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"COMUNISMO" n. 62 - giugno 2007
La “finanza creativa” del terzo millennio.
Antonio Graziano ci ha lasciato.
IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA [RG97]: (III - continua del numero scorso) Dall’Indipendenza alla Secessione: Primo sviluppo industriale - L’associazionismo operaio - La condizione operaia (continua).
L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA [RG97] (VIII - continua dal numero scorso) Il PSI dalla neutralità italiana al Convegno di Zimmerwald: Ambiguità neutraliste - Lenin e i socialisti italiani - La Conferenza di Lugano - Sul piano inclinato della collaborazione di classe - Opposizione alla guerra nel partito e nelle piazze - L’ultimo mese di pace - Partiti socialisti al servizio della propaganda di guerra - Incontri preparatori - Zimmerwald - Il Manifesto
Ripercussioni in Italia (Continua al prossimo numero).
LA QUESTIONE EBRAICA OGGI [RG94-95]  (III) Un’identità per la borghesia tedesca - Il Focolare nazionale.
Dall’Archivio della Sinistra:
   - La guerra e la socialdemocrazia russa (Pubblicato sul n. 33 del Sozialdemokrat, il 1° novembre 1914).
   - Alla gioventù socialista di tutti i paesi (Pubblicato dalla rivista trimestrale Jugend-Internationale del settembre 1915)..

 
 
 
 
 
 
 
 



La “finanza creativa” del terzo millennio

Nel mondo, si legge da fonti ufficiali, al marzo 2006 erano disponibili 4,9 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari di riserve, pari più meno allo 11% dell’economia mondiale.

Si parla di “riserve”, cioè di capitali che non sono nel processo produttivo, che non concorrono immediatamente alla “ricchezza delle nazioni”: per semplificare lo potremmo chiamare capitale finanziario, che può entrare in gioco solo nel meccanismo della speculazione. È denaro immediatamente disponibile, una massa che non compare direttamente nei bilanci degli Stati, che non è correlata alla crescita del prodotto interno, che non ha a che fare con gli indicatori dell’economia capitalistica “reale”. È denaro da investire da qualche parte, fermo nella tesaurizzazione. Per lo più non è materializzato in oro o altri preziosi ma è un tesoro “virtuale”, non ha corrispettivo in alti tipi di riserve, è definito da “scritture” su conti, quasi ormai soltanto elettroniche. Non che questo faccia alcuna differenza rispetto al segno monetario cartaceo.

Circa quaranta anni fa, la rendita e i profitti provenienti dalla estrazione del petrolio, allora chiamati “petrodollari” per indicarne la provenienza, una massa di capitale finanziario all’epoca enorme, ma nemmeno paragonabile ai volumi dell’oggi, manovrati in modo spregiudicato dai banchieri che li detenevano in custodia, provocarono grandi sconquassi sui mercati finanziari del Vecchio Mondo. Chi ha memoria, anche se non si occupa della materia, ricorderà le crisi a ripetizione, prima che questi capitali fossero “riassorbiti e disciplinati” nel circuito finanziario internazionale.

Il terzo millennio dell’era cristiana si è aperto con lo stesso genere di problema, di molto moltiplicato viste le cifre in gioco, e l’importanza dei giocatori a questo tavolo forsennato.

Il “pensiero economico” del nuovo millennio più non si cura di studi e speculazioni sulla natura e sull’origine delle ricchezze: anche se con un apparato di controllo ed analitico enormemente superiore, è più indietro ormai dell’economia volgare, che la nostra scuola derise senza pietà, ed ha abbandonato ogni pretesa scientifica. La teoria economica è ora ridotta soltanto a teoria monetaria: in principio è la moneta, e solo il suo movimento è degno di essere studiato. Moneta reale o virtuale, nulla importa. Unica preoccupazione per i teorici del capitale – abbandonata la speranza di controllare questa massa anarchica e travolgente – è escogitare nuovi imbrogli per accelerarne la rotazione, renderla profittevole quanto più o almeno quanto prima.

Quali sacrifici, quale sangue e sudore, quale sforzo immane per l’umanità lavoratrice questo comporti, quale sia il prezzo terribile pagato a questa divinità pagana non è argomento che interessa: se ne tratta, forse, nell’iridescente mondo delle ideologie, nei discorsi dei capi religiosi, nei consessi degli inutili organismi internazionali, o nella cattiva coscienza delle organizzazioni che dovrebbero difendere il lavoro salariato.

Questa è la fase finale del capitalismo, che non conosce più barriere, impedimenti o vincoli, ed ha, alla scala mondiale, un solo obbligo: crescere ai tassi più alti possibili, con un effetto moltiplicativo che sposta somme enormi da un comparto all’altro, da un’area mondiale all’altra e drena senza pietà le riserve di tutti gli strati sociali.

Gli “scandali” finanziari, le terribili fregature che i “risparmiatori”, attirati dalla speranza di un futuro di profitti facili, si prendono di quando in quando, lo scoppio delle cosiddette “bolle speculative”, non distruggono valore, ma trasferiscono semplicemente questi soldi “virtuali” da un conto ad altri conti, almeno finché il meccanismo funziona nel suo complesso.

I Fondi internazionali di investimento rastrellano denaro in modo atomico e parossistico. I Fondi che usano la disponibilità delle maggiori Banche a finanziare le acquisizioni speculative (quindi indebitandosi loro stessi) e i Fondi che manovrano ingenti patrimoni, principalmente i Fondi pensionistici, acquistano grandi aziende e nel giro di tre-cinque anni le rivendono, dopo le solite “salutari” ristrutturazioni o suddivisioni. Spolpano queste società appropriandosi della tesoreria disponibile ed esercitano una pressione costante per ridurre salari e organico e per aumentare le prestazioni di lavoro, mentre gli investimenti di capitale fisso sono ridotti al minimo. Questo ciclo è definito come un processo di “liberazione di valore” tramite investimenti “a lungo termine”; in realtà si tratta di saccheggio e svendita di un patrimonio.

Il Fondo che controlla finanziariamente l’azienda dichiara di non esserne il “padrone”, ma una sorta di custode che solo ne cura il rendimento. Ma in realtà la distinzione fra interesse e profitto viene a confondersi nella sempre più criptica e intricata redazione dei bilanci. Per i salariati dipendenti dalle società controllate il rapporto di lavoro è chiaro: il padrone è il Fondo d’investimento. I Fondi sono ormai fra i principali datori di lavoro e tali sono i primi dieci al mondo.

Alla base di tutta la manovra c’è la speranza di profitti futuri (o rendite di posizione, vedi telefonia o autostrade, necessariamente protette dal potere statale). Le aziende così malamente acquisite vengono di nuovo ipotecate presso le banche per ottenere ulteriore credito. È il solito concetto della catena di Sant’Antonio: fin quando il gioco si espande, tutto sembra marciare a dovere... I debiti contratti sono scaricati sul bilancio dell’azienda “ristrutturata”. Quando il sistema funziona, i guadagni per il Fondo sono altissimi, con saggi addirittura a tre cifre.

Non sono soltanto i Fondi privati o i grandi istituti finanziari gli attori di questo gioco: anche gli Stati per diversi motivi si trovano grandi surplus finanziari, vuoi per rendite di ogni genere vuoi per bilancia con l’estero positiva. Caso emblematico, le rendite del petrolio e del gas, che hanno gonfiato i depositi dei paesi produttori. La Russia, che pure ha attraversato una crisi economica disgregante nel decennio passato, è tra i primi produttori di greggio e gas al mondo e si trova con un surplus finanziario di 250 miliardi, 100 in più di un anno fa; le riserve dei Paesi del Medio Oriente e dell’Africa sono salite dai 43 miliardi del 2003, ai 60 del 2004 e ai 126 del 2005. La Cina, nel luglio 2006 aveva riserve in valuta per 954 miliardi, in aumento del 30% dall’anno prima. Gran parte di questi soldi sono finiti nelle obbligazioni (Bond) emesse dagli Stati Uniti d’America, che finanziano così il loro terrificante disavanzo. In fin del giro succede che gli importatori americani acquistano prodotti cinesi con prestiti concessi dal venditore.

Non mancano critici anche nel campo capitalista, allarmati per la tenuta di questa “ingegneria finanziaria”. Tutto è in funzione di tre variabili: liquidità sui mercati azionari; prezzi delle azioni in aumento; tassi di interesse favorevoli. Un debito sempre più elevato, soprattutto quello speculativo, comporta una potenziale instabilità finanziaria, e alla lunga rischi elevati di crisi e crollo. Un cambiamento in una qualsiasi di queste variabili sarebbe d’ostacolo al successo delle “uscite” – la vendita con i relativi guadagni – e scardinerebbe l’intero marchingegno.

Per parte nostra constatiamo che questo processo di “finanziarizzazione” dell’economia mondiale dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che il capitalismo “transnazionale” per mantenere i suoi profitti divora le sue stesse radici e nega quello che ha vantato come propria funzione storica, la produzione crescente del valore tramite il profitto.

Non c’è bisogno della critica marxista all’economia capitalistica per leggere in questi espedienti a scala planetaria l’estrema debolezza del capitalismo. Le difficoltà a sostenere il tasso del profitto costringono ad allargare a dismisura – “globalizzare”, come si dice oggi – le dimensioni del ladrocinio, ad indebolire sempre più i fondamenti stessi di questo modo di produzione. La mostruosa impalcatura è così debole alla base che ogni crisi è più grave e profonda delle precedente, ed il crollo assumerà connotati infinitamente peggiori della crisi del ‘29, quando le masse finanziarie ed industriali in gioco erano di alcuni ordini di grandezza inferiori a quelle di oggi.

Tra predoni imperialistici, le divergenze ideologiche e politiche possono passare in secondo piano quando ci sono affari da realizzare; in altri momenti, quando l’ennesima crisi avrà spezzato la brigantesca solidarietà finanziaria, “la prosecuzione della politica con altri mezzi” dovrà riportare su altro terreno il confronto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Antonio Graziano ci ha lasciato

    Il 21 maggio scorso è morto a Napoli Antonio Graziano, all’età di 82 anni, per un male manifestato improvvisamente. Non ha fatto in tempo a farsi accompagnare a Parma dalla sua compagna, come aveva predisposto, seppure ormai quasi cieco, per salutare i compagni.
    Aveva aderito al PCI subito dopo la guerra, ed aveva subìto anche un breve periodo di carcerazione. Ma ben presto, per quell’istinto, più che la dottrina, che contraddistingue ogni vero comunista, se ne era distaccato ed aveva aderito al nostro Partito, vivendone tutta la storia, anche nei suoi momenti più critici, fino ad oggi.
    Generoso, sempre pronto ad aiutare i più giovani e ad intervenire nelle manifestazioni con il suo entusiasmo. Aveva svolto anche attività di propaganda convinta nel sindacato dei netturbini, al quale apparteneva.
    La sua partecipazione alle riunioni di sezione e di Partito, finché le forze glielo hanno consentito, è stata sempre continua e appassionata, così come sempre attiva era la sua voglia di apprendere e di difendere in ogni occasione le nostre linee politiche e sindacali.
    Era saldo e forte nelle idee quanto saggio indulgente e paziente con i compagni: “Eh, non c’è niente da fare, lui è fatto così!”, sorridendo usava insegnare.
    Con lui perdiamo un compagno fedele e entusiasta, ma non l’esempio della sua abnegazione e della sua dedizione all’internazionalismo, alla rivoluzione, al comunismo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America
Capitolo esposto nella riunione a Sarzana del gennaio 2007.

(Continua del numero scorso)
 
 

Dall’Indipendenza alla Secessione

L’americano medio, nei decenni che seguirono la Guerra d’Indipendenza, rappresentava l’epitome dell’autosufficienza e della versatilità, capace come era di guidare l’aratro, di aggiustare la ruota di un carro, di ricucire una scarpa, di tessere al telaio familiare. Ma sbagliava il famoso Noah Webster, che nel 1785 affermava: «così sarà finché ci sarà terra fertile da coltivare». I primi segni delle grandi trasformazioni che avrebbero fatto diventare contadini e artigiani lavoratori salariati erano infatti già allora percepibili.

Tre forze interdipendenti sono adatte a descrivere questa trasformazione epocale, che altro non è che la rivoluzione industriale: mercato, trasporti, manifattura. Nel processo si assisterà anche al completamento della rivoluzione borghese negli Stati Uniti, con un consolidamento politico-economico che si completerà solo nella seconda metà del secolo XIX.

La rivoluzione del mercato, che era già avviata negli anni ‘80 del secolo XVIII, disincentivava la produzione di manufatti per l’uso immediato e personale a favore della produzione di merci per lo scambio. Questo significava, per i piccoli e medi agricoltori di tutto il paese e per i piantatori del Sud, spostare risorse umane e di capitale dalle coltivazioni di sussistenza a quella di prodotti adatti al mercato, e cioè cereali per il piccolo agricoltore, colture industriali come tabacco e il cotone per il piantatore. Per l’artigiano rurale la rivoluzione commerciale pose fine all’èra del lavoro itinerante, quando la norma era visitare le fattorie per scambiare manufatti contro prodotti agricoli. Per l’artigiano cittadino significò la necessità di aumentare il numero di apprendisti e operai specializzati per avere gli scaffali pieni di merci da vendere al dettaglio, al posto della produzione quasi totalmente su ordinazione. In ogni caso la novità fu il rilievo preso dal denaro come strumento degli scambi, e anche come regolatore dei rapporti sociali.

La rivoluzione dei trasporti attraversò diverse fasi. Per primo vi fu lo sviluppo della rete viaria, anche con strade a pedaggio, iniziato negli anni ‘90 del Settecento; verso il 1820 iniziarono grandi opere di costruzione di canali navigabili interni; nel decennio successivo ebbe inizio lo sviluppo della rete ferroviaria. Tutte queste arterie ebbero l’effetto di ampliare l’estensione dei mercati, e di stimolare ulteriormente la rivoluzione industriale. I nuovi mezzi di trasporto inondarono l’America rurale di manufatti normalmente prodotti in casa, stimolando la domanda della campagna e l’offerta della città. Una conseguenza fu anche il crearsi di un eccesso di manodopera nelle campagne, manodopera che si rendeva disponibile per l’impiego nella nascente industria.

Nei primi tempi non è possibile identificare la rivoluzione industriale con l’ascesa del sistema di fabbrica; infatti, anche se la fabbrica rappresentava allora come oggi la manifestazione più visibile della produzione manifatturiera, prima della Guerra Civile essa costituiva ancora una parte relativamente piccola della scena industriale. Nel 1860 erano ancora più numerosi i salariati che lavoravano in piccole aziende, officine e botteghe artigiane di quelli di fabbrica, e la gran parte di loro usava attrezzi a mano e non macchinari spinti dall’energia dell’acqua, del vapore o altro. La rivoluzione industriale fatta di fabbriche fumose e macchine assordanti era appena ai suoi inizi nell’America anteguerra.

In realtà, nessuna delle rivoluzioni descritte si era compiuta entro il 1860; ognuna di esse si era sviluppata in modo irregolare, anche geograficamente, con una maggiore velocità nel Nord e, da un certo momento in poi, nel Midwest, che nel Sud, che non si industrializzò mai in modo significativo.

Ad ogni buon conto va tenuto presente che l’agricoltore indipendente, coltivatore della sua terra, era, al volgere del secolo XVIII e per molti anni ancora, la spina dorsale dell’Unione: 9 americani su 10 vivevano sulla terra nel 1790, e ancora nel 1860 erano 8 su 10. L’economia della famiglia contadina era basata sull’autosufficienza. Oltre alla coltivazione e all’allevamento, e alle industrie agrarie relative, altre attività, quali filatura e tessitura, erano svolte nell’unità familiare. Ancora negli anni ‘40 i tessuti prodotti in casa superavano quelli che uscivano dalle fabbriche tessili; tessuti che servivano per acquistare prodotti necessari quali oggetti di metallo, tè, ecc. L’acquisto era fatto attraverso baratti, mentre di denaro ne circolava poco. Il denaro era raro e custodito con cura, per essere utilizzato per quegli impieghi nei quali era insostituibile: le tasse in certi Stati, l’acquisto di terra per i figli.

Infatti la tradizione dei pionieri prevedeva che si facesse avere ai maschi che lasciavano la casa un pezzo di terra, e alle femmine una dote. Inizialmente trovare nuova terra non era difficile, bastava dissodarla; ma quando, agli inizi dell’Ottocento, la terra cominciò a scarseggiare negli Stati atlantici, le soluzioni potevano solo essere o ridurre la quantità di terra da distribuire ai figli (ma a questo c’era un limite, perché un minimo era indispensabile per poterci vivere), o trovarla altrove; e altrove significava l’Ovest. Si ebbe così la prima ondata di emigrazione, per cercare terra al di là degli Appalachi. Nel Nord si ebbe il popolamento degli Stati di New York, Pennsylvania e Ohio, fino ai laghi più lontani; al centro Tennessee e Kentucky; a Sud il movimento fu verso i territori del Golfo, in quelli che sarebbero diventati Mississippi e Alabama, fino alla Louisiana ex francese.

Una importante conseguenza dello sviluppo agricolo ad Ovest degli Appalachi fu il crearsi di una notevole produzione di cereali, in parte destinata, in quanto eccedentaria, al mercato. Ma i mercati erano ora lontani dalle nuove zone di produzione, e si rendeva necessario dotare il paese di infrastrutture adeguate; cosa che fu realizzata nella prima metà dell’Ottocento, come abbiamo visto, anche se ancora alla vigilia della Guerra Civile la gran parte dei trasporti dalla valle dell’Ohio ai porti atlantici (New York e Baltimora) avveniva per via fluviale lungo il Mississippi fino a New Orleans, e poi per mare fino all’Atlantico. Nel Sud lo sviluppo dei trasporti fu molto inferiore rispetto al Nord, e per questa ragione gli agricoltori del Sud furono sempre più poveri degli equivalenti farmers del Nord; tra l’altro questo fatto fu una delle cause del formarsi di un ampio strato di poor whites, bianchi poveri, nel Sud.

Lo sviluppo dei trasporti ebbe anche la conseguenza di far crollare le produzioni familiari a causa dei prezzi sempre più bassi dei prodotti industriali. Il baratto d’altra parte divenne sempre più difficile, e sempre più agricoltori dovettero passare a produrre per il mercato. L’agricoltura si meccanizzava, ma le macchine costavano denaro, e chi non riusciva ad incrementare le produzioni fino a certi livelli vendeva la terra e passava al commercio o, in molti casi, al lavoro salariato. La conseguenza più immediata di tutto ciò fu una tendenza alla crescita delle città.

Tra il 1820 e il 1860 la popolazione del paese crebbe da meno di 10 milioni a poco più di 30, del 230%, in media 2,8% annuo. Alla fine di questo periodo meno di un americano su cinque risiedeva in centri urbani di oltre 8.000 abitanti. Ma la crescita delle città fu tumultuosa, se si pensa che la loro popolazione aumentò dell’800%. Gli immigranti, che di solito si collegano all’urbanizzazione, ebbero un ruolo inferiore a quanto si pensa nell’esplosione demografica. Nel 1860 essi erano solo 4 milioni, e ben più della metà erano arrivati tra il 1846 e il 1857, quando il boom urbano era verso la fine, e solo la metà di loro si stabilì nelle città. In realtà l’urbanizzazione di quel periodo derivò dall’incremento naturale dei cittadini e dalle migrazioni interne. Il flusso rurale-urbano si mantenne quindi regolare fino agli anni ‘50. Non così fu per l’immigrazione, che arrivava in ondate successive provenienti da Regno Unito, Irlanda e Germania. Il salto principale fu nel 1846-47, quando il numero di immigranti passò da 82.000 a oltre 142.000, e continuò poi a crescere con regolarità, con un massimo anteguerra raggiunto nel 1851 con 267.000 unità. Fino al 1858, nonostante un leggero rallentamento, l’afflusso non scese mai sotto i valori del 1847: in soli 11 anni ben 2 milioni di europei sbarcarono sulle coste americane. Nel 1860 gli emigranti costituivano un terzo degli abitanti dei 40 più grandi centri urbani.

Lungi dal costituire un problema, gli immigrati trovarono una situazione adatta ad assorbire la loro forza lavoro: lo sviluppo della rivoluzione industriale. Prima della esplosione dell’immigrazione di fine anni ‘40 le attività industriali e artigianali erano appannaggio dei bianchi maschi nati nel paese, tanto a Nord quanto a Sud. Donne che lavoravano si trovavano soprattutto nei lavori di servitù domestica e in attività non specializzate nel settore tessile, oltre a minori impieghi di bassa specializzazione. I relativamente pochi immigrati si dividevano tra specializzati inglesi e tedeschi, da un lato, e non specializzati irlandesi dall’altro.

I negri liberi erano concentrati in attività nei porti, talvolta pare anche che richiedevano specializzazione, e nelle costruzioni, anche se in qualche città del Sud ve ne erano che esercitavano mestieri artigianali. Naturalmente nel Sud gli schiavi erano ben più numerosi dei negri liberi. Il lavoro specializzato degli schiavi era essenziale nell’industria del tabacco, e nelle acciaierie della Virginia. In numero maggiore erano occupati in quello che era chiamato “nigger work”, attività considerate servili, sporche o disgustose, e comunque al di sotto della “dignità” dell’uomo bianco, come per esempio il barbiere e il macellaio. Più comunemente gli schiavi erano addetti a attività non specializzate di tutti i tipi. In ogni modo, quello che era “nigger work” per gli uni poteva costituire qualcosa di ambito per altri: come i lavoratori bianchi nativi lottavano per escludere gli schiavi dalle attività specializzate, così gli immigranti arrivarono anche all’uso della forza per escludere i negri liberi dai lavori non specializzati.

Il forte afflusso di immigranti a metà del secolo trasformò la composizione etnica e le configurazioni occupazionali della forza lavoro in entrambe le metà del paese. I bianchi nativi si tennero i mestieri meglio pagati, quelli chiamati “onorevoli”. Le donne e gli immigrati presero il loro posto nei mestieri semispecializzati nei settori in declino, e le irlandesi sostituirono le yankees nell’industria tessile. I negri e gli irlandesi si dividevano le attività non specializzate. Quella che era stata una classe operaia etnicamente omogenea divenne negli anni ‘50 una massa eterogenea e poliglotta.
 

Primo sviluppo industriale

All’avvento della Guerra d’Indipendenza solo pochissime attività produttive erano condotte su larga scala, quali la siderurgia, la cantieristica navale, la produzione di birra. Molte attività manifatturiere, come la laniera e la stessa siderurgia, erano contenute dalla concorrenza dell’Inghilterra, dove era abbondanza di manodopera esperta e a basso costo, e adatte infrastrutture. Poiché, a causa della guerra, il commercio fu poi paralizzato, il sistema dei trasporti distrutto, e molti dei più floridi distretti devastati, la ripresa e ricostruzione dell’economia sarà lenta, e inizialmente basata sulle attività agricole.

D’altronde la rapida crescita della popolazione, che da meno di 4 milioni nel 1790 sarebbe salita a 31 nel 1860, assieme al miglioramento dei trasporti aveva esteso enormemente il mercato interno per i manufatti e, nonostante l’effettiva concorrenza degli esportatori britannici, offriva grandi opportunità alle imprese americane. In una prima fase la concentrazione di queste approfittò del lavoro a domicilio, come nel caso della fabbricazione di calzature: il capitalista riusciva ad abbassare i costi e a far arrivare a prezzi bassi le sue scarpe anche a forti distanze.

Ma fu il settore tessile il primo a svilupparsi, all’alba del nuovo secolo, soprattutto nel New England, sullo stile degli opifici inglesi, utilizzando le macchine mosse dalla forza del vapore o dell’acqua dei torrenti. Facendo gradualmente scomparire il lavoro a domicilio, fu inizialmente l’unico settore a riunire grandi numeri di operai in veri e propri opifici. Un’industria del cotone cominciò a svilupparsi negli ultimi anni del secolo XVIII nel Rhode Island e in Massachusetts, a nord di Boston. Le due zone si distinguevano sotto certi aspetti; quella a nord di Boston dipendeva dal lavoro delle donne che venivano dalle fattorie del New England. Normalmente si trattava di giovani nubili, che passavano solo una parte spesso breve della loro vita a guadagnare un salario, che di solito investivano nel matrimonio che le attendeva; erano alloggiate in pensionati modello costruiti dall’azienda, e soggette a rigorose regole di comportamento. Era il famoso “Lowell system”, ammirato da visitatori stranieri per le condizioni intellettuali, culturali e sanitarie delle lavoratrici. Nel Rhode Island, invece, si era adottato il sistema più inglese di far lavorare famiglie intere, quindi anche bambini, senza curarsi della loro vita in famiglia. Queste due zone rappresentavano il grosso dell’industria cotoniera, ma opifici esistevano anche nel New Jersey e vicino a Philadelphia. Nelle stesse zone si sviluppò anche un’industria laniera, anch’essa meccanizzata, ma che ebbe una crescita molto più lenta. In ogni caso va ricordato che la produzione casalinga di manufatti tanto di cotone quanto di lana continuò ad essere importante fino alla metà del secolo XIX.

Altri settori che si svilupparono furono la lavorazione della canna da zucchero, la metallurgia, la fabbricazione di oggetti e attrezzi in ferro e altre produzioni senza particolari tradizioni artigianali. In altri settori la crescita del sistema di fabbrica ebbe invece uno sviluppo molto più tardo nel periodo che stiamo considerando, quello che dalla fine della Guerra d’Indipendenza va fino allo scoppio della Guerra Civile.

La nascente manifattura americana poté dotarsi fin da subito di una produzione notevole standardizzata, che permetteva di costruire assiemi complessi a partire da componenti intercambiabili; i primi progressi in questo campo si ottennero nella produzione delle piccole armi da fuoco; verso la metà del secolo la tecnica fu applicata a orologi, serrature, macchine e attrezzi agricoli, macchine per cucire. Molti di questi prodotti, che adesso potevano essere montati da lavoratori non specializzati, sostituivano quelli importati che ancora richiedevano lavoro altamente specializzato. Alla Mostra Internazionale di Londra del 1851 l’industria americana fu in grado di esibire numerosi congegni e procedure tecnicamente più avanzati rispetto a quelli inglesi; e gli ingegneri europei si resero conto improvvisamente che avevano da imparare dai loro concorrenti transatlantici. Questo era poi notevole se si pensa alle piccole dimensioni dell’industria americana all’epoca, sia rispetto a quella inglese sia alle dimensioni del Paese.

Nel 1860, se nel New England 1 cittadino su 8 era impiegato in una attività manifatturiera (anche se non solo di fabbrica), altrove il dato scendeva: 1 su 15 negli Stati centrali, 1 su 48 nell’Ovest, 1 su 82 nel Sud. Quindi si può tranquillamente affermare che fino alla Guerra Civile gli Stati Uniti d’America erano un paese prevalentemente agricolo.

Nei grandi centri del Massachusetts fino agli anni ‘30 e ‘40 la gran parte della manodopera industriale fu quindi costituita da donne. Abbiamo visto come al Sud nella siderurgia fossero impiegati anche schiavi, ma siccome questi dovevano essere acquistati o noleggiati dai proprietari non furono mai competitivi rispetto al lavoro “libero” e meglio organizzato del Nord.

A parte il caso della siderurgia a Richmond, la gran parte degli operai di fabbrica non facevano parte del proletariato urbano, in quanto le nuove industrie si collocavano in piccoli centri della campagna, ove poter far uso di energia idrica con facilità. Ma anche in tali centri il peso della manifattura era ancora lontano dai livelli che avrebbe raggiunto dopo la Guerra Civile. Infatti nel 1860 la forza lavoro impiegata nell’industria in due centri importanti come Lowell (Mass.) e Lynn non superava un terzo e la metà del totale, rispettivamente. Ed erano casi unici; in nessun’altra delle quindici più importanti città ci si avvicinava a tale grado di concentrazione di proletariato della grande industria; a Newark (New Jersey) si arrivava al 25%, mentre in città come New York e St.Louis non si raggiungeva il 10%. L’epoca della città industriale non era ancora iniziata.

La maggior parte della produzione di manufatti rimase quindi ancora a lungo di pertinenza delle piccole e medie botteghe artigiane. All’interno di questo strato di piccoli produttori i rapporti di lavoro non erano cambiati di molto negli ultimi secoli: come nell’Europa dei paesi ancora non rivoluzionati dalla grande industria, vi erano il padrone di bottega/maestro, l’operaio specializzato (journeyman), l’apprendista.

L’artigiano disponeva di una serie di strumenti tipici del mestiere, con i quali realizzava il prodotto completo. I maestri erano proprietari che facevano di tutto, da tenere i rapporti con i clienti a ordinare le materie prime, a tenere i conti dell’attività. Progettavano anche il lavoro, supervisionavano quello dei giovani apprendisti, e lavoravano insieme ai dipendenti. Nella gran parte erano ex operai specializzati, lavoratori esperti già pagati a giornata o al pezzo, a seconda del mestiere. Questi journeymen a loro volta erano stati apprendisti, che avevano iniziato l’attività ancora adolescenti e che avevano passato da tre a sette anni a imparare i segreti del mestiere sotto la guida di un maestro. L’apprendista non riceveva un salario, ma solo vitto e alloggio e poco più; in genere era la famiglia di provenienza a provvedere al resto. Potevano essere puniti dal maestro quando si insubordinavano, ma ne erano protetti dall’autorità esterna quando possibile. All’età di 18-21 anni gli apprendisti erano promossi journeymen; ricevevano un abito completo e una serie di attrezzi del mestiere come riconoscimento del loro ingresso formale nella fratellanza di mestiere. Per la prima volta avevano diritto a un salario, anche se spesso molto modesto e non necessariamente garantito in permanenza. Nei casi più fortunati i journeymen erano aspiranti maestri, che lavoravano con alacrità per mettere da parte il denaro per iniziare un’attività in proprio, magari rilevando quella dell’anziano padrone.

I ritmi di lavoro non si discostavano molto da quelli delle attività rurali. Quando si verificavano irregolarità nelle ordinazioni i periodi di ozio venivano spesso occupati in conversazioni su argomenti anche di cultura generale: gli artigiani pre-rivoluzione industriale erano relativamente colti e ricchi di interessi intellettuali.

La rivoluzione industriale fu preceduta da un periodo di trasformazione delle botteghe artigiane che in Nord America ebbe luogo tra gli anni ‘20 e ‘40 del secolo XIX. Il primo cambiamento importante fu l’aumento degli addetti nella bottega, fino a qualche decina, facendo così saltare il tradizionale equilibrio delle tre figure descritte. Le conseguenze furono padroni più ricchi, journeymen con sempre meno speranze di mettersi in proprio (risale a quest’epoca la morte precoce del mitico “sogno americano”, sopravvissuto solo in miraggio per la stragrande maggioranza dei proletari), apprendisti visti più come manodopera a basso prezzo che come futuri artigiani. Poi seguì la trasformazione del modo di lavorare tipica della manifattura, sia per l’introduzione di macchine, sia per la suddivisione del processo lavorativo in tante fasi più semplici, che permetteva di assumere manodopera non specializzata e quindi meno costosa e facilmente rimpiazzabile, come donne e bambini, sia, infine, per una riduzione delle tipologie di prodotti. Tutti cambiamenti che ebbero come conseguenza l’aumento delle produzioni e l’abbassamento dei costi di produzione. Tra l’altro questa trasformazione colpì profondamente anche il lavoro a domicilio che, pur se poco costoso e simbolo del più virulento sfruttamento capitalistico, era tuttavia divenuto meno produttivo di quello nell’opificio.

Vale la pena di ricordare che il processo nella parte iniziale, cioè fino agli anni ‘50, fu molto lento. E ciò vale anche per la meccanizzazione in agricoltura. Inoltre il processo si svolse in modo selettivo, a seconda del settore: più lento per i fabbri, i fornai, i macellai, più veloce per i sarti, i calzolai, i falegnami. In ogni modo il numero di botteghe artigiane fu sempre superiore a quello delle imprese capitalistiche fino allo scoppio della guerra. Il discorso invece si presenta ovviamente diverso se si prendono in considerazione le entità delle produzioni.

Ciononostante molto era cambiato. Il mondo preindustriale del contadino autosufficiente e dell’artigiano indipendente stava svanendo in un passato che non poteva tornare. L’accelerazione della rivoluzione commerciale spingeva i sistemi di scambio basati sul baratto ai margini dell’economia, e allentava i legami che avevano mantenuto generazioni di americani sulla terra. Le prime avvisaglie della rivoluzione industriale creavano un nuovo strato di padroni, non più maestri artigiani, ma imprenditori determinati a far quattrini in una economia di concorrenza selvaggia e senza regole. Anche la classe operaia si stava formando: anche se non era ancora un esercito di veri e propri schiavi di fabbrica, i suoi componenti si trovavano sempre più a dipendere dal puro salario, mentre perdevano gradualmente ogni abilità artigianale e erano assoggettati a rigidi orari e ritmi di lavoro. Una trasformazione i cui inizi si possono far coincidere con gli anni ‘20, con quella che è stata poi chiamata “Era dei buoni sentimenti”. L’epoca felice per il piccolo e libero produttore americano stava per finire nel mito.
 

L’associazionismo operaio

Associazioni di mechanics, di artigiani, erano sorte nell’ultimo quarto del secolo XVIII, spesso comitati clandestini che si erano costituiti nel periodo della Guerra d’Indipendenza, e società di mutuo soccorso. La più antica fu la General Society of Mechanics and Tradesmen di New York, del 1785. Questi gruppi riflettevano la coscienza di una comunità che secondo tradizione era frantumata in innumeri mestieri, ma che sempre più si accorgeva di essere unita da comuni interessi. Tra i loro scopi era anche far pressione sui politici (il futuro lobbying) quando si trattava di stabilire tariffe o di decidere opere pubbliche; tenere informati i soci per iscritto o per passaparola sui mercati e sulle merci in circolazione; mettere in contatto disoccupati e padroni in cerca di manodopera. Le associazioni più ricche costruivano edifici per le riunioni nei centri cittadini, e partecipavano in pompa magna a tutte le celebrazioni e ricorrenze civili.

Queste istituzioni tendevano anche a regolare la vita interna del mestiere, stabilendo tariffe, salari, codici di comportamento. A Boston, per esempio, chi assumeva apprendisti troppo giovani era passibile di una multa di $10, mentre $30 era la somma che era condannato a sborsare chi convinceva un apprendista ad abbandonare una bottega per la propria.

Inizialmente le associazioni che duravano erano quelle dei tipografi e dei calzaturieri; le altre avevano vita breve, salvo poi rinascere alla prima occasione. La loro mortalità era determinata principalmente dagli sforzi dei padroni tendenti a fare condannare gli associati come “cospiratori” e dalla disponibilità dei tribunali ad accontentarli. Gli scopi iniziali delle società di mestiere erano soprattutto di mantenere, più che di migliorare, salari e condizioni di lavoro, al punto di porsi contro altri lavoratori per salvaguardare gli interessi dei soci; un atteggiamento palesemente aristocratico, che tarderà a scomparire dal movimento operaio americano.

La rivoluzione del mercato che si verificò agli inizi dell’Ottocento, con il diventare molti padroni d’officina piccoli imprenditori, e con l’aumento del numero medio di addetti per azienda, inizialmente più in certi settori che in altri, ebbe ripercussioni anche sulle associazioni, che iniziarono a diversificarsi, alcune assumendo un indirizzo più padronale, altre di tono e composizione più operai. Solo le seconde erano prevalentemente rivolte alle esigenze di difesa del salario e delle condizioni di lavoro, piuttosto che alla generica solidarietà. Inoltre le prime cominciarono a pretendere alte quote di iscrizione, impossibili da pagare per un operaio a giornata. Ma soprattutto gli operai cominciarono a rendersi conto che i sodalizi vecchio tipo non bastavano: impedire ai padroni di trascinarli nella miseria era tanto importante quanto aiutarsi quando tale miseria colpiva le famiglie operaie. Una volta assimilata questa convinzione, la necessità dei sindacati venne acquisita.

Anche se il percorso, come sempre in questi casi, fu diversificato da mestiere a mestiere, da città a città, con inversioni di marcia e brusche accelerazioni, la risultante del processo può essere sintetizzata dall’esperienza della Fraternal Society of New York Printers, cioè dei tipografi. Se nel 1809 avevano approvato una risoluzione che recitava «tra dipendenti e datori di lavoro vi sono interessi comuni», otto anni dopo scoprirono una cospirazione tra gli iscritti padroni per distruggere il sindacato; dopo averli espulsi emendarono lo statuto, escludendo i padroni perché «l’esperienza ci insegna che le azioni degli uomini sono influenzate principalmente dai loro interessi, e che è quasi impossibile che una associazione possa funzionare e svolgere i suoi compiti quando i suoi membri sono mossi da motivi opposti e da interessi diversi. Questa associazione è una associazione di operai tipografi, e siccome gli interessi dei lavoratori sono diversi e sotto certi aspetti opposti a quelli dei datori di lavoro, consideriamo improprio che questi ultimi abbiano una qualsiasi voce o influenza nelle nostre deliberazioni (...) E quando un socio dovesse divenire tipografo in proprio sarà considerato al di fuori dei confini della Società».

I regolamenti e le consuetudini dei mestieri furono presto erosi dal nuovo ambiente economico, e verso la fine degli anni ‘20 si può dire che fossero definitivamente defunti.

Data l’assenza di gilde e la relativamente bassa presenza di apprendisti, le prime associazioni sindacali ebbero inizialmente un carattere più “aristocratico” che in Europa, comprendendo solo operai specializzati. Si trattava di un associazionismo temporaneo, per scopi immediati: nel 1778 i tipografi di New York si unirono per chiedere un aumento di salario di tre dollari; siccome l’aumento fu concesso, essi non videro ragione di continuare ad incontrarsi. Il primo sciopero risale al 1786, sei anni prima della fondazione del primo sindacato permanente, e anche in quella occasione gli scioperanti, i tipografi di Philadelphia, vinsero. Negli anni successivi le lotte furono relativamente numerose, e tali da spaventare i borghesi. Via via che gli operai si mostravano più determinati ed efficaci i padroni non tardarono ad organizzare a loro volta la risposta mettendo a punto strategie sempre più decise, secondo i modi e con la larghezza di mezzi che conosciamo. Presto quindi apparve chiaro agli operai che il successo nella lotta richiedeva una organizzazione permanente, con riunioni regolari, un fondo scioperi, e con un piano di azione per le battaglie avvenire.

Il passaggio alla struttura sindacato fu quindi fieramente avversato dai padroni, che riuscirono anche ad ottenere dai tribunali sentenze che proibivano l’attività sindacale. Anche se tale atteggiamento fu formalmente sconfessato solo nel 1842, non fu mai un ostacolo alle lotte, ma solo uno strumento per porre ostacoli alle agitazioni, o per compiere vendette dove l’organizzazione proletaria era più debole. In realtà non furono mai emanate leggi specifiche in merito, ma fu utilizzata la Common Law inglese, che considerava cospirazione il fatto che due o più persone si unissero per danneggiare un terzo, o il bene pubblico. Dopo i primi verdetti i tribunali si riferirono ai precedenti per deliberare. Così la repubblica, nata da una dura e sanguinosa lotta (combattuta soprattutto dagli operai e contadini, come abbiamo visto) per la libertà, l’uguaglianza e per consentire la “ricerca della felicità”, per controllare la classe operaia disinvoltamente si appellava a una legge approvata nell’odiata Inghilterra nel 1349, lo Statute of Labourers, emanata per costringere gli operai che erano sopravvissuti alla Peste Nera a lavorare per salari stabiliti per legge, a totale beneficio dei padroni.

Per avere un sindacato che, pur se in mezzo a traversie, si può considerare permanente, bisogna aspettare il 1792; il sindacato dei calzaturieri di Philadelphia durerà fino al 1806. Il loro esempio fu presto seguito da analoghe iniziative a Boston, Philadelphia e Providence, e poi da tante altre un po’ in tutte le città. Nonostante la nascita di sindacati permanenti, però, spesso dopo uno sciopero l’organizzazione si scioglieva, sia che si fosse risolto in vittoria sia in sconfitta.

Le due classi antagoniste cominciavano intanto a delimitarsi e caratterizzarsi anche da un punto di vista teorico. In questo la nascente borghesia fu sicuramente più prolifica. Adam Smith era una delle fonti principali dell’ideologia borghese americana dell’epoca, ideologia che sarebbe maturata nel postulato del free labor, il quale, ridotto ormai a vuoto fantasma, continuiamo a trovarci tra i piedi ancora oggi: la società ideale sarebbe quella che si fonda su di un minimo di intervento della politica nelle produzioni e nei mercati, i quali, nella loro naturale dinamica, favorirebbero il raggiungimento dell’indipendenza economica di agricoltori e di operai diligenti e industriosi. Insomma la teoria del make it, il “farcela”, lo “sfondare”: tutti hanno la possibilità di far quattrini (il come è secondario), volere è potere... E quella del free labor è considerata l’ideologia fondante del Partito Repubblicano, che nascerà come tale alla metà degli anni ‘50.

Un’altra importante tendenza fu quella del Protestantesimo Riformato, che si diffuse tra il 1790 e gli anni ‘50 del secolo successivo, dalle valli del Nord a tutte le città dell’Unione. Il fervore evangelico, che diede luogo ad una pletora di sètte che ancor oggi infestano il paese, aveva uno scopo di moralizzazione dei costumi; ciò non gli impediva di andare d’accordo anche con le ambizioni della nascente classe borghese, e con le esigenze di efficienza degli opifici.

Il fenomeno, sul quale non ci dilunghiamo, ebbe ripercussioni sui due partiti nazionali, i Whig (predecessori dei Repubblicani) e i Democratici. I due partiti già si distinguevano per caratteristiche che sarebbero rimaste loro anche negli anni a venire: i primi erano per un governo centrale che intervenga a stabilire tariffe protettive, costruire infrastrutture, creare un sistema bancario nazionale efficiente; ovviamente i Whig avevano il sostegno della borghesia finanziaria e manifatturiera, e delle aristocrazie operaie, che apprezzavano anche lo sviluppo della pubblica istruzione e di opere di assistenza sociale. I Democratici invece aborrivano qualsiasi intervento federale, che anzi guardavano con sospetto. Erano sostenuti dai piantatori del Sud, ma anche dalla borghesia mercantile del Nord, dai professionisti, dai proletari più poveri e dagli immigrati. In risposta alle lotte operaie degli anni ‘30 arrivarono a chiedere misure gradite ai proletari, quali l’abolizione delle milizie e della prigione per debiti; mai però rivendicazioni veramente a favore della classe operaia come la riduzione dell’orario di lavoro o salari minimi.

Al contrario, entrambi i partiti si rifugiarono, di fronte all’ascesa dei primi sindacati, nella teoria del free labor che, tradotta in termini sindacali, significa che ogni individuo vale per uno, padroni compresi. Una teoria, d’altronde, che all’epoca aveva cittadinanza in tutti i paesi europei, e che veniva utilizzata per proibire i sindacati per legge. Per i Whig i sindacati erano “saccheggiatori”, per i Democratici “monopolisti”, come, è vero, i grandi imprenditori, ma di questi “assai più pericolosi”. La legge della domanda e dell’offerta, sempre secondo i teorici e i politici della borghesia, avrebbe stabilito i salari e non poteva essere infranta; lo stesso valeva per la sacra dottrina della “libertà di contratto”, che dà ad ogni uomo il diritto di lavorare per il numero di ore giornaliere che desidera. I borghesi di oltre oceano non si distinguevano dai loro analoghi europei nel considerare gli operai riuniti in sindacato una specie di associazione per piegare alla loro volontà il povero imprenditore, solo contro tutti.
 

La condizione operaia

Il sogno del journeyman, del lavoratore specializzato, era di vivere una vita dignitosa, senza pretendere il superfluo, percorrendo il cursus professionale da apprendista ad artigiano, una vita coronata dall’acquisto di una casa per la famiglia, dalla partecipazione ad associazioni professionali e sociali della città, e dall’accantonamento di una somma sufficiente per una vita accettabile in vecchiaia. Obbiettivo non utopico, ma che non sempre era possibile raggiungere, non tanto per l’industriosità del lavoratore, quanto per lo scenario economico che diveniva sempre più erratico con il procedere dello sviluppo capitalistico. Agli inizi degli anni ‘20 i calzolai e i sarti guadagnavano tra $6.00 e $8.00 la settimana, cioè dai $2.00 ai $4.00 meno di tipografi, carpentieri e altri artigiani dei mestieri cosiddetti “onorevoli”. Le recessioni periodiche dei trenta anni che seguirono, la peggiore delle quali verso la fine degli anni ‘30, ebbero l’effetto di abbassare i salari in modo generalizzato. Negli anni ‘50 vi fu una ripresa: nel 1860 i salari medi erano di un terzo più alti che nel 1850, e tornati quasi ai livelli pre-crisi. Ma si era creata una maggiore differenziazione tra i settori, e grandi differenze salariali.

Inizialmente le cose andavano meglio nelle città del Midwest, che si sviluppavano a ritmi inusitati, grazie alla carenza di manodopera che manteneva alti i salari. Nel 1820 quasi un terzo degli operai di Cincinnati possedeva la casa in cui abitava, forse la più alta percentuale del Paese. Ma nel 1838 la situazione era cambiata, e la percentuale era scesa al 6, per scendere al di sotto del 5 nel 1850. Nello stesso periodo aumentava la ricchezza dello strato più alto di cittadini, che dal 70% del 1838 era passata all’80% nel 1860.

Ci sono altri dati per comprendere le condizioni operaie in quello svolto storico: agli inizi del periodo una famiglia media aveva bisogno di circa $330 l’anno per sfuggire alla povertà, una somma che solo i lavoratori non specializzati che non lavoravano per lunghi periodi non riuscivano a mettere insieme; trenta anni dopo il fabbisogno era salito a $500 ($600 a New York), mentre i salari, nel migliore dei casi, erano immutati. La massa dei proletari delle città lottava per la sopravvivenza, altro che una vita dignitosa!

Chi poteva, fuori dai grandi centri, e a volte anche in quelli, teneva un orto, cacciava, pescava. Altri allevavano maiali e persino vacche ove possibile. Chi aveva spazi in più li affittava a operai scapoli, ma nelle grandi città era normale vivere ammucchiati in spazi ristretti. In queste condizioni è ovvio che si facesse ricorso a tutte le risorse, compreso il lavoro dei bambini e degli adolescenti. Lavoro che, come quello a domicilio, era pagato con somme irrisorie, ma che cumulato con le altre entrate faceva la differenza tra il pauperismo e una dignitosa miseria.

Nel Sud le condizioni dei proletari bianchi erano sistematicamente peggiori. Ma al fondo della scala sociale, quelli che vivevano e lavoravano nelle peggiori condizioni possibili erano i lavoratori negri liberi. Costoro, oltre allo sfruttamento ordinario da parte dei borghesi, soffrivano dell’ostracismo dei lavoratori bianchi, che vedevano nel loro allontanamento dal processo produttivo migliori possibilità di lavoro per se stessi. Spesso operai e padroni artigiani utilizzavano le loro associazioni per promuovere una legislazione che eliminasse la concorrenza dei negri, i quali venivano spinti verso attività sempre peggiori, anche quando avevano un mestiere e un’esperienza di lavoro. Ma nemmeno gli impieghi temporanei e di infimo livello, come scaricatori dei porti, manovali nell’edilizia, nei quali venivano ricacciati, garantivano tranquillità. Prima gli operai bianchi espulsi dal lavoro dalla depressione agli inizi degli anni ‘40, poi gli immigranti affamati che affollarono le città qualche anno dopo, scatenarono rivolte a sfondo razziale e varie forme di intimidazione, negli Stati del Nord e del Sud. Forti scontri si ebbero per esempio a Filadelfia nel 1841 e nel 1849, quando anche gli imprenditori furono minacciati dalla folla, composta principalmente di irlandesi, finché la gran parte dei negri non fu espulsa dalle attività portuali. Lo stesso accadde nel Sud: a New Orleans gli irlandesi arrivarono a sostituire i negri in uno dei loro più tradizionali impieghi, quello di camerieri nei ristoranti.

Non sempre i negri liberi subivano in silenzio; ma le loro controffensive erano destinate alla sconfitta: a differenza degli schiavi, che potevano contare sull’influenza e la protezione di un padrone, non potevano aspettarsi granché dai datori di lavoro. La situazione migliorò un po’ nel Nord nel corso degli anni ‘50, grazie al boom economico e all’antagonismo che si stava sviluppando tra Nord e Sud. I negri cominciarono a riapparire nei porti e nei cantieri, ma la maggioranza rimase confinata ai mestieri più umili, condizione che d’altronde ritroviamo anche un secolo e mezzo dopo, pur se non più governata da leggi, se non quelle proprie ed ineliminabili del capitalismo.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 


L’Antimilitarismo nel movimento operaio in Italia
Capitolo esposto alla riunione di Sarzana, gennaio 2007.

(Continua dal numero scorso)

Il PSI dalla neutralità italiana al Convegno di Zimmerwald

La minaccia della guerra prima, e l’inizio delle ostilità poi contribuirono ad aggravare la crisi economica, anche nell’Italia neutrale. Divieti d’importazione di materie prime e impossibilità d’esportazione furono le cause più evidenti. Conseguenza inevitabile della crisi furono i licenziamenti, assai numerosi dovunque. La guerra, come i socialisti avevano sempre affermato, riserbava le conseguenze più gravi per il proletariato, costretto a sopportare privazioni e sacrifici d’ogni genere. Anche nelle nazioni non belligeranti.

La disoccupazione aumentò a dismisura a causa del ritorno in patria, iniziatosi negli ultimi giorni di luglio e proseguito con ritmo crescente in agosto, degli emigrati in Francia, in Belgio, in Germania, in Austria, costretti dalla guerra a lasciare il lavoro e a rientrare nel paese che già avevano dovuto abbandonare per non morire di fame. Dalla sola stazione di Milano, tra luglio e agosto, fu calcolato il passaggio di circa trecentomila emigrati; altri raggiunsero la miseria delle loro regioni di origine seguendo percorsi diversi.
 

Ambiguità neutraliste

Il 27 luglio 1914 si era riunita la direzione del Partito Socialista Riformista, composto dagli espulsi del 1912, ed aveva approvato un Ordine del Giorno che proclamava «il tenace sentimento pacifico del proletariato che vede negli accordi internazionali la fine degli antagonismi di razza, eccitati dal militarismo, dall’affarismo e dal sopravvivente spirito reazionario della classe dirigente», ed invitava i lavoratori di tutti i paesi a palesare la loro avversione alla guerra.

La settimana successiva, il 2 agosto, quando si ebbe la notizia che il Governo italiano aveva deciso la neutralità, Bissolati scriveva al compagno di partito Bonomi mostrando tutta la sua soddisfazione per la vittoria ottenuta sulle correnti tripliciste e per essere riuscito a “prendere il passo” sul Partito Socialista facendo «della neutralità una questione non di piccola setta, non di codardia, ma di interesse e di dignità nazionale». Ed aggiungeva: «ma ben altre prove ci attendono. Bisogna – io ho cominciato e tu mi seguirai – preparare l’anima del proletariato italiano alla guerra». Bonomi scriverà nel suo libro “La Politica Italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto”: «Bissolati aveva avuto parte ad indurre il governo alla proclamazione della neutralità, ma fin d’allora aveva considerato la neutralità come il primo passo all’intervento». In maniera scoperta e definitiva veniva alla luce il volto sciovinista degli ex socialisti bissolatiani. Bissolati a metà di agosto aveva già presentato la propria domanda di iscrizione fra le truppe combattenti, «possibilmente nel suo vecchio 5° Alpini».

Ma il problema importante non era quello di che cosa facesse il partito dei rinnegati del socialismo espulsi a Reggio Emilia, il problema importante risiedeva all’interno del Partito Socialista ufficiale. Anche all’interno di quest’ultimo quasi del tutto assente era la concezione del disfattismo rivoluzionario quale Lenin andava formulando, e non solo per la Russia assolutista, bensì per ogni Stato imperialista e borghese. Meno che mai all’interno della destra turatiana, anche se, a sua volta, aveva minacciato l’azione di sabotaggio della mobilitazione ove il reuccio avesse dato l’ordine di partire a fianco della Triplice Alleanza.

Nel centro si ondeggiava alle ventate del tempo difficile e si andava elaborando quella tattica castrata di Costantino Lazzari che venne sintetizzata nello slogan “né aderire né sabotare”. Pessima formula, che significava che, dopo avere scongiurato la borghesia in tutti i modi di non far la guerra, partite le prime colonne, avremmo dovuto dire: Bene, abbiamo fatto il nostro dovere; ora non possiamo tagliare i garretti all’esercito nazionale perché faremmo il gioco delle armate nemiche pronte a invadere e devastare la patria. Questo duro nocciolo di ambiguità all’interno del PSI si manifestò fin dall’inizio.

L’Unità di Salvemini aveva immediatamente accusato i socialisti di contraddizione essendo essi disposti all’uso della violenza nei rapporti interni mentre la rifiutavano nei rapporti internazionali. La risposta dell’Avanti! fu, apparentemente, netta: «Nei rapporti interni la violenza è violenza di classe, che si esercita da parte del proletariato contro i padroni e gli organi dello Stato: è violenza che tende ad affrettare la liberazione della classe soggetta, è violenza fatta dal proletariato per la tutela dei suoi interessi. La violenza nei rapporti internazionali cambia totalmente carattere, in quanto si esercita fra le nazioni e non più fra le classi, e per motivi in antitesi con gli interessi del proletariato. Nella violenza fra le nazioni il proletariato è uno strumento passivo nelle mani dei governi che rappresentano le classi dominanti delle nazioni» (Avanti!, 13 agosto 1914).

Il quotidiano socialista fissava quindi le seguenti tesi:
- Neutralità assoluta, essendo la guerra fra gli Stati «collaborazione di classe, nella forma più acuta, più grandiosa, più sanguinosa»;
- Contro tutte le guerre, sia ad oriente sia ad occidente;
- Il Partito Socialista aveva tacitamente approvato il richiamo di alcune classi di leva, «ma per garantire la neutralità, non per uscirne» (Si comincia qui a scivolare nel campo della collaborazione di classe, ad introdurre eccezioni, a formulare distinguo. Questa è la tipica tecnica dell’opportunismo che si serve di tali grimaldelli per forzare i cardini della dottrina classista);
- La neutralità italiana è a vantaggio dell’Intesa: «Senza la neutralità dell’Italia, la Francia non avrebbe potuto utilizzare tutti i suoi corpi d’armata contro i tedeschi» (E quindi il PSI dichiarava di avere fatto la sua scelta di campo tra i due schieramenti imperialistici);
- Il blocco austro-tedesco è già danneggiato abbastanza dalla nostra neutralità: «Il Partito Socialista fin qui ci sta, più oltre no!» (Con questa affermazione di finta intransigenza veniva ribadito il concetto di cui sopra).

Dieci giorni dopo l’Avanti! scriveva: «Che l’Italia possa conservare la sua neutralità fino all’epilogo del conflitto non sappiamo: ad ogni modo l’eventualità o meno di un intervento dipenderà da circostanze che non si possono prevedere». La possibilità dell’entrata dell’Italia in guerra veniva posta come una eventualità nei riguardi della quale il proletariato non avrebbe potuto fare alcunché se non rassegnarvisi. Il 1° settembre aggiungeva: «I socialisti non ammettono che una sola ipotesi di guerra, quella necessaria per respingere una eventuale invasione». Quindi vi sarebbe stato un tipo di guerra per il quale il proletariato avrebbe dovuto dare la propria solidarietà alla borghesia nazionale, ed il proprio sangue.

Traspariva in maniera del tutto evidente: una simpatia nei confronti del blocco imperialista dell’Intesa; l’eventualità dell’entrata dell’Italia in guerra; la possibilità di adesione alla guerra stessa da parte del Partito Socialista. Si capiva che un partito del genere non avrebbe potuto reggere all’impatto di una dichiarazione di guerra.

Di ben altro tenore era la consegna della estrema sinistra: «All’ordine di mobilitazione rispondere con lo sciopero generale nazionale».

Dobbiamo però ammettere che, anche se con le ambiguità messe qui in evidenza, il partito nel complesso, più per merito della base proletaria che dei suoi dirigenti, riaffermò in molteplici occasioni il suo impegno di opposizione alla guerra, ad ogni guerra. E, quando vennero in Italia i socialisti filobellici degli Imperi Centrali e della Intesa, furono debitamente redarguiti e invitati a tornarsene indietro con le loro proposte corruttrici (Südekum tedesco, Lorand e Destrée belgo-francesi).
 

Lenin e i socialisti italiani

Il comportamento tenuto, in queste occasioni dai socialisti italiani venne molto apprezzato e lodato dallo stesso Lenin che scriveva nel settembre 1914 in “La Guerra Europea e il socialismo Internazionale”: «Al socialista, più che gli orrori della guerra (...) pesano gli orrori del tradimento perpetrato dai capi del socialismo contemporaneo (...) In un momento come questo un socialista si sente sollevato vedendo come l’Avanti! ha detto, coraggiosamente e schiettamente, l’amara verità in faccia a Südekum, ai socialisti tedeschi, affermando che essi sono imperialisti, cioè sciovinisti. Si prova un sollievo ancora maggiore quando si legge l’articolo di Zibordi (Avanti!, 2 settembre), in cui viene smascherato non solo lo sciovinismo della borghesia tedesca e austriaca (il che è vantaggioso dal punto di vista della borghesia italiana), ma anche di quella francese, in cui si afferma che la guerra è una guerra della borghesia di tutti i paesi!! La posizione dell’Avanti! e l’articolo di Zibordi (...) ci dicono che cosa vi è di giusto e di non giusto nelle correnti affermazioni sul fallimento dell’Internazionale. I borghesi e gli opportunisti (“riformisti di destra”) ripetono questa affermazione rallegrandosene, i socialisti la ripetono con amarezza. In questa affermazione c’è una gran parte di verità!! la bancarotta dei capi e della maggioranza dei partiti dell’attuale Internazionale è un fatto (...) Le masse non si sono ancora pronunciate!!! Ma Zibordi ha mille volte ragione quando dice che non la “dottrina è sbagliata”, non il socialismo è un “rimedio errato”, “semplicemente non erano in dose bastante”, “gli altri socialisti non sono abbastanza socialisti”».

Il 9 gennaio 1915 scriverà, in “E Adesso?”: «In Italia il partito era un’eccezione per il periodo della Seconda Internazionale: gli opportunisti, con Bissolati alla testa, erano stati allontanati. I risultati durante la crisi furono eccellenti: gli uomini delle diverse tendenze non ingannavano gli operai, non li accecavano coi fiori rutilanti della retorica sull’”unità”, ma seguivano ognuno la propria strada. Gli opportunisti (e i transfughi del partito operaio, del genere di Mussolini) si esercitavano nel socialsciovinismo esaltando (come Plechanov) l’”eroico Belgio” per mascherare la politica dell’Italia eroica, ma borghese che aspirava al saccheggio dell’Ucraina, della Galizia... scusate, volevo dire dell’Albania, della Tunisia ecc. E contro i transfughi i socialisti muovevano guerra alla guerra, preparavano la guerra civile (...) Constatiamo il fatto indiscutibile che gli operai della maggior parte dei paesi europei sono stati ingannati dall’unità fittizia degli opportunisti e dei rivoluzionari e che l’Italia è una felice eccezione, un paese dove, in questo momento, non c’è un simile inganno. Ciò che, per la II Internazionale, è stata una felice eccezione, deve diventare e diventerà una regola per la III Internazionale».

Gli apprezzamenti espressi da Lenin nei confronti del Partito Socialista Italiano, dell’Avanti! e dell’articolo di Zibordi, sono davvero molto ma molto indulgenti. In effetti non avevano niente a che vedere con tutta l’impostazione coerentemente classista rivoluzionaria di Lenin. Lenin si serve dell’esempio italiano per sferrare le sue staffilate contro i partiti socialisti che avevano aderito alla guerra e niente di più. Il comportamento del partito italiano può essere definito neutralista, pacifista, ma rivoluzionario assolutamente no. Le espressioni messe in risalto da Lenin certamente esistono nel citato articolo di Zibordi, ma sono immerse in un mare di concetti che con l’antimilitarismo hanno poco o niente a spartire. A Lenin, che seguiva con molto interesse ed attenzione le vicende interne del PSI, non era sfuggito il pericoloso ondeggiare del partito, tant’è che nello stesso articolo si sente in dovere di precisare: «Non garantiamo affatto che [il PSI] manterrà tutte le sue posizioni nel caso che l’Italia entri in guerra. Non parliamo ora dell’avvenire, ma solo del presente di questo partito».

Ed aveva davvero ragione di non farsi soverchie illusioni per il futuro. Potevamo affermare che il Partito Socialista, nel suo insieme ed al di là delle diverse tendenze, si sarebbe schierato apertamente ed in maniera classista contro la guerra? A prima vista poteva sembrare così. Basti leggere quanto scriveva lo stesso Treves nel 1914 sulla Critica Sociale: «Per noi l’Internazionale non è morta. L’Idea sta, armata della possanza dei Partiti Socialisti dei paesi neutri che la circondano fiduciosi e devoti. L’Internazionale non è morta perché la guerra non ha soppresso la ripresa, anzi la continuazione dell’internazionale sfruttamento dei lavoratori da parte del capitale. La guerra non è venuta a distruggere il regime capitalistico di produzione; è venuta, al contrario, a rafforzarlo col fare il proletariato docile alla borghesia sotto la necessità della nazionale concordia. Quei giovani che... parlano della guerra rivoluzionaria, della guerra equivalente della lotta di classe, e citano i nostri grandi maestri, non si avvedono che le guerre cui quelli inneggiavano erano le guerre nazionali; e ad esse inneggiavano solo e in quanto parevano a loro propizie all’acquisto, da parte del proletariato, delle armi politiche necessarie per la sua lotta (costituzione, diritti di organizzazione, di sciopero, suffragio universale, ecc.)».

Queste sono affermazioni che sembrano in linea con la dottrina marxista, ma manca “qualcosa”, e quel “qualcosa” sarebbe stato usato per introdurre l’interventismo all’interno del partito, o comunque l’accettazione della guerra.

Prendiamo ad esempio in considerazione il Manifesto contro la guerra del 21 settembre 1914, redatto da Turati, Trampolini, Mussolini. Il documento, poggiando su basi di principio classiste, metteva in evidenza la inconciliabilità tra socialismo e militarismo, e denunciava che le responsabilità della guerra risiedevano unicamente all’interno del sistema capitalistico. Riaffermata poi l’inconciliabilità tra guerra e socialismo veniva lanciato l’appello al proletariato perché imponesse la neutralità dell’Italia, neutralità minacciata dalla più vasta costellazione di correnti guerrafondaie. Condannando ogni tipo di guerra, tanto a fianco degli Imperi centrali quanto dell’Intesa, l’appello concludeva con queste parole: «Solo contro tutti, il Partito Socialista è immune dal contagio che dilaga e contro il quale chiama voi, o proletari, alle necessarie e sollecite difese (...) Nessuna concessione dunque alla guerra. Ma opposizione recisa ed implacabile (...) È in nome dell’Internazionale del Socialismo che noi vi invitiamo, o proletari d’Italia, a mantenere ed accentuare la vostra opposizione incrollabile alla guerra. Viva il socialismo!». Però, all’interno di questo Manifesto era stata lasciata cadere una frase, diciamo così... ambigua: «Quando si faccia astrazione del Belgio pacifico ed eroico che ha dovuto subire l’invasione vandalica degli eserciti tedeschi, la determinazione delle responsabilità occasionali ci interessa mediocremente». Perché “fare astrazione” del Belgio, “pacifico ed eroico”? Come se in Belgio non esistessero classi e lotta di classe! Questo sarà proprio uno degli argomenti di cui si avvarrà Mussolini nel tentativo di spostare il Partito Socialista sul terreno della guerra e che permetterà alle idee democratiche borghesi di far breccia all’interno del PSI.
 

La Conferenza di Lugano

Contemporaneamente però, a merito del Partito Socialista Italiano dobbiamo prendere atto di una sua intensa e tenace attività allo scopo di riannodare le relazioni internazionali tra i partiti socialisti, cominciando a ristabilire contatti e rapporti con i partiti dei paesi neutrali, come primo passo di una vasta azione da condurre a favore della pace. In questo spirito si colloca la riunione tenuta a Lugano il 27 settembre 1914 tra socialisti italiani e svizzeri. La Conferenza di Lugano rappresentò il primo incontro, su scala internazionale, di rappresentanti di partiti socialisti non impegnati nel conflitto ed una affermazione a carattere internazionale di condanna della guerra.

Poco più di due settimane prima, a Berna, si era tenuta la riunione del gruppo bolscevico, ed in quella occasione Lenin aveva già chiaramente ribadito il concetto di utilizzare l’evento bellico in senso rivoluzionario, cioè trasformare la guerra tra gli Stati in guerra tra le classi ed aveva lanciato la parola d’ordine della costituzione della III Internazionale. «La II Internazionale è morta, vinta dall’opportunismo. Abbasso l’opportunismo e viva la III Internazionale, epurata non solo dei “transfughi”, ma anche dell’opportunismo (...) Alla III Internazionale spetta il compito di organizzare le forze del proletariato per l’assalto rivoluzionario contro i governi capitalistici, per la guerra civile contro la borghesia di tutti i paesi, per il potere politico, per la vittoria sul capitalismo!». Le tesi bolsceviche erano state trasmesse al Partito Socialista Svizzero perché venissero utilizzate nel corso della Conferenza di Lugano.

La riunione, non impedita dalle autorità, si svolse sotto il vigile controllo della polizia svizzera. (Il dipartimento di polizia del Canton Ticino, in data 24 settembre, aveva inviato al Governo Federale una copia dell’Avanti! che annunciava il convegno per chiedere disposizioni sul permettere o meno la riunione: l’indomani giunse a Bellinzona il seguente telegramma di risposta: «N’avons aucune objection contre la réunion socialiste ital-suisse de Lugano tendant au maintien neutralité - Département politique Hoffmann»).

Frutto della Conferenza di Lugano fu la seguente risoluzione: «La catastrofe odierna è il risultato della politica imperialistica delle grandi potenze, che nelle monarchie assolutistiche coincide con gli interessi dinastici.

«La guerra europea non è una lotta per una più alta civiltà e per la libertà dei popoli. Essa rappresenta in egual misura una lotta delle classi capitalistiche per la conquista di nuovi mercati in paesi stranieri e il criminale tentativo di soffocare nel proprio paese il movimento rivoluzionario del proletariato e della democrazia sociale.

«La borghesia tedesca e quella austriaca non hanno il diritto di appellarsi, al fine di difendere la guerra, alla lotta contro lo zarismo, per la libertà della civiltà nazionale, poiché come lo junkertum prussiano con alla testa Guglielmo II e i grandi industriali tedeschi hanno attuato sempre una politica di appoggio e di sostegno dell’ignominioso zarismo, così i governi della Germania e dell’Austria-Ungheria hanno soffocato la civiltà nazionale dei loro popoli e messo in ceppi il movimento di liberazione della classe operaia.

«Neppure i borghesi francesi e inglesi hanno il diritto, nel difendere i loro paesi, di far appello alla lotta contro l’imperialismo tedesco e per la libertà dei popoli. Il loro scopo non è la liberazione dei popoli dalla oppressione capitalistica e militaristica, poiché con la loro politica di alleanza con la Russia zarista hanno rafforzato questa oppressione e impedito lo sviluppo di una più alta civiltà.

«Le vere cause ed il carattere proprio della guerra attuale vengono mascherate dal delirio sciovinista scatenato intenzionalmente in tutti i paesi dalle classi dominanti. Anche parti della classe operaia sono state trascinate in questo vortice sciovinista e prendendo parte alla guerra credono di servire alla liberazione del proletariato degli altri paesi dal dominio sanguinario dei loro governi. Ma nessuna guerra può produrre simili conseguenze. Gli oppressi non possono conquistare la loro libertà combattendo per i loro oppressori contro le classi oppresse di altri paesi.

«Proclamare questi antichi principi dell’Internazionale proletaria oggi che le relazioni internazionali dei lavoratori sono interrotte, è più che mai il dovere dei socialisti di quei paesi che non sono stati ancora toccati dall’orrore della guerra. In conformità a ciò, i sottoscritti, rappresentanti dei partiti socialisti d’Italia e di Svizzera, ritengono loro compito battersi sino all’estremo delle loro forze contro l’ulteriore allargamento della guerra ad altri paesi e bollare ogni tentativo di aizzare nuovi popoli alla guerra come un crimine verso la popolazione lavoratrice e la civiltà.

«In questo senso i rappresentanti dell’Italia e della Svizzera si rivolgono ai partiti socialisti degli altri Stati, mentre in tal modo creano la base per un’azione comune dei popoli estranei alla guerra. Ma colpiti dalle sue conseguenze, contro il proseguimento dello spaventoso macello, chiedono contemporaneamente ai partiti socialisti dei paesi neutrali di esigere dai loro governi l’avvio immediato di consultazioni diplomatiche con i governi degli stati belligeranti, per mirare ad una rapida cessazione dello sterminio di popoli».

La risoluzione rappresenta però uno specchio assai deformato di quello che fu realmente la conferenza di Lugano. Non solo le tesi di Lenin non vi vennero minimamente prese in considerazione e nemmeno menzionate, ma dalla lettura dei verbali della riunione si rivela che la delegazione italiana non ha una linea ufficiale, mentre tutti quanti i rappresentanti espongono il parere della propria corrente di appartenenza.

Per quel che riguarda i socialisti svizzeri la situazione è ancor peggiore: gli svizzeri, che avevano votato i crediti di guerra, ammettono la legittimità della difesa della patria aggredita, ponendosi sulle medesime posizioni dei socialpatrioti. Ad esempio il delegato svizzero Ferri dichiarava: «Per quel che riguarda il nostro atteggiamento nel caso di violazione della neutralità, la nostra neutralità è qualcosa di diverso da quella dell’Italia. L’Italia è rimasta neutrale per decisione propria. La Svizzera è vincolata alla neutralità da trattati. Nel caso di violazione della neutralità svizzera anche i socialdemocratici sono costretti a difenderla. Questo atteggiamento non può offendere altre nazioni né deve provocare una guerra. Perciò la difesa della nostra neutralità ha un significato diverso che per altri paesi. La Svizzera è un luogo di asilo e tale vuol rimanere. Sarebbe per noi un dolore dover difendere la neutralità con le armi in pugno. Ma, una volta che la neutralità fosse violata o che ci fosse dichiarata guerra, non ci rimarrebbe più tempo per trattare. Noi cercheremo di difendere la neutralità sino all’ultimo istante, anche con mezzi che in altre circostanze non sarebbero quelli della socialdemocrazia. Ma anche in questa difficile eventualità la socialdemocrazia svizzera non rinuncerebbe all’impostazione classista».

La tesi svizzera veniva fatta propria dai delegati italiani. Modigliani: «Gli svizzeri si pongono sul piano dei socialdemocratici belgi. Come abbiamo approvato il modo di comportarsi dei compagni belgi, possiamo comprendere anche il punto di vista degli svizzeri. La difesa di questo paese neutrale può servire a contenere la guerra entro limiti circoscritti. Anche i compagni italiani hanno ripetutamente ribadito che è permesso difendersi contro un’aggressione ai danni dell’indipendenza». E Turati: «Come abbiamo dato ragione ai belgi, così dobbiamo approvare anche il marcato atteggiamento degli svizzeri in un caso analogo».

Secondo quanto ebbe a dire in seguito Serrati, la Conferenza di Lugano fu solo una «povera limitata riunione di socialisti italiani e svizzeri, che riconoscevano il carattere imperialistico della guerra mentre [i socialisti] dei confinanti paesi belligeranti tedeschi, francesi, inglesi e belgi collaboravano alla guerra con la rispettiva borghesia dei loro paesi». Il loro social-sciovinismo era camuffato da... impostazione classista, proprio come avevano fatto gli interventisti di tutti i vari paesi belligeranti. Ma Serrati non si prodigò certo ad innalzare ad un livello più elevato la “povera limitata riunione”. Anzi, benché designato ufficialmente dal Partito Socialista Italiano, non prese mai la parola per tutto il tempo che durò il convegno.

Resta però il fatto che la “povera limitata riunione” di Lugano, di fatto, rappresentò il primo passo di quel movimento antimilitarista che si delineò sempre meglio nei due successivi incontri internazionali di Zimmerwald e Kiental.
 

Sul piano inclinato della collaborazione di classe

In Italia, frattanto, Mussolini, che non era andato a Lugano, e che “inavvertitamente” sull’Avanti! aveva resa pubblica la notizia di quella riunione che avrebbe dovuto restare segreta, metteva a punto i dettagli della sua prossima conversione all’interventismo. Il piano non era quello di rompere con il partito, ma di trascinarlo all’adesione alla guerra, forte della sua posizione di direttore dell’Avanti!

Questo pericolo fu temuto anche dagli elementi della sinistra che, invano, tentarono di trattenere Mussolini dal compiere il fatale errore. Invece in quella occasione il partito nella sua totalità si comportò veramente bene: non una sezione vacillò né si formò la più piccola frazione; anzi, vi furono compagni e compagne che si offrirono di andare a revolverare il futuro duce. Un bell’esempio di nessun attaccamento personale a un capo anche brillante. La sezione di Milano espulse Mussolini per indegnità politica e morale: morale per i soldi dell’Intesa portati da Cachin, con cui pochi giorni dopo usciva il quotidiano interventista Il Popolo d’Italia.

La Direzione confermò, e nominò una nuova direzione del giornale composta da Lazzari, Bacci e Serrati. Infine fu il solo Serrati, uomo di indubbia energia.

Nondimeno dobbiamo riconoscere che l’affare Mussolini inferse un duro colpo alla resistenza del partito ed alla sua determinazione alla lotta di fronte ai continui attacchi provenienti da tutte le strutture organizzate della borghesia. Mussolini, anche se venne espulso, in un certo modo contribuì ad avviare il Partito Socialista verso la sua rassegnata accettazione della ineluttabilità della guerra.

Nella stessa seduta della Direzione del partito in cui erano state accolte le dimissioni di Mussolini da direttore dell’Avanti! era stato lanciato al proletariato italiano un nuovo Manifesto contro la guerra, nel quale, tra l’altro, si affermava: «La guerra vuole passare inesorabile, tutto abbattendo, tutto decimando, vite, averi, pensieri umani. Per la guerra, che borghesie, uguali in ogni nazione, preparano sempre sottilmente, corrompendo le opinioni pubbliche, impregnandole di immaginari pericoli, perché tutti la accettino e tutti si lancino nel baratro, per la guerra oggi vediamo in Europa, se non completamente travolti, compromessi i Partiti socialisti degli Stati belligeranti. Quel socialismo tedesco che vantava il primato in Europa per il numero dei suoi aderenti, per i suoi meravigliosi progressi, per la sua salda compostezza; quel socialismo che era per noi orgoglioso esempio della nostra forza per la causa del proletariato, esso è il primo che fu travolto ed oggi quasi non si distingue il suo pensiero e la sua azione da quello che è il pensiero e l’azione della Germania borghese. Né miglior sorte toccò al socialismo austriaco; ed il socialismo francese, che pure ha veduto morire Jaurès nel campo dell’Internazionale, anche esso fu dalla guerra travolto a far causa comune con la borghesia. In mezzo all’imperversare di tanti pericoli e di tanti orrori, i socialisti russi votarono contro i bilanci militari, ed in Serbia il solo deputato socialista seppe affrontare nella terribile agitazione del suo piccolo Paese l’ira e l’odio della borghesia per votare contro i bilanci militari e ripetere alto e coraggioso il grido della nostra coscienza internazionalista: Abbasso la guerra!»

Però, anche questo Manifesto si chiudeva con un periodo ambiguo, come se il partito avesse timore delle superstizioni nazionalistiche: «Vogliamo con questo manifesto perciò parlare a tutti i compagni quasi ad uno ad uno e dire loro che nessuno può certo comprimersi sentimenti di simpatia che sorgono spontanei ed invincibili nell’animo nostro fra belligerante e belligerante, ma questi sentimenti non debbono strapparci alla fedeltà della nostra bandiera». Caso mai avrebbe dovuto essere il contrario: sta al partito liberare le coscienze del proletariato dai sentimentalismi inculcatigli dai pregiudizi borghesi e dalla propaganda nemica.

Frattanto, ed alla guerra non eravamo ancora giunti, la situazione del proletariato diveniva sempre più tragica a causa dell’acuirsi di giorno in giorno della crisi economica. Dal settembre in poi fu un continuo susseguirsi di comizi di disoccupati, convegni di rappresentanti di organizzazioni e di uomini politici, sollecitazioni di autorità locali ai prefetti ed al governo, insistenze ai proprietari perché effettuassero interventi di miglioria e di bonifica dei fondi. Tumulti scoppiarono in varie parti d’Italia per il caro prezzo del grano, accuse contro gli accaparratori, occultatori, speculatori di derrate. A tutte queste agitazioni il Partito Socialista e la Confederazione Generale del Lavoro partecipavano, ma né l’uno né l’altra si posero mai il compito di organizzare e generalizzare le lotte per farle confluire in un unico possente moto proletario. Il fatto è che quando si adotti la parola d’ordine di “non sabotare” la patria non si possono nemmeno condurre le battaglie sindacali. Infatti i rappresentanti sindacali indirizzavano le loro richieste di interventi allo Stato borghese proprio per scongiurare l’eventualità di atti di rivolta proletaria.

Nel dicembre, mentre la guerra divampava già in gran parte di Europa, Lenin, a nome del partito russo, lanciava un appello a tutti i socialisti del mondo perché si decidessero a compiere una azione energica, positiva, immediata, contro la guerra. Al riguardo Serrati racconta di aver ricevuto da Lenin una lettera «composta di alcuni foglietti scritti con calligrafia minuta ed uguale, senza margini, senza correzioni, buttati giù evidentemente da mano pronta e sicura». Quello che impressionò il buon Serrati, che personalmente non era né un pavido né un venduto, furono i foglietti, la calligrafia, la mano pronta, non il contenuto rivoluzionario dell’appello, e quindi al partito russo non fu data risposta alcuna, né da parte di Serrati né da parte del Partito Socialista Italiano.

Nel frattempo il Partito Socialista Italiano continuava nella sua lenta ma inesorabile discesa lungo il piano inclinato della collaborazione di classe. Si giunse al gennaio 1915: la prossima entrata in guerra dell’Italia era ormai certa. Anche se ancora non era stato deciso da quale lato del fronte!

Il segretario del partito, Costantino Lazzari, dalle colonne dell’Avanti! preannunciava quale sarebbe stato l’atteggiamento del partito in caso di mobilitazione militare: se si fosse trattato di ragioni di difesa, non vi sarebbe stata nessuna opposizione e resistenza, ma se la mobilitazione avesse avuto luogo per una guerra offensiva, avrebbe provocato inevitabili reazioni di dura opposizione.

Dal 16 al 18 gennaio, a Firenze, si riunivano nuovamente la Direzione del Partito ed il Comitato direttivo del Gruppo parlamentare per documentare con un lungo e dettagliato Ordine del Giorno le decisioni prese, sottolineando innanzi tutto le responsabilità che la borghesia si sarebbe assunta, sul piano politico e morale, con una mobilitazione non necessaria, esponendosi «ad immediate, incoercibili esplosioni dell’esasperazione popolare». Veniva deliberato di far culminare la continua propaganda socialista contro la guerra con una manifestazione nazionale da attuarsi con una serie di comizi in tutte le città d’Italia per la data del 21 febbraio, in occasione anche della apertura del Parlamento. Il Manifesto stilato era però molto blando nel riaffermare il dovere della più stretta neutralità dell’Italia nei confronti della scellerata conflagrazione mondiale – scatenata e sorretta essenzialmente da conflitti di interessi capitalistici. E anziché denunciare con violenza le menzogne della propaganda bellicista borghese, il documento si limitava a formulare dubbi sulla loro veridicità: «Né infine è in alcun modo dimostrato o dimostrabile che un intervento armato dell’Italia porrebbe fine all’imperversante massacro (se pure non lo complicherebbe o prolungherebbe) e sarebbe il più rapido trionfo del principio di nazionalità e libertà dei popoli». Come si vede ormai il linguaggio di classe è del tutto assente, il Partito Socialista esprime ormai apertamente i concetti presi a prestito dal pacifismo borghese.

Dal 20 gennaio al 5 febbraio la sezione di Milano intrattiene una serie di lunghe discussioni sul tema guerra. Il Comitato direttivo, su pressione di Serrati, proporrà l’approvazione di un Ordine del Giorno concepito nel modo seguente: «L’Assemblea della Sezione socialista milanese, riaffermando la sua irriducibile avversione alla guerra, invita la Direzione del Partito ad intensificare la propaganda, indirizzandola alla preparazione dello sciopero generale». Naturalmente questo Ordine del Giorno non passò, mentre ne venne approvato un altro, molto ambiguo, nel quale si diceva che «nessun mezzo deve essere aprioristicamente escluso», proprio per escludere il ricorso alla sciopero generale!

L’aspetto di maggior rilievo è la posizione assunta da Turati il quale scriveva sull’Avanti! del 29 gennaio: «Nessun partito socialista, nessun popolo ha inalberato la bandiera della rivolta al tempo della guerra. Sarebbe meglio chiedere un arruolamento volontario di socialisti italiani da aggregarsi all’armata austriaca o germanica, e si compirebbe un’opera molto meno antipatriottica di quello che sarebbe il proclamare la rivolta quando il paese è impegnato». Sulla sua rivista, Critica Sociale, n.2 del 1915, aveva ribadito il concetto ed accresciuta la dose: «Quando si sostiene la neutralità col riflesso che la guerra crea troppe vittime – quasi che non sia dimostrabile che, in dati casi, un intervento può risparmiarne a centinaia di migliaia nel presente e nell’avvenire; quando si arriva al vero e proprio herveismo (arcirinnegato da Hervé) affermando che patria e nazionalità e indipendenza sono interessi borghesi (mentre sono, a mille doppi di più, interessi del proletariato e dell’avvenire proletario); peggio ancora, quando si arriva alla temerità, tutt’affatto retorica, s’intende, ma perciò più volgarmente demagogica, di lasciar balenare il possibile “sabotaggio” di una eventuale militarizzazione, ossia la guerra civile aggiunta alla guerra internazionale e una disfatta provocata e cumulata sull’altra; quando non si ha il coraggio di ripudiare recisamente armi e argomenti siffatti, si squalifica e si indebolisce la migliore delle tesi».

È evidente nella posizione turatiana soprattutto l’affermazione che patria, nazionalità e indipendenza sono interessi del proletariato “a mille doppi di più” e “dell’avvenire”. Se Bissolati, dal 1912, non aveva più diritto di cittadinanza all’interno del Partito Socialista Italiano, ci si domanda come era possibile che potesse ancora averla Turati. Si, è vero, Turati dichiarava la sua opposizione alla guerra e partecipava alla campagna neutralista del Partito (non antimilitarista!), ma il vero scopo della sua partecipazione faceva parte di un piano ben definito e subdolo.
 

Opposizione alla guerra nel partito e nelle piazze

Nel Partito Socialista vi era anche chi poneva nei giusti termini storici e classisti la questione della violenza di Stato e della violenza di classe. Una breve nota di Il Socialista di Napoli che fece il giro dei settimanali del partito, svolgeva la critica del termine “neutralisti”. Il socialismo non era né neutralista né pacifista, né i socialisti credevano possibile come punto di arrivo programmatico la pace permanente fra gli Stati. I socialisti deploravamo il disarmo della lotta di classe, della guerra di classe, per far largo alla guerra nazionale. L’alternativa alla guerra borghese non era: non sospendere la lotta di classe legalitaria, ma: combattere nella direzione della guerra rivoluzionaria proletaria che sola avrebbe un giorno ucciso le radici delle guerre tra i popoli. I socialisti erano i veri interventisti: interventisti di classe, interventisti della rivoluzione.

Questo l’analogo concetto svolto da Lenin, qui nel luglio 1915: «Una classe rivoluzionaria non può, durante una guerra reazionaria, non augurarsi la sconfitta del proprio governo (...) La “lotta rivoluzionaria contro la guerra” è una semplice frase senza contenuto – una di quelle frasi in cui sono maestri gli eroi della II Internazionale – se parlando di questa lotta non s’intende parlare di azioni rivoluzionarie e contro il proprio governo anche in tempo di guerra. Per capirlo basta rifletterci un po’. E le azioni rivoluzionarie contro il proprio governo in tempo di guerra, innegabilmente, incontestabilmente, significano non soltanto augurarsi la disfatta di questo governo, ma portare alla disfatta un contributo effettivo (...) La risoluzione di Berna spiega: in tutti i paesi imperialisti il proletariato deve oggi augurarsi la disfatta del proprio governo (...)

«La rivoluzione in tempo di guerra è la guerra civile. La trasformazione della guerra dei governi in guerra civile è facilitata da una parte dai rovesci militari (dalla “sconfitta”) di questi governi; d’altra parte è praticamente impossibile tendere realmente a questa trasformazione senza concorrere, in pari tempo, alla disfatta. La “parola d’ordine” della disfatta è respinta dagli sciovinisti precisamente perché è l’unica e sola parola d’ordine che sia un appello conseguente all’azione rivoluzionaria contro il proprio governo durante la guerra. E senza questa azione, i milioni di frasi rrrivoluzionarissime sulla “lotta contro la guerra, le condizioni, ecc.” non valgono un soldo bucato (...)

«E con che cosa ci si propone di sostituire la “parola d’ordine” della disfatta? Con la parola d’ordine: “né vittoria né sconfitta” (...) Ma questo non è altro che parafrasare la parola d’ordine della “difesa della patria”! Questo significa precisamente porre la questione della guerra sul piano dei governi (i quali, secondo il contenuto di questa parola d’ordine, devono restare nella vecchia situazione, “mantenere le loro posizioni”) e non sul piano della lotta delle classi oppresse contro i loro governi! Questo significa giustificare lo sciovinismo in tutte le nazioni imperialistiche le cui borghesie sono sempre pronte a dire – e dicono al popolo – che esse combattono “soltanto” “contro la sconfitta”. “Il significato del nostro voto del 4 agosto è questo: non per la guerra, ma contro la disfatta”, scrive nel suo libro E. David, capo degli opportunisti (...) Chi accetta la parola d’ordine “né vittoria né sconfitta”, può dire solo ipocritamente di essere per la lotta di classe e per la “rottura della pace civile”, ma di fatto tradisce la politica proletaria indipendente, imponendo al proletariato di tutti i paesi in guerra un compito perfettamente borghese: difendere dalla sconfitta i governi imperialisti.

«L’unica politica di rottura – non a parole – della “pace civile”, di riconoscimento della lotta di classe, è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli. Ma non si può ottenere questo, non si può tendere a questo senza augurarsi la disfatta del proprio governo, senza cooperare a tale disfatta» (Sozialdemokrat).

La posizione del Partito Socialista, sia della sua ala destra sia di quello che era ormai divenuto il centro, erano di escludere ogni appoggio a un governo di guerra, ogni voto di crediti militari, ogni dichiarazione che il partito in caso di guerra avrebbe “sospesa” la sua opposizione. Ma questo era ben poco, molto poco, era una specie di politica delle mani pulite, degna sì di pacifisti e neutralisti, non certo di rivoluzionari classisti. Venuta la guerra avrebbero detto: Abbiamo fatto il nostro dovere e messo al sicuro le nostre responsabilità. Si disse in quei mesi: “Abbiamo salvato l’anima!” La posizione che il Partito Socialista Italiano andava via via assumendo era proprio quella avversata e condannata da Lenin.

In Italia il 21 febbraio ebbe luogo la grande giornata di propaganda socialista contro la guerra e parlamentari ed esponenti del Partito tennero comizi in tutto il paese invitando il proletariato a vigilare per difendere il pane e la vita contro chi avrebbe voluto strapparlo al lavoro ed alla famiglia per inviarlo al massacro. I comizi del 21 febbraio costituirono un indubbio successo per la politica del Partito Socialista che mostrò di essere il solo partito in grado di mobilitare le masse proletarie.

Ai comizi spesso seguirono incidenti nel corso dei quali «i neutralisti finivano spesso coll’avere la peggio», come, con compiacimento, riferiva il direttore del Corriere della Sera. Ma l’Albertini si guardava bene dal riferire che gli interventisti avevano la meglio a causa della partecipazione diretta della forza pubblica che vigilava sulla loro incolumità e sferrava tutta la sua violenza contro i proletari manifestanti. Tanto per fare alcuni esempi, ricordiamo come a Napoli venne proclamato lo sciopero generale a seguito dell’intervento della polizia a favore degli interventisti nel corso dello scontro avvenuto il 24 febbraio in una manifestazione di socialisti. Il 25 febbraio a Reggio Emilia era stato programmato un comizio durante il quale avrebbe preso la parola Cesare Battisti, i socialisti pensarono di organizzare una contro-manifestazione antibellicista. Al termine del comizio di Cesare Battisti scaturì uno scontro tra gli opposti schieramenti; i carabinieri fecero fuoco sui socialisti che ebbero un morto e numerosi feriti. Il 31 marzo si verificò un altro episodio significativo. Una manifestazione antimilitarista con a capo Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’Avanti!, veniva in contatto con una interventista capeggiata dall’ex direttore, Benito Mussolini. La forza pubblica intervenne a caricare il corteo socialista. Serrati e 235 socialisti vengono arrestati mentre Mussolini ed i suoi si trovano padroni assoluti piazza.

Nei mesi successivi alle sempre più numerose manifestazioni degli interventisti, i socialisti cercano di contrapporre le loro controdimostrazioni, anche se ciò comporta rischi sempre maggiori. L’11 aprile, a Roma, ad una manifestazione interventista i socialisti fanno seguire una loro controdimostrazione; il corteo proletario è investito dalla forza pubblica e disperso con numerosi arresti di lavoratori. Nella stessa giornata, a Milano, si verifica una situazione del tutto analoga: corteo socialista, intervento della forza pubblica, arresto di numerosi socialisti partecipanti alla dimostrazione. La manifestazione milanese ha conseguenze luttuose per la morte di un giovane meccanico colpito alla testa dai bastoni degli agenti durante lo scioglimento del comizio. La Camera del Lavoro, con l’appoggio del Partito, proclama lo sciopero generale. Anche l’Unione Sindacale milanese aderisce all’astensione di protesta. Durante la giornata del 14 aprile l’astensione dal lavoro a Milano è totale e la vita della città risulta paralizzata; una folla enorme segue i funerali. Davanti al feretro, nel Cimitero Monumentale, parlano Filippo Turati, Amilcare De Ambris per l’Unione sindacale, Franco Mariani per la Camera del Lavoro; l’onorevole Eugenio Chiesa porta alla salma il saluto dei repubblicani che pure aderiscono a questa manifestazione contro i brutali sistemi della polizia. II movimento proletario dimostra tutta la sua vitalità e determinazione alla lotta.

I deputati socialisti il 18 febbraio presentano le loro proteste al governo; una proposta di Turati di aprire una discussione generale sulla politica del governo viene respinta con 314 voti contro 44.

Il “neutralista” Giolitti, assieme ai suoi accoliti, fingendo di non accorgersi dei preparativi di guerra del governo e dell’intento di soffocamento delle voci contrarie alla guerra da esso perpetrata, votava a favore del ministero Salandra. Il 14 marzo la Camera chiudeva i suoi lavori approvando, con 344 voti contro 33, una legge sulla difesa economica e militare dello Stato.

Il 4 marzo la Direzione del Partito aveva preso in esame la situazione e, dopo aver sottolineato il successo della manifestazione nazionale del 21 febbraio, ribadiva la sua opposizione alla politica del ministero Salandra il quale, in quello stesso giorno, emanava una circolare ai prefetti contenente la proibizione dei pubblici comizi.

Ci sono anche sezioni del partito, come ad esempio quella di Forlì, che non si accontentano delle manifestazioni neutraliste, ma vorrebbero che il partito intraprendesse una azione veramente classista e rivoluzionaria. «Il Congresso provinciale socialista forlivese – afferma un suo Ordine del Giorno – riconoscendo cha l’affermazione della neutralità è oggi divenuta insufficiente, lamentando che la Direzione del partito non abbia saputo escogitare il mezzo efficace d’opposizione alla guerra, afferma la necessità dello sciopero generale per impedire che il proletariato italiano, nell’interesse della borghesia, sia lanciato nell’orrendo macello».
 

L’ultimo mese di pace

Il 28 aprile la direzione del partito, riunita a Milano, approvava un Ordine del Giorno riguardante i tentativi di riallacciare i rapporti internazionali e deliberava che, se non vi avesse provveduto il Bureau dell’Internazionale, essa stessa si sarebbe fatta promotrice dell’iniziativa di un convegno dei partiti socialisti dei paesi neutrali. Questa iniziativa sarà concretata quando a Zimmerwald si raccoglieranno i delegati di quei partiti o gruppi socialisti che si erano mantenuti contrari alla guerra.

Per riallacciare i rapporti internazionali, il Partito Socialista Italiano aveva incaricato l’on. Morgari di una missione all’estero. La missione Morgari si svolse in pieno accordo coi socialisti svizzeri. Evitò di prendere contatto con quelli tedeschi, per non gettare ombre sull’indipendenza dell’iniziativa dei socialisti italiani.

In Francia chiese la convocazione dell’Internazionale. Si incontrò con Vandervelde, della Presidenza del Bureau, e con rappresentanti del Partito Socialista Francese. Da costoro Morgari ebbe questa risposta: «Noi abbiamo nelle mani il congegno tecnico dell’Internazionale e vogliamo che questo non ostacoli ora la lotta per la libertà e la giustizia, indispensabili al trionfo del socialismo. La lotta per la libertà e la giustizia significa la lotta contro il militarismo tedesco. Noi siamo quindi nei limiti e sul binario del compito assegnato all’organizzazione internazionale socialista, e non vediamo la ragione di prendere iniziative che potrebbero rallentare questa lotta». La discussione assunse toni appassionati e violenti e, nonostante la generale ostilità nei riguardi della sua proposta, il socialista italiano con insistenza rivendicò il diritto di una Sezione dell’Internazionale di richiedere la convocazione dell’assemblea plenaria. Si verificò un vero e proprio scontro: «Vandervelde: “Io non convocherò mai quella assemblea” – Morgari: “Ma allora voi tenete l’Internazionale in ostaggio” – Renaudel: “Se volete, in ostaggio. Ma in ostaggio per il diritto e la libertà”» (L. Ambrosoli, “Né Aderire né Sabotare”). Subordinatamente, Morgari chiese l’adesione del Bureau a un convegno socialista dei paesi neutri. Anche questa domanda venne respinta. E avendo l’on. Morgari insistito, e affacciato il proposito di convocarlo ugualmente, in maniera autonoma, Vandervelde gli rispose: «Nous l’empêcherons!».

Ma nemmeno gli abboccamenti avuti con i rappresentanti del socialismo francese di “sinistra” andarono meglio. Trotzki ci racconta uno di questi incontri: «Il deputato italiano Morgari arrivò a Parigi nell’estate del 1915 per propagandare la Conferenza di Zimmerwald tra i socialisti inglesi e francesi (...) Sin dall’inizio della guerra egli aveva assunto una posizione internazionalista, dapprima passivamente, poi in modo deciso. Prese parte al nostro incontro con alcuni deputati di sinistra e con sostenitori di posizioni radicali. Finché le questioni si limitarono a proclamazioni generiche sulla necessità di ristabilire le relazioni internazionali, la relazione non andò troppo male. Ma quando Morgari, del tutto innocentemente, affrontò le questioni pratiche, vale a dire la necessità di procurarsi dei passaporti falsi per il viaggio dei “cospiratori” in Svizzera – accentuando alquanto l’aspetto “carbonaro” della questione – non mi ricordo più chi, si affrettò a chiamare il cameriere e a pagare le consumazioni della nostra piccola conferenza internazionale. Così si ridusse la faccenda».

Tornato in Italia, il 15 maggio, Morgari faceva il suo rapporto sull’esito della missione internazionale. Il Comitato direttivo del partito approvava la sua condotta e decideva di prendere l’iniziativa e di convocare quella riunione, malgrado il rifiuto del presidente del Bureau dell’Internazionale.

Dal 9 all’11 maggio si era tenuto a Reggio Emilia il Congresso della Federazione Nazionale della Gioventù Socialista. I giovani socialisti si schierarono a grande maggioranza per la posizione intransigente e votarono una mozione in cui si affermava che era «necessario rendere più sensibile in questo momento il distacco tra borghesia e proletariato» e giudicava lo sciopero generale come «il segno veramente efficace di questo distacco». Va notato che la sinistra, soprattutto giovanile, aveva svolto nel periodo successivo all’agosto 1914, e soprattutto dalla defezione mussoliniana in poi, un’attivissima propaganda nelle sezioni e nelle città romagnole fra il vociare del repubblicanesimo interventista e guerrafondaio.

Il 16 maggio 1915 poiché gli eventi precipitavano fu convocato a Bologna un convegno tra Direzione del partito, Gruppo parlamentare, Confederazione del Lavoro e delegazioni periferiche del partito (Reggio Emilia, Roma, Torino, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Pisa, Venezia, Napoli, Parma, Modena, Ravenna). I deputati erano 20, i membri della Direzione 9, i confederali 8. Non ci è dato sapere se di questa riunione e di altre che seguirono in tempo di guerra, esistano presso alcuno i verbali. Alla data del 16 maggio non vi era ancora la censura, ma il resoconto dell’Avanti! è del tutto scolorito. Il voto pubblicato è debole e non esce dal tono della “separata responsabilità”. È vero che proclama «l’avversione incrollabile del proletariato all’intervento in guerra» e per sempre impegnativa la decisione di votare contro qualunque richiesta di crediti di guerra, ma si limita a chiamare i proletari a manifestazioni e comizi improntati a un «carattere di disciplina, di dignità e di imponenza che varrà a mettere in rilievo e in contrasto la volontà reale del Paese dalle manifestazioni artificiose e ricattatrici», finiti i quali i socialisti, consci «di non poter oggi essere arbitri del mondo capitalista, sicuri di aver fatto per sé, per il Paese e per la storia, di fronte all’Italia ed all’Internazionale, il loro dovere, avranno diviso e manterranno separate le loro responsabilità da quelle delle classi dirigenti».

Anche in articoli dell’Avanti! e nel famoso discorso di Turati alla Camera per negare i pieni poteri chiesti dal governo Salandra alla vigilia della dichiarazione di guerra all’Austria, ricorre una frase infelice: «Faccia la borghesia italiana la sua guerra!» La borghesia faceva sì la sua guerra, ma col sangue dei proletari italiani mandati a scannare quelli austriaci, e da questi a farsi scannare.

Turati, alla Camera, non si era soltanto lasciato sfuggire la frase infelice; aveva fatto qualcosa di più: dopo avere riproposto quella che ormai era divenuta una semplice formula di rito, cioè l’opposizione del Partito Socialista nei confronti della guerra («Non sarebbe più partito socialista, per definizione partito internazionale, se non sentisse questa avversione profonda, fondamentale, irriducibile, alla guerra e agli armamenti che generano e inciprigniscono la guerra, alla guerra che giustifica e fa moltiplicare gli armamenti, che riproducono la guerra... e il viziosissimo circolo gira all’infinito così»), aveva però lanciato chiari segnali di collaborazione di classe: «Quando voi ci invitaste a gridare un Viva l’Italia! che non sia l’involucro insidioso di Viva la Guerra! nessuno vi risponderebbe con più profonda convinzione e con più schietto entusiasmo di noi». Ed ancora: «Se le schiere dei nostri fratelli partiranno per le trincee, noi, non potendo più deprecarne il sacrificio, per la stessa logica nostra dovremo essere i primi ovunque si lavorerà ad affrettare la soluzione meno infelice del conflitto e a diminuirne le rovine (...) Qui veramente la collaborazione di quanti si sentono italiani si eserciterà, anche dal canto nostro, piena e sincera. Su altri punti sarà ancora lotta e dissidio. Ma su uno, su uno almeno vorrei, mi inardirei a sperare che il consenso potesse essere pieno, immediato e fattivo: sulle provvidenze da prendere cioè – senza le quali sarebbe bestemmia ostentare patriottismo – onde i richiamati, tranquilli almeno sul pane delle loro famiglie, possano stare in campo con la fermezza che è voluta dalle supreme necessità dell’ora».

Secondo gli storiografi, dalla riunione di Bologna sarebbe nata la disgraziatamente celebre formula di Costantino Lazzari: “né aderire né sabotare”, che quel vecchio lottatore socialista avrebbe fatto meglio a non inventare. La frase e l’imbelle politica che essa esprimeva fin dal primo momento trovarono nel partito una viva opposizione; lo stesso Serrati, direttore dell’Avanti!, non la condivideva, sebbene le varie prese di posizione della Direzione del partito siano state tutte deboli ed esitanti. Gli apologisti di Lazzari dissero che egli soprattutto si preoccupò di salvare l’unità del partito, ed il suo “onore” per non aver aderito al massacro.

Ma Turati, nel suo discorso alla Camera, andava ben al di là della formula lazzariana quando dichiarava che i soldati sarebbero dovuti stare in campo «con la fermezza che è voluta dalle supreme necessità dell’ora»; questo significava accettare, fare accettare al proletariato la guerra ed ogni sforzo perché riuscisse vittoriosa! Questa era collaborazione di classe dichiarata!

L’Avanti! del 24 maggio, l’ultimo numero pubblicato prima dell’instaurazione della censura sulla stampa, precisa infine il programma del giornale e del Partito in questi termini: «Occorre presidiare le organizzazioni politiche ed economiche con una quotidiana voce di difesa, d’incoraggiamento, di sprone; vegliare alla difesa dei proletari sottoposti al regime di eccezione; sorvegliare perché ai lavoratori costretti alla guerra, il Governo borghese, che l’ha voluta e l’ha imposta, provveda almeno le necessarie sussistenze per loro, per le famiglie, pei figli; reclamare alto e forte che della guerra i pesi maggiori non ricadano su coloro che ne sono già fin d’ora le vittime. Occorre soprattutto vigilare perché nell’opera di cosiddetta concordia nazionale – cui vanno ingenuamente adattandosi alcuni uomini nostri e qualche istituzione dal Partito conquistata – non si smarrisca la linea socialista, e la guerra non serva alla borghesia per mutare carattere alla lotta socialista e per travolgere l’azione proletaria col miraggio di ideologie che non sono e non possono essere le nostre».

Più oltre diceva: «Non patteggiamo col nemico. Non domandiamo indulgenze o discrezioni. Noi stessi, vinti per ora, riconosciamo la necessità di subire la dura legge del più forte. Ma riaffermiamo la nostra incrollabile volontà di dare domani altra battaglia, ripetiamo la nostra fermissima speranza di conseguire la vittoria. Non è una tregua d’armi che domandiamo agli avversari, e tanto meno un armistizio. Spontaneamente ci ritiriamo in disparte. Lasciamo che la borghesia faccia la sua guerra: la guerra che ha voluto e della quale s’è assunta dinanzi al non lontano avvenire tutta la responsabilità». La borghesia non chiedeva di meglio, che il partito il cui fine era l’emancipazione del proletariato come classe, “si ritirasse spontaneamente in disparte”

Dal giorno successivo, 25 maggio, in tutte le province dichiarate territorio militare e sottoposte alla giurisdizione dell’esercito, la diffusione del giornale venne proibita e contemporaneamente iniziava il regime della censura. I suoi rigori si abbatterono inesorabili sulle colonne dell’Avanti! colmandolo di spazi bianchi sempre più larghi.

Alla riunione di Bologna vari esponenti della frazione rivoluzionaria intransigente, tra cui qualche membro della stessa direzione, e gli inviati di varie federazioni presero una posizione opposta non solo a quella dei parlamentari e dei capi confederali, ma anche alle esitazioni della Direzione. Possiamo ricostruire la posizione assunta da alcuni delegati della Lombardia, del Piemonte, della Romagna e del Mezzogiorno, sebbene a distanza di tanti anni non vi siano ancora testi disponibili.

Anzitutto fu sollevata la questione che il problema squisitamente politico dell’azione da svolgere contro la guerra dovesse essere affrontato dagli organi del partito, e accettato come tale dai compagni con mandati di funzioni parlamentari e sindacali.

Fin dai primi mesi di guerra non mancò mai una attività agitatoria del movimento operaio italiano: la cronaca degli scioperi segnalava quasi in continuità notizie di astensioni dal lavoro e di vertenze in discussione con possibilità di condurre alle conseguenze estreme della lotta sindacale. Ma si trattava di agitazioni che, abbandonate a se stesse dalla Confederazione Generale del Lavoro, erano destinate a morire di morte naturale, per quanto riguardassero tutta la vasta gamma delle questioni economico-sindacali che da sempre hanno assillato ed assillano le organizzazioni dei lavoratori: il rinnovo di contratti, l’adeguamento di compensi, la concessione di particolari condizioni per gli addetti a lavori gravosi o pericolosi, l’infrazione alle leggi sul lavoro, il licenziamento, etc.

Ma se le agitazioni operaie non venivano prese con la dovuta considerazione dai sindacati, il governo invece non le ignorava di certo e scatenava contro di esse la più brutale delle repressioni. Il gruppo parlamentare socialista, e Turati in special modo, non si preoccupavano tanto della repressione che colpiva il proletariato: d’altra parte quale repressione avrebbe potuto abbattersi sui lavoratori d’Italia peggiore di quella di essere spediti al macello imperialista come pura e semplice carne da cannone?

Altre erano le cose che lo facevano vibrare di sdegno: erano le libertà fondamentali che il governo Salandra calpestava (in virtù dei pieni poteri concessigli democraticamente dal Parlamento), pur essendosi impegnato a non violarle. Turati, di fronte alle centinaia di migliaia di proletari immolati sull’altare degli interessi imperialistici italiani di cosa si scandalizzava? Della instaurazione della censura, e della restaurazione del domicilio coatto!

Riportiamo di seguito la lettera del 15 agosto 1915, inviata da Filippo Turati al repubblicano Barzilai, entrato a far parte del regio governo. «Quando fu deciso l’intervento, io, che lo avrei voluto ad ogni patto evitare, sentii subito (non credo sia un vanto) che ormai bisognava accogliere l’evento non solo come un fatto inevitabile, da non sabotarsi, ma che tutti dovevamo unirci nello sforzo per la vittoria, e per lo sfruttamento democratico e pacifista di essa, e trascinare a questo i nostri Partiti. Subito, con Prampolini e qualche altro, ne parlai a Salandra. Gli spiegai il nostro piano, le sue difficoltà vincibili, e come fosse opportuno che il governo, dal suo canto, ci venisse incontro, non sforzando la situazione, dandoci il tempo indispensabile a ottenere la nuova necessaria orientazione della stampa e dello spirito delle nostre masse, non guastandoci ogni cosa con violenze provocatrici. Parve che – a parole – ci si fosse intesi alla perfezione, Salandra insistendo soltanto a raccomandare che gli evitassimo intralci alla mobilitazione – del che, anche per la propaganda fatta prima, potevamo esser liberati. Ma tornato qui, ebbi subito la non lieta chiarissima visione che ogni mia e nostra fatica sarebbe stata frustrata senza remissione dal modo come le autorità intendevano e applicavano i pieni poteri del governo: sintomo saliente, non unico, la obbrobriosa censura, la cui opera non ebbe mai il più lontano rapporto colle necessità militari che ne erano state il pretesto, ma si accaniva a fini settari contro il pensiero, autorizzando le selvagge aggressioni e vietando le incolpate difese, sofisticando e calunniando le idee col sopprimerle a frammenti ed a frasi, obbedendo ad una specie di frenesia sediziosa e teppistica in odio della intelligenza, col solo risultato di spargere la irritazione più invincibile negli scrittori e nei lettori non chiusi a elementare dignità civile (...)

«Di altro, ben più grave, ti scrivo: del domicilio coatto politico, restituito in vigore dai maledetti tempi crispini, in forma di gran lunga più odiosa. Perché allora si colpivano le idee, da alcuni reputate funeste, e v’erano dei giudici, per quanto sommarii, e una commissione d’appello sedente in Roma. Oggi la deportazione amministrativa vi piomba sul capo, peggio che in Russia dove è qualche garanzia di giudizio, non sapete da chi, non sapete perché, e avete la perfetta sensazione di essere sequestrati dai “bravi” di Don Rodrigo, dai Sozzi di un qualunque La Gala (...) No, non v’è alcuna ragione che, per liberare gli italiani dall’Austria, ci si faccia più austriaci degli austriaci contro gli italiani, più poliziotti dei poliziotti del Kaiser e dello Tzar» (“Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti (1880-1925)”, a cura di Alessandro Schiavi).

La lettera svela un comportamento gravissimo, di Turati e di un gruppo di parlamentari socialisti che, all’insaputa del partito, si accordano con il capo del Governo per portare il partito sul terreno dell’interventismo e del militarismo sciovinista. Nemmeno gli espulsi del 1912 (Bonomi, Bissolati, etc) per opera del rivoluzionario Mussolini erano arrivati a tanto. Possiamo dire che a tanto non era arrivato nemmeno Mussolini il quale aveva sì avuto intelligenza con il nemico di classe (e quattrini), ma una volta rinnegato il socialismo rivoluzionario aveva apertamente dichiarato i suoi propositi: fare aderire il Partito Socialista alla necessità della guerra. Turati, al contrario, trama nell’ombra e nell’ombra porta a termine il tradimento: all’insaputa del partito si accorda con il rappresentante del governo, per condizionare, a sua insaputa, il partito.
 

Partiti socialisti al servizio della propaganda di guerra

Frattanto il Bureau e tutta la struttura dell’Internazionale diveniva sempre più apertamente strumento della propaganda di guerra delle potenze dell’Intesa. A tale scopo una prima riunione dallo scoppio della guerra fu tenuta il 14 febbraio a Londra. Erano stati convocati solo i partiti dei paesi belligeranti alleati: belgi, francesi, russi, serbi ed inglesi. L’ordine del giorno era l’atteggiamento da tenere nei confronti della guerra e nel dopo-guerra. Manco a dirlo la responsabilità del conflitto europeo venne attribuita all’imperialismo... tedesco. I delegati dichiararono che la guerra contro l’imperialismo tedesco doveva essere considerata guerra difensiva e, bontà loro, non avrebbe dovuto trasformarsi in una guerra offensiva perché in questa eventualità non sarebbe stato colpito soltanto il governo, responsabile del conflitto, ma anche il popolo tedesco: «La vittoria alleata dovrà essere la vittoria della libertà per tutti i popoli, dell’unità, dell’indipendenza e dell’autonomia delle nazioni in una pacifica Federazione di Stati Uniti d’Europa e del mondo». Tra le conquiste che la guerra avrebbe permesso di raggiungere c’erano anche l’abolizione della diplomazia segreta, del militarismo, della fabbricazione di armamenti e la creazione di un’organizzazione internazionale per superare le divergenze tra gli Stati con la conciliazione e l’arbitrato. Dovevano inoltre essere restaurate l’indipendenza del Belgio e della Polonia. Secondo i social-intesisti riuniti a Londra la guerra avrebbe portato al proletariato ed all’umanità tutta maggiori benefici di quanti ne avrebbe potuti portare la rivoluzione stessa.

Il Partito Bolscevico aveva inviato in sua rappresentanza Litvinov con l’incarico di leggere una dichiarazione nella quale si invitavano i partiti socialisti ad abbandonare i governi borghesi dei quali erano entrati a far parte. Si diceva che i socialisti tedeschi, austriaci, francesi avevano tradito i principi fondamentali dell’Internazionale, mentre gli italiani erano indicati tra quelli ai quali i socialisti russi stendevano la mano per il loro atteggiamento ostile alla guerra. Litvinov non poté dare lettura della dichiarazione perché gli venne immediatamente tolta la parola e dovette abbandonare la riunione.

Dopo la conferenza londinese dei partiti socialisti dei paesi dell’Intesa, il 12 e 13 aprile a Vienna si riunirono i rappresentanti dei partiti socialisti di Germania, Austria, Ungheria, che affermarono la necessità di un tribunale d’arbitrato per risolvere i contrasti internazionali, l’opportunità di rendere di pubblico dominio i trattati segreti, di limitare gli armamenti, di riallacciare i contatti internazionali tra i partiti socialisti di tutte le nazioni e tutte le altre belle cose che erano state già dette a Londra. Ma tutto questo doveva esser fatto, non ora, si capisce, ma dopo la guerra!

Questo il commento di Lenin: «Tutti sanno che a Vienna si sono riuniti gli amici e i difensori di Südekum, che hanno agito pienamente nel suo spirito, che hanno difeso l’imperialismo tedesco sotto la parvenza della “difesa della patria”. E a Londra si sono riuniti i Südekum francesi, inglesi, russi che hanno difeso il “proprio” imperialismo nazionale con lo stesso pretesto.

«La reale politica dei campioni del socialsciovinismo, tanto londinesi quanto viennesi, consiste nel giustificare la partecipazione alla guerra imperialistica, nel giustificare l’assassinio di operai tedeschi da parte di quelli francesi e viceversa, per stabilire quale borghesia nazionale deve essere la più favorita nella rapina di paesi altrui. Per coprire questa reale politica, per ingannare gli operai, i campioni di Londra e di Vienna ricorrono alla frase, asserendo di “riconoscere” la “indipendenza delle nazioni” o, in altre parole, di riconoscere l’autodecisione delle nazioni, di respingere le annessiomi, ecc. ecc. È chiaro come la luce del sole che questo “riconoscimento” è una flagrante menzogna, un’ipocrisia delle più abbiette, poiché serve a giustificare la partecipazione a una guerra condotta da ambo le parti per asservire nazioni e non per dare loro l’indipendenza (...)

«Oggettivamente questa politica serve ad appoggiare la menzogna che la borghesia diffonde tra la classe operaia, è un mezzo per far penetrare le idee borghesi tra il proletariato. Che Südekum da una parte e Plechanov dall’altra non fanno che ripetere la menzogna borghese dei capitalisti della “propria” nazione, è cosa evidente, ma ciò che non è altrettanto evidente è che Kautsky consacra quella stessa menzogna e la eleva a “suprema verità” dell’Internazionale “unanime”. E la borghesia ha appunto bisogno che gli operai considerino i Südekum e i Plechanov dei “socialisti” autorevoli, unanimi, solo temporaneamente divisi. La borghesia ha appunto bisogno di distogliere, con frasi ipocrite sulla pace, con frasi vuote e che non impegnano a nulla, gli operai dalla lotta rivoluzionaria durante la guerra, di cullarli, di consolarli con la speranza di una “pace senza annessioni”, di una pace democratica, ecc.» (“A Proposito del ‘Programma di Pace’”).
 

Incontri preparatori

La Direzione del Partito Socialista Italiano si riunì per la prima volta dopo l’entrata dell’Italia in guerra il 17-18 giugno. Uno dei punti messi all’ordine del giorno riguardava «la ricostituzione dell’Internazionale come strumento di pace». Una forte critica venne fatta nei confronti della socialdemocrazia tedesca la cui condotta veniva considerata «completamente aberrante da ogni direttiva socialista», mentre si compiaceva «con l’azione coraggiosamente svolta da Carlo Liebknecht e dalla frazione di opposizione alla guerra»; al Bureau internazionale rinfacciava la sua «persistente inattività ad onta delle sollecitazioni più volte fatte anche dal PSI»; riconfermava a Morgari l’incarico «di continuare le pratiche con quei partiti, o frazioni di partito, rimasti fedeli alle idealità socialiste, onde riprendere al più presto l’attività internazionalista e iniziare, anche con un convegno internazionale straordinario, un energico movimento per affrettare la pace europea nel rispetto della libertà dei popoli affermato dai plebisciti, per l’avviamento ad un regime di arbitrato e di disarmo».

L’Avanti! dell’8 luglio 1915 pubblicava il seguente comunicato della direzione del partito: «L’Internazionale va riavendosi dalla dura e terribile prova di questo anno di sangue. A tal proposito riuscirà gradito ai socialisti italiani il plauso che ad essi è venuto dai compagni di tutti i paesi rimasti neutrali per la loro ferma e coerente condotta. Tutta la stampa socialista europea ed americana ha espressi i più entusiastici giudizi per la nostra azione riportandone largamente gli ultimi atti. L’iniziativa italiana per un prossimo convegno internazionale e per fissare un programma di sollecita pace – nel trionfo del diritto dei popoli alla libertà e al disarmo – da agitare vigorosamente in tutta Europa trova sempre più generali consensi. Il compagno on. Oddino Morgari in diretta rappresentanza della Direzione del Partito Italiano è ritornato in Svizzera pienamente accordandosi con i dirigenti di quel partito, il più importante dell’Europa neutrale, ed è passato già da Parigi e trovasi in questi giorni a Londra con un programma concreto».

L’Avvenire del Lavoratore del 3 luglio 1915 aveva già pubblicato il seguente comunicato: «Per iniziativa del Partito Socialista Italiano in Isvizzera ed allo scopo che nella massa operaia svizzera indigena e straniera le passioni e gli odi di razza e di nazionalità non dissolvano e non danneggino l’unità di classe, numerosi socialisti militanti – svizzeri, italiani, russi, polacchi, tedeschi, austriaci, ungheresi – si sono riuniti in Zurigo, stabilendo questo programma d’azione:
1. Alla propaganda nazionalista e di razza, diffusa nel proletariato della Svizzera indigeno e straniero, specialmente da certa stampa svizzera ed estera, contrapporre una organica e perseverante propaganda socialista per l’unità internazionale della classe operaia, a mezzo di pubblicazioni e conferenze.
2. Raccogliere le voci, gli echi, i documenti che esprimono l’avversione del proletariato contro la guerra e la sua aspirazione alla pace, e diffonderli quanto più possibile nei paesi neutri e belligeranti, diramandoli alla stampa socialista e sindacale tradotti nelle rispettive lingue.
3. Essere a disposizione dei Partiti socialisti nella ripresa dell’azione dell’Internazionale e facilitarne l’iniziativa e l’opera, grazie al concorso dei propri membri dei differenti Partiti.
«I presenti alla riunione si costituivano in Comitato per l’unione internazionale dei lavoratori. Fu nominato un Comitato esecutivo di cinque membri che pubblicò un Appello ai lavoratori. Incaricato di ricevere le adesioni fu Cesare Alessandri; incaricata di raccogliere le pubblicazioni, i giornali, le circolari, i documenti vari fu Angelica Balabanoff a Zurigo».

Era ormai chiaro che, come aveva detto Morgari a Vandervelde, si sarebbe dovuto agire indipendentemente dall’Internazionale ed addirittura contro di essa.

Proprio in quei giorni Lenin scriveva: «Malgrado tutto, in molti paesi esistono degli elementi socialdemocratici rivoluzionari. Esistono in Germania, in Russia, in Scandinavia (tendenza influente, il cui rappresentante è il compagno Höglund) e nei Balcani (il partito dei “tesniaki” bulgari), in Italia, in Inghilterra (una parte del Partito socialista britannico), in Francia (lo stesso Vaillant ha ammesso nell’Humanité di aver ricevuto lettere di protesta di internazionalisti, ma non ne ha pubblicato integralmente neppure una), in Olanda (“i tribunisti” ) ecc... Raccogliere questi elementi marxisti, per quanto poco numerosi essi siano all’inizio, ricordare in loro nome le parole oggi dimenticare del socialismo autentico, invitare gli operai di tutti i paesi a rompere con gli sciovinisti ed a porsi sotto la vecchia bandiera del marxismo: ecco il compito del giorno».

L’11 luglio si tenne così a Berna un incontro tra rappresentanti dei partiti socialisti di paesi neutrali e belligeranti e furono poste le basi per un convegno da tenersi nel settembre: erano presenti Grimm, Zinoviev, Morgari, Axelrod, Angelica Balabanoff e due socialisti polacchi. La relazione dell’abboccamento preliminare diceva che il Convegno «non doveva in nessun modo servire alla creazione di una nuova Internazionale, bensì a chiamare il proletariato ad una comune azione per la pace, a creare un centro per tale azione, a tentare di ricondurre il proletariato alla sua missione di classe». L’intento di Lenin era esattamente l’opposto: rompere definitivamente con la Seconda Internazionale e dar vita alla Terza, autenticamente marxista rivoluzionaria.

Fu deciso quindi di rivolgere l’invito a tutte le organizzazioni socialiste disposte a lottare contro la guerra, indipendentemente dalle divergenze di vedute teoriche che potessero esistere fra i diversi gruppi socialisti.
 

Zimmerwald

Il Convegno ebbe luogo a Zimmerwald, presso Berna, nei giorni dal 5 all’8 settembre 1915. L’Avanti! dava il giorno 13 un cenno sull’avvenimento, avvertendo che era stata tenuta una importantissima riunione di socialisti internazionalisti in un paese della Svizzera; che vi avevano partecipato 40 socialisti, rappresentanti di organismi politici ed economici di una dozzina di nazioni, comprese la Francia e la Germania; che i lavori erano durati quattro giorni e si erano chiusi con la redazione di un manifesto da lanciare al proletariato di tutto il mondo. Nei giorni successivi l’Avanti! completava il notiziario nei modi e nei termini permessi dalla censura.

L’elenco degli organismi rappresentati al Convegno era il seguente:
- ITALIA: Delegazione ufficiale del Partito e del Gruppo parlamentare socialista (Angelica Balabanoff, Lazzari, Modigliani, Morgari, Serrati).
- GERMANIA: Rappresentanti di gruppi di opposizione al Partito ufficiale.
- FRANCIA: Rappresentanti della minoranza della Confédération Générale du Travail; socialisti isolati; ufficialmente rappresentata la Federazione Metallurgica.
- INGHILTERRA: I membri dell’Indipendent Labour Party e i membri di una frazione del British Socialist Party furono trattenuti a Londra per il rifiuto opposto dal democratico governo di Sua Maestà di concedere loro i passaporti.
- RUSSIA: Comitato Centrale del Partito socialista russo; Comitato della delegazione estera del Partito socialista rivoluzionario; Bund (operai socialisti israeliti); Lettoni.
- POLONIA (e LITUANIA). Rappresentanti delle tre organizzazioni socialiste.
- ROMANIA: Delegazione ufficiale del Partito.
- BULGARIA: Delegazione ufficiale del Partito “stretto” (rivoluzionario intransigente) e del rispettivo Gruppo parlamentare.
- SVEZIA E NORVEGIA: Delegazione ufficiale del Sozialdemokratiska Ungsdomforbundet.
- OLANDA: Rappresentanza ufficiale del “Gruppo internazionale”.
- SVIZZERA: Delegazione senza mandato ufficiale del Partito, avendo la Direzione lasciato libero ogni suo membro di partecipare o no al Convegno.
- I Partiti socialisti argentino e serbo avevano inviato la loro adesione.

Nel corso del convegno ogni delegazione riferì sulle condizioni del movimento socialista e proletario nel proprio paese dallo scoppio della guerra in poi.

La discussione sulla politica socialista di fronte al conflitto dette luogo al formarsi di tre differenti correnti. Lenin sostenne la posizione rivoluzionaria intransigente per cui occorreva rompere immediatamente con la Seconda Internazionale, trasformare la guerra capitalistica in guerra rivoluzionaria di classe: approfittare del conflitto per scatenare la rivoluzione proletaria. La maggior parte dei presenti aderì però ad una tesi molto meno intransigente che, in sostanza, si ispirava alla formula dei socialisti italiani “né aderire, né sabotare”. Infine un piccolo gruppo di cinque o sei delegati, fra cui Grimm, Trotzki, Angelica Balabanoff e Henriette Roland-Holst, assunse una posizione intermedia fra le due tendenze estreme.

L’Ordine del Giorno presentato dai delegati russi, polacchi, svedesi e norvegesi diceva, tra l’altro, che «solo dopo essersi liberati da ogni influenza della politica borghese della “resistenza a fondo” è possibile un’azione del proletariato per la pace. Ma tale lotta non può essere che una lotta rivoluzionaria. Un’azione per la pace non può avere come unico scopo il raggiungimento della pace: data la maturità degli antagonismi sociali, tale lotta diventerà lotta per il socialismo. Compito dei partiti socialisti è di precisare l’azione per la pace mercé gli stessi mezzi ch’essi devono adottare» (Avanti!, 14 ottobre 1915). Questo Ordine del Giorno, con 12 voti favorevoli e 19 contrari, venne respinto. La maggioranza dei delegati ritenne che l’approvazione dell’ordine del giorno ispirato da Lenin avrebbe portato ad una nuova scissione fra gli stessi zimmerwaldiani. La posizione condivisa dai più era che «Il convegno non deve diventare strumento di una qualsiasi tendenza, bensì deve tentare di inaugurare una lotta alla quale possono prendere parte tutti gli elementi che, partendo da premesse e da principi socialisti, lottano contro la tregua dei partiti, e che, indipendentemente dalle condizioni militari del momento, lottano in ogni paese per la sollecita fine della guerra».

È importante ricordare come già nel corso di un convegno di donne socialiste d’Italia, Germania, Russia, Francia, Olanda, Svizzera, Inghilterra, che si era tenuto a Berna dal 25 al 27 marzo 1915, le rappresentanti del Partito bolscevico russo avevano chiesto la rottura di ogni rapporto con il Bureau della Seconda Internazionale e la creazione di una nuova. Alla fine avevano accettato – sia pure dopo molta insistenza – una soluzione di compromesso. Parlando di questo convegno delle donne socialiste Lenin, l’anno successivo (1916) annoterà: «Nel congresso internazionale delle donne, tenutosi a Berna nel marzo 1915, le rappresentanti del Comitato centrale del nostro partito sottolinearono che era assolutamente necessario creare organizzazioni illegali. La loro proposta fu respinta. Le inglesi ne risero e decantarono la “libertà” inglese. Ma qualche mese più tardi ricevemmo dei giornali inglesi, il Labour Leader per esempio, con spazi in bianco; in seguito ricevemmo notizie di perquisizioni della polizia, di confische di opuscoli, di arresti e di sentenze draconiane contro compagni che in Inghilterra parlavano di pace, soltanto di pace!».

Sempre a Berna, dal 4 al 6 aprile, c’era stato un convegno di giovani socialisti di diversi paesi ostili alla guerra e rifugiatisi in Svizzera per evitare la coscrizione; anche in questa occasione pacifisti e bolscevichi si diedero battaglia e ne sortì la creazione di un ufficio permanente a Zurigo il quale pubblicò, sino alla fine della guerra, il periodico d’estrema sinistra Jugend Internationale.

Nel corso del suo intervento Serrati attaccò Lenin dicendo che il progetto di Risoluzione su “La guerra ed i compiti della socialdemocrazia” presentato dal gruppo di sinistra era o prematuro o in ritardo poiché la guerra era già in corso ed era quindi impossibile impedirne lo scoppio. La risposta di Lenin fu pacata, ma precisa: «Non sono d’accordo con Serrati quando dice che la risoluzione uscirà troppo presto o troppo tardi. Dopo questa guerra si faranno altre guerre, soprattutto coloniali. Se il proletariato non toglierà di mezzo il socialimperialismo, la solidarietà proletaria sarà completamente distrutta, e pertanto noi dobbiamo delineare una tattica unica. Se accettiamo soltanto il manifesto, Vandervelde, l’Humanité e gli altri inganneranno di nuovo le masse, giacché si dichiareranno contrari alla guerra e favorevoli alla pace. Resterà allora la stessa confusione che ha regnato sino a oggi».

Lenin, nonostante fosse stato posto in minoranza, ritenne che la conferenza aveva adempiuto comunque ad un compito positivo ed era servita a consolidare lo spirito internazionalista in quella nuova direzione che fu il primo passo verso la costituzione della Terza Internazionale. «In questa conferenza la lotta delle idee si è svolta tra il gruppo compatto degli internazionalisti, dei marxisti rivoluzionari, e i tentennanti semikautskiani, che formavano l’ala destra della conferenza. Il consolidamento del gruppo dei marxisti rivoluzionari è stato uno degli avvenimenti più importanti e uno dei più grandi successi della conferenza. Dopo un intero anno di guerra, l’unica corrente dell’Internazionale che si sia presentata con una risoluzione ben definita – e con un progetto di manifesto basato su di essa – e che abbia raggruppato i marxisti conseguenti di Russia, Polonia, Lettonia, Germania, Svezia, Norvegia, Svizzera e Olanda, è stata la corrente rappresentata dal nostro partito. Quali argomenti hanno presentato gl’incerti contro di noi? Un italiano, parlando contro la nostra tattica, ha detto: “La vostra tattica arriva troppo tardi” (perché la guerra è già incominciata) “o troppo presto” (perché la guerra non ha ancora generato le condizioni per la rivoluzione). Per di più voi proponete il “cambiamento del programma” dell’Internazionale perché tutta la nostra propaganda è stata sempre diretta “contro la violenza”. Ci è stato facile rispondere con una citazione dell’”En Garde!” di Jules Guesde, dalla quale risulta che nessun capo influente della Seconda Internazionale ha mai negato l’uso della violenza e, in generale, di metodi di lotta direttamente rivoluzionari» (Lenin, Sozialdemokrat, 11 ottobre 1915).

A Zimmerwald venne deciso di dar vita ad una Commissione socialista internazionale permanente, la quale avrebbe avuto sede a Berna con il compito di coordinare l’azione di tutti i movimenti socialisti e operai favorevoli ad una decisa azione per la pace; furono chiamati a farne parte Morgari, Naine, Grimm e Angelica Balabanoff come segretaria e interprete.
 

Il Manifesto

Ma l’atto più importante, per i riflessi che ebbe nei vari paesi, fu la stesura di un Manifesto rivolto ai proletari d’Europa che i delegati si impegnavano a far conoscere il più largamente possibile; furono incaricati della redazione Grimm, Trotzki e Henriette Roland-Holst, ritenuti i più idonei a conciliare le opposte posizioni. Il Manifesto definiva la guerra come prodotto dell’imperialismo e l’imperialismo prodotto delle classi capitalistiche; le nazioni economicamente più arretrate cadono inevitabilmente sotto il giogo delle grandi potenze che non si peritano, quando è richiesto dal loro interesse, di modificare la carta mondiale, provocando la soppressione di quegli Stati che non hanno sufficiente forza per opporre una valida resistenza. I capitalisti, d’altra parte, gridano che la guerra serve alla difesa della patria, al consolidamento della democrazia, alla liberazione dei popoli oppressi, mentre invece la guerra semina rovina, morte, schiavitù e miseria ovunque. Il capitalismo mostra così di essere inconciliabile non solo con gli interessi dei lavoratori e con il progresso civile, ma anche con i bisogni elementari dell’umanità.

Accanto al Manifesto, sottoscritto da tutti i vari rappresentanti, venne stesa e diffusa una dichiarazione congiunta di socialisti francesi e tedeschi.

Si trattava ora di diffondere il Manifesto di Zimmerwald e la cosa non sarebbe stata facile. Si sapeva che i Governi dell’Intesa si erano accordati per impedirne la pubblicazione e la diffusione. In Francia comparve, per opera del Partito Socialista, intesista e partecipante alla “Union Sacrée”, un breve e freddo comunicato che non diede luogo ad alcuna discussione essendo la censura francese severissima in proposito. In Germania i partigiani di Zimmerwald fecero stampare il manifesto alla macchia e lo diffusero clandestinamente. Da parte sua il Partito Socialdemocratico, aderente alla guerra, pubblicò un comunicato nel quale si sconfessava il Convegno, coloro che vi avevano partecipato, coloro che ne diffondevano i deliberati.

In Italia, oltre alle notizie date dall’Avanti! attraverso le maglie della censura – che aveva immediatamente interdetto la pubblicazione del manifesto – si ebbe qualche modesto accenno all’avvenimento in taluni giornali, e nulla più. Fu allora che Serrati, direttore dell’Avanti!, decise la pubblicazione integrale del Manifesto, malgrado che già fosse stato censurato e malgrado che l’Ufficio della censura sulla stampa avesse avvertito che il Ministero degli Interni ne proibiva assolutamente la pubblicazione. Serrati non fece parola del suo proposito nemmeno con i redattori: si limitò a mettersi d’accordo solo con i necessari tipografi del partito. La sera del 13 ottobre 1915 le quattro pagine del giornale andarono al visto della censura come al solito, con una seconda pagina del tutto inoffensiva. Tornate in tipografia le pagine col “visto”, ne vennero tirate poche copie che furono spedite in Prefettura per il “nulla osta alla stampa”, che fu concesso. Ma intanto, fermata la macchina, il piombo della seconda pagina veniva sostituito con quello già preparato col tanto censurato e proibito Manifesto e le altre delibere di Zimmerwald, pure censurate. Tutta l’edizione della provincia venne così stampata e spedita. Per l’edizione di Milano, invece, si reinserì la seconda pagina inoffensiva, di modo che l’indomani mattina, 14 ottobre, in Milano i censori non si accorsero di nulla. Solo troppo tardi la censura cominciò ad essere tempestata di telefonate dalla provincia e i censori capirono di essere stati giocati.

Fu l’unico tiro che il giornale giocò alla censura, ma fu notevole, anche perché c’era di mezzo l’accordo dei Governi dell’Intesa di non permettere la pubblicazione del Manifesto. Alla divulgazione del documento all’interno della città di Milano provvide la Sezione socialista, stampato in 100.000 volantini, diffusi specialmente nei quartieri popolari. In provincia quasi tutte le riviste settimanali lo riprodussero; ‘ché i censori locali, vedendolo comparire “liberamente” sull’Avanti!, non credettero di dover essere più censori dei censori di Milano. Il Ministero preferì lasciar correre e all’Avanti! non venne inflitta neppure la leggera multa prevista nel decreto che istituiva la censura. La cosa più amena fu che in Francia, dove l’Avanti! arrivò col Manifesto, i sovversivi attaccarono Briand, allora presidente del Consiglio, perché non permetteva che si diffondesse in Francia quello che “ liberamente” era stato diffuso in Italia!

I deliberati di Zimmerwald sono i seguenti: Ordine del Giorno della Direzione del Partito Socialista Italiano a chiusura della relazione su Zimmerwald; Dichiarazione comune dei socialisti e dei sindacalisti francesi e tedeschi.
 

Ripercussioni in Italia

Per completare questo capitolo sul convegno di Zimmerwald occorre rievocare alcune risoluzioni di organismi socialisti e giudizi della Magistratura.

Il 30 ottobre 1915 il Gruppo parlamentare socialista, dopo avere ascoltata una relazione dell’on. Morgari sull’argomento, pubblicò un comunicato nel quale diceva di essersi trovato concorde «nell’esprimere questo suo sentimento: che, cioè, tanto lo spirito quanto la lettera delle deliberazioni del Convegno di Zimmerwald debbono ormai orientare l’azione parlamentare, oltreché politica e popolare del Partito».

Il 29 dicembre 1915 il Consiglio Direttivo della Confederazione del Lavoro approvò il seguente ordine del giorno: «Il Consiglio Direttivo della C.G.L., Udito il rapporto del C.E. sulle pratiche svolte con gli organismi sindacali degli altri paesi allo scopo di riallacciare i rapporti interrotti dallo stato di guerra; Richiamata la delibera di agosto con la quale aderiva al convegno di Zimmerwald; Udite le informazioni circa il mancato intervento della Confederazione alla Conferenza stessa per impedimenti frapposti dall’autorità politica al rilascio dei passaporti; Si duole dell’ingiusto rilievo mosso dalla Direzione del P.S. per tale mancato intervento; Viste le deliberazioni dei convenuti a Zimmerwald, ad esse aderisce in quanto, attenendosi al Congresso di Stoccarda, non impegnano né confondono l’azione specifica dei Partiti politici socialisti e degli organismi sindacali – mentre si ispirano alle alte idealità umane consacrate nelle mozioni di Amsterdam e di Copenaghen, richiamano la classe operaia dei paesi in guerra ai doveri verso se stessa e la inducono alla lotta per la pace; Delega – col mandato di attenersi alle suesposte deliberazioni – la propria rappresentanza al Segretariato generale».

Un altro ordine del giorno di pieno consenso con la Conferenza di Zimmerwald venne votato il 16 gennaio 1916 al Congresso nazionale delle amministrazioni socialiste, tenutosi a Bologna. Esso era così formulato: «I rappresentanti dei Comuni socialisti italiani riuniti a Congresso, prima di iniziare i propri lavori amministrativi, Interpreti dell’anima del proletariato internazionale che vibra e aleggia in mezzo a noi, Affermano l’adesione completa al Convegno di Zimmerwald ed al Manifesto lanciato dal Convegno al proletariato europeo; Affermano ancora la fraterna comunanza di affetti con le Sezioni dell’Internazionale che rimasero fedeli alla bandiera, e specialmente con le minoranze di Germania e d’Austria che si sforzano di ricondurre ad essa il proletariato degli Imperi Centrali; E inneggiano alla resurrezione viva e vitale dell’Internazionale socialista oltre le frontiere e le trincee».

Il 2 febbraio 1916 si svolgeva davanti al Tribunale di Roma una causa di diffamazione, intentata da Costantino Lazzari all’Idea Nazionale, che lo aveva tacciato di venduto al nemico e di traditore della Patria per aver fatto in seno alla Sezione romana del Partito Socialista un resoconto dei Convegno di Zimmerwald. Lazzari illustrò in Tribunale gli scopi e le finalità del Convegno; il Tribunale non ammise la diffamazione e condannò capo cronista e gerente del giornale, per ingiuria, a lire 250 di multa per ciascuno oltre al risarcimento dei danni e delle spese.

Il 17 febbraio 1916 comparvero davanti alle Assise di Milano due giovani socialisti, imputati della diffusione del manifestino contenente il testo del Manifesto di Zimmerwald. Come testimone fu udito Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’Avanti!, il quale affermò di avere pubblicato il manifesto di Zimmerwald, nonostante il divieto della censura, sotto la sua personale responsabilità. I giurati avevano in tal modo di fronte il vero e solo responsabile della diffusione del Manifesto. Ma sapevano che il Governo non aveva creduto di colpire il giornale e il suo direttore, e non vollero mostrarsi più realisti del re; quindi non riconobbero nell’atto compiuto dai due accusati eccitamento all’odio di classe, e si accontentarono di riconoscervi una semplice contravvenzione alle leggi di Pubblica Sicurezza e sul Bollo: in base a ciò il presidente del Tribunale condannò i due imputati a lire 25 di multa per la prima e a lire 30 per la seconda contravvenzione.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 


La questione ebraica oggi

Capitoli esposti a Parma nel gennaio a e Viareggio nel giugno 2006.

[Qui raccolta e riordinata]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra

Nel corso di una polemichetta con il sociologo Colajanni, il 23 febbraio del 1919 pubblicammo su “Il Soviet” un articolo intitolato “Bolscevismo, pianta di ogni clima”. Nel breve scritto evidenziavamo come il “bolscevismo” non fosse giunto in Italia allo stesso modo di un articolo di importazione, ma che socialismo e bolscevismo erano, semplicemente, la stessa cosa. Questo dimostrava come mai, per combattere il pregiudizio patriottico e il sofisma della difesa nazionale, i marxisti rivoluzionari d’Italia non avevano aspettato che Lenin e i bolscevichi avessero trionfato in Russia. Anzi, pur senza il loro glorioso e luminoso esempio, quando le vicende storiche avessero permesso la conquista rivoluzionaria del potere in Italia, anche noi ci saremmo comportati nello stesso modo. E ciò appunto perché i marxisti rivoluzionari, a prescindere dal paese di origine e dal teatro di intervento, lavorano tutti per l’attuazione dello stesso programma: per la lotta di classe che nega la solidarietà nazionale, per il socialismo rivoluzionario, per la conquista del potere e per la dittatura del proletariato; ossia dei senza-patria. Questa dottrina e questo metodo non erano stati improvvisati da Lenin nel 1917, ma proclamati dall’Internazionale Socialista fin dal 1847.

Se il “bolscevismo” è pianta di ogni clima, un’altra pianta che attecchisce sotto tutti i cieli è rappresentata da quella impostazione politica che in maniera inesatta (perché di sapore moralista) viene definita “opportunismo”, mentre più appropriato sarebbe chiamarla “controrivoluzione”.

Sappiamo come allo scoppio della Prima Guerra interimperialista tutti i partiti socialdemocratici, in accordo con le proprie borghesie nazionali, si schierassero a difesa delle rispettive patrie. Le giustificazioni addotte furono sostanzialmente due: l’una in Francia ed Inghilterra, l’altra in Germania ed Austria: 1) il proletariato doveva difendere le conquiste democratiche dagli attacchi del militarismo tedesco; 2) il proletariato doveva difendere la patria minacciata di invasione da parte della barbara Russia zarista.

Quindi nessuna di queste “scala di valori” forniva ai socialdemocratici russi alcun argomento difesista cui appigliarsi.

Quando Vandervelde all’inizio della guerra aveva inviato una lettera ai socialisti russi invitandoli a sostenere il loro governo nella lotta contro il militarismo tedesco, i bolscevichi non mancarono di rispondere in maniera inequivocabile: «Il proletariato russo non intende, nel modo più assoluto, collaborare con il suo governo; non vuole stabilire una tregua con esso, sia pure provvisoria, e dargli in un modo o nell’altro il suo appoggio. Qualsiasi forma di lealismo è fuori discussione. Anzi, noi riteniamo urgente la lotta più implacabile contro di esso, sulla base delle nostre rivendicazioni, avanzate ed adottate all’unanimità dalla classe operaia durante la Rivoluzione del 1905. Lo scopo immediato che noi perseguiamo durante la guerra, in cui si trovano coinvolti milioni di proletari e di contadini, è di opporci a tutte le miserie che la guerra trascina con sé, allargando ed intensificando le organizzazioni di classe del proletariato e delle masse democratiche e di sfruttare le crisi provocate dalla guerra al fine di risvegliare la coscienza del popolo e facilitare in tal modo la rapida soluzione dei problemi del 1905».

A dimostrazione, però, che pure l’ “opportunismo” è pianta di ogni clima, vediamo come, anche in Russia, affondasse la proprie radici in terreni altrettanto fertili che in Europa: il vecchio militante marxista Plechanov, l’anarchico Kropotkin, Kerensky, la maggioranza del Partito Socialista Rivoluzionario, avevano assunto lo stesso atteggiamento dei socialisti francesi, contro l’imperialismo tedesco e il militarismo prussiano e a favore della politica di guerra del governo russo.

Il gruppo dei menscevichi di Pietrogrado, ad esempio, rispose a Vandervelde, in termini molto diversi da quelli dei bolscevichi: «La causa che voi avete abbracciato in questa guerra è giusta, finché si tratta della difesa contro il pericolo della politica aggressiva degli Junker prussiani che minacciano le libertà democratiche e la lotta d’emancipazione del proletariato. Lo sviluppo obiettivo degli avvenimenti iscriverà all’ordine del giorno la questione dell’esistenza di quella cittadella del militarismo contemporaneo che è la casta degli Junker prussiani. La situazione internazionale si fa complessa per il fatto che oltre al militarismo prussiano si trova simultaneamente confusa nel conflitto un’altra forza reazionaria, il governo russo, il quale, rafforzandosi nel corso della guerra, può, in determinate circostanze, divenire il centro delle tendenze reazionarie nella politica mondiale (...) Ciononostante e malgrado l’impossibilità del proletariato di svolgere attualmente il ruolo dei proletari francesi, belgi e inglesi, perché tutto è soppresso in Russia, le organizzazioni e la stampa operaia, e le prigioni sono piene, vi dichiariamo che, nella nostra attività in Russia, noi non ci opponiamo alla guerra, nella speranza che il conflitto attuale si concluda conformemente agli interessi del socialismo internazionale». L’appoggio al regime zarista avrebbe potuto portare il conflitto mondiale ad una conclusione favorevole agli interessi del socialismo. Una bella prova di dialettica, non c’è che dire!

Se i menscevichi esprimevano il “pudore” di provare il sospetto ed avanzare l’ipotesi che il regime zarista, “in determinate circostanze”, potesse “divenire il centro delle tendenze reazionarie nella politica mondiale”, simili preoccupazioni non sfioravano minimamente i pensieri dell’anarchico Kropotkin che, per non essere da meno degli altri, dichiarava: «Nel momento attuale chiunque possa e voglia fare qualcosa di utile per salvare la civiltà europea, per continuare la lotta a favore dell’Internazionale operaia, non può e non deve fare che una cosa: aiutare a schiacciare il nemico delle nostre più care aspirazioni, il militarismo prussiano e l’imperialismo tedesco (...) Ed ecco che questo moderno Attila lancia sull’Europa occidentale le sue orde bestiali. È nostro dovere opporci a questo attacco con tutti i mezzi disponibili. I diplomatici tedeschi ricordano gli insegnamenti di Bismarck: “Condurre al tempo stesso una campagna militare e una campagna diplomatica”, ossia una campagna di inganni e di menzogne (...) Non si può far a meno di auspicare l’annientamento totale e definitivo della Germania militarista. Né si può restare neutrali, perché in questo caso, la neutralità significherebbe complicità a favore del suo pugno di ferro. Gli alleati vinceranno; i diritti delle nazionalità al loro libero sviluppo saranno riconosciuti; il principio federativo troverà applicazione nella nuova carta d’Europa. E l’unità delle forze di combattimento di fronte al pericolo comune porterà dei frutti. La causa è giusta. Trionferà». Ogni commento è superfluo. Solo una cosa dobbiamo osservare: le medesime argomentazioni, pari pari, espresse con le stesse parole, le ritroveremo, 30 anni dopo, in bocca di coloro che pretendevano essere i continuatori della rivoluzione bolscevica e gli eredi di Lenin.

Un aspetto invece che andrebbe e che il partito dovrà approfondire è quello del contegno esemplare tenuto nei confronti della guerra dai socialisti serbi, bulgari e rumeni, che già all’epoca delle guerre balcaniche si erano fieramente opposti ai loro rispettivi governi. Non sarà mai sottolineato abbastanza il comportamento degno ed ammirevole tenuto dal Partito Socialista Serbo.

L’Austria-Ungheria, che aveva già sottomesso parte degli slavi del Sud e nel 1907 si era annessa la Bosnia-Erzegovina, ora prendeva pretesto dall’attentato di Sarajevo per dichiarare guerra alla Serbia. Se ci fosse stata una ragione a favore della collaborazione, o soltanto della tregua di classe e della difesa nazionale, questa la avrebbero avuta i socialisti serbi.

La guerra aveva letteralmente distrutto la Serbia; la popolazione decimata e quella giovanile quasi dimezzata; alle perdite della guerra se ne erano aggiunte altre terribili provocate dalla febbre tifoidea e da altre epidemie che, a causa della disorganizzazione amministrativa, dell’incuria e della corruzione burocratica, avevano falciato un numero incalcolabile di vittime. “La grande Serbia non avrà serbi” era l’espressione divenuta tristemente popolare.

Il segretario del Partito Socialista Serbo, Donchau Popovitch, in una lettera scriveva: «Quasi tutte le forze del nostro paese, ormai mature non solo per la guerra ma anche per la rivoluzione, sono attualmente annientate e ci sembra che di tutti i partiti il nostro sia quello che ha subito le perdite più pesanti. Dopo la guerra, il nostro partito avrà indubbiamente al suo fianco le grandi masse. Ma non ci sarà più nessun militante: tutti i nostri coraggiosi compagni, profondamente educati al socialismo, che avevano lottato per la causa con tanto ardore, zelo e successo, non ci sono più. Tutti, e con loro Tutsévitch, riposano nelle loro tombe e noi non sentiremo più la loro voce (...) Noi che ancora restano in vita, noi continueremo la loro lotta, nonostante le insanabili ferite dei nostri cuori».

Confermata la dedizione ai principi del socialismo internazionale, la stessa lettera analizzava con la massima lucidità il comportamento del partito nei confronti della guerra e le ragioni di questo comportamento.

Lo scritto continuava: «Lo stesso giorno in cui fu decretata la mobilitazione, convocammo il nostro comitato centrale (...) e definimmo chiaramente la nostra posizione di principio. Per noi era ovvio che, per quanto riguarda il conflitto fra Serbia e Austria-Ungheria, il nostro paese si trovava evidentemente in posizione di difesa. L’Austria perseguiva una politica di conquista contro la Serbia, molto prima che quest’ultima fosse diventata uno Stato indipendente. Quanto all’attentato di Sarajevo, la colpa ricade indubbiamente sulla Serbia ufficiale. Ne consegue che, formalmente, parte della responsabilità di aver provocato la guerra ricade sulla Serbia. Ma, in fondo, la Serbia difende la propria esistenza e indipendenza, che anche prima dell’attentato di Sarajevo erano continuamente minacciate dall’Austria. E se la socialdemocrazia aveva il diritto di votare in qualche parte a favore della guerra, era certamente e prima di tutto in Serbia che poteva farlo. Tuttavia per noi il fatto decisivo fu che la guerra fra Serbia ed Austria non era che una piccola parte di un tutto, nulla più che il prologo della guerra europea, universale; e quest’ultima – ne eravamo profondamente convinti – non avrebbe potuto avere altro carattere che quello di un imperialismo nettamente accentuato. Di conseguenza noi – in quanto parte della grande Internazionale socialista e proletaria – abbiamo ritenuto nostro imperioso dovere dichiarare la nostra ferma opposizione alla guerra. Noi non volevamo provocare dissonanze nell’atteggiamento delle sezioni dell’Internazionale, ma è proprio con la nostra risoluzione che, nostro malgrado, le abbiamo provocate, perché purtroppo quasi tutti gli altri partiti socialisti hanno votato a favore di questa guerra! Fu per noi un colpo morale terribile, il più duro della nostra vita di militanti. Ma, malgrado tutto, non ci ha fatto crollare; né ha scosso la nostra profonda convinzione di aver agito nel senso socialista, soltanto socialista. Gli avvenimenti intervenuti successivamente hanno anzi rafforzato la nostra opinione su questa guerra. E pochi mesi dopo abbiamo saputo con profondissima gioia che essa era condivisa anche da un certo numero dei migliori socialisti».

Tra i migliori socialisti, senza dubbio, vi erano i compagni russi dei quali qui riportiamo il documento a firma del comitato centrale e pubblicato sul "Sozialdemokrat" del 1° novembre 1914. Il documento, perfetto dal punto di vista della analisi marxista, contiene in sintesi tutta la dottrina ed il programma d’azione che Lenin e il partito bolscevico si sforzeranno di fare accettare da quei socialisti che non avevano tradito le risoluzioni dei congressi dell’Internazionale. Programma che si fondava essenzialmente su due basi fondamentali ed irrinunciabili: la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile; la creazione immediata di una nuova Internazionale rivoluzionaria che rompesse definitivamente con i socialpatrioti ed i loro metodi di collaborazione di classe.

Il secondo documento che ripubblichiamo è l’Appello alla Gioventù Socialista da parte dei giovani militanti socialisti riuniti a Berna, dal 4 al 6 aprile 1915. L’Appello come documento programmatico è senza dubbio di molto inferiore all’altro, però ha la sua importanza in quanto nega recisamente la collaborazione dei socialisti con lo Stato borghese e la partecipazione alla guerra imperialista.
 
 
 
 

La guerra e la socialdemocrazia russa
 

La guerra europea, preparata per decenni dai governi e dai partiti borghesi di tutti i paesi, è scoppiata. L’aumento degli armamenti, l’estremo inasprirsi della lotta per i mercati nello sviluppo della nuova fase imperialista del capitalismo nei paesi più avanzati, gli interessi dinastici delle monarchie più arretrate dell’Europa orientale, dovevano inevitabilmente condurre, ed hanno condotto, a questa guerra.

Conquistare dei territori e asservire delle nazioni straniere, mandare in rovina le nazioni concorrenti e depredarne le ricchezze, deviare l’attenzione delle masse lavoratrici dalla crisi politica interna in Russia, in Germania, in Inghilterra e in altri paesi, scindere le masse lavoratrici, ingannarle con l’inganno nazionalistico e distruggerne l’avanguardia allo scopo di indebolire il movimento rivoluzionario del proletariato, ecco l’unico contenuto effettivo, il significato e la portata della guerra attuale.

Alla socialdemocrazia incombe innanzi tutto il dovere di svelare il vero significato della guerra e di smascherare senza pietà le menzogne, i sofismi e le frasi “patriottiche” propagate dalle classi dominanti, dai proprietari fondiari e dalla borghesia, in difesa della guerra.

A capo di un gruppo di nazioni belligeranti sta la borghesia tedesca, la quale inganna la classe operaia e le masse lavoratrici affermando che conduce la guerra per la difesa della patria, della libertà e della civiltà, per la liberazione dei popoli oppressi dallo zarismo, per l’abbattimento dello zarismo reazionario. Invece la realtà è che proprio questa borghesia, servile dinanzi agli junkers prussiani con alla testa Guglielmo II, è sempre stata l’alleata più fedele dello zarismo e la nemica del movimento rivoluzionario degli operai e dei contadini russi. In realtà questa borghesia, indipendentemente dall’esito della guerra, farà tutti gli sforzi assieme agli junkers per sostenere la monarchia zarista contro la rivoluzione in Russia.

La realtà è che la borghesia tedesca ha intrapreso una campagna brigantesca contro la Serbia, per soggiogarla e soffocare la rivoluzione nazionale degli slavi del Sud, e nello stesso tempo ha diretto la parte principale delle sue forze militari contro i paesi più liberi, il Belgio e la Francia, allo scopo di saccheggiare questi concorrenti più ricchi. La borghesia tedesca, mentre diffondeva la leggenda di una sua guerra difensiva, sceglieva in realtà il momento ad essa più propizio per la guerra, utilizzando gli ultimi perfezionamenti a cui era giunta la propria tecnica militare e prevenendo i nuovi armamenti già progettati e prestabiliti dalla Russia e dalla Francia.

Alla testa dell’altro gruppo di nazioni belligeranti stanno la borghesia inglese e francese, le quali ingannano la classe operaia e le masse lavoratrici affermando di condurre la guerra per la patria, la libertà e la civiltà, contro il militarismo e il dispotismo della Germania. Ma in realtà, già da molto tempo questa borghesia aveva finanziato coi suoi miliardi l’esercito dello zarismo russo, della monarchia più reazionaria e barbara dell’Europa, preparandolo all’aggressione contro la Germania.

In realtà, lo scopo della lotta delle borghesie inglese e francese è la conquista delle colonie tedesche e la rovina della nazione concorrente che si distingue per il suo più rapido sviluppo economico. E per questo nobile fine le nazioni democratiche più “avanzate” aiutano lo zarismo selvaggio a opprimere maggiormente la Polonia, l’Ucraina, ecc., e a soffocare con maggior violenza la rivoluzione russa.

Nessuno dei due gruppi belligeranti è secondo all’altro in quanto a rapine, ferocia e per l’infinita crudeltà della guerra. Ma per ingannare il proletariato e distogliere la sua attenzione dall’unica guerra effettivamente liberatrice – vale a dire dalla guerra civile contro la borghesia del “proprio” paese e dei paesi “stranieri” – per questo alto scopo la borghesia di ogni paese tenta di esaltare, con frasi menzognere sul patriottismo, il significato della “propria” guerra nazionale e vuol far credere che si sforza di vincere il nemico non per spogliarlo e occuparne il territorio, ma per “liberare” tutti gli altri popoli, eccettuato il proprio.

Ma con quanto più zelo il governo e la borghesia di tutti i paesi tentano di dividere i proletari gettandoli gli uni contro gli altri, quanto più ferocemente si applica a tal nobile fine il regime dello stato d’assedio e della censura militare (che anche oggi, in tempo di guerra, è diretta ancor più contro il nemico “interno” che non contro quello esterno), tanto più improrogabile diviene il dovere del proletariato cosciente di difendere la propria unità di classe, il proprio internazionalismo, le proprie concezioni socialiste contro il baccanale dello sciovinismo della cricca borghese “patriottica” di tutti i paesi. Sottrarsi a questo compito significherebbe, per gli operai coscienti, rinunciare a tutte le proprie aspirazioni alla libertà e alla democrazia, per non parlare della rinuncia alle proprie aspirazioni socialiste.

Bisogna constatare con profondo dolore che i partiti socialisti dei principali paesi europei non hanno adempiuto questo compito e che la condotta dei capi di questi partiti – particolarmente del partito tedesco – confina con l’aperto tradimento della causa del socialismo. In un momento che ha la più grande importanza storica mondiale, la maggioranza dei capi dell’attuale Seconda Internazionale Socialista (1889-1914) tentano di sostituire il nazionalismo al socialismo. Il contegno di questi capi ha fatto sì che i partiti operai di questi paesi non si sono opposti alla condotta criminale dei governi ma hanno invitato la classe operaia a far coincidere la sua posizione con quella dei governi imperialisti. I capi dell’Internazionale hanno tradito il socialismo votando i crediti di guerra, ripetendo le parole d’ordine scioviniste (“patriottiche”) della borghesia dei “loro” paesi, giustificando e difendendo la guerra, partecipando ai ministeri borghesi dei paesi belligeranti, ecc. I più influenti capi socialisti e i più influenti organi della stampa socialista dell’Europa odierna si mettono dal punto di vista sciovinista borghese e liberale e niente affatto socialista. La responsabilità di questo oltraggio al socialismo ricade specialmente sui socialdemocratici tedeschi, i quali erano il partito più influente della Seconda Internazionale.

Ma non si possono nemmeno giustificare i socialisti francesi i quali hanno accettato dei posti ministeriali nel governo di quella stessa borghesia che tradì la propria patria e si accordò con Bismarck per schiacciare la Comune.

I socialdemocratici tedeschi e austriaci tentano di giustificare il loro appoggio alla guerra affermando che in questo modo essi lottano contro lo zarismo russo. Noi, socialdemocratici russi, dichiariamo che consideriamo tale giustificazione come un puro sofisma. Nel nostro paese il movimento rivoluzionario contro lo zarismo ha ripreso negli ultimi anni un’enorme estensione, e la classe operaia della Russia è sempre stata alla testa di questo movimento. Milioni di lavoratori hanno partecipato in questi ultimi anni agli scioperi politici che si sono svolti con la parola d’ordine del rovesciamento dello zarismo e con la rivendicazione della repubblica democratica. Proprio alla vigilia della guerra il presidente della repubblica francese, Poincaré, durante la sua visita a Nicola II poté vedere coi suoi propri occhi nelle vie di Pietroburgo le barricate erette con le mani degli operai russi. Il proletariato nella Russia non si arrestava dinanzi a nessun sacrificio pur di liberare l’umanità dall’ignominia della monarchia zarista. Ma dobbiamo dire che se qualche cosa può, sotto certe condizioni, rinviare la fine dello zarismo, se qualche cosa può aiutarlo nella lotta contro la democrazia di tutta la Russia, è appunto la guerra attuale che ha messo al servizio dei fini reazionari dello zarismo l’oro della borghesia inglese, francese e russa. E se qualche cosa può rendere più difficile la lotta rivoluzionaria della classe operaia della Russia contro lo zarismo, ciò è proprio la condotta dei capi della socialdemocrazia tedesca e austriaca che la stampa sciovinista russa non cessa di presentarci come esempio.

Anche se si ammette che l’insufficienza di forze della socialdemocrazia tedesca fosse tale da costringerla a rinunziare a qualsiasi azione rivoluzionaria, nemmeno in questo caso essa doveva unirsi al campo sciovinista, né doveva fare quei passi a proposito dei quali i socialisti italiani hanno giustamente dichiarato che i capi socialdemocratici tedeschi macchiano la bandiera dell’Internazionale proletaria.

Il nostro partito, il Partito Operaio Socialdemocratico di Russia, ha già sopportato e sopporterà ancora immense perdite a causa della guerra. Tutta la nostra stampa legale è stata distrutta, la maggior parte dei sindacati sono stati sciolti, gran numero dei nostri compagni sono in carcere o deportati. Ma la nostra rappresentanza parlamentare – la frazione operaia socialdemocratica russa alla Duma di Stato – ha considerato come suo assoluto dovere socialista di non votare i crediti militari, di abbandonare inoltre l’aula delle sedute della Duma per esprimere ancor più energicamente la propria protesta e di bollare la politica dei governi europei come una politica imperialista. E, nonostante l’oppressione governativa decuplicata, i nostri compagni operai della Russia pubblicano già i primi manifestini illegali contro la guerra, compiendo così il loro dovere verso la democrazia e verso l’Internazionale.

Se i rappresentanti della socialdemocrazia rivoluzionaria – la minoranza della socialdemocrazia tedesca e i migliori socialdemocratici dei paesi neutrali – provano un cocente senso di vergogna per questo fallimento della Seconda Internazionale, se voci di socialisti contro lo sciovinismo della maggioranza dei partiti socialdemocratici si levano in Inghilterra e in Francia, se gli opportunisti rappresentati per esempio dai “Quaderni mensili socialisti” ("Sozialistiscse Monatschefte”) tedeschi, che da molto tempo avevano una posizione nazional-liberale, festeggiano legittimamente la loro vittoria sul socialismo europeo, un servizio ancora peggiore rendono al proletariato quegli individui oscillanti fra l’opportunismo e la socialdemocrazia rivoluzionaria (come il “centro” nel Partito socialdemocratico tedesco), che tentano di attenuare o di coprire con frasi diplomatiche il fallimento della Seconda Internazionale.

Bisogna, al contrario, riconoscere apertamente questo fallimento e comprenderne le cause, affinché sia possibile stringere una nuova e più salda unione socialista dei lavoratori di tutti i paesi.

Gli opportunisti hanno sabotato le risoluzioni dei Congressi di Stoccarda, Copenaghen e Basilea, le quali facevano obbligo ai socialisti di tutti i paesi di lottare contro lo sciovinismo in ogni e qualsiasi condizione, di rispondere con una più intensa propaganda della guerra civile e della rivoluzione sociale ad ogni guerra iniziata dalla borghesia e dai governi. Il fallimento della Seconda Internazionale è il fallimento dell’opportunismo, che si è sviluppato sul terreno delle particolarità del periodo storico trascorso (periodo cosiddetto “pacifico”) e, in questi ultimi anni, ha dominato di fatto nell’Internazionale. Da molto tempo gli opportunisti preparavano questo fallimento negando la rivoluzione socialista e sostituendo ad essa il riformismo borghese; negando la lotta di classe e la sua inevitabile trasformazione – in determinati momenti – in guerra civile, e predicando la collaborazione di classe; predicando lo sciovinismo borghese col nome di patriottismo e di difesa della patria, ignorando o negando una verità fondamentale del socialismo già enunciata nel Manifesto del Partito Comunista, e cioè che gli operai non hanno patria; attenendosi ad un punto di vista sentimentale piccolo-borghese nella lotta contro il militarismo, invece di riconoscere le necessità della guerra rivoluzionaria dei proletari di tutti i paesi contro la borghesia di tutti i paesi; trasformando la necessaria utilizzazione del parlamentarismo borghese e della legalità borghese nel feticismo per questa legalità e dimenticando l’obbligatorietà delle forme illegali di organizzazione e di agitazione nei periodi di crisi.

Il “complemento” naturale dell’opportunismo – complemento che è anch’esso borghese e ostile al punto di vista proletario, cioè marxista – è la corrente anarco-sindacalista che si è creata una fama non meno disonorante ripetendo con sussiego le parole d’ordine scioviniste durante la crisi attuale.

Oggi non si possono adempiere i compiti del socialismo, non si può costituire un’effettiva unione internazionale dei lavoratori senza rompere decisamente con l’opportunismo e senza chiarire bene alle masse l’inevitabilità del fallimento di esso.

Il compito della socialdemocrazia di ogni paese deve essere prima di tutto la lotta contro lo sciovinismo nel proprio paese. In Russia, lo sciovinismo si è completamente impadronito del liberalismo borghese (“cadetti”) e, in parte, dei populisti, inclusi i socialisti-rivoluzionari e i socialdemocratici “di destra”. (Particolarmente deve essere denunciata l’attività sciovinista di uomini come E.Smirnov, P.Maslov e G.Plechanov – attività sulla quale si è gettata, sfruttandola largamente, la stampa “patriottica”-borghese).

Nella situazione attuale non si può stabilire, dal punto di vista del proletariato internazionale, la disfatta di quale dei due gruppi di nazioni belligeranti sarebbe di minor danno per il socialismo. Per noi socialdemocratici russi non vi può essere dubbio che, dal punto di vista della classe operaia e delle masse lavoratrici di tutti i popoli della Russia, il minor male sarebbe la sconfitta della monarchia zarista, del più barbaro e reazionario dei governi, del governo che opprime il maggior numero di nazioni e la massa più grande della popolazione in Europa e in Asia.

La prossima parola d’ordine politica dei socialdemocratici europei deve essere la formazione degli Stati Uniti repubblicani d’Europa, ma a differenza della borghesia – la quale è sempre pronta a “promettere” tutto ciò che si vuole pur di trascinare il proletariato nella corrente generale dello sciovinismo – i socialdemocratici spiegheranno ai lavoratori quanto sia bugiarda e assurda questa parola d’ordine senza l’abbattimento rivoluzionario delle monarchie tedesca, austriaca e russa.

In Russia, data la grande arretratezza di questo paese il quale non ha ancora portato a termine la sua rivoluzione borghese, i compiti dei socialdemocratici devono consistere, come prima, nelle tre condizioni fondamentali di una trasformazione democratica conseguente: la repubblica democratica (con piena eguaglianza di diritti e autodecisione di tutte le nazioni), la confisca delle terre dei proprietari fondiari e la giornata lavorativa di otto ore. Ma in tutti i paesi più progrediti, la guerra rende attuale la parola d’ordine della rivoluzione socialista, la quale diviene tanto più urgente quanto più il peso della guerra grava sulle spalle del proletariato e quanto più attiva dovrà essere la funzione del proletariato nella ricostruzione dell’Europa dopo gli orrori della moderna barbarie “patriottica”, nel quadro dei giganteschi progressi tecnici del grande capitale. La borghesia ha fatto ricorso alle leggi dello stato di guerra per imbavagliare il proletariato, e ciò pone davanti a quest’ultimo il compito imprescindibile di creare forme illegali di agitazione e di organizzazione. “Proteggano” pure gli opportunisti, a prezzo del tradimento dei loro principi, le loro organizzazioni legali. I socialdemocratici rivoluzionari approfitteranno dell’esperienza organizzativa e dei collegamenti della classe operaia per creare forme illegali di lotta per il socialismo, adatte al periodo della crisi, e per unire le masse lavoratrici, non con la borghesia sciovinista del proprio paese, ma con i lavoratori di tutti i paesi. L’Internazionale proletaria non è morta e non morirà. Le masse lavoratrici, superando tutti gli ostacoli, creeranno una nuova Internazionale. L’odierno trionfo dell’opportunismo non durerà a lungo. Quanto più numerose saranno le vittime della guerra, tanto più palese sarà per le masse lavoratrici il tradimento consumato ai loro danni dagli opportunisti, e tanto più evidente sarà la necessità di rivolgere le armi contro il governo e la borghesia di ogni paese.

La trasformazione dell’attuale guerra imperialista in guerra civile è la sola parola d’ordine proletaria giusta, additata dall’esperienza della Comune, tracciata dalla risoluzione di Basilea (1912) e che scaturisce da tutte le condizioni della guerra imperialista tra paesi borghesi altamente sviluppati. Per quanto siano grandi le difficoltà di questa trasformazione in questo o in quel momento, i socialisti, dall’istante in cui la guerra è divenuta un fatto, non desisteranno mai dal lavoro sistematico, perseverante, continuo per prepararla.

Solo seguendo questo cammino il proletariato potrà liberarsi dal suo assoggettamento alla borghesia sciovinista e, in una forma o nell’altra, più o meno rapidamente, compiere dei passi decisivi verso l’effettiva liberazione dei popoli e verso il socialismo.

Evviva la fratellanza internazionale dei lavoratori contro lo sciovinismo e il patriottismo della borghesia di tutti i paesi!

Evviva l’Internazionale proletaria liberata dall’opportunismo!

IL COMITATO CENTRALE DEL PARTITO OPERAIO SOCIALDEMOCRATICO DI RUSSIA
 

(Pubblicato sul n. 33 del Sozialdemokrat, il 1° novembre 1914).

 
 
 
 
 

Alla gioventù socialista di tutti i paesi
 

Amici, compagni! In tutti i paesi una parte dei socialisti sta compiendo vigorosi sforzi per porre fine alla più spaventosa guerra riprendendo la lotta di classe. Una parte dei compagni tedeschi cerca instancabilmente e nelle condizioni più difficili di conseguire questo fine. Noi tutti ricordiamo ancora le eroiche lotte che i nostri compagni italiani hanno condotto contro la guerra, lotte che sono da considerarsi fra gli atti più importanti di tutto il movimento proletario. Già ora il proletariato italiano si prepara, grazie alla sua forza e alla sua coesione, a rendere più difficile, anzi assolutamente impossibile, il massacro dei suoi figli. Compagni fedeli ai loro principi agiscono ed operano in Francia, in Russia, in Polonia, in Austria, in Gran Bretagna, in Serbia e in tutti gli altri paesi, al fine di promuovere l’intesa fra i popoli e la fratellanza umana.

Compagni! Giovani socialisti! I governi, reazionari della più bell’acqua, sostenuti dai capi-operai social-patrioti, vergogna del proletariato, cercano con ogni mezzo più brutale di ostacolare le eroiche lotte dei nostri compagni e di soffocare nelle prigioni i loro appelli alla pace. In Germania come in Italia, in Russia come in Francia, i nostri compagni e amici sono stati imprigionati. I governi di tutti i paesi fanno a gara oggi nell’assassinio dei loro figli, per annientare qualsiasi sforzo per la pace. Innumerevoli sono le vittime che i nostri compagni sacrificano sull’altare della libertà. La situazione attuale richiede un aiuto e un appoggio urgenti e rapidi ai nostri compagni che combattono per impedire che i governi vincano e anneghino in un mare di sangue gli ultimi resti dell’umanità e della libertà, malgrado il coraggio e i sacrifici dei nostri amici.

Spetta a voi, compagni, giovani socialisti di tutti i paesi, dare questo aiuto agli amici gravemente minacciati. Voi che attraverso la Conferenza di Pasqua del 1915 a Berna e il mantenimento di reciproche relazioni avete dimostrato che le idee generose e liberatrici della fratellanza socialista internazionale sono rimaste vive nei vostri animi e nei vostri cuori, voi dovete ora entrare nella lotta rivoluzionaria per la pace e la libertà.

Noi vi invitiamo ovunque e in tutti i paesi a sostenere efficacemente e con tutte le vostre forze tutte le azioni rivoluzionarie e le lotte di classe.

Partecipate come oratori a sedute ed assemblee, diffondete manifesti e giornali di incitamento ad azioni internazionali di lotta di classe; fate instancabilmente dell’agitazione individuale presso i vostri colleghi di lavoro, amici, parenti. I governi di tutti i paesi e la stampa servile cercano di nascondere gli sforzi per la pace e l’attività rivoluzionaria dei nostri compagni e di precipitare i popoli in una furia sempre più grande di odio e di sordo rancore diffondendo menzogne e false notizie. Compagni, spezzate ovunque questo velo di menzogne. Voi, amici d’Italia, di Francia, di Russia e d’Inghilterra raccontate quello che una parte dei vostri compagni tedeschi e austriaci fanno per la pace. E voi, compagni tedeschi e austriaci, dite nei vostri paesi quali lotte piene di sacrifici conducono per la pace gli operai d’Italia, Russia, Francia, Inghilterra e di altri paesi. Compagni! La situazione della nostra classe è grave, ma non disperata. La ripresa di una lotta di classe energica, da parte della maggioranza degli operai socialisti mossi da uno scopo ben definito, lascia prevedere la possibilità di una vittoria. L’ora dell’azione è venuta. Una seconda campagna d’inverno aumenterà sensibilmente le sofferenze e la miseria delle masse operaie di tutti i paesi. Il terreno per una insurrezione internazionale esiste, seminiamolo!

I giovani socialisti debbono formare in tutti i paesi l’avanguardia dei combattenti rivoluzionari per la pace. Noi vogliamo consacrarci totalmente alla lotta d’emancipazione proletaria. È cento volte meglio morire nelle prigioni da vittime della lotta rivoluzionaria che cadere sul campo di battaglia in lotta contro i nostri compagni di altri paesi, per la sete di profitto dei nostri nemici.

Le conferenze borghesi per la pace non impediranno mai le guerre, anche se lo volessero e fossero ben preparate. Solo la forza del proletariato e la sua azione rivoluzionaria potrà arrestare la corsa al profitto e la sete di sangue degli sfruttatori.

Compagni!, Organizzazioni dei Giovani socialisti di tutti i paesi! Noi vi invitiamo a proclamare con imponenti manifestazioni in tutti i paesi la vostra ferma volontà di agire instancabilmente contro il militarismo e per il socialismo. Vogliamo unirci nello stesso giorno, il 3 ottobre 1915. I compagni di Copenaghen, di Christiania, di Stoccolma, di Parigi e di Berlino devono sapere che nella stessa ora in cui essi manifestano per la pace e il socialismo, i loro amici di Amsterdam, di Vienna e di Bucarest, di Roma e di altre città fanno altrettanto.

Noi rivolgiamo un pressante appello a tutti i Partiti socialisti e ai Sindacati di tutti i paesi affinché sostengano vigorosamente, con una massiccia partecipazione, l’azione dei giovani.

Noi ci aspettiamo soprattutto una forte partecipazione delle donne e delle madri dei giovani condannati al massacro. Avanti, Giovani socialisti di tutti i paesi. Che le vostre idee si manifestino e che i vostri atti siano coerenti alle vostre parole!

Viva l’Internazionale della giovane generazione operaia che porterà ai popoli la pace e la libertà. Viva la lotta contro l’assassinio dei popoli. Viva la lotta per il più alto ideale dell’umanità, il socialismo.
 

(Pubblicato dalla rivista trimestrale Jugend-Internationale del settembre 1915).