ed i vivi.

Perché questo Capitale per eccellenza lo misuriamo dal «prodotto» ciclico (quel fatturato dei ragionieri)? Perché è tutto il prodotto che viene appropriato dall’uomo, cadavere, o bestia, o Cosa (l’Azienda!), che ha del Capitale Fisso il monopolio proprietario.

Qui il debole di dialettiche reni correrà il rischio di soffocare nell’immediatismo. La rivendicazione non sarà il ritrasformare il processo di produzione del Capitale in un processo di Lavoro? Il Lavoro Immediato è infatti quello che controlla, domina (invece di essere dominato dalla macchina, e infine dall’agghiacciante AUTOMA) la Materia Prima, l’Utensile ed il Manufatto, il Prodotto.

Ma ricadere in ciò, anche quando finzioni monetarie sostituissero la materiale disposizione di ciò che in oggi è Capitale costante e Prodotto, non è che far girare all’inverso la ruota della storia, condannare il lavoratore «libero» a perdere più ore di sacrificio per uno stesso tenore di vita.

Ora il problema storico e umano è di ridurre le ore di lavoro, il lavoro necessario. Nel sistema artigiano non vi è esplicito sopralavoro (e proprio per questo la società è chiusa in limite angusto) ma il lavoro necessario è altissimo, più che nel sistema industriale meccanico sia tutta la giornata di lavoro.
 

17. Lavoro morto e scienza morta

Dalla forma artigiana a quella industriale si è passati, nessun può contestarlo e fare delle rivolte luddiste contro le macchine un programma per lo sviluppo della Scienza e della Tecnologia. Quale nel marxismo, il rapporto tra Scienza teorica ed applicata, e Lavoro oggettivato, tra Scienza e Capitale?

Marx ha qui un espressione formidabile: il «cervello sociale». La tecnologia dapprima, poi la Scienza, si trasmettono di generazione in generazione come una dotazione dell’Uomo Sociale, della Specie, che in tutti i suoi individui vi ha lavorato e collaborato. Nella nostra costruzione il Profeta, il Sacerdote, lo Scopritore, l’Inventore, vanno verso una pari liquidazione. L’Uomo Sociale in queste pagine è detto anche Individuo Sociale, il cui senso non è «persona umana» come cellula della Società; ma invece società umana trattata come un organismo unico che vive una sola vita (in questa forma entra nella scienza il mito ingenuo e sublime dell’Immortalità attribuito dal pensiero umano bambino al singolo, come oggi Diritto ed Economia vogliono reggersi sul singolo e vanno verso analogo crollo). Questo organismo, la cui Vita è la Storia, ha un suo Cervello, organo costruito dalla sua millenaria funzione, e che non è retaggio di alcun Teschio e di alcun Cranio. Il Sapere della specie, la Scienza, ben più che l’Oro, non sono per noi privati retaggi, ed in Potenza appartengono integri all’Uomo sociale.

Pertanto il nostro testo si riferisce alla sorte della Scienza umana sotto il miserabile regime mercantile, che tuttora per tutto il Pianeta la soffoca.

«L’accumulazione della Scienza, dell’abilità, e dell’insieme delle Forze Produttive del Cervello Sociale è così assorbito nel Capitale a detrimento del Lavoro, e appare dunque come una Proprietà del Capitale e più particolarmente del Capitale Fisso, nelle misura in cui questo entra nel Processo di Produzione come un vero Mezzo di Produzione».

Qui Marx ribatte che il Capitale Fisso appare come la più adeguata forma del capitale in generale «in quanto sia considerato nel suo rapporto con se stesso». Ma, «secondo la relazione del Capitale con l’Esterno, il Capitale Circolante appare, rispetto al Capitale Fisso, come la Forma più adeguata al Capitale». Socialmente, politicamente, storicamente, come Potenza dominante, il Capitale ha la forma del Macchinario, del Capitale fisso. Economicamente, come misura nel processo di Produzione di Capitale dal Capitale (id est dal Lavoro Vivente) esso ha la forma precipua (adeguata) nel Capitale Circolante, che vale il Prodotto globale sociale di un ciclo. Confermata ancora questa posizione dialettica di parole di Marx, ritorniamo al personaggio Capitale Fisso.

«Nella misura in cui lo strumento di lavoro perde dal punto di vista fisico la sua forma immediata, esso appare come Capitale Fisso in faccia del lavoratore. La Scienza nel Macchinismo appare al Lavoratore come esterna e straniera; il Lavoro Vivo è subordinato al Lavoro Oggettivato che agisce indipendentemente. Il Lavoratore appare come superfluo nella misura in cui la sua azione non è determinata dal bisogno del Capitale».

Il Capitalismo è ancora sulla scena, ma non è la sua tutta vergogna. «L’insieme del processo di produzione non è più subordinato all’abilità immediata del lavoratore (artigiano) ma è un’applicazione tecnologica della Scienza; da cui la tendenza del Capitale a dare alla Produzione un carattere Scientifico e a ridurre il lavoro immediato ad un semplice momento di tale processo». «Il Capitale da un lato presuppone una certa evoluzione storica data dalle forze produttive – tra queste Forze Produttive è anche la Scienza – e dall’altro lato che il Capitale le spinge in avanti e ne forza lo sviluppo».

Chiudiamo questa parte storicamente limitata al capitalismo con una finale descrizione del legame tra Scienza e Capitale.

«L’appropriazione del Lavoro vivente da parte del Capitale diviene dunque una realtà immediata nel Macchinismo: questo è un risultato che deriva direttamente dalla Scienza, e un’applicazione delle leggi meccaniche e chimiche che rende la macchina atta ad effettuare il medesimo lavoro che prima l’operaio. Tuttavia lo sviluppo del macchinismo in questa direzione non avviene che allorché l’industria ha già raggiunta una grande estensione, e tutte le Scienze sono state fatta prigioniere al servizio del Capitale... Le invenzioni fanno ormai parte degli Affari e l’applicazione della Scienza alla produzione immediata una faccenda di per se stessa stimolante e sollecitante» (1857 o 1957?). «Viene così trasportata dal lavoratore alla macchina ossia al Capitale la capacità di lavoro, e il lavoratore ingaggia la lotta contro la macchina. Ciò che era Attività del Lavoratore Vivente diviene Attività della Macchina. In tal modo cade direttamente sotto i sensi del Lavoratore l’Appropriazione del Lavoro da parte del Capitale; il Capitale, come direttamente assorbente in sé il Vivente Lavoro che ha di fronte – come se l’Amore possedesse il suo Corpo».
 

18. Palingenesi del lavoro oggettivato

Non sceglieremo altre immagini del rapporto capitalista tra il Lavoro Morto e il Lavoro Vivo dopo questa del mostruoso Amplesso.

Marx ci introduce una prima volta al capovolgimento rivoluzionario di questa funzione oscena del Mostro-Automa con un titolo lapidario, che schiaccia per sempre (o editori sovietici del 1953, la vostra sordità dottrinale si estendeva ai sibili dei proiettili dei plotoni di esecuzione?) la demenza teorica del Divo Stalin; e che è questo: «CONTRADDIZIONE TRA IL FONDAMENTO DELLA PRODUZIONE BORGHESE (LA MISURA DEL VALORE) ED IL SUO STESSO SVILUPPO».

Dunque nella società post-borghese non si tratterà di «misurare giustamente il valore giusta il tempo di lavoro» come credono i sempliciotti, ma si tratterà di smetterla con la misura del valore (WERTMASS).

Il testo del paragrafo lo ripete non meno crudamente. «Lo scambio del Lavoro Vivente contro Lavoro Oggettivato, ossia la costituzione del Lavoro Sociale nella Forma dell’Antagonismo tra Capitale e Lavoro Salariato – è l’ultimo sviluppo del Rapporto di Valore e della Produzione basata sul Valore». Non solo nello sviluppo che presentiamo la misura del valore di scambio tratta dal tempo di lavoro è valida solo per un’economia salariale ed antagonistica, ma il non lontano tramonto della misura del valore dal lavoro viene potenzialmente preparato dalla stessa apparizione dell’industria meccanica, soprattutto quando questa si eleva a sistema automatico del macchinismo. Ed avremmo ora noi paura dell’automazine, come di una battaglia dottrinale perduta? Saremmo davvero ignoranti dei primi obiettivi della nostra guerra di classe!

Agli inizi del capitalismo si può sostenere che la «ricchezza reale» è misurata dalla massa di lavoro immediato, di tempo di lavoro medio. «Ma a misura che la grande industria si sviluppa, la creazione della ricchezza reale diventa dipendente sempre meno dal tempo di Lavoro e dalla quantità di Lavoro utilizzato, e sempre più dalla Potenza degli Agenti Meccanici che sono messi in azione durante il Processo di lavoro, Potenza che per l’enorme sua efficacia è a sua volta senza alcun rapporto col tempo immediato che costa la produzione di quegli agenti meccanici, ma dipende invece molto di più dal livello generale della Scienza e dal progresso della Tecnologia, dall’applicazione della Scienza alla Produzione».

Un tale discorso insito da un esatto secolo nei nostri testi ci mette in condizione di dire che, sebbene il carattere antagonistico (di classe, salariale, mercantile) del processo di produzione non sia ancora superato, sono però salite al massimo le possibilità di tale superamento, quando nell’industria si attua su immensa scala l’automazione; ed in virtù delle stesse deduzioni quando ai potenti agenti meccanici si aggiunge l’ultimo, veramente sproporzionato in modo gigante alla muscolare forza dell’uomo, l’energia nucleare.

Il momento di uccidere la legge del valore e la misura del valore, e ben più in America che nella Russia degli scambisti Stalin e Krusciov, che gettarono sul binario morto l’espresso della Rivoluzione, è davvero giunto.

Come anche accadrà ci è noto anche da oltre un secolo. Ed oggi ne sentiamo una più alta versione, in cui ad un tempo vediamo soccombere: legge del tempo di lavoro come valore di scambio, antagonismo di classe, divisione sociale del lavoro, produzione mercantile, lavoro salariato-necessario, ossia salariato-forzato. Il cambio dello scenario avviene con velocità degna dell’Epilogo.

«Il lavoratore non inserisce più l’oggetto naturale modificato (lo strumento di lavoro) come elemento intermedio tra sé e la materia lavorata. Egli inserisce il Processo Naturale, che ha trasformato in Processo Industriale, come intermediario tra Sé e la Natura Fisica, di cui si è reso Dominatore. Egli prende posto di fronte al Processo di Produzione, invece di esserne l’agente e motore principale».

Il teso presenta un passo triplo, che è la Negazione del notissimo finale del Libro Primo del Capitale. Scavalcando l’esosa parentesi capitalistica e salariale il lavoratore è diventato «libero», ossia «padrone» del processo di lavoro e di produzione. Egli di nuovo «maneggia» l’utensile e imprime la sua capacità ed intelligenza al «manufatto». Ma la mano e il lavoratore non sono più del singolo individuo, bensì della specie, che con la sua mano-cervello porta in azione sulla natura un processo «Meccanico» creato dal processo delle naturali leggi. Noi ci illudiamo che le glosse che «inseriamo» non sembrino gratuite variazioni, ma preparino l’ardua lettura del seguito.
 

19. La trasformazione è esplosa

«Ciò che in questa trasformazione appare come base principale della Produzione e della Ricchezza non è più il Lavoro Immediato effettuato dall’Uomo, né il Tempo di Lavoro Impiegato, ma la nuova Appropriazione della sua propria Forza Produttiva generale, della sua Intelligenza della Natura, e della sua Facoltà di dominarla, in forza della nuova Essenza di Corpo Sociale – in una parola è lo sviluppo dell’Individuo Sociale».

Marx qui parla in senso generale della Ricchezza come di una facoltà sia della società borghese che di quella socialista, pure dimostrando gli opposti aspetti prima e dopo la trasformazione. Ma definisce duramente la ricchezza capitalista. «Il furto di tempo di lavoro altrui su cui riposa la ricchezza attuale appare come una base ben miserabile alla base nuova che si è sviluppata, e che in sostanza è stata creata dalla grande industria essa stessa».

Fu svolta nella nostra riunione la proposta puramente terminologica di lasciare la parola ricchezza derivante da ricco, alla forma attuale di sottrazione di valore altrui e lavoro altrui. Proprietà e ricchezza hanno senso per il singolo in quanto egli può precludere ad altri l’ingresso nel suo bene. Elevatosi il singolo, il deforme homo economicus di oggi, a Corpo sociale, non vi sono misure di tempo e valore, e quindi non sottrazioni, non vi sono ricchi e ricchezza, e quella della Società, del Corpo Sociale immortale, qui per la prima volta scolpito con tratti che fanno impallidire i Padri Eterni di Michelangelo, non la chiameremo Ricchezza, ma Sapienza, Efficienza e Potenza a carico non di uomini, ma della Realtà e della Natura. Il passo continua, con quello che ci lasceremo trasportare a definire il Giudizio Universale sulla Società Mercantile. Nella Guerra Dottrinale, anche se non ancora in quella delle armi, l’abbiamo già ributtata nel suo sinistro Passato.

«Da quando il Lavoro ha cessato di essere, sotto la sua Forma Immediata, la Grande Sorgente della Ricchezza, il Tempo di Lavoro cessa e deve cessare di essere la sua Misura. È lo stesso del Valore di Scambio (Stalin! Stalin!) come misura del Valore di Uso. Il sopralavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro di alcuni ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle Forze Generali del Cervello Umano». Le folgori dell’Ultimo Giudizio si abbattono sui loro bersagli!

«Per questo fatto, la Produzione basata sul Valore di Scambio sprofonda, ed il materiale Processo Immediato di Produzione si spoglia della sua Forma meschina ed Antagonistica. Il libero sviluppo delle individualità non si effettua più con la compressione del tempo di Lavoro Necessario a solo beneficio di quello di Sopralavoro, ma, generalmente, con la riduzione ad un minimo del Lavoro necessario della società, a tutto vantaggio della formazione artistica, scientifica, ecc., degli individui, grazie al tempo liberato e ai mezzi creati a vantaggio di tutti».

Il testo qui tratteggia la contraddizione a cui è condannato il Capitale. Da una parte Esso, avendo posto il tempo di lavoro come misura della ricchezza e sua sola sorgente (puro Ricardo) deve accrescere il tempo di lavoro totale, e quando scende quello necessario (pagato) esalta il tempo superfluo, essendo questa per lui condizione di vita e di morte (processo di produzione progressiva di altro Capitale). D’altra parte egli sveglia tutte le forze della scienza e della natura come quelle della organizzazione e della circolazione sociale, e pone suo malgrado le basi per ridurre la creazione della ricchezza indipendente dal tempo di lavoro ad essa destinato.

Spezzata la dominazione di classe del Capitale il nostro Personaggio, il Lavoro Morto ed Oggettivato, il Capitale Fisso di prima, da strumento schiavizzante del Lavoro Vivente è assurto alla opposta funzione, e ne scriviamo il trionfo.

«La Natura non costruisce Macchine, Locomotive, Ferrovie, Telegrafi, Telai meccanici e così via. Sono prodotti dell’industria umana, materie prime trasformate in strumenti della volontà umana sulla Natura, e della sua attività in essa. Sono strumenti del cervello umano creati dalla mano dell’uomo, Forze Scientifiche Oggettivate. Lo sviluppo dunque del Capitale Fisso indica il grado in cui la conoscenza sociale in generale, il Sapere, sono divenute Forze Produttive Immediate, e, per tal fatto, fino a qual punto le condizioni del processo vitale sociale sono state sottomesse al controllo dell’intelligenza generale, e sono state trasformate secondo questa. Il Capitale Fisso (non indica più, ci permettiamo di inserire noi, il brutale soggiogamento del vivente Lavoro) ma, indica fino a qual grado le Forze Produttive Sociali sono prodotte non soltanto nella Forma del Sapere, ma come Organi Immediati della Prassi Sociale, del Reale Processo della Vita».

Ancora una volta sappiamo che Marx descrive la Società Futura, ed in modo che non resta dubbio alcuno sulle sue differenze specifiche con quella in cui viviamo oggi, sui tassativi caratteri di questa, che, nella Trasformazione Rivoluzionaria dovranno essere affondati nel Nulla.
 

20. Un secolo di conflitto teorico

Crediamo di aver stabilito questo binomio dialettico di proposizioni. Le dottrine ricardiane fondate sulla misura del tempo di lavoro sono ben adatte a descrivere scientificamente ogni economia capitalista fino a che, quale che divenga la grandezza delle forze produttive e del Capitale, il legame tra produzione, distribuzione e consumo è la macchina dello scambio mercantile. Marx quindi ributta ogni sistema di diversa descrizione dei fondamenti del capitalismo, che cerchi valore e ricchezza ossia valorizzazione del Capitale in fonte diversa dal Lavoro umano. Quando Marx con volo di aquila supera la legge del valore-lavoro, egli non esprime una menomamente diversa teoria del capitalismo, né sposta alcun ingranaggio della sua possente armonica costruzione scientifica, ma segna l’uscita storica dal modo borghese di produzione, l’ultimo dei pensabili modi mercantili e monetari, misuratori esosi di tempo-lavoro.

Il limite di questo primo rapporto ci impedisce di trarre dalla parte finale, abbozzo del IV Libro del Capitale che oggi si stampa come Storia delle Dottrine Economiche, la confutazione di tutte le scuole economiche aclassiche che, dopo Ricardo e i suoi, attanagliate nella morsa dialettica della contraddizione scoperta e dimostrata da Marx, si dibattono per sfuggirne aprendo brecce nel teorema che FINO A CHE SI È NEI LIMITI DELLA MISURA DEGLI SCAMBI DI MERCI, non è possibile trarre da altra fonte, che non sia il lavoro, un fattore causale della formazione di ricchezza, id est dell’accumulazione del Capitale. Si, fino a quando il gigantesco organo del macchinismo si forma, la Scienza è in grado di regalare alla specie umana masse di valori di uso che non costano lavoro, ma la Forma mercantile capitalistica, fino a che non sarà infranta, fa sì che questo dono non raggiunga la specie, ma sia infallantemente trasformato – tenendo alta la giornata di lavoro – in fattore di ulteriore estorsione di sopralavoro.

La legge di Ricardo fatta sua da Marx è, nella nostra accezione, caduca, ma non può soccombere nella guerra teorica; solo in quella civile e sociale, e dopo essere stata portata sotto il Tallone della Dittatura Rivoluzionaria.

Per introdurre quindi la posizione finale del rapporto a Piombino, ossia che le scuole post-marxiste, che tentano una nuova costruzione scientifica, esibiscono un diverso «modello» della macchina capitalista, si confutano con deduzioni che già svolse Marx al suo tempo, ci limitiamo ad alcuni accenni che sono nel meraviglioso fascio di pagine su cui abbiamo lavorato.

«Il capitale fisso non produce valore cioè non fa crescere il valore del prodotto che in due sensi: 1. Nella misura in cui esso ha del valore, cioè è esso stesso un prodotto del lavoro, una certa quantità di lavoro sotto forma materializzata (ciò vuol dire che una macchina della fabbrica entra in attivo di gestione se la si vende, più o meno vecchia, al mercato); 2. Nella misura in cui ha l’effetto di accrescere la parte del sopralavoro a detrimento del lavoro necessario, avendo reso con l’accrescimento della forza produttiva del lavoro capace di creare in tempo più breve una più grande massa di prodotti necessari al mantenimento della capacità vivente del lavoro». Ciò vuol dire praticamente che una macchina nuova rende possibile agli operai di generare doppio prodotto nello stesso tempo. Ma allora il sistema moderno fa sì che non si riduca la giornata a metà lasciando pari il salario, ma la si lascia tale in modo che, ridotto il tempo necessario misurato del salario vitale, il resto diventa tutto plusvalore e nuovo capitale. Ciò resta anche vero se delle quattro ore regalate dalla Macchina, solo tre andassero al prodotto merce – che il salariato non può avere se non comperandolo – mezza a minore giornata del lavoratore, e altro mezza ad un aumento di salario di un sedicesimo, che sarebbe in realtà di un ottavo.

Tanto ci sembra chiaro. Il testo aggiunge: «È dunque in motto di ordine borghese perfettamente assurdo quello che pretende che il lavoratore “spartisca” col capitalista perché costui, a mezzo del capitale fisso (che del resto non è esso stesso che ha prodotto di Lavoro, e di lavoro altrui appropriato dal Capitale) gli avrebbe reso il lavoro più facile o avrebbe diminuito il tempo di lavoro (laddove la macchina ha piuttosto tolto al lavoro ogni indipendenza ed ogni attrattiva)». Uno di questi economisti era il Lauderdale, altro precursore dei moderni Keynesiani e del «Welfare» o benessere. «Lauderdale crede di esporre grandi scoperte quando afferma che la macchina non accresce la forza produttiva del lavoro, ma si sostituisce ad esso, o fa quanto il lavoro non potrebbe fare con le sole sue forze. Fa parte della nozione del Capitale che la accresciuta Forza produttiva del Lavoro si presenti come l’accrescimento di una forza ad esso estranea, e come un suo indebolimento». E più oltre: «Quanto alle opinioni che, come quella di Lauderdale, vorrebbero che il Capitale, in quanto tale e indipendentemente dal Lavoro, produca Valore e dunque Plusvalore e Profitto; il capitale fisso, ossia quello di cui la Forma e il Valore di Uso sono Macchinismo, è la forma che dà ancora più apparenza a una simile superficiale fallacia».

Il capitale fisso come macchinario è quello che oggi, all’Est come all’Ovest chiamano complesso dei Beni Strumentali, con pari tendenza ad esaltarlo per accrescere la massa delle forze produttive, il nuovo nome del Mostro che oggi soffoca la umanità. Questo è un vero indice della dominazione del modo capitalista di produzione. « È nella produzione di Capitale Fisso che il Capitale si pone con una più grande Potenza che non nella Produzione di Capitale Circolante».
 

21. Keynesiano benessere

Keynes è il più importante forse tra gli economisti del Capitale che nell’Inghilterra ha cercato di perfezionare un modello della presente economia, da cui si deduca la sua possibilità di procedere senza contraddizioni dirompenti. Non cercheremo tra le sue grandezze base né il capitale costante né il capitale variabile né il plusvalore. Motore della produzione sociale per lui sono altre grandezze, le une sperimentalmente comprensibili come la popolazione e la rata di impiego della sua parte attiva. A fianco di queste grandezze ne introduce come elementi di partenza altre del tutto imponderabili e «psicologiche», in cui vede il motore della storia e dell’economia: sono la «propensione a consumare», la «propensione ad arredarsi» o cosa simile (beni di lento consumo) e la «propensione a tesaurizzare». Non è luogo qui di esporre o di criticare il sistema. Ma questi dati che si pretende calcolare, per porvi una «causa causarum» simile alla gravitazione universale, a che cosa possono condurre di scientifico, quando non vi si interpone nemmeno un newtoniano come se? Keynes e simili (confronta rapporto alla riunione di Asti) dicono: l’uomo consuma perché e quanto ha desiderato. Noi marxisti diciamo che l’uomo desidera secondo quanto ha potuto consumare, e per tanto il moderno sistema di potere e di falsa scienza borghese lo alleva con le droghe alimentari e psicologiche.

La Dittatura sarà necessaria a cavallo della palingenesi del Lavoro oggettivato, del rovesciamento di Praxis del Capitale fisso, non tanto per dominare la produzione, che basterà lasciar cadere a livelli inferiori liberando i servi del lavoro e delle galere aziendali per miliardi di ore, ma soprattutto per capovolgere la prassi consumatrice, sradicare le forme patologiche del consumare, eredi di forme di oppressione di classe. L’uomo singolo, il cittadino, l’individuo, come perderà anche sotto il Terrore rivoluzionario la possibilità di possedere ricchezza e valore, uccidendosene in lui la propensione belluina, così perderà, dividendo una cellula dell’eterno – e saremo per scrivere «sacro» – Corpo sociale, ogni diritto a ledere se stesso, a rovinare il proprio organismo animale, ad intossicarsi. Con ciò non lederebbe solo il proprio corpo, ma la società. Il rivoluzionario non può essere che un disintossicato, ed è una delle ragioni per cui nelle Rivoluzioni più della massa, che sarà disintossicata in seguito dal marchio di servaggio, opera la minoranza del partito, nutrita nel vivo suo sangue dall’antiveggente e combattente Dottrina Integrale.

Nella riunione la teoria della moneta che Keynes trae da quella della propensione dell’uomo a disporne, per poggiarvi un diritto del detentore di contante a prelevare parte del prodotto sociale, fu derisa con un rilievo sperimentale. La sua conclusione è che (come esempio era citata la politica finanziaria inglese) il tasso dell’interesse o sconto tende storicamente a decrescere togliendo il suo carattere strozzinesco alla strana grandezza algebrica della «propensione». Letto il brano di questo falso profeta, fu confrontato con una notizia del giorno della riunione di cui riferiamo: la Banca d’Inghilterra per la prima volta nella storia ha dato al tasso di sconto uno scatto in aumento del due percento, portandolo al record del sette per cento!

A questi rievocatori di Malthus, Lauderdale ed altri, ben si risponde col magnifico passo di Engels nella introduzione al Secondo Libro del Capitale contro Rodbertus, altro campione dell’Immediatismo. Costoro tentano di ridare vita a teorie morte, come nell’esempio della chimica del Flogisto, rovesciata dalla scoperta di Lavoisier (sulla natura della combustione come combinazione con l’ossigeno e non come perdita del misterioso Flogisto). Nuove teorie potranno sorgere dopo quella della chimica atomica, e potrà come nel secolo ventesimo scomporsi l’atomo indivisibile del rivoluzionario Lavoisier, ma la battaglia contro il Flogisto non sarà mai capovolgibile come quella di Marx contro il Capitalismo.
 

22. La putrefatta formula trinitaria

Nella riunione di Milano del settembre 1952 usammo in profondità i capitoli in cui Marx smantella la teoria trinitaria dei redditi e delle fonti di essi: parte del Reddito viene dal Lavoro, ed è corrisposto nel Salario, parte dalla Natura ed è la Rendita, parte dal Denaro ed è l’Interesse. Lo stesso Profitto del Capitale è obliterato in questa formula, a cui in sostanza si riducono i modernissimi professori della nuova Scienza, l’Economia del Flogisto.

In quelle pagine di Marx fiammeggia, in opposizione al concetto borghese di Libertà della Persona, quello comunista del Tempo disponibile per la Specie, il suo sviluppo materiale e mentale, e la sua armonia di letizia.

L’umanità non uscirà, dice Marx, dalla Necessità, ma questa non avrà la forma di una parte di essa stessa contro l’altra, bensì solo quella della natura ambientale sempre più controllata e piegata da una Scienza senza più flogisti e trinità (Libro III, capitolo XLVIII: la Formula Trinitaria).

«Nello stesso tempo che i bisogni, si estende l’imperio sulla necessità naturale e con lui le forze produttive (naturali, disciplinate dal meccanismo automatico di cui nella Grundrisse) che daranno soddisfazione a questi bisogni (con un minimo di lavoro necessario, e al limite con solo volontario lavoro-godimento). In questo stato di cose (Comunismo) la libertà consiste solo in questo: l’uomo sociale, i produttori associati, regolano in modo razionale i loro scambi con la natura e li sottomettono al loro collettivo controllo, invece di lasciarsi da essi ciecamente dominare; ed essi compiono questi scambi col minimo possibile sforzo e nelle condizioni più degne ed adeguate alla umana loro natura».

Monumento e gioiello sorto dal Cervello Sociale, la teoria del valore di scambio di Carlo Marx è completa lungo i decenni di stesura delle sua opera, corre senza pentimenti, e senza i facinorosi miglioramenti ed arricchimenti dei moderni vaneggiatori chiusi nei sottofondi dell’impotenza ad affisare la luce che sfavillò di un colpo solo.

Il valore di scambio regge il tempo capitalista, e per il suo corso il valore si misura dal tempo di lavoro.

Nel socialismo non vi sono più misure di lavoro, né di valore. Non vi sono più scambi tra uomini ed uomini. Resta uno scambio solo: tra la Società umana e la Natura.