Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"COMUNISMO" n. 56 - luglio 2004
Presentazione (Classe e partito di fronte all’imperialismo e alla guerra - IV - RG88) (53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).
LO SVILUPPO CAPITALISTA E LA GUERRA CIVILE NEGLI STATI UNITI D’AMERICA - La guerra come momento centrale nel soggiogamento del proletariato bianco e negro alle necessità di una rapace borghesia.
(I):  Gli Stati Uniti a metà Ottocento - Nord e Sud - La “peculiare istituzione” - Il compromesso del Missouri - Il Midwest - I decisivi anni ‘50 - L’ultimo anno di pace - Le elezioni del 1860 - Secessione - Le forze in campo - La guerra totale.
(II): Una guerra di lunga durata - L’anno della svolta - La “marcia verso il mare” - L’emancipazione degli schiavi - Il proletariato bianco - Le conseguenze della guerra - La guerra per il Nord - L’atteggiamento di Marx e di Engels - La “Ricostruzione” e il suo fallimento - La mancata riforma agraria - La “Ricostruzione” secondo i Radicali - La “Redenzione” - A mò di conclusione.
L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA (II - continua dal numero 54):
        Errata tesi del militarismo residuo pre-democratico - L’antimilitarismo dei sindacalisti rivoluzionari - Il pacifismo borghese - Idillio PSI-Giolitti e Guerra di Libia (Continua).
STORIA ED ECONOMIA DEL BRASILE (II - continua dal numero 54): Nota sulla situazione sociale - Alterna congiuntura economica - L’universo sindacale - I Sem Terra - Demagogia borghese in salsa brasiliana.
Dall’Archivio della Sinistra:
             Manifesti e Volantini antimilitaristi del PSI - 1904-1912.

 
 
 
 
 

Classe e partito di fronte all’imperialismo e alla guerra

(53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).

La rappresentazione ad uso della istupidita platea mondiale è in scena. Le contrapposizioni tra Bene e Male ritornano in auge con una propaganda semplicistica ma sempre di effetto. Se per il “gran comunicatore” Reagan il Male era l’Impero sovietico, per il suo successore repubblicano Bush il Male è Bin Laden e il fondamentalismo islamico. L’Impero del Male è stato sconfitto senza spargimento di sangue; per il nuovo Male che si erge è necessario invece far uso della violenza dispiegata. Quando la guerra dilaga pare non esserci più tempo per alcun “distinguo”, e per chi trova le proprie giustificazioni appellandosi alle “leggi ferree della natura” sembra esserci partita vinta.

Non si può negare che la portata del terrorismo sia sconvolgente dal punto di vista dell’impatto emotivo, che sembra turbare le normali attività, i “normali traffici” tipici della “società civile” borghese, intesa come “società degli interessi” di un ferreo ordine mondiale. E sulla base di questo sconvolgimento la risposta che sa dare l’imperialismo è come sempre un “fraintendimento”: si propone e si asserisce di voler sbaragliare il Male, e nello stesso tempo di continuare la “vita normale”. Quale vita normale? Quella naturalmente del modo di produzione e di rapporti tra uomini, società e stati come affermati fino ad ora.

Ogni volta che si scatena l’insidia terroristica tutto ciò che attiene alla classe (che nella nostra tradizione significa “flotta” organizzata, disciplinata nel suo percorso verso il socialismo) si complica ed ingarbuglia. La lotta diventa più difficile: ogni difesa ferma e rigorosa della propria classe tende ad essere speciosamente scambiata per terroristica. Pure la classe non ha alternativa: deve continuare a chiamarsi col suo nome, a difendere sul posto di lavoro i proletari, di qualunque credo e posizione. Ma dobbiamo dire di più: non si può negare che quando la lotta di classe langue, si animano gli spiriti peggiori del capitalismo stesso, i rapporti delle frazioni borghesi a livello generale. Come non vedere la condizione di nuova “schiavitù” di larghe fasce del proletariato?

Di fronte a questo fenomeno, i piccolo-borghesi metropolitani non sono capaci d’andare oltre le folkloristiche battaglie, che mettano fine ai “palloni cuciti dai bambini”... Non riescono a vedere la connessione con le esigenze del Capitale, che cerca nuovo sangue, meglio se a prezzo sempre più basso! La nuova schiavitù non è che imperialismo “globalizzato”. Non nato ieri, come fanno mostra di credere un’infinita gamma di gonzi. L’imperialismo, fase suprema del capitalismo: ecco come si manifesta nell’attuale realtà.

Non esistono ricette di alcun genere per disciplinare, regolarizzare questo processo: non certo, tra le tante chiacchiere vane, il gioco “policentrico” e multilaterale dei “poteri”, come si affannano a teorizzare i sociologi di moda. La irresistibile verticalizzazione dei poteri è resa manifesta dalle inevitabili fusioni finanziarie, che abbracciano e incatenano il Mondo intero.

Per parte nostra ribadiamo le nostre posizioni. La guerra, nell’attuale società capitalistica, svolge la sua funzione di “distruttrice creativa”: per perpetuare la legge del profitto è necessaria la guerra. Dopo infinite promesse di latte e miele, l’imperialismo non si smentisce: deve fare la guerra. Viviamo ancora nella preistoria dell’umanità, ammoniva Marx. Corre l’obbligo di mantenere con assoluto rigore la nostra posizione: per rompere il circolo vizioso della guerra è necessario tagliare le radici al Capitale. Le false alternative contro la guerra imperialistica sono o argomenti alla Dühring, oppure sogni “pacifisti”, che al momento opportuno saranno vanificati nel nome della “legittima difesa” della Patria, della Nazione, della “Pace”.

Digerire la necessità della guerra rivoluzionaria per rompere la spirale della guerra, è una risposta oggi difficile, dura ai più. Come del resto riconoscere la necessità dello Stato per liberarci dagli Stati. Ma il fine, per quanto non vicino, a portata di mano, rimane quello, abolire la guerra, che non avrà ragione d’essere nella Società di Specie. Se tale alta prospettiva oggi fa sorridere il cinismo ammantato di buoni propositi della società capitalistica, non per questo nutriamo alcun dubbio in proposito.

I corifei del capitalismo con la guerra hanno riscoperto la “tragedia”, “l’epica” della borghesia. Per loro è d’obbligo mascherare le ragioni prosaiche degli interessi, troppo volgari, troppo plebei. Poiché – almeno in questo siamo d’accordo con questi signori – non si può morire ammazzati per il petrolio (molto meno che per Danzica o per Kabul!), è normale che i più sottili tra loro vadano a cercare le ragioni storiche, o addirittura meta-storiche della guerra.

L’eroismo, il sacrificio disinteressato di sé fa sempre presa sulla platea; nei giorni dopo l’11 Settembre furono esaltati i “pompieri di New York”, il civismo patriottico che soltanto la tragedia sembra essere in grado di evocare. Già Marx aveva affermato che se la Storia si ripete diventa farsa: il grottesco occupa il posto dell’epica.

Il materialismo storico non ebbe difficoltà a riconoscere alla classe borghese intenzioni e voglia d’intrapresa utile ed esaltante per tutta l’umanità; senza però rinunciare a vedere chiaro nella sua cattiva e falsa coscienza. Il modo di produzione capitalistico non può produrre senza distruggere, non soltanto secondo la “naturale” dialettica insita nelle cose della natura, ma – ed è questo che la perderà – per la miopia di non riconoscere quando è venuto il tempo di cedere il potere alla Specie, una volta che la sue energie hanno espresso quanto in loro potere. Non c’è organismo storico, gruppo o classe, che non sia soggetto alla legge di natura.

Il Partito è da tutt’altra parte rispetto alle denunce, di matrice reazionaria, che suggeriscono “nuove regole” alla globalizzazione “in sé non negativa”. La nostra dottrina va oltre il capitalismo, e non all’indietro, nel sogno di una comunità arcadica armonizzata dalla buona volontà.

Ormai gli sprechi d’energie e di natura operate dall’imperialismo sono di più in rapporto ai vantaggi: infatti lo sforzo di convinzione che il capitalismo cerca di fare è quello di riconoscere l’esigenza e la fisiologia del distruggere per produrre. La guerra deve diventare cioè una condizione normale, da gestire “decostruendo”, come hanno insegnato a fare generazioni d’intellettuali, che hanno tentato di documentare, quando non di ostentare la bellezza dei corpi disfatti, di macerie eloquenti, e di tante altre brutture elevate a dignità di “arte”!

Non accetteremo mai l’idea che la guerra è inevitabile! La guerra è inevitabile solo nell’ottica degli interessi capitalistici! Per questo non possiamo rinunciare alle nostre posizioni di sempre: 1) non esiste classe politica senza Partito; 2) la classe “statistica” da sé non può porsi fini politici; 3) mentre la rivoluzione non può essere evocata con la forza della volontà, senza la volontà del Partito, non c’è sbocco alla lotta.

La stessa formula “guerra alla guerra” non ha senso se non si determinano condizioni di crisi rivoluzionaria tra le classi; ma una volta che sia verificata, il Partito non può attendere passivamente che gli eventi abbiano il loro corso “naturale”.

C’è chi tende a credere che una volta sconfitti gli elementi perturbatori, il “terrorismo” che colpisce senza preavviso e scompagina la “normale vita quotidiana”, le cose possano continuare come prima, come sempre.

Ancora una volta ci si illude di operare un “blitz” tanto deciso e chirurgico da sistemare le cose. Noi siamo della convinzione, non tanto che “dopo l’11 settembre” tutto è cambiato, quanto che l’inevitabile soluzione stia, da parte del Capitale, nell’abituare a convivere in un conflitto naturale in cui guerra e pace possano scambiarsi i ruoli nell’accrescimento possibile del Saggio di Profitto.

Dal punto di vista scientifico, cioè della descrizione la più attendibile possibile dei rapporti di forza, essenziale è capire come si andranno evolvendo le alleanze, le contrapposizioni, i “giri di valzer” inevitabili tra le potenze. Sul teatro mondiale si tratta di “specificare” e descrivere di quali forze si parla. È necessario individuare gli scenari possibili dello scontro nel caso della situazione che si è venuta creando con la crisi degli accordi di Yalta, con le crepe sempre più evidenti che contrappongono le forze antagonistiche del Capitale.

Non si vuole qui neppure accennare a questo, ma come criterio è completamente da evitare di attenersi alla psicologia di guerra fondata sulle “informazioni” diffuse ad arte, scommettendo tanto sulla “veridicità” dei singoli episodi di guerra, quanto sugli effettivi accordi, controassicurazioni momentanee che sembrano legare tra di loro amici e nemici. Ricordiamo che, ai primordi della Prima Guerra mondiale, nel primo decennio del Novecento, mentre la borghesia si vantava di danzare e di divertirsi come mai aveva fatto (la belle époque), tra incidenti, provocazioni e prove di conflitto, le potenze tramavano dietro ai trattati ufficiali, preparando altri scenari, con trattati di “controassicurazione”, clausole segrete per ogni evenienza. Naturalmente l’Italia in bella evidenza, adusa ai “giri di valzer” che le varranno il primato indiscusso in questo genere di sport.

Ma anche le grandi potenze tutte d’un pezzo non scherzavano, Russia e Germania continuando a farlo anche prima della Seconda Guerra mondiale. Il patto Ribbentrop-Molotov ne è un esempio solare, che significò delusioni e crampi incredibili per gli opportunisti staliniani d’ogni paese. Poiché la storia, nonostante i pareri contrari, rimane pur sempre in qualche modo “magistra”, dobbiamo aspettarci di tutto, in questo scenario da Terza Guerra.

Come si fa ad illudersi che la Russia si lasci accerchiare, dai Paesi baltici agli ex Stati satelliti, e che dalla Polonia portano alla Bulgaria, e poi lungo la linea dei paralleli veda organizzarsi una cintura d’occupazioni militari che vanno dall’Albania al Caucaso fino all’Oceano indiano, facendo finta di accordarsi, di appoggiare le potenze occidentali? È chiaro che, secondo la classica attitudine al gioco degli scacchi, i russi sono costretti a giocare in difesa, arroccati nella attesa di tempi migliori per l’economia, cercando di farsi cavare le castagne dal fuoco dai suoi momentanei partner. È certo comunque che, nell’ambito dei giochi imperialistici, nessuno può illudersi di scalzare la Russia dal suo ruolo nella grande realtà asiatico-occidentale.

Come pure la Cina, che tutti danno per paese emergente, col suo “comunismo capitalistico”! Come si fa a credere che la grande potenza, con 1 miliardo e trecento milioni d’abitanti, si metta al carretto degli interessi occidentali, senza sfruttare la situazione che nel sud-est asiatico la vede egemone, col Giappone appannato, ma pur sempre seconda o terza potenza industriale del mondo? Dunque attenti ai trattati, ma di più agli accordi segreti che si preparano alle spalle e all’insaputa degli stessi interessati.

La prova di quanto diciamo la vediamo nel balletto che si sta svolgendo sotto i nostri occhi: l’appello degli USA alla “solidarietà” tra gli occidentali contro il “nemico invisibile” cozza contro la loro determinazione a guidare senza discussione la “crociata”. Gli alleati, a loro volta, mentre per la facciata non mancano di esprimere la loro adesione, cercano di ritagliarsi ognuno una posizione di privilegio in rapporto ai vantaggi che ne seguiranno. L’Europa è divisa tra i parenti stretti (Regno Unito) ed i concorrenti di lungo corso, come la Francia, memore della tradizione gollista che ha sempre rivendicato una propria autonomia, specie nella politica estera; e la Germania, che non perde di vista il suo rapporto geopolitico con la Russia. Non parliamo dell’Italia, sospettata, come sempre, d’essere l’alleato non affidabile.

Bisogna insomma saper leggere “fra le righe” d’una retorica patriottarda, di “civiltà”, ma che pensa soprattutto a nascondere le vere e non confessabili ambizioni. Sembra di sentire ancora il classico “on s’engage, puis on voit” di matrice napoleonide. Certo, se la guerra è “globale” e globali sono gli interessi, la rete delle alleanze e dei probabili rovesciamenti è più complicata che nel passato.

Ogni Stato combatte le sue forme di guerra, con un occhio al fronte esterno ed uno a quello interno, secondo la funzione propria di ogni macchina statale. Di questi giochi e combinazioni è necessario essere consapevoli per riuscirne a valutare e prevedere le mosse. La guerra psicologica si combatte su mille fronti, in un groviglio di contraddizioni: a noi di non cadere in nessuna trappola, ricordando al proletariato che tutto si muove alle sue spalle, per imbrigliarlo preventivamente con una campagna che tende ad irretirlo in previsione di suoi inevitabili sussulti.

Meniamo vanto di aver sempre detto che prima o poi, dopo gli addormentamenti e le promesse, la borghesia avrebbe rotto gli indugi, avrebbe dovuto prendere l’iniziativa contro la situazione stagnante.

Come, a suo tempo, in certi fronti interni, diciamo: Contro il terrorismo e contro l’imperialismo, due facce della stessa medaglia, il primo creatura del secondo. Nonostante, nei paesi “della libertà”, la grancassa non ammetta scelta: o con noi o contro di noi! Già sentito, questo ritornello, al solo uso dei media, non certo per chi conosce le condizioni ed i trucchi della guerra antiproletaria.

Il “nemico” esterno ricompatta generalmente i dissidi interni: in questo modo i primi ad essere colpiti sono i proletari, che hanno un loro fronte interno da combattere in permanenza, se vogliono sopravvivere ed avere un avvenire. Quando si sentono certi appelli al “Tricolore”, alla bandiera, che non si udivano più da qualche tempo, vuol dire che c’è una ragione.

Dobbiamo stare lontani dalla retorica degli altri ed anche dalla nostra. Non è con la fraseologia “rivoluzionaria” che si combatte la vera battaglia, ma non deflettendo dalla giusta linea, che è quella storica. Guerra alla guerra non è semplicemente una parola o uno slogan: comporta degli atteggiamenti coerenti e duri da sostenere. La nostra funzione oggi è questa: essere a fianco dei proletari che resistono sul posto di lavoro, fare il possibile per influenzarne i comportamenti, ma sapere anche che la coesione o la dispersione delle forze sono il prodotto di lunghe recidive storiche, che non si risolvono con la bacchetta magica, ma con pazienza, costanza ed organizzazione.

Per questo abbiamo battuto da sempre il ferro della necessità di organizzazioni proletarie di classe, come condizione per la ripresa anche politica.

(53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).

 
 
 
 


Lo sviluppo capitalista
e la Guerra Civile
negli Stati Uniti d’America
La guerra come momento centrale nel soggiogamento del proletariato bianco e negro alle necessità di una rapace borghesia

Rapporto esposto alla Riunione del Partito del maggio 2002 e del gennaio 2003
 

– (I):  Gli Stati Uniti a metà Ottocento - Nord e Sud - La “peculiare istituzione” - Il compromesso del Missouri - Il Midwest - I decisivi anni ‘50 - L’ultimo anno di pace - Le elezioni del 1860 - Secessione - Le forze in campo - La guerra totale.
(II): Una guerra di lunga durata - L’anno della svolta - La “marcia verso il mare” - L’emancipazione degli schiavi - Il proletariato bianco - Le conseguenze della guerra - La guerra per il Nord - L’atteggiamento di Marx e di Engels - La “Ricostruzione” e il suo fallimento - La mancata riforma agraria - La “Ricostruzione” secondo i Radicali - La “Redenzione” - A mò di conclusione.
 
 

Gli Stati Uniti a metà Ottocento  [v. Mappa 1Mappa 2]

All’epoca dell’elezione di Lincoln alla presidenza del paese, gli Stati Uniti d’America erano una società in espansione quale non se n’era visto l’eguale in passato. La popolazione, di 23.261.000 abitanti nel 1850, era salita a 31.513.000 nel 1860, un incremento dovuto quasi esclusivamente all’afflusso di immigranti dall’Europa. Infatti, all’ondata di emigrazione degli irlandesi determinata dalla carestia dei primi anni ’40, era succeduta quella dovuta alla reazione politica che seguì le rivoluzioni del 1848-49, composta in buona parte di tedeschi. Si trattava spesso di operai esperti e politicizzati, molti addirittura comunisti; tra di essi erano numerosi gli amici di Marx ed Engels, come Weydemeyer e Willich, che avrebbero raggiunto alti gradi nell’esercito nordista nel corso della guerra civile.

Chi non si fermava nelle città industriali del Nord si spostava verso la Frontiera, dove c’era lavoro per tutti. La corsa all’oro ebbe certo una parte importante nel trasferimento di tanti verso l’Ovest, ma il primo sogno dei pionieri era un pezzo di terra fertile sul quale vivere con la famiglia. Nel 1860 l’Unione era ancora un paese prevalentemente agricolo; in 10 anni le superficie coltivate erano aumentate del 50%, e il prodotto lordo quasi raddoppiato. Cinque americani su sei vivevano di agricoltura, e solo un dollaro ogni nove era investito in attività non agricole.

Eppure il fenomeno più sorprendente dell’epoca fu proprio lo sviluppo industriale, che prese le mosse dall’enorme mercato di prodotti legati all’agricoltura che si era venuto a creare, e che fu reso possibile da un ininterrotto flusso di braccia dall’Europa. Nello stesso decennio gli incrementi nell’industria si misurano con valori intorno al 100%, o più. Allo sviluppo industriale si accompagnò uno sviluppo prodigioso delle infrastrutture, in particolare ferrovie, trasporti navali, telegrafo. Nacquero come dal nulla grandi città, come Chicago, mentre l’alfabetizzazione media della popolazione superava il 90% (nell’Italia unita si era ancora a poco più del 20%)

Il commercio ebbe anch’esso uno sviluppo rapido e tumultuoso, concentrandosi sulla esportazione di prodotti agricoli, soprattutto cotone, tabacco, granaglie, mentre le importazioni riguardavano principalmente tessuti, abbigliamento, tè, caffè, manufatti in ferro.

Le condizioni degli operai erano dure, con orari di undici, dodici ore al giorno, con estremi di 14 o 16 ore, e con salari bassi. Eppure, rispetto all’Europa, le condizioni di vita e di lavoro rimasero sempre migliori. Se da un lato il continuo afflusso di immigranti affamati tendeva ad abbassare i salari, restava al proletario di New York o di Pittsburgh la scelta, acquistata una vanga e un fucile, di partire per la Frontiera, scelta evidentemente negata al suo fratello di Manchester, Düsseldorf, Torino o San Pietroburgo.

Questa fluidità del lavoro ebbe come conseguenza una minore permanenza degli operai sul posto di lavoro, e quindi un certo distacco tra una minoranza di specializzati e una massa di “unskilled”, generici; è una caratteristica che segnerà il movimento operaio americano e che si ripercuoterà sulle caratteristiche dello stesso sindacalismo, che sarebbe presto divenuto un fenomeno su scala nazionale.
 

Nord e Sud

Questo quadro della società americana, che si riferisce al 1860, non è però sufficiente a dare una rappresentazione della situazione economica, sociale, politica dell’Unione che si era originata dalla rivoluzione del secolo precedente. Negli oltre 80 anni trascorsi al suo interno si erano sempre più differenziati due poli che si stavano sviluppando secondo logiche ben diverse, il Nord e il Sud; a questi si può aggiungere un terzo polo, il Midwest, che allora era meglio conosciuto come Nord-Ovest, meno popolato ma estremamente dinamico, che si trovò a costituire l’ago della bilancia del conflitto.

Il Nord era costituito dagli Stati della Nuova Inghilterra, nati dall’emigrazione puritana del XVII secolo, di cultura, religione, abitudini assai omogenee. Essi furono inizialmente comunità di pescatori e marinai, e di mercanti; tra l’altro, era dal New England che partivano quasi tutte le navi negriere americane. Stati intermedi da un punto di vista culturale erano la Pennsylvania, il New Jersey e New York, anche se economicamente erano senz’altro parte del Nord.

Il Sud si faceva iniziare poco al di sotto del 40° parallelo, la cosiddetta linea Mason-Dixon, che separa la Pennsylvania dal Maryland. Nel 1860 comprendeva la superficie maggiore degli Stati Uniti, con gli Stati della fascia atlantica e del Golfo del Messico, dal Maryland al Texas, e Stati più interni (Arkansas, Missouri, Tennessee, Kentucky). Di clima e morfologia del tutto diverse, con popolazione estremamente rada e poco accentrata in città, le Colonie, poi Stati, del Sud scoprirono presto la loro vocazione agricola, che li indirizzò verso la coltivazione di specie particolarmente richieste dal mercato mondiale, tabacco, riso, indaco; il cotone fu introdotto più tardi [v. Mappa 4]. I grandi spazi favorirono l’instaurarsi di grandi proprietà e la scarsità di popolazione favorì il fenomeno dell’acquisizione di manodopera forzata fuori del paese, inizialmente anche bianca, con contratti di schiavitù temporanea; successivamente la schiavitù si incentrò sull’importazione di africani, catturati e deportati.

Queste differenze, che esistevano già prima della rivoluzione anti-coloniale, si rafforzarono negli anni seguenti, via via che le due parti dell’Unione sviluppavano le loro potenzialità; e diedero vita a due partiti, che rappresentavano tali interessi divergenti. Il Nord divenne la roccaforte del partito “federalista”, centralizzatore, sostenitore di un forte governo federale e della creazione di una potente Banca dell’Unione, obbiettivi funzionali agli interessi mercantili (soprattutto agli inizi) del Nord. Il Sud fu rappresentato dal partito “democratico”, fautore del decentramento, della massima autonomia degli Stati, timoroso che il governo centrale potesse finire nelle mani di una oligarchia finanziaria; a queste caratteristiche si aggiunsero la difesa dell’agricoltura nei confronti delle altre attività economiche e della piccola impresa contro la grande. Si trattava di obbiettivi che erano condivisi non solo dalla popolazione agricola del Sud, ma anche da gran parte delle masse popolari del Nord, composte da un gran numero di piccoli contadini e artigiani.

Questa formula consentì al Partito Democratico di assicurarsi la presidenza federale con Jefferson (1800) e di mantenerla con poche e non significative eccezioni fino all’anno fatale 1860.

Tale continuità di governo e di linea politica, non senza scosse né resistenze da parte del Nord, consentì agli Stati Uniti di svilupparsi economicamente e territorialmente in modo ininterrotto. Nel 1860 il territorio dell’Unione era già quello contiguo attuale, confinante solo con i due oceani, il Canada e il Messico. Le tappe principali di questa crescita furono:
1) l’acquisto della Louisiana dalla Francia, nel 1803;
2) la guerra con la Gran Bretagna 1812-14, che però non consentì un’espansione verso il Canada;
3) l’acquisto della Florida dalla Spagna nel 1819;
4) la guerra con il Messico (1845-48), seguita dall’acquisizione di enormi territori nel Sud-Ovest.

Da un punto di vista politico ed economico in questo periodo si verificarono diversi eventi che avrebbero avuto ripercussioni sulla crisi che portò alla Guerra Civile. Nel Sud l’invenzione di una macchina per sgranare il cotone (1797) aveva reso la coltura improvvisamente assai lucrosa, e nel giro di pochi decenni il cotone divenne la coltura principale in numerosi Stati del Sud, che avrebbe costituito per il paese ricchezza e un importante prodotto per l’esportazione.

La guerra con la Gran Bretagna ebbe come conseguenza una spinta all’industrializzazione del Nord. Infatti senza le forniture dell’industria britannica divenne giocoforza far da sé, e il punto di elezione per lo sviluppo industriale era, per la concentrazione di capitali, per il continuo afflusso di manodopera, per la vocazione mercantile, proprio il Nord, che all’inizio si era opposto alla guerra in modo molto deciso. Tra l’altro il governo non poté evitare di ricostituire nel 1816 una Banca dell’Unione, insieme alla istituzione di miti tariffe protezionistiche per proteggere la nascente industria dalla concorrenza di oltreoceano. Questa del protezionismo, chiesto dal Nord industriale che produceva per lo sterminato mercato interno, e avversato dal Sud esportatore di prodotti agricoli, sarebbe stata una questione sempre presente nei rapporti tra le due metà del paese.

Nel 1818 doveva anche emergere in toni conflittuali un’altra questione chiave dei rapporti Nord-Sud, quella dello schiavismo. Il Territorio del Missouri era maturo per essere ammesso a pieno titolo come Stato all’Unione, ma fu proposto da un deputato del Nord che l’ammissione fosse condizionata ad una graduale abolizione della schiavitù in quello Stato. Perché questa richiesta, e perché ne nacque una grave crisi? Per comprenderlo bisogna soffermarsi sulla questione della schiavitù, e sulla evoluzione che aveva subìto negli anni precedenti.
 

La “peculiare istituzione”

La schiavitù esisteva negli Stati Uniti sin dal periodo coloniale. La mancanza cronica di manodopera bracciantile aveva reso necessaria l’importazione di manodopera coatta, cioè di schiavi. Non che gli agrari del Sud si formalizzassero davanti al colore della pelle, ma schiavizzare dei bianchi era poco proponibile, anche se una forma temporanea di servaggio era stata applicata: per periodi di sette anni e oltre era stato costume tenere dei lavoratori europei come schiavi, in virtù di un contratto che questi firmavano per avere il passaggio in America. Una specie di servitù della gleba temporanea. Ma dopo il periodo prescritto erano liberi, se non si liberavano prima: bastava dirigersi verso Ovest, e avere coraggio e spirito di adattamento. Di terra ce n’era per tutti. Gli indiani, che erano radi, si erano dimostrati deboli e poco adattabili al lavoro dei campi, oltre che vulnerabili alle malattie.

La prima nave negriera fu una nave da guerra olandese che nell’agosto 1619 si fermò sulle coste della Virginia, sbarcando e mettendo in vendita venti schiavi. Il fatto, nuovo per l’emisfero Nord del Nuovo Mondo, era da tempo una consuetudine per le colonie europee del Centro e Sud America. Altre navi seguirono ben presto.

Gli schiavi giungevano proprio nel momento in cui le piantagioni della Virginia stavano per entrare in crisi. Infatti le enormi estensioni di territorio che coprivano richiedevano un alto numero di braccia, e l’alternativa era l’abbandono. In poco tempo la schiavitù si estese a tutte le colonie inglesi d’America, comprese quelle della Nuova Inghilterra, al Nord. Così, a ulteriore dimostrazione che, almeno in ambiti limitati, i rapporti di produzione non sono determinati dagli schemi teorici ma bensì dalle ferree leggi della produzione, in poco tempo si era passati da un rapporto di lavoro moderno, tipico della borghesia che in Europa proprio allora cominciava a scuotere le catene feudali, a rapporti feudali, e da questi allo schiavismo.

Al Nord lo schiavismo però non attecchì: il tipo di lavoro, commerciale e artigianale prima, industriale poi, non era adatto al rapporto schiavistico, che si trovava al suo meglio solo nella grande piantagione; inoltre al Nord di manodopera ce n’era, come pure piccoli contadini e artigiani, e nessuno di loro intendeva dover competere con la manodopera degli schiavi. La schiavitù scomparve quindi presto nel Nord, ma non per ragioni umanitarie: al contrario. Che i puritani del Nord non fossero degli stinchi di santi, a dispetto dell’opinione che avevano di se stessi, lo dimostra il fatto che nel volgere di pochi anni si diedero ad esercitare in prima persona la tratta degli schiavi, fino a conquistarne il quasi monopolio, e traendone enormi profitti.

Per i sudisti l’arrivo degli schiavi, soprattutto quando questi cominciarono a costituire una parte consistente della popolazione, era visto con una certa preoccupazione, per le trasformazioni che comportava per il paese, e per i pericoli che ne potevano derivare per l’economia e per la coesistenza con i bianchi. Quindi le colonie del Sud, ancor prima dell’indipendenza, emanarono provvedimenti che vietavano l’introduzione di nuovi schiavi con la tratta, che il governo britannico regolarmente annullava in quanto non intendeva rinunciare ai proventi che ne riceveva. Gli Stati dovettero quindi aspettare l’indomani della guerra d’indipendenza per vietare la tratta. Vi fu addirittura una proposta, nel 1787, per l’abolizione dell’importazione di schiavi in tutta l’Unione, proposta bocciata per l’opposizione proprio degli Stati del Nord, con le stesse motivazioni del governo di Sua Maestà Britannica. Alla fine si arrivò ad una legge, nel 1808, che aboliva la tratta, e ad un’altra, del 1820, che la bollava come pirateria.

Naturalmente questo non significava la fine della schiavitù, e nemmeno un arresto della crescita del numero di schiavi, che proprio in quegli anni conosceva un autentico boom. In primo luogo gli schiavi provenivano in buon numero anche da Stati dell’Unione che, avendo economie intermedie tra Nord e Sud (erano detti Stati di Confine, ed erano Virginia, Maryland, Delaware, ecc.), ne avevano un bisogno limitato, ma si erano specializzati nella produzione di schiavi, come fossero stati capi di bestiame, attività che non fu mai proibita. Secondariamente l’abolizione della tratta ebbe come principale conseguenza solo l’aumento del prezzo degli schiavi, perché il contrabbando non cessò mai.

Il prezzo degli schiavi cresceva in continuazione, fino a una media di 1.000 dollari (con punte di 2.000) alla vigilia della guerra, costituendo la parte predominante del capitale fisso aziendale, superiore al valore di mercato della terra stessa. Che i ceti mercantili nordisti non avessero mai smesso di fare affari con gli schiavi lo dimostra la cronaca che ci informa che ancora il 21 aprile 1861, a ostilità iniziate, fu catturata una nave negriera di Boston, diretta a New York, con 961 schiavi a bordo. Questi fatti vanno tenuti presenti per capire la mancanza di unità nei due schieramenti, sia nella condanna della schiavitù al Nord, sia nella difesa della schiavitù al Sud.

Nel corso del XIX secolo le condizioni dei negri, e il loro ruolo nella società meridionale non erano ormai molto diversi da quelli della classe operaia europea, che subiva l’oppressione di una borghesia affamata di profitti; e Marx non esita a mettere sullo stesso piano le condizioni degli uni e degli altri: «Invece di tratta degli schiavi, leggi mercato del lavoro; invece del Kentucky e della Virginia, leggi l’Irlanda e i distretti agricoli d’Inghilterra, Scozia e Galles; invece dell’Africa, leggi la Germania!» (Il Capitale, Vol. I). Per certi aspetti la condizione degli schiavi era perfino migliore di quelle degli operai: il fatto che lo schiavo avesse un valore solo in quanto vivo faceva sì che qualcuno dovesse mantenerlo, pena una perdita economica. L’azienda che falliva vendeva gli schiavi, che avrebbero solo cambiato padrone. Invece per gli operai “liberi”, in periodi di crisi economica, se finisce il lavoro c’è l’abbandono alla fame e alla miseria. Anche i ritmi di lavoro erano molto più rilassati, e mai e poi mai gli industriali del Nord avrebbero preso in considerazione l’utilizzo di manodopera in schiavitù per le loro fabbriche: alla fin fine gli operai costavano loro pochissimo più degli schiavi, con il vantaggio non dovere fare un investimento iniziale consistente, e di potersene liberare in qualsiasi momento. Ed erano enormemente più efficienti ed accurati.

La situazione mutò però sostanzialmente verso la fine del XVIII secolo, quando la già citata invenzione di una macchina per sgranare il cotone cambiò la faccia del meridione. La macchina, chiamata cotton gin, permetteva di trasformare la produttività di un uomo, in termini di cotone sgranato, da mezzo chilo a cinquanta chili al giorno. Fu allora che il Sud, abbandonando in massa le vecchie coltivazioni, si trasformò in un paese di piantagioni di cotone. «Non v’è dubbio che la marcia all’assalto della filatura cotoniera ha accelerato come in una serra la coltura del cotone negli Stati Uniti e, con essa, ha fatto non solo della tratta degli schiavi africani, ma dell’allevamento di negri, l’occupazione prevalente nei cosiddetti Stati confinari schiavisti. Quando, nel 1790, si tenne il primo censimento degli schiavi negli Stati Uniti, il loro numero ammontava a 697.000; nel 1861, era salito a circa 4 milioni» (Il Capitale, Vol. I).

Il cotone, prodotto per l’esportazione in Inghilterra, divenne quindi una immensa fonte di reddito sulle due sponde dell’Atlantico, per gli agrari del Sud e per gli industriali di Manchester, oltre che per gli armatori di New York e Liverpool. Ed ebbe per conseguenza anche le miserie dei lavoratori che tutto ciò producevano, schiavi di qua, operai di là, affratellati dalla sfrenata corsa al profitto dei loro padroni. «L’industria cotoniera, mentre importava in Inghilterra la schiavitù dei bambini, diede impulso alla trasformazione dell’economia schiavistica degli Stati Uniti, un tempo più o meno patriarcale, in un sistema di sfruttamento mercantile. La schiavitù velata dei lavoratori salariati in Europa ha in genere avuto bisogno, come suo piedistallo, della schiavitù sans phrase nel nuovo mondo».

La condizione degli schiavi del Sud, in particolare quelli che svolgevano lavoro bracciantile nelle grandi aziende cotoniere, peggiorò rapidamente nel volgere di pochi anni, assommando gli svantaggi della schiavitù a quelli del lavoro salariato. Marx descrive accuratamente questo fenomeno. Nel capitolo su “La giornata lavorativa”, paragrafo “La fame insaziabile di pluslavoro”, mostra con descrizione di rara efficacia come la condizione dello schiavo fosse divenuta un’anticamera dell’inferno. Il pluslavoro non è stato inventato dal capitalismo, dice, riferendosi alle forme economiche precedenti. Ma «è evidente che, quando in una formazione socio-economica predomina non il valore di scambio del prodotto ma il suo valore d’uso, il pluslavoro trova un limite nella cerchia più o meno vasta dei bisogni, ma dal carattere stesso della produzione non nasce un bisogno sfrenato di pluslavoro. Perciò, nel mondo antico, il sopralavoro tocca punte terrificanti là dove si tratta di ottenere il valore di scambio nella sua forma autonoma di denaro, cioè nella produzione d’oro e d’argento. Qui, lavorare fino a morirne è la forma ufficiale del sopralavoro (...) Nel mondo antico, tuttavia, queste sono eccezioni: invece, non appena popoli la cui produzione si muove ancora nelle forme inferiori del lavoro servile, della corvée ecc., vengono attratti nelle spire di un mercato mondiale dominato dal modo di produzione capitalistico, che eleva a interesse prevalente lo smercio dei prodotti all’estero, ecco gli orrori civilizzati del sopralavoro innestarsi sugli orrori barbarici della schiavitù, del servaggio ecc. Perciò negli Stati meridionali dell’Unione americana, finché la produzione rimase orientata essenzialmente verso la soddisfazione dei bisogni locali e immediati, il lavoro dei negri mantenne un carattere moderatamente patriarcale; ma, nella misura in cui l’esportazione di cotone assurgeva per questi Stati a interesse vitale, l’imposizione al negro di prestazioni supplementari e, qua e là, il consumo della sua stessa vita in sette anni di lavoro, divenne fattore di un sistema calcolato e calcolante. Non si trattava più di spremerne una certa quantità di prodotti utili: si trattava ormai di produrre lo stesso plusvalore».
 

Il compromesso del Missouri

La ragione che spingeva gli Stati del Nord a reclamare il bando della schiavitù non era quindi di carattere morale, anche se società filantropiche e abolizioniste esistessero in gran numero e non mancassero di far sentire la loro voce. Il fatto è che chiudere il Missouri alla schiavitù significava chiuderlo alla colonizzazione sudista, e aprirlo a quella nordista. Non solo: grazie ai parlamentari che il nuovo Stato avrebbe eletto, gli equilibri a Washington potevano essere alterati a favore del Nord in modo definitivo. Ma il fatto politico più significativo fu che per la prima volta il Sud si trovò in disaccordo con i frontiersmen, i pionieri che stavano popolando il Midwest: erano loro, più che gli industriali della Nuova Inghilterra, a chiedere a gran voce l’abolizione della schiavitù, perlomeno nei nuovi territori. Ma costoro erano anche quei gruppi sociali con i quali i piantatori non potevano rompere: all’epoca poco numerosi, sarebbero cresciuti di numero molto rapidamente, ed il loro peso economico e politico sarebbe cresciuto in proporzione, fino a decidere dell’elezione di Lincoln e delle sorti del paese ai tempi della guerra civile.

Dopo un periodo di tensione, fu però raggiunto un compromesso, detto appunto “del Missouri”, nel 1820, in virtù del quale si stabiliva che la schiavitù sarebbe stata lecita in quello Stato (che si sarebbe però poco diffusa, e nel 1861 il Missouri non si sarebbe schierato con i Confederati), ma che per il futuro nessuno Stato schiavista si sarebbe ammesso nei nuovi territori a Nord del confine meridionale dello stesso Missouri (parallelo 36°30’) [v. Mappa 5]. Ciò significava lasciare per il futuro riservare il popolamento e la colonizzazione di spazi enormi al Nord al libero contadino e al libero salariato. Il peso politico del Missouri schiavista sarebbe stato compensato da un nuovo Stato del Nord-Est, il Maine.
 

Il Midwest

Dopo la rivoluzione le prime migrazioni di pionieri si erano riversate nel bacino del Mississippi-Missouri, soprattutto dopo il famoso “Acquisto della Louisiana”, e avevano trasformato estensioni sterminate di praterie e foreste in produttive aziende agricole. La linea Mason-Dixon mostrò di essere valida anche oltre gli Allegheny, in quanto le differenze tra Nord e Sud si perpetuarono anche nell’interno. Ma mentre gli Stati del nuovo Sud (Louisiana, Mississippi, Alabama, ecc.) non differivano granché da quelli atlantici, quelli del Nord-Ovest, che oggi viene chiamato Midwest in quanto costituisce una zona intermedia tra l’Est e le Montagne Rocciose e oltre (il Far West), presero caratteristiche affatto originali.

Essendo prevalentemente agricoltori, rudi, tenaci, individualisti, i pionieri erano senz’altro più affini ai piantatori del Sud, anche perché inizialmente gli Stati di provenienza erano proprio quelli del Sud. Le condizioni ambientali non permettevano però di coltivare cotone, tabacco, canna da zucchero; esse erano più simili a quelle degli ambienti del Nord-Est, e le attività più adatte si dimostrarono la coltivazione di mais e frumento, e l’allevamento del bestiame, attività che non richiedevano gran numero di braccianti e che potevano essere svolte nella gran parte dei casi dalla famiglia stessa dell’agricoltore. Anche l’allevamento richiedeva un investimento in manodopera (i famosi cow-boys) abbastanza basso. In questi nuovi Stati quindi (Ohio, Indiana, Illinois, Iowa, ecc.) non si crearono le condizioni per un esteso bracciantato, e la schiavitù non vi attecchì. In ogni modo la natura essenzialmente agricola dell’economia fece sì che l’affinità di frontiersmen con il Sud fosse profonda, e il partito democratico vi godette a lungo di un forte sostegno.

L’esuberanza degli uomini della Frontiera colse un primo successo con l’elezione di Andrew Jackson alla presidenza, nel 1828. Con lui il controllo del partito democratico passò dalle mani dei piantatori del Sud a quelle degli uomini dell’Ovest. Ciò, se significò una spinta verso la democratizzazione del Paese, la cui conseguenza principale fu il suffragio universale; e se la Banca Centrale fu liquidata, favorendo i sudisti autonomisti; tuttavia nel 1832, all’inizio del secondo mandato Jackson, portò anche a un rialzo delle tariffe doganali, misura da sempre richiesta del Nord, per proteggere la giovane industria dalle importazioni a basso prezzo, e da sempre fieramente avversata dal Sud, in quanto nociva alle esportazioni del cotone e altri prodotti agricoli. Ma nell’Ovest e Sud Ovest non tutti erano d’accordo, e tra questi erano gli allevatori di pecore da lana.

Il Sud reagì sentendosi tradito, e lo Stato da sempre più ribelle, la Carolina del Sud, arrivò a dichiarare nulle le ordinanze in oggetto all’interno delle Stato medesimo. Il governo inviò truppe; la Carolina Meridionale mobilitò la milizia. Poi, come altre volte, si raggiunse un compromesso.

Ma la questione scottante era stata sollevata con forza: fin dove arriva l’autonomia di un singolo Stato, e dove inizia l’autorità indiscussa del Governo centrale? Ovviamente la visione di una società federalistica e autonomistica era perfetta per gli interessi agricoli del Sud, mentre una società centralizzata era l’ideale per la nascente borghesia industriale del Nord. La risposta sarebbe stata data dalla storia qualche decennio più tardi.

Nel frattempo Midwest e Sud si sarebbero riavvicinati, in quanto i primi erano irritati dai tentativi del Nord di passare una legge che ostacolasse l’acquisto di terre del demanio da parte dei “pionieri”, ovviamente nella speranza di fermare l’emorragia di manodopera dalle città dell’Est. Infatti ancora non si era giunti a quei flussi migratori di massa di qualche anno più tardi, di cui si parla ne Il Capitale: «”L’enorme e ininterrotto fiume umano incanalato anno per anno verso l’America si lascia dietro dei sedimenti inerti nella fascia orientale degli Stati Uniti, perché il flusso migratorio dall’Europa vi getta gli uomini sul mercato del lavoro più rapidamente di quanto il flusso migratorio in direzione Ovest possa dilavarli». L’aumento dell’afflusso di tedeschi ed irlandesi nei decenni successivi avrebbe creato tali condizioni, fornendo manodopera sufficiente per le fabbriche, da rendere meno grave questo punto di attrito tra frontiersmen e industriali del Nord-Est.

Ma nel frattempo i Whig di New York e Boston dovettero segnare il passo, mentre i democratici trionfavano con la guerra con il Messico, che diede all’Unione, e all’espansionismo agrario, spazi enormi, dal Texas alla California.

Non si era però risolto nessun problema di fondo, il Sud continuava a sopravvivere a sé stesso, un sistema produttivo incompatibile con l’avanzare della storia sul continente americano. Ormai la crisi era dietro ogni angolo, e anche questa conquista pose un problema ineludibile, che si presentò sotto forma di proposta di un parlamentare nordista: perché non escludere la schiavitù dai territori strappati al Messico? Una misura siffatta, contrabbandata come “umanitaria”, avrebbe tenuto lontani i sudisti dai territori appena conquistati. Il Sud, ovviamente, insorse, con qualche minaccia addirittura di secessione. La pregiudiziale Wilmot, così si chiamò, fu ritirata, ma anche in questo caso un conflitto nuovo, che si aggiungeva alle tante ragioni di attrito all’interno degli schieramenti, era emerso in piena luce: gli uomini del Midwest avevano combattuto per conquistare il Sud-Ovest, ma perché fosse aperto al lavo-ro “libero” e non al lavoro schiavistico, il che voleva dire, non agli agricoltori del Sud. Il che a sua volta rendeva i frontiersmen contrari alla schiavitù, non per ragioni umanitarie ma, come nel caso degli yankees, per precisi calcoli di convenienza.

Così, nel trentennio che precedette la guerra civile, le condizioni economiche e sociali degli Stati Uniti presero una direzione che avrebbe portato a modificare i rapporti di forza tra queste tre anime della società; ad eleggere un presidente repubblicano; alla secessione del Sud.

Non ci dilunghiamo a descrivere la crescita prodigiosa dell’industrializzazione del Nord, se non per ricordare che fu proprio verso la fine di quel periodo che il capitale investito nelle attività industriali superò quello esistente in tutta l’agricoltura americana, sia al Nord sia al Sud. Il Sud non poteva che perdere terreno, anche sul piano agricolo, nei confronti di Nord e Ovest. Il primo era sempre più ricco, il secondo sempre più grande e produttivo, con derrate in sempre maggiori quantità che attraversavano la prateria verso i porti del Nord, o verso Chicago, la nuova metropoli del Midwest, su ferrovie che raramente interessavano il Sud [v. Mappa 3].

Il Nord puntava a risolvere i suoi due grandi problemi, come abbiamo visto, quello della manodopera, grazie alle torme di emigranti che arrivavano in sempre maggiori numeri, e quello dei dazi, per i quali cercava di ottenere leggi adeguate, pur se con lotte parlamentari talvolta estenuanti. Quello dei dazi fu un problema che per gli industriali del Nord si risolse definitivamente solo con la fine della guerra. Infatti, pur se dopo il 1850 lo sviluppo industriale fu rapidissimo, per alcuni prodotti, il ferro e i tessili, acute difficoltà insorsero verso la metà del decennio che precedette la guerra. Verso la fine del 1854 stock di ferro andavano accumulandosi in tutti i mercati del mondo, e la maggior parte delle fabbriche americane aveva dovuto chiudere. Nel settore dei tessili il Lancashire aveva sopravanzato il New England nella riduzione dei costi, per cui tra il 1846 e il 1856 le importazioni di cotonate stampate e colorate balzò da 13 milioni di yarde a 114 milioni, quelle di calicò ordinario da 10 milioni a 90 milioni. Nel 1857 ci fu un crollo finanziario piuttosto grave. La tariffa approvata quell’anno, in conformità alle pressioni del Sud, non accentuava, anzi in realtà riduceva i dazi per questi due manufatti. Questi fatti suscitarono nei circoli industriali del Nord una risentita indignazione.

Intanto il Midwest stringeva legami sempre più stretti con il Nord industriale, al cui sviluppo diveniva sempre più interessato. Per contro prendeva sempre più forma il contrasto tra i frontiersmen e il Sud. Quest’ultimo poteva sopravvivere solo esportando nell’Ovest la sua agricoltura, estensiva e basata sul lavoro degli schiavi, mentre quelli, se non discutevano sulla schiavitù a Est del Mississippi, non ne volevano assolutamente sulla sponda Ovest, dove per loro la terra doveva essere riservata ai contadini liberi. Non solo, ma doveva essere gratis, o a prezzo basso, per chiunque fosse pronto a dissodarla e a farla produrre, dopo aver, naturalmente, rimosso macigni, abbattuto alberi, estirpato ceppi, ed eventuali indiani.

I sudisti si trovarono presto ad avversare il movimento, che si chiamò dei freesoilers, gente d’altronde che veniva principalmente dal Nord-Est, mentre il Nord, negli anni ‘50, non ebbe più ragione di contrastarlo. Venne quindi a mancare quel forte legame che aveva unito gli agricoltori del Sud e dell’Ovest nei decenni precedenti, e le conseguenze di questa separazione, che ebbe ripercussioni anche nel Partito Democratico, e che di fatto rendeva il Sud come un corpo estraneo nell’Unione, si sarebbero presto fatte sentire.
 

I decisivi anni ‘50

Il decennio 1850-1860 vide un precipitare e un radicalizzarsi di tutte le questioni che avevano opposto le due anime dell’Unione: le condizioni economiche e politiche che avevano determinato gli attriti tra Nord e Sud non fecero che svilupparsi secondo la loro inesorabile logica. Il Sud aveva ormai compreso che non poteva cedere su nessuna delle posizioni tenute, pena un crollo a catena dei capisaldi sui quali si basava il suo sistema economico, e quindi un totale assoggettamento al Nord. Il Nord non poteva arrestare la sua spinta espansiva, cui non sfuggiva a causa delle forze inarrestabili e inesorabili di un sistema capitalistico giovane e esuberante che non ammetteva briglie, limiti, condizionamenti, che intendeva mantenere e sviluppare quell’enorme mercato interno che gli Stati Uniti stavano diventando, requisito primo per ogni capitalismo nascente. Al di là della retorica nazionalistica, democratica e umanitaria, queste erano le forze che determinarono le scelte, obbligate, che portarono alla guerra, sia al Nord sia al Sud. Ogni contrasto tra le due parti era oramai una questione critica, ogni scontro evocava misure drastiche, ogni volta al Sud qualcuno evocava lo spettro della separazione dell’Unione. In effetti di questo ormai si trattava, di due sistemi economici con interessi divergenti, interessi che non potevano essere composti senza che una delle due parti ne ricevesse grave danno. Di qui l’arroccarsi in modo sempre più intransigente sulle proprie posizioni, di qui la sensazione che ci si trovasse in un vicolo cieco.

Il decennio iniziò con una nuova disputa sulla introduzione della schiavitù in un nuovo Stato, questa volta piuttosto importante, la California. Schiavitù che i californiani non volevano, beninteso. Il Sud insorse convocando una Convenzione a Nashville, per individuare quei provvedimenti che si sarebbero resi necessari per tutelare gli interessi degli Stati meridionali. Già la parola “secessione” correva di bocca in bocca. Ma anche stavolta un compromesso fu trovato: la California non sarebbe stata schiavista, e al Sud sarebbero state fatte alcune concessioni, tra le quali una legge più efficace per il recupero degli schiavi fuggiti al Nord. Si trattò di un provvedimento controproducente, perché la “Fugitive Slave Law” fece solo indispettire i nordisti, anche a livello popolare, e in realtà gli aiuti organizzati per gli schiavi in fuga, la cosiddetta “ferrovia sotterranea”, aumentarono; contemporaneamente veniva pubblicato La capanna dello zio Tom, a completare il formarsi di un’opinione pubblica nordista contraria al Sud e allo schiavismo.

Il decennio vide in particolare lo svilupparsi del polo del Midwest, della Frontiera, che continuava a spostarsi sempre più ad occidente. Nuovi territori chiedevano di essere ammessi nell’Unione, e presto si ebbe, con un nuovo problema, una nuova crisi: quella del territorio del Nebraska. Ivi, secondo il compromesso del Missouri, non avrebbero potuto formarsi Stati a schiavi; ma il Sud, per aver dovuto ingoiare solo pochi anni prima il rospo della California, sosteneva che oramai quel compromesso era decaduto. Il capo del partito democratico era allora Stephen Douglas, dell’Illinois, un uomo del Midwest. Egli si trovò in quegli anni a fare da mediatore tra le due anime del partito, quella dei frontiersmen, che chiedevano una sistemazione statale dei territori, terre gratis, senza schiavismo, e quella dei piantatori del Sud, liberoscambisti, schiavisti, anticentralisti. Douglas, che aveva ambizioni presidenziali, non voleva alienarsi né gli uni né gli altri, ma in realtà la legge che fece approvare ebbe l’effetto contrario. Il Kansas-Nebraska Act del 1854 creava due Stati, il Kansas più a Sud e il Nebraska più a Nord; il compromesso del Missouri veniva abolito, e ogni questione relativa alla schiavitù sarebbe stata decisa dalla popolazione residente. La legge fu interpretata come un tradimento nel Midwest e come una resa di fronte al Sud. Invece di aumentare il suo seguito elettorale Douglas ne perse molto proprio nelle sue terre e compromise definitivamente le sue possibilità di accesso alla Casa Bianca.

Leggiamo come la questione dell’importanza della schiavitù per il Sud viene posta da Marx il 20 ottobre 1861: «La coltivazione degli articoli d’esportazione del Sud, cotone, tabacco, zucchero, etc., ad opera degli schiavi, è remunerativa soltanto quando è effettuata con folti gruppi di schiavi, su larghissima scala e su ampie distese di terreno naturalmente fertile, che richiede soltanto un lavoro molto semplice. La coltivazione intensiva, che dipende non tanto dalla fertilità del terreno quanto dagli investimenti di capitali, dall’energia e dall’intelligenza del lavoratore, è contraria all’essenza della schiavitù. Da questo deriva la rapida trasformazione di Stati quali il Maryland e la Virginia, che precedentemente si servivano degli schiavi per la produzione di articoli d’esportazione, in Stati allevatori di schiavi, per esportarli nel “profondo Sud”. Persino nella Carolina Meridionale, in cui gli schiavi costituiscono i quattro settimi della popolazione, la coltivazione del cotone per anni è stata quasi completamente stazionaria, per effetto dell’esaurimento del terreno. Spinta dalle circostanze, la Carolina Meridionale si è già trasformata in parte in uno Stato allevatore di schiavi, poiché vende già adesso schiavi agli Stati dell’estremo Sud e del Sud-Ovest, per un valore di quattro milioni di dollari l’anno. Non appena si giunge a questo punto, l’acquisizione di nuovi Territori diviene indispensabile, affinché una parte dei proprietari di schiavi possa avanzare in nuove proprietà di terreno fertile, e si possa creare un nuovo mercato per l’allevamento degli schiavi, e quindi per la loro vendita, a beneficio degli altri proprietari schiavisti rimasti. Ad esempio, non vi è dubbio che senza l’acquisizione di Louisiana, Missouri ed Arkansas da parte degli Stati Uniti, la schiavitù nella Virginia e nel Maryland sarebbe scomparsa già da tempo. Nella Convenzione secessionista di Montgomery, il senatore Toombs, uno dei portavoce del Sud, ha formulato in termini quanto mai eloquenti la legge economica che impone l’espansione costante del territorio della schiavitù. “Fra quindici anni”, ha dichiarato Toombs, “senza un grande incremento del territorio schiavista, si dovrà permettere agli schiavi di fuggire dai bianchi, oppure i bianchi dovranno fuggire dagli schiavi” (...)

«Quindi una rigorosa limitazione della schiavitù entro i suoi vecchi confini secondo le leggi dell’economia avrebbe portato gradualmente ma fatalmente alla sua scomparsa, sul piano politico avrebbe annullato l’egemonia che gli Stati schiavisti esercitavano tramite il Senato, ed infine avrebbe esposto l’oligarchia schiavista all’interno sei suoi stessi Stati al minaccioso pericolo dei “poveri bianchi”. Asserendo il principio che qualsiasi ulteriore estensione dei Territori schiavisti doveva esser vietata dalla legge, i repubblicani attaccavano quindi il potere schiavista alla radice. Conseguentemente la vittoria elettorale dei repubblicani doveva sfociare nella lotta aperta fra Nord e sud; nel contempo, questa vittoria elettorale, come si è detto, era determinata essa stessa dalla scissione dello schieramento democratico (...)

«Il partito schiavista presentava la candidatura di Breckinridge e sosteneva che in base alla Costituzione degli Stati Uniti, come aveva dichiarato anche la Corte Suprema, la schiavitù era assolutamente legittima; in sé e per sé la schiavitù era già legale in tutti i Territori e non richiedeva provvedimenti particolari. Quindi, mentre i repubblicani vietavano qualsiasi incremento dei Territori schiavisti, il partito del Sud accampava diritti su tutti i Territori della Repubblica, forte della protezione della legge. Quel che avevano tentato di fare a titolo indicativo nei confronti del Kansas, imporre la schiavitù in un Territorio tramite il governo centrale contro la volontà stessa dei coloni, adesso lo volevano istituzionalizzare come legge per tutti i Territori dell’Unione (...) D’altro canto, la teoria della “sovranità dei pionieri” di Douglas non poteva soddisfare il partito schiavista (...)

«L’Unione era ancora importante per il Sud soltanto nella misura in cui gli si offriva il potere federale come mezzo per continuare la politica schiavista. In caso contrario, era meglio provocare subito la frattura anziché restare a guardare lo sviluppo del Partito Repubblicano e la formidabile ascesa del Nord-Ovest per un altro quadriennio, ed intraprendere la lotta in condizioni più sfavorevoli. Perciò il partito schiavista ha giocato va banque, rischiando il tutto per tutto! Quando i democratici del Nord si sono rifiutati di continuare a fare la parte dei “poveri bianchi” del Sud, il Sud ha procacciato a Lincoln la vittoria disperdendo i suoi suffragi, e quindi ha addotto questa vittoria come pretesto per sguainare la spada dal fodero.

«Tutto questo movimento era basato, e lo è tuttora, palesemente, sulla questione degli schiavi: non perché si pone il problema dell’emancipazione o meno degli schiavi nell’ambito degli Stati schiavisti esistenti, ma perché si chiede piuttosto se i venti milioni di uomini liberi del Nord si debbano piegare ancora ad un’oligarchia di trecentomila proprietari di schiavi; se i Territori sconfinati della Repubblica debbano veder prosperare gli Stati liberi ovvero la schiavitù; infine, se la politica nazionale dell’Unione debba portare come suo emblema la schiavitù in Messico, nell’America centrale e meridionale con la forza delle armi».

Altrove Marx ribadirà che la guerra per il Sud è «una guerra di conquista mirante ad estendere e perpetuare la schiavitù».

Il paese si mobilitò, vista la lettera della legge, affinché il Kansas (il Nebraska restava di sicuro antischiavista) non cadesse nelle mani del Sud. I sudisti del Missouri furono i primi a “invadere” il Kansas, pretendendo di votare illegalmente, creando una Assemblea illegale che pose mano a una legislazione schiavista; contemporaneamente nel New England si organizzavano associazioni per favorire l’emigrazione nel Kansas. Era chiaro che alla lunga l’avrebbe spuntata il Nord, per la più potente spinta migratoria che lo caratterizzava; di qui l’attivismo dei sudisti. Che in gioco non ci fosse lo schiavismo e che si trattasse di un episodio della lotta tra Nord e Sud lo dimostra il fatto che ancora nel 1860 in tutto lo Stato c’erano solo due schiavi.

I freesoilers, in modo altrettanto illegale, elessero una seconda Assemblea, e non vi fu modo di calmare le acque, anche perché il governo, e il presidente Pierce, parevano chiaramente filosudisti. Fu quindi inevitabile che la situazione precipitasse in scontri armati, con il seguito di violenze e massacri. Fu in questo contesto che il nome del “capitano” John Brown iniziò a circolare circondato da un’aura di terrore. Alla fine, come era prevedibile, i freesoilers ebbero la meglio, ma una spaccatura tra Midwest e Sud si era aperta, e non si sarebbe più richiusa; al contrario, avrebbe continuato ad allargarsi grazie agli eventi successivi. Nel 1858 il caso Kansas avrebbe portato Douglas a schierarsi contro il presidente sudista Buchanan, sanzionandosi così la spaccatura definitiva del Partito Democratico.

Ma già alle elezioni del 1856 il candidato democratico aveva vinto solo grazie alla divisione nelle file avversarie. Buchanan (anche stavolta i democratici avevano preferito a Douglas un altro candidato), si avvantaggiò della debolezza dei Whig e della gioventù del nuovo partito, il Partito Repubblicano. Questo nuovo partito, nato dai resti di numerosi movimenti e di fuoriusciti Whig, dietro i soliti fumi ideologici aveva come programma la proibizione della schiavitù nei nuovi Stati, la costruzione di una ferrovia transcontinentale e tutte le rivendicazioni politico-economiche della nuova oligarchia finanziaria e industriale del Nord, e dei frontiersmen. Un partito che, per la prima volta nella storia del paese, sarebbe riuscito ad affasciare tutto il Nord (Est e Ovest) in funzione antisudista.

Il Partito Democratico d’altra parte rimase solo nominalmente nazionale, perché, dovendo difendere ad oltranza gli interessi del Sud, si alienò una dopo l’altra le altre componenti del paese. Abbiamo visto la spaccatura nei confronti dei frontiersmen; ora anche nei confronti degli Stati atlantici, e in particolare la Pennsylvania, ci si doveva decidere. In quello Stato la siderurgia e la metallurgia erano (e sono) fondamentali, e la concorrenza inglese si sentiva sempre più; chi accontentare, i libero scambisti del Sud, o i capitalisti e operai siderurgici, tutti fedeli elettori democratici? Il Sud optò per i primi. Lo stesso atteggiamento negativo fu tenuto sui “Free Homesteads”, i poderi gratuiti, utilizzando sia la maggioranza al senato sia il veto presidenziale. Ancora No fu la risposta a progetti per migliorare la navigabilità sui laghi del Nord-Ovest. La stessa risposta ebbero il progetto di una ferrovia transcontinentale, la richiesta di ammissione all’Unione del Kansas ormai pacificato e non schiavista, il progetto per la costituzione nell’Ovest di scuole agrarie. Quasi tutti questi rifiuti colpivano il Midwest, e non potevano mancare di farne un nemico giurato del Sud. Le conseguenze si sarebbero vista a breve, alle elezioni presidenziali dell’autunno 1860; i programmi elettorali, in positivo o in negativo, si sarebbero centrati su tutte queste irrisolte questioni, con quella della schiavitù a fare da cemento comune delle varie componenti opposte al Sud.
 

L’ultimo anno di pace

Il 1860 è l’anno in cui le cause scatenanti fondamentali della guerra vengono alla luce in modo definitivo, e si delineano gli schieramenti. É anche l’anno in cui viene gonfiata la giustificazione ideale dello scontro, e viene consegnata ad un “popolo” in realtà poco convinto dalla parola d’ordine della liberazione degli schiavi. Verso la fine del 1859 un altro evento era venuto infatti ad infiammare gli animi: il colpo di mano fallito di John Brown, e la sua esecuzione.

John Brown, un visionario romantico e combattivo che aveva fatto della liberazione degli schiavi la sua missione, apparteneva a quel filone di rivoluzionari ottocenteschi che credevano nell’azione esemplare, capace di infiammare gli animi e suscitare estese insurrezioni. In Italia ve ne erano stati alcuni, che Brown conosceva, come i fratelli Bandiera, il Pisacane, e successivamente lo stesso Garibaldi; la tradizione si sarebbe ancora mantenuta tra gli anarchici, affievolendosi, nella seconda metà del secolo.

Ad Harper’s Ferry l’azione militare andò male, ma è dubbio se gli schiavi sarebbero accorsi in massa sotto le bandiere dei loro liberatori, visto il loro comportamento negli anni successivi, quando i loro padroni sarebbero stati sfidati da un esercito potentissimo.

Il supplizio di John Brown ebbe però un effetto notevole sugli animi dei cittadini del Nord, che lo videro come un martirio per mano dei biechi schiavisti. Mentre la parola d’ordine antischiavista non mancava di riscuotere il consenso delle classi medie, schierate ora con la classe dei capitalisti finanziari, industriali e mercantili, le masse proletarie, come vedremo, erano invece assai meno convinte.

Ogni macello militare cui la borghesia spinge il proletariato viene coperto con una giustificazione morale: nessuno Stato scatenerà mai una guerra dicendo che serve ad arricchire la classe dominante. Da qui la motivazione antischiavista nel 1861, quelle irredentistiche e antiassolutiste nel 1914, quella democratica e antinazista nel 1939, quella antiterrorista oggi, dopo che il “comunismo” russo si è improvvidamente sottoposto a eutanasia.

In realtà, anche in quel fatale svolto storico l’essenza vera del contrasto era ben più complessa e non nota alla coscienza dei più, e verteva su ben altre questioni di fondo. Si trattava in realtà di stabilire se l’Unione poteva continuare ad esistere mantenendo in sé due distinte nazioni e regimi economici, o se una di esse dovesse accettare la sottomissione all’altra; perché ormai il tempo dei compromessi era passato, e le questioni venivano messe sul tappeto una dopo l’altra, con il Nord che non intendeva più rimandare la gestione di quel potere che avrebbe ristrutturato lo Stato secondo le sue necessità.

Già a metà febbraio 1860 tornò la questione dei “free homesteads”, poderi gratuiti, che tanto premevano al Midwest; ma anche la borghesia atlantica ci teneva adesso, in quanto avrebbero determinato un’enorme crescita del mercato per i prodotti industriali del Nord. Il Sud, spaventato anche dalla prospettiva di ulteriore immigrazione che avrebbe ancor più rafforzato il Nord, fece naufragare la legge, anche con l’aiuto del presidente Buchanan, e si attirò definitivamente l’avversione del Midwest.

Anche su altre misure importanti, e che favorivano sia il Nord-Est che il Midwest (lavori pubblici per le vie d’acqua dei Grandi Laghi, tariffe protettive per l’industria tessile, scuole agrarie, ferrovia transcontinentale, ammissione all’Unione del Kansas ormai non schiavista, ecc.) il Sud si era ormai arroccato nella sua maggioranza in Senato e si opponeva a tutto. Mentre il Nord aspirava a fare dell’intera Unione un solo vasto mercato, il Sud vi si opponeva con forza perché in questa tendenza vedeva la morte del suo sistema economico, sociale e culturale.
 

Le elezioni del 1860

Il 1860 fu anche l’anno delle elezioni presidenziali, e quindi, allora come oggi, delle convenzioni per la nomina dei candidati alla presidenza. Lo scontro, allora come oggi, fu tra il Partito Democratico, in teoria nazionale ma sempre più ormai centrato sugli interessi del Sud, e il neonato Partito Repubblicano, chiaramente schierato sulle rivendicazioni del Nord industriale.

La convenzione democratica fu la più sofferta, in quanto al suo interno le due anime, del Midwest e del Sud schiavista, si diedero battaglia e, per farla breve, si separarono, investendo due diversi candidati alla presidenza, Douglas e Breckinridge. Il punto su cui la separazione ebbe luogo fu la persistenza o meno dello schiavismo nei nuovi territori, ma si trattò solo di un simbolo di per sé di scarso rilievo, che nascondeva uno scontro che riguardava ben altre questioni, come abbiamo visto. Infatti, se, come sembrava fosse ormai inevitabile, ci fosse stata la secessione, il Sud non avrebbe avuto alcun nuovo territorio su cui far valere il diritto ad instaurare la schiavitù, ammesso che i coloni l’avessero voluta.

D’altronde, nel 1860, nessuno minacciava l’istituto della schiavitù già esistente negli Stati del Sud. Nessuno credeva seriamente che la “peculiare istituzione” potesse mai espandersi fuori dal Meridione, ove del resto essa appariva logora e destinata col tempo a perire. Eppure le folle settentrionali avevano paura della “schiavocrazia” che avrebbe invaso il Nord, quelle del Sud temevano la fine del loro benessere, e insurrezioni, massacri di bianchi, ecc. Un giornale di Richmond scriveva: «Se pure non esistesse nemmeno uno schiavo dall’Arostook al Sabine, il Nord e il Sud non potrebbero andare d’accordo permanentemente».

Questo fatto apparve chiaro anche nel corso della convenzione repubblicana, che si tenne a Chicago. Il candidato prescelto per la presidenza fu Abramo Lincoln, un uomo dell’Illinois (Midwest), nato nel Kentucky (Sud); in realtà si trattava di un candidato di compromesso, quello dalla personalità politica meno spiccata, che potesse prendere voti un po’ da tutte le parti. D’altra parte la piattaforma programmatica del partito era già stata scritta, e Lincoln da parte sua fece una campagna molto silenziosa. Un modesto, e forse cosciente di ciò, strumento della storia, anche se forse non del tutto insignificante come personalità.

Nella piattaforma repubblicana i motivi ideologici dell’abolizionismo, rispetto al 1856, erano stati liquidati, e ci si limitava a dire che il principio della Dichiarazione di Indipendenza, che tutti gli uomini sono “creati” uguali, era «essenziale per la conservazione delle nostre istituzioni repubblicane», il che poteva trovare d’accordo anche i sudisti, visto che era stato scritto da Jefferson, un meridionale DOC. Del resto, ammettere i negri “creati uguali”, non impediva affatto che, “poi”, diventassero “diversi”. Praticamente non ci si intrometteva negli affari dei singoli Stati riguardo alla schiavitù, e non era nemmeno escluso che essa potesse essere istituita nei nuovi territori. La sostanza della piattaforma non risiedeva quindi nella questione della schiavitù, ma in un comma successivo, nel quale si diceva chiaro e tondo che l’Unione era intangibile, che ogni proposta secessionista doveva essere considerata un progetto di tradimento che era «imperativo dovere di un popolo indignato respingere severamente e far tacere per sempre». Seguivano tutte quelle misure che il Sud rifiutava e che stavano a cuore al Midwest e all’Est: “Homestead Act”, ferrovia, protezionismo per l’industria, servizio postale quotidiano, lavori pubblici federali per fiumi e porti.

La campagna elettorale si svolse quindi in una atmosfera tesa. Lincoln, stretto tra le tante anime del partito, non prese una posizione decisa; la leggenda vuole che avesse una posizione non di parte, cioè nordista, ma piuttosto nazionale, contrastante con il volere del partito. Si tratta di un problema che lasciamo volentieri ai biografi; noi sappiamo che non avrebbe potuto far altro che attenersi agli imperativi del momento, e lasciarsi attraversare dalla storia come ogni bravo battilocchio.

Quattro erano i candidati in lizza, e il giorno delle elezioni, il 6 novembre 1860, Lincoln raccolse solo una maggioranza relativa dei voti, che però gli garantì, grazie al sistema elettorale, la maggioranza assoluta dei voti elettorali. Il voto fu molto polarizzato, nel senso che i suffragi per lui si ebbero solo a nord della linea Mason-Dixon.

Il passaggio, storico, del potere (perché di questo si trattava) dal Partito Democratico a un partito che apertamente rappresentava gli interessi del Nord ebbe, anche se atteso, un effetto devastante sul Sud, e i più accesi fautori della secessione non mancarono di soffiare sul fuoco. Il risultato fu che il 12 dicembre la Carolina del Sud proclamò la secessione, tosto seguita, nell’arco di due mesi, da Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana e Texas.
 

Secessione

Mentre a Washington niente si muoveva, perché, nell’attesa dell’insediamento di Lincoln del 4 marzo, Buchanan non osava muovere dito, nel febbraio 1861 si riunì una convenzione a Montgomery, in Alabama, degli Stati secessionisti. Il 7 febbraio venne proclamata una nuova entità statale, gli Stati Confederati d’America (Confederate States of America, C.S.A.), con Jefferson Davis, ex senatore del Mississippi, come Presidente. Venne anche varata una nuova Costituzione, ovviamente improntata ai principi e alle necessità del Sud.

Ma c’era di più, e Marx non fece mancare il suo giudizio sferzante: «Di fatto l’oligarchia dei trecentomila proprietari di schiavi non si è valsa della Convenzione di Montgomery soltanto per proclamare la separazione del Sud dal Nord, ma contemporaneamente l’ha sfruttata per rivoluzionare le costituzioni interne degli Stati schiavisti, per assoggettare completamente quella parte della popolazione bianca che aveva mantenuto ancora una certa indipendenza grazie alla protezione ed alla Costituzione democratica dell’Unione. Fra il 1856 ed il 1860 rappresentanti politici, giuristi, moralisti e teologi del partito schiavista avevano già tentato di dimostrare non tanto che la schiavitù dei negri fosse giustificata, quanto piuttosto che il colore della pelle non comporta alcuna differenza e che la classe lavoratrice ovunque e comunque è destinata alla schiavitù. Si vede quindi come la guerra della Confederazione del Sud sia nel vero senso della parola una guerra di conquista mirante a estendere e perpetuare la schiavitù. I Territori e gli Stati di confine sono ancora in maggioranza in possesso dell’Unione, in quanto si sono schierati al suo fianco prima con il responso delle urne elettorali, poi con le armi in pugno. La Confederazione tuttavia considera tali Stati e Territori parte del Sud, e si adopera per strapparli all’Unione con la forza. Negli Stati di confine occupati sinora, la Confederazione tiene sotto controllo la popolazione relativamente libera degli altipiani imponendo la legge marziale. Persino all’interno degli Stati effettivamente schiavisti, dove sinora esisteva la democrazia, si è instaurata l’oligarchia sfrenata dei trecentomila proprietari di schiavi.

«Rinunziando alle sue mire di conquista, la Confederazione sudista vedrebbe svanire la sua capacità di sopravvivenza ed il motivo stesso della secessione. La secessione in verità si è compiuta solamente perché si è compreso che nell’ambito dell’Unione la trasformazione dei Territori e degli Stati di confine in stati schiavisti non poteva continuare all’infinito. D’altro canto, con una cessione pacifica del territorio contesogli dalla Confederazione sudista, il Nord consegnerebbe nelle mani della repubblica schiavista più dei tre quarti di tutto il territorio degli Stati Uniti. Il Nord perderebbe completamente il golfo del Messico, l’oceano Atlantico dalla rada di Pensacola a quella del Delaware, ed inoltre si troverebbe privo di sbocco sull’oceano Pacifico. Missouri, Kansas, Nuovo Messico, Arkansas e Texas trascinerebbero nella loro scia la California. Incapaci di strappare la foce del Mississippi dalle mani della forte repubblica schiavista del Sud a loro ostile, i grandi Stati agricoli del bacino compreso fra le Montagne Rocciose e gli Allegheny, nelle valli del Mississippi, del Missouri e dell’Ohio si vedrebbero costretti nel loro stesso interesse economico a separarsi dal Nord e aderire alla Confederazione sudista. A loro volta, questi Stati nord-occidentali trascinerebbero col loro esempio tutti gli Stati del Nord che si spingono verso Est, con la sola eccezione forse degli Stati del New England, nello stesso vortice di secessione. Di fatto, si assisterebbe così non allo scioglimento dell’Unione, bensì ad una sua riorganizzazione, una riorganizzazione sulla base della schiavitù, sotto il controllo riconosciuto dell’oligarchia schiavista (...)

«L’attuale conflitto fra Nord e Sud quindi altro non è che un conflitto fra due sistemi sociali, fra il sistema della schiavitù e quello del lavoro libero. Tale conflitto è scoppiato perché i due sistemi non possono più coesistere pacificamente l’uno accanto all’altro nel continente nordamericano, e potrà concludersi unicamente con la vittoria di un sistema o dell’altro».

Poteva, legittimamente, uno Stato secedere? L’Unione era stata stabilita tra colonie uguali che volontariamente si erano associate, e nessuna clausola della Costituzione vietava in alcun modo un ripensamento. Naturalmente gli storici e i legulei borghesi hanno sparso fiumi d’inchiostro sull’argomento, come se gli eventi storici, prima di avvenire, si dovessero domandare se sono legittimi. Lo stesso Lincoln tentò di dimostrare nel suo discorso inaugurale che tale diritto non esisteva, ma naturalmente lo scopo non era quello di convincere i sudisti, ma di dimostrare che costoro erano dei ribelli fuorilegge, da trattare come tali.

La secessione ci fu perché gli Stati del Sud erano sicuri di cavarsela a tenere a bada il Nord, se non addirittura a vincere una guerra veloce, puntando su una serie di eventi nazionali e internazionali favorevoli, e sul vantaggio iniziale ottenuto dall’amministrazione Buchanan (Marx parla con ragione di “congiura secessionista”, preparata negli anni precedenti), prima, e dall’irresolutezza di quella Lincoln nel primo anno, poi. Solo qualche illuso pensava invece di poter vincere una guerra di lunga durata.

Il 4 marzo 1861 il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America si insedia, e dal suo primo discorso appare chiaro quali siano le reali motivazioni del contrasto: infatti Lincoln rassicura tutti circa pretese minacce alle proprietà dei cittadini, perché, dice «non ho alcuna intenzione di interferire (...) nell’istituzione della schiavitù in quegli Stati ove essa esiste. Credo di non avere alcun diritto legale di far ciò, e non ho alcuna inclinazione a farlo». Però, attenti, «io ritengo che (...) l’Unione di questi Stati sia perpetua. Io farò tutto quanto sta in me (...) affinché le leggi dell’Unione siano regolarmente applicate in tutti gli Stati».

Il dado era tratto, e nel mese successivo non vi furono ripensamenti. Il 12 aprile iniziò il cannoneggiamento di Fort Sumter, nella rada di Charleston, una fortezza federale nel territorio della Carolina del Sud. La guerra era iniziata. Lincoln dichiarò l’esistenza di un’insurrezione, e chiese ai Governatori milizie per reprimerla. Ma la cosa più importante seguita al bombardamento fu che il Nord si infiammò di colpo contro il Sud, creandosi così le condizioni psicologiche per più vaste mobilitazioni.

Altri quattro Stati del Sud ruppero gli indugi, dichiarando la secessione, Virginia (dalla quale però si separò la West Virginia, da allora Stato a sé, e nordista), Arkansas, Tennessee e Carolina del Nord; il Kentucky si dichiarava neutrale (ma ciò non avrebbe risparmiato al suo territorio gli orrori della guerra), mentre Maryland e Missouri erano ancora dilaniati dalle fazioni avverse. Ricordiamo che la capitale federale, Washington, era in un territorio tra Virginia e Maryland; intanto la capitale della Virginia, Richmond, diveniva la capitale confederata. Sul mare il Sud offriva lettere di autorizzazione alla guerra di corsa contro la marina mercantile nordista, mentre Washington proclamava il blocco navale del Sud. Lo stato di guerra fu ufficialmente dichiarato il 29 maggio dai confederati [v. Mappa 6].
 

Le forze in campo

Allo scoppio della guerra i 20 Stati del Nord contavano una popolazione di quasi 19 milioni di abitanti; gli 11 Stati del Sud contavano solo 5 milioni e mezzo di bianchi, e 3 milioni e mezzo di schiavi negri. I 3 Stati di confine a loro volta contavano 2,5 milioni di bianchi e mezzo milione di schiavi; questi Stati saranno in genere fedeli all’Unione, con tutti i vantaggi strategici ed economici che questo comporterà, ma per quanto riguarda la popolazione bianca, questa sarà divisa e darà truppe volontarie in egual misura a entrambi i fronti.

Per quanto riguarda la popolazione negra, si può pensare che costituisse per il Sud un pericolo in più, ma questa eventualità, a parte fatti di portata trascurabile, non si verificò. Non solo gli schiavi non si rivoltarono, ma il loro lavoro, anche nelle attività di genio militare, permise a un gran numero di bianchi di arruolarsi senza che le attività economiche essenziali ne soffrissero. Il settentrione non disponeva di tale enorme risorsa, per cui gran parte del lavoro nella produzione fu assunto sempre più da mano d’opera femminile, anticipando anche in questo di mezzo secolo analoghi fenomeni verificatisi poi nelle guerre mondiali.

Ma la vera debolezza del Sud non stava nell’inferiorità del potenziale umano; infatti la superiorità numerica degli eserciti del Nord, che ci fu, non fu mai schiacciante. Essa stava nella esiguità dell’apparato produttivo industriale e del sistema ferroviario. La produzione industriale del Nord (tessile, metallurgica, siderurgica, ecc.), con dieci volte più operai, era undici volte quella del Sud; per non parlare dei depositi bancari e delle riserve auree. I capitali del Sud erano nella gran parte investiti in schiavi, e non mobilitabili quindi che per lavoro. Le ferrovie al Nord erano tre volte più sviluppate. Un punto ancora più dolente riguardava il fronte marittimo: il naviglio mercantile del Sud era irrisorio rispetto alla grande flotta del New England, che forniva anche di marinai la marina militare; la quale quindi era pressoché inesistente al Sud allo scoppio della guerra.

Riguardo alle risorse del settore primario, quello era evidentemente il punto for-te del Sud, che però produceva soprattutto per l’esportazione tabacco, cotone, zucchero, riso. In teoria tali esportazioni avrebbero consentito di acquistare tutti i prodotti industriali che al Sud mancavano, ma con il non piccolo problema del blocco navale nordista. Il Nord, d’altra parte, con la produzione abbondante di mais e frumento, e di carne, non avrebbe mai avuto seri problemi di rifornimenti alimentari.

Di fronte a questi dati, riesce difficile capire il perché della durata e dell’asprezza del conflitto. Le ragioni sono numerose e di diversa natura.

In primo luogo, i due campi entrarono in guerra senza alcuna preparazione: l’esercito regolare degli Stati Uniti assommava a 16.000 uomini, e restò completamente disorganizzato dalle scelte di campo dei suoi componenti, soprattutto degli ufficiali. É vero che ogni Stato aveva delle milizie, ma queste non servivano a molto di più che a parate e come scuse per grandi mangiate e bevute. Si dovette quindi improvvisare tutto, truppa e armamenti; in questo il Sud fu più rapido ed efficace che il Nord.

Non c’è completo accordo tra gli storici sul numero reale dei soldati schierati dalle due parti nel corso della guerra, ma i dati che seguono sembrano essere abbastanza vicini alla realtà:
 

                Nord     Sud
1861, Luglio 186.000 150.000
1862, Giugno 918.000 690.000
1865, Marzo  990.000 175.000


Secondo queste cifre la superiorità numerica del Nord fu, inizialmente, piuttosto scarsa, ed era più che controbilanciata da altri fattori. Prima di tutto il fatto di combattere il Sud una guerra difensiva, con linee di collegamento più corte e la possibilità di spostare le forze per linee interne; la migliore conoscenza del terreno; il fatto che il sudista, che viveva in campagna, poteva improvvisarsi meglio soldato che non l’operaio, che non sapeva sparare né cavalcare (in questo senso il Nord si avvantaggiò di un gran numero di immigrati europei, soprattutto tedeschi, reduci delle rivoluzioni del ‘48-49). Inoltre i sudisti furono inizialmente meglio comandati, grazie alla tradizione militare più radicata nel Sud, e trovarono ottimi condottieri sin dall’inizio (Lee, Johnston, Jackson, Forrest, ecc.); il Nord invece dovette provare e scartare molti comandanti in capo prima di trovare la squadra vincente in Grant, Sherman e Sheridan.

Anche il blocco, che sarebbe stato una carta vincente, tardò a far sentire i suoi effetti. Dalle 6.000 navi transitate dai porti del Sud nel 1860, si passò a 800 l’anno seguente. I sudisti ebbero il tempo di convertire l’agricoltura a colture alimentari essenziali, e l’industria a fini bellici. Nell’insieme, se la popolazione civile soffrì delle conseguenze della guerra assai più crudelmente a Sud che a Nord, i soldati sudisti raramente si trovarono a scarseggiare di armi ed equipaggiamento essenziale. L’armamento delle fanterie si equivaleva, e il Nord ebbe un significativo vantaggio solo per l’artiglieria.

Tutto considerato, quindi, pur se per Marx l’esito della guerra era scontato (ma non per tutti i contemporanei), la sua durata è comprensibile.
 

La guerra totale

La guerra civile americana si distacca da tutte quelle che l’hanno preceduta per diverse caratteristiche peculiari, che ne fanno una antesignana dei conflitti militari dei decenni successivi.

Le stesse dimensioni del conflitto furono eccezionali: un teatro di operazioni sterminato, milioni di militari impiegati, il gran numero di morti (600-700 mila) e feriti (un mezzo milione), quattro anni di guerra ininterrotta ne fanno la prima grande guerra.

Fu una guerra combattuta e vinta in primo luogo dalle fanterie; ma a differenza delle precedenti, ci si trovò di fronte a delle innovazioni importanti: la principale fu quella dei fucili, adesso a canna rigata, e quindi più precisi e di maggiore portata. Se in passato i vecchi moschetti a canna liscia avevano consentito coraggiosi assalti a viso aperto e scontri corpo a corpo alla baionetta, fucili come la carabina Springfield erano in grado, viceversa, di fermare l’avanzata di interi battaglioni da una distanza considerevole. Tuttavia, nonostante soltanto in rarissimi casi gli assalti frontali si dimostrassero efficaci, nel corso della guerra gli strateghi militari continuarono a lanciare gli uomini in ondate successive contro le roccheforti nemiche. Mentre prima si trattava di percorrere sotto il tiro nemico, peraltro impreciso, un centinaio di metri, prima dell’impatto, ora spesso ci si trovava a percorrere un chilometro e più sotto un fuoco che falciava gli uomini a centinaia; le perdite erano altissime, fino al 25-35% delle forze impiegate, cifre inaudite fino ad allora. Oramai le posizioni nemiche dovevano essere spazzate via dall’artiglieria prima dell’attacco, o l’impresa si dimostrava impossibile. Il primo risultato di questa rivoluzione tattica fu il prevalere della difesa sull’attacco, e la nascita della trincea. I generali americani non afferrarono bene il significato di questa rivoluzione tattica, ma d’altronde ancora 50 anni dopo essa dovette essere appresa nello stesso modo sanguinoso nel corso della “Grande Guerra”, e ancora nel 1940 c’era ancora chi farneticava di “milioni di baionette”.

Una importante conseguenza dell’introduzione dei nuovi fucili fu anche la difficoltà ad usare sul campo di battaglia l’artiglieria, in quanto i serventi ai pezzi erano facile bersaglio dei fucili, mentre se i cannoni a canna liscia si allontanavano perdevano di efficacia. D’altronde quelli a canna rigata non erano adatto all’impiego tattico per il calibro ridotto a parità di peso, e quindi l’inefficacia per il tiro a mitraglia (tra l’altro proprio in questo conflitto fu introdotta la mitragliatrice). Ma i cannoni a canna rigata guadagnavano in gittata e precisione, e anche qui il loro uso fu rivoluzionato: invece di essere spostati di continuo sul campo di battaglia, vennero usati per battere da lontano le postazioni nemiche, concentrando il tiro di più batterie anche molto lontane tra loro. In questo modo, tra l’altro, si aveva il vantaggio che tutte le bocche di fuoco potevano utilmente sparare contemporaneamente, invece di quelle che sole erano a contatto con il nemico.

Un’altra novità della guerra, dovuta anche alle sue dimensioni, erano gli accresciuti bisogni logistici degli eserciti, per cui per la prima volta nella storia moderna assumeva importanza strategica la distruzione sistematica delle risorse economiche e produttive del nemico. Da qui al terrore tout court, per impedire l’insorgere di una guerra partigiana (che ci fu), o ostacolarne lo svolgimento, il passo fu breve. L’accettazione di una simile politica di annientamento avvenne quasi per una necessità intrinseca, fatale, contro le stesse intenzioni dei politici e dei generali. Al terzo giorno della guerra il presidente Lincoln aveva assicurato gli Stati del Sud, di certo con sincerità, che «si avrà ogni cura (...) di evitare qualsiasi devastazione, qualsiasi interferenza riguardo alla proprietà privata, nonché qualsiasi disturbo ai cittadini pacifici ovunque nel paese». Il generale McClellan, succeduto a Scott, fece le sue scuse ad un gentiluomo della Virginia per dei danni da questo subiti, dicendo «Non vengo qui per muovere guerra contro gli indifesi, i non-combattenti, la proprietà privata, né contro le istituzioni domestiche del paese»; cioè, non intendeva liberare gli schiavi, un incubo per i sudisti che ancora ricordavano la rivolta dello schiavo Nat Turner di trent’anni prima.

Ma quando Ulysses S. Grant assunse il comando delle forze federali, nel febbraio 1864, capì la necessità di distruggere le risorse economiche e le capacità produttive del Sud. Tipica la consegna data al generale Sherman: «Dovete rimanere a Jackson (Mississippi) il tempo necessario per distruggerla come centro ferroviario e come città manifatturiera produttrice di rifornimenti militari». E al generale Sheridan: «Se la guerra deve durare ancora un altro anno, vogliamo che la valle dello Shenandoah diventi una terra desolata e sterile». E non ebbe di che lamentarsi. Nell’ottobre del 1864 Sheridan informò Grant di aver distrutto nella Valle dello Shenandoah oltre 2.000 cascine colme di grano, avena e attrezzi agricoli, 79 mulini pieni di farina, 4.000 capi di bestiame bovino e 3.000 pecore.

Un altro settore rivoluzionato della tecnica militare, oltre al genio che assunse un’importanza sconosciuta in precedenza, fu la cavalleria. Anch’essa fu ridimensionata dall’avvento del fucile rigato, che ne rese impossibili le irresistibili cariche, divenute resistibilissime. Qui l’adeguamento fu rapido: bandite le cariche, ormai suicide, fu utilizzata tatticamente per proteggere le marce e per stendere un velo impenetrabile agli esploratori nemici durante gli spostamenti delle armate; per l’esplorazione vicina e lontana; per colpire con audacia le retrovie del nemico, anche a grande distanza, su obbiettivi logistici vitali. Divenne una truppa trasportata, capace di spostarsi con sorprendente celerità e di combattere a cavallo e a piedi. Unità di impiego quindi modernissimo, che i sudisti seppero inizialmente utilizzare al massimo.

Infine, una grande innovazione venne dal mare, ove furono schierate le nuove navi corazzate, impenetrabili ai colpi dei cannoni allora disponibili, che iniziavano una nuova èra anche per la guerra sul mare.

«Da qualunque punto di vista la si consideri, la guerra civile americana presenta uno spettacolo senza confronti negli annali della storia militare. L’immensa ampiezza del territorio conteso, la vasta estensione del fronte e delle linee di operazione; la consistenza numerica degli eserciti nemici, la cui organizzazione trovava ben poco sostegno in una precedente struttura organizzativa; il costo favoloso di questi eserciti; il modo di guidarli e i principi tattici e strategici generali secondo i quali viene fatta la guerra, sono tutti elementi nuovi agli occhi dello spettatore europeo». Così Marx esordiva in un famoso articolo del 21 marzo 1862 sulla guerra civile americana. In realtà, anche da un punto di vista strategico vi erano alcune caratteristiche evidenti e peculiari della guerra che vale la pena di esaminare brevemente per comprenderne l’andamento.

Il Sud, pur se aggressore, svanito il vantaggio della sorpresa, doveva giocoforza adottare una strategia difensiva, anche se puntate offensive non venivano escluse per portare la guerra sul territorio nemico, sia per ragioni tattiche sia per influenzare il morale delle retrovie. Le speranze del Sud risiedevano nel resistere abbastanza a lungo perché si verificassero delle contingenze favorevoli: la prima era un intervento delle potenze europee, diplomatico o armato, a favore del Sud (inizialmente si credeva che l’economia inglese non avrebbe potuto resistere alla mancanza del cotone americano); la seconda era uno scoraggiamento dell’opinione pubblica del Nord, percorsa da molte anime non tutte favorevoli alla guerra, nei confronti di una guerra di logoramento, fatta di molti sacrifici e di molti morti.

Il Nord invece non aveva altra scelta che una guerra offensiva. Infatti l’obbiettivo politico del governo di Washington era la restaurazione dell’Unione: gli Stati secessionisti erano considerati ribelli e il governo confederato addirittura inesistente. Disperdere e distruggere le forze armate dei secessionisti, abbattere la volontà di ribellione e di resistenza dei meridionali: questa era, e non poteva essere altrimenti, la strategia generale dell’Unione. Nessuna mediazione o concessione era possibile, e anche per questo la guerra fu “senza confronti”. Il Nord era conscio della sua terribile forza, che traspare dall’atteggiamento dello stesso Lincoln: la tremenda sicurezza con cui veniva intimata al Sud la resa a discrezione provava che non si aveva alcun timore del confronto armato, ché anzi lo si cercava.

Consapevole della sua formidabile potenza, giovane, conquistatrice, la nuova borghesia “nazionale” non avrebbe certo tollerato ostacoli dinanzi a sé.

I prìncipi assoluti del XVIII secolo si erano dovuti accontentare della guerra a obbiettivi limitati; in parte per saggezza (perché porre in discussione l’intero sistema del quale facevano parte?), in parte per necessità (i soldati di mestiere erano costosi, difficilmente rimpiazzabili da combattenti altrettanto validi; le manifatture dell’epoca non consentivano né di armare né di equipaggiare né di nutrire un esercito di massa, ammesso che fosse stato possibile chiamarlo alla leva), essi avevano sempre evitato la guerra totale, anche per ragioni di stabilità interna.

Ma per il borghese mondo democratico le cose erano assai diverse. Qui la “nazione” era dichiarata patrimonio comune: ed a chi mai, se non ai cittadini, poteva spettare il dovere sacro di prendere le armi per difenderla? Su tali principi si era basata la “leva in massa” della Rivoluzione francese; su questi stessi principi si sarebbe basata la coscrizione, ben presto introdotta in America dai sudisti dopo lo scoppio delle ostilità.

Diverso fu il caso del Nord. I governi statali presto si resero conto che il cittadino ordinario, pronto a sorgere in armi se si fosse verificato il caso di un Hannibal ad portas (il che bene o male era il caso del Sud), era invece restio a battersi per altri scopi. Così presto i governi “nazionali”, pur disponendo in teoria di un potenziale umano illimitato, scoprirono che non potevano mobilitarlo senza ricorrere ad una nuova, potentissima arma: la propaganda di guerra, un’arma che nel secolo seguente è stata messa a punto ed estesa anche al tempo di pace, come preparazione della guerra. Toccava a quest’ultima descrivere il nemico come minaccioso, crudele, abietto, degno solo di essere spazzato via alla svelta; solo così, contro “l’odiato nemico” si poteva far marciare l’esercito di cittadini. La guerra di propaganda avrebbe indotto nei soldati e nei cittadini la determinazione di non arrestarsi fino alla totale distruzione del nemico.

Il compito del Nord era immane, anche perché la superiorità numerica non fu quasi mai schiacciante, se non nelle ultime fasi della guerra, quando la sorte del Sud era ormai segnata. Il rapporto oscillava, nei casi migliori, tra 1,5 e 1,75 a 1, mentre Clausewitz prevedeva almeno il 2/1 o più per la certezza della vittoria. Se si aggiunge che il Nord non aveva il suo Napoleone, e che il Sud godeva dei vantaggi della guerra difensiva, si vede che le sorti della guerra non erano in fondo per niente scontate. A favore del Nord erano le comunicazioni ottime, sia fluviali sia ferroviarie, che consentivano di stabilire linee di comunicazione molto lunghe tra fronte e retrovie, senza le quali l’impresa, almeno sui teatri dell’Ovest, sarebbe stata impossibile.

Il fronte della guerra era sterminato, oltre 3.500 chilometri in linea d’aria, per capirci 500 in più di quello tedesco in Russia nel 1942, dalla Finlandia a Stalingrado. In realtà si trattava di un fronte composito, costituito, partendo da Est, di diversi teatri di guerra: la Virginia nord-orientale, sede degli scontri più sanguinosi e frequenti, nel territorio relativamente ristretto posto tra le due capitali Washington e Richmond, comprendente anche la valle dello Shenandoah; l’aspra zona centrale a cavallo di Kentucky e Tennessee orientali; il corso del Mississippi; e il settore più vasto, a Ovest del grande fiume, di importanza minore e nel quale gli scontri furono tra formazioni ridotte per le scarse risorse del territorio. Vi era inoltre un altro fronte, che si dimostrò presto fondamentale per creare le basi della vittoria finale, quello marittimo.
 

(Fine al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 


L’Antimilitarismo
nel movimento operaio in Italia

Rapporto esposto alle riunioni a Firenze del gennaio e a Genova del maggio 2004
 

(Continua dal numero 54)
 
 

Errata tesi del militarismo residuo pre-democratico

Le sanguinose repressioni del movimento operaio e le leggi liberticide di Crispi (nel quadro dei provvedimenti antianarchici il Partito Socialista era stato sciolto, e rimase fuori legge fino al 1896) avevano sortito l’effetto di ridurre i dirigenti socialisti a più miti consigli. A chi gli rinfacciava di avere rinunciato alla sua originaria intransigenza Turati rispondeva: «Oggi ci troviamo a tali ferri nei quali la riconquista di un minimo di libertà è divenuta per noi il problema dei problemi. Lottare per questa libertà, con tutti i mezzi a ciò acconci, è il nostro vero programma minimo, poiché ci riuscirebbe impossibile formularne qualunque altro che non avesse sapore accademico» (Critica sociale, 16 marzo 1895). Siamo di fronte al vecchio, e sempre vivo, dannato problema della ricerca di uno spazio di azione all’interno della legalità borghese: l’origine di ogni degenerazione. Per trovare uno spazio è necessario individuare forze esterne che abbiano interessi comuni e bloccare con esse, anche se per obiettivi limitati e temporanei.

L’occasione venne data, ancora una volta, dalla guerra d’Africa e dalla richiesta governativa di crediti straordinari per vendicare la sconfitta di Amba Alagi dell’8 dicembre 1895. «A chi giova l’impresa coloniale? – si chiedeva Turati – Chi sostiene l’iniziativa? Chi ne trae vantaggio? Chi si ingrassa? (...) Tolti fuori i fornitori di arredamenti militari e di granaglie guaste all’esercito, e le imprese di navigazione delle quali i ministri di Stato son quasi sempre gli avvocati e gli agenti, non vediamo che interesse abbia la borghesia industriale a un affare che si risolve in un perpetuo rincrudimento di gravezze fiscali». La guerra con i suoi gravami fiscali e la sottrazioni di uomini all’utilizzo industriale avrebbe comportato un danno «per le poche industrie promettenti che si vedono ferite già in cuna e rischiano davvero di tirare le cuoia». Per Turati nemmeno il capitale finanziario avrebbe tratto «beneficio da un’avventura che ci discredita» e che costringe «la rendita italiana a mantenersi sui mercati in un equilibrio instabile, meraviglia dell’acrobatismo economico». Allo stesso modo riteneva che alle guerre coloniali non avesse interesse nemmeno la borghesia agraria, alla quale il governo con i suoi sogni di gloria militare impediva il rinnovamento della conduzione dei fondi. Fautrice della guerra sarebbe stata solo «la banda degli africanisti e dei militaristi» (Critica sociale, 16 gennaio 1896).

Tuttavia il riformista Turati nello stesso articolo non esitava a fare delle affermazioni quasi disfattiste: «Ci sembra che il meglio, per noi e per tutti, è che le nostre armi e la nostra bandiera siano battute così solennemente da togliere ai manigoldi, che ci guidano in quelle forre maledette, non tanto la velleità, ma la possibilità morale di ricominciare ancora».

Da queste analisi prende vita la strategia riformista. Individuato il blocco reazionario che frena lo sviluppo della Nazione, di conseguenza vengono individuate quelle forze sociali che di questo blocco reazionario fanno le spese: innanzi tutto il proletariato, ma anche la borghesia industriale e finanziaria. Stringere una temporanea alleanza con la borghesia progressista contro il blocco reazionario di Crispi, secondo la politica riformista, diveniva problema di primaria importanza e l’antimilitarismo del PSI non si presenterà più in chiave antiborghese, non come uno dei tanti aspetti della incessante lotta di classe, ma come terreno di incontro e di collaborazione fra movimento operaio e borghesia progressista.

Il 1° marzo 1896 il generale Baratieri attaccava, nei pressi di Adua, le truppe di Menelik, riportando il più grande rovescio che una potenza europea avesse fino ad allora subito in una impresa coloniale: su un corpo di spedizione di 16.000 uomini le perdite italiane arrivarono a quasi 7.000 morti e circa 2.000 furono i prigionieri.

Alla richiesta dei crediti straordinari di guerra fu ancora Andrea Costa che, dai banchi del parlamento, con un discorso coerente e corretto, e con tutto l’ardore del vecchio rivoluzionario, gridava: «Voi li approvate i crediti dell’Africa. Sfido io! Non li pagate voi, li pagano quei poveri diavoli che vivono nei campi, nelle officine e nelle miniere, per mantenere voi e il bello italo regno, per soddisfare la vanità senile non solo di un uomo, ma di una classe, che avendo già compiuto il suo ufficio storico, non ha più alcuna ragione di essere. Noi, interpreti delle grida che si levano dalle officine, che si levano dai campi contro questa disastrosa tendenza (...) non siamo disposti a darvi né un uomo né un soldo».

E la disfatta di Adua fu il segnale di una vera e propria rivolta popolare da un capo all’altro d’Italia. Al grido di “Viva Menelik” e “Abbasso Crispi” il presidente del consiglio veniva bruciato in effige nelle pubbliche piazze; scontri con le forze dell’ordine si susseguivano ovunque mentre i prefetti non trovavano niente di meglio da fare che barricarsi all’interno dei loro palazzi presi d’assalto dalla folla. Ma soprattutto si verificavano veri e propri ammutinamenti militari ed i soldati che erano in procinto di essere inviati nella colonia disertavano in massa. L’episodio più clamoroso accadde a Pavia: la popolazione per impedire la partenza dei soldati per l’Africa divelse i binari della ferrovia e ricondusse in quartiere sia i militari già instradati, sia il battaglione inviato a domare la rivolta.

Ma lasciamo la parola a Filippo Turati. «Non è chi (...) non abbia sentito, per una buona settimana, un vento schietto di rivoluzione soffiare sul paese. Basterebbero gli ammutinamenti nelle caserme, non osati punire in quei giorni, e le diserzioni a drappelli dei nuovi chiamati, e le proteste nei municipi, e le grandi manifestazioni del popolo fraternizzante coi militi e questi con lui; basterebbero questi fatti a dire sulla polarizzazione degli animi, assai più che non possa qualsiasi formula astratta (...) A Milano, la città cui son volti tutti gli sguardi, da quaranta a sessantamila persone, d’ogni età, d’ogni sesso, si riversano, senza intese, nelle vie, si addensano al centro, unite da un solo grido, da un solo entusiasmo, cui non manca se non chi sappia imprimergli direzione rapida e precisa per vedere instaurato nel Comune – fra l’impotenza assoluta a reagire delle autorità – un governo provvisorio locale e repubblicano» (Critica Sociale, 16 marzo 1896).

Il secolo XIX volgeva al termine con la feroce repressione di Bava Beccaris ed il riconoscimento di Umberto I che motu proprio gli conferiva la «Croce di Grand’ufficiale dell’ordine militare di Savoia per rimeritare il servizio reso alle istituzioni e alla civiltà».

Nicola Badaloni, alla Camera, paragonando la repressione del ‘98 a quelle crispine del ‘94, poteva affermare: «Allora noi accusammo Francesco Crispi di aver violato la Costituzione sostituendo la violenza alla legge, la dittatura militare alla giustizia. Ma oggi lo stato d’assedio non è solo in quelle province dove avvennero le sommosse e dove fu proclamata la dittatura militare, bensì in tutto il regno, anche là dove nessun disordine avvenne, e dove l’autorità politica, cogli arresti domiciliari, con le perquisizioni senza mandato, con le soppressioni dei giornali, con gli scioglimenti di circoli e di associazioni fatti in massa, ha assunto poteri dittatoriali, mettendosi al di fuori e al disopra delle leggi, poggiandosi sulla forza dell’esercito» (17 giugno 1898).

Di fronte a quello che venne ritenuto un pericolo reazionario, costituito da una camarilla militare, il Partito Socialista si propose come difensore dei valori della civiltà e «si sostituisce alla borghesia nel difendere le conquiste del liberalismo borghese» (Avanti!, 17 maggio 1898), aggregando in un programma antireazionario tutte le forze borghesi disponibili, dai repubblicani fino a Giolitti, «uomini per i quali non è grande la nostra fiducia, ma ai quali non possiamo che augurare il trionfo quando si accordano con l’Estrema Sinistra per rovesciare un ministero che reca nel suo programma le più grandi sciagure per la patria e i colpi ultimi della libertà» (Treves in Critica Sociale, 27 maggio 1899).

La tesi riformista era che in determinati casi il partito proletario dovesse difendere la libertà, lo Statuto, la Costituzione, perché la violazione degli istituti fondamentali faceva comodo alla classe nemica. La tesi nostra è opposta: è possibile che la borghesia e il suo Stato prendano l’offensiva, e la storia ce ne dà esempi continui, ma la risposta della classe lavoratrice non si può ridurre a una difesa dietro baluardi che sono quelli stessi della conservazione delle forme borghesi: democrazia e pacifismo.

Il fatto è che non era facile opporsi, anche da un punto di vista teorico, a dei rappresentanti riformisti i quali, pur essendo deputati, più che dal parlamento venivano dalle piazze, dove avevano lottato assieme agli operai, e dalle carceri borghesi. Tanto per fare un esempio, Turati e De Andreis per i moti del 1898 erano stati condannati a 12 anni di reclusione ciascuno.

Il programma riformista non tardò a raggiungere il suo scopo, infatti il 14 febbraio 1901, con la formazione del gabinetto Zanardelli-Giolitti, fu inaugurata l’èra giolittiana.

Nello stesso periodo Critica Sociale nei numeri 1, 3, 4, 9, 10 pubblicava una serie di articoli sulle spese militari dal 1882 al 1899. La serie di scritti dal titolo Quel che ci costano in realtà l’Esercito e l’Armata era firmata “Sylva Viviani”, pseudonimo dietro il quale si celava Giovanni Martini, ex ufficiale superiore in ritiro convertitosi all’antimilitarismo socialista e, in seguito, anarco-sindacalista. Per il periodo considerato il Viviani calcolava una spesa media annua di circa 390 milioni, pari a quasi il 30% delle entrate effettive nazionali; se a queste spese si aggiungevano le pensioni militari si arrivava a 420 milioni «Più assai del quarto di tutte le entrate effettive annue avutesi in media in quel medesimo tempo». Al contrario le spese destinate a scopi civili «diretti all’incremento economico e morale del paese» arrivano appena ai 358 milioni superando «appena il 21% delle entrate, e tutte insieme rappresentano poco più di sette decimi dei dispendi militari». Il caso Italia veniva messo a confronto con le altre nazioni europee: l’Inghilterra che aumentava le spese civili del 14,02%, la Francia del 10,31%, la Germania dell’8,24%, mentre in Italia diminuivano del 7,55%. «Mentre all’estero si è provveduto ad accrescere le spese per i servizi civili, in Italia, al contrario, non si è curato che l’incremento delle spese militari (...) per cui i servizi civili, rimasti pressoché immobili, hanno dovuto acconciarsi ad una percentuale più bassa».

La politica militare dei governi democratico-progressisti, malgrado l’appoggio del Partito Socialista, non si discostò affatto da quella dei vecchi governi reazionari, e Giolitti riprese pari pari il programma Pelloux varando il consolidamento quinquennale dei bilanci dell’Esercito e della Marina. Nei confronti del democratico Giolitti il Partito Socialista moderava i suoi toni e conduceva un’opposizione parlamentare puramente di routine poiché «se si venisse a un voto, noi avremmo votato pel Ministero, bisognava che i discorsi fossero intonati allo stesso modo» (Lettera di Turati alla Kuliscioff, 7 marzo 1901). Poteva ben esser fiero l’Avanti! nello scrivere che «se non ci fosse stato al potere un ministero democratico i progetti di aumento delle spese militari non avevano probabilità di passare».

«Il gruppo parlamentare socialista – commenterà Arturo Labriola – fece una opposizione accademica e senza convinzione: il poco di libertà che i proletari cominciavano a godere era pagato con nuovi salassi a beneficio dell’esercito» (Arturo Labriola, Storia di Dieci Anni). Il Partito Socialista aveva acconsentito alla sua collaborazione in cambio della promessa da parte del nuovo governo di “limitare” l’uso delle armi nel mantenimento dell’ordine pubblico.

Condizione indispensabile per essere antimilitaristi è quella di essere antipatriottici ed il Partito Socialista, almeno nei suoi massimi dirigenti, non lo era: «Noi lavoriamo internazionalmente a sopprimere le cause della guerra – affermava Bissolati in Parlamento – ma non abbiamo mai chiuso gli occhi dinanzi al fatto che ancora in questo momento storico spesso i popoli hanno bisogno di por mano alle armi per difendere la loro indipendenza e per respingere sopraffazioni straniere» (25 febbraio 1904). Podrecca: «Io credo che la negazione della patria non sia che una degenerazione del nostro programma massimo», e Turati: «L’esercito è strumento di classe, lo è stato negli scioperi, lo sarà domani, finché non avremo trasformata la società; ma qualunque azione contro di esso sarà dunque legittima? Arriviamo ad Hervé? Vogliamo indebolire la difesa della patria?» (Intervento al IX Congresso del PSI, Roma 1906).

Questi non sono che alcuni esempi tra i tanti che potremmo citare, ma che dimostrano perché dalla campagna condotta contro le spese militari, poco a poco, si passò a quella contro gli sperperi e la cattiva gestione delle risorse. «Le nostre spese militari non sono in proporzione con quello che l’Esercito e la Marina ci garantiscono (...) e poiché siamo nemici dichiarati di ogni disorganizzazione, di ogni parassitismo (...) combattiamo per ordinamenti che bastino alla difesa della patria senza essere una minaccia e un pericolo al suo sviluppo economico» (Intervento di Bissolati alla Camera, 7 giugno 1902).

In questo spirito di lotta al parassitismo ed alla corruzione l’Avanti!, nel 1903, attraverso la pubblicazione di numerosi articoli, denunciava un sistema di corruzione e di imbrogli, con un giro di svariate decine di milioni, che avrebbe coinvolto lo Stato Maggiore della Marina e le Acciaierie Terni, il tutto accuratamente coperto dal Ministero della Guerra. Per far luce sul caso i socialisti richiesero un’inchiesta parlamentare. Il 10 giugno 1903 la Camera respinse la richiesta con 149 voti contro 118, ma, ripresentata nel febbraio 1904, inspiegabilmente, passò a larga maggioranza. Ed il perché è facile capirlo! La commissione, svolta l’inchiesta e conclusi i lavori, propose... ulteriori considerevoli stanziamenti di finanziamento per le spese militari. Il ministro della marina, Mirabello, chiese ed ottenne 165 milioni di finanziamento straordinario: risolta un’altra questione morale! Visto che le commissioni di inchiesta funzionavano, Giolitti non aspettò che fosse l’opposizione a chiederne un’altra, ma fu lui stesso ad istituirla, nel 1907. Il governo, ancora una volta, «utilizzando i risultati dell’inchiesta, rivendica la concessione di 223 milioni di spese straordinarie in quattro anni nel 1908, di 125 milioni in sei anni nel 1909 e di circa 150 milioni negli anni successivi» (Gianni Oliva, Esercito, Paese e Movimento Operaio). A Turati non resta che l’amara confessione della sconfitta: «Noi riformisti, che tentammo piegare la rude formula marxista agli accomodamenti progressivi, nell’interesse delle due classi in contrasto: noi ci domandiamo ormai che cosa siamo a fare qui» (Intervento alla Camera del 12 giugno 1909).

Il riconoscimento della patria non può prescindere da un esercito che ne difenda l’indipendenza, al quale non si possono negare i dovuti finanziamenti. D’altra parte, chi accetta la difesa della patria dal pericolo esterno non può prescindere dalla sua difesa contro il pericolo interno. Ciò è quanto aveva paventato Bissolati nel 1895: «Quando si sono cominciati a profondere milioni per la guerra contro gli abissini d’Africa, come lesinarli allorché si tratta di conservare l’esercito in grado di funzionare nel miglior modo possibile contro gli abissini d’Italia?» (Critica Sociale, 16 dicembre 1895).

Ma se Bissolati paventava ciò come un pericolo, dieci anni dopo, Turati lo riconosceva ormai come fatto naturale: «Onestamente riconosciamo che, fino a che ci sarà un governo borghese ed un esercito, sarà inevitabile che questo venga adoperato a fini di polizia interna» (Intervento al IX Congresso del PSI, Roma 1906). Ma, spiegava Turati, ci sono due modi di compiere lo stesso ufficio: «Chi risponde alla protesta dei lavoratori col fuoco delle armi», oppure, come succede al Nord «dove gli agenti del governo, dal prefetto all’ultimo appuntato, seppero usare tatto e tolleranza, seppero essere cittadini fra i cittadini, s’intromisero consiglieri, qualche volta arbitri, non vollero apparire né aguzzini né carnefici» (Intervento alla Camera del 31 marzo 1903).

In merito alla promessa giolittiana di limitare l’uso delle armi nel mantenimento dell’ordine pubblico riportiamo ancora una pagina di Liebknecht: «In due istruttivi articoli Ottavio Dinale ha riferito sui massacri di lavoratori per quanto riguarda l’Italia. In essi egli non tocca solo le vere stragi accadute in occasione di scioperi, ma anche quelle promosse all’infuori di scioperi in occasione di dimostrazioni di lavoratori avvenute nel corso di lotte economiche. Gli articoli fanno vedere in modo tangibile con quanta rapidità in Italia in queste occasioni l’esercito sia pronto ad intervenire, come si lancino attacchi militari contro le masse inermi al minimo pretesto e con quale sconfinata durezza, come si continui a sparare e si sia soliti dar di sciabola anche contro folle disperse in fuga. In sintesi mostrano come in Italia ogni anno, cinque, sei, o anche dieci volte le “pallottole del re” strazino ossa di lavoratori italiani. Mostrano che la borghesia italiana, autrice di questi massacri, è tra le più chiuse e arretrate del mondo, che ai suoi occhi il socialismo non è una concezione politica, ma solo una variante di tendenze criminose, di criminalità, e tra di esse quella più perniciosa per l’ordine pubblico. L’autore cita le parole dettate dal giornale milanese “L’Idea Liberale” all’indomani del massacro di Grammichele: “Morti e feriti – questa gente ha avuto la sorte che si merita – la mitraglia, l’elemento più prezioso della civiltà e dell’ordine!”.

«Dopo simili prove non ci si può meravigliare che perfino un governo cosiddetto democratico come quello di Giolitti non abbia mai saputo chiamare a rispondere delle loro cruente barbarie i militari, ma anzi li abbia ufficialmente elogiati “per aver fatto il loro dovere”. E più naturale ancora è che fosse respinta la proposta del gruppo parlamentare socialista alla Camera di un regolamento che limitasse l’impiego dei soldati nei conflitti di lavoro.

«Le fucilate del maggio 1898 chiarirono per la prima volta lo stato della lotta di classe anche ai ciechi e ai miopi ottimisti: ecco un elenco approssimativamente completo degli eccidi degli ultimi anni:

                                     Morti  Feriti
Berra             27 giugno    1901     2     10
Patugnano          4 maggio    1902     1      7
Cassano            5 agosto    1902     1      3
Candela            8 settembre 1902     5     11
Giarratana        13 ottobre   1902     2     12
Galatina          20 aprile    1903     2      1
Piere             21 maggio    1903     3      1
Torre Annunziata  31 agosto    1903     7     10
Cerignola         17 maggio    1904     5    40
Buggera            4 settembre 1904     3     10
Castelluzzo       11 settembre 1904     1     12
Sestri Ponente    15 settembre 1904     2      2
Foggia            18 aprile    1905     7     20
S. Elpidio        15 maggio    1905     4      2
Grammichele       16 agosto    1905    18     20
Scarano           21 marzo     1906     1      9
Muro              23 marzo     1906     2      4
Torino             4 aprile    1906     1      6
Calimera          30 aprile    1906     2      3
Cagliari          12 maggio    1906     2      7
Nebida            21 maggio    1906     1      1
Sonneza           21 maggio    1906     6      6
Benventare        24 maggio    1906     2      2


«In totale: 23 massacri con 78 morti e 199 feriti! Un buon raccolto! E legione è in Italia il numero degli interventi di militari contro operai e contadini scioperanti o comunque manifestanti per ragioni economiche svoltisi senza spargimento di sangue: al di là delle Alpi queste “esercitazioni” dell’esercito fanno parte semplicemente del pane quotidiano. In questa sede si ricordi il fatto ovvio che, secondo quanto attesta Hervé, neppure in Spagna è possibile contare, al pari di quanto avviene in Italia, il numero degli eccidi nei confronti di operai e contadini scioperanti, in quella Spagna nella quale un tempo il sole non tramontava e nella quale oggi non vuole più sorgere» (C. Liebknecht, Militarismo e Antimilitarismo).

Anche il giornale antimilitarista La Pace, in un prospetto riassuntivo degli eccidi proletari, nello stesso periodo considerato da Liebknecht, riportava 22 interventi cruenti dell’esercito con 72 morti e 442 feriti.
 

L’antimilitarismo dei sindacalisti rivoluzionari

All’inizio del ‘900, grazie soprattutto ai sindacalisti rivoluzionari, si diffonde in Italia quella dottrina antimilitarista ed antipatriottica che in Francia veniva rappresentata da Gustave Hervé, che aveva sviluppato le sue teorie nell’opera dal titolo Leur Patrie, La Loro Patria. Punto di partenza della teoria Herveista era il rifiuto internazionale del concetto di patria, mistificazione delle classi dominanti per avallare lo sfruttamento «di uomini i cui antenati, per amore o per forza, furono indotti ad obbedire ad uno stesso sovrano (...) Il patriottismo serve perché il solo scopo confessato e confessabile dell’esercito è quello di difendere la patria contro lo straniero: ma una volta rivestito dalla livrea della patria, quando il lavorio della caserma ha soffocato interamente in lui l’intelligenza, la coscienza dei propri interessi, l’uomo del popolo non è più che un gendarme al servizio dei suoi sfruttatori contro i fratelli di miseria». Quindi il patriottismo «rappresenta il grande ostacolo alla diffusione del socialismo che è basato sul principio della lotta di classe».

Hervé insegnava che «la caserma è un ambiente favorevole alla propaganda antimilitarista. Bisogna che i militanti siano nelle file dell’esercito il giorno che scoppia uno sciopero per spiegare ai camerati la legittimità delle proteste operaie: per far loro sopportare pazientemente gli inoffensivi proiettili degli scioperanti eccitati dalle privazioni o provocati dal contegno dei padroni; per spingere i compagni esitanti ad alzare la canna in aria quando viene ordinato di sparare sulla folla inerme». La caserma avrebbe dovuto trasformarsi in un luogo di proselitismo socialista, quindi il rivoluzionario non è il renitente che rifiuta di indossare i panni del soldato ma «colui che entra nella caserma, con la ferma risoluzione di comportarsi da soldato del socialismo».

Come si vede queste posizioni erano molto simili alla risoluzione votata, su proposta di Costantino Lazzari, al congresso operaio di Milano nel 1891. In tale risoluzione si diceva che la classe operaia avrebbe dovuto «schierarsi contro il militarismo come un nemico del suo progresso e della sua emancipazione», perciò occorreva svolgere «una continua e attiva propaganda» contro i suoi «dannosi effetti (...) contro i sentimenti patriottici e nazionali che ne formano il pretesto» ed educare i proletari «ai sentimenti della fratellanza e della solidarietà, affinché sotto le armi i giovani possano resistere all’influenza demoralizzatrice dello spirito militare e non siano più ciechi strumenti della disciplina e della tirannia» (In: Giovanni Bacci, Socialismo e Antimilitarismo).

Questi sentimenti prendono campo e si diffondono sempre più ed all’interno del Partito Socialista conquistano sempre maggiormente i giovani, tanto che Turati, non proprio felice della cosa, è costretto a prendere atto che essi «ritengono come un fatto positivo ed attuale l’augurio lirico dell’Inno dei Lavoratori di quel disgraziato di Filippo Turati: “I confini scellerati cancelliam dagli emisferi!”» (Intervento al IX Congresso del PSI, Roma 1906).

Nell’agosto 1903, a Genova, nasce il periodico La Pace interamente dedicato ai problemi del militarismo. L’intenzione dichiarata del gruppo de La Pace è quella di reagire all’atteggiamento rinunciatario del Partito Socialista che non aveva mai avuto una chiara tattica antimilitarista e che si era limitato soltanto ad avversare le spese militari facendone una semplice questione di economia che lasciava intatto il principio stesso della guerra, contro il quale il gruppo genovese si prefiggeva di combattere. La Pace sul piano organizzativo si proponeva di divenire centro di coagulo dei «gruppi antimilitaristi già sorti in molte città» e di fungere da collegamento con le compagini antimilitariste operanti negli altri paesi, in particolar modo con la Voix du Peuple di Parigi. Dal punto di vista del programma si riprometteva di «combattere contro lo spirito di caserma e rompere l’opera ebetizzante e corrompitrice della vita militare». A tale scopo era prevista la pubblicazione e diffusione di opuscoli «da vendersi a mite prezzo a circoli, gruppi, rivenditori e da regalarsi ai soldati».

Il gruppo La Pace, pur aderendo per mezzo del suo promotore al Partito Socialista, da un punto di vista politico non è ben definibile: si pone senza dubbio sul terreno rivoluzionario anche se con caratterizzazioni spesso ambigue, socialisteggianti, anarchicheggianti, cristiane, ed altre ancora.

A questo proposito significativa è la scheda che la questura di Genova traccia sulla figura del promotore ed indiscusso leader del gruppo: «Bartalini Ezio di Vittorio e di Migliorini Ida: Ha grande trasporto per gli studi filosofici e soprattutto per le scienze sociali però in lui più che un culture delle dottrine marxiste si ha un seguace di E. Kant e di Erbert Spencer ed un lontano emulo di Leone Tolstoi. Infatti, come i precursori summenzionati, il Bartalini estrinseca tutta la sua attività di propagandista, mirando ad intaccare incessantemente l’istituzione dell’esercito, che egli ritiene dannosa al libero sviluppo delle energie della classe lavoratrice» (Prefettura di Genova, 1904).

Per quanto non ci sia da dubitare della buona fede e degli intenti rivoluzionari che animavano i promotori del gruppo La Pace, il fatto stesso che volutamente abbiano scelto di limitare la loro attività alla lotta contro il militarismo, che non è che uno degli aspetti della società divisa in classi e del dominio borghese, non poteva che portare a delle deviazioni teoriche macroscopiche. Accenneremo qui ad una delle tante che periodicamente riemergono e che dimostrano come tutte le deviazioni opportuniste, specialmente quando si presentano come scoperte dell’ultim’ora, abbiano una storia vecchia alle loro spalle.

Nella foga di dimostrare che la funzione degli eserciti fosse essenzialmente antiproletaria e repressiva si arrivava a sostenere che la guerra, tra le nazioni capitalistiche ed almeno all’interno della vecchia Europa, fosse solo un pretesto per la corsa verso il riarmo, mentre, invece, sia l’internazionalizzazione del capitale, sia la paura di essere «aggrediti alle spalle dal nemico interno, il proletariato» – che avrebbe colto «l’occasione d’un conflitto internazionale per alzare da una parte e dall’altra della frontiera la bandiera della rivolta» – avevano di fatto reso impossibile le guerre fra Stati capitalistici (Bartalini, L’Antimilitarismo, 1907). Nel suo testo il Bartalini riportava, tra le altre, la seguente citazione di Gugliemo Ferrero: «Nel presente, tra i popoli civili d’Europa, la guerra non ha più alcuna funzione da compiere e perciò va sparendo; anzi è già morta e sopravvive solo nella immaginazione degli uomini, troppo lenta a seguire i rapidi rivolgimenti delle cose». E, a dimostrazione dell’esattezza di questa teoria portava il seguente esempio: «Nello stato attuale delle industrie i capitali dei tedeschi hanno il loro impiego nelle industrie e nei servizi pubblici di Genova. Ebbene, non sarà mai possibile che un conservatore, un grasso borghese tedesco dia la sua approvazione perché l’armata tedesca venga a bombardare Genova: e ciò perché mentre bombarderebbero i porti, le chiese, ecc. danneggerebbero altresì le linee dei tram, l’illuminazione elettrica ed in genere tutte le maggiori industrie genovesi che sono impiantate ed esercitate con capitali tedeschi; quindi sarebbero i borghesi capitalisti i primi ad esporsi ad una guerra che danneggerebbe i propri interessi» (Riportato in: Ruggero Giacobini, Antimilitarismo e Pacifismo).

Il giornale La Pace dava largo spazio alla voce diretta dei militari che, in questa pubblicazione, trovavano la possibilità di esprimere i loro sentimenti, raccontare le esperienze, le angherie alle quali i coscritti rivoluzionari erano abitualmente sottoposti. La mole di corrispondenza inviata al giornale testimonia come questo riuscisse a penetrare all’interno delle caserme nonostante la stretta sorveglianza dell’esercito. Per quanto riguarda il lavoro di redazione vero e proprio il periodico si avvaleva del prezioso apporto di militari in congedo.

Il gruppo, malgrado l’intestazione La Pace, aveva sempre dichiarato apertamente il proprio “antimilitarismo di classe” che rappresentava la parte “più importante del programma del socialismo rivoluzionario”: la pace come conquista successiva alla conquista rivoluzionaria del potere da parte del proletariato. Pur guardando con rispetto le organizzazioni pacifiste borghesi, i cui dirigenti erano considerati delle oneste persone, il gruppo genovese metteva in guardia il proletariato perché non si lasciasse fuorviare dalle illusioni propagandate da quanti si limitavano a fare appello alla pax hominibus bonae voluntatis. La speranza (la vana illusione) era comunque quella che i pacifisti, muovendo da onestà di intenti e ponendo la causa della pace al primo posto, resisi conto che era impossibile raggiungere la meta prefissata per via legalitaria, si sarebbero convertiti all’antimilitarismo di classe.

«Il pericolo della guerra – scriveva il Bartalini, in contraddizione con la sua stessa citazione sopra riportata – non potrà scomparire completamente se non con l’avvento d’una società basata su principi d’uguaglianza; per lo sfacelo del mondo borghese non è sufficiente l’evoluzione, ma occorre la rivoluzione, che sarà se non altro provocata dalla reazione inevitabile della classe capitalista contro la classe lavoratrice, quando quest’ultima tenterà di prender possesso dei mezzi di produzione; il proletariato però non vincerà la rivoluzione o le rivoluzioni sociali, se non avrà i soldati dalla sua; i soldati sono i figli del popolo; niente di più logico perciò che di rivolgere ad essi la parola rivoluzionaria e indurli a non far mai uso delle armi contro i fratelli, che scendono in piazza, oggi, per affermare i loro diritti al miglioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita, che scenderanno in piazza domani per strappare alla classe dominante i mezzi di produzione e di scambio e metterli a servizio della collettività». A Bartalini non mancano delle intuizioni che discostano il suo gruppo dalla posizioni classiche dell’antimilitarismo italiano di ispirazione sindacalista rivoluzionaria ed anarchica: «È intenzione di fare opera penetrativa, non puerilmente distruttiva, dell’esercito: si pensa più a conquistare l’esercito alla causa rivoluzionaria che a distruggerlo colle diserzioni e le rivolte individuali» (L’Antimilitarismo).

Al gruppo, però, mancava totalmente la visione dell’indispensabile ruolo del partito come coscienza e come guida della classe. A causa di questa sua immaturità politica La Pace vide nell’impresa libica l’occasione propizia, il potente stimolo per affrettare quell’avvicinamento di tutte le forze sovversive, repubblicane, anarchiche e socialiste da tempo vagheggiato. Il fronte unico delle forze sovversive, che affondavano le proprie radici nel movimento operaio e democratico, era, per la rivista genovese, un passaggio obbligato.

Al contrario, la guerra libica rappresentò proprio lo sfacelo dell’antimilitarismo rivoluzionario; più che i socialisti riformisti e collaborazionisti furono i sindacalisti rivoluzionari ad aderire entusiasticamente alla guerra ed a fornire alla borghesia quella giustificazione teorica che essa non avrebbe potuto darle.

La guerra sarà accolta favorevolmente per i supposti esiti di pedagogia rivoluzionaria. Scriveva Arturo Labriola: «O miei compagni, sapete voi perché il proletariato d’Italia non è buono a fare una rivoluzione? Perché appunto esso non è nemmeno buono a fare una guerra. Lasciate che la borghesia lo abitui a battersi sul serio, e poi vedrete che imparerà a battere la stessa borghesia». La non partecipazione, al contrario, avrebbe sospinto il proletariato «verso la quiete operosa e mediocre, verso uno stato di ingloriosa pigrizia e di ben ripartita miseria». Così come la peggiore specie degli attuali democratici (specialmente quelli di sinistra) anche Arturo Labriola si preoccupava perché la guerra venisse condotta secondo le sacrosante regole della civiltà e cioè «senza offesa alla giustizia, menomazione degli indigeni, riprovevoli vantaggi privati e piraterie collettive». Il suo spirito umanitario arrivava al punto di condannare la “guerra repressiva” condotta a seguito delle insurrezioni delle popolazioni arabe.

Dal canto suo Paolo Orano dichiarava di attendersi dalla spedizione tripolina «il risanamento della borghesia italiana dal basso utilitarismo». Per Oliviero Olivetti la guerra rappresentava «una precipitazione del processo capitalistico, vale a dire una accelerazione della rivoluzione sociale», poiché «come fenomeno di forza, di audacia e di energia» avrebbe costituito la necessaria rottura della «stagnazione placida, la concezione idilliaca di una vita senza lotta, che era propria della piccola borghesia e del riformismo». Libero Tancredi, da parte sua, affermava: «Oggi la conquista e la guerra è rivoluzionariamente più feconda che la pace e la rinuncia».

Le citazioni sopra riportate sono tratte da: Pro e contro la guerra di Tripoli, Napoli 1912. Nella premessa del libro, che riportava gli interventi dei nomi più prestigiosi del sindacalismo rivoluzionario (Barni Giulio, Labriola Arturo, Polledro Alfredo, De Ambris Alceste, Olivetti Oliviero, Tancredi Libero), si legge: «La Guerra di Tripoli è e rimarrà importante nella storia d’Italia altrettanto per le sue conseguenze nella vita interna della nazione, che per quelle che è destinata, in un tempo più o meno lontano, ad avere nella cerchia delle relazioni internazionali. Essa ha rotto infatti la compagine dei partiti formatisi o avvaloratisi nell’ultimo decennio della vita pubblica italiana. Al di sopra di ogni speciale formazione politica ha diviso in due opposti campi la nazione intera. Niente dinanzi ad essa impresa è rimasto di fermo, di deciso, di incrollabile che più o meno direttamente si riattaccasse alla vita pubblica della nazione. È stata come un reagente che ha disciolto alleanze, ha distrutto opposizioni, ha recato in crisi tutto un mondo che s’era ormai abituato a vivere di una tranquilla, pacifica, monotona vita di placidi negozî e di miserelle contese, speranzoso ch’essa non avesse a finire mai. Laddove questo fenomeno s’è reso più evidente, laddove più importante e più serio è il significato del fenomeno stesso, si è fra i partiti e i gruppi politici sovversivi o rivoluzionari e in ispecie fra quelli che raccolgono sotto le loro insegne le forze del movimento operaio italiano. Ora è appunto fra codesti gruppi politici che nella vita più recente del movimento operaio s’è imposto per altezza di critica, per asprezza di lotte, per tutta una sua giovanile baldanza e vigoria, il gruppo dei sindacalisti italiani. E, come a un tempo per le sue migliori intelligenze ha applicato il ferro rovente della critica storica, economica e politica su tutto il complesso della vita nazionale e internazionale, mentre per i suoi uomini d’azione ha saputo suscitare traverso le masse operaie italiane impeti di entusiasmo sinceri e vasti e lotte che rimarranno memorabili; così la sua attività non è rimasta solo limita e negletta entro le particolari competizioni di classe, ma s’è allargata in più vasta cerchia ed ha occupato ed occupa degnamente di sé la vita pubblica dell’Italia intera».

Già da tempo tra nazionalismo e sindacalismo rivoluzionario vi erano stati vari segnali di convergenza e di reciproca valorizzazione. Del resto il nazionalismo italiano non aveva mai fatto mistero di guardare con un occhio particolare verso Sorel ed il suo insegnamento. Sopra ogni altro vi era Corradini che poneva in evidenza la comune origine di nazionalismo e sindacalismo rivoluzionario nel «bisogno di reazione contro l’imbecillità borghese e socialista del tempo nostro» (La Lupa, 16 agosto 1910). Per Oliviero Olivetti gli elementi comuni al nazionalismo ed al sindacalismo rivoluzionario erano: 1) essere «dottrine di energia e volontà, in contrapposizione alle dottrine, meglio alle pratiche di adattamento»; 2) «l’odio comune per le forme intermedie piatte e scialbe, flosce di borghesia e democrazia»; 3) «la tendenza aristocratica, in una società quattrinaia ed edonistica»; 4) «il culto dell’eroico» (Pro e contro la guerra di Tripoli).

E mentre Arturo Labriola definiva il sindacalismo rivoluzionario come “una forma di imperialismo operaio”, Giulio Barni auspicava la stretta collaborazione tra sindacalismo rivoluzionario e nazionalismo come «l’unica via di scampo per liberarsi dalla democrazia di corruttela, dalla massoneria, pacificatrice e monarchica, dal giolittismo lazzarone e incapace e da tutta questa stasi che ha irretito per così lungo tempo le forze rivoluzionarie antimonarchiche e la forza di classe di un proletariato forte come poche nazioni posseggono» (Pro e contro la guerra di Tripoli).

«La grande proletaria s’è mossa», cantava Giovanni Pascoli; «L’Italia, proletaria fra le nazioni», Corradini; «neonazionalismo proletario», Libero Tancredi; «Imperialismo operaio», Arturo Labriola. A quell’epoca Mussolini si trovava saldamente sul terreno rivoluzionario, ma quando passerà dall’altra parte della barricata la piattaforma “teorica” del fascismo gli era già stata da tempo preparata.
 

Il pacifismo borghese

Per dovere di cronaca dobbiamo accennare anche al pacifismo democratico borghese anche perché nel 1907 l’Italia ebbe l’onore del conferimento del Nobel per la pace ad un suo illustre cittadino: Ernesto Teodoro Moneta, in onore del quale, il 24 marzo scorso, presso l’Università degli Studi di Pavia, è stato tenuto il “1° convegno internazionale Ernesto Teodoro Moneta, Nobel per la pace 1907”, promosso dalla “Società della Pace e della Giustizia Internazionale”, unitamente alla Provincia e all’Università per dibattere sul tema: “Le strategie per la pace e per i diritti umani nel terzo millennio”. L’iniziativa ha voluto innanzi tutto rendere omaggio alla memoria e all’opera di Ernesto Teodoro Moneta, unico italiano cui sia stato conferito il Nobel della Pace.

Ernesto Teodoro Moneta fu dapprima patriota e garibaldino, poi giornalista direttore del quotidiano milanese Il Secolo e della Vita Internazionale, infine protagonista della diffusione di una cultura pacifista fondata sulla giustizia e sulla sicurezza che affondasse le sue radici negli ideali risorgimentali di libertà.

L’iniziativa pavese in primo luogo ha voluto ricordare la sua azione infaticabile nel divulgare e far crescere “l’educazione alla pace”, che avrebbe dovuto avere i capisaldi fondamentali nella politica del disarmo, nel ruolo dell’arbitrato internazionale e in una costituenda Federazione Europea concepita come garante di un futuro ordinamento internazionale. Significativamente questo dibattito sulle strategie della pace si è svolto mentre era imminente l’attacco americano all’Iraq con una guerra che di fatto avrebbe travolto il ruolo stesso dell’ONU.

Fin dagli inizi del XIX secolo negli Stati Uniti erano sorte delle associazioni pacifiste. Nel 1815 a New York nasce la Peace Society e nel 1828 dalla sua fusione con altre società pacifiste prende vita la American Peace Society. A partire dagli anni ‘60 il pacifismo trovò degli entusiasti seguaci anche in Europa e nel 1880 si costituì, a Londra, la International Arbitration and Peace Society che si proponeva di creare delle sezioni nazionali federate in tutti i paesi d’Europa. Un riconoscimento governativo alla validità dei principi pacifisti avvenne nel 1899 con la Prima Conferenza Internazionale dell’Aia, dove furono approvate alcune convenzioni sul regolamento pacifico dei conflitti internazionali e sui limiti della violenza bellica; mentre un ulteriore passo in tale direzione venne compiuto dalla Seconda Conferenza Internazionale dell’Aia (1907) con il progetto per una Corte Internazionale di Giustizia.

In Italia, come abbiamo detto, è l’ex garibaldino Ernesto Teodoro Moneta che fonda dapprima la Società Internazionale di Pace e Fratellanza, successivamente la Unione Lombarda per la Pace e l’Arbitrato che sarà considerata la più operosa società della pace in Italia ed in Europa.

La Unione Lombarda, con il suo prestigioso leader, rappresentava presso l’Ufficio svizzero di coordinamento internazionale tutte quante le società per la pace esistenti ed attive nelle varie città italiane. Queste organizzazioni pacifiste borghesi, a differenza dei movimenti antimilitaristi proletari, non conoscevano strette repressive o difficoltà economiche: trovavano generosi finanziatori negli ambienti della borghesia illuminata ed udienza in quelli ministeriali e potevano vantare al loro attivo il fatto di aver saputo far breccia perfino all’interno del regio governo italiano, tant’è che, nel 1906, il Ministro della Pubblica Istruzione, On. Boselli, stabilì che il giorno 22 febbraio nelle scuole venisse celebrata la “Festa Mondiale della Pace”.

Queste associazioni pacifiste borghesi di regola non subivano l’attacco degli antimilitaristi di ispirazione proletaria che, pur prendendo atto delle differenze di principio e di impostazione, mantenevano con loro rapporti sulla base del reciproco rispetto. Il più delle volte si riteneva che i pacifisti fossero animati da generosità e sincerità di intenti anche se i loro sforzi erano condannati a non sortire nessun effetto, battendo strade che si sarebbero rivelate inevitabilmente senza sbocco. Non mancavano di sperare (Bartalini in particolare) che, delusi dalla inefficacia della propaganda astratta e dalle conferenze interparlamentari, si sarebbero convinti che per conseguire veramente la pace bisognasse suggerire ai lavoratori di non prestarsi alla guerra, che non sui governi si sarebbe dovuto fare affidamento, ma sulle masse proletarie indirizzate dai movimenti rivoluzionari.

Questa speranza doveva rivelarsi solo una pia illusione perché, come ebbe a spiegare lo stesso Moneta, sé è vero che il pacifismo è contrario alla guerra, esso è soprattutto nemico della rivoluzione: «Aborrenti dalle guerre fra le nazioni non lo siamo meno, perciò, dalla guerra fra le classi sociali. Se fra le due guerre dovessimo fare una differenza, diremmo che ci fa molto più orrore la guerra civile che la guerra internazionale» (Moneta, La Vita Internazionale, 20 novembre 1907). Il pacifismo infatti non rifiuta per principio l’uso della violenza, chiede solo di limitarne l’uso ai casi di aggressione, ed il Moneta spiegava che «la sola guerra che sia consentita dalla moderna civiltà, la guerra difensiva, esige che tutti i cittadini atti a portare le armi scendano in campo a combattere pro aris et focis». Ma guerra difensiva era per Moneta anche quella guerra rivolta alla salvaguardia della pace futura. Ossia? La guerra preventiva! Allora evviva Bush, il pacifista!

Ernesto Teodoro Moneta, Nobel per la pace, al momento della dichiarazione di guerra alla Turchia ben sapeva che in Libia gli italiani non avevano da difendere né “are”, né “focolari”; ma ciò non impedì né a lui, né alla stragrande maggioranza dei rappresentanti pacifisti di aderire all’impresa coloniale italiana giustificandola come un atto necessario ed addirittura “umanitario”. Le Bureau International de la Paix lanciò anatemi contro il tradimento delle società pacifiste italiane ed in modo particolare contro il rinnegato Moneta. Ma come si usa dire, “il tempo è galantuomo”: due anni dopo i pacifisti di tutto il mondo si convertirono prontamente al “monetismo” e nuovamente si ritrovarono tutti quanti uniti nel prestare giuramento alla propria patria con l’adesione alla guerra mondiale.

A puro titolo di cronaca possiamo ricordare che la Società Pacifista fondata dal Moneta venne sciolta con regio decreto del 5 maggio 1937 essendo la sua attività “contrastante con le direttive del Regime”. Ma questo non significa che avesse adottato un atteggiamento antifascista, al contrario aveva sostenuto la guerra di Etiopia ed il Patto Antikomintern, oltre che presentare lo stesso Moneta come un teorizzatore ante litteram della mussoliniana “militarizzazione integrale”.

A proposito: cosa avranno raccontato, il 24 marzo, all’Università di Pavia? Chissà, peccato non esserci stati!
 

Idillio PSI-Giolitti e Guerra di Libia

Il 21 dicembre 1910 il governo Luzzati, che era al potere con l’appoggio del PSI, presentò un disegno di legge per l’allargamento del suffragio al quale, però, veniva abbinata l’obbligatorietà del voto, destinata a convogliare coattivamente alle urne l’elettorato cattolico astensionista e conservatore.

Dopo la breccia di Porta Pia il Papa, dichiaratosi prigioniero, aveva imposto ai cattolici quella tattica astensionistica che veniva riassunta nella formula del “non expedit”, cioè nel divieto fatto ai cattolici italiani di partecipare, sia come eletti sia come elettori, alla formazione della Camera di deputati. Le giustificazioni teoriche di tale atteggiamento erano state spiegate in modo chiaro da Civiltà Cattolica già all’indomani della disfatta di Abba Garima: «L’Italia, di fatto, è più che mai divisa in tre parti: nella legale, che va sotto nome di sabaudista, e comprende il liberalismo d’ogni grado e colore, fino al democratico; nella socialista, che accoglie i radicali, i repubblicani, i socialisti delle varie scuole, e dà la mano agli anarchici; nella cattolica, che si tien ferma alle storiche tradizioni ed alla fede della patria e sta in tutto col Papa, del quale propugna la indipendenza come bene necessario non meno alla religione che alla pace nazionale.

«Da sé sola, la legale si sente mancare pian piano il terreno sotto i piedi, né ha forza di vincere la socialista (...) Quindi, per sua salvezza, implora il concorso della cattolica (...) e offre una tregua per tener fronte viribus unitis alla socialista, di ambedue acre nemica (...) Tuttavia i cattolici considerano che altro è concorrere a salvare l’ordine sociale nell’Italia, ed altro è concorrere a salvarvi l’ordine politico. Nel primo è un fondamento necessario; nel secondo una mutabile contingenza. Nel primo sussiste l’Italia reale; nel secondo si asside la legale.

«Or qual dovere può stringere i cattolici a farsi conservatori dell’Italia legale? (...) Il socialismo cresce e si dilata sì, nell’Italia, ma non è ancor prossimo al suo trionfo. Il pericolo più imminente non è quello di una rivoluzione o di una evoluzione sociale (...) e se i nostri liberali sabaudisti vogliono essere sinceri, debbono confessare che il loro invito ai cattolici per soccorso, concerne la causa degli interessi politici loro, e non quella degli interessi sociali della nazione, dei quali si valgono come di un mantello, da mettersi o da riporsi, secondo il variare delle stagioni.

«Se l’Italia rafforzata dal liberalismo (...) si scompiglia, tal sia di chi l’ha in questo modo raffazzonata. Si lasci che gl’ingordi dei suoi ruderi si litighino tra di loro, e per goderseli si divorino fra se stessi (...) Grande errore sarebbe che, col pretesto di frapporsi ad un trionfo remotamente futuro del socialismo, i cattolici rinforzassero, col loro concorso, la esosa tirannide del liberalismo (...) Che i morti del liberalismo seppelliscano i loro morti» (Civiltà Cattolica, 2 maggio 1896).

È evidente quindi che se la Legge Luzzati fosse passata, con la obbligatorietà del voto, le forze conservatrici avrebbero attinto dall’elettorato cattolico una forza tale da far rinculare di molto la pressione legale del socialismo. Di fronte a questa minaccia il gruppo parlamentare socialista tolse la propria fiducia al governo e, passando all’opposizione, ne provocò la caduta.

Tornato al potere Giolitti, nel marzo 1911, poneva a base del suo programma di governo un forte rilancio delle riforme, ma il punto più importante del suo programma fu l’annunciata riforma elettorale che avrebbe dovuto togliere tutte le restrizioni al diritto di voto maschile. Sarebbero stati ammessi al voto anche i nullatenenti e gli analfabeti, purché avessero raggiunto i 30 anni ed assolto il servizio militare. Ciò significava superare l’antica discriminazione nei confronti dei contadini, specialmente meridionali.

Una riforma elettorale così concepita era di gran lunga più audace e democratica di quanto i socialisti stessi avessero mai osato concepire. La sorpresa da cui essi vennero colti fu descritta in questi termini da Gino Bandini: «Chi avesse, appena qualche mese fa, presagita imminente un’estensione del suffragio così ampia, da poter essere quasi considerato come equivalente al suffragio universale, sarebbe stato trattato da visionario» (Critica sociale, 1° giugno 1911).

È chiaro che all’uomo politico piemontese non interessasse affatto l’allargamento del corpo elettorale in quanto avrebbe dato maggior voce alla volontà popolare, ma semplicemente in quanto avrebbe rafforzato il suo potere. La Chiesa, formalmente, continuava ad essere nemica dello Stato italiano e del suo re usurpatore, ma i clericali non avrebbero potuto più a lungo rimanere al di fuori della politica nazionale. Forse i socialisti non si rendevano del tutto conto di ciò e, d’altra parte come avrebbero potuto non plaudire ad una riforma democratica e non costrittiva?

La riforma elettorale presentata da Giolitti venne approvata nel maggio 1912 e messa in pratica nelle elezioni dell’anno successivo. «Si dava, in un sistema elettorale marcatamente selettivo quale quello antecedente al 1912, che le folle contadine potessero esercitare un minor peso a paragone del più evoluto elettorato socialista. A ristabilire l’equilibrio, con tempestiva appropriatezza, aveva però appunto provveduto la riforma “progressista” di quell’anno. Parlo del suffragio universale, “semi universale”, che – provvidenzialmente – consentiva al proletariato delle campagne, ai “buoni contadini fedeli alla religione degli avi”, di bilanciare la forza elettorale del proletariato delle fabbriche. Onde non rimaneva che procedere alla stipulazione – sottobanco – d’un apposito strumento negoziale: del Patto Gentiloni – giustappunto – in base al quale i candidati governativi liberali (non conta se massoni o liberi pensatori, non conta se giurisdizionalisti in altri casi) ottenevano di attingere – nei rispettivi collegi uninominali – all’abbondante serbatoio dei voti cattolici. L’ottenevano “al prezzo d’una messa”: in cambio della sottoscrizione d’un pacchetto di clausole favoritive della Chiesa: non conta se antitetiche a certe basilari istanze laiche. L’operazione, in prima istanza doveva rivelarsi efficacissima. Ben oltre duecento “candidati governativi” (non altrimenti reclutabili) furono eletti a questo modo: tanti da dare – sul momento – all’apparato di potere dell’On. Giolitti, e al liberalismo autoritario quale da lui inteso, l’illusione di essersi assicurato l’avvenire: Del che – sul momento – gli uni e gli altri, e i liberali e i clericali, si compiacquero» (Il Tetto, gennaio 2003).

Torniamo ora indietro di due anni. Avuto l’incarico di formare il nuovo governo Giolitti, riprendendo il tentativo fallito nel 1903, cercò di ottenere la collaborazione governativa dei socialisti offrendo a Bissolati il ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio. Giolitti riteneva infatti che il processo di assorbimento del PSI nello Stato avesse raggiunto un punto tale da essere irreversibile ed aveva sintetizzato la sua convinzione con la famosa frase: «Carlo Marx è stato messo in soffitta». Come si vede la teoria della “morte delle ideologie” non è scoperta del terzo millennio; agli albori del XX secolo si dicevano le medesime fregnacce di oggidì e, se vogliamo, allora venivano dette da uomini ben più illustri delle attuali mezze calzette, se si pensa ad una intervista di Benedetto Croce pubblicata su La Voce del 9 febbraio 1911 sulla “Morte del socialismo”.

L’operazione Bissolati non andò in porto, non sappiamo se perché Bissolati avesse rifiutato il portafoglio offertogli o sol perché si era presentato al Quirinale in giacca e non in frac. Comunque sia, il gruppo parlamentare socialista diede il proprio voto favorevole al governo Giolitti ed incaricò proprio Bissolati di presentare la dichiarazione di favore del Partito Socialista. Per quel che riguarda la Direzione del partito, questa addirittura approvò «una mozione di riconoscimento al Bissolati per la sua azione, considerata come decisiva ai fini della formazione del programma di governo del Giolitti e dell’allargamento quasi universale del suffragio; solo il Modigliani tentò una reazione, ma fu aspramente e personalmente attaccato dal Treves» (Cortesi, Il Socialismo Italiano tra Riforme e Rivoluzione).

La guerra italo-turca maturò in questo clima di idillio tra Partito Socialista e governo Giolitti. Il Partito Socialista era rimasto così impaniato dal programma di Giolitti che, alle prime avvisaglie della preparazione di guerra, negherà addirittura la possibilità del fatto affermando che le notizie in tal senso non fossero altro che il frutto della «estiva penuria di motivi giornalistici» (L’Avanti!, 6 agosto 1911).

Apparentemente il giornale socialista aveva ragione; Camera e Senato erano chiusi, andati in una vacanza estiva che durerà sette mesi (chiusa nel luglio 1911, la Camera fu riaperta soltanto nel febbraio 1912, quando l’impresa era già un fatto compiuto); Giolitti se ne stava in panciolle a Dronero; il ministro degli esteri San Giuliano era a fare le cure delle acque a Fiuggi; il Re passava le sue giornate estive nelle riserve di San Rossore a caccia di cerbiatti e di cerbiatte; tutti i politici ai bagni o ai monti. Effettivamente in piena attività era solo la stampa che, livida di sacro furore nazionale, premeva per la guerra.

Turati addirittura arrivò a sostenere che la campagna guerresca altro non fosse che una manovra ordita dagli ambienti reazionari per spezzare quella alleanza che si era creata tra governo Giolitti e PSI. Scriveva: «L’attuale presidente del consiglio senza essere personalmente né un Cavour né un Tiburzi (...) è abbastanza fine ed accorto per non dare ai suoi dolci avversari la ineffabile gioia di vederlo cascare nel trabocchetto che gli vanno ordendo dinnanzi; né vorrà (...) fare a brani la innestata bandiera del più largo suffragio, per invidia degli allori sanguinosi che attristarono e disonorarono la canizie di Crispi» (Critica Sociale, 16 settembre 1911). Turati però non mancava di avvertire che se le cose avessero preso la piega della guerra, il Partito Socialista non sarebbe rimasto indifferente a subire gli eventi: «Ma se il bromuro del buon senso non bastasse a prevenire nei responsabili gli eccessi, di cui l’aura si annuncia con tanto inconsueto fracasso; se la mulaggine dei turchi e dei tripolini d’Italia, ricusandosi alle provvide docce della fredda ragione, si accanisse a spingere le cose verso il precipizio; pensiamo – ed è l’ora, forse, di non dissimularlo – che il Partito Socialista ed il proletariato organizzato d’Italia abbiano oggi quanto basta di coscienza e di forza per tenere testa; e che possano, senza iattanza o spavalderia, affrontare le bravacciate degli smargiassi, e dir loro semplicemente: Avanti pure signori, noi siamo pronti».

Molto più esplicito era stato Mussolini che, dalle colonne di Lotta di Classe del 5 agosto, aveva avvertito: «Se la patria, menzognera finzione che ormai ha fatto il suo tempo, chiederà nuovi sacrifici di denaro e di sangue, il proletariato che segue le direttive socialiste risponderà collo sciopero generale. La guerra fra le nazioni diventerà allora una guerra fra le classi». Ed il 23 settembre, di fronte al precipitare della situazione, aveva ribadito: «Nell’eventualità mediata o immediata di un’occupazione il proletariato italiano deve tenersi pronto ad effettuare lo sciopero generale».

L’Avanti! del 25 settembre riportava una lettera di Vella che concludeva con queste parole: «Andate pure a Tripoli, noi scenderemo in piazza. Il più forte vincerà».

Il C.E. della sezione socialista milanese aveva approvato, il 15 settembre, un ordine del giorno nel quale si facevano voti a che «il proletariato italiano sappia intendere in tempo la gravità dell’imminente pericolo: che le sezioni, la stampa, i propagandisti del Partito Socialista si mettano alacremente in campagna per illuminarlo e spingerlo alla immediata difesa»; ricordando poi come «la colossale manifestazione pacifista del proletariato berlinese (aveva imposto) alla megalomania militarista dell’imperatore feudale quel rapido mutamento di stile, consacrato nel discorso pacifista di Amburgo»; invitava la Direzione del PSI, il gruppo parlamentare e la CGL affinché coordinassero la loro azione per organizzare «manifestazioni proletarie solennemente ordinate e severamente ammonitrici (che) valgano a deprecare anche in Italia i disastri minacciati alla nazione dall’imperversare della nuova irresponsabile ubbriacatura militaresca e imperialistica» (La Giustizia, 17 settembre 1911).

Il 16 settembre la Federazione giovanile socialista riaffermava «la sua adesione al programma dell’Internazionale socialista avverso ad ogni impresa guerresca espansionistica della borghesia» e deliberava: «1 – di iniziare sul giornale federale L’Avanguardia una campagna energicamente contraria a quella dei giornali borghesi e invitare tutte le sezioni ad iniziare ad associarsi a tutte quelle manifestazioni tendenti a formare nel popolo una viva corrente avversa alla minacciata invasione africana; 2 – di mettersi a completa disposizione del Partito Socialista e della confederazione del lavoro per tutte quelle manifestazioni ch’essi intendessero promuovere per impedire con qualunque mezzo una tale disastrosa impresa guerresca» (L’Avanguardia, 24 settembre 1911).

Se il proletariato italiano e le organizzazioni locali del partito e del sindacato si erano espresse chiaramente contro la guerra non altrettanto intransigente fu la politica degli organi diretti del partito: la Direzione, nella sua riunione del 17 settembre, se da un lato si dichiarava «risolutamente avversa a qualsiasi avventura militaresca in Tripolitania», allo stesso tempo delegava al gruppo parlamentare l’incarico di «manifestare il proprio pensiero – che si crede all’unisono con quello della Direzione – e che perciò debba il gruppo adunarsi sollecitamente per deliberare la propria linea di condotta e l’azione propria nel paese e nel parlamento, chiedendo anche, ove se ne manifesti l’urgenza, una straordinaria convocazione della Camera» (Avanti!, 18 settembre 1911). Delegando il gruppo parlamentare a farsi portavoce dell’opposizione del partito alla guerra non significava, cosa già di per sé deleteria, che il PSI volesse mantenere la propria protesta all’interno della legalità democratica, al contrario, significava volersi astenere da qualsiasi forma di opposizione. In che modo il gruppo parlamentare, anche volendo, avrebbe potuto opporsi alla guerra se la Camera era stata chiusa?

A questo riguardo dobbiamo mettere bene in evidenza il fatto che, se la guerra venne decisa, dichiarata e condotta dal governo in maniera extra-parlamentare, cioè senza preventiva approvazione e successiva ratifica da parte del Parlamento, ciò non significa affatto che da parte del governo e del re fosse stato compiuto un atto autoritario, un atto che avesse sminuito la funzione e le prerogative della democrazia: in una parola che si fosse ricorso ad un colpo di mano dispotico. La guerra, così come fu fatta, in base all’art. 5 dello Statuto, rivestiva tutti i sacrosanti crismi della legalità e costituzionalità. È matematicamente certo che, se il Parlamento ne fosse stato coinvolto, la guerra avrebbe avuto senz’altro la sua approvazione; perfino una parte considerevole del gruppo parlamentare socialista avrebbe votato a favore della “missione civilizzatrice”. Il Parlamento venne volutamente escluso, non per atto autoritario o per paura di non adesione alla politica governativa, ma semplicemente perché non ne venisse coinvolto; perché in un eventuale disastro militare (e le guerre coloniali italiane ne erano costellate) il Parlamento, del tutto estraneo alla faccenda, potesse ammortizzare le inevitabili mobilitazioni antigovernative del proletariato.

Solo a seguito della fortissima pressione da parte del proletariato, mentre manifestazioni spontanee contro la guerra si verificavano da un capo all’altro dell’Italia, il 25 settembre si tenne a Bologna una riunione congiunta della Direzione del partito, del gruppo parlamentare e della CGL. Lo spirito del convenuti venne ben sintetizzato dal Rigola secondo il quale il sindacato non poteva «non assecondare quello che era il sentimento vivo e diffuso delle masse» ed il Caldara aggiunse che la CGL era decisa a «capitanare per disciplinarlo» uno sciopero che sarebbe scoppiato comunque. L’importante, per i convenuti, era che la minaccia, lanciata da Mussolini a nome dell’ala rivoluzionaria del partito, non si avverasse e cioè che lo sciopero insurrezionale venisse scongiurato. Il nocciolo attorno al quale ruotò tutta la discussione fu quello sui limiti entro i quali al proletariato sarebbe stato consentito esprimere la propria protesta senza mettere in crisi la macchina statale, ossia studiare il modo per rendere totalmente inoffensiva la reazione del proletariato, perché la guerra, già decisa, potesse fare tranquillamente il suo corso.

Venne così indetto uno sciopero generale di 24 ore, ma la CGL ordinava «che la protesta delle braccia conserte si mantenga dignitosa e lontana da ogni atto di violenza, sia alta e solenne ad ammonimento al governo e alle classi dirigenti che il proletariato sta vigile custode delle conquiste strappate e del suo diritto» (Avanti!, 26 settembre 1911).

Giolitti poteva stare tranquillo; il Partito Socialista, che aveva votato a favore del suo governo, non si sarebbe opposto alla guerra ed in questo senso tranquillizzava il Re. Non c’era da preoccuparsi per le agitazioni proletarie, almeno fino a che venivano controllate dal Partito Socialista e perfino dal Repubblicano. Il presidente del consiglio in due telegrammi al monarca si esprimeva in questi termini: «Movimento socialista non credo abbia importanza. Parecchi socialisti sono favorevoli all’impresa e stamane Barzilai venne a dirmi che repubblicani non approvano contegno socialista e non creeranno imbarazzi» (25 settembre 1911). «Bissolati, che vidi oggi, non considera scioperi proclamati come seri» (26 settembre 1911).
 

(Continua)

 
 
 
 
 
 
 


Storia ed economia del Brasile

Rapporto esposto alla riunione a Firenze del gennaio 2004

(Segue dal numero 54)
 

Nota sulla situazione sociale
 

Lo sviluppo del movimento operaio in Brasile, come in tutta l’America latina, è profondamente legato ai flussi migratori dal continente europeo. Inoltre il particolare sviluppo economico dell’immenso territorio brasiliano, per zone indipendenti e scarsamente collegate fra loro, ha rallentato la crescita di organizzazioni di difesa del lavoro a grande scala quanto piuttosto ristrette a livello territoriale.

La Prima Guerra mondiale e la Rivoluzione russa del 1917 segnarono profondamente il movimento operaio in tutti i paesi dell’America latina, sia per quanto riguarda il blocco dei flussi migratori e dei capitali di investimento, sia per l’emozione che la vittoria del proletariato russo vi sollevò. Grande effetto ebbe l’arrivo dei delegati inviati dal Comintern dal 1920 al 1922 con lo scopo di diffondere nel continente le parole d’ordine della rivoluzione comunista.

Sulle origini del movimento operaio scrive il Cole (Storia del pensiero socialista): «In Brasile, benché anche in un’epoca precedente vi fossero stati gruppi socialisti, fino al 1916 non si formò alcun Partito socialista. Appena questo fu fondato, esplosero nel suo seno aspri contrasti tra i sostenitori della neutralità – principalmente oriundi tedeschi e italiani – e i fautori dell’intervento a fianco degli Alleati, soprattutto brasiliani di nascita e portoghesi. Nel 1921 il partito decise, a maggioranza, di aderire al Comintern; la minoranza si scisse e costituì, nel 1925, un partito antagonista, che però non ebbe molto successo. Nel 1928, invece, con un forte apporto sindacale, fu fondato un Partito Laburista sul modello inglese, che ebbe un rapido sviluppo e nel 1930 contava 800.000 iscritti. Fino al 1929 non vi fu in Brasile alcuna centrale sindacale, ma proprio in quell’anno furono costituite due organizzazioni rivali, l’una di ispirazione comunista e l’altra sindacalista. Nel 1933 però i comunisti, che avevano perduto il controllo della CGT brasiliana, fondarono una terza organizzazione, la Confederazione dei Sindacati Unificati. Nel 1938 Vargas sciolse tutte queste centrali e obbligò i lavoratori a entrare nella sua nuova struttura corporativa».

Una vitale classe operaia, quindi, nonostante lo sviluppo delle organizzazioni di difesa abbiano sempre incontrato gli specifici problemi legati al quadro geostorico del continente: dispersione nell’immenso territorio della classe operaia, suo isolamento dovuto all’organizzazione delle zone produttive per “corridoi indipendenti”. Inoltre forte è stato il condizionamento delle potenti organizzazioni degli immigrati per nazione di provenienza le quali, dietro un minimo di assistenza in terra straniera, controllano i lavoratori, al pari delle bande criminali e mafiose. Ma ha pesato soprattutto la marea calante della Rivoluzione in Russia e in Europa.

Oggi alcune organizzazioni politiche dicono di rifarsi al proletariato, ma sono ben insediate nel gran carrozzone parlamentare: il Partito Comunista Brasiliano (Pcb), fondato nel 1922, non ha ancora apertamente rinnegato Marx, Engels e Lenin, ha un suo sindacato, Unidade Classista, affiliato alla Cut; il Partito Comunista del Brasile (PcdoB) fondato anche questo nel 1922, riorganizzato nel 1962, legalizzato nel 1983, sostiene la politica di Lula, è inserito nella Cut.
 

Alterna congiuntura economica

Una tabella, “Numero di occupati nell’industria metalmeccanica in Brasile nei principali settori di attività”, ci mostra l’andamento degli occupati nei 14 settori principali che vanno dalle costruzioni navali, macchine agricole, auto, aeronautica, elettronica, macchine utensili, ecc. Nel 1990 complessivamente erano 1.263.100 ma rapidamente scendono a 963.200 nel 1992; ancora diminuiscono a 937.400 nel 1994 e a 690.500 unità nel 1996. In soli 6 anni c’è un crollo degli occupati nel settore cardine di un paese industrializzato del 55%. È evidente la crisi del capitalismo brasiliano, decimo nel Mondo!

Altra tabella, “Distribuzione percentuale dei lavoratori salariati in Brasile per livelli di reddito al mese” (1997), ci indica la seguente ripartizione per fasce di reddito, dove un salario minimo mensile corrisponde mediamente da 112 a 120 dollari Usa, ossia meno di 4 dollari al giorno: percepisce fino a un salario minimo il 26,4% dei salariati; da 1 a 2 salari minimi il 25,6; da 2 a 3 minimi il 15,6; da 3 a 5 minimi il 14,5; da 5 a 10 minimi il 10,9 ; da 10 a 20 minimi il 4,4; più di 20 salari minimi l’1,6; senza reddito 0,3 e non dichiarato 0,7 portano i dati a 100%. Da qui si vede che il 52% dei salariati percepisce meno di 8 dollari al giorno.

Da una statistica di fonte governativa (Laborsta) leggiamo che l’andamento annuale della disoccupazione tra il 1979 e il 1999 ha questa impennata: anno 1979, totale disoccupati 1.210.000 di cui 825.000 uomini e 385.000 donne; nel 1992 (ma anno di cambio del sistema di calcolo) il totale sale a 4.573.000 di cui 2.355.000 uomini e 2.218.000 donne; nel 1999 si arriva a 7.639.000 di cui 3.668.000 uomini e 3.971.000 donne. Le note a precisazione dei dati ci spiegano che per l’utilizzo di diversi parametri di calcolo le comparazioni sono improprie, inoltre sono escluse alcune zone e distretti rurali. Sta di fatto però che in 20 anni di industrializzazione accelerata il numero dei disoccupati aumenta di sei volte e che se all’inizio della rilevazione i disoccupati maschi erano un po’ più del doppio delle donne, alla fine le donne senza lavoro superano gli uomini. Confermato, insieme all’industrializzazione, l’aumento dell’esercito industriale di riserva e dei senza riserve.

Trionfali invece i commenti sulla stampa finanziaria sul primo anno di gestione Lula, durante il quale l’indice della Borsa brasiliana risale al massimo degli ultimi tre anni; netto miglioramento dell’indice dell’investiment grade (una sorta di stima sulla sicurezza e praticabilità degli investimenti finanziari); il rapporto di cambio Dollaro/Real, che ai primi di febbraio 2003 era di 3,7, è sceso a fine anno a 2,8; aumento delle entrate fiscali; ripresa dell’attività industriale che nel settore dei beni durevoli è aumentata del +5,2%. Quindi per ora i lavoratori sono tornati al duro lavoro, dopo un forte blocco della produzione; in cambio si sono dovuti accontentare delle promesse della campagna elettorale.

«A sostenere il Bovespa, l’indice brasiliano di Borsa, (+61% da gennaio) sono state le imprese che sfruttano le immense risorse naturali del Paese: Braskem (+260% da inizio anno) produce derivati petrolchimici ed elettricità, Usimas (+246%) e Cia Siderurgica Nacional (+127%) sfornano acciaio e ferro, Klabin (+199%) stampa prodotti cartacei e Embratel (+172%) offre servizi di telefonia. Anche se il fiore all’occhiello del settore industriale brasiliano resta Petrobas, gruppo petrolifero di caratura mondiale che ha realizzato un brillante 2003».
 

L’universo sindacale

Nel periodo del governo Vargas e delle dittature militari, dal 1938 al 1985, i sindacati sono del tipo statale-corporativo, ricalcato sul modello dei sindacati fascisti europei. In questo periodo, di quasi 50 anni, i sindacati ufficiali hanno svolto un ruolo minimo di difesa dei lavoratori, subordinando sempre la loro azione al bene supremo dell’economia nazionale, cui tutto doveva sottomettersi. Più che di azione e difesa sindacale possiamo parlare di razionalizzazione dell’uso della forza lavoro, con l’eliminazione delle storture più macroscopiche, senza mai mettere in difficoltà lo sviluppo e i profitti del capitale operante in Brasile.

Con la sospensione del regime militare e il ritorno, secondo tappe programmate, della “democrazia”, anche il sistema sindacale viene ristrutturato ed accanto alle vecchie, ben radicate e ricche, confederazioni del vecchio regime, possono sorgere, pur tra mille difficoltà, nuove organizzazioni, formalmente libere, cioè non più direttamente legate all’accoppiata governo statale / organizzazioni padronali ma riferentesi a diverse correnti: partiti politici di destra, di sinistra, chiesa cattolica, diramazioni del capitale straniero, ecc., ecc. Ne è scaturito un mosaico con enorme frammentazione delle organizzazioni di difesa della classe operaia.

Le organizzazioni sindacali sono in prevalenza di mestiere, come nel sistema anglosassone. Inoltre il proletariato è marcatamente diviso tra coloro che beneficiano di un rapporto lavorativo stabile, la parte minore, e quelli “informali”, cioè senza alcuna protezione e quindi sottoposti ad ogni forma di precarietà e ricattabilità.

Dopo l’iniziale periodo di assestamento e ubriacatura per il ritorno della democrazia, con la nascita e la scomparsa di organizzazioni minori o costruzioni artificiali, attualmente, cioè dopo circa un ventennio, possiamo così riassumere la situazione (combinando le informazioni tratte dagli atti di un Convegno nazionale delle RSU sul caso Brasile (Milano, 29/1/1999) con i dati più aggiornati del Bollettino on-line della CUT (Centrale Unica dei Lavoratori) brasiliana).

Il sistema istituzionale, una Federazione di Stati, con non trascurabili differenze legislative e normative locali, non riconosce ancora il diritto dei lavoratori né ad organizzarsi sindacalmente sui luoghi di lavoro, né a scegliere liberalmente a quale sindacato iscriversi. Non è un caso che dove esiste il diritto alle Commissioni di Fabbrica, per accordo contrattuale aziendale, come all’ABC di S. Paolo, la sindacalizzazione volontaria è elevata.

È la direzione del sindacato che ha vinto le elezioni su base territoriale che decide se restare indipendente o affiliarsi ad una delle tre Centrali esistenti: CGT, CUT e Força Sindical. Anche in Brasile, sembra, abbiamo una Trinità confederale.

Una tabella, “Sindacalizzazione, adesione volontaria con delega, nelle principali aziende del settore auto in Brasile nel 1997”, mostra un’alta tendenza dei lavoratori ad organizzarsi. Se alla Fiat di Betim, nel Mato Groso, la percentuale degli iscritti al sindacato locale Betim-Cut è solo del 10,3, alla Volvo di Curitiba nel Paranà al Curitiba-Força Sindical aderisce il 25,1. Nello sviluppato Stato di San Paulo, dov’è una grande concentrazione industriale, la situazione è la seguente: alla Volkswagen di Taubatè il 42,9 aderisce alla CUT; alla General Motors di Sao Caetano do Sul il 32,6 è inserito in Força Sindical, mentre alla General Motors di Sao Josè dos Campos il 62,5 è iscritto alla CUT; alla Ford di Sao Bernardo do Campo l’87,3 aderisce all’ABA/CUT; nella stessa località agli stabilimenti della Mercedes Benz gli iscritti all’ABC/CUT sono il 70,8; a quelli della Scania sono sempre per lo stesso sindacato il 68,1; a quelli della Toyota il 65,6 ; a quello della Volkswagen sono l’87,0 mentre a Sao Paolo alla Ford sono il 64,8 per Força Sindical.

Nonostante il peso del sindacalismo in Brasile non sia quindi affatto trascurabile, la sindacalizzazione è concentrata nelle grandi aziende e il tasso di sindacalizzazione medio è basso: il 16,1%. Varia enormemente in relazione ai settori, alla dimensione dell’impresa, alla forza accumulata storicamente dal sindacato nelle diverse regioni.

Oggi solo alla CUT sono affiliati 3.354 sindacati ed entità territoriali di categoria, molto diversi tra loro per peso e dimensione, con un totale di 7,5 milioni di iscritti. Coprono contrattualmente una base di 22,6 milioni di lavoratori su una popolazione attiva di 73,2 milioni. Questo dato è ragguardevole se si tiene conto che nel MercoSul, secondo i dati dei Ministeri del Lavoro dei Paesi aderenti, solo il 35% degli attivi sono occupati regolarmente, mentre il 65% è composto da precari, in nero, saltuari e disoccupati.

Per quanto concerne la CUT, il suo peso assume particolare significato se si considera che è un sindacato relativamente giovane, essendo nato nel 1983 durante la transizione di regime. La volontà del proletario ha supplito alle enormi difficoltà organizzative rappresentate anche dal forte peso delle strutture dei sindacati ufficiali che monopolizzavano gran parte dei mezzi finanziari e delle risorse: dalle sedi ai contributi obbligatori dei lavoratori, dall’assistenza mutualistica ai servizi.

Della gigantesca costellazione sindacale brasiliana presentiamo una serie di dati riguardanti la CNM-CUT (Confederazione Nazionale dei Metalmeccanici). Nasce nel 1992 come struttura nazionale di categoria, cioè ramo di attività al quale possono affiliarsi direttamente sia i sindacati territoriali dei metalmeccanici, sia le federazioni esistenti a livello di singoli Stati. In precedenza all’interno della CUT esistevano solo i dipartimenti nazionali di categoria, come articolazione funzionale della Centrale, senza però essere soggetto congressuale e contrattuale. Aderiscono alla CNM-CUT 91 sindacati del settore metalmeccanico organizzati su base territoriale per complessivi 915.000 lavoratori, ovvero un’organizzazione sindacale non di poco conto.

Gli oggettivi elementi di debolezza dovuti alla diversità normativa fra Stati anche confinanti e la dispersione territoriale si traducono in una struttura sindacale ancora molto frammentata, e anche in organizzazioni “concorrenti”, e molto debole sul piano generale della Federazione, in quanto non esiste ancora nei settori industriali un contratto unico di categoria ma solamente accordi a livello locale. A queste si aggiungono le difficoltà ovunque del movimento sindacale, ovvero a penetrare nelle piccole imprese, a contrastare la precarizzazione del rapporto di lavoro e la crescita dell’economia “informale”, maledetto neologismo che sta per sfruttamento senza limiti.

L’obiettivo primario del sindacalismo brasiliano è quello di riuscire a coordinare e unificare a livello nazionale la contrattazione collettiva di categoria. Per quanto riguarda la CNM-CUT, in virtù della sua forza ed importanza nell’industrializzazione del Paese, il suo programma, come presentato nel convegno del gennaio 1999, prevedeva questi importanti obbiettivi: affermazione sul piano legislativo del principio della libertà e autonomia sindacale; diritto all’organizzazione a livello di fabbrica; riduzione dell’orario di lavoro dalle 44 alle 40 ore settimanali a parità di salario; diritto allo studio e alla formazione continua dei lavoratori. Purtroppo, sull’esempio della concertazione e cogestione perseguita dai sindacati europei, c’è anche la richiesta di partecipazione alle scelte di politica industriale e settoriale.

Oltre a questioni categoriali la CNM è impegnata nel sostegno delle lotte dei lavoratori rurali organizzati nella CUT e del Movimento per la riforma agraria dei Sem Terra, nodo cruciale degli squilibri economici e sociali del Brasile, come pure nella lotta per i diritti di cittadinanza, contro l’apartheid sociale, il lavoro minorile e il lavoro schiavo che, tutt’altro che eliminato, ancora sussiste.
 

I Sem Terra

Ma la grande promessa della riforma agraria, che ha raccolto l’energia e i voti del Movimento dei Senza Terra (Mst) e del piccolo contadiname, ha avuto un ben modesto risultato giacché qui si va a toccare gli enormi interessi “dell’attuale modello di sviluppo” del settore agrario che, come riferito nel precedente rapporto, è caratterizzato da un esteso latifondo dove lo 0,83% dei proprietari detiene da solo il 43% delle terre coltivabili, mentre 23 milioni di braccianti agricoli e piccoli contadini vivono al di sotto della soglia di povertà. Inoltre una quota di latifondi, pari a 153 milioni di ettari, sono lasciati incolti e di buona parte di essi è dubbia la legittimità degli attuali proprietari.

L’Mst ha proposto una distribuzione delle terre incolte, abbandonate o vergini, tramite esproprio o indennizzo a carattere simbolico, per la formazione di cooperative medio-piccole di agricoltori finanziati dal governo nelle zone più sviluppate, oppure piccole unità produttive a base familiare nelle zone più isolate, non allontanandosi troppo da un’agricoltura della misera schiappa dove lo scopo primario rimane la produzione per l’autosufficienza alimentare. Sembra qui più una forma di assistenza sociale e di decongestione urbana che una riforma strutturale della produzione agraria.

Gli accampamenti sulle terre abbandonate sostenuti dall’Mst interessano ormai 200.000 famiglie, circa un milione di persone che attendono un insediamento stabile; contemporaneamente il Mst intende mobilitarne altre 550.000 in tre anni e realizzare un piano di recupero degli insediamenti che ne riguarda altre 400.000: un movimento non da poco! Ma, per realizzare anche l’obbiettivo del tutto piccolo borghese della ripartizione della proprietà terra non è certo sufficiente una politica democratica, fatti di piccoli passi e grandi promesse, condotta in accordo con le classi fondiarie e senza urtarsi con gli interessi delle schiavismo internazionale dell’agro-businness. Occorrerebbe invece una spinta sociale ben più forte, che mettesse in discussione l’istituto stesso della proprietà privata in generale e della terra come parte di essa, principio insopprimibile del capitalismo. Questa forza potrebbe trovarsi solo nella classe operaia industriale.

Insomma, più che una vera riforma agraria, che dovrebbe favorire l’agricoltura moderna, scopo principale di questo movimento è dare a una massa di braccianti e di proletari un pezzo di terra sui cui spaccarsi la schiena per un piatto di minestra. Non risulta si prospettino da parte dell’Mst progetti basati su espropri da parte dello Stato per la formazione di aziende di grandi dimensioni, le sole che possono impiegare la tecnica moderna. Questa prospettiva potrebbe essere attuata solo scontrandosi con il Fmi, che invece richiede una politica di privatizzazione accelerata per facilitare l’ingresso dei capitali stranieri nei settori portanti.

Da un articolo del settimanale Carta del 19 dicembre 2003: Brasile. Lula rimandato all’esame dei Sem terra apprendiamo che «una riforma agraria è stata approvata nel novembre 2003, ma non tutto quanto previsto dal governo potrà essere effettivamente realizzato. I primi insediamenti che dovevano essere 60.000 saranno solo 10.000, gli espropri sono stati pochissimi, le risorse del credito del Programma nazionale di rafforzamento dell’agricoltura familiare (Pronaf) non sono ancora disponibili per gli insediati, pochi Stati sono riusciti a fare contratti di assistenza tecnica e l’Istituto nazionale per la colonizzazione e la riforma agraria (Incra) sta dimostrando incompetenza e burocratismo».

Dalla parte dei fondiari c’è un ovvio attivismo volto a manipolare l’informazione, contrastare l’attuazione della riforma agraria e a criminalizzare tutti gli attivisti del Mst. Da parte sua il governo è costretto al massimo risparmio delle spese pubbliche per poter far fronte agli interessi del debito interno ed estero. Il presidente Lula in un incontro, lo scorso novembre, davanti 4.000 lavoratori, ha fatto presente la difficoltà della situazione, ma si è “impegnato” a dare “priorità” alla riforma nel...
 

Demagogia borghese in salsa brasiliana

Il Partito dei Lavoratori (Pt), è un partito-movimento “artificiale”, come la società borghese ormai solo può darsi. “Fondato” nel 1980 da Ignacio De Silva, “Lula”, usa la vuota retorica del populismo tipico del sub-continente, ma che, da Mussolini in poi, ce la troviamo dappertutto. Nell’Articolo 1 dello Statuto del partito c’è un cauto richiamo al “socialismo democratico”. Demagogia di quart’ordine.

Non risulta alcun cambiamento della legislazione sindacale dopo l’elezione a presidente della Federazione di “Lula”, già lui stesso sindacalista. È ovvio che il personaggio, intriso del populismo sudamericano, amico di tutti i movimenti “contro”, quand’anche volesse, poco può fare di fronte agli immensi interessi e scontri di forze in gioco e deve sottostare agli interessi del capitale internazionale, alla sua crisi, al ristretto spazio di manovra lasciato al capitale brasiliano e di conseguenza all’imbrigliamento delle forze operaie e del sindacato locale. Prova ne sia che il 22 gennaio 2003, solo alcuni giorni dopo la ratifica della sua elezione, Lula, accompagnato dal nuovo ministro dell’Economia A. Palocci, è dovuto trottare a Washington da G.W. Bush e dai banchieri della Fed e del Fmi dichiarando che l’obiettivo primario del nuovo governo brasiliano è mantenere la stabilità monetaria e fiscale. Lo scopo era di presentarsi col vestito della domenica e col cappello in mano al bellicoso texano, a cui era stato descritto dal Presidente della commissione per le relazioni internazionali della Camera H. Hyde come “radicale filo-castrista travestitosi da moderato solo per calcoli elettorali e pronto a dotarsi di un’atomica da 30 chilotoni e di missili balistici”. Il che è senz’altro vero, potendo. “Moderato” o “estremista” riguarda la politica estera più o meno filo-americana: nei confronti della classe operaia brasiliana si tratta di un governo borghese come un altro.

Da Il Brasile dopo un anno di Lula di Pablo Ortellado dell’11 ottobre 2003: «Lula si è impegnato con il Fmi e la sua politica macroeconomica ultra ortodossa a tenere alte le eccedenze principali (con le quali si ammortizzeranno i debiti pubblici), a riformare tasse e pensioni per diminuire le spese statali. L’aumento del 0,5% del PIL del paese, che avrebbe dovuto esser speso per intenti sociali, invece serve a pagare le banche, che assicurano la fiducia del mercato! Lula scrive al Fmi dicendosi pronto ad impegnarsi nella riforme delle pensioni e delle tasse. La riforma delle pensioni si trova ora al voto del Congresso: contemporaneamente 400.000 lavoratori statali sono in sciopero. La riforma toglie diritti ai lavoratori, alza l’età del pensionamento e le tasse, diminuisce il valore delle pensioni. Mentre il popolo lotta contro la riforma della pensione, quella delle tasse é stata inoltrata, in sordina, al Congresso. La riforma cambia considerabilmente la struttura delle tasse del paese e, come accordato con il Fmi, aiuta ad aumentare la flessibilità del budget a scapito dei fondi assegnati alle spese sociali (...) Mentre il Governo porta avanti la sua agenda neoliberista, i movimenti sociali provano a resistere. Il 60% della forza lavoro statale è in sciopero nonostante l’esagerata propaganda dello Stato che chiama i loro diritti “privilegi”. Accanto ai lavoratori del settore pubblico, i lavoratori senza terra e senza casa lottano per una degna esistenza (...) Negli ultimi due mesi le occupazioni di terre sono aumentate. In risposta i latifondisti hanno dato vita ad una milizia per combattere il Mst (l’anno scorso 43 persone sono morte in conflitti “rurali”)».

Il Pt è espressione della borghesia brasiliana e non sarà certo questo partito a scendere realmente sul terreno della difesa dei diseredati. Francamente ci sentiamo di dover ribaltare l’affermazione del consigliere americano: “moderati travestitosi da radicali filocastristi solo per calcoli elettorali”. Quel che serve, oggi, per continuare i piani di sfruttamento delle masse brasiliane.

Solo un autentico partito comunista, che lavora per la rivoluzione proletaria, rappresenta la via dell’emancipazione di tutti i senza riserve.

Quello che si prospetta per il proletariato brasiliano è ancora sangue, sudore e lacrime da versare sull’altare dell’economia nazionale, della pace sociale, del sostegno dei mercati e degli investitori interni ed esterni e attuato, per il momento, con la falsa promessa di attendere tempi migliori. Quando le masse dei senza riserve scopriranno l’inganno, alle prime forti proteste e sommosse ritornerà fuori nelle piazze la mitraglia di sempre.

Perché questo non accada occorre che il partito comunista anticipi al proletariato la sua lezione, e separi le sue organizzazioni e le sue idealità da quelle di tutte le classi borghesi e piccolo borghesi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra
 

Di seguito vengono riprodotti alcuni documenti antimilitaristi dell’inizio del ’900. I manifesti, volantini e opuscoli di propaganda venivano distribuiti ai giovani chiamati sotto le armi, affissi in luoghi prossimi alle caserme o ai posti di ritrovo frequentati dai militari in libertà. Altre volte si ricorreva ad espedienti diversi, come dimostra il rapporto del Prefetto di Firenze del 12 gennaio 1912. Gli opuscoli erano distribuiti nelle caserme, gratuitamente o a prezzo puramente simbolico, dai giovani socialisti e passavano di mano in mano tra i soldati.

La nostra possibilità della loro ripubblicazione, in alcuni casi, come annotiamo in calce ai singoli documenti, è dovuta alla solerzia delle forze dell’ordine che provvidero al loro sequestro ed allo Stato borghese che ne ha curata la conservazione nel fondo della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza.

Da un punto di vista rigidamente rivoluzionario classista, in molti di questi documenti potremmo trovare più di una ingenuità, carenze ed anche non pochi “errori teorici”. Certamente non condivideremmo, oggi, la loro impostazione, anzi, nel caso che delle organizzazioni politiche ne redigessero di simili noi non mancheremmo a farne una puntuale ed aspra critica. Tuttavia li inseriamo a pieno titolo nell’ “Archivio della Sinistra” perché li consideriamo come dei punti di riferimento che segnano un tracciato, il cammino della evoluzione dell’antimilitarismo di classe che, nel corso degli anni ed alla luce delle lotte proletarie, differenziandosi dagli indirizzi e dai programmi di repubblicani, anarchici o anarco-sindacalisti, raggiungerà una impostazione sempre più netta abilitando, di fatto, il solo Partito Socialista a rappresentare l’autentica impostazione rivoluzionaria di classe dell’antimilitarismo militante. D’altra parte non bisogna dimenticare nemmeno la coerente e tenace battaglia all’interno del PSI, condotta dall’ala rivoluzionaria del partito, contro le deviazioni del riformismo classico e gli atteggiamenti dichiaratamente collaborazionisti e patriottardi della sua ala destra.

Questa percorso evolutivo, che passa attraverso l’espulsione dal Partito dei rinnegati del 1912, con lineare sviluppo e senza traumi al suo interno, giunge, nel 1914, a quella definitiva sistemazione della tattica e dei principi con lo sgombrare il campo da un rivoluzionarismo più convulsionario che scientifico tanto che, messo di fronte alla prova dei fatti, capitolò come già avevano capitolato tutti gli altri sedicenti rivoluzionari.

La riprova della giustezza dell’indirizzo, teorico e pratico, impresso dai giovani socialisti rivoluzionari alla questione antimilitarista non poté purtroppo giungere dal trionfo del proletariato d’Italia, quella riprova che invece sancita dalla rivoluzione dell’Ottobre russo, che ebbe esito positivo solo perché Lenin aveva tenuto ben saldo il timone del partito anche sulla coerente rotta dell’antimilitarismo di classe.

La Sinistra rivoluzionaria del Partito Socialista Italiano, come noi abbiamo più volte rammentato, senza avere mai avuto contatti con Lenin, era giunta alle medesime ed identiche conclusioni marxiste.
 
 
 
 
 
 


[Manifesto]

[Sequestrato a Genova e spedito al Ministero dell’Interno con Relazione n. 265 del 6 settembre 1904]
 
 

    AI PARTENTI
    noi diciamo: la legge militare vi strappa all’affetto della famiglia ed all’attività del lavoro, per fare di voi degli umilissimi schiavi al servizio della classe borghese. In voi, però, compagni ed amici, rimarrà intatta, anche sotto la casacca del militare, la coscienza dei doveri che avete verso i vostri fratelli che rimangono al duro lavoro dei campi e dell’officina. Ricordate che la classe lavoratrice per migliorare le proprie condizioni di esistenza ha bisogno di combattere ogni giorno contro i privilegi dei padroni. Ebbene: allorché il governo v’invierà sui luoghi di sciopero dove i vostri fratelli cercano di strappare la vittoria alla voracità insaziabile della borghesia, ricordate che commettereste un fratricidio sparando sugli scioperanti.
    La disciplina militare non deve farvi dimenticare che siete dei lavoratori e perciò interessati alla lotta che combattono gli scioperanti. Dopo il servizio militare sarete costretti dalle dure necessità della vita a ritornare anche voi al lavoro inumano di ogni giorno e pensate che se i vostri atti inconsulti avranno provocata la vittoria della borghesia, anche voi ne soffrireste le conseguenze.

    COSCRITTI!
    NON SPARATE: il vostro nemico non è il Proletariato al quale appartenete, ma bensì la classe borghese, contro la quale i lavoratori – siano anche momentaneamente vestiti della divisa militare – debbono uniti combattere.

    AMICI !
    Questi sentimenti di solidarietà voi non li dovete nutrire solamente per gli operai italiani, ma anche per quelli di altri paesi, se domani foste chiamati a contribuire al macello di un popolo contro l’altro. La guerra, sia di conquista che di difesa, non apporterà al proletariato di qualunque nazione miglioramento di sorta, ma servirà alla classe borghese per giustificare l’enorme sperpero di denaro pubblico e tenere avvinta tutta la classe proletaria al dominio proprio.

    GIOVANI LAVORATORI!
    Noi nutriamo sicura fiducia che la morale che vi sarà predicata appena entrati in caserma dagli ufficiali dell’esercito, non varrà a farvi dimenticare l’affetto per le vostre famiglie e i sentimenti di solidarietà per i vostri compagni di lavoro. Voi avete il dovere di non sparare mai, qualunque sia il pretesto avanzato dai vostri superiori.

    NON VI RENDETE FRATRICIDI!
    Non date alla classe borghese la soddisfazione di vedere i lavoratori soldati uccidere i propri fratelli. Macchiandovi di un tale delitto, quando tornereste nei vostri paesi, nelle vostre famiglie, fra i vostri amici, sentireste l’animo dilaniato dal rimorso, senza potere in nessun modo riparare l’infamia commessa.
    Pensate a questo, o amici e compagni; e mantenete salda la vostra coscienza di classe, malgrado ogni imposizione che vi possa venire impartita dai vostri superiori.

    ABBASSO LE ARMI FRATRICIDE!
    VIVA LA SOLIDARIETA DEI LAVORATORI!

(I Giovani Socialisti)

 
 
 
 
 


[Volantino]

[Sequestrato dalla Prefettura di Firenze ed inviato al Ministero dell’Interno con Relazione n. 339 del 27 marzo 1905]
 
 

    LAVORATORI!
    I generi di prima necessità sono saliti in Italia ad un costo inaccessibile. Dopo 12 o 14 ore di lavoro il proletario lacero, macilento, non riesce a procurarsi ed a procurare alla famiglia il pane quotidiano e l’alloggio strettamente necessario.
    Il vigente mostruoso sistema delle tasse è causa di questa miseria spaventosa, di questo avvilimento delle classi lavoratrici.
    E il pretesto mediante il quale gli speculatori, gli affaristi, le cricche parassitarie succhiano il fiore dell’energia proletaria è il MILITARISMO.
    L’enorme superstizione degli eserciti grava per opera di quegli sfruttatori sulla vita italiana. Le spese militari distruggono le fonti medesime del benessere e della salute proletaria, moltiplicando la ricchezza di poche decine di banchieri, di capitalisti imprenditori, di appaltatori di corazze, di fucili e di nuove divise gallonate.

    LAVORATORI!
    Le spese per l’esercito sono la vostra rovina.
    Voi dovete insegnare ai vostri figlioli, senza ritardo alcuno, questa sacra verità economica e sociale.
    Voi dovete stringervi attorno alla bandiera sulla quale sta scritto: ABOLIZIONE DEI BILANCI MILITARI.
    Il principio di una nuova e libera vita civile potrà solo avvenire quando mercé l’opera concorde di ogni classe che lavora e soffre, l’immane piovra divoratrice del militarismo sarà colpita a morte.

    LAVORATORI!
    L’esercito dissangua il proletariato.
    La caserma vizia e corrompe il fiore della gioventù.
    Il soldato cessa di essere cittadino, uomo libero, operaio sano e fecondo. Egli diventa servo di una casta, strumento delle più vili e feroci vendette di classe.

    LAVORATORI!
    Sono pochi oggi i giovani che sotto la divisa militare hanno fede e volontà di emancipazione sociale.
    Preparate voi i vostri figlioli, i vostri parenti, i vostri amici ad accrescere presto la legione degli uomini consapevoli, ai quali la caserma, la disciplina di corpo ed il ministro della guerra non faranno paura.
 
 
 
 
 
 


Contro la Guerra

Opuscolo a firma della Direzione Nazionale del PSI

[Edito a Milano nell’autunno 1911]
 
 

    PERCHÉ PARLIAMO
    Noi intendiamo esporre con tutta chiarezza, contro le opposte correnti degli interessi politici e di classe, contro le deviazioni e le infatuazioni abilmente suscitate ed alimentate tra le folle, le ragioni del nostro dissenso, nulla tacendo, per calcolo di opportunità, di quel che pensiamo, nulla aggiungendo, per impeto di passione, alla precisa sincerità del nostro pensiero.
    Né ci fermiamo o ci volgiamo a numerar quanti ci seguano. Sappiamo che abbiam molti con noi, aperti assenzienti o nel segreto dell’animo. Ma fossimo soli, parleremmo egualmente, perché questo è un di quei casi in cui il Socialismo ritrova e riprende la sua funzione di agitatore e seminatore di idee, la sua opera educatrice di partito d’avvenire che leva alta la sua fede, al di sopra della realtà circostante e delle utilità pratiche e immediate dell’ora.
    I frutti non saran pronti e tangibili, i fatti si “compiono” in onta a noi. È vero. Ma saremmo noi nati mai, ma dove saremmo oggi se fin dai primordi avessimo misurata la utilità dell’opera nostra dai successi concreti e dalla possibilità di impedire d’un colpo la realtà che si adempie o di distruggere i “fatti compiuti”?
    D’altra parte, bandire continuamente tutta una predicazione contraria alle imprese militari e coloniali, e tacere proprio nell’ora in cui la guerra scoppia e trasporta nel suo vortice psicologico tanta parte del paese – per un misto confuso di tradizioni risorgenti, di istinti bellicosi, di sedimenti ferini tornanti a galla, di cupide illusioni utilitarie – sarebbe assurdo come l’atto di chi s’esercita tutto l’anno nella scherma e rinfodera la spada nell’ora del combattimento.
    La “guerra alla guerra” non si fa solo in tempo di pace: essa si fa anche tra il fragor delle armi; essa durerà e fruttificherà quando quel fragore sarà cessato.

    SENTIMENTO NAZIONALE E INTERNAZIONALE
    Ed anzitutto affermiamo che se il socialismo nacque predicando la solidarietà internazionale di tutti i lavoratori contro il comune nemico – il sistema capitalistico – ciò non esclude e non nega il sano sentimento della patria, che parla, con la voce stessa della natura, al cuore del lavoratore emigrante; il retto sentimento nazionale, che lega anche il proletariato alle sorti del suo paese col vincolo d’interessi comuni: che tanto più lo lega, quanto più esso, nella sua nazione, acquista di forza, di peso, di diritti, di valore.
    Se “patria” non dev’essere astrazione e parola – cioè menzogna – ma fatto, fatto di uomini conviventi sotto un medesimo cielo e con un tanto di leggi, di vantaggi, di tradizioni comuni, noi possiamo ben dire con orgoglio che a formare la nuova patria italiana, a mutar le torme di servi in cittadini, i bruti in uomini capaci d’intendere le glorie e le bellezze della nostra terra, il partito socialista ha fatto opera costante e pugnace, mentre i partiti che più si vantan patriottici lavoravano ad escludere dalla patria la parte maggiore de’ suoi figli.
    Esso è che ha procacciato – mentre altri glielo contendevano – pane e leggi a quel ch’era gregge diseredato; esso è che fece sentire, coi fatti e non con vana retorica, come accanto alla lotta di classe che fa il lavoratore nemico del capitalismo e fratello ai lavoratori di tutto il mondo, v’è contemporaneamente una solidarietà di interessi e di sentimenti fra il proletariato e l’organismo etnico e nazionale cui esso appartiene – solidarietà che si rafforza quanto più questo organismo, sotto la pressione delle classi operaie, si evolve in senso democratico e moderno.
    Noi vogliam dunque che il proletariato sia solidale con la nazione in tutto ciò che giova allo sviluppo civile, e su quel terreno ove gli interessi e gli ideali delle classi lavoratrici coincidono – d’altronde – con quelli della maggioranza dei cittadini: vogliam che si opponga invece e contrasti a tutto ciò che, giovando ed afforzando i gruppi privilegiati e gli interessi particolari, ritarda e ostacola l’avvenire.
    “Contro la patria di pochi, per formar la patria di molti”: così lungi dalle negazioni dottrinali degli uni e avverso le pregiudiziali patriottarde degli altri, noi insegnamo al lavoratore a sentirsi e ad essere ad un tempo cittadino del mondo insieme con tutti i suoi fratelli contro l’internazionale capitalista, e cittadino sempre più valido e libero nella sua patria, componendo in alta armonia i vari suoi doveri e interessi ed affetti.

    FORZA REALE E FORZA FITTIZIA
    Conforme a questo nostro concetto di patria, sta il nostro pensiero – in antitesi con pensiero nazionalista e borghese – su quel che sia e come debba intendersi la forza vera delle nazioni.
    La forza delle armi – la quale s’esercita poi in dispendiose imprese guerresche – non solo non costituisce la forza vera della patria, ma va a detrimento della sua forza effettiva.
    Quante civili riforme si sarebbero compiute negli ultimi decenni, con i miliardi spesi nelle armi, seguendo una politica di dignitoso raccoglimento e di intenso lavoro che avrebbe posto l’Italia rapidamente in prima linea fra le nazioni più progredite e l’avrebbe resa rispettata fra le genti! Fu detto da alcuno, e da parti diverse, che le manifestazioni della forza militare d’Italia giovano al proletariato, il quale, quando emigra, è meno spregiato e maltrattato d’un tempo dai lavoratori d’altri paesi.
    V’è qui un enorme sofisma che mal si cela sotto la speciosa semplicità dell’argomento. Se il nostro proletariato gode poco rispetto all’estero, ciò dipende soprattutto da alcune sue deficienze reali, di coltura, di decenza, di fierezza, che non bastano a compensare agli occhi del mondo altre sue doti eccellenti, e che sono per l’appunto l’effetto ed il segno del basso sviluppo civile d’Italia, e della ignominiosa trascuratezza delle nostre classi dirigenti verso i bisogni più elementari del popolo. Quel che manca al proletariato nostro, in fatto di scuola, di educazione, di igiene: quello che lo rende mal considerato all’estero, è precisamente ciò che l’Italia doveva fare e non fece, destinando alla forza esteriore e fittizia delle armi quel che dovea dedicare alla forza intima e vera, alla coltivazione della pianta-uomo.
    E v’è chi dice che la imponenza delle nostre navi e il grido di qualche impresa vittoriosa – navi ed imprese fatte a scapito della civiltà, cioè della forza effettiva del popolo italiano – procaccerà al nostro emigrante quel rispetto ch’egli non sa conciliarsi con l’istruzione, con la dignità personale, con la fierezza di uomo che in patria sua è cittadino!

    LA NOSTRA AVVERSIONE ALLA GUERRA
    Noi non dividiamo la illogica utopia dei pacifisti, che combattono la guerra e accettano il sistema sociale e morale di sfruttamento, di concorrenza, di ingiustizie di cui la guerra è conseguente fenomeno.
    Noi siamo contro la guerra per lo sdegno e l’orrore ch’essa deve suscitare in uomini che sian “civili” – non barbari travestiti da europei del XX secolo, o fatui incoscienti che della guerra ammirano e esaltano la bellezza estetica da lontano. Noi ci onoriamo di esecrare e temere l’immane sciagura della guerra, turbine tremendo solcato da lampi di virtù e d’eroismo la cui bellezza non basta a riscattarne l’orrore. La guerra è, oggidì, feroce non solo, ma assurda. I popoli non si diano. E neppur le classi dirigenti delle diverse nazioni, sì pronte a stringer patti internazionali – talvolta ben poco patriottici! – sul terreno delle banche e degli affari. Bensì i gruppi capitalistici, per le necessità anormali e particolari della mal disciplinata produzione borghese, hanno talvolta ragioni di concorrenza e di conflitto, per le quali trascinano con criminosa spensieratezza le nazioni alla guerra.
    Dalla guerra – affermano – vengono poi grandi vantaggi alla ricchezza della nazione vittoriosa, e alla civiltà. Vantaggi conquistati a prezzo di sperperi incalcolabili! V’è qui, caratteristica, la tendenza della costituzione borghese, a distruggere se stessa. Un sistema, fondato su un assurdo iniquo, vivendo ed agendo, logora e ferisce sé medesimo.
    Così in economia, così in morale. Tutto l’insegnamento teorico del nostro passato è contro la guerra. Un recente passato pieno di gloria ci trasmise alcuni grandi princìpi, che formano patrimonio comune della civiltà contemporanea: salvoché la morale contraddittoria e suicida del mondo borghese, confessa col fatto di aver mentito quando accettava e insegnava, a parole, questi princìpi di umanità e di civiltà: noi crediamo in essi davvero, e vogliamo che trionfino.
    Del resto, è un destino naturale della borghesia di subordinare i princìpi morali al suo particolare interesse di classe. Come smentisce quotidianamente il concetto di equità e di fratellanza col suo regime di concorrenza e di cannibalismo economico, così sconfessa il diritto di proprietà, intendendolo ed applicandolo solo per sé medesima, pronta ad invadere la proprietà altrui, ad usurpar ogni giorno la proprietà del lavoro proletario: così deforma il principio di “patria”, concependolo ristrettamente alla patria sua, in odio e in danno, quando le sia possibile, della patria altrui. Ebbene: noi raccogliam questi princìpi universali di diritto e di umanità e ne facciam non motto mendace, ma programma di vita, programma che il proletariato attuerà nei fatti, sotto la santa bandiera del lavoro che non ha interessi particolari, che non conosce odi di stirpe, che abbraccia ed eguaglia gli uomini tutti.

    PROPAGANDA DI VILTÁ
    Un solo aspetto ha la guerra – un solo fine – che la mobiliti; il sacrificio supremo della vita, che l’individuo offre alla collettività di cui fa parte. I nostri seguaci, gli operai dei campi e delle officine, conoscon bene questa milizia, essi che esercitano coraggio ed altruismo nelle dure e perigliose battaglie del quotidiano lavoro.
    E non sarà certo la nostra dottrina e l’azione nostra, tutta inspirata all’abnegazione dell’uno verso la società – di contro alle teorie individualiste esaltanti il pugnace egoismo di ciascuno contro tutti – che disconosca ed abbassi quanto v’ha di bello e di eroico nel sacrificio di chi muore perché viva la patria! Siamo noi che, tra gli schermi freddi degli individualisti, insegniamo che la civiltà s’innalza quanto maggiore è il sacrificio dell’uno alla collettività, quanto cioè ciascuno più “pone in comune” l’opera sua, anziché farne arma per sé, contro gli altri. Siam noi, che predichiamo la solidarietà di tutti verso tutti, e di ognuno verso l’ente sociale: solidarietà di cui il dono della vita è il dono più sublime.
    Pensare sempre, non a sé soli, ma agli altri, al tutto in cui rientra il nostro io: tendere a migliorare il proprio stato, non indipendentemente dagli altri o contro gli altri – come suona, o borghesi, la vostra dottrina – ma insieme con gli altri: coordinare e subordinare il nostro interesse a quello dei nostri simili; aver insomma presente di continuo un ideale, cioè il pensiero e il desiderio d’un bene che trascende il nostro essere, e si estende ai nostri simili e a quelli che verran dopo di noi: questa è la nostra predicazione. E se il popolo non sempre s’intende, è perché ha l’eredità dei vostri esempi e della vostra morale nel sangue.

    È LA PATRIA CH’È IN GIOCO? LA GUERRA COLONIALE
    Ma (ed è qui che s’affaccia il fine della guerra) è la “patria” ch’è in gioco nelle guerre coloniali? È quella “patria che può essere denominatore comune a tutti i partiti e le classi della nazione, per la quale voi possiate sinceramente richiedere che tutti vi diano il braccio ed il sangue, come nel caso in cui un pericolo minacciasse l’integrità e la libertà nazionale?
    V’è una ragione nobilmente sentimentale, che fa insorgere, con la rapida intuizione dell’istinto, il popolo contro le imprese coloniali che porta l’armi e il dominio in terra altrui.
    Stolto chi deride questo sentimento, che si riallaccia alle più dure tradizioni di quel moto ideale per cui noi risorgemmo a indipendenza di nazione. Garibaldi – il simbolo luminoso del sano patriottismo – è il più alto eroe della patria, perché è l’eroe di tutte le patrie, cioè il vindice di tutti i diritti nazionali. Chi può negare il valore morale e storico di questo sentimento, in Italia? Questa tradizione vive nella parte migliore dell’anima popolare, come un fiore superstite della più bella poesia del nostro Risorgimento, quando l’Italia, combattendo pel suo diritto, non per cupidigie coloniali, parve veramente esser rinata per sé e per il mondo, affermando e sancendo coi suoi martiri e i suoi eroi i princìpi più universali di giustizia e di libertà.
    – Perché invader terre altrui – dice questa tradizione – se lottammo 50 anni per liberare le nostre? –
    Quanta terra, entro i confini di casa nostra, da conquistare alla civiltà, da conquistare all’Italia: non a quella dei privilegiati, ma a quella del popolo! Perché cercar altrove quella espansione di lavoro e di progresso che troverebbero tanto terreno su cui esercitarsi qui in patria?

    IL VERO PERCHÉ - IL DIVERSIVO DELLA LOTTA DI CLASSE
    Il perché è abbastanza chiaro perché il popolo, là dov’è più accorto, lo intuisca prontamente. E il suo istinto coincide con le dottrine degli scienziati, in una conclusione comune.
    Sul terreno di casa nostra, la borghesia, quanto più si sviluppa, tanto più è stretta dalla pressione del proletariato, che delle progressive conquiste reclama una parte maggiore. Trasportandosi in arena più larga, facendo balenare miraggi di facili guadagni che smorzano la combattività delle falangi lavoratrici, la borghesia tenta eludere la pressione delle forze operaie organizzate. Per essa, la espansione coloniale è il diversivo della lotta di classe. I lavoratori che non sian miopi od illusi, sentono che la borghesia va a Tripoli e li trascina a Tripoli non per sé e per loro – cioè per l’Italia tutta quanta – ma per sé, contro di loro.
    E qui è il nodo a cui s’incontrano le forze della nazionalità e della classe, e s’intrecciano e s’avviluppano confondendo e smarrendo le menti anche di uomini egregi di parte nostra, anche di folle che normalmente propendono per il socialismo.
    Un nobile ma erroneo sentimento di patria, concepita come astrazione metafisica anziché come realtà viva, fa prevalere in alcuni, quando la bandiera d’Italia si leva, la voce di nazione su quella di classe. Credono che sia l’Italia che muove Tripoli, e non vedono che è la borghesia, ammantata nel vessillo della patria. Del pari, per un’ingenua illusione ottimista, v’è in una parte del popolo la convinzione che a Tripoli, quel feroce antagonismo di classe che i proletari sperimentano sì crudelmente in patria, si attenuerà o cesserà. Le folle specialmente del Mezzogiorno – quelle appunto che qui son più fieramente soggette – plaudono all’impresa come se la colonia fosse conquistata, non per i capitalisti, ma per loro, per la proprietà collettiva del proletariato italiano!
    Eppur la esperienza delle altre nazioni ci avverte che non solo le colonie non arricchiscono il popolo, ma non giovano se non a gruppi particolari e ristretti di speculatori entro la stessa classe capitalista. Rendono milioni a pochi: costano milioni a tutti. Ed è solo per quell’abile equivoco con cui le classi od i ceti anche transitoriamente dominanti sanno identificar se stessi con la nazione, che l’opinione pubblica, deviata, gode delle conquiste coloniali come se fossero beneficio comune!

    DALLA RAZZA ALLA CLASSE
    Né è da dimenticare un altro aspetto della avversione nostra per le imprese coloniali. Esse portan seco di conseguenza inevitabile – col sacrificio dolorosissimo di giovani vite che non muoiono per la patria ma per una classe – le repressioni e le stragi in cui si macchia e si smentisce la superiore umanità di popoli civili. Schernisca chi vuole, come sentimentalismi ridicoli, la pietà per le vittime anche di razze diverse ed inferiori. Noi siamo orgogliosi di provarla, siam lieti quando la sente il popolo: anche perché in questa simpatia per gli uccisi di tutte le stirpi non v’è solo un alto sentimento di vasta umanità; v’è anche un senso quasi istintivo di difesa di classe soggetta, come nella ostentata freddezza della borghesia di fronte alle stragi delle razze conquistate, v’è un senso di prepotenza di classe dominante.
    II popolo intende che dalla razza alla classe, il senso di ferocia che schiaccia e distrugge, è sempre il medesimo. I proletari vestiti da soldati che, eccitati dal furor della guerra e infatuati di un orgoglio di stirpe abilmente alimentato, parlano degli Arabi “cani, sudici, bestie”, non considerano che, in Italia, le classi dominanti parlano – o pensano – identicamente altrettanto dei lavoratori italiani, li schiacciano quando possono, negano loro mercedi e voto e leggi e “patria”!
    Quei proletari vestiti da soldati e diretti alla morte, che si videro circondati, carezzati, regalati, plauditi da folle di studenti e di signori, quante volte se li eran visti accanto, fraterni e benevoli, o semplicemente non ostili, nei giorni della vita comune, nelle lotte del lavoro, nelle battaglie dell’urna? O non se li eran sempre trovati contro, in prima linea o dietro prudenti trincee di gendarmi, nel dì degli scioperi, nell’ora delle elezioni?
    La falsità – sia pur non consaputa – di questa “unità” patriottica in cui la borghesia tenta fondere e placare classi, partiti e dissidi, appare subito a chi consideri la eccezionalità di tali sentimenti nelle classi dominanti. Quante voglion oggi che il proletariato sia solidale con lei; ma non è, essa, mai solidale con lui, nelle ore normali della vita!
    Noi abbiam visto i giovani delle classi agiate accompagnar plaudendo i loro “fratelli” soldati alle stazioni donde partivan per la guerra. Chi si è mai accorto che i figli delle classi agiate avessero per essi qualche sentimento fraterno? In tempo di pace, ne vivon distanti, come se fossero d’una altra patria, se ne appartano con orgoglio, per lo meno con indifferenza. Li combattono nelle lotte economiche e politiche, quando viene il caso. Normalmente ne ignorano l’esistenza. La avvertono solo quando vanno a morire. Riconoscenza breve come fuoco di paglia. A questi giovani popolani, se torneranno in Italia, la borghesia negherà suffragio e pensioni, contenderà mercedi e conquiste; e la gioventù degli studi, se non sarà in prima linea con la reazione, si disinteresserà completamente dei “ fratelli” di oggi.

    IL NOSTRO DOVERE
    In quest’ora i socialisti hanno un dovere supremo. Essi potranno, a mezzo delle loro rappresentanze, lottare per quei provvedimenti legislativi che attenuino per il popolo le conseguenze di questa avventura; potranno mettere a prova il patriottismo delle classi dirigenti, proponendo una tassa di guerra che permetta ad esse di dimostrare, in misura adeguata ai mezzi, il loro sviscerato amor per l’Italia; potranno saggiare, con la richiesta di democratiche riforme, la sincerità dell’affetto della borghesia verso quei proletari che oggi si battono e muoiono in Africa. Ma, soprattutto, nella Camera e fuori, nell’ora fuggente e tumultuosa dell’infatuazione guerresca e nell’ora pacata in cui, dopo l’ebbrezza, tornerà la ragione, i socialisti dovranno far suonare e penetrare nelle coscienze la loro parola, ch’è parola di civiltà.
    Risorga l’Italia per ridestare energie de’ suoi figli! Facciano i lavoratori la loro patria, ricca di tutte le sane glorie passate, belle di tutte le speranze dell’avvenire. Concordi coi loro fratelli di tutto il mondo, moltiplichino i lavoratori l’opera loro di battaglia e di educazione, acquistino forza di nuove schiere e di rinnovata coscienza, di ulteriori conquiste e di interiori progressi! Qui è la patria: quella che oggi è matrigna ai più, un dì sarà madre equa per tutti i suoi figli. Qui è la terra che avrà messi e fiori per tutti, quanto più cresce la giustizia sociale e l’idea di patria va attuandosi di fatto. Qui, col vostro avvenire, è la grandezza vera e il destino di Roma eterna; qui lottate, qui vincete, per la conquista angusta del regno del lavoro, per la colonia felice d’Italia restituita al suo popolo, assurta prima in civiltà fra le genti!
 
 
 
 
 
 


Manifesto

della Federazione Giovanile Socialista

[Ministero dell’Interno, DGPS, Uff. Ris., 1911-15, b. 45, fasc. 111)]
 
 

GIOVANI LAVORATORI CHIAMATI ALLE ARMI ASCOLTATE!

    Giovani lavoratori che siete chiamati ad entrare nella caserma, ascoltate!
    Fra pochi giorni voi dovrete abbandonare la vostra famiglia, la fidanzata, gli amici, dovrete andar lontani dalla città o dal paese ove siete nati, lontano dal campo, dall’officina, dalla miniera ove avete fino ad oggi sudato, e comincerà per voi una vita nuova.
    Qual vita! Dopo avervi imposto sul dorso un ridicolo vestito ed in mano un’arme, degli uomini che voi non conoscete, ma che hanno molti galloni, vi comanderanno come si comanda a degli schiavi: Sono i superiori, che hanno diritto di vita e di morte sui loro sottoposti, i superiori che hanno sempre ragione... specialmente quando hanno torto.
    Essi v’insegneranno ad usare l’arme consegnatavi perché sappiate uccidere i vostri fratelli e cercheranno sopra tutto di piegarvi alla obbedienza meccanica, alla disciplina cieca, abituandovi ad agire secondo il comando ricevuto, senza chiedere mai se è giusto od iniquo, se è una buona azione oppure un delitto.
    E – per legittimare questo abbrutimento bestiale – vi ripeteranno che ciò è necessario pel bene inseparabile del re e della patria.

    Giovani lavoratori!
    Vi siete mai chiesti cosa significano questi due nomi? Avete mai pensato se il re e la patria valgono i vostri anni migliori e la vostra esistenza? Lo conoscete voi il re? E la patria sapete che cosa è?
    No, voi non conoscete il re, che vive lontano da voi; ma sapete che egli si prende 16 milioni all’anno per impersonare lo Stato che difende i vostri padroni, che vi arresta e vi processa quando fate sciopero, che vi fucila se gridate un po’ più forte la vostra fame.
    In quanto alla patria non vi è forse noto che cosa si nasconde sotto questa seducente parola? La patria non esiste per i lavoratori.
    La patria è per voi un nome vano, perché non rappresenta né un bene materiale, né un bene intellettuale, né un patrimonio di affetti in cui possiate riposare.
    La casa che abita la vostra famiglia non appartiene e non apparterrà a voi; il campo, l’officina, la miniera ove lavorate oggi ed ove tornerete fra due o tre anni, quando avrete finito il servizio militare, non è roba vostra ed il frutto del vostro lavoro se lo appropria il padrone: voi non avete istruzione per apprezzare i tesori d’arte e di scienza che la patria contiene, voi non potete neppur parlare la lingua nazionale perché quando avreste dovuto andare alla scuola per educarvi l’avidità capitalista vi ha costretto a piegare le ancor tenere membra alla fatica, per guadagnarvi il pane in concorrenza contro vostro padre e contro vostra madre.
    Potrete voi almeno raffigurare la patria nella vostra famiglia, nel luogo dove siete nati? No, perché l’ordinamento capitalistico della società ha distrutto le basi tradizionali della famiglia, e voi siete costretti ad abbandonare bene spesso la terra natia per recarvi là dove vi caccia la necessità della vita.
    Che cosa è mai dunque la patria per voi, giovani lavoratori; e perché dovreste difenderla?
    Difendere la patria, in queste condizioni, non significa forse difendere il bene dei vostri padroni, il bene che è stato rubato a voi?
    Pensateci, quando in nome del re e della patria vi comanderanno di andare contro i vostri fratelli di altre nazioni, lavoratori come voi, sfruttati come voi, per ucciderli e per farvi uccidere, nelle guerre suscitate per interessi che non sono i vostri; pensateci sopra tutto quando vi metteranno di fronte ai vostri compagni di fatica d’ieri e di domani, agli operai in sciopero od in sommossa per il loro diritto!
    Risvegliate allora nel vostro cuore i migliori sentimenti, e se qualche delinquente gallonato vi comanderà il fuoco, non dimenticate la vostra origine, non dimenticate che continuate ad appartenere alla classe operaia anche se vi hanno imposta la casacca soldatesca, non dimenticate che vi rendereste indegni del bacio materno assassinando i vostri compagni.

    Giovani lavoratori!
    Voi non vi macchierete mai del sangue fraterno! Non sparate!
    Davanti al popolo, o compagni, che la borghesia chiama a difendere il suo latrocinio, davanti al popolo che reclama il suo diritto, ricusate di obbedire al comando omicida, levate in alto il calcio del fucile, come pegno di solidarietà! ...
    Ma se un giorno i gallonati guardaciurme vorranno imporvi l’assassinio, spingendovi alla guerra infame, alla battaglia caina in nome della patria, sappiate risponder loro che il proletariato cosciente non può riconoscere che una sola grande patria: la sua classe – una sola battaglia degna di essere combattuta: la rivoluzione sociale – una sola guerra giusta: la guerra civile, che lo liberi dalla secolare oppressione.
    Non siate più mandrie che si lasciano condurre passivamente al macello! Imparate a servirvi per la causa vostra dell’arme che vi mettono nelle mani! Siate risoluti a non dare più la vostra vita per il comodo dei vostri sfruttatori, ma a spenderla per voi, per la vostra redenzione!
    I tempi nuovi verranno, se voi lo vorrete, o giovani lavoratori che siete chiamati ad entrare nella caserma!
    Guardate all’avvenire, che è nelle vostre mani! Abbasso il militarismo!
    Viva la Rivoluzione!

(II Comitato Centrale della Federazione Provinciale Socialista)

 
 
 
 
 


[Volantino]

[Trasmesso al Ministero dell’Interno dal Prefetto di Firenze, il 12 gennaio 1912]
 
 

GUERRA ALLA GUERRA

    Lavoratori!
    In questo momento il governo italiano stà preparando una spedizione militare in Tripolitania, con il pretesto di portare in quella regione la civiltà.
    Nessuna ragione può scusare tale atto di brigantaggio determinato soltanto da loschi interessi capitalistici della classe dominante. Invano si cerca mascherare questo furto con il manto della civiltà, di quella civiltà che cerchereste invano in questa Italia monarchica, piena di miseria e di vergogna.
    Per effettuare questa spedizione saranno a voi chiesti immensi sacrifici, giovani energie verranno strappate alle vostre famiglie per essere inviate ad uccidere e farsi uccidere, in nome della prepotenza, nell’interesse della borghesia sfruttatrice.

    Lavoratori!
    Il governo conta sul vostro assenteismo per cimentarsi nelle sue pazze imprese coloniali, delle quali voi subirete, senza alcun beneficio, ogni dannosa conseguenza.
    Dimostrate a questo governo ladro ed infame e a questa borghesia avida di danaro e di sangue, che siete stanchi di prestarvi ai loro desideri, ai loro scellerati propositi. Sappiate opporvi con ogni mezzo alle loro pretese e non indietreggiate mai, anche se dovreste ricorrere alla violenza. Dite chiaramente al succhionismo nazionalista guerrafondaio che se osasse spingervi ad una guerra, voi combattereste non per conquistare nuovi possessi alla monarchia, ma per conquistarvi un avvenire migliore di libertà e di giustizia.

(La Gioventù Socialista)


[Il volantino era trasmesso al Ministero dell’Interno accompagnato dal seguente rapporto: «Il negoziante fornaio Benassai Emilio, con panificio in Via Guiccirrdini N°. 14, avendo notato che nel fondo di buste per pane e paste commesse a certo Spaziani Giuseppe da Firenze, erano stati collocati vari manifestini incitanti il popolo ad opporsi anche con la violenza alla guerra di Tripoli, ne dava il 26 volgente avviso al Commissariato di Santo Spirito, che subito provvide al seguestro di tali manifestini, in numero di 637. Essi sono stampati alla macchia intitolati: “guerra alla guerra”. Incominciano con le parole “lavoratori! In questo momento il governo italiano sta preparando una spedizione militare in Tripoli” …. E termina con le altre: “ma per conquistarvi un avvenire migliore di libertà; La Gioventù Socialista“. E poiché i manifestini stessi erano posti in modo che non solo potevano essere letti, ma tolti e distribuiti e probabilmente vi erano stati collocati a scopo di propaganda, furono denunziati all’Autorità Giudiziaria per istigazione a delinquere contro le istituzioni, lo Spaziani, nonché Parrini Oreste fu Giovanni, da Firenze, che aveva dato i manifestini allo Spaziani, ed il custode della locale Camera del Lavoro Lorenzini Alessandro, da cui il Parrini, a sua volta, ebbe a riceverli. Allego un Esemplare dei manifestini. Il Prefetto»].