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"COMUNISMO" n. 75 - dicembre 2013
Comunismo e piccola borghesia.
LA NEGAZIONE COMUNISTA DELLA DEMOCRAZIA alle origini del movimento operaio in Italia [RG114] (IX - continua dal numero scorso) - Il movimento degli antiautoritari e i suoi vani tentativi insurrezionali: Capisaldi ideologici degli anti-autoritari - Autonomia contro centralismo - Il metodo cospirativo e la “propaganda del fatto” - Una parodia della rivoluzione - La risposta dello Stato e della piccola-borghesia (continua).
IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA [RG117]: (XVI - Continua del numero scorso) Gli Industrial Workers of the World: Un riepilogo e un bilancio - Un nuovo tipo di organizzazione - Una organizzazione generale della classe operaia - La Convenzione di Chicago - Un’occasione mancata - Cosa diventarono gli “wobblies” - Un primo bilancio (continua).
IL MARXISMO E LA QUESTIONE MILITARE: [RG112-113]  Parte terza, Il capitalismo (XIII - continua dal numero scorso) - Parte terza, Il capitalismo - F. Il Risorgimento italiano, La seconda guerra di indipendenza: 1. Il contesto generale - 2. Preparativi di guerra - 3. Le armi - 4. Le forze in campo - 5. I Cacciatori delle Alpi - 6. Preamboli diplomatici - 7. La campagna militare - 8. La battaglia di Magenta - 9. Solferino e San Martino - 10. Il giudizio finale di Marx e di Engels (continua).
Dall’Archivio della Sinistra:
- “Il Comunista”, 1° maggio 1921 - PER IL PRIMO MAGGIO
- “Il Comunista”, 8 maggio 1921 -AI LAVORATORI ORGANIZZATI NEI SINDACATI PER L’UNITÀ PROLETARIA
- “Il Comunista”, 7 agosto 1921 - DIRETTIVE DELL’AZIONE SINDACALE DEL P.C.
- “Il Comunista”, 14 agosto 1921 - CIRCA L’UFFICIO CONFEDERALE DI LEGISLAZIONE SOCIALE
- “Il Comunista”, 21 agosto 1921 - RAPPORTI CON ALTRI PARTITI E ORGANISMI SINDACALI
- “Ordine Nuovo”, 10 settembre 1921 - LA TATTICA SINDACALE COMUNISTA





 

Comunismo e piccola borghesia

Se qualcosa dà la misura più certa di quanto la crisi del Capitale alla scala internazionale sta operando in profondità nel corpo sociale, distruggendo oltre al capitale anche le condizioni materiali della vita quotidiana, è il progressivo polarizzarsi delle mezze classi, che si sentono minacciate dalla rovina e ritrovano gli usati strumenti dell’impotente ribellismo, costante storica degli ultimi due secoli, nell’illusione di ricostruire il perduto paradiso di relativo benessere e di sicurezza sociale cambiando personale politico, o la politica economica, ritrovando una pubblica moralità e fantasie di questa risma. Hanno perso il loro posto al sole. La colpa è della corruzione, della casta, del malgoverno, delle tasse, degli immigrati, dei ladrocini pubblici, dei pubblici dipendenti improduttivi, delle scelte scellerate, dell’Europa e dell’Euro, dell’ingordigia della finanza mondiale e nazionale, e via con tutto l’armamentario delle cattive cose fatte e delle buone non fatte.

Però i duri fatti parlano altra lingua.

La miseria cresce non più, alla scala mondiale, come saldo tra l’opulenza dei centri a capitalismo sviluppato e l’inferno dei senza nulla, di quello che un lontano tempo felice chiamavano “Terzo Mondo”, ma come dato assoluto all’interno di quegli stessi centri, all’interno dello stesso corpo sociale del quale un sempre più ridotto numero di membri si appropria del prodotto del lavoro sociale, mentre la gran massa si impoverisce in modo non relativo; assoluto, appunto.

Le rabbiose fantasie nazionalistiche, per cui solo all’interno dei sacri confini, da difendere contro ogni invasione, si può e si deve trovare salvezza al disastro, cominciano man mano a strutturarsi, non più come elementi folcloristici e rumorosi, ma come correnti di opinione che percorrono quel che resta dei vecchi e putridi partiti della democrazia e della socialdemocrazia, ormai incapaci di incanalare e controllare il malessere sociale e quindi totalmente inutili al loro vecchio scopo, ed i nuovi confusionari movimenti del ribellismo piccolo borghese che si fanno strada in questo progressivo allentarsi delle vetuste ed imbelli forme democratiche.

I principi fondanti, quelle imposture su cui si è retta più o meno l’impalcatura ideologica degli Stati democratici nati dal terribile crogiolo della Seconda Guerra, come già è stato per quelli socialisti dell’Est, non si giustificano più di fronte al tracollo delle precedenti condizioni di opulenza, ed anche la finzione dei partiti che per decenni si sono atteggiati a scontrarsi nei parlamenti e, dicevano un tempo, nelle piazze, svanisce e si mostra per quel che è, una pura menzogna.

Menzogna a totale uso e consumo del proletariato perché lo ha tenuto avvinto al suo antagonista storico, perché ha veicolato l’ideologia della pace sociale come unica garanzia del benessere e della crescita senza fine e ne ha distrutto la carica antagonista alla borghese società divisa in classi.

Ma nella situazione presente, impestata dall’ideologia capitalistica dominante, in cui la macchina della produzione capitalistica ansima e si inceppa il processo di accumulazione che ha consentito di foraggiare e mantenere il benessere delle mezze classi, la pressione rivoluzionaria della classe non ha ancora spazio e non spinge verso un esito rivoluzionario. Una classe operaia smarrita, senza reazioni autonome, e del pari ferocemente colpita, si accoda piegata dalla violenza della crisi, privata di ogni prospettiva che non sia fra quelle propagandate dall’apparato di regime e dal suo consenso.

Mancando totalmente quel vettore sociale e storico, è scontato che l’ideologia che si impone sia quella della ribellione sterile delle mezze classi per le quali la salvezza sta nel ritorno alle condizioni precedenti, alla restaurazione dell’antico falso benessere. Questa è la sola forma in cui si può esprimere, alle condizioni attualmente date, la disperazione dell’informe corpo sociale.

In una fase pre-rivoluzionaria invece, è la spinta anticlassista e antiformista della classe operaia in movimento che costringe le mezze classi cadute in miseria a sottomettersi all’azione del proletariato. Oggi è il blocco conformista che indica la direzione del movimento. Questo, ben lo sappiamo, non può non andare che verso il disastro della totale rovina, fino all’esito un nuovo macello mondiale, necessario per la sopravvivenza del capitalismo.

Nel secolo scorso la reazione borghese assunse la forma delle aperte dittature nel cuore dell’Europa, dove la spinta rivoluzionaria proletaria e comunista era stata più forte e più da vicino minacciate le difese degli Stati del capitale. Nei tempi presenti la lotta di classe è costretta alla difensiva, ma le condizioni materiali premono minacciose e foriere di nuovi scontri dagli incerti esiti. Qui il vecchio velo democratico inizia a sollevarsi per mostrare il volto vero del fascismo, vincitore alla scala storica anche se militarmente vinto dalle Potenze, dell’Ovest come dell’Est, che pur si dissero democrazie progressive. Gli episodi e gli ambienti del ribellismo piccolo borghese, studenti, piccoli commercianti, sottoproletari, saranno domani, come ieri, il brodo di coltura delle future “illegali” squadre antioperaie, foraggiate e difese dagli Stati nazionali a difesa, insieme ai suoi apparati “legali”, degli interessi grandi borghesi.

La prospettiva storica e l’indirizzo tattico di classe sono stati dispersi in tanti decenni, i primi di feroce controrivoluzione, poi di assoggettamento apparentemente pacifico alle ideologie nazionali, ai superiori interessi dell’economia e della società civile. Sono stati utilizzati prima i partiti falsamente comunisti e socialisti, poi il degenerato meccanismo democratico. Anche il partito di classe, conquista umana alla scala storica, guida, non causa, dell’erompere dello scontro tra le classi fino all’esito rivoluzionario, è stato sconfitto dalla controrivoluzione. Ma, benché ridotto socialmente ad una forza più che marginale, nella confusa angoscia dei borghesi in ogni modo non dovrà ricongiungersi alla sua classe, non dovrà tornare il riferimento teorico e pratico del suo movimento, pena l’estendersi di un incendio questa volta davvero incontrollabile.

A tale azione di schermo e deviazione è utilizzato il ribellismo piccolo borghese, di questi statisticamente numerosi strati ma tanto impotenti quanto rumorosi e ingombranti. Il Partito ne denuncia la natura reazionaria e antioperaia, indipendentemente dal fatto che ottengano solidarietà o seguito da strati operai. La classe operaia potrà neutralizzare la carica reazionaria di questi “soggetti”, di questi ceti senza storia e senza partito, non accodandosi alle loro rivendicazioni e illusioni democratiche, liberali, nazionaliste, antifasciste eccetera, ma imponendo la sua forza, il suo partito, il suo programma, i suoi metodi dittatoriali. Le mezze classi già cominciano a cedere al bisogno di una salvifica e antidemocratica “dittatura”. Gliela possiamo dare solo noi, la comunista, inevitabile e sempre più necessaria dittatura del proletariato.

 
 
 
 
 
 
 


La negazione comunista della democrazia
alle origini del movimento operaio in Italia

(Continua dal numero scorso)

Capitolo esposto a Torino nel settembre 2012 [RG114]

Il movimento degli antiautoritari e i suoi vani tentativi insurrezionali
  

Nell’epoca in cui si formò la Prima Internazionale (1864) la composizione della società italiana era molto più arretrata rispetto allo “schema” delle classi sociali come presentato dal Manifesto del 1848. L’unità nazionale era stata realizzata accozzando piccoli staterelli assai diversi in quanto a sviluppo economico. L’imposizione dall’alto di una legislazione ricalcata su quelle degli Stati borghesi, che poteva essere adatta forse solo a Piemonte, Liguria ed ex province austriache, ebbe per le classi inferiori, non proletarie ma piccolo-borghesi, l’effetto di un generale incremento di miseria, che provocò reazioni informi e non certo socialiste nella Romagna, nella Toscana e, poi, nel Sud Italia.

Nel corso dei nostri precedenti rapporti abbiamo messo in evidenza come in Italia i mazziniani fossero stati i primi a dare agli operai una organizzazione a scala nazionale, ma la loro ideologia pietistica ed associazionista negava per principio la lotta di classe e non si poneva neanche il problema della emancipazione delle classi lavoratrici. Il programma mazziniano, di conseguenza, non tardò a dimostrarsi inadeguato alla difesa dei lavoratori; ma la società italiana era ancora troppo arretrata perché la dottrina marxista potesse attecchirvi su vasta scala: salvo che in pochissimi individui, il movimento italiano si riconobbe nelle teorie anarchiche di Bakunin, che meglio rappresentavano l’arretratezza dell’ambiente. Tant’è che non sarebbe fuori luogo dire che fu l’ambiente italiano che influenzò in modo determinante tutta l’impostazione teorica di Bakunin.

Dobbiamo però riconoscere agli anarchici il merito di avere condotto una vigorosa lotta contro il movimento mazziniano e di avere contribuito fattivamente al suo definitivo declino.

Non compromettere il programma per il successo di un giorno

Dopo la Comune di Parigi e la sua sanguinosa repressione, il proletariato internazionale attraversò una crisi non meno grave di quella dovuta alla sconfitta del 1848. Fu questa situazione che determinò il radicalizzarsi delle divergenze già presenti in seno all’Internazionale e le dure lotte tra marxisti e bakuniniani portarono alla definitiva rottura tra le due scuole divenute ormai inconciliabili. Il movimento italiano, nella sua totalità, si schierò dalla seconda parte, con Bakunin e la Federazione italiana, e al congresso di Rimini dell’agosto 1872 decise di boicottare il congresso dell’Aia indetto per il successivo 2 settembre dal Consiglio Generale.

Nei nostri precedenti rapporti abbiamo anche rilevato come l’Internazionale, già prima del 1872 quando si riunì all’Aia per il suo quinto congresso, fosse in piena crisi. La sezione francese era stata schiantata dalla reazione che seguì la Comune e in Inghilterra le Trade Unions uscivano dall’Associazione perché il Consiglio Generale, con gli storici Indirizzi di Marx, aveva sostenuto gli eroici comunardi parigini. Intanto un’opposizione si formava in paesi che, come la Spagna, l’Italia, il Belgio, l’Olanda, e una parte della Svizzera, erano allora tanto poco evoluti socialmente quanto la Francia e l’Inghilterra di prima del 1848. In questa situazione riusciva a far presa un socialismo «che non vuole saperne di politica, perché nelle lotte politiche delle classi possidenti gli ingannati furono sempre gli operai». Al momento della formazione dell’Internazionale questo ingenuo socialismo, che aveva potuto essere ammesso con l’intento di aiutarlo ad evolvere verso il socialismo scientifico, divenne un pericolo mortale quando se ne pose alla testa Bakunin dandogli una struttura ed un programma di aperta lotta contro il marxismo.

Marx prevedendo un lungo periodo di ristagno dopo la sconfitta della Comune volle evitare che l’Internazionale si trasformasse in una rete di cenacoli di stile piccolo-borghese, e ne fece decidere il trasferimento in America, pur disponendo ancora all’Aia della maggioranza. La situazione europea del tempo esigeva che si trasferissero le energie sul terreno del lavoro teorico, per la lotta, ininterrotta ed assidua, contro le deformazioni opportunistiche di cui l’anarchismo fu una delle prime edizioni. Allora come oggi si trattava di conservare e tramandare intatto il patrimonio dottrinario del partito per le future rivoluzioni senza rincorrere inutili, ed apparenti, successi momentanei. Questo è quanto spiega Engels a Bebel, con la chiarezza che sempre lo contraddistingue, in una lettera del 20 giugno 1873.

     «Naturalmente ogni gruppo dirigente di partito vuole vedere risultati, e ciò è anche bene. Ma ci sono circostanze in cui bisogna avere il coraggio di sacrificare il successo momentaneo a cose più importanti. Specialmente in un partito come il nostro, la cui vittoria finale è così assolutamente certa e si è sviluppato in modo così colossale nel corso della nostra vita e sotto i nostri occhi, non c’è affatto bisogno, sempre e a tutti i costi, del successo momentaneo. Prenda ad esempio l’Internazionale. Dopo la Comune essa ha conosciuto un successo colossale. Perfino l’attonita borghesia riconobbe la sua onnipotenza. La grande massa dei membri credeva che sarebbe durata in eterno. Ma noi sapevamo molto bene che la bolla sarebbe scoppiata. Tutta la marmaglia si attaccava ad essa. I settari in essa presenti rialzarono la testa, cercarono di servirsi dell’Internazionale nella speranza che sarebbero state loro permesse le più grandi sciocchezze e bassezze. Noi non lo tollerammo.
     «Ben sapendo che la bolla avrebbe dovuto scoppiare, non si trattava per noi di rimandare la catastrofe ma di badare che l’Internazionale ne uscisse pura e genuina. All’Aia la bolla scoppiò e Lei sa che la maggioranza dei delegati se ne tornò a casa con la sgradevole sensazione della disillusione. Eppure quasi tutti questi disillusi, che pensavano di trovare nell’Internazionale l’ideale della fratellanza e della riconciliazione generale, avevano a casa propria contrasti ben più aspri di quello che era scoppiato all’Aia! Adesso i rissosi settari predicano la riconciliazione e imprecano contro di noi, intrattabili e dittatori! Ma se all’Aia ci fossimo comportati in modo conciliante, se avessimo soffocato la scissione, quale sarebbe stata la conseguenza? I settari, cioè i bakuniniani, avrebbero ricevuto un lungo anno di tempo per compiere in nome dell’Internazionale sciocchezze e infamie ancora più grandi; gli operai dei paesi più sviluppati si sarebbero allontanati nel disgusto; la bolla non sarebbe esplosa, si sarebbe sgonfiata lentamente, a forza di punture di spillo; e il congresso successivo, che pure avrebbe evidenziato la crisi, sarebbe diventato lo scandalo dei personaggi più volgari perché all’Aia era già stato sacrificato il principio!
     «Allora l’Internazionale sarebbe senza dubbio morta: morta di ”unità”! Invece adesso ci siamo liberati degli elementi bacati, con onore per noi – i membri della Comune presenti all’ultima seduta decisiva, dicono che nessuna riunione della Comune ha lasciato loro un’impressione così terribile come questa udienza di tribunale contro i traditori del proletariato europeo – abbiamo lasciato loro raccogliere per dieci mesi tutte le loro forze per mentire, per diffamare, per intrigare: e a che punto sono arrivati? Loro, i presunti rappresentanti della grande maggioranza dell’Internazionale, proprio loro adesso dichiarano che non osano venire al prossimo congresso. E se ci ritrovassimo nella stessa situazione non ci comporteremmo diversamente nell’insieme – errori tattici, naturalmente, si fanno sempre (...) Già il vecchio Hegel, d’altra parte, ha detto: un partito rimane vincente quando si scinde e può sopportare la scissione».

Questa è la migliore e sempre valida risposta a tutti coloro che predicano l’unità e che, nei fatti, ora come nel passato, si comportano da veri settari e scissionisti.

 

Capisaldi ideologici degli anti-autoritari

Quasi in contemporanea al congresso dell’Aia, gli anarchici si riunivano in congresso separato a Saint-Imer (15 settembre) rifiutando esplicitamente di riconoscere l’autorità del Consiglio Generale, che, dal canto suo, li espulse.

Da questo momento vi saranno due Internazionali, quella influenzata da Marx e quella di indirizzo “antiautoritario”, la quale ultima, anche se in forma mutata e con l’apporto di forze nuove, rappresentava la prosecuzione dell’Alleanza della Democrazia Socialista fondata anni prima da Bakunin, e che questi aveva simulato di sciogliere per poter entrare nell’Internazionale. I convenuti a Saint-Imer, quindici delegati in tutto fra i quali sei italiani, costituivano la rappresentanza delle federazioni spagnola, giurassiana, italiana e le sezioni francese ed americana.

Venne negato il diritto deliberativo dei congressi, quindi respinte tutte le risoluzioni del Congresso dell’Aia e disconosciuti i poteri del Consiglio Generale di Londra; fu affermata l’autonomia delle Federazioni e delle Sezioni; fu proclamato che «la distruzione di ogni specie di potere politico è il primo compito del proletariato». Riportiamo per esteso una delle deliberazioni del congresso anarchico perché racchiude in sé tutta quanta la teoria del movimento scissionista.

     «Considerando che voler imporre al proletariato una linea di condotta o un programma politico uniforme come la via unica che possa condurre alla sua emancipazione sociale è una pretesa tanto assurda quanto reazionaria; che nessuno ha il diritto di privare le federazioni e le sezioni autonome del diritto incontestabile di determinare esse stesse e seguire la linea di condotta politica che esse credono migliore, e che ogni tentativo in questo senso non può che fatalmente condurci al più rivoltante dogmatismo; che le aspirazioni del proletariato non possono avere altro scopo che quello di stabilire una organizzazione e federazione economica assolutamente indipendenti da qualsiasi governo politico; e che questa organizzazione e questa federazione non possono essere altro che il risultato dell’azione spontanea da parte del proletariato medesimo, delle corporazioni d’arte e mestieri e dei Comuni autonomi;
     «Considerando che ogni organizzazione politica non può essere che l’organizzazione di una prevaricazione a profitto di una classe e a detrimento delle masse, e che il proletariato, se volesse impadronirsi del potere, diverrebbe esso stesso una classe dominante sfruttatrice,
     «Il Congresso riunito a Saint-Imer dichiara: la distruzione di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato; ogni organizzazione di un potere politico, anche se di nome temporaneo e rivoluzionario, costituito allo scopo di creare tale distruzione non può essere che un inganno in più e sarebbe pericolosissimo per il proletariato socialista; respingendo ogni compromesso per arrivare alla rivoluzione sociale, i proletari di tutti i paesi devono stabilire per principio, indipendentemente da ogni politica borghese, la solidarietà dell’azione rivoluzionaria».

Riguardo all’arma dello sciopero, il congresso anarchico affermò che gli scioperi, pur «fecondissimi a svolgere il sentimento di solidarietà della lotta del lavoro contro il capitale», erano «per l’operaio materialmente poco utili».

Il giornale Il Martello del 25 aprile 1872 aveva scritto: «In linea economica lo sciopero, anche organizzato su vasta scala, non può produrre che effimeri e passeggeri vantaggi, perché l’aumento generale dei salari, senza una radicale riforma dei rapporti di lavoro col capitale, ha per conseguenza necessaria l’aumento del prezzo dei prodotti a danno dei consumatori fra i quali i proletari sono la grande maggioranza».

L’anarchismo rappresentò una delle prime forme di opportunismo. Infatti le successive degenerazioni nasceranno dalle medesime richieste, di “libertà” e di “autonomie” di vario genere, mentre i marxisti ortodossi si sono sempre attenuti al più stretto centralismo. Il concetto stesso di partito è legato a quello di centralismo e, di conseguenza, l’autonomismo non rappresenta che la negazione del partito.

Altro elemento che accomuna gli anarchici alle future edizioni dell’opportunismo (ed anche di certo piccolo cabotaggio odierno) è la rivendicazione della “unità”.

A questo proposito Engels continuava a scrivere a Bebel:

     «Non bisogna farsi fuorviare dalle invocazioni all’“unità”. Coloro che hanno sempre in bocca questa parola sono i più grandi fomentatori di discordia, come proprio adesso i bakuniniani svizzeri del Giura, gli autori di tutta la scissione, non fanno altro che gridare all’unità. Questi fanatici dell’unità sono o menti limitate che vogliono mescolare tutto in un miscuglio indistinto che basta solo che si depositi per riprodurre le differenze in contrasti ben più aspri, proprio perché si trovano in un unico vaso (in Germania avete un bell’esempio con la gente che predica la riconciliazione degli operai con i piccoli borghesi), oppure è gente che vuole falsare, inconsapevolmente (come per es. Mülberger) o consapevolmente, il movimento. Per questo i più grandi settari e i più grandi mestatori e furfanti sono, in determinati momenti, coloro che invocano più forte l’unità. Con nessuno, nella nostra vita, abbiamo avuto più difficoltà e scontri che non con i fanatici dell’unità».

Come si vede anche l’opportunismo è invariante nelle sue posizioni.

 

Autonomia contro centralismo

Gli anarchici pretendevano che il Consiglio Generale di Londra non avesse facoltà di dirigere l’azione delle federazioni nazionali, che avrebbero dovuto autogovernarsi, e queste, a loro volta, non dovevano pretendere di dare una linea di azione alle loro sezioni provinciali o urbane, che si sarebbero mantenute autonome perfino nel momento insurrezionale. Il Consiglio Generale non doveva essere, come Marx disse col suo tremendo vigore sarcastico, che una “cassetta per le lettere”, dal momento che avrebbe dovuto chiamarsi “ufficio di corrispondenza”.

Il Consiglio Generale, che con i grandi atti storici degli Indirizzi alla Comune di Parigi aveva già mostrato l’importanza primaria di un centro unico della strategia rivoluzionaria mondiale, respinse le pretese degli autonomisti e rivendicò il concetto irrevocabile del centralismo di organizzazione, punto cardinale che resterà in piedi malgrado la lunga opera demolitrice dei libertari.

Gli anarchici negano che il proletariato vittorioso possa avere bisogno del suo Stato, secondo loro la rivoluzione dovrà immediatamente porre fine ad ogni forma di potere. Mentre il comunismo è determinista, l’anarchismo è volontarista e, in una visione rovesciata della realtà, vede nello Stato il male supremo. L’anarchico individua nello Stato la causa di tutti i mali, e sarebbe esso a generare il capitale e la borghesia; la realtà è esattamente il contrario: è la borghesia mercantile e capitalista che si è conquistata lo Stato moderno e che ne dispone.

Uno di quei pochissimi individui che dopo il congresso di Rimini in Italia aderirono al marxismo fu Enrico Bignami; a lui, nell’ottobre del 1872, Engels scriveva: «Alcuni socialisti hanno da qualche tempo aperto una inquadrata crociata contro ciò che essi chiamano principio d’autorità. Basta loro dire che questo o quell’atto è autoritario per condannarlo. Si abusa a tal punto di questo sommario modo di procedere che è necessario esaminare la cosa un po’ più da vicino. Autorità, nel senso della parola di cui si tratta, vuol dire: imposizione della volontà altrui alla nostra; autorità suppone, d’altra parte, subordinazione. Ora, per quanto queste due parole suonino male e sia sgradevole per la parte subordinata la relazione che esse rappresentano, si tratta di sapere se vi è mezzo per farne a meno, se – date le condizioni attuali della società – noi potremo dar vita ad un altro stato sociale in cui questa autorità non avrà più scopo, e dove per conseguenza dovrà scomparire».

Dopo avere portato una serie di esempi a dimostrazione che la organizzazione sociale e la produzione hanno assoluta necessità di sottostare a regole e quindi ad una autorità, Engels continuava e concludeva: «Se gli autonomisti si limitassero a dire che l’organizzazione sociale dell’avvenire restringerà l’autorità ai soli limiti ai quali le condizioni della produzione la rendono inevitabile, ci si potrebbe intendere; invece essi sono ciechi per tutti i fatti che rendono necessaria la cosa, e si avventano contro la parola (...) Gli anti-autoritari domandano che lo Stato politico autoritario sia abolito d’un tratto, prima ancora che si abbiano distrutte le condizioni sociali che l’hanno fatto nascere (...) Non hanno mai visto questi signori una rivoluzione? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che ci sia: è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte per mezzo di fucili, baionette e cannoni; mezzi autoritari, se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non vuole aver combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi inspirano ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno se non si fosse servita di questa autorità del popolo armato in faccia ai borghesi? Non si può, al contrario, rimproverarle di non essersene servita abbastanza largamente? Dunque, delle due cose l’una: o gli anti-autoritari non sanno ciò che dicono, e in questo caso non seminano che confusione; o essi lo sanno, e in questo caso tradiscono il movimento del proletariato. Nell’un caso e nell’altro essi servono la reazione».

Successivamente, al congresso di Saint-Imer, gli internazionalisti italiani ritennero necessario riunirsi in congresso per fissare le direttive del movimento. Il congresso che, riuscendo a sfuggire alla caccia della polizia, si tenne a metà marzo a Bologna, riconfermò una linea di stretta intransigenza anarchica. L’Internazionale italiana si dichiarò materialista ed atea, in continuità con quanto stabilito ai congressi di Rimini e di Saint-Imer e riconfermò la propria totale rottura con il Consiglio Generale di Londra. Venne stabilito che ogni federazione, sezione, gruppo, od anche singolo individuo avesse la più completa libertà di iniziativa politica e di formulazione di un proprio particolare programma, purché fondato sul principio che la completa emancipazione del proletariato sia opera del proletariato stesso. Se tale era il programma politico del movimento anarchico, dobbiamo riconoscere che riuscì perfettamente a produrre i suoi effetti, ossia la più completa anarchia.

A questo proposito non possiamo fare a meno di riportare parte di un rapporto del 9 settembre 1872 del questore al prefetto di Napoli: «La Federazione Operaia Napoletana seguendo le stesse dottrine del Cafiero vive nell’anarchia più completa, non essendo retta da nessun Consiglio, e non avendo né seggio, né Presidenza. Avviene perciò che nelle tornate che ogni sabato a sera si tengono nella sede della società, la Sezione mista non riesce mai a deliberare cosa alcuna, perché non essendovi Seggio, non vi è chi prepari l’ordine del giorno, e quasi sempre le discussioni dirette da nessuno o dal primo che occupa il seggio presidenziale (perché non si osserva più la regola di presiedere per turno) degenerano in critiche scambievoli, in battibecchi sconvenienti, ed in attacchi personali. In una delle scorse sere il noto Schettino che con l’avvocato Alberto Tucci dirigeva la discussione di una frazione della Sezione Bilanciari dette saggio dell’“Anarchia dell’Ordine”, a cui agognano i socialisti dell’Internazionale, sentenziando che “l’ordine esiste nel disordine, e perciò è inutile un consiglio federale che potrebbe diventare autoritario, l’associazione non deve avere cariche, ed ogni socio è consigliere e regolatore”».

Queste erano le idee programmatiche con cui gli anarchici ritenevano di poter organizzare l’insurrezione armata, condurla alla vittoria e procedere all’abolizione dello Stato.


Il metodo cospirativo e la “propaganda del fatto”

Il 1873 fu in Italia un anno di carestia e di forte crisi economica; sotto la spinta della fame si verificarono non solo numerosi scioperi ma anche frequenti insurrezioni popolari. Tutto questo rappresentò un terreno assai fertile per la propaganda rivoluzionaria. La polizia, dal canto suo, scatenava la persecuzione antiproletaria procedendo su vastissima scala ad arresti indiscriminati, a scioglimento di sezioni sovversive, o ritenute tali, al divieto ed all’impedimento coatto delle riunioni. D’altra parte il ministro degli Interni, Cantelli, con una circolare a tutte le autorità provinciali, aveva ordinato di iniziare una lotta a fondo per estirpare fin dalle sue radici la mala pianta dell’internazionalismo.

Ma le persecuzioni non riuscirono a frenare l’attività del movimento anarchico diretto da tre giovani ed infaticabili militanti: Carlo Cafiero, Andrea Costa ed Enrico Malatesta (nel 1873 il primo aveva 27 anni, 22 il secondo e 19 il terzo); i congressi seguivano ai congressi e di federazioni provinciali ne nascevano una dietro l’altra. Non solo la polizia risultava impotente ad estirpare la mala pianta dell’internazionalismo ma non riusciva nemmeno a circoscriverne la riproduzione.

In quello stesso periodo iniziava l’attività cospirativa anarchica. Già dai giorni che precedettero il Congresso di Saint-Imer, quando vari congressisti si erano ritrovati a Zurigo, Bakunin aveva preparato un progetto di statuto per una società segreta internazionale; questo progetto, discusso il 1° settembre, venne adottato l’indomani. Il piano era di una estrema semplicità e consisteva in questo: perché Bakunin potesse agire indisturbato dalle polizie dei vari Paesi, occorreva convincere tutti che aveva abbandonato ogni attività politica ed aveva deciso di trascorrere il resto della sua vita da agiato borghese in una villa di sua proprietà in riva al lago, mentre, di fatto, essa avrebbe dovuto essere usata come quartier generale della cospirazione internazionale. Disfacendosi della quasi totalità del ricco patrimonio ereditato, Cafiero comprò una vecchia villa a Locarno e la intestò a Bakunin. La fece restaurare ed ampliare con una serra di fiori, infine comperò per Bakunin carrozza, cavalli e barca. Bakunin annotava nel suo diario: «Eccomi dunque installato come un borghese benestante». Eh, cosa non si farebbe per la rivoluzione!!

Infine il 25 settembre, prendendo occasione da alcuni articoli con i quali il Journal de Genève, lo aveva attaccato, Bakunin inviava al giornale una lettera che terminava in questo modo: «Ve lo confesserò? Tutto ciò mi ha profondamente disgustato della vita pubblica. Io ne ho abbastanza, e, dopo aver trascorso tutta la vita nella lotta, sono stanco. Ho sessant’anni passati; con una malattia di cuore che s’impone sull’età, mi rende l’esistenza sempre più difficile. Che altri più giovani si mettano all’opera; quanto a me, io non sento più la forza né, probabilmente, la fiducia necessarie per sospingere più a lungo la pietra di Sisifo contro la reazione dappertutto trionfante. Io mi ritiro dalla lizza e non domando ai miei cari contemporanei che una sola cosa, l’oblio».

Non ci addentriamo nei particolari, tra il tragico ed il boccaccesco, delle attività svolte nella famosa villa della Baronata.

Sull’attività cospirativa svolta in Italia, fin dal Congresso Generale dell’Internazionale Antiautoritaria, tenutosi a Ginevra dal 1° al 6 settembre, Andrea Costa, che vi rappresentava l’Italia, dopo avere tracciato la storia della federazione italiana e le ragioni del suo rapido sviluppo, aveva dichiarato: «Se si vuole che l’Internazionale continui a progredire in Italia, bisogna agire rivoluzionariamente. Gli operai italiani si preoccupano molto poco di teorie: ciò che desiderano è la lotta».

Malgrado tutto, il Consiglio Generale di Londra continuava ad avere in Italia dei tenui legami. In una lettera a Sorge del 2 novembre 1872 Engels aveva scritto: «Bignami è il solo individuo che si sia schierato dalla nostra parte in Italia e, almeno sino ad ora, neanche lui con soverchia energia. Nel suo giornale “La Plebe” di Lodi, ha stampato il mio rapporto al congresso dell’Aia ed una lettera che gli ho scritto. Poiché debbo inviargli delle corrispondenze avremo il suo giornale nelle nostre mani. Ma egli si trova proprio nel mezzo degli “autonomisti”».

Questa era la situazione italiana: internazionalista era sinonimo di bakuninista ed il Bignami con il suo giornale non poteva certo competere con una organizzazione di infaticabili propagandisti quali, dobbiamo riconoscerlo, erano gli anarchici. Marx ed Engels non trascuravano questa unica voce che potevano utilizzare. Nell’ “Almanacco Repubblicano” del 1874 (edito da “La Plebe”) possiamo leggere una satira feroce di Marx nei confronti dell’estremismo anarchico: l’articolo, esaminate le posizioni assunte dai bakuninisti, dimostra quanto siano al tempo stesso inconsistenti e reazionarie.

     «La classe operaia non deve costituirsi in partito politico: essa non deve, sotto alcun pretesto, avere azione politica, poiché combattere lo Stato è riconoscere lo Stato (...) Gli operai non devono fare gli scioperi: poiché fare degli sforzi per farsi aumentare il salario, o per impedirne la diminuzione, è come riconoscere il salario, ciò che è contrario ai principi eterni dell’emancipazione della classe operaia! Se nella lotta politica contro lo Stato borghese, gli operai non giungono che a strappare delle concessioni, essi fanno dei compromessi: ciò è contrario ai principi eterni. Si deve quindi disprezzare ogni movimento pacifico, come quello che gli operai inglesi ed americani hanno la cattiva abitudine di fare. A filo di logica, gli operai non devono fare quindi alcuno sforzo per stabilire un limite legale della giornata di lavoro, perché ciò è come fare dei compromessi con i padroni, i quali allora non possono più sfruttarli che per 10 o 12 ore, in luogo di 14 o 16. Gli operai non devono neanche darsi più la pena d’interdire legalmente l’impiego dei fanciulli minori di dieci anni nelle fabbriche, perché non è con questo mezzo che cessa lo sfruttamento dei ragazzi al di sotto dei dieci anni: essi così si abbandonerebbero ad un nuovo compromesso che pregiudicherebbe la purezza degli eterni principi».

Nel seguito dell’articolo Marx continua a mettere in evidenza quanta sia assurda la pretesa teoria anarchica ed a quali folli conclusioni tale teoria porterebbe.

     «Se la lotta politica della classe operaia – continua Marx – assume una forma rivoluzionaria, se gli operai, alla dittatura della borghesia sostituiscono la loro dittatura rivoluzionaria, essi commettono il terribile delitto di leso principio; perché, per soddisfare i loro miserabili e profani bisogni della giornata, per schiacciare la resistenza della borghesia, invece di deporre le armi ed abolire lo Stato, essi danno allo Stato una forma rivoluzionaria e transitoria».

Non si creda che Marx polemizzando con gli anarchici abbia esagerato nel ridicolizzare le loro astruse teorie. Era stato lo stesso Andrea Costa che, al congresso anarchico di Ginevra, aveva detto che agli operai italiani quello che interessava era solo l’azione rivoluzionaria.

Ed il 1874, nella mente degli agitatori italiani, avrebbe dovuto essere l’anno della grande rivoluzione che, scoppiata in Italia, avrebbe incendiato l’Europa inte­ra. Gli internazionalisti italiani, assicurava Bakunin, già da parecchi mesi erano organizzati in 10 federazioni e non aspettavano altro che passare all’azione. Venivano elencate quelle di Romagna, Marche ed Umbria, Napoli, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Toscana, Sicilia, Sardegna. Anche secondo un rapporto del Questore di Roma del 4 febbraio 1874 in Italia vi sarebbero state ben 155 sezioni internazionaliste con 32.450 iscritti. Gli anarchici ritenevano che fosse ormai tempo di passare dalle parole hai fatti: ossia la teorizzata “propaganda del fatto”.

Nel suo scritto “Rivoluzione”, Cafiero sintetizza così la parola d’ordine della “propaganda del fatto”: «Tutti siamo d’accordo sulla necessità della propaganda rivoluzionaria, ma bisogna ben distinguere la propaganda astratta dell’idea, che si fa coi libri, coi giornali e coi discorsi, dalla propaganda reale dei fatti, la quale, pur richiedendo la cooperazione degli scritti e della parola, differisce essenzialmente dalla prima, nella sua radice, perché (...) la sua essenziale manifestazione è il fatto, l’azione materiale, sola capace di provocare altri fatti. Nel primo caso, l’idea è il principale, è la causa, ed il fatto è l’accessorio, la conseguenza; nel secondo caso invece, il principale o la causa è il fatto, e l’idea non è che la conseguenza. Sono due sistemi diametralmente opposti».

Basterebbero queste poche parole per differenziare il marxismo dall’anarchismo e da tutte le successive forme di revisionismo succedute: per gli anarchici, non è la teoria – ossia il partito – che deve guidare l’azione pratica, ma, al contrario, all’inizio sarebbe l’azione, “il fatto”. La teoria verrebbe dopo, con nascita spontanea determinata dai “fatti”; quindi la inutilità, o addirittura la nocività, del partito.

Cafiero infatti continuava: «Non solo dunque le idee nascono dai fatti, ma hanno eziandio bisogno de’ fatti per svilupparsi, sino al punto di poter animare altri fatti (...) Il popolo ammira i nihilisti, e li stima come i migliori rivoluzionari, perché vogliono distruggere tutto; arriva invece il dottrinario il sofista (...) e comincia a fare sulla parola nihilista una lunga dissertazione filologica, filosofica e storica (...) Intanto il popolo, che l’ha ascoltato a bocca aperta senza nulla comprendere, sente scoppiare la bomba che ammazza l’imperatore, ed in massa grida: Viva i nihilisti. Ed ha ragione; il suo giudizio è molto più retto di quello del dottrinario (...) Il popolo non vede che un fatto: in Russia v’ha un immenso popolo di oppressi, che soffre di quanti mai dolori si possa soffrire al mondo; i ribelli di questa oppressione li chiamano nihilisti, e da veri nihilisti agiscono attaccando colle armi ed ammazzando i loro oppressori viva, dunque, i nihilisti!».

 

Una parodia della rivoluzione

Conseguentemente a questa nuova impostazione la Federazione italiana cessò quasi del tutto di compiere atti pubblici, con giornali, con manifesti o in altro modo, per dedicare tutte le sue energie all’attività cospirativa. Venne formato un Comitato Italiano per la Rivoluzione Sociale che curava la pubblicazione di un Bollettino, stampato clandestinamente, e distribuito agli affiliati.

Nel dicembre 1873 fu presa la decisione di preparare al più presto moti insurrezionali che avrebbero dovuto scoppiare contemporaneamente in diverse parti d’Italia. Il Bollettino che uscirà nel gennaio 1874 sarà un aperto appello all’insurrezione: «La propaganda pacifica delle idee rivoluzionarie ha fatto il suo tempo; essa deve essere rimpiazzata da una propaganda clamorosa, solenne, dell’insurrezione e delle barricate». Un Bollettino successivo, del marzo, riprenderà come parola d’ordine quanto affermato da Andrea Costa a Ginevra: «Il popolo è stanco di parole, è tempo di arrivare alla lotta».

Nella primavera del 1874 la situazione economica si andò ancor più aggravando e tumulti per la fame si succedevano in tutta Italia. Il Trevisani, nella “Storia del Movimento Operaio”, riporta il resoconto della Cronaca Cerchiati di quanto era accaduto ad Imola. Sotto il titolo “Rivoluzione delle donne del popolo, saccheggio alle botteghe dei rivenditori del pane e di forni, e tumulto di piazza”: «Il prezzo esorbitante di tutti i viveri di prima necessità (...) il molto lavoro agli operai e mal retribuito spinsero le donne del popolo, instigate dai furbi, il giorno 2 giugno a tumultuare nella pubblica piazza contro le Autorità ed i Signori (...) Torme di donne del popolo della città o sobborghi si vedevano con fanciulli in braccio o a mano correre disperate alle botteghe dei rivenditori di pane, e portare via tutto il pane che trovavano, e dippiù farsene degli involti imprecando contro i Signori; saccheggiate le botteghe, altre passarono nei vari forni a fare altrettanto».

La Cronaca continua: «Accorse a calmare il tumulto la pubblica forza, guardie di pubblica sicurezza, guardie municipali, carabinieri (...) e le caporione che insolentivano e minacciavano vennero arrestate e tradotte in Rocca con alcuni suoi bambini e queste furono 36 ed il giorno dopo condotte a Bologna per essere giudicate (...) Diciannove di queste Donne ora vennero tutte condannate dal Tribunale Correzionale di Bologna per i fatti del giorno 2 accusate di tentata frode al commercio, di furto semplice e di ribellione ad onta di una brillante difesa dell’Avv.to Sangiorgi: due a tre mesi di carcere e 500 lire di multa; dodici a 45 giorni e a 250 lire; due a 26 giorni e a 51 lire; una a 16 giorni e a lire 51; un’altra alla custodia per giorni otto. Certo Perdisa accusato di complicità fu condannato a 20 giorni. Per tutti venne computato il carcere sofferto, e la multa, e le spese dovranno estinguersi in solido con la detenzione. Ogni giorno di prigionia sconta lire tre della multa. Le Donne dei tumulti di Faenza vennero anche esse, dal loro Tribunale Correzionale di Ravenna, condannate presso a poco nella stessa misura di quelle d’Imola».

La stessa Cronaca informava che simili fatti si erano verificati a Faenza, Lugo, Massalombarda, Brisighella.

Furono questi avvenimenti a convincere gli anarchici che il momento della rivoluzione era giunto e che bastasse accendere il fuoco dell’insurrezione in un punto perché l’incendio divampasse in ogni parte del paese. Andrea Costa dalla Svizzera tornò clandestinamente in Romagna per sincronizzare l’attività e la preparazione insurrezionale dei vari gruppi rivoluzionari della regione. Da parte sua Malatesta si attivò nel Sud della penisola, la sua febbrile attività organizzativa si svolgeva in tre diverse direzioni: Puglia, Calabria e Sicilia.

L’azione rivoluzionaria avrebbe dovuto prendere le mosse da Bologna; per l’insurrezione era stata fissata la patriottica data dell’8 agosto (quel giorno del 1848 il popolo bolognese aveva cacciato gli occupanti austriaci). Bakunin volle essere personalmente presente al trionfo della “sua” rivoluzione ed il 30 luglio, sotto falso nome, arrivò a Bologna, dove la sera stessa, per mettere a punto gli ultimi dettagli, s’incontrò con Costa, che tornava da un lungo giro organizzativo.

Malgrado tutta l’attività anarchica si basasse sulla cospirazione clandestina e sul massimo segreto, la polizia era al corrente nei minimi dettagli di tutto ciò che si preparava; e anche di ciò che non si preparava.

Ad esempio, il questore di Napoli il 6 luglio 1874, con l’anticipo di un mese, informava il suo prefetto: «Risulta confermato che l’Associazione Internazionale abbia divisato d’insorgere simultaneamente in diversi punti della penisola ai primi d’agosto. L’insurrezione principale della Romagna, Marche ed Umbria e di tre città della Toscana tra le quali si cita Livorno».

In un rapporto successivo, del giorno 15, specificava: «Da ulteriori notizie pervenutemi risulta confermato che nei primi giorni del seguente agosto dovrà verificarsi un grande movimento insurrezionale nelle Romagne, Marche, Umbria, Toscana e Sicilia e specialmente in Palermo (...) Anche nella Basilicata, Cilento e Puglia si macchinerebbe per fare un movimento simultaneo».

Non solo la polizia era al corrente della cospirazione segreta, la cosa era divenuta addirittura di pubblico dominio tanto è vero che Il Monitore di Bologna il 27 luglio scriveva: «Corre voce che il Governo sia informato che gli affigliati all’Internazionale vorrebbero fare qualche tentativo di sommossa in Calabria, in Sicilia, in Romagna: e il Governo avrebbe dato i più energici provvedimenti per soffocare ogni sorta di agitazione dovunque si tentasse di perturbare l’ordine pubblico».

Malgrado la tipica inclinazione all’azione cospirativa, che gli anarchici non siano mai stati tagliati per l’organizzazione segreta e clandestina ce lo testimonia Louis Andrieux quando, nel suo libro “Souvenirs d’un Préfet de Police” (Parigi, Rouff et Cie éditeurs, 1885), raccontando come la rivista anarchica La Révolution Social fosse stata diretta e finanziata dalla polizia, commentava: «Dare un giornale agli anarchici era come piazzare un telefono fra la stanza delle cospirazioni e l’ufficio del prefetto di polizia».

Il preparativo insurrezionale diede occasione alla polizia italiana di fare un’opera di pulizia su larga scala: il 2 agosto furono arrestati i massimi esponenti del partito repubblicano, riuniti a Villa Ruffi, nei pressi di Rimini, con l’accusa di complicità con gli internazionalisti. Che la polizia non andasse troppo per il sottile nella sua opera di repressione ce lo conferma Aurelio Saffi in una lettera del 17 novembre 1874 indirizzata ad Alberto Mario: «Quale divario ormai distingue la nostra condizione da quella de’ popoli soggetti a reggimento assoluto? Gli agenti del potere esecutivo possono oggi, come a’ tempi più tristi delle cadute signorie, fabbricare false accuse, sciogliere associazioni e pubbliche adunanze, invadere, senza indizio nonché flagranza di reato, la santità del domicilio, frugare nei secreti domestici delle famiglia, mettere le mani sulle persone de’ cittadini senza mandato di giudice, tenerli a lor posta in carcere sopra denunzie di lor fattura, e trattarli come comuni malfattori, allentare per fini faziosi i procedimenti della regolare giustizia, e render nulla colle loro pressure la vantata indipendenza de’ tribunali».

Non è nostro compito indagare fino a che punto le idee internazionaliste avessero fatto presa sulla base repubblicana o se qualche dirigente locale avesse dato assicurazione che, in caso di insurrezione, anche loro vi avrebbero partecipato; in effetti dei contatti tra anarchici e repubblicani ci furono e, a livello locale, ci furono anche tentativi di intesa. Il fatto certo è però che tra partito repubblicano e movimento anarchico non avrebbe potuto esserci possibilità di alleanza.

Basterebbe ricordare con quale virulenza Aurelio Saffi (tra gli arrestati di Villa Ruffi) avesse respinto le accuse della polizia che accomunavano repubblicani ed anarchici. «Vedemmo, nel caso nostro, messe in un fascio e denigrate tutte ad un modo dottrine e tendenze disparatissime, idee civili e sofismi contrarii ad ogni fondamento di umana società, confusi insieme patrioti e comunisti, Mazzini e Bakounine, le fratellanze operaie, che, dietro i precetti del primo, intendono ad educazione, costume e progresso di buon vivere cittadino, e i proseliti delle straniere utopie (...) Noi, che assiduamente oppugnammo le idee degl’internazionali, e che avevamo di recente sedato (...) i tumulti annonarii, e deprecato moti inconsulti e violenze sociali, noi fummo fatti complici, dai nostri detrattori, d’oscure e forse inventate macchinazioni, al tutto discordi dai nostri principii e da ogni istituto ed intento della nostra vita politica».

La polizia, pienamente al corrente della progettata insurrezione anarchica, il 5 agosto arrestò a Bologna Andrea Costa. Il giorno successivo diverse società democratiche e repubblicane furono sciolte e compiuti arresti, sia mirati sia indiscriminati, nelle zone di Bologna, Imola, Forlì.

L’ora di quella che avrebbe dovuto essere la resa dei conti stava per scoccare. La mattina del 7 agosto sui muri di molte città apparve affisso il terzo Bollettino Rivoluzionario e la sua divulgazione fu affidata alla libera iniziativa e fantasia dei diffusori: a Napoli una copia fu perfino appuntata, con uno spillo, dietro la giacca di un delegato di polizia.

Il proclama anarchico diceva: «Questa è l’ultima volta che vi rivolgiamo la parola; l’ultima giacché voi, in questi giorni avete chiaramente dimostrato che cosa pensiate e che cosa vogliate. Le dimostrazioni che spontaneamente avvennero contro il caroviveri, lo sgomento ch’esse posero nella grassa borghesia, l’agitazione che qua e là serpeggia, e più che altro il fermo proposito di finirla con uno stato di cose insopportabile, tutto ciò addimostra che il popolo con piccole riscosse parziali si prepara alla grande Rivoluzione (...) Non si tratta di venire a patto con i nostri padroni per avere il pane a miglior mercato, si tratta di avere per noi l’intero prodotto delle nostre fatiche (...) Amici, fratelli (...) se non vi scorre nelle vene acqua ma sangue, se non avete in petto anima di coniglio, se amate la libertà, se odiate la schiavitù, se siete uomini infine: fuori! E con noi!».

Ma quella che doveva essere la grande rivoluzione italiana fallì nel modo più miserevole. Senza entrare nei particolari, in breve questo è ciò che avvenne: la notte tra il 7 e l’8 da Imola partirono alla volta di Bologna oltre un centinaio di cospiratori, la maggior parte dei quali sprovvisti di armi. La spedizione venne intercettata e si concluse con 43 arresti subito ed altri nei giorni successivi. Il giorno 12 Bakunin scappava da Bologna travestito da prete. «Per travestirsi da prete si era fatto rasare e aveva messo degli occhiali verdi, camminava appoggiandosi ad una canna e portava in mano un piccolo paniere con delle uova» (Guillaume, “L’Internationale, documents et souvenirs”).

A Firenze la progettata insurrezione non ebbe luogo per il preventivo arresto dei capi e dei gregari maggiormente sospetti. Allo stesso modo l’insurrezione abortì a Roma e a Livorno. L’unica speranza ora era riposta del Sud, nei movimenti rivoluzionari organizzati da Malatesta, ma nessuno si mosse né in Calabria né in Sicilia. In Puglia, dove il movimento era sotto la personale direzione di Malatesta, gli uomini che avrebbero dovuto rispondere all’appello variavano dai 300 ai 500, ma all’atto pratico si presentarono solo in 6 all’appuntamento a Castel del Monte, nei pressi di Molfetta. Questi riuscirono a salvarsi dall’arresto grazie all’aiuto di un piccolo proprietario il quale, pur chiamandoli pazzi, li nascose in un carro di fieno portandoli fuori dell’accerchiamento militare.

 

La risposta dello Stato e della piccola-borghesia

Tale fu la fine di tutta la cospirazione anarchica. Ma se di fatto fu semplicemente ridicola, diede il pretesto alla polizia di scatenare una violenta azione repressiva in tutto il regno. Il 9 agosto il governo sciolse tutte le sezioni dell’Internazionale, successivamente furono effettuate larghe retate di indiziati come elementi pericolosi o sospetti, senza troppa distinzione tra anarchici internazionalisti e nazionalisti repubblicani. Processi per cospirazione contro i poteri dello Stato e per insurrezione armata furono istruiti in molte città: Bologna, Roma, Firenze, Trani, Catanzaro, Girgenti, Livorno, Massa Carrara, Perugia. Le istruttorie furono volutamente molto lunghe, in modo tale che gli imputati, anche nel caso in cui fossero stati assolti, avrebbero scontato un lungo periodo di carcere preventivo.

Al congresso generale dell’internazionale anarchica di Bruxelles, 7-12 settembre, il Comitato italiano per la rivoluzione sociale inviò un messaggio, redatto da Cafiero, nel quale si diceva che l’Italia non sarebbe stata rappresentata al congresso, non esistendo più colà, date le persecuzioni governative, “l’Internazionale pubblica”, e perché nessun gruppo dell’internazionale segreta era disposto a perdere degli uomini i quali, con le armi alla mano, avrebbero potuto rendere ben altri servizi alla causa; che l’organizzazione segreta data al movimento aveva fatto dell’Internazionale in Italia «una vasta cospirazione organizzata per il grande giorno»; che l’epoca dei congressi era «definitivamente finita» e che forse quella era l’ultima volta in cui gli internazionalisti italiani vi facevano giungere la loro parola; e concludeva che la via ormai presa dall’Italia rivoluzionaria era la sola capace di condurla al suo scopo finale, il trionfo della rivoluzione sociale.

Evidentemente i disastrosi risultati delle fantasticate insurrezioni a Cafiero non aveva insegnato niente!

Nei primi del 1875, dopo vari mesi di prigione, moltissimi fra coloro che la polizia aveva arrestato nell’agosto dell’anno precedente, prosciolti in istruttoria, furono rimessi in libertà. Il primo processo celebrato fu quello di Roma, a maggio, dove nove dei dieci imputati furono condannati a pene che, per quasi tutti, arrivarono a dieci anni di reclusione. La sentenza sarà poi annullata per vizio di forma dalla cassazione e la ripetizione del dibattimento, dall’11 al 13 maggio 1876, terminerà con l’assoluzione di tutti gli imputati. A Firenze, tra il giugno e l’agosto si tenne il secondo processo. Il 5 agosto, dopo sei giorni di dibattimento, Malatesta ed altri sei imputati furono assolti dalla corte di appello di Trani. Terminarono con assoluzioni anche i processi di Livorno, Massa Carrara e Perugia.

In ultimo, nel marzo 1876, dopo quasi due anni di carcere preventivo, si svolse a Bologna il più atteso dei precedenti processi: quello contro Andrea Costa ed i compagni romagnoli. Per la esposizione del processo di Bologna ci serviremo esclusivamente di quanto scrisse Guillaume nella sua voluminosa opera.

     «I dibattimenti sono incominciati e gli interrogatori durano da otto giorni e non sono ancora finiti. Il palazzo di giustizia assomiglia ad una fortezza, è circondato e brulicante di soldati. La popolazione della città si interessa vivamente al processo; l’aula è sempre gremita, le tribune sono piene di signore, in ogni ambiente il processo è l’argomento del giorno e si viene formando in favore dei nostri amici una forte corrente di simpatia. La giuria è composta per la maggioranza di gente di campagna, che ha in genere un’aria poco rassicurante. I difensori sono quasi tutti repubblicani e tra di essi si trova perfino qualche socialista (...) Gli accusati sono in numero di settantanove, di cui nove contumaci: hanno l’aria tranquilla e sorridente e paiono più allegri del pubblico che li osserva (...) Come potrete immaginare, l’interrogatorio più importante che ha causato la più grande sensazione è stato quello di Costa (...) Costa ha esordito facendo la storia dell’Internazionale in Italia (...) ha poi aggiunto che teneva a farla per motivi di propaganda, giacché (...) non gli restava altro mezzo se non quello di trasformare il suo posto di imputato in una tribuna politica. Questa frase ha fatto il giro della stampa italiana (...) Si è notato che gli allievi delle scuole hanno abbandonato le lezioni per venire all’udienza ed ascoltare Costa. Il suo interrogatorio è durato tre giorni durante i quali sono stati letti numerosi documenti riguardanti l’Internazionale (...)
     «Finito che fu l’interrogatorio di Costa, non soltanto i suoi difensori, ma anche altri sono andati a stringergli la mano (...) I due principali testimoni a discarico sono stati l’illustre poeta Giosuè Carducci, professore all’università di Bologna, ed il conte Aurelio Saffi, ex triunviro della Repubblica Romana ed attualmente capo del partito mazziniano. Il primo ha detto che Costa aveva seguito le sue lezioni da studente e che, essendo il migliore dei suoi allievi, lo ha visto con dolore abbandonare l’università (...) Parlando poi dell’Internazionale, ha detto che il mondo è pieno di idee nuove e di nuove necessità che reclamano una soluzione concreta, che non è lontano il momento in cui una nuova forma di vita sociale si sarà fatta strada. Non saprei dire (...) quale sarà questa forma, ma è certo che l’Internazionale racchiude in sé i germi della soluzione di molti problemi sociali; oggi, dinanzi al vecchio edificio che crolla ed a quello nuovo che sta per sorgere (...) tra lo scetticismo utilitario da una parte e l’utopia generosa dall’altra, è facilissimo che giovani dotati d’intelligenza e di cuore siano completamente presi dall’idea dell’Internazionale (...) Saffi ha parlato a lungo delle tristi condizioni in cui le classi dirigenti hanno posto l’Italia (...) Ha poi reso omaggio alla buona reputazione di quegli, tra gli accusati, che conosceva. Finito di parlare, si è fatto presentare a Costa dicendogli che era felice di fare la sua conoscenza perché tra uomini di cuore, malgrado la differenza di idee, vi è sempre un legame superiore ed indissolubile».

Il 17 marzo, finite le requisitorie, iniziavano le arringhe delle parti. Difendevano Andrea Costa gli avvocati Barbanti e Ceneri. Il primo dichiarò di essere egli stesso internazionalista e pienamente solidale con gli imputati. Il secondo tenne una portentosa arringa, tanto è vero che, continuando la lettura del Guillaume: «Il pubblico, quantunque fosse composto in gran parte di appartenenti all’alta borghesia bolognese, è scoppiato in applausi irresistibili e prolungati. Solo dopo molto tempo il Presidente ha potuto far intendere la sua voce per dichiarare che, al ripetersi di queste manifestazioni, avrebbe fatto sgomberare l’aula (...) Il banco degli accusati era più gaio ed animato del solito: hanno ricevuto la notizia che gli internazionalisti di Roma sono stati assolti, ed essi si felicitano della sconfitta del pubblico ministero (...) Ai primi di giugno arrivò la notizia dell’assoluzione di tutti gli imputati del processo di Massa Carrara (...) Tutta la prima metà di giugno fu riempita dalle repliche del pubblico ministero e dalle controrepliche degli avvocati. Infine venerdì 16 giugno, prima della chiusura dei dibattimenti, Costa prese la parola a nome di tutti gli imputati ed il suo discorso venne accolto da vivi applausi».

Andrea Costa, riferendosi ai tentativi di moto insurrezionale di due anni prima affermava:

     «Se noi consideriamo quegli avvenimenti per se stessi non possiamo fare a meno di non ridere della pochezza dei mezzi di cui disponevano coloro che vi presero parte. Ma – continuava il suo discorso pieno di passione anarchica – se consideriamo la condotta dei partecipanti, non rideremo più; ma saremo compresi da ammirazione per giovani che ad un fine non bene intraveduto, ma generoso, sacrificavano il loro avvenire ed andavano incontro a sacrificare la vita. È ridicolo ma è al tempo stesso sublime (...) Noi vogliamo l’umanamento dell’uomo; donde si deduce che non è già l’emancipazione della classe operaia solamente quella per cui ci adoperiamo, ma l’emancipazione intera e completa di tutto il genere umano. Perché, se le classi operaie debbono emanciparsi dalla miseria, le classi privilegiate debbono emanciparsi da miserie alle volte più gravi di quelle del proletariato, da profonde miserie morali».

Infine, dopo una interruzione dovuta agli applausi da parte del pubblico, rivolto ai giurati: «La coscienza popolare che voi rappresentate, si è abbastanza manifestata (...) Questi applausi sono la prova più manifesta del concetto in cui la cittadinanza bolognese tiene questo processo e noi».

Gli imputati furono poi ricondotti alle loro celle, mentre la corte si ritirava a consiglio. «A mezzanotte – è Andrea Costa che racconta – mentre noi dormivamo profondamente, vennero a svegliarci per ricondurci in tribunale. Il Presidente annunciò che tutti gli imputati erano assolti e provocò un mormorio di generale approvazione che si trasformò in applauso quando i giurati uscirono. Gli stessi giurati vennero a felicitarsi con gli accusati: e questi, come potete bene immaginare, furono accolti a braccia aperte dagli amici che erano lì ad attenderli».

Non appena uscito dal carcere, Andrea Costa assicurava inoltre gli amici giurassiani che l’attività dell’internazionale anarchica in Italia stava riprendendo a pieno ritmo: «L’opera di riorganizzazione è già incominciata. Le federazioni di Roma e di Napoli sono già ricostituite; oggi si ricostituisce la sezione di Imola; domani sarà ricostituita la federazione di Bologna e tra pochi giorni terremo il secondo congresso delle sezioni e federazioni romagnole, che precederà di poco il terzo congresso della Federazione italiana. I nostri rappresentanti, ne siamo certi, verranno in seguito a stringere la mano ai vostri al prossimo congresso generale».

Come si può vedere questa comunicazione è in aperta antitesi a quella precedentemente riportata, con cui Cafiero dichiarava che l’epoca dei congressi era “definitivamente finita” e la via cospirativa ormai intrapresa dall’Italia rivoluzionaria era la sola capace di condurre al trionfo della rivoluzione. Andrea Costa infatti, pur rimanendo un militante anarchico, come in seguito vedremo, comincia già a porsi il problema di trarre il bilancio dei passati errori.

(Continua al prossimo numero)


 
 
 
 
 
 
 
 


Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America
Capitolo 16, esposto a Sarzana alla riunione di settembre 2013 [RG117]

(Continua del numero scorso)
 

Gli Industrial Workers of the World

Un riepilogo e un bilancio

Alla fine del XIX secolo la forma di organizzazione dominante nel movimento operaio americano è quella di diverse trade unions indipendenti, ciascuna delle quali riunisce ed organizza autonomamente su base locale, statale o, sempre più spesso, nazionale tutti gli operai che eseguono un determinato processo lavorativo, il sindacalismo di mestiere o craft unionism.

Nell’ultimo decennio del secolo e nei primi anni del ‘900 si verifica un forte sviluppo quantitativo del trade-unionismo negli Stati Uniti: il numero totale di iscritti alle unions passa da 447.000 nel 1897 a 2.072.000 nel 1904. Contemporaneamente cresce d’importanza l’American Federation of Labor: il numero dei suoi iscritti passa da 278.000 nel 1898 a 1.676.000 nel 1904, e in quell’anno l’80% di tutti coloro che sono iscritti ad una trade union appartiene alla A.F. of L.

Ma, nonostante questa crescita, l’A.F. of L. non comprende agli inizi del secolo che meno del 20% dei lavoratori manuali americani; il resto, salvo poche lodevoli eccezioni, resta completamente non organizzato.

Ma quello che più conta è il fatto che l’A.F. of L. risulta principalmente composta da unions di operai specializzati, skilled, impiegati nell’industria delle costruzioni ed in piccole imprese, come stamperie, sartorie, calzolerie e negozi di barbiere. Anche nelle industrie a produzione di massa – acciaio, meccanica, chimica, tessile, abbigliamento, vetro e scarpe – gli iscritti sono quasi esclusivamente gli operai specializzati. Così proprio in quegli anni di crescita si fa evidente l’incapacità della A.F. of L. di stabilire alcun controllo effettivo sulle grandi industrie a produzione di massa e l’impossibilità, sulla base dei principi organizzativi del sindacalismo di mestiere, di fronteggiare, anche quando ne avesse la volontà, le conseguenze sugli operai della concentrazione della proprietà e della meccanizzazione e standardizzazione della produzione, che stanno venendo a caratterizzare sempre di più il capitalismo americano. Nei capitoli precedenti abbiamo dato ampia documentazione del precoce passaggio di questa Federazione di sindacati nel campo del padronato monopolistico, almeno per quanto riguarda i funzionari di più alto grado.

L’elevata meccanizzazione delle fabbriche rende sempre meno importante la perizia e l’abilità degli operai skilled (e gli attrezzi finora loro simbolo e orgoglio) giacché, grazie all’introduzione di nuove macchine, operai unskilled o semiskilled (non specializzati o semi specializzati) possono ormai essere impiegati dopo un addestramento semplice e sbrigativo, ben diverso dai lunghi anni di apprendistato che gli specializzati avevano dovuto attraversare per conquistare il loro tradesman, il certificato di mestiere. È significativo il cambiamento nella composizione della forza-lavoro che avviene in quegli anni. Dal 1870 al 1900 il numero dei salariati cresce da 12 a 29 milioni; contemporaneamente la frazione delle donne (di solito sono destinate a lavori di tipo unskilled) sale da 1/8 ad 1/5 del totale. Anche il numero dei ragazzi dai 10 ai 15 anni cresce fino a raggiungere 1.750.000. Nell’immigrazione il primato passa dall’Inghilterra e dalla Germania, paesi che fornivano in generale operai dotati di competenze professionali, all’Austria-Ungheria, alla Russia e all’Italia, e l’estrazione dei nuovi arrivati è prevalentemente contadina. Sono gli operai che provengono da questi paesi, la cui sfera di bisogni è più ridotta e si accontentano di salari minori, che vanno a costituire lo stato più basso della classe operaia, l’operaio unskilled che i nuovi processi produttivi possono utilizzare.

L’impossibilità per organizzazioni basate sui principi del craft unionism di far fronte a queste imponenti trasformazioni che avvenivano nei settori industriali più avanzati è dimostrata dal caso dell’industria dell’acciaio, e abbiamo visto come il padronato riesce a schiacciare la resistenza operaia e gli stessi sindacati in pochi anni a cavallo del ‘900.

Alla fine, nella speranza di sopravvivere, le unions cominciano a cedere sistematicamente ad ogni richiesta dei datori di lavoro; da questo punto in poi la loro esistenza dipende in definitiva dagli interessi che questi possono avere a mantenerle in vita. Abbiamo visto come per un trust, ad esempio, mantenere in vita una trade union e, conseguentemente, alto il costo della forza-lavoro, può essere un modo per forzare dei produttori indipendenti ad associarsi; oppure, il mantenere artificialmente alti i salari di una piccola minoranza della forza-lavoro – skilled – attraverso opportuni accordi con i sindacati di mestiere, diventa il modo per mantenere ad un livello di fame i salari della maggior parte degli operai.

Una volta accettata questa condizione di subordinazione all’azienda, le trade unions non solo diventano necessariamente più conservatrici e burocratiche, esse cambiano completamente la loro funzione e si dedicano ad attività di tipo assicurativo ed assistenziale, operando nei confronti del padronato solo per difendere gli interessi corporativi delle aristocrazie operaie.


Un nuovo tipo di organizzazione

Non tutti i sindacati avevano subito questa trasformazione: alcune unions avevano modificato la loro struttura per organizzare non solamente operai che eseguivano un determinato compito ma tutto un settore industriale. Queste nuove organizzazioni a base industriale, industrial unions, mantenevano molte delle caratteristiche delle precedenti di mestiere da cui sorgevano. In effetti esse si formavano non tanto sotto la spinta della meccanizzazione del processo di produzione, con la conseguente sostituzione degli operai skilled con quelli unskilled, quanto piuttosto sotto la spinta del processo di concentrazione della proprietà e dei trust.

Quindi questi primi sindacati a base industriale sono ottenuti coalizzando fra di loro le capacità di contrattazione di operai skilled appartenenti a mestieri differenti; sorgono per un processo di aggregazione (amalgamation) di diverse craft unions allo scopo di opporre all’unità padronale l’unità di tutti i lavoratori di un determinato settore industriale.

E anche industrial unions che nascono ex-novo e che organizzano al loro interno tanto operai skilled che unskilled – allo scopo di impedire che i padroni possano usare questi ultimi come crumiri – mantengono il principio organizzativo della divisione per mestiere e si realizzano quindi con elementi ibridi e contraddittori.

È questo il caso della American Railway Union, formatasi nel 1894 sotto la spinta di Eugene V. Debs e finita precocemente in seguito alla sconfitta dello sciopero di Pullman. Malgrado comprendesse tutti coloro che lavoravano sulle linee ferroviarie, skilled ed unskilled, uomini e donne, con la sola ma notevole eccezione degli operai negri, la A.R.U. non differiva sostanzialmente nella sua struttura dalle altre industrial unions. Infatti le sue sezioni locali erano organizzate su base di mestiere, ed erano unite in una federazione su ogni principale rete ferroviaria. Queste federazioni, a loro volta, confluivano nell’organizzazione nazionale. Il carattere distintivo della nuova organizzazione era la sua politica di azione unitaria ogni qualvolta i diritti di un qualsiasi membro fossero minacciati.

L’esempio più significativo di unionismo industriale fu dato, per quegli anni, dalla Western Federation of Miners, una organizzazione che ebbe una larga parte nel processo di formazione degli Industrial Workers of the World e che per anni coordinò e diresse la durissima lotta di classe sostenuta dai minatori dell’Ovest.

Come conseguenza di queste trasformazioni l’importanza della mano d’opera skilled e la sua forza contrattuale decrebbero notevolmente; questo rese più facili e più frequenti i tentativi della Miners Owners Association di sostituirla con delle green hands (operai non dotati di alcuna abilità) allo scopo di spezzare gli scioperi ed eliminare la presenza della W.F.M. dalle miniere.

Dalla necessità di contrapporre un fronte più compatto all’attacco dei padroni, includendo al proprio interno anche gli operai unskilled, nacque l’idea di creare un’organizzazione più vasta, che comprendesse tutti i lavoratori dell’Ovest, la Western Labor Union, della quale abbiamo già avuto occasione di parlare.

Tutte queste prime esperienze nel campo dell’unionismo industriale avevano comportato un notevole allontanamento dal principio organizzativo fondamentale dell’A.F. of L., la completa autonomia di ogni craft union; ma ciò non significava ancora un completo abbandono dei principi organizzativi del sindacalismo di mestiere ed una completa opposizione all’A.F. of L. Anzi più o meno tutte queste industrial unions erano rimaste per un certo periodo affiliate all’A.F. of L. La stessa Western Labor Union, per sottolineare che non intendeva in nessun modo creare un’organizzazione contrapposta all’A.F. of L., permetteva alle unions che venivano a farne parte di mantenere i propri legami con la federazione più grande. Perfino quando la W.L.U., sotto la spinta di Debs, si trasformò come abbiamo visto in American Labor Union fu subito chiarito che la nuova organizzazione non si proponeva «di opporsi all’American Federation of Labor, o invadere la sua giurisdizione o creare unions rivali». Lo stesso Debs pur chiarendo che «non si poteva consentire al movimento dell’Ovest di arretrare e ritornare indietro alla American Federation» continuava a sperare che «un giorno le due forze progressiste potranno unirsi nel lavoro di redenzione che deve essere compiuto».

Durante gli scioperi del 1903 e 1904 la Western Federation of Miners dovette subire il più duro attacco alla propria esistenza che avesse mai ricevuto. E tutti i normali mezzi di resistenza di una union – fondi di sciopero, union shops, etc. – non erano serviti a molto di fronte alla violenza usata dai dirigenti delle miniere con l’aiuto delle autorità politiche statali. La repressione era stata enorme. Diverse zone del Colorado, in particolare Cripple Creek, erano state poste sotto il controllo armato della «milizia di Stato direttamente al soldo delle corporations», «la libertà di parola fu soffocata, la stampa imbavagliata ed il diritto all’habeas corpus sospeso dall’imperialismo militare», così descrive quegli eventi W. Haywood; complessivamente si ebbero 42 minatori uccisi, 112 feriti e moltissimi arrestati illegalmente e deportati in altri Stati sotto la minaccia di morte nel caso fossero tornati.

Di fronte a questo attacco militare contro la classe l’A.F. of L., dopo aver mantenuto una congiura del silenzio su quanto accadeva, non seppe fare altro che indire una raccolta di fondi rifiutando ogni più incisiva forma di solidarietà. Ormai era chiaro che la forma chiusa dei sindacati di mestiere non era più adatta a difendere la classe operaia dall’attacco padronale, al contrario aveva favorito lo stabilirsi di una collaborazione di classe tra aristocrazie operaie e padronato; l’A.F. of L. aveva addirittura ufficialmente riconfermato, nel 1903, il vecchio schema organizzativo, costringendo importanti organizzazioni ad allontanarsene. Il ruolo reazionario ormai svolto dall’A.F. of L. trovava il suo coronamento nell’abbandono dell’atteggiamento antimperialistico tenuto anni addietro: nel 1904 la Cigar Makers Union – affiliata all’A.F. of L. – rifiutava di organizzare operai filippini nel timore che questo potesse aiutare il movimento indipendentistico delle Filippine.

Anche su questo piano il prestigio dell’A.F. of L. subiva un grave colpo. E ormai perfino Debs era convinto del fatto che «solo quando la luna si fosse trasformata in formaggio verde i Socialisti sarebbero riusciti a cambiare l’A.F. of L., piena fin nel profondo di influssi capitalistici, in un’organizzazione operaia rivoluzionaria». Ormai era evidente a tutti che un’organizzazione sindacale operaia con qualche possibilità di successo doveva compiere un salto di qualità in due direzioni principali, una di tipo organizzativo – grandi sindacati d’industria, aperti a tutti i lavoratori senza alcuna distinzione e riuniti in una grande federazione – e una di tipo politico – il rifiuto di qualsiasi teorizzazione di interessi comuni tra classe degli sfruttati e classe degli sfruttatori.

 

Una organizzazione generale della classe operaia

Non c’è da meravigliarsi, perciò, del consenso con cui fu accolto l’appello lanciato nel novembre del 1904 da un gruppo di sei sostenitori del sindacalismo industriale per una riunione da tenersi nel gennaio del 1905 allo scopo di «discutere modi e mezzi per unire gli operai americani su corretti principi rivoluzionari, senza riguardo ad alcuna organizzazione generale operaia, passata o presente, sui soli principi fondamentali (...) della tutela degli interessi dei lavoratori».

L’appello era estremamente innovativo, in quanto non si limitava ad auspicare un rinnovamento organizzativo del movimento operaio, ma poneva per la prima volta sul piano della lotta di classe rivendicazioni che non avevano come limite le condizioni sociali e politiche esistenti. Vi si esprimeva infatti la convinzione che «divisione per mestieri ed ignoranza politica erano condannate a rapida fine» e che la classe operaia era in grado, «se correttamente organizzata, sia in campo industriale sia politico, di prender possesso e mandare avanti per i propri interessi le industrie del paese».

Alla convenzione del 2 gennaio 1905 parteciparono 23 delegati rappresentanti di otto organizzazioni: American Labor Union (A.L.U.), Western Federation of Miners (W.F.M.), United Brotherhood of Railway Employees (U.B.R.E.), Brewery Workers Union (B.W.U.), Switchmen’s Union, United Metal Workers (U.M.W.), Bakers’ Union e American Federation of Musicians (A.F.M.), più alcune personalità a titolo individuale. Non si presentarono i rappresentanti del Partito Socialista, accusando l’iniziativa di creare una spaccatura nella classe e di rendere più difficile riportare sulle corrette posizioni di classe l’A. F. of L., espellendone i capi più conservatori. Naturalmente che questo fosse impossibile era ormai talmente lampante che nessuno si preoccupò più di tanto di quelle assenze.

La conferenza, eletto presidente permanente William D. Haywood, nei tre giorni seguenti discusse e deliberò su come costruire una nuova organizzazione basata su: sindacalismo d’industria, unità della classe, lotta di classe.

Fu approvato un documento, che prese il nome di Industrial Union Manifesto, che passava in rassegna i punti cruciali della condizione operaia nella società capitalistica del tempo, alla luce delle esperienze scaturite dalle lotte degli ultimi tre decenni. In primo luogo era messo in evidenza l’effetto dello spinto macchinismo e della concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione sia sui rapporti tra lavoratori e sulle loro organizzazioni, sia all’interno della stessa classe borghese. Molti mestieri scompaiono, le operazioni compiute dai lavoratori sono sempre più semplici, il lavoratore è sempre meno differenziato e sempre più è trattato come materiale amorfo da inserire nel processo produttivo finché non diviene inutilizzabile; in tal caso viene gettato via come macchinario obsoleto o inservibile. Il lavoratore è così alla mercé del padrone, che lo sposta e lo utilizza come meglio crede, senza trovare alcuna resistenza perché le organizzazioni operaie ne sono incapaci. Ove resistenze si manifestano, i capitalisti, sempre più uniti in organizzazioni padronali, complici sindacati collaborazionisti, utilizzano ampiamente e in modo scientifico tutto l’attrezzaggio repressivo che la società che loro dominano può offrire.

È ovvio che in questa situazione non vi sono prospettive per la classe operaia, se non di una schiavitù senza speranza. I sindacati di mestiere non sono più adatti a difendere le condizioni operaie, al contrario sono stati utilizzati dai capitalisti nelle loro lotte interne e contro gli operai combattivi, fino al punto di far loro organizzare il crumiraggio per spezzare le lotte. «I mali economici universali che affliggono la classe operaia possono essere sradicati solo da un movimento universale della classe operaia», sulla base di questa affermazione è necessario che la classe si stringa in un unico sindacato industriale che unisca tutti i settori, che si fondi sulla lotta di classe, senza alcuna affiliazione a partiti politici, una organizzazione che funzioni in modo nuovo e militante.

Il Manifesto si conclude con l’invito a partecipare ad un’assemblea che si sarebbe riunita a Chicago il 27 giugno 1905 allo scopo di fondare l’organizzazione economica di classe capace di attuare i principi espressi nel Manifesto.

Il documento stampato per essere diffuso tra i lavoratori portava ulteriori affermazioni circa gli scopi della costituenda organizzazione: «Riunire i salariati in modo tale da potersi battere con successo e proteggere gli interessi dei lavoratori in lotta (...) Offrire una soluzione finale al problema del lavoro – emancipazione da scioperi, ingiunzioni e “bull-pens” (i bull-pens erano catapecchie nelle quali venivano rinchiusi e tenuti in condizioni disumane operai in sciopero senza che avessero infranto alcuna legge) (...) Questa organizzazione costruirà al suo interno (...) una Repubblica Cooperativa Operaia, che dovrà finalmente distruggere il guscio del governo capitalista, ed essere lo strumento con il quale il popolo lavoratore gestirà le attività produttive e si approprierà dei prodotti».

Un documento combattivo sul piano sindacale, che invita la classe a ritrovare i mezzi per difendere i suoi interessi fino alle conseguenze più estreme, nella convinzione che la lotta difensiva non possa essere considerata la soluzione definitiva alla questione sociale.

Affermazioni simili si trovano anche negli statuti delle confederazioni sindacali europee dell’epoca, infatti i principali esponenti del comitato promotore a questi riconoscevano di essersi ispirati. Ma in Europa i grandi sindacati erano strettamente connessi ai partiti socialisti, coscienti della oggettiva e necessaria convergenza fra i piani sindacale e politico, e all’interno della classe operaia era ben chiara la distinzione tra organizzazione politica e difensiva. Il Manifesto americano, invece, esclude legami con partiti politici, e qualsivoglia coinvolgimento nella lotta elettorale, che invece in Europa era allora considerata inevitabile per la propaganda politica. Questa differenza è chiarita solo pochi giorni dopo da Trautmann, uno dei principali promotori, che non esita a definire l’auspicata organizzazione come ispirata al “sindacalismo rivoluzionario”.

Non stiamo qui a fare una critica del sindacalismo rivoluzionario, diffusosi in Europa come reazione alla presa che il riformismo stava avendo sui partiti socialisti, ideologia d’altronde di derivazione anarchica, tanto che è stata anche definita anarco-sindacalismo; si tratta di posizioni al di fuori del marxismo, anche se ne accettano alcuni postulati. Né erano nuove in America.

Il revisionismo aveva risospinto in Europa strati proletari verso l’anarchismo, già battuto in teoria e pratica nei decenni precedenti, invece in USA così agì la politica sfacciatamente collaborazionista della A.F. of L. Negli USA, di fronte alla estrema debolezza dei partiti operai, il miraggio di una nuova società socialista, generata da una grande spallata della classe raccolta nella “One Big Union”, non tardò ad affascinare ampi strati di proletari: un grande sciopero generale, poi un paese governato dalla sola organizzazione dei sindacati.

L’Industrial Union Manifesto fu diffuso ampiamente negli ambienti sindacali degli Stati Uniti, e anche in Europa, con gran dispetto di Gompers, che non smise mai di attaccare i promotori accusandoli di voler soltanto distruggere il sindacato. Uno dei firmatari, Moyer, non si difese dall’accusa, ma affermò che niente avrebbe potuto danneggiare il movimento sindacale più di quanto avesse già fatto l’ A.F. of L. In realtà nelle speranze di molti dei promotori era la possibilità di un passaggio indolore di sezioni e interi sindacati negli I.W.W. Di fatto la potenza oramai smisurata della Federazione, attraverso i suoi organi di stampa e la sua capacità di ricatto sicuramente frenò molte organizzazioni sindacali dall’aderire agli I.W.W., anche se non è possibile valutarne il numero.

 

La Convenzione di Chicago

Il 5 giugno 1905 si apre a Chicago la Convenzione che Haywood chiamerà “Primo Congresso Continentale degli Operai del Mondo”. Lo stesso Haywood tiene il discorso inaugurale:

«Nel dare inizio ai lavori di questo congresso sento un senso di responsabilità su di me e su ogni delegato presente. Questo è il Congresso Continentale della classe operaia. Noi siamo qui per riunire i lavoratori di questo paese in un movimento della classe operaia che avrà come scopo l’emancipazione di questa classe dalla schiavitù capitalistica. Non c’è nessuna organizzazione, mi sembra che non ci sia nessuna organizzazione operaia, che abbia per scopo quello per cui siamo qui riuniti oggi. Lo scopo e l’obiettivo di questa organizzazione sarà quello di rendere la classe operaia padrona del potere economico e dei mezzi necessari alla vita, di permetterle di controllare l’apparato della produzione e della distribuzione, senza alcun riguardo per i padroni capitalisti.

«L’American Federation of Labor, che pretende di essere il movimento operaio di questo paese, non è un movimento operaio; non rappresenta la classe operaia. Ci sono delle organizzazioni che sono affiliate, naturalmente affiliate in modo molto poco rigoroso, alla A.F. of L. che nella loro costituzione o nei loro regolamenti proibiscono l’iniziazione o proibiscono di conferire l’iscrizione al sindacato ad un uomo di colore, che proibiscono di iscrivere stranieri. Noi vogliamo fondare un’organizzazione operaia che spalancherà le sue porte ad ogni uomo che si guadagni da vivere con i suoi muscoli o con il suo cervello (...)

«Non c’è nessuno che abbia un’oncia di onestà che non riconosca che vi è uno scontro perenne tra queste due classi, e la nostra organizzazione sarà formata, basata e fondata sulla lotta di classe, senza avere in mente nessun compromesso e nessun cedimento, con un solo scopo ed un solo obiettivo, quello di portare gli operai di questo paese ad essere pienamente padroni di tutto il valore dei prodotti della loro fatica».

Alla Convenzione partecipano 43 organizzazioni operaie, solo metà delle quali però hanno dato mandato ai delegati di affiliarsi subito; le altre vogliono saperne di più, oppure esitano di fronte alle minacce dell’A. F. of L., oppure non hanno ancora deciso. Quindi un buon numero di partecipanti vota solo a titolo personale. La rappresentanza totale si aggira intorno ai 50-60.000 lavoratori. I partecipanti, pur se combattivi, rappresentano una gamma di opinioni e posizioni abbastanza variata. Ci sono i socialisti parlamentaristi, soprattutto quelli del Socialist Labor Party, l’organizzazione capeggiata da De Leon, che mettono davanti a tutto la lotta politica parlamentare, e a questa secondo loro le organizzazioni economiche si devono piegare. Ci sono i socialisti “laburisti” del Socialist Party di Eugene Debs, che invece vedono la lotta politica subordinata a quella economica, e quindi il partito come una rappresentanza politica dei sindacati. Vi sono infine varie sfumature di anarchismo e anarco-sindacalismo, tutte fieramente avverse a qualsiasi forma di organizzazione politica, secondo le migliori tradizioni anarchiche. Non approfondiremo questi aspetti, che saranno trattati nel parallelo lavoro di partito sulla storia dei partiti politici della classe operaia americana.

L’intervento di Debs cerca di definire il nuovo organismo come qualcosa di totalmente diverso dall’A.F. of L.: «Se analizziamo il mondo industriale d’oggi, siamo immediatamente colpiti dalla totale inadeguatezza dell’organizzazione della classe operaia, con la sua mancanza di solidarietà, con un’evidente diffusa demoralizzazione e dobbiamo necessariamente concluderne che il puro e semplice unionismo di vecchio tipo non è più in alcun modo utile, che non è un mezzo di progresso, ma è diventato chiaramente reazionario, nient’altro che una forza ausiliaria della classe dei capitalisti.

«Ci accusano di essere qui riuniti allo scopo di distruggere l’esistente movimento delle unions. Ma questo è già a pezzi (...) Tutto il movimento delle trade unions è oggi sotto il controllo della classe capitalistica, predica i principi economici dei capitalisti, serve agli scopi dei capitalisti (...) Vi è certamente qualcosa di sbagliato in un tipo di organizzazione che ha come principale sostenitore la stampa dei capitalisti, c’è qualcosa di sbagliato in un tipo di organizzazione i cui capi sono luogotenenti del capitalismo, c’è qualcosa di sbagliato in un tipo di organizzazione che si allea con organismi dei capitalisti quali la Civic Federation, il cui unico scopo è quello di cloroformizzare la classe operaia mentre i capitalisti la derubano. Vi sono quelli che credono che queste organizzazioni possano essere cambiate dall’interno, ma sono in errore (...) Penso che la grande maggioranza della classe operaia di questo paese è preparata per una tale organizzazione: so, e lo sanno anche i capi delle trade-unions, che se questo congresso raggiungerà questo scopo la loro fine è decisa (...)

«Per riuscire nei suoi fini questa organizzazione non solo deve esser basata sulla lotta di classe, ma deve esprimere le condizioni economiche del presente. Dobbiamo avere un’unica organizzazione che racchiuda tutti gli operai in ogni settore dell’attività industriale. Questa organizzazione deve essere espressione della lotta di classe, deve saper riconoscere le divisioni di classe, deve avere, naturalmente, una chiara coscienza di classe e non deve ammettere alcun compromesso. Deve essere un’organizzazione di base e deve essere così strutturata e così guidata da attrarre gli operai coscienti in tutto il paese».

Al sesto giorno della convenzione inizia la discussione sul preambolo, che viene redatto dal segretario, padre Thomas Hagerty, al quale è attribuita la frase: «Il voto non è che una concessione dei capitalisti. Buttare pezzi di carta nel foro di una scatola non ha mai fatto raggiungere l’emancipazione alla classe operaia, e secondo me non lo farà mai».

Così inizia il Preambolo: «La classe operaia e quella dei padroni non hanno nulla in comune. Non ci può essere pace finché fame e indigenza colpiscono milioni di lavoratori e i pochi che costituiscono la classe dei padroni hanno tutti i beni della vita. Una lotta è destinata a protrarsi fra queste due classi, finché tutti gli operai non si riuniranno sia sul terreno politico sia su quello economico, e prenderanno e manterranno ciò che producono con il loro lavoro, con un’organizzazione economica della classe operaia non affiliata ad alcun partito politico».

È quindi un compromesso tra posizioni diverse: quella dei sindacalisti come Hagerty e Haywood, che vedono la conquista del potere come opera dei sindacati; quella dei socialisti di De Leon, che difendevano il ruolo dominante del partito nella conquista del potere; e quella degli anarchici puri, per così dire.

Clarence Smith chiese di eliminare qualsiasi riferimento all’azione politica, in questo sostenuto da un notevole numero di delegati, che vedevano la nuova organizzazione semplicemente come «una organizzazione economica basata sul conflitto di classe». Tutto «il confuso linguaggio sull’azione politica, da campagna elettorale» doveva essere eliminato, e sostituito da «una chiara affermazione dei compiti della classe operaia in campo economico».

Un tentativo di affermare una indipendente azione politica, ma “tradizionale”, sul tipo del Labour Party inglese, fu rigettata: secondo il Comitato per la Costituzione, guidato da Hagerty, i membri della nuova organizzazione avrebbero potuto fare politica, ma fuori dai partiti politici; in questo erano sostenuti dagli anarchici.

Fu De Leon, fino a quel momento acceso sostenitore del ruolo preminente del partito, a far passare quella formula di compromesso, che avrebbe condannato negli anni avvenire gli IWW a un’impotenza teorica e d’azione che ne avrebbe minato tutta l’esistenza. Egli affermò, contrariamente a quanto sostenuto fino a poco tempo prima, che il possesso dell’industria si dovesse compiere «attraverso un’organizzazione economica della classe operaia, perché è inimmaginabile che un partito politico possa prendere e mantenere il potere». Questa presa di posizione – quasi un voltafaccia di questo socialista, che pure si proclamava difensore della dottrina marxista – fece orientare la scelta nel senso enunciato nel preambolo.

Il comitato per la Costituzione propose il nome di “Industrial Workers of the World”, affinché i canadesi non si sentissero esclusi. Alla nuova organizzazione, che si dà il motto “un torto ad uno è un torto a tutti”, possono fare parte solo salariati, senza alcuna distinzione di nazionalità, fede, colore, sesso; le quote sono mantenute basse perché non costituiscano un impedimento alla partecipazione.

Si suddivide in 4 “dipartimenti”: manifattura, edilizia, miniere, agricoltura e foreste. In ognuno di questi sono 13 “suddivisioni” (poi ridotte a 6) che identificano i sindacati d’industria. Alla base, l’unità minima, è il luogo di lavoro: l’officina, la miniera; tutti i mestieri dell’unità di base appartengono alla stessa “sezione” sindacale. Naturalmente in molte località nelle quali esistevano pochi iscritti le sezioni comprendevano tutti i mestieri (mixed locals); inoltre nell’Ovest molti lavoratori erano migranti, e cambiavano lavoro più volte l’anno (i famosi hobo).


Un’occasione mancata

Così inizia l’avventura di un’organizzazione che avrebbe condotto dure battaglie contro il capitale e i suoi lacchè, i sindacalisti dell’A.F. of L., pur con tutti i limiti che i wobblies si portano dietro dalla nascita.

Sin dall’inizio i problemi non mancarono, cominciando dalla direzione, che utilizzava i pochi fondi in modo molto disinvolto, e che fu accusata di voler avversare l’anima rivoluzionaria dell’organizzazione, addirittura tentando di farne una copia dell’odiata A.F. of L. Nel 1906 la direzione di Sherman fu rimossa, anche se con penosi strascichi legali. Purtroppo la conseguenza più nefasta fu quella di innescare un processo che entro un paio di anni avrebbe definitivamente allontanato anche la Western Federation of Miners, che era la componente più forte e combattiva dell’organizzazione.

Il gruppo che aveva espulso Sherman non era omogeneo, composto come era dalla fazione che faceva capo a Trautmann e St.John, che puntava alla sola attività sindacale anche in vista dell’assalto al potere, e da quella di De Leon, che invece non voleva rinunciare all’opzione politica, nel senso della partecipazione alle elezioni. L’organizzazione evitò un’ulteriore scissione, almeno fino al 1908, al prezzo di compromessi e di interminabili discussioni tra socialisti e anarco-sindacalisti, che ebbero un effetto negativo sulla sua operatività.

In quegli anni però i wobblies riscossero notevoli successi, sia nelle lotte che diressero sia nell’inquadramento dei lavoratori delle fasce più basse, soprattutto gli immigrati. In queste attività il principale avversario, a fianco delle forze organizzate della borghesia, fu l’American Federation of Labor, che vedeva negli I.W.W. il principale nemico. Un’opposizione che si manifestava nella propaganda e nella collaborazione con il padronato per stroncare gli scioperi rifiutando di far scioperare i propri aderenti e addirittura fornendo il necessario crumiraggio.

Nel frattempo la crisi del 1907-1908 colpì duramente la classe operaia, e gli I.W.W. ne furono quasi spazzati via, a causa della debolezza organizzativa, e del fatto che i più colpiti furono proprio i suoi iscritti.

L’uscita della W.F.M. dall’organizzazione innescò uno stillicidio di abbandoni dei membri socialisti, rafforzando in tal modo la componente anarchica, in un circolo vizioso che portò presto all’epurazione dello stesso De Leon. Non possiamo entrare qui nei dettagli, ma la discussione si sviluppò sul piano politico e su quello sindacale, entrambe le parti portando al limite estremo le proprie posizioni. Quando alla fine si arrivò al confronto tra fautori dell’azione diretta (anarco-sindacalisti) e dell’azione politica (De Leon) questi ultimi si trovarono in minoranza e gli anarchici ottennero l’inserimento nel Preambolo di due ulteriori paragrafi:

«Invece del motto reazionario “una paga equa per un’equa giornata di lavoro”, dobbiamo iscrivere sul nostro vessillo l’ammonimento rivoluzionario: “Abolizione del sistema del salario”.

«Missione storica della classe operaia è quella di sottrarsi completamente alla servitù del capitale. L’esercito dei produttori deve essere organizzato, non solo per la lotta giornaliera contro il capitalista, ma anche per continuare a produrre quando il capitalismo sarà rovesciato. Organizzandoci industrialmente noi prepariamo la Società avvenire, nell’Alveo stesso della vecchia società».

Naturalmente i bonzi dell’A.F. of L. si rallegrarono nel vedere come questi travagli interni agitassero i wobblies, prevedendone l’imminente fine. Gli anni successivi invece li videro molto attivi in un gran numero di lotte sindacali, che spesso coinvolsero sia militanti I.W.W. sia iscritti all’A.F. of L.

 

Cosa diventarono gli “wobblies”

Dopo la quarta Convenzione, quella del 1908 che vide l’uscita di De Leon e dei suoi, fu possibile riprendere il lavoro. Ma questo non significò che all’interno dell’organizzazione, pur se più omogenea dopo l’uscita dei socialisti, fosse finito il dibattito teorico; al contrario, si continuò a disputare sul ruolo degli I.W.W.: doveva essere un vero sindacato, ma che combinasse la lotta per più alti salari e migliori condizioni di lavoro con un programma socialista rivoluzionario, o una struttura concentrata esclusivamente sul compito di guidare la classe operaia verso la presa del potere? La dirigenza nazionale era per la prima ipotesi, molti degli iscritti, anarchici, erano per la seconda, sostenendo che vi fosse contraddizione tra gli scopi rivoluzionari e l’attività sindacale e che concentrarsi su quest’ultima avrebbe allontanato gli operai dallo scopo finale: si sarebbero dovute abbandonare le azioni difensive per dedicare tutte le forze alla propaganda e all’agitazione.

Nonostante questa situazione, nel 1909 vi era ancora una sufficiente omogeneità per lanciare le lotte dell’organizzazione, tanto che quell’anno è considerato quello del vero decollo degli I.W.W.

Far parte dell’organizzazione era facile: bastava accettare le regole statutarie, e versare una piccola somma. Troppo piccola per molti critici, la quota mensile non superava i 50 centesimi, e spesso molto meno; anche se ciò costituì un problema, serviva a organizzare quei lavoratori migranti dell’ovest le cui entrate erano assai aleatorie e sempre scarse. L’epopea degli hobos è stata raccontata da molti scrittori, cantanti, poeti, registi di cinema, e attraversa l’America, soprattutto dell’Ovest, dall’inizio del secolo fino al secondo dopoguerra e non è mai del tutto terminata.

L’unico principio del quale veniva richiesta l’accettazione da parte degli iscritti era che tutti i lavoratori dovevano essere considerati uguali, e uniti in una causa comune. Per essere accettato esisteva una sola condizione: “Sei un lavoratore salariato, sfruttato da un padrone capitalista? In tal caso sei il benvenuto, quale che sia il tuo colore, credo, nazionalità, sesso o opinione politica”. Contrariamente a quasi tutte le organizzazioni sindacali fino a quel momento, gli I.W.W. cercarono attivamente di inquadrare cinesi, giapponesi e messicani.

Da un punto di vista dottrinale gli I.W.W. accettavano la critica marxista della società capitalistica, e le basi teoriche della lotta di classe, invece la tattica e i metodi di lotta avrebbero dovuto scaturire direttamente dalle esperienze quotidiane degli sfruttati. Erano fieramente anticlericali e antipatriottici.

Il metodo principe di lotta era l’ ”azione diretta”, anche se il significato dell’espressione non era il medesimo per tutti. Alla fine una definizione ne fu data nella stampa del movimento (della quale faceva parte anche un periodico in lingua italiana, “Il Proletario”): «”Azione diretta” significa avere a che fare direttamente con il padrone, attraverso il sindacato. Lo sciopero, nelle sue varie forme, è il miglior esempio di “azione diretta”». E infatti lo sciopero fu sempre considerato il migliore strumento per i lavoratori, anche se occasionalmente fu fatto ricorso anche al boicottaggio. La tattica adoperata per gli scioperi da parte degli I.W.W. è difficile da descrivere perché avevano l’istinto per improvvisarne di nuove nel corso de­gli scioperi, il che li rese famosi. Non piaceva loro che lo sciopero divenisse “un assedio passivo”, nel quale gli operai restassero a casa o ciondolassero all’angolo delle strade finché, dopo settimane o mesi, lo sciopero fosse proclamato vinto o perso. Diffusero quindi l’abitudine di organizzare picchettaggi di massa, cortei o dimostrazioni. L’idea era che se allo scioperante non si dava qualcosa da fare si sarebbe demoralizzato. Attraverso l’attività collettiva, invece, «gli scioperanti si fanno coraggio l’un l’altro, comprendono che l’interesse è di tutti, e comprendono la necessità di essere solidali (...) Condizioni accettabili dei cantieri e degli alloggi, giornata di lavoro più breve, maggiori salari, rilascio dei prigionieri della guerra di classe e altre rivendicazioni possono essere poste come ragioni principali dello sciopero. Ma di gran lunga più importante è la ragione fondamentale per la quale noi scioperiamo: innalzare il livello di coscienza e di aggressività della classe operaia».

Quindi non c’era sciopero veramente perdente. “Scioperate quando volete e dove volete!” era uno slogan centrale degli I.W.W.. Ma, anche se lo sciopero era considerato lo strumento principale, era chiaro a tutti che il potere concentrato nelle mani della classe capitalista rendeva poco praticabili scioperi di lunga durata. Poca fiducia era riposta nelle riserve accumulate, che chiamavano “forzieri di guerra”. Nel 1912 scrivevano: «Come organizzazione di lotta noi poniamo scarsa fiducia nell’accumulo di tesori; la loro esistenza induce gli operai a contare più sul denaro che sui loro sforzi, e ne discende demoralizzazione. I sindacati più conservatori sono quelli che hanno i fondi più abbondanti».

Quindi non esisteva l’abitudine di versare contributi per sciopero, disoccupazione, malattia o morte, pratica definita “sindacalismo da bara.” Solo in via locale e temporanea erano organizzate raccolte di fondi per gli scioperanti. Anche per questo erano scoraggiate lotte prolungate nel tempo: «Non vogliamo più scioperi infiniti che portano alla fame (...) Se non riusciamo a ottenere il risultato in pochi giorni torniamo al lavoro e prendiamo il salario mentre scioperiamo lavorando».

Lo “sciopero sul lavoro” non era altro che lo sciopero bianco, che naturalmente spesso determinava licenziamenti. In tal caso lo wobbly si trovava un nuovo lavoro, e ricominciava da capo. Anche se era considerata una tattica geniale, mentre da un lato era consentita da una situazione di piena occupazione, dall’altra tendeva a divenire un atteggiamento individuale, con le conseguenze opposte a quelle che gli I.W.W. si ripromettevano.

Una volta riconosciuto che non vi è comunanza di interessi tra padroni e operai, gli I.W.W. erano per una continua lotta di classe: «Quando ti iscrivi agli I.W.W. ti arruoli per una guerra. Una guerra dura». Una guerra che per gli I.W.W. non poteva risultare né in vittoria né in sconfitta, finché non si fosse verificata la vittoria finale dei lavoratori; né poteva esserci un vero accordo. Se le richieste dei proletari in lotta venivano accettate, il lavoro riprendeva, ma non si trattava né di un trionfo né di un accordo duraturo. Era solo il concludersi di un’altra fase della lotta di classe. I membri degli I.W.W. non si consideravano impegnati a rispettare l’accordo cui il padrone aveva aderito; di solito venivano preparate nuove richieste prima ancora della fine dello sciopero.

A quell’epoca uno degli obiettivi principali dei sindacati era il riconoscimento da parte dell’azienda, in quanto si riteneva che senza riconoscimento ufficiale i lavoratori non sarebbero stati sufficientemente protetti, perché i padroni avrebbero rinnegato con facilità qualsiasi concessione non sostenuta da un accordo scritto. Gli I.W.W. invece rifiutavano in blocco qualsiasi accordo tra padroni e lavoratori. «Niente contratti, niente accordi, niente patti», afferma Haywood nel 1910, «sono alleanze innaturali, che devono essere condannate come tradimento»” Analoga è la posizione di St.John nel 1912: «Finché il sistema del salario esiste ogni pace non è altro che una tregua armata. Ad ogni occasione favorevole la lotta per il controllo della produzione si rinnova». Inutile dire che altrettanto inesorabile era la condanna del sistema della delega.

«Un’organizzazione operaia, per rappresentare correttamente i suoi iscritti – dichiarava un opuscolo I.W.W. del 1910 – deve sempre tenere a mente due cose. [In primo luogo] guidare le lotte in modo da ottenere successi e proteggere gli interessi dei lavoratori del presente nei loro sforzi per ottenere orari di lavoro più brevi, salari più alti e migliori condizioni di vita e di lavoro. [Secondariamente, deve proporre] una soluzione definitiva al problema della condizione operaia – l’emancipazione da scioperi, ingiunzioni, bull-pens, e dal crumiraggio come scontro tra fratelli». Siffatta organizzazione, era chiaramente affermato, era l’I.W.W.

Per confutare le tendenze più anarchiche era citato anche Karl Marx, quando sostiene che la lotta per le rivendicazioni immediate è un passo necessario nella direzione della nuova società. Ogni sciopero per l’orario e il salario addestra gli operai alla lotta di classe, e li prepara alla battaglia finale per l’abolizione del sistema del salario. Agli iscritti che invocavano argomenti già battuti dalla storia e dalla teoria veniva opposto l’opuscolo “Salario, prezzo e profitto” di Marx. A chi lamentava l’inutilità delle lotte per salari più alti si rispondeva: «se l’aumento del salario fosse come dite irrilevante per gli operai e per i padroni, come è che i padroni sono così restii a concederne?».

 

Un primo bilancio

L’organizzazione degli Industrial Workers of the World, pur se in principio strutturalmente più adatta a coinvolgere i lavoratori e a guidarne le lotte, non riuscì mai a crescere a sufficienza al punto di raccogliere grandi masse di proletari, come era stata la sua vocazione iniziale. Le cause di questo fallimento sono numerose, sia legate alla situazione oggettiva, sia, come abbiamo potuto vedere, dipendenti da difetti propri di impostazione.

Difficoltà oggettive risiedevano nelle caratteristiche dei proletari cui si rivolgevano i wobblies: immigrati, non specializzati, minoranze varie, che cambiavano spesso lavoro e residenza, determinando un eccessivo avvicendarsi dei militanti. Ma altre difficoltà derivavano da gravi errori di impostazione.
     1. Mescolavano le necessità dell’azione con la propaganda di confusi messaggi politici, rifiuto del patriottismo, della religione, ecc., che portavano solo ad escludere parte dei potenziali aderenti;
     2. Troppi nemici: i padroni e lo Stato, che scaricavano su di loro una sistematica repressione; l’A.F. of L., che vedeva negli I.W.W. un mortale nemico; da un certo momento in poi gli stessi socialisti, considerati spesso complici del padronato;
     3. Organizzazione poco solida e poco centralizzata, che raccoglieva fondi insufficienti e che riteneva di dover dare accesso ai posti di dirigenza a personaggi non sperimentati, rendendosi così poco affidabile al giudizio dei proletari;
     4. Rinuncia a priori a costituire fondi di sciopero, assistenza ai disoccupati, ecc.;
     5. Rifiuto ad intervenire all’interno dei sindacati affiliati all’A.F. of L. i quali, seppure aristocratici, erano talvolta penetrabili, soprattutto in certi momenti, o per costringerli a lotte più combattive o per svuotarli degli iscritti;
     6. Rifiuto per principio alla firma di contratti, di difficile comprensione per la massa operaia, specie quando ad essa favorevoli; il padronato ovviamente approfittò a suo vantaggio di questo atteggiamento.

Ma alla base di tutto stava un indefinito oscillare tra la vocazione politica e quella sindacale. Ad un ambiente sociale che non aveva prodotto un vero partito della classe operaia gli I.W.W. avevano creduto di poter sopperire dandosi un ibrido carattere di sindacato-partito, venendo ad inficiare le funzioni dell’uno e dell’altro, ben lontani da poter accedere alla reale complessa dialettica partito-classe scoperta e descritta nel rovesciamento della prassi marxista. Il rifiuto della forma partito e del suo potere statale dopo la conquista del potere, proprio della tradizione anarchica, oramai morente in Europa, veniva a togliere ogni possibile valenza rivoluzionaria anche a quella pur generosa e decisa formazione operaia nata in opposizione al sindacalismo collaborazionista.

Non poteva bastare presentare vaghe prospettive politiche ad un’organizzazione difensiva che avrebbe dovuto inquadrare la maggioranza della classe, che nei decenni successivi vide invece ridursi gravemente il suo potenziale di lotta e di affasciamento del proletariato nordamericano, sotto un tremendo attacco della borghesia che sfocerà in una guerra oltremare e in una gravissima crisi economica.

Il prossimo capitolo affronterà gli atteggiamenti degli I.W.W. in questo cruciale periodo nella storia mondiale del proletariato.

(Continua al prossimo numero)


 
 
 
 
 
 
 
 


Il Marxismo e la Questione Militare
Capitolo esposto alle riunione di gennaio e maggio 2012 [RG112-113]
 

Parte terza - Il capitalismo
F - Il Risorgimento italiano

(Continua dal numero scorso)
 

LA SECONDA GUERRA DI INDIPENDENZA

1. Il contesto generale

In Europa il periodo che va dal 1850 al 1870 segna in campo economico l’apice del capitalismo, nella sua prima rivoluzione industriale, in quello politico l’affermazione dello Stato liberale, con l’unica eccezione della Russia zarista, in quello culturale del positivismo, condizioni favorevoli per un veloce sviluppo delle forze produttive sociali.

In campo militare nel ventennio si hanno solo limitate guerre tra Stati, a differenza di quelle degli anni precedenti, ancora per la definizione territoriale di alcuni di essi. Tra queste: 1) la guerra di Crimea (1854-1856), che abbiamo già trattato, tra il decadente Impero Ottomano, la Francia, l’Inghilterra e il Regno di Sardegna contro la Russia, perdente, che cercava di estendere il proprio dominio nelle aree ottomane, da cui sorgerà il Principato autonomo della Romania; 2) la Seconda guerra di indipendenza italiana (1859) tra Francia e Regno di Sardegna contro l’Austria, per sottrarre la Pianura Padana all’Impero asburgico; 3) la guerra russo-austriaca contro la Danimarca (1864) per il controllo di piccoli Stati nell’area; 4) la Terza guerra di indipendenza italiana (1866) con l’alleanza del Regno di Sardegna con la Prussia contro l’Austria per la conquista del Veneto e il Friuli Venezia Giulia; infine, 5) la Guerra franco-prussiana (1870) e la Comune di Parigi che, per la nostra scuola, conclude il periodo in cui il proletariato è al fianco della borghesia in funzione antifeudale ed inizia lo scontro diretto fra le due classi per il controllo politico della società. Napoleone III, rappresentante di una borghesia reazionaria e ancora legata alle vecchie classi aristocratiche, è sconfitto e perde il potere.

Tra le cause di questa situazione è la consapevolezza della borghesia che i suoi nuovi eserciti sono costituiti con leve generali obbligatorie e che sta addestrando all’uso delle armi il proletariato, il quale, dalla pubblicazione del “Manifesto” nel 1848, dispone di sue organizzazioni politiche e di una sua chiara visione della storia. In questo contesto, alla borghesia europea non servono più “demoni delle battaglie”, come Napoleone, ma solo macellai in divisa da generale, che trova ovunque in abbondanza per massacrare il giovane proletariato.

In Italia fece forte impressione il tentativo di Carlo Pisacane. Di nobile famiglia decaduta, ebbe formazione militare ed iniziò la carriera nell’esercito borbonico, che abbandonò presto per la Legione Straniera. Durante il servizio in Algeria aveva completato ed elaborato lo studio delle tecniche di guerriglia contro i moderni eserciti post-napoleonici. Allo scoppio dei moti del 1848 lasciò l’Africa per partecipare alla difesa della Repubblica Romana; caduta questa si trasferì esule a Londra. Sebbene mai vi incontrasse Marx, da affiliato ai gruppi carbonari mazziniani divenne un forte sostenitore di un socialismo radicale non interclassista.

Così scrisse nella sua ultima lettera-testamento: «Le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell’industria, la facilità del commercio, le macchine, ecc., per una legge economica e fatale, accrescono il prodotto, ma l’accumulano sempre in ristrettissime mani e immiseriscono la moltitudine; perciò questo vantato progresso non è che un regresso: e accrescendo i mali della plebe la sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale cangiando d’un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è volto a profitto di pochi. Io non farei il menomo sacrificio per cambiare un ministro, per ottenere una costituzione, nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno sardo; per me dominio di casa Savoia o dominio di casa d’Austria è precisamente lo stesso (...) Il regime costituzionale del Piemonte è più nocivo all’Italia di quello che lo sia la tirannia di Ferdinando II».

Nel 1857 Pisacane, sostenuto da un finanziamento dal banchiere livornese Adriano Lemmi, era sbarcato coi suoi presso Sapri in un tentativo di sollevare il Sud, che considerava una polveriera rivoluzionaria, innescata dalle rivolte contadine.

Marx aveva sottoposto a dura critica le illusioni di stampo idealista di Mazzini secondo cui sarebbe bastato l’appello di una minoranza eroica per mettere in moto le energie necessarie ad innescare una rivoluzione indipendentemente dalla situazione oggettiva generale e dal rapporto tra la minoranza rivoluzionaria e la massa della popolazione. Il tentativo di Pisacane, come altri prima, tra cui quello dei fratelli Bandiera, si possono ascrivere a questa impostazione, che nei fatti ha disperso e distrutto forze rivoluzionarie.

Marx così chiaramente aveva scritto a Weydemeyer, l’11 settembre 1851: «Ritengo la politica di Mazzini del tutto falsa. Lavora nell’interesse dell’Austria quando stimola l’Italia all’attuale insurrezione. Invece trascura quella parte di Italia che da mille anni è oppressa, i contadini, e prepara con questo nuove risorse per la controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce solo le città, con la loro nobiltà liberale e con i loro borghesi illuminati. Le necessità materiali degli abitanti della campagna italiana – altrettanto stremati e sistematicamente snervati e istupiditi degli irlandesi – giacciono naturalmente troppo in basso per il cielo di frasi dei suoi manifesti cosmopolitici-neocattolici-ideologici. Ma certo ci vuole del coraggio per dichiarare ai borghesi ed alla nobiltà che il primo passo per l’indipendenza dell’Italia è la piena emancipazione dei contadini e la trasformazione del loro sistema di mezzadria nella libera proprietà borghese. Sembra che Mazzini ritenga più rivoluzionario un prestito di 10 milioni di franchi che l’acquisto di 10 milioni di uomini. Temo molto che il governo austriaco, in caso di estrema necessità, modificherà perfino la condizione della proprietà in Italia nel senso già fatto nella Galizia».

Ma certamente la maldestra ed infausta impresa di Sapri concorse a spingere il governo sabaudo ad accelerare i tempi di un suo intervento militare, allo scopo di prevenire i sempre temuti tentativi repubblicani, tra cui anche quelli di ispirazione socialista.

Lo sviluppo industriale anche in Italia procedeva velocemente. Si acuiva la contraddizione nel ruolo della Lombardia la cui industria proiettava verso i mercati internazionali i suoi prodotti, come le preziose sete, che non potevano essere assorbiti dal solo mercato interno dell’Impero. I tentativi di imbrigliarla con una fitta rete di legami al mercato interno e la politica di pura spoliazione economica delle risorse lombarde motivavano la causa dell’indipendenza. Appoggiare la politica di Cavour e di Casa Savoia, appariva il “male minore”, l’unica soluzione possibile, al di là delle simpatie o meno loro concesse.

Come già illustrato, la rete ferroviaria nella Pianura Padana in pochi anni si era estesa nel Lombardo Veneto e nel Piemonte sotto l’impulso di forti investimenti delle banche parigine. Per collegare direttamente Torino con Venezia mancava un ponte ferroviario sul Ticino, che fu costruito subito dopo la guerra del 1859. Questa rete risultò utile al rapido spostamento di una parte delle truppe francesi da Genova, colà arrivate a bordo di navi a vapore, per Alessandria e Novara mentre le restanti scendevano dal valico del Moncenisio. Anche le truppe piemontesi giunsero a Brescia in treno, con notevole vantaggio sugli austriaci.

Inizialmente le locomotive erano importate dall’Inghilterra o dal Real Opificio Borbonico di Pietrarsa, presso Napoli, che vantava una consolidata esperienza nel settore. Per ridurre queste costose importazioni Cavour si attivò a impiantare un’industria piemontese per la produzione di locomotive e materiale ferroviario. L’operazione partì nel 1852 rilevando la Taylor & Prandi, una grande azienda meccanica fondata nel 1846 per la costruzione di piroscafi in ferro, che per difficoltà finanziarie aveva richiesto l’intervento dello Stato. Tramite il coinvolgimento di banchieri, finanziatori e dell’armatore Rubattino, promettendo loro future commesse statali, nacque la Ansaldo, dal nome di Giovanni Ansaldo, 24enne ingegnere meccanico e già docente presso l’ateneo torinese, posto da Cavour a dirigere la neonata azienda. La “Sampierdarena” fu la prima locomotiva a vapore uscita dall’Ansaldo nel 1854. Prima del 1860, l’Ansaldo contava la metà dei mille operai dell’Opificio di Pietrarsa (una relazione governativa del luglio 1861 segnalava un eccesso di personale per lo stabilimento di Pietrarsa), ma raddoppiarono già nel 1862 quando vi furono indirizzate le commesse già appannaggio dell’Opificio napoletano.

Il grande progetto di Cavour, che estendeva quello di Napoleone I, comprendeva una nuova base della marina sabauda a La Spezia e un moderno arsenale, iniziato concretamente nel 1862; in quegli anni anche la Ansaldo estese la produzione al naviglio militare e ai cannoni divenendo una delle più importanti aziende del settore in Italia.

 

2. Preparativi di guerra

Dopo gli scarsi risultati della guerra di Crimea (1854-56), a fronte delle pesanti perdite di uomini che costò, più per malattie e freddo che per i pochi e limitati combattimenti che avevano visto impegnato l’esercito sabaudo, Cavour intraprese una serie di azioni diplomatiche, per lo più segrete, rivolte ad ottenere un’alleanza militare con la Francia. Marx considerava Cavour «uno degli uomini più abili d’Italia», e al tempo stesso «il più arrendevole dei servi dell’imperatore francese» per le sue simpatie per il bonapartismo e per la sua “rivoluzione dall’alto” nel processo di unificazione nazionale, anche se ne sfruttò abilmente le debolezze.

Il Primo Ministro del Regno di Sardegna, sapendo che le sole forze italiane non erano in grado di unificare l’Italia, aveva da tempo volto verso la Francia e le ambizioni dell’imperatore Napoleone III, che puntavano ad un ridimensionamento politico dell’Impero austriaco. Napoleone che, nell’intento di cancellare l’umiliazione del Congresso di Vienna, si era deciso ormai da tempo ad una guerra contro l’Austria, sostenendo la causa italiana voleva far apparire il regime del Secondo Impero progressista e tutt’altro che antirivoluzionario, come lo dicevano.

L’attentato di Felice Orsini del 14 gennaio 1858, che lanciò tre bombe contro Napoleone III, rimasto illeso, per “annerire un cugino traditore” (come si diceva nel gergo carbonaro), ex carbonaro, colpevole di aver ridato Roma al papa nel 1848, parve azzerare tutti gli sforzi di Cavour. Sia durante il processo sia pochi giorni prima di essere giustiziato Orsini scrisse a Napoleone III esortandolo a «restituire all’Italia la sua indipendenza (...) che la tranquillità di Europa e di Vostra Maestà è un sogno finché L’Italia non sarà indipendente».

Sicuramente non fu quella lettera, come l’altisonante retorica risorgimentale vuol farci credere, a convincere l’imperatore dei francesi a riprendere i contatti con Cavour; ciò avvenne per cause materiali ben precise come Marx in una lettera a Lassalle del 4 febbraio 1859 così elenca:

«È qui opinione generale che la guerra in Italia sia inevitabile. Questo è certo. La cosa è seria per il signor Emanuele e lo è stata per il signor Bonaparte. Ciò che determina quest’ultimo è: 1) Paura del pugnale italiano. Dalla morte di Orsi­ni ha continuamente intrallazzato in segreto coi Carbonari(...) 2) Difficoltà finan­zia­rie quanto mai squallide; è in realtà impossibile mantenere più a lungo l’esercito francese in tempo di pace. La Lombardia è grassa. Inoltre con la guerra diverreb­be­ro possibili anche i prestiti di guerra. Ogni altro prestito è impossibile. 3) A parti­re dagli ultimi tre anni Bonaparte ha perso reputazione presso tutti i partiti in Francia e le sue transactions diplomatiche sono state del pari una serie di failures. Dunque deve accadere qualcosa per restaurarne il prestigio. Persino nelle campagne c’è un gran brontolio a causa dei prezzi rovinosamente bassi dei cereali e il signor Bonaparte ha tentato invano di rialzare artificiosamente il prezzo del grano coi suoi decreti sui magazzini dei cereali (...)

«La guerra con l’Austria in Italia è l’unica guerra nella quale l’Inghilterra, che non può comparire direttamente a favore del Papa e contro la cosiddetta libertà, resterà neutrale, almeno in principio. Ma la Russia terrebbe in scacco la Prussia, nel caso che quest’ultima, ciò che io non credo, già all’inizio della lotta avesse voglia di immischiarsene.

«D’altra parte è assolutamente certo che il signor Bonaparte ha una paura del diavolo di una guerra seria e reale. 1) Costui è perennemente pieno di scrupoli ed è del tutto irresoluto, come tutti i giocatori. Ha sempre strisciato fino al Rubicone, ma sono stati sempre quelli che gli stavano dietro a dovercelo gettare dentro. A Boulogne, a Strasburgo, nel dicembre 1851 è sempre stato costretto ad eseguire i loro piani. 2) Naturalmente la straordinaria freddezza con la quale in Francia è stato accolto il suo progetto non è incoraggiante. Le masse si mostrano indifferenti (...) Sia come sia, se ora il signor Bonaparte si tira indietro, è rovinato presso la massa dell’esercito francese, e ciò potrebbe finire col determinarlo ad andare avanti (...)

«Ma intanto la guerra sostiene il bonapartismo in Francia, respinge indietro il movimento interno in Inghilterra e in Francia, resuscita le più grette passioni nazionali in Germania e quindi, a mio parere, opererà in un primo tempo, da ogni parte, in senso controrivoluzionario. Sia come sia, non aspettarti niente dall’emigrazione di qua. Ad eccezione di Mazzini, che almeno è un fanatico, essa è formata di puri cavalieri d’industria, tutta l’ambizione dei quali consiste nel cercare di spremere denaro dagli inglesi».

Favorire l’indipendenza dell’Italia dagli eserciti stranieri era però ben diverso dal promuoverne l’unità politica, alla quale Napoleone III non teneva molto, temendo di perdere l’influenza sulla penisola.

Dopo una serie di incontri “casuali” di personaggi e amici del contorno delle due corti, comprendenti anche accordi di un matrimonio di circostanza fra la 15enne figlia di Vittorio e uno scapestrato cugino di Napoleone, Cavour venne a sapere che l’imperatore lo avrebbe potuto brevemente incontrare nella stazione termale di Plombières, nei Vosgi. L’11 luglio 1858 Cavour lasciò Torino facendo annunciare di essere diretto in Svizzera; affidò l’incarico ad interim di Primo Ministro al generale La Marmora perché solo lui e Vittorio Emanuele erano al corrente del vero scopo e della destinazione del viaggio.

Vi giunse la sera del 20 luglio. L’incontro fra Cavour e Napoleone III si svolse l’indomani. Ci fu un primo colloquio fra le 11 e le 15 e un secondo dalle 16 fino quasi alle 20, durante una solitaria passeggiata in carrozza nei dintorni di Plombières. L’unica fonte storica esistente è la lettera scritta da Cavour il 24 luglio a Vittorio Emanuele durante la sosta che fece a Baden-Baden e che apparve per la prima volta al pubblico ne “La Perseveranza” di Milano nel 1883. Gli accordi, tutti verbali e niente di scritto, tranne quanto riferisce il nostro Camillo, iniziano con una precisa clausola che conferma il carattere controrivoluzionario di Napoleone: il francese era «risoluto a sostenere la Sardegna con tutte le sue forze in una guerra contro l’Austria a patto che la guerra avvenisse per una causa non rivoluzionaria e potesse trovare giustificazione dinanzi alla diplomazia e più ancora all’opinione pubblica di Francia e d’Europa».

Occorreva trovare un casus belli plausibile ed indurre l’Austria a dichiarare guer­ra al Regno di Sardegna. I trattati commerciali violati dall’Austria nei confronti del Piemonte risultarono argomento troppo debole; anche l’occupazione austriaca della Romagna pontificia fu scartata per il motivo che Napoleone III, mantenendo delle truppe a Roma, non poteva certo chiedere il ritiro di quelle austriache da Bologna. Fu così che l’attenzione dei due statisti si concentrò sul Ducato di Modena e Reggio. Il sovrano di questa piccola monarchia, Francesco V di Modena, discendente di Maria Teresa d’Austria, si ostinava a non riconoscere Luigi Napoleone come imperatore di Francia; si intendeva quindi provocare i modenesi a chiedere protezione a Vittorio Emanuele e l’annessione al Regno di Sardegna. Il “Re Galantuomo” non avrebbe accettato ma, in difesa del popolo oppresso, avrebbe rivolto a Francesco V una nota minacciosa. Questo, contando sull’aiuto austriaco, avrebbe risposto in modo provocatorio procurando il casus belli per il Savoia, che avrebbe occupato Massa, in territorio modenese, facendo scoppiare la guerra.

L’obiettivo di Napoleone III era cacciare completamente gli austriaci dalla penisola italiana. Col Cavour disegnò le basi del nuovo assetto politico dell’Italia, suscettibili di modifiche secondo il corso della guerra: 1) Il Regno di Sardegna, la Pianura padana fino al fiume Isonzo e la Romagna pontificia avrebbero costituito il Regno dell’Alta Italia sotto la guida di Vittorio Emanuele. 2) Il resto dello Stato Pontificio, eccetto Roma e i suoi dintorni, con il Granducato di Toscana avrebbe formato il Regno dell’Italia Centrale. Nel caso di un ritiro in Austria di Leopoldo II di Toscana lo Stato sarebbe stato guidato, almeno temporaneamente, dalla Duchessa di Parma Luisa Maria di Borbone, personaggio molto gradito a Napoleone III che aveva bisogno a scopi di politica interna di dimostrarsi non avverso all’antica dinastia regnante francese. 3) Roma, assieme ai territori immediatamente circostanti, sarebbe rimasta al papa. 4) Il Regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto sotto la guida del sovrano dell’epoca, Ferdinando II. Se costui si fosse ritirato, Napoleone III avrebbe visto con piacere salire sul trono di Napoli Luciano Murat, figlio di Gioacchino. Questi quattro Stati italiani avrebbero formato una confederazione, sul modello della Confederazione germanica, della quale si sarebbe data la presidenza onoraria al Papa.

Così prosegue Cavour nella lettera a re Vittorio: «L’Imperatore mi domandò che cosa otterrebbe la Francia e se V.M. cederebbe la Savoia e la Contea di Nizza. Io risposi che V.M., poiché professava il principio della nazionalità, comprendeva che la Savoia dovesse, per tali fatti, essere unita alla Francia (...) per quanto gli dolesse a rinunciare ad una terra che era stata la culla della sua famiglia (...) Quanto a Nizza la questione era differente, giacché i nizzardi avendo (...) più del Piemonte che della Francia, la loro annessione alla Francia sarebbe stata contraria a quel principio di nazionalità pel cui trionfo si stava per impugnare le armi».

Passarono quindi allo scenario internazionale della guerra che, secondo Napoleone III, si poteva riassumere in: neutralità della Gran Bretagna, con l’aiuto della diplomazia piemontese, astensione della Prussia, avversaria dell’Austria, e assenso della Russia. Quanto alle forze da schierare per la guerra, La Marmora aveva un progetto che prevedeva 160.000 uomini (metà francesi e metà piemontesi) e una campagna militare nella valle del Po. Napoleone III parlò invece di 300.000 soldati, per due terzi francesi, e di una campagna che giungesse fino a Vienna.

Nonostante la retorica risorgimentale racconti come l’incontro di Plombières si concludesse con una stretta di mano e la frase di Napoleone III “abbiate fiducia in me, come io ho fiducia in voi”, i due galantuomini avevano opposte visioni per il futuro italiano: Cavour riteneva che, controllando la parte più sviluppata d’Italia, re Vittorio Emanuele avrebbe di fatto controllato l’intera penisola, mentre Napoleone III era convinto che avendone sotto il suo dominio i due terzi, avrebbe di fatto controllato anche il Piemonte.

Il trattato formale d’alleanza fu firmato il 26 gennaio 1859 a Parigi da Napoleone III e a Torino da Vittorio Emanuele II dopo alcuni giorni, fra il 28 e il 29 gennaio. L’accordo non comprendeva tutti i punti discussi a Plombières. In particolare lasciava cadere le ipotesi riguardo l’assetto dell’Italia centrale e meridionale e si limitava a stabilire l’intervento militare della Francia a fianco del Piemonte in caso di aggressione dell’Austria. A guerra conclusa prevedeva la formazione di un Regno dell’Alta Italia fino all’Adriatico sotto lo scettro sabaudo e la cessione alla Francia sia della Savoia sia della provincia di Nizza. Infine, per consacrare l’alleanza tra i due sovrani, il 30 gennaio 1859 furono celebrate a Torino le nozze tra Maria Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II, e Napoleone Giuseppe Carlo Bonaparte. La paura di una confederazione di Stati sotto la presidenza, anche solo onoraria, del papato spinse molti altri indecisi a sostenere la causa della monarchia sabauda, sempre come male minore.

 

3. Le armi

Dal punto di vista dell’uso delle nuove tecnologie l’esercito francese aveva un indubbio vantaggio sugli altri grazie alla modernissima artiglieria, che ora disponeva di cannoni d’acciaio dotati di una più precisa alesatura e rigatura della canna. Questo fu anche dovuto all’utilizzo del processo Bessemer di conversione della ghi­sa, introdotto in Francia nel 1856 fin dai primi giorni dalla registrazione, ed acquisto, del brevetto (agosto 1856). Precedentemente si otteneva l’acciaio (una lega di ferro con meno dell’uno per cento di carbonio) col sistema del puddellaggio, la ghisa doveva essere fusa insieme al costoso ferro dolce, praticamente privo di carbonio, prodotto principalmente in Svezia: lo sviluppo industriale di tutti i paesi dipendeva quindi dalle acciaierie svedesi. Il nuovo sistema permetteva di produrre acciaio in un’unica fase di fusione, quindi in modo più rapido e molto più economico. Era inoltre un acciaio di migliore qualità, il tipo di acciaio richiesto da una industria bellica di grandi produzioni in serie di materiale rotabile e di armamenti, e in grado di resistere ai nuovi proiettili esplosivi di fucili e cannoni, che avevano man mano sostituito le precedenti palle di piombo o in ghisa piene.

Siamo nella fase finale delle armi ad avancarica, dalla guerra franco prussiana del 1870 sostituite completamente da quelle a retrocarica. Per la produzione di armi si impongono le acciaierie di Essen della Krupp dove dal 1865 il sistema Martin-Siemens permette di produrre acciai di qualità ancora migliore, dai quali si possono ottenere gli acciai speciali, cioè dotati di caratteristiche particolari.

Erano già del 1843-46 gli studi di Giovanni Cavalli per la realizzazione del primo cannone a retrocarica, con canna rigata e affusto leggero i cui primi esemplari furono realizzati sotto la sua direzione in Svezia, presso le officine Wahrendorff ad Åker, al tempo una fra le migliori d’Europa. Quel cannone sparava proiettili a forma ogivale con alette di controllo della traiettoria e con una cavità per contenere una carica esplodente. La produzione di questo tipo di arma, che ebbe un enorme successo, proseguì poi in Italia presso il Regio Arsenale. L’industria francese possedeva fin dal 1837 una maggiore esperienza nella produzione di granate esplosive realmente affidabili in battaglia, elaborate dal generale francese Paixhans.

Grande diffusione ebbero nuovi tipi di pallottole, completamente metalliche con carica esplodente interna: avevano indubbi vantaggi nella velocità di carica e nella precisione ed erano in grado di perforare corazze di un certo spessore. Ma, essendo i fucili ancora ad avancarica, per il rischio durante il caricamento dello scoppio delle pallottole con carica esplosiva, si continuarono ad usare quelle solo inerziali, anche più economiche. Sempre un ufficiale francese, il Miniè, inventò nel 1847 la pallottola e il relativo fucile che portano il suo nome, ben collaudati durante la guerra di Crimea e che ebbero grande sviluppo tanto che, congedatosi poi dall’esercito francese, si trasferì in America dove lavorò per la fabbrica d’armi Remington. Durante la guerra di secessione americana, tra il 1861 e il 1865 circa il 90% delle perdite sul campo di battaglia fu causato da pallottole di questo tipo.

 

4. Le forze in campo

I tre eserciti schierati erano inizialmente così composti per un totale di 320.000 uomini: 1) Armata Sarda: ufficiali 2.444, truppa 59.417, cavalli e muli 10.714, artiglieria 120 pezzi. Vi erano inoltre i Cacciatori delle Alpi, comandati da Garibaldi, che al 21 maggio avevano una forza di 129 ufficiali e 3.347 gregari e i Cacciatori degli Appennini, che alla stessa data avevano in totale 1.596 uomini. 2) Armata Francese: 107.656 tra ufficiali e truppa, cavalli 9.008, artiglieria 324 pezzi. 3) Armata Imperiale Austriaca: 118.515 tra ufficiali e truppa, cavalli 6.768, artiglieria 884 pezzi, più dei Presidi: 30.959 tra ufficiali e truppa, cavalli 247, artiglieria 16 pezzi.

Dopo la disfatta del 1849, l’esercito sardo era stato sottoposto ad una generale ristrutturazione, affidata al generale Alfonso La Marmora, nominato ministro della guerra. La sua opera, nonostante i forti vincoli imposti dal trattato di pace, aveva portato buoni frutti con l’ammodernamento degli armamenti, l’istruzione tecnica degli ufficiali e la riorganizzazione dei reparti sul modello francese. Presentava due punti deboli: la numerosa presenza di volontari arruolatisi per l’occasione, ben motivati ma digiuni del mestiere di soldato, oltre che male armati ed equipaggiati. Il secondo e più importante difetto consisteva nella scarsa collaborazione dimostrata fra i 39 alti ufficiali che componevano l’affollata casa militare sabauda, la cui competenza era spesso offuscata da individualismo. Quanto al re, Vittorio Emanuele non possedeva particolari doti di stratega e come tipo di combattimento “preferiva” il tradizionale assalto alla baionetta, che si risolveva spesso in sproporzionate perdite di uomini rispetto agli obiettivi conseguiti, come fu nella battaglia di San Martino.

L’armata francese, guidata da Napoleone III, seguito dal corpo scelto della Guardia Imperiale, era uno straordinario strumento di guerra composto principalmente da veterani di molte battaglie; gli ufficiali erano selezionati secondo le conoscenze e le capacità personali, il che aveva portato ad una diffusa competenza tecnica e ad una elevata capacità tattica. Era dotato di armamenti moderni ed efficienti, come il fucile Miniè modello ‘59 ed il cannone La Hitte, entrambi a canna rigata.

Guidato dall’imperatore Francesco Giuseppe l’esercito austriaco era suddiviso in due armate, collegate e rifornite dalle fortezze del Quadrilatero. La I Armata, faceva riferimento alla fortezza di Mantova ed era schierata in pianura, mentre la II Armata, facente capo alla fortezza di Peschiera, occupava le colline moreniche immediatamente a nord. Dotato di armamenti moderni ed efficienti, oltre che inquadrato secondo una ferrea disciplina, l’esercito austriaco aveva la sua debolezza nella antiquata struttura. Seguendo la tradizione medievale, infatti, pur essendo l’intero esercito al comando dell’imperatore, molti dei suoi reparti erano piccole armate di proprietà dei rispettivi comandanti. Inoltre era diretto da uno Stato Maggiore composto in buona parte da nobili d’alto lignaggio ma spesso di scarsa competenza tattica, ora uniti ora divisi tra loro per ragioni politiche, economiche o personali.

Vienna decideva, in base alle necessità del momento, il numero di uomini da richiamare, in genere attenendosi ai giovani fra i 20 ed i 26 anni. La ferma era fissata in tempo di pace in 8 anni, dei quali normalmente 3 effettivi e 5 in congedo ma richiamabili. Per altri 2 anni il giovane restava nella riserva. Molti erano i motivi di esenzione, anche dietro pagamento: parte della somma veniva data al subentrante. La massa dei soldati era rappresentata dai cittadini più poveri e più ignoranti; nel Lombardo-Veneto la percentuale degli analfabeti e semianalfabeti raggiungeva il 50%. Ben accetti gli uomini tratti dalle prigioni, che trovavano in tal modo una possibilità di reintegro nella società. Il soldato riceveva un pasto caldo e uno freddo al giorno ed era ben trattato, lui e la sua famiglia. La disciplina era assai dura e la pena di morte mediante fucilazione o impiccagione assai diffusa.

Si ripropose nel 1859 il problema del carattere multietnico dell’esercito austriaco, già sorto nella guerra del 1848 dove il 39% delle fanterie di Radetzky (il 33% dell’intero esercito) era composto di italiani. Il feldmaresciallo in un rapporto a Vienna del dicembre 1848, scriveva: «Io non diffido minimamente di queste truppe; faranno il loro dovere; ma non dobbiamo aspettarci da loro più di quanto conviene, specie se vengono fatte combattere contro i loro compatrioti. Non c’è dubbio che tali truppe saranno soggette a influenze di ogni sorta, e incitate alla diserzione; se le sorti della guerra si volgono contro di noi, non rispondo della loro fedeltà. E non ci sarebbe da stupirsi: sono cose vecchie come la storia».

Con la caduta di Milano e di Venezia il feldmaresciallo poté constatare la fondatezza della sua profezia: all’inizio di aprile quasi 11.000 dei suoi soldati italiani avevano già disertato e i restanti 10.000 rappresentavano un problema sul come e dove impiegarli. In prima linea avrebbero potuto passare al nemico, rivolgere le armi contro gli ufficiali o le truppe lealiste e creare un vuoto nel fronte di battaglia. Tenerli nelle fortezze sarebbe stato anche più rischioso, perché avrebbero potuto consegnarle al nemico. L’unica era frazionarli per rendere possibili solo defezioni parziali e graduali, nelle circostanze peggiori disarmarli e sciogliere i reparti. Di fatto diserzioni vi furono, ma parecchi reggimenti, specie quelli che erano da tempo stanziati in Italia, rimasero fedeli alla bandiera.

 

5. I Cacciatori delle Alpi

Alcune clausole del Trattato di pace di Milano con l’Austria dopo la prima guerra di indipendenza e della successiva Convenzione militare del dicembre 1858 tra Francia e Regno di Sardegna riguardavano la composizione dell’esercito sardo; tra queste il divieto di ampliarlo con corpi costituiti da esuli o sol­da­ti disertori di altri Stati italiani, chiamati Corpi Franchi. Questo costituì un problema perché era molto consistente l’afflusso di fuoriusciti dai Ducati, dal Lombardo-Veneto, dal Trentino, in gran parte desiderosi di essere arruolati nell’esercito del Re di Sardegna, ormai considerato l’unico in grado di poter unificare l’Italia; si giunse, nel mese di giugno, dopo lo scoppio della guerra, a quasi 40.000 unità.

La Guardia Nazionale, corpo destinato al controllo e alla difesa del territorio in tempo di pace e autorizzato all’uso solo di armi leggere, dipendeva dal Ministero dell’Interno anziché dal Ministero della Guerra, e quindi poteva dirsi escluso dai vincoli dei trattati militari. Cavour, nel febbraio 1859, escogitò quindi l’espediente di far inserire nelle modifiche alla legge sulla già esistente Guardia Nazionale un articolo con cui il Governo era autorizzato ad integrarlo con corpi speciali di volontari. In seguito, con Regio Decreto del 17 marzo, fu formato il corpo dei Cacciatori della Stura, unità della Guardia Nazionale.

Nelle sue memorie Garibaldi descrive la tipica marcia degli esuli dal Lombardo-Veneto: passava per la via di Como, lungo i sentieri del contrabbando, gui­da­ti dagli spalloni, e sconfinava nel compiacente Canton Ticino, retto da un go­verno liberale vicino al Cavour. Passando nella zona di Lugano e Magadino, da Locarno gli esuli venivano trasportati gratuitamente sui vaporetti fino ad Arona per poi proseguire in treno su territorio piemontese fino a Torino Porta Susa. Una volta a Torino gli espatriati erano sottoposti ad una visita di una commissione che arruolava nell’Esercito Regio i più idonei fra i 18-26 anni. Gli altri, e quelli di provata fede repubblicana, erano istradati nel costituendo corpo dei volontari garibaldini.

I depositi di questi gruppi, vere e proprie caserme stanziate intorno a Cuneo, furono al comando di esperti ufficiali garibaldini, l’addestramento alla guerra era condotto da ufficiali dell’esercito sardo e Garibaldi, chiamato da Cavour per questo incarico, ne assunse ufficialmente il comando il 17 marzo. Si trattava di una brigata leggera, di circa 1.000 uomini per reggimento, senza cannoni e senza cavalleria (tranne gli esploratori), male armata ed equipaggiata, ma con l’uniforme dell’esercito piemontese, animata da forte spirito combattivo e guidata da ufficiali esperti, tutti reduci delle guerre del 1848-1849. Nel corso del conflitto la brigata andò man mano espandendosi ricevendo anche pezzi di artiglieria. Con i nuovi rinforzi, ormai a pieni ranghi, la brigata raggiunse il numero di 3.500 uomini, metà dei quali però non furono mai utilizzati perché al momento dell’armistizio di Villafranca erano ancora in fase di addestramento.

L’utilizzo tattico di queste improvvisate unità, prive di esperienza militare ma affascinate dalla persona e dalle capacità di Garibaldi, ebbero nel piano strategico generale un iniziale ruolo di guerriglia. Quando quel tipo di unità sono piccole e numericamente sproporzionate rispetto l’avversario conducono puntate offensive là dove il nemico meno lo aspetta e cercano di produrre il maggior numero di danni e perdite con il minimo dispiego di forze, e dopo l’attacco spariscono in posti sicuri. Una regola della guerra di contro-guerriglia è di punire severamente le popolazioni civili che hanno fornito assistenza ai guerriglieri, e qui il feldmaresciallo Urban, mandato con rinforzi boemi contro Garibaldi, agì di conseguenza dove poté, tra cui il bombardamento punitivo di Varese.

Ma quando le unità sono consistenti, come in questo caso, e operano a fianco di un grande esercito regolare e in un piano generale di guerra, il loro compito è piuttosto attirare su di sé il massimo numero di nemici, costituendo, anche se piccolo, un secondo fronte a debita distanza da quello principale, capace di sostenere e impegnare le forze avversarie in significativi combattimenti. A questo scopo le unità garibaldine furono inviate come ala sinistra dell’intero esercito franco-sardo, su una direttrice pedemontana a nord di Milano, mentre il fronte principale si situava nella pianura. Controllando la strada del Passo dello Stelvio sostennero efficaci e vittoriose battaglie a Varese, San Fermo e Treponti e in Valtellina.

 

6. Preamboli diplomatici

Per Cavour si tratta ora di provocare l’Austria, all’oscuro degli accordi segreti di Plombières, affinché dichiari guerra al Piemonte, costringendo Napoleone III ad arrivare con il suo esercito. Si organizzano quindi grandi spostamenti di truppe ed esercitazioni militari sul confine della Lombardia, tra Alessandria, Valenza e Casale, e si amplia l’arruolamento dei Cacciatori delle Alpi, che ora affiancano l’esercito piemontese a Casale. Ovviamente partono vibrate lettere di protesta dall’Austria, che al momento non è interessata ad un conflitto; come nemmeno la Francia, la cui opinione pubblica non comprende e non approva una guerra per l’indipendenza italiana, tanto che un apposito prestito per la guerra è bloccato prima dell’emissione. Quello invece emesso nel Regno sabaudo ha grande successo, in breve sono sottoscritti ben 80 milioni rispetto ai 50 previsti.

Anche dall’Inghilterra e dalla Russia, questa preoccupata che la guerra da locale si estenda al resto d’Europa, arrivano consigli al Piemonte di accettare l’invito austriaco a disarmare unilateralmente in cambio di un nuovo congresso, proposto dalla Russia, che discuta il caso italiano. In più Mazzini, da Londra, su “Pensiero e Azione”, ostile ai progetti cavouriani-sabaudi, attacca duramente la guerra dei piemontesi uniti ai francesi, affermando che «l’Italia non ha bisogno di questi loschi intrighi (...) L’Italia è matura per essere nazione libera e una», ed invita l’Europa a lasciarla da sola.

Sembra che tutto il piano di Cavour, chiamato urgentemente a Parigi e fortemente pressato ad aderire alla proposta di disarmo, debba fallire all’improvviso; dopo giorni di frenetico lavorio diplomatico, Camillo e Vittorio sono costretti a subire e la mattina del 19 aprile questa fu la risposta spedita da Torino a Parigi: «Giacché la Francia si unisce all’Inghilterra per chiedere al Piemonte il disarmo preventivo, il governo del Re, pur prevedendo che questo provvedimento potrà avere conseguenze dolorose per la tranquillità dell’Italia, dichiara di essere disposto a sottostarvi».

Cavour ricorre ostinato ad un altro espediente. Poiché per partecipare al Congresso delle potenze proposto dai Russi bisogna aver prima disarmato propone al Re di smobilitare qualche vecchio reparto. Re Vittorio scrive sconsolato al suo Primo Ministro: «L’imperatore si è burlato di noi (...) Siamo a mal partito (...) Quel cane di imperatore non mi ha mai convinto (...) è una carogna. Se si disarma facciamo la topica completa (...) Facciamo come lei suggerisce, basta che se ne contentino (...) Ma temo che siamo in agonia (...) Coraggio, tutto non è ancora terminato e talvolta “arriva la fortuna” mentre uno se lo aspetta di meno».

Così fragili sono le alleanze militari: allora si fu costretti ad affidare alla buona sorte i destini di una guerra, per di più d’indipendenza nazionale!

L’atteso colpo dalla dea bendata giunse dalla indecisione e confusione in Casa austriaca, il contrario della borghese spregiudicata risolutezza di Cavour, non per niente rassegnato a bloccare i suoi piani. Infatti, la stessa sera del 19 aprile, ignorando che Cavour aveva aderito alla proposta franco-inglese, il governo austriaco compilava a Vienna un “ultimatum” da inviare a Torino per intimare al Piemonte di congedare i Corpi Franchi dei volontari e di rimettere l’esercito sul piede di pace. Gli inviati sarebbero dovuti giungere a Torino il 23 aprile, vigilia di Pasqua.

Quel giorno stesso Cavour riuniva la Camera in seduta straordinaria e presentava il seguente disegno di legge: «In caso di guerra con l’Impero d’Austria, il Re sarà investito di tutti i poteri legislativi ed esecutivi e potrà, sotto la responsabilità ministeriale, fare con semplici decreti reali tutti gli atti necessari alla difesa della patria e delle nostre istituzioni. Rimanendo intangibili le istituzioni costituzionali, il governo del Re, durante la guerra, avrà la facoltà di emanare disposizioni per limitare provvisoriamente la libertà della stampa e la libertà individuale».

Il disegno fu approvato con 110 voti favorevoli, 24 contrari e 2 astenuti. Nel pomeriggio gli inviati austriaci consegnano a Cavour un chiaro ultimatum, nella pomposa forma tradizionale della diplomazia, al quale si chiedeva risposta entro tre giorni: «In caso contrario l’Imperatore d’Austria ricorrerà alle armi».

Cavour, aggiornati gli inviati al 26 aprile, telegrafò a Parigi il testo dell’ultimatum chiedendo all’imperatore l’invio immediato di almeno 50.000 uomini. Il 25 il disegno di legge approvato due giorni prima dalla Camera fu portato davanti al Senato e subito approvato all’unanimità. Il 26, trascorsi i tre giorni, il governo piemontese respinse l’ultimatum consegnando agli inviati austriaci una lettera per il conte Buol, capo di gabinetto austriaco, nella quale, giustificando la condotta del Regno di Sardegna, lasciava all’Austria la responsabilità delle sue azioni.

«Le negoziazioni (il disarmo della Sardegna) mettono capo a una proposta dell’Inghilterra, alla quale hanno aderito la Francia, la Prussia e la Russia. La Sardegna, con spirito di conciliazione, l’ha accettata senza riserve, né secondi fini. Poiché V.E. non può ignorare né la proposta d’Inghilterra, né la risposta della Sardegna, così io nulla potrei aggiungere per far conoscere le intenzioni del Governo del Re, in quanto alle difficoltà che si opponevano alla riunione del Congresso. La condotta del­la Sardegna in questa circostanza è stata apprezzata dall’Europa. Quali che pos­sa­no essere le conseguenze da derivarne, il Re, mio augusto Signore, è con­vin­to che la responsabilità ne ricadrà su coloro che sono stati primi ad armare, che han­no rifiutato le proposte formulate da una grande Potenza e riconosciute come giuste e ra­gionevoli dalle altre; e che intanto vi sostituiscono una minacciosa intimazione».

Le incertezze e la paure di Francia e Austria che emergono da questi preliminari spiegano perché si giunse ad un improvviso e rapido armistizio fra i due Stati dopo solo alcune battaglie, senza raggiungere i risultati previsti.

 

7. La campagna militare

Secondo il perentorio ultimatum, il 27 aprile 1859 i soldati austriaci, comandati dal feldmaresciallo Gyulai, dovrebbero varcare il Ticino. Ma gli ordini da Vienna non sono per niente chiari: Gyulai aveva ricevuto l’ordine di «non procedere all’attacco, ma aspettare istruzioni telegrafiche da altissimo loco perfino nel caso in cui, trascorso il termine di tre giorni, fosse arrivata una risposta negativa». A Vienna si esita sempre, l’11 aprile l’Arciduca Alberto è ancora a Berlino, in missione, senza concluder nulla, e l’ordine di attacco non arriva.

Il 29 aprile, alle 15 pomeridiane, l’Esercito Imperiale, varcato il Ticino presso Pavia al ponte sul Gravellone, un canale laterale al Ticino che segna il confine tra i due Stati, invade il Piemonte. Il piano strategico ricalca fedelmente quello, vittorioso, usato da Radetzky contro Carlo Alberto a Novara nel 1849. Incontra poca resistenza, nonostante le risaie della Lomellina, l’area compresa tra il Ticino e il Sesia, siano state allagate, penetrando in profondità fino a giungere a 50 chilometri da Torino, mentre l’esercito sardo è accampato a sud tra Alessandria, Valenza e Casale. (Nella cartina la fascia grigia delimita la massima area di occupazione austriaca del Piemonte orientale nelle prime settimane del conflitto; i numeri indicano giorno e mese).

Il 2 maggio tutto l’esercito austriaco, che in parte ha varcato anche il Sesia, è ben schierato secondo il piano predisposto, pronto a puntare e conquistare velocemente Torino e fermare i francesi ai piedi delle Alpi, a Susa, prima che i due eserciti si possano congiungere, o almeno mantenere il teatro di guerra in Piemonte.

Però, dopo la rapida avanzata, Gyulai temporeggia, perde tre giorni preziosi, gra­ve errore strategico, frutto forse delle incertezze politiche di Vienna. Attaccando immediatamente i piemontesi, in evidente inferiorità numerica, ne avrebbe impedito il congiungimento con i francesi, che con molta lentezza stanno entrando in Italia. Evidentemente le strategie napoleoniche appartengono ormai al passato: battere i primi, più deboli anche se ben motivati, per affrontare poi i secondi, poco motivati ma più forti ed esperti.

Iniziale invasione del Piemonte

Le truppe piemontesi sono immediatamente spostate per contrastare l’avanzata nemica, che pare dirigersi direttamente su Torino, quando improvvisamente gli austriaci ripiegano. Forse temono un’avanzata e un forte attacco francese sulla sinistra, da sud, che li accerchierebbe tagliando loro i collegamenti con le retrovie del Quadrilatero. Infatti mentre il vecchio piano prevedeva l’arrivo dei francesi, a piedi, prevalentemente dai valichi alpini, ora un telegramma avvisa Gyulai che il grosso dei francesi sta arrivando via mare a Genova, anche se in modo scoordinato, per proseguire poi su ferrovia. A partire dal 9 maggio abbandonano Biella, trasferiscono il Quartier Generale da Vercelli a Mortara e lasciano a Vercelli solo una brigata di fanteria. Ripassano il Sesia per concentrarsi nuovamente in Lomellina.

I primi contingenti francesi erano arrivati via mare addirittura il 20 aprile, prima che gli austriaci muovessero, perché, scrive Engels ne “La guerra italiana” il 23 luglio: «Il 19 il conte Buol commise la puerile imprudenza di comunicare all’ambasciatore inglese che il giorno 23 dello stesso mese avrebbe dato ai piemontesi tre giorni di tempo, allo scadere dei quali avrebbe incominciato la guerra invadendo il territorio nemico (...) Il 20 aprile il governo inglese si affrettò a comunicare al signor Bonaparte questa informazione e subito dopo ebbe inizio il concentramento delle truppe francesi e fu ordinata la formazione dei quattro battaglioni di riservisti».

Napoleone III arriverà al campo base di Alessandria con le ultime truppe solo il 14 maggio per assumere il comando dell’esercito franco-piemontese, come dai precedenti accordi.

Nella cartina il percorso della Guardia Imperiale e del I, II e IV corpo dell’Armata francese nella prima fase della guerra. La divisione Uhrich sbarca a Livorno il 22 maggio e dirige a nord attraverso il ducato di Parma

È ridisegnato il dislocamento delle forze, integrando le piemontesi alle francesi, con il primo compito di respingere dal Piemonte gli austriaci, per proseguire su Mi­lano, affidando a ciascun comandante direttrici e obiettivi precisi. Alla piccola formazione di Garibaldi non fu dato alcun appoggio tecnico e doveva badare a sé.

Segue una serie di scontri limitati e piccole battaglie vittoriose, come a Montebello il 20 maggio (Engels: «È assurdo considerare questo insignificante scontro come una importante vittoria», in “La battaglia di Montebello”). Più sfruttata dalla retorica sabauda fu la vittoria di Palestro del 31 maggio, combattuta tra 14.000 austriaci e 21.000 piemontesi comandati direttamente dal Re Vittorio che, in uno dei suoi momenti di esibizionismo guerresco, partecipò ai duri combattimenti mentre la sua scorta era costretta a proteggerlo. I ripetuti assalti alla baionetta ordinati dalla “spada d’Italia” causano gran numero di perdite sui due fronti ma i confusi e contraddittori resoconti non li hanno mai quantificati con certezza.

Intanto Garibaldi con i Cacciatori delle Alpi il 22 passa il Ticino, libera Como e Varese, che perde e riprende in successivi scontri in forte inferiorità numerica con le forze del feldmaresciallo Urban, che aveva ricevuto notevoli rinforzi per bloccarlo. Strategicamente è un buon successo. Tutte le forze austriache il 5 giugno devono ripiegare su Milano per rinforzare l’armata imperiale dopo la sconfitta di Magenta del 4 giugno, e Garibaldi ha via libera a nord per il controllo dello Stelvio.

Dopo la sua vittoriosa avanzata, che aveva dato un grande vantaggio agli alleati, Garibaldi diviene l’eroe simbolo della guerra d’indipendenza, oscurando la figura del Re Vittorio. Dietro le decorazioni e la promozione di grado si cela dunque un atteggiamento ostile che Marx illustra a Engels in una lettera del 27 maggio: «Secondo la mia opinione, Garibaldi viene cacciato a bella posta in una situazione dove dovrà per forza finire male». Sul “New York Daily Tribune” del 15 giugno così scrive: «Può darsi che Garibaldi sia stato inviato in Lombardia da Luigi Napoleone e Vittorio Emanuele allo scopo di mandare alla distruzione lui e i suoi volontari – elementi troppo rivoluzionari per questa guerra dinastica – ipotesi confermata in modo sorprendente dal fatto che l’azione del generale è stata condotta senza il necessario appoggio; ma non si deve dimenticare che nel 1849 aveva preso la stessa strada e ne era uscito sano e salvo».


8. La battaglia di Magenta

Gyulai, che si aspettava un attacco nella Lomellina e ora si rende conto che l’Armata Franco-Sarda è invece concentrata sul suo fianco destro con la via libera per Milano, decide di ripassare il Ticino e rientrare in Lombardia, dirigendo le truppe su Magenta e Abbiategrasso, per contrastare l’ormai evidente attacco nemico.

Movimento eserciti prima e dopo Magenta

A Magenta si combatte il 4 giugno la prima grande battaglia campale tra l’esercito austriaco, lì presente con 58.000 uomini e 176 pezzi di artiglieria, e l’armata francese, più un solo reparto piemontese, con 59.100 uomini e 91 pezzi al comando di Napoleone III.

Al mattino le truppe francesi al comando del generale Mac Mahon sono divise in due colonne, che partono da Turbigo dirette a Magenta su due itinerari diversi: una per Boffalora, l’altra per Marcallo. Altre truppe francesi si attestano dopo Trecate sul ponte del Ticino, solo parzialmente danneggiato dall’esplosivo austriaco, in attesa dell’arrivo di Mac Mahon a Boffalora. Intanto le truppe austriache tardano ad arrivare dalla Lomellina; a difendere la linea del Naviglio restano solo i 20-25.000 uomini del generale Clam Gallas che dispone le sue truppe a triangolo fra Magenta, Boffalora e Marcallo.

Nel pomeriggio Mac Mahon ordina di investire Boffalora. Non appena odono i cannoni, le truppe francesi in attesa presso il ponte sul Ticino si muovono verso Magenta. A Boffalora gli austriaci riescono a far saltare il ponte sul Naviglio, e difendono strenuamente alcune cascine nei dintorni per guadagnare tempo in attesa dei rinforzi. La battaglia si fa concitata attorno a Pontenuovo, lungo la linea ferroviaria poco lontano dal ponte sul Naviglio che gli austriaci non erano riusciti a minare, con ripetuti attacchi e ritirate da parte dei francesi.

Mentre il terzo corpo d’armata francese, partito al mattino da Novara, ritarda a giungere sul campo di battaglia, la seconda colonna cerca inutilmente di congiungersi a Mac Mahon a Boffalora. Vengono allora cambiati i piani: le due colonne marceranno separatamente su Magenta, avendo il campanile della chiesa di San Martino come punto di riferimento.

Cominciano ad arrivare da Abbiategrasso il grosso delle truppe austriache, il cui ingresso in linea rende la situazione critica per i francesi, a tal punto che gli austriaci inviano a Vienna un telegramma che annuncia vittoria. In particolare a Pontenuovo la situazione per i francesi appare disperata, con cinquemila uomini che per tre quarti d’ora devono sostenere l’urto di cinquantamila austriaci.

Ma l’avanzata di Mac Mahon da Boffalora, ribalta la situazione e costringe gli austriaci a retrocedere da Pontenuovo per difendere Magenta. La battaglia si concentra quindi attorno alla stazione ferroviaria della cittadina con gli austriaci che abbandonano le posizioni e si ritirano nelle case difendendole una ad una. Il generale Espinasse cade nell’attacco alla stazione ferroviaria, ma la sua divisione e quella di Mac Mahon circondano con movimento a tenaglia gli austriaci asserragliati nel borgo, riuscendo a conquistare il controllo delle vie d’accesso. Alle sette della sera gli austriaci si persuadono di aver perso la battaglia e si ritirano non inseguiti. Questa vittoria apre le porte alla liberazione di Milano, e molti ora sperano ad una campagna rapida e vittoriosa.

La lunga battaglia di Magenta, di grande importanza strategica, è incerta fino alla fine e con grandi perdite. Si hanno oltre 2.000 morti, molti dei quali generali e alti ufficiali; sono così ripartite: austriaci 1.386 morti, 4.358 feriti e 4.500 tra prigionieri e dispersi; alleati 657 morti, 3.226 feriti e 655 prigionieri o dispersi. Interviene per la prima volta la neonata Croce Rossa per il soccorso dei feriti.

Dopo questa sconfitta da Vienna giunge a Gyulai, che fra poco sarà rimosso e sostituito dall’imperatore in persona, il seguente telegramma: «Dato lo stato attuale delle nostre cose, abbandonare Milano, ritirarsi verso l’Adda, il teatro di guerra meglio indicato è (...) sul Mincio».

Francesco Giuseppe intanto continua ad aspettare che la Prussia si decida ad intervenire («spero che forse la Germania e quella miserabile sconcia Prussia vengano, almeno all’ultimo momento, in nostro aiuto» (da una lettera alla madre Sofia, da Verona, 16 giugno).

Engels ne “La battaglia di Magenta” (18 giugno) elenca 5 errori strategici compiuti da Gyulai in quella giornata: non aver minimamente tentato di attaccare e tagliare in due la colonna francese in marcia; aver scelto un percorso arcuato piuttosto che diretto per puntare sull’obiettivo perdendo altro tempo; aver sparpagliato le truppe durante la ritirata in Lombardia; aver tenuto il suo corpo d’armata fuori dalla zona di combattimento; in ultimo aver malamente concentrato le sue truppe.

Ma ben più dura è la critica a Napoleone III ne: “La ritirata degli austriaci sul Mincio” (25 giugno): «I frutti di una vittoria si colgono nell’inseguimento del nemico. Quanto più energico è l’inseguimento, tanto più decisiva è la vittoria. Prigionieri, artiglieria, salmerie, bandiere si conquistano non tanto nel corso della battaglia quanto durante l’inseguimento dopo la battaglia. D’altra parte l’intensità della vittoria si misura dall’energia dell’inseguimento. Da questo punto di vista che cosa si può dire della grande victoire di Magenta? Il giorno seguente vediamo i “liberatori” francesi che “si riposano e si riorganizzano”. Neanche il minimo tentativo di inseguimento. Con la marcia su Magenta l’esercito alleato aveva concentrato effettivamente tutte le sue forze di combattimento. Gli austriaci, viceversa, avevano una parte delle loro truppe ad Abbiategrasso, una parte sulla via di Milano, un’altra a Binasco, una infine a Belgioioso; un insieme caotico di colonne, che si trascinavano avanti in gruppi sparpagliati, in modo così disordinato che sembravano invitassero il nemico a piombar loro addosso, a disperderle con un assalto in tutte le direzioni e poi con tutto comodo far prigionieri interi reggimenti e brigate tagliati fuori dalla ritirata. Napoleone, il vero Napoleone, avrebbe saputo in questo caso come impiegare le quindici o sedici brigate che, secondo il comunicato ufficiale francese, il giorno prima non avevano preso parte alla battaglia. Che cosa fece il Napoleone di Brummagen (...)? Pranzò sul campo di battaglia. La strada diretta per Milano era aperta davanti a lui. L’effetto teatrale era assicurato. Questo naturalmente gli bastava. Il 5, 6 e 7 giugno, tre interi giorni, vengono regalati agli austriaci, sì che essi possono uscire dalle loro posizioni pericolose. Marciano seguendo il corso del Po e si portarono, costeggiando la riva settentrionale, a Cremona, avanzando per tre strade parallele».

Infatti l’8 giugno l’imperatore Luigi e re Vittorio entrano in trionfo in Milano.

Intanto, lì vicino, a Melegnano, si ha un cruento scontro per il controllo di un piccolo ponte in pietra sul Lambro, utilizzato per il trasporto dei carriaggi delle retroguardie austriache. Il grosso dell’esercito austriaco percorre nella ritirata un lungo semicerchio per mettersi al riparo dietro la sponda del Chiese, l’emissario del lago d’Idro parallelo al Mincio a una distanza di circa 20 chilometri. Qui iniziavano le difese del Quadrilatero, le fortezze di Peschiera e Mantova sul Mincio e Verona e Legnago sull’Adige, territorio che gli austriaci occupano da tempo, conoscono molto bene e che è stato teatro delle loro grandi manovre annuali. Le avanguardie francesi raggiungono l’altra sponda del Chiese per linea retta, senza altri scontri, tra il 18 e il 20 giugno.

I numerosi affluenti della sinistra alpina del Po e della destra appenninica scorrono quasi paralleli descrivendo un arco verso la foce a una distanza tra loro compresa tra i 10 e i 25 chilometri, caratterizzati da portate idriche molto irregolari a seconda dei periodi, di disgelo primaverile, in estate di siccità o di improvvise piene durante i temporali. Per questi motivi costituiscono un sistema che ostacola un’avanzata di un esercito di fronte alle difese organizzate di forze residenziali.

L’importanza della linea delle fortificazioni del Mincio è espressa in molti scritti militari di Engels: «Questa linea è divenuta importante soltanto da quando l’Austria conduce in Italia guerre per contro proprio e da quando la linea di comunicazione Bolzano-Innsbruck-Monaco è stata messa in secondo piano dall’altra Treviso-Klagenfurt-Vienna. Il possesso della linea del Mincio, così com’è attualmente conformata, è certamente una questione vitale per Vienna. L’Austria come Stato autonomo, che vuole agire come grande potenza europea anche indipendentemente dalla Germania, deve o dominare il Mincio e il corso inferiore del Po, o rinunciare alla difesa del Tirolo. Il Tirolo sarebbe altrimenti circondato da due parti e collegato con il resto della monarchia soltanto attraverso il passo di Dobbiaco» (“Po e Reno”, febbraio-marzo 1859).

La situazione italiana ha ovviamente implicazioni europee che spiegano in parte le esitazioni della Prussia e della Germania. Marx scrive in “Sprea e Mincio” (25 giugno) che il non celato piano di un protettorato francese su tutta la penisola perseguito da Napoleone III rafforzerebbe l’egemonia russo-francese sul continente. Per contrastare questo: «La Prussia si vede costretta ad andare con l’Austria, niente affatto con l’intenzione di schierarsi in favore della politica degli Asburgo, ma per lottare per la propria esistenza».

Le diplomazie si attivano per contenere la situazione e Marx conclude: «Se questa mediazione, che è ben difficile sia stata intrapresa con seria convinzione, fallisce, allora le battaglie tra la tirannia napoleonica e il dispositivo asburgico si combatteranno sul Mincio, ma le battaglie della libertà si combatteranno sull’Oder e la Vistola. Masse enormi di truppe sono già state concentrate a Kalish, a due miglia della frontiera prussiana. Si annuncia l’arrivo a Hannover di un corpo d’armata prussiano in marcia verso il Reno; un altro si muove verso sud, e i comandanti dei diversi contingenti federali sono stati chiamati a Berlino per una conferenza militare. Tutte queste misure riguardano soltanto la mobilitazione dell’avanguardia. L’esercito che deve condurre la lotta contro la Francia e contro la Russia non esiste ancora e non può essere reclutato che tra il popolo, e non tra il popolo che declama le poesie (...) dil Luigi (...) ma tra il popolo che insorge con tutta l’irresistibile energia dell’entusiasmo rivoluzionario».

 

9. Solferino e San Martino

La sera del 23, dopo gli ultimi avvistamenti al tramonto, il comando francese si convinse di aver agganciato le più attardate retroguardie austriache mentre dall’altra parte Francesco Giuseppe, ora a capo dell’esercito imperiale, di essere di fronte alle prime avanguardie francesi. Ma così non era perché i due eserciti erano attestati in massa ancora a circa 25 chilometri di distanza, gli uni a occidente del Chiese, gli altri sul Mincio, separati dall’anfiteatro delle colline moreniche a sud del Garda.

Nella stessa giornata giunse a Napoleone III un telegramma della moglie Eugenia che lo avvisava con forte preoccupazione che se avesse oltrepassato il Mincio molte potenze europee avrebbero mosso contro la Francia, e che temeva quindi un’invasione straniera e desiderava perciò una pronta pace e un rientro dell’esercito in patria poiché quanto dell’esercito rimasto a difendere le frontiere sul Reno non era sufficiente a contrastare le forze schierate dalla Prussia. Del colloquio riservato tra Luigi e Vittorio non esistono documenti salvo il commento di un suo attendente che “entrambi rimasero nei propri pensieri”.

Movimento generale degli eserciti

Ma fu il comando austriaco a obbligarli a decidere perché alle 6 del mattino attaccò, basandosi sulle errate valutazioni degli avvistamenti. Con un primo cannoneggiamento le sue truppe dovevano puntare ad occidente, riguadagnare la riva destra del Mincio e tornare così ad occupare le posizioni abbandonate pochi giorni prima. Tale manovra puntava ad attestare l’esercito asburgico sulle colline a sud del lago, da questa posizione dominante la pianura sferrare un attacco, sfruttando altresì il disordine in cui l’esercito franco-sardo si sarebbe trovato nell’attraversare il Chiese, i cui ponti erano stati distrutti, per ordine di Gyulai, nel corso della ritirata. Ma gli efficienti reparti del genio francese nottetempo erano riusciti a costruire alcuni ponti di barche per consentire il transito delle truppe.

Così testualmente ricorda il generale La Marmora: «Non après, mais avant Solferino l’Empereur nous communiquait les dépêches de Paris sur les armements de la Prusse et l’impossibilité à la France d’envoyer une armée sur le Rhin. Nous étions en train (le Roi, moi et Della Rocca) d’écrire une dépêche à Cavour pour l’informer de ce que l’Empereur nous avait communiqué, lorsque les premiers coups de canon (6 heures) nous appelèrent sur le champ de bataille».

Sembrerebbe quindi che le crudeli battaglie di quel giorno siano state combattute per niente perché, perdente o vincente, Napoleone già la sera innanzi, letto quel telegramma, aveva deciso, sotto l’incalzare delle grandi Potenze, di non proseguire oltre nella campagna.

Aveva così inizio “casualmente” quella che fu la più grande battaglia fino allora conosciuta, dopo quella di Lipsia del 1813 e la massima di Waterloo del 1815. Complessivamente vi presero parte oltre 260.000 effettivi così ripartiti: esercito sardo 37.174 uomini, 3.221 cavalli, 112 pezzi d’artiglieria; francese: 96.094 uomini, 9.162 cavalli, 276 pezzi d’artiglieria; in totale gli alleati disponevano quindi di 133.268 uomini, 12.383 cavalli e 388 pezzi d’artiglieria. L’armata imperiale austriaca era forte di 141.705 uomini, 9.715 cavalli e 688 pezzi d’artiglieria.

Si trattò di un insieme di battaglie distinte che si svilupparono quasi simultaneamente ma autonomamente su un fronte di oltre 20 chilometri, senza un preordinato piano generale in quanto erano per quel giorno previsti solo piccoli riposizionamenti delle truppe. A San Martino e Madonna delle Scoperte combatterono le truppe sarde; a Medole e a Solferino le francesi. La battaglia fu cruentissima con episodi di grande valore da parte di tutti i belligeranti. Nel tardo pomeriggio le armate alleate erano vincitrici su tutti i tre fronti e l’esercito imperiale battuto e in ritirata disordinata.

Le perdite furono impressionanti: l’esercito sardo ebbe 5.625 uomini tra morti, feriti o dispersi; l’esercito francese ne ebbe 11.670 e l’esercito imperiale ben 21.737. Complessivamente 38.000 su 266.000 combattenti, il 14%.

Della battaglia esistono ben 8 resoconti ufficiali “a caldo”: uno di ciascun sovrano presente sul campo di battaglia, più i resoconti pubblicati nelle rispettive Gazzette Ufficiali, uno nelle Memorie di Francesco V, duca di Modena, al seguito di Francesco Giuseppe, una del principe Alessandro d’Assia che partecipò alla battaglia di S. Martino, poi capo delegazione nei successivi colloqui d’armistizio.

Ne possiamo stabilire l’inizio alle ore 3 del mattino quando una parte dell’armata francese si mise in marcia dall’accampamento di Carpenedolo per occupare il villaggio di Guidizzolo transitando per l’abitato di Medole. Ai soldati fu distribuito solo del caffè perché il rancio lo avrebbero consumato con calma dopo aver raggiunto gli obiettivi preposti, trattandosi nei piani di una tranquilla tappa verso le rive del Mincio, dove si prevedeva battaglia solo il 29 o il 30 giugno. A due chilometri da Medole le avanguardie francesi furono però intercettate da uno squadrone austriaco, ne nacque un tafferuglio all’arma bianca, terminato coll’inseguimento francese, che li portò di fronte ai reparti di fucileria e artiglieria austriaca, allertata dal fragore di quel primo scontro. Questo fu valutato come sporadico scontro fra avanguardie per cui non furono nemmeno informati gli Alti Comandi, ma il generale Neil, il comandante francese di queste truppe, stupito per la consistenza di quelle artiglierie in una posizione così strategica, decise sul momento di attaccare Medole per occuparla.

Così alle 4 del mattino incominciò una furiosa e lunga battaglia, durata ben 15 ore con i soldati che avevano ricevuto solo un caffè e mangiato quel poco che avevano nello zaino.

I primi scontri furibondi fecero molte perdite da entrambe le parti. In un primo momento gli austriaci furono cacciati, poi sopraggiunsero altri rinforzi, bloccati dalla superiorità dell’artiglieria francese, più potente e con gittata maggiore. Più in là si sentì che era iniziato lo scontro, anche quello improvviso, con le truppe di Mac Mahon. Posizioni prese e perse più volte con arrivi continui di truppe e finale vittoria francese con gli austriaci in ritirata. Durante la giornata furono concentrati attorno al piccolo abitato di Medole 25.000 francesi e 50.000 austriaci con queste forti perdite: 5.000 francesi (il 20%) e 10.000 austriaci (il 20%).

Altri reparti francesi avevano avuto l’incarico di occupare, sempre quel mattino del 24, la zona tra Castiglione delle Stiviere e Solferino, ben presidiate dal giorno prima dall’artiglieria austriaca posizionata su quelle alture. Il primo contatto tra le due formazioni fu alle 4 del mattino e anche qui violento, caotico, con posizioni prese e perse più volte tant’è che Napoleone III, al diretto comando, dovette difendersi nei momenti cruciali col corpo scelto della Guardia Imperiale.

Nel primo pomeriggio i francesi riuscirono a sfondare il centro di quelle austriache, ma i combattimenti continuarono nel pomeriggio fino a quando un violento temporale bloccò ogni operazione, ma non nella vicina San Martino dove i combattimenti cessarono solo alla sera. Lo scontro fu così duro che i vincitori non ebbero la forza di inseguire il nemico, che riparò oltre il Mincio in posizioni sicure fra il sistema delle Fortezze.

In questo secondo teatro di guerra furono impegnati circa 60.000 francesi con la perdita di 2.500 morti, 12.500 feriti e 3.000 tra prigionieri e dispersi. Fra i 40.000 austriaci vi furono 3.000 morti, 11.000 feriti e 8.700 tra prigionieri e dispersi.

Le truppe sabaude avrebbero dovuto occupare la zona tra i villaggi di San Martino e Pozzolengo, ignorando che nella notte gli austriaci avevano già occupato in forze le alture di San Martino. L’avanscoperta di solo mille piemontesi mandati a occupare Pozzolengo, alle 7 del mattino fu sorpresa dall’artiglieria austriaca, pesantemente attaccata e respinta oltre la ferrovia. Gli scontri si svilupparono principalmente nelle località di San Martino e Madonna della Scoperta. Man mano intervennero altri reparti di riserva a sostenere entrambi i fronti.

La situazione parve volgere a vantaggio austriaco quando Benedeck, il comandante, riuscì a schierare due brigate alle spalle dei piemontesi per prenderli tra due fuochi. Si richiamarono quindi tutte le forze piemontesi disponibili che ora avevano un notevole vantaggio numerico. Anche qui le posizioni furono prese e perse ripetutamente con assalti alla baionetta che decimavano i ranghi. Nel caldo afoso del primo pomeriggio fu dato l’ordine di abbandonare lo zaino (pesante circa 15 chilogrammi) per portare più agevolmente l’assalto decisivo alla collina. Questo fu eseguito con estremo coraggio, fu però carente nell’organizzazione, per ammissione dello Stato Maggiore sabaudo stesso, e privo di compattezza. Alle 18 un nubifragio compromise ogni movimento e alle 19, calmato il temporale, fu fatto l’ultimo tentativo con l’aiuto di altra artiglieria piemontese. Alla fine il generale Benedeck, che pur in inferiorità numerica aveva ben guidato le sue truppe, forte anche dall’ottima conoscenza del territorio, ma scosso dalla notizia della contemporanea sconfitta austriaca a Solferino, eseguì l’ordine ricevuto da Francesco Giuseppe di abbandonare le posizioni alla Madonna della Scoperta, ritirandosi indisturbato e per ultimo oltre il Mincio con il resto delle truppe. Gli alleati la sera occuparono le abbandonate posizioni.

A San Martino erano presenti 36.000 piemontesi contro 29.000 austriaci ed è significativo il bilancio delle perdite: i piemontesi ebbero tra morti e feriti ben 5.572 uomini (15,5% del totale) contro i 2.536 austriaci (8.6%).

Solo l’ipocrita retorica risorgimentale può parlare di brillante vittoria dell’esercito piemontese, che invece fu mal condotto, nonostante il valore dei soldati. Re Vittorio, la “spada d’Italia”, quel giorno diresse la battaglia, ma più col coltello del macellaio che con la lama del guerriero! Gli attacchi, peraltro infruttuosi, furono condotti in modo rigidamente frontale, con assalti alla baionetta e senza alcun tentativo di aggiramento delle posizioni nemiche. Questo tipo di manovra, dove ci si affida ad onde d’urto di attacco frontale alle trincee nemiche piuttosto che su soluzioni strategiche, provocò anche nelle successive guerre, da quella di poco posteriore Civile americana fino alla Prima guerra mondiale, solo immani carneficine.

Occorsero due giorni per sgombrare il teatro delle tre battaglie dai morti, i feriti, le armi e le macerie che ostruivano la zona.

 

10. Il giudizio finale di Marx e di Engels

Questi alcuni commenti di Engels alla battaglia di quel giorno: «Le due ali degli austriaci ebbero il sopravvento, specialmente la destra che aveva di fronte i piemontesi che ne uscirono malconci, sì che qui gli austriaci erano manifestamente vittoriosi. Ma nel centro la disposizione sbagliata diede i suoi effetti. Solferino, la chiave del centro, rimase alla fine, dopo ostinata battaglia, nelle mani dei francesi che contemporaneamente spiegarono forze molto superiori contro l’ala sinistra degli austriaci (...) Ma come è stato brillante il comportamento delle truppe di fronte alle forze superiori del nemico, così è stata meschina l’azione del comando. Indecisione, tentennamenti, ordini contraddittori, proprio come se le truppe dovessero essere demoralizzate a bella posta – tutto ciò, in tre giorni, ha irrimediabilmente compromesso Francesco Giuseppe agli occhi del suo esercito. Non si può immaginare nulla di più miserevole di questo giovanotto arrogante che ha la pretesa di voler comandare un esercito e che cede, come canna al vento, alle influenze più contraddittorie: che oggi dà retta al vecchio Hess, per poi domani dare ascolto nuovamente al consiglio contrario di signor Grünne, che oggi si ritira e domani attacca all’improvviso, e insomma non sa mai egli stesso cosa vuole. Per ora ne ha abbastanza, e si ritira scornato a Vienna, dove sarà accolto degnamente» (“La battaglia di Solferino”, 2 luglio).

Ancora più duramente nel successivo articolo con lo stesso titolo del 9 luglio: «Abbiamo qui una chiara dimostrazione di quel che significa il comando di un “condottiero” ereditario tedesco. Due corpi (50.000 uomini) mandati a passeggiare senza scopo lontano dal campo di battaglia, un terzo, (20.000 uomini) presso Mantova a far fronte alle ombre e 104 cannoni concentrati inutilmente a Valeggio: un buon terzo dunque di tutte le forze di combattimento e tutta la riserva di artiglieria deliberatamente allontanati dal campo di battaglia, così che i restanti due terzi vengono schiacciati senza scopo da forze molto superiori; una così lampante idiozia può commetterla soltanto un padre della patria tedesco!».

Da un punto di vista generale nulla era però ancora compromesso, nonostante le sconfitte principali a Magenta e a Solferino, perché, dice Engels, la vera guerra incominciava ora. Infatti gli austriaci si erano trincerati all’interno del sistema delle fortezze, stavano arrivando grossi contingenti di forze fresche da est aumentando di molto la loro superiorità numerica, mentre gli alleati non potevano fa­re altrettanto; inoltre dopo Solferino gli austriaci erano guidati dal feldmaresciallo Hess, il più esperto stratega in quella guerra.

Inoltre i francesi, oltre a non disporre di riserve da inviare celermente in Italia, erano minacciati sul Reno. Il loro secondo corpo di spedizione, sbarcato a Livorno per un ipotetico fronte meridionale, dopo aver “liberato” Parma, si attardava senza motivo in quelle zone. Era comandato da Gerolamo Bonaparte, il novello genero di Re Vittorio (il “generale Plon-Plon”). Durante la battaglia si trovava a diversi giorni di marcia da Solferino e anche ben lontano dalla fortezza di Mantova dove gli austriaci lo stavano aspettando.

Le truppe sabaude erano già tutte impiegate. Dagli eserciti italiani, del Papa, dei Borbone e degli altri staterelli non arrivò niente di rilevante se non volontari non addestrati. Garibaldi presidiava le strade e il valico dello Stelvio per impedire la discesa di rinforzi alle spalle.

Per sconfiggere gli austriaci occorreva un esercito ben diretto e in forte superiorità numerica. Si sarebbe dovuto dividere su due direttrici: la prima per attaccare le due fortezze sul Mincio, la seconda, attraversato il Po a Ferrara, per contrastare quelle orientali di Legnago e Verona, come era stato fatto inizialmente nella precedente guerra del 1848, quando le truppe papaline guidate dal generale Durando si erano messe alle spalle e di traverso alle retrovie austriache. Il voltafaccia del Papa e di Ferdinando II mandò a monte sul nascere quel piano ben congegnato.

Dopo Solferino di rilevante ci furono solo l’accerchiamento da terra della fortezza di Peschiera; le restanti truppe francesi solo il 28 giugno attraversarono con molta prudenza il Mincio.

Inoltre la squadra navale franco-sarda che bloccava Venezia pareva che a breve avrebbe compiuto lo sbarco e già si fantasticava in Italia che in poco tempo anche il Veneto sarebbe stato liberato.

Nel mentre gli austriaci si concentrarono su Verona e una parte presidiava tutta la sponda del Po da Mantova ad Adria.

Intensi ed importanti furono al contrario i movimenti della diplomazia. Giunsero velocemente delegazioni ad alto livello russe e inglesi per fermare, con toni minacciosi, Napoleone III. La storia qui si ingarbuglia perché queste lettere minatorie non si sa chi le ha veramente scritte e chi ricevute (lo zar Alessandro II indignato smentirà tutto). Ma tutto porta ad un’unica soluzione: Napoleone III ne ha a sufficienza dell’Italia, la guerra gli è costata troppo in termini economici e di prestigio personale e cerca una scusa per ritornarsene in Francia.

Sta di fatto che il 6 luglio, in piena notte, l’aiutante di campo di Napoleone si presenta al quartier generale di Francesco Giuseppe per consegnare una strana lettera in cui si dice, millantando una nuova supremazia numerica: «Mio signor fratello, mi si comunica da Parigi che una grande Potenza vuol proporre un armistizio ai belligeranti. Se Vostra Maestà lo volesse accettare, desidero saperlo, poiché in tal caso ordino alla flotta, che attaccherà Venezia, di non intraprendere nulla perché è nostro dovere impedire un inutile spargimento di sangue».

L’imperatore che nulla sapeva di simili manovre di Potenze straniere, forse perché poco o nulla c’era di vero, rispose anche lui in modo ambiguo minacciando, pure lui, rinforzi di forze sue e straniere al suo fianco: «Avendo tratta la spada solo per la difesa dei miei diritti, apprezzo troppo i benefizî della pace per non accoglierne di gran cuore la proposta (...) Soprassiedo quindi per il momento ad accogliere l’invito del convegno propostomi nel timore che, dopo avere stretta la mano dell’amico Imperatore dei Francesi, mi sarà difficile poi doverlo incontrare di nuovo come nemico sul campo di battaglia» (in Archivio di Stato di Vienna).

Comunque sia, la mattina dell’8 luglio si firma un armistizio valido fino al 15 agosto, in attesa di un trattato di pace, il quale naufraga subito per le esose pretese avanzate dagli austriaci. Napoleone III scrive allora il seguente semplice biglietto a Francesco Giuseppe: «Abbiamo ogni vantaggio se ci accordiamo direttamente tra di noi. Togliete di mezzo l’infelice questione italiana e nulla più dividerà la Francia dall’Austria. Anzi l’Austria acquista per giunta il privilegio di una reale ed intima alleanza con un grande popolo». Con queste semplici frasi Napoleone III liquida la questione italiana e il suo impegno.

Seguono furibonde litigate e insulti fra Camillo e Vittorio, che non era nemmeno stato informato tanto meno invitato ai preliminari di quegli accordi. Cavour, risoluto a continuare la guerra a tutti i costi anche senza i francesi, si dimette.

L’11 luglio i due imperatori si incontrano a Villafranca di Verona dove sottoscrivono la sospensione delle ostilità; il giorno successivo firma anche Re Vittorio «per quel che lo riguarda» e Napoleone III il 16 luglio lascia il suolo italiano, dopo aver richiesto un “rimborso spese” di 100 milioni.

Così Marx: «C’è stata una guerra tra un Asburgo e un Bonaparte. Non c’è stata nessuna guerra italiana. Vittorio Emanuele non può pretendere gli onori di un alleato subalterno. Non è stato parte attiva nella lotta, è stato unicamente uno strumento, escluso quindi da quei diritti che secondo le leggi delle nazioni spettano a qualsiasi cobelligerante, sia pure il più insignificante (...) Un modesto parente povero, cui si concede di divorare in silenzio le briciole cadute dalla tavola del ricco e potente cugino (...) L’indipendenza dell’Italia è dunque trasformata nella dipendenza della Lombardia dal Piemonte e della dipendenza del Piemonte dalla Francia» (Marx, “Il trattato di Villafranca”, 4 agosto 1859).

Non si erano quindi raggiunti gli obiettivi previsti. Con la successiva “pace di Zurigo” del 10 e 11 novembre 1859 l’Austria cedeva la Lombardia alla Francia, che a sua volta la cedeva al Regno di Sardegna, conservava le due fortezze di Mantova e Peschiera, ora di frontiera, e chiedeva il reintegro dei regnanti della famiglia degli Asburgo-Lorena di Modena, Parma e Toscana e quelli papalini di Bologna, messi in fuga dalle rivolte popolari sostenute dalla presenza dell’esercito francese di Plon-Plon. Tutti questi Stati, incluso il Veneto austriaco, avrebbero formato una confederazione italiana presieduta dal Papa, progetto che irritò fortemente i liberali italiani, soprattutto dopo il massacro di Perugia del 20 giugno perpetrato dalle truppe pontificie nel riprendere e punire la città che si era liberata.

Cavour seppe abilmente manovrare su questa insofferenza convincendo le potenze europee sulle sicure derive della cospirazione repubblicana e mazziniana e sostenendo che la migliore soluzione era l’annessione al Regno di Sardegna, dopo scontatissimi plebisciti. Il 24 marzo 1860, dopo le annessioni di Lombardia, Parma, Modena, Emilia, Romagna, Toscana, il regno di Sardegna col Trattato di Torino cede, dopo plebisciti, questi manipolati, Nizza e la Savoia. Tutti contenti, meno Garibaldi e non pochi altri.

Il 2 aprile del 1860 Vittorio Emanuele apriva la prima legislatura del Parlamento italiano con un importante discorso di che terminava: «L’Italia, non è più quella dei Romani, né quella del medioevo, non deve essere più il campo aperto alle ambizioni straniere, ma deve essere bensì l’Italia degli italiani».

(Continua al prossimo numero)


 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra
 

I documenti di archivio che ripubblichiamo in questo numero della rivista si riferiscono all’indirizzo impartito ai sindacali dal neonato Partito Comunista d’Italia nelle infuocate giornate di guerra civile del 1921.

La difficile situazione che il partito si trovava allora ad affrontare, certo diversissima dalla attuale e per molti aspetti storicamente invertita, era anche quella di profonda crisi economica. Le centinaia di migliaia di lavoratori italiani disoccupati con davanti agli occhi lo spettro della fame, i milioni di operai che, dopo avere sofferto per mesi e mesi la violenza delle forze statali e di quelle irregolari fasciste, vedevano scemare il valore dei miseri salari di fronte agli aumenti del costo della vita, attendevano invano dai dirigenti della Confederazione Generale del lavoro una linea direttiva di azione e di resistenza alla offensiva degli industriali. Ma un tale indirizzo all’azione di classe non arrivava, e non poteva arrivare dal momento che la direzione sindacale si trovava nelle mani dei capi socialdemocratici che, alla concezione marxista della lotta di classe, che non si preoccupa dello stato di floridezza o di crisi dell’economia borghese, avevano sostituito la subordinazione degli interessi del proletariato alle condizioni del capitalismo.

Dalla lettura dei testi si vede come per il partito comunista la lotta sindacale rivesta una importanza capitale. Solo in presenza di una vasta organizzazione sindacale, nella quale i proletari abbiano sentito la necessità di organizzarsi e di vedersi rappresentati, aperta alla direzione dal partito comunista, è possibile la difesa delle condizioni di vita dei lavoratori e, nel maturare del movimento, la presa rivoluzionaria del potere.

Il sindacato sorge dalla necessità dei lavoratori di reagire alle funeste conseguen­ze della concorrenza che, in assenza di una organizzazione classista, si sviluppa nel proletariato per la vendita della propria forza lavoro ai padroni. La lotta tra le organizzazioni economiche proletarie ed i datori di lavoro serve ad influire sul prezzo del lavoro, il salario, contrastando gli effetti della legge della domanda e dell’offerta. La organizzazione sindacale degli operai rappresenta il monopolio nella offerta della forza lavoro. I capitalisti, a loro volta, sono organizzati in loro sindacati costituendo l’opposto monopolio, del ca­pi­ta­le, della domanda di mano d’opera, Inoltre dispongono del monopolio della vendita dei prodotti, attraverso il quale agiscono sui prezzi il cui aumento ha l’effetto di diminuire il valore effettivo dei salari. Si determina così una incessante lotta tra operai e padroni, tra lavoro e capitale.

Questa continua guerriglia spinge gli operai ad acquisire una certa consapevolezza sulle condizioni della lotta ed una loro minoranza ad inquadrarsi nel partito comunista per perseguire la via di uscita da tale circolo vizioso: la soppressione del capitalismo, raggiungibile solo spezzando il sistema politico statale che lo protegge.

Il capitalismo, specialmente in momenti di estrema crisi, come fu quello del primo dopoguerra, sferra una violenta offensiva contro le organizzazioni dei lavoratori con tutte le armi a disposizione: sia licenziamenti in massa, serrate, drastiche riduzioni dei salari, sia avvalendosi della macchina repressiva dello Stato e delle milizie extra-legali di classe.

Risulta fra le opposte classi, e le rispettive organizzazioni, un ininterrotto conflitto. Vi sono però periodi di crisi in cui la difesa delle condizioni vitali del proletariato diviene incompatibile col funzionamento della produzione capitalista. Questo è il momento in cui i sindacati, secondo la teorica e la prevista tattica dei comunisti, possono trasformarsi in organi di combattimento rivoluzionario contro il regime borghese, sotto la direzione dal partito, organo specifico della risolutiva lotta politica. Allora il conflitto di classe dal terreno economico passa a quello politico e storicamente si pone l’alternativa tra dittatura del capitale o dittatura del proletariato, che potrà essere sciolta solo dall’esito della guerra civile.

Invece, come fecero i dirigenti della CGL, subordinare le rivendicazioni operaie alla verifica sulle reali possibilità economiche degli industriali equivale al peggiore dei tradimenti. Prendere in considerazione le necessità della macchina produttiva, che non rappresentano altro se non quella di perpetuare il sistema del profitto e dello sfruttamento, significa consegnare il proletariato a sconfitta certa. Se, di fronte all’offensiva padronale, il sindacato rinuncia alla sua funzione di battaglia sociale e continua nella ricerca di un compromesso, non farà altro che spianare la via alla soluzione della reazione capitalista.

Lo stesso effetto si avrà quando, dinanzi all’attacco sferrato dalla borghesia, il sindacato chieda che il potere statale borghese si faccia arbitro del conflitto, perché lo Stato non può intervenire che in appoggio agli interessi del capitale. È vero che, in determinati momenti, lo Stato borghese può anche trovare conveniente fingere di frapporsi tra le parti contendenti, ergersi ad arbitro, e anche sospendere per un momento l’avanzata della offensiva padronale, ma questo suo atteggiamento di fatto servirà solo a soggiogare e disarmare ancor di più l’organizzazione operaia, con un proletariato vittima inerme della repressione borghese.

La lucida analisi della situazione prospettata dal Partito Comunista d’Italia dimostrava come la soluzione del problema non poteva essere trovata né nello Stato, né nella collaborazione di classe; ma neanche nella tradizionale lotta, per quanto eroica, delle agitazioni di singole categorie. Il proletariato avrebbe potuto ribaltare la sua condizione di inferiorità solo generalizzando le lotte e portandole sul terreno politico.

Da qui l’appello lanciato dal Partito al proletariato per la costituzione del fronte unico sindacale, per l’unificazione nella lotta delle diverse organizzazioni operaie e per sbarazzare la direzione della Confederazione Generale del Lavoro dai capi, allora non più “riformisti”, ma apertamente traditori.

Le direttive del Partito e la tenace opera organizzativa e di battaglia dei suoi iscritti e dirigenti sindacali erano avversate con ogni mezzo dalla socialdemocratica dirigenza confederale: all’interno del sindacato penetravano gli indirizzi politici propri delle opposte classi in lotta nella esterna società civile. È un episodio di questa guerra interna il tentativo, a volte riuscito, di espellere dal sindacato i nostri militanti, vista l’efficacia e le simpatie che suscitava la loro azione contro i dirigenti confederali, e ciò nel momento stesso in cui si patteggiava con Stato e col fascismo la resa incondizionata del proletariato.

Qui iniziamo la pubblicazioni di alcuni documenti tratti dalla stampa del partito di quei mesi, che tracciano un percorso necessario e segnato e che attendiamo noi di rivivere, ma nel senso contrario, dalla sconfitta alla vittoria delle forze proletarie.

 

 

“Il Comunista”, 1° maggio 1921
PER IL PRIMO MAGGIO

Compagni lavoratori!

Per la prima volta da che si è costituito, il Partito comunista d’Italia solennizza la festa internazionale del lavoro: il primo di Maggio.

La grave ora che volge, nella quale tanto tragicamente sono in gioco le sorti della vostra classe, e gli avvenimenti degli ultimi tempi, che tanto da presso riguardano i vostri interessi e le vostre aspirazioni, fanno sì che non vi giunga ignota o indifferente la voce del nostro partito, che è il vostro partito: poiché, sorto attraverso episodi della vita politica del paese che hanno richiamato tutta l’attenzione delle masse proletarie italiane, rappresenta l’organismo che collega l’azione, il sentimento, la coscienza di queste alla grande famiglia dei lavoratori rivoluzionari del mondo: la terza Internazionale comunista.

Anche quella parte del movimento proletario internazionale, che non è organizzata nelle file dell’Internazionale comunista, celebra oggi, in forza di una trentennale tradizione, la ricorrenza del Primo Maggio, e rivolge alle moltitudini parole che suonano giustizia, eguaglianza, emancipazione. Ma l’Internazionale comunista viene a voi, compagni lavoratori, in questa occasione, come in tutte le altre, per prospettarvi la necessità urgente di dare alle vostre aspirazioni verso un migliore regime una precisa coscienza ed un sicuro indirizzo di azione, conseguiti utilizzando le esperienze, per tanta parte doloranti e sanguinose, delle lotte passate e presenti dei lavoratori di tutti i paesi per la loro redenzione.

Lavoratori delle città e delle campagne !

L’Internazionale comunista ed i partiti che a nome di essa vi parlano non si stancano di additarvi le grandi verità che formano il contenuto essenziale del metodo rivoluzionario propugnato dai comunisti.

Se negli anni antecedenti alla grande guerra mondiale il movimento della classe lavoratrice smarrì molte volte la via sicura, già segnata nella divinatrice dottrina dei nostri maestri; se lo svolgimento stesso della vita del mondo capitalistico ebbe per necessaria ripercussione le incertezze e gli errori dei partiti che rappresentavano il proletariato, fino al tradimento quasi universale dei capi delle masse nel 1914; la crisi tremenda della guerra, e di questo travagliato e sconvolto periodo di dopo guerra, va sospingendo le masse sulla strada che le condurrà alla vittoria rivoluzionaria in tutti i paesi. Una parte gloriosa del proletariato mondiale ci ha su questa via luminosa magnificamente preceduti; ed è il proletariato russo, che ha conquistato e difende a prezzo di sacrifici eroici la sua emancipazione dal giogo degli oppressori. E attorno ad esso, nelle fi­le appunto dell’Internazionale sorta nello slancio meraviglioso che la rivoluzione di Russia ha suscitato dovunque tra i diseredati e gli oppressi, si serra il proletariato degli al­tri paesi, che con maggiore o minore sicurezza, con successo più o meno contrastato dalle forze della reazione capitalistica, ha ingaggiato o sta per ingaggiare la lotta suprema.

E gli obbiettivi di questa sono contenuti nelle parole, che lancia a tutti i lavoratori del mondo la terza Internazionale, e che, ad opera dei suoi militanti, echeggiano anche in questo Primo Maggio al di sopra delle frontiere, al di là dei continenti e degli oceani.

L’inferno, che è costituito dalla vita sociale del dopoguerra, non può presentare altra via d’uscita che la rivoluzione sociale internazionale, il rovesciamento del regime capitalistico da parte del proletariato.

Questo non può iniziarsi che con la conquista del potere politico da parte della classe lavoratrice, strappandolo con la violenza alla classe borghese, incapace ormai di amministrare la società, ma risoluta ad abbandonarne la dirigenza solo dopo averla difesa con tutti i mezzi in suo potere.

Il proletariato, il cui avvenire dipende dalla sua capacità d’infrangere l’assurdo ed iniquo sistema economico borghese, deve considerare le istituzioni politiche della borghesia, anche dove più sono rivestite delle forme democratiche e parlamentari, come una macchina costruita per la sua oppressione e per la difesa del privilegio degli sfruttatori. Il proletariato rivoluzionario non può trovare una via per la sua emancipazione negli istituti elettivi del regime attuale, nella conquista dei Parlamenti borghesi: esso, anche quando vi invii suoi rappresentanti, deve prefiggersi di spezzarli insieme a tutta la rete dell’apparato statale, nei suoi organi burocratici, polizieschi, militari, per realizzare l’effettivo potere della classe produttiva, della sola classe produttiva, nella dittatura del proletariato, nella repubblica dei Consigli proletari.

Queste le linee direttive dell’azione propugnata, in seno al proletariato italiano, dal nostro partito; questo il compito che, attraverso la preparazione ideale e materiale delle forze proletarie, esso si propone di assolvere affratellato ai partiti comunisti degli altri paesi, pronto ad assumere il posto di battaglia che la storia rivoluzionaria gli assegnerà.

Se vi sono nella situazione attuale italiana degli indizi che questo compito fanno presumere più difficile e gravoso, non per questo noi ammettiamo che un metodo, che anche di poco dimentichi tali caposaldi, possa avere utile effetto per l’emancipazione dei lavoratori.

Compagni lavoratori d’Italia !

Questo è l’atto di fede che noi comunisti, continuatori di quella parte del partito socialista che ne fu tra voi banditrice, rivendichiamo e riconfermiamo, contro tutto e contro tutti, con una coscienza e convinzione che gli eventi non hanno fatto che rafforzare.

La borghesia italiana, che nell’immediato dopo guerra si addimostrava sbigottita e quasi incapace di contrastare il passo alla marea rivoluzionaria, organizza oggi, senza alcuno scrupolo e con ferocia inaudita, una sua difesa controffensiva assalendovi apertamente. Questo non è che la riconferma che tutta la situazione ci conduce verso un urto supremo, nel quale il proletariato non può che ricorrere alle stesse armi che oggi la reazione bianca brandisce contro di lui.

Dopo le facili vittorie elettorali del 1919 e 1920, che assicurarono numerosi seggi negli istituti politici borghesi ai rappresentanti del proletariato, usciti allora da un partito che alle declamazioni rivoluzionarie dimostrò di non saper far seguire che l’impotenza nell’azione, il Governo si prepara ad inscenare elezioni, in cui i posti dei rappresentanti proletari saranno contesi con tutte le arti della prepotenza e della frode. Ciò dimostra a luce meridiana che gli istituti del parlamentarismo non possono riservarvi che la delusione e l’inganno.

Il grande partito, che sostenne per voi la lotta contro la guerra e vi apparve a guerra finita come l’artefice della totale vostra vittoria di classe, e che sembrò anche intendere la grandezza della rivoluzione russa e la forza della nuova Internazionale, si è rivelato in realtà malato dello stesso male che minò i partiti socialpatriottici della seconda Internazionale; inetto ad agire sul piano della preparazione e dell’azione rivoluzionaria, e abbandonato da noi comunisti, è caduto nel più deplorevole opportunismo; diffama la Russia dei Soviet, irride la disciplina dell’Internazionale comunista, marcia a gran passi verso la collaborazione borghese e vi predica il disarmo dinanzi alla prepotenza della reazione. Ciò viene a riconfermare come la lotta contro i falsi amici del proletariato debba essere spietata e severa, e come si debbano instancabilmente snidare dalle loro posizioni i capi che con la loro demagogia asserviscono le masse per poi tradirle.

La tracotanza audace dell’avversario borghese, la canea bestiale della reazione, il turpe gioco del ciarlatanismo parlamentare della borghesia e degli astuti suoi governanti, la vergognosa defezione dei massimalisti di ieri e la sottile opera loro avvelenatrice e ottenebratrice delle coscienze, non ci sbigottiscono o ci scuotono, ma ci ritemprano nella fede e nella volontà di vincere. Sì, o proletari: è tutto un mondo che con le sue sinistre risorse si leva e si arma contro di voi; ma è tutto questo mondo che voi dovete distruggere per passare oltre, verso un radioso avvenire. La violenza, la rabbia, la perfidia nemica, vi inducano solo a meglio temprare alla lotta tutte le vostre energie, a fare eco potente all’appello che noi vi lanciamo, levando più che mai alta quella nostra bandiera che tanto più rosseggia tra i turbini e i baleni della tempesta; a gridare, al di là dei confini; come al di là di questo tetro periodo di agonia di un infame regime, l’evviva travolgente alla vittoria del comunismo nella rivoluzione mondiale.

 

 

 

“Il Comunista”, 8 maggio 1921
AI LAVORATORI ORGANIZZATI NEI SINDACATI
PER L’UNITÀ PROLETARIA

Compagni!

Per il Partito comunista uno dei problemi che si pongono in primissima linea tra quelli della preparazione rivoluzionaria è il problema sindacale.

In tutti i paesi del mondo la questione è all’ordine del giorno. Il grado di coscienza e di forza rivoluzionaria della classe lavoratrice è collegato strettamente alla situazione delle organizzazioni economiche, nelle cui file si raggruppano i lavoratori di tutte le categorie, di tutte le professioni.

In Italia il Partito comunista, al suo sorgere, si trova davanti ad una situazione, che se non è sostanzialmente diversa, certo non è meno difficile ad essere affrontata di quella degli altri paesi, dal punto di vista dei rapporti del Partito con le grandi masse organizzate, della propaganda del comunismo e dell’efficiente preparazione rivoluzionaria.

Il Partito socialista, dalla scissione dal quale il nostro partito è recentemente sorto, ha sempre nella sua opera affiancato la più numerosa delle grandi organizzazioni sindacali italiane: la Confederazione generale del lavoro. Da questa negli anni precedenti alla guerra si staccarono molte organizzazioni, allorché dal Partito socialista uscirono i sindacalisti: ed ancora oggi quelle organizzazioni sono nazionalmente collegate in un altro organismo, la Unione sindacale italiana.

Vi sono poi delle grandi organizzazioni nazionali di categoria che, dinanzi a questa situazione, non sapendo scegliere tra le due centrali sindacali esistenti, sono estranee ad entrambe: il Sindacato ferrovieri italiani, la Federazione dei lavoratori del mare, la Federazione lavoratori dei porti e qualche altro minore aggruppamento sindacale. S’intende che qui non parliamo neppure di quei movimenti a carattere pseudo-sindacale, che apertamente affiancano partiti dichiaratamente borghesi, spesso sotto la solita maschera reazionaria dell’apoliticità, e sono sorti ad opera di popolari, interventisti o fascisti.

Nell’uscire dal Partito socialista, i comunisti hanno considerato il problema sindacale secondo le vedute che derivano dalla loro dottrina marxista e dalla disciplina, incondizionatamente da essi osservata, alle direttive tattiche della terza Internazionale.

Secondo i comunisti italiani e di tutti i paesi, il mezzo più efficace per far guadagnare terreno alle tendenze rivoluzionarie tra le masse organizzate, non è quello di scindere quei sindacati che si trovino nelle mani di dirigenti destreggianti, riformisti, opportunisti, controrivoluzionari. Tagliati i ponti, nazionalmente come internazionalmente, con questi traditori della classe lavoratrice; costituito nel Partito politico comunista l’organismo che abbraccia i soli lavoratori pienamente coscienti delle direttive rivoluzionarie dell’Internazionale comunista; i membri e i militanti del partito rivoluzionario non escono dai Sindacati, non spingono le masse ad abbandonarli e boicottarli, ma dentro di essi, dall’interno dell’organizzazione economica, impostano la più fiera lotta contro l’opportunismo dei capi.

Senza qui ripetere tutte le ragioni di principio e le esperienze pratiche su cui si basa questa precisa e immutabile tattica adottata dai comunisti del mondo intiero, vogliamo esprimere la convinzione che tutti i lavoratori italiani abbiano ben compreso lo spirito dell’atteggiamento preso dai comunisti col non uscire dalla Confederazione del lavoro, notoriamente diretta da elementi riformisti, che sono sempre stati alla estrema destra del vecchio partito, che sono responsabili di tutta una costante politica antirivoluzionaria, di una vera serie di tradimenti a danno del proletariato italiano e di compromessi con la borghesia.

Noi siamo più che qualsiasi altro aggruppamento di operai rivoluzionari decisi a lottare contro la politica di quei nemici della nostra causa. Se credessimo che un altro metodo – poniamo quello di uscire in massa dalla Confederazione per entrare nell’Unione sindacale italiana o di fondare un altro organo nazionale sindacale – offrisse un vantaggio nella lotta contro i D’Aragona e C. della Confederazione, e conducesse più rapidamente a liquidarli, noi questo altro metodo abbracceremmo con entusiasmo. Ma così non è. Se il nostro Partito avesse preso quell’atteggiamento, avrebbe fatto il più gran piacere e reso il servigio migliore ai controrivoluzionari che siedono sui supremi scanni confederali. Tra le tante prove che nei nostri scritti di propaganda sono recate di questa elementare verità, efficacissima è quella che in molti altri paesi del mondo i socialdemocratici hanno intrapreso una campagna per escludere con ogni mezzo più sleale, dai sindacati da loro capeggiati, quegli organizzati e quegli organizzatori comunisti che – come benissimo essi andavano accorgendosi – minavano le basi della loro dittatura, aprendo gli occhi alle masse.

Questo accenna a verificarsi anche in Italia, come risposta dei capi della Confederazione e di certe grandi organizzazioni alla campagna vigorosamente da noi iniziata e svolta contro di essi nel seno delle organizzazioni stesse. Il Partito comunista ha rapidamente affasciato le forze sindacali che ad esso fanno capo, ed organizzato l’opposizione ai riformisti – ossia a tutti i socialisti che nulla più distingue oggi i Serrati dai Turati e dai D’Aragona – dominanti nella massima nostra organizzazione. Una prima battaglia si è avuta al congresso confederale di Livorno, e battaglie parziali si svolgono ogni giorno, in seno alle leghe, alle Camere del lavoro, alle Federazioni nazionali.

Nessun lavoratore organizzato, sia esso comunista, sindacalista od anarchico, vorrà dunque vedere una contraddizione tra la nostra presenza nelle file della Confederazione, e la nostra fermissima risoluzione ad una lotta a fondo contro i suoi capi attuali.

Oltre agli operai comunisti, vi sono migliaia e migliaia di altri organizzati avversi fieramente alle direttive dei riformisti confederali, e sono appunto molti di quelli compresi nelle altre organizzazioni che più sopra abbiamo ricordate. È a questi nostri compagni, organizzati od organizzatori, che intendiamo rivolgere il nostro appello.

Sappiamo benissimo, e non abbiamo nessuna ragione di dissimulare, che vi sono divergenze di vedute politiche tra i comunisti, i sindacalisti, e gli anarchici. Sappiamo altresì molto bene che queste differenze si riflettono anche sull’atteggiamento che ciascuna di tali tendenze piglia appunto in merito alle questioni sindacali.

Ma queste tendenze hanno questa posizione comune: togliere il dominio sulle masse lavoratrici ai riformisti, ai socialpacifisti, ai negatori e sabotatori di ogni azione rivoluzionaria. Nel campo internazionale tutte queste tendenze, come sono contro la defunta seconda Internazionale politica dei traditori, così sono aspramente avverse all’Internazionale sindacale di Amsterdam, che considerano concordemente come un’organizzazione di traditori asserviti alla borghesia imperialista mondiale, alla lega dei grandi capitalismi negrieri dell’Intesa.

Sindacalisti ed anarchici hanno con le tesi dell’Internazionale comunista politica divergenze che li trattengono fuori dalle sue file e dalla precisa sua disciplina. Ma quelle divergenze, che dividono organismi politici e scuole politiche proletarie, non hanno ragione di dividere il movimento sindacale, che deve contare sul grosso dell’effettivo numerico proletario. Sindacalisti ed anarchici possono accettare il piano di azione dei comunisti contro Amsterdam: demolire l’Internazionale sindacale gialla, non col boicottare i sindacati nazionali ad essa affiliati, perché comprendono il grosso del proletariato organizzato, la cui dirigenza è, con una serie di espedienti ben noti, usurpata dai grandi mandarini sindacali, ma lottare dentro questi organi nazionali sindacali, per strapparli uno ad uno alla tutela insidiosa dei gialli di Amsterdam.

Quindi, a fianco dell’Internazionale comunista politica, sorge l’Internazionale sindacale, alle cui file convergono tutti i lavoratori organizzati con l’obbiettivo della lotta contro la borghesia fino al rovesciamento di questa. Quest’Internazionale sindacale rivoluzionaria rossa, contrapposta senza possibilità di confusione a quella opportunista e gialla di Amsterdam, terrà prossimamente il suo Congresso mondiale, e ad esso prenderanno parte tutti i sindacati che accettano la lotta contro la borghesia e contro l’opportunismo riformista.

In Italia la proposta, ventilata da alcuni elementi di sinistra del movimento operaio, che i comunisti, uscendo con le notevoli loro forze sindacali dalla Confederazione del lavoro, dessero opera a costituire un più grande organismo sindacale rivoluzionario, se dimostra non esatta conoscenza della posizione presa da tempo dai comunisti in Italia e fuori sul problema sindacale, dimostra però anche la tendenza ad intensificare con tutte le forze sindacali di sinistra la lotta per distruggere l’influenza nefasta dei riformisti sulle masse, salvo a delineare poi più esattamente le nuove direttive da adottare, e se esse debbano essere quelle dei comunisti, dei sindacalisti o anarchici.

Mentre d’altra parte i comunisti fanno una questione fondamentale della loro presenza nella Confederazione, i lavoratori organizzati nell’Unione sindacale e negli altri organismi, non solo non sono per principio fautori dell’esistenza di due opposti organismi operai, ma spesso hanno dimostrato e dichiarato di essere propensi all’unificazione delle organizzazioni sindacali italiane.

Se – ferme restando le differenze di dottrina e di metodo – vi è un ostacolo da togliere di mezzo, questo è il dubbio, che noi riteniamo dissipato, che l’atteggiamento dei comunisti sia dettato da poca decisione nella lotta antiriformista, anziché, come vedemmo, dal proposito di colpire i riformisti nel punto più vulnerabile e nel modo più deciso.

Tutte le forze sindacali che sono contro la politica disfattista e rovinosa dei riformisti, potrebbero dunque porsi sulla piattaforma comune di lavorare nella Confederazione contro i suoi capi attuali, realizzando la fusione di tutte le organizzazioni sindacali, ma sopratutto la massima messa in valore di tutte le opposizioni alla politica del social-tradimento che tante volte ha compromesso le sorti delle lotte decisive del proletariato italiano.

Compagni lavoratori!

È per tutte queste ragioni, su cui dovete portare la massima attenzione, che il Partito comunista, assolvendo un suo formale impegno e preciso dovere, lancia il suo appello per la entrata nella Confederazione di tutti i sindacati proletari rossi che ne sono fuori.

A questo risultato si oppongono mille sottili artifizi burocratici e procedurali, che i maneggiatori riformisti sfrutteranno al massimo. Lo sappiamo. Ma lo scopo di tutte queste macchinazioni, di quest’ostruzionismo burocratico, sotto il quale è soffocato il proletariato organizzato, è appunto quello di escludere gli elementi rinnovatori, che soli potrebbero condurre la massa dei loro compagni a scuotere la dittatura dei bonzi. Tenersi fuori per paura di queste loro armi sleali, ma non invincibili, è il modo più diretto di dar battaglia vinta a questi nostri avversari.

Il Partito comunista si rivolge a tutti i compagni lavoratori dell’industria e dell’agricoltura e alle loro organizzazioni, che sono al difuori della Confederazione, e li invita caldamente a superare gli ostacoli derivanti da piccole questioni di procedura e di forma per badare alla sostanza.

Il Partito comunista è convinto che quei lavoratori, che sentono insormontabile la repugnanza per gli elementi di destra del movimento operaio, intenderanno come diverso e più leale sia incomparabilmente questo suo appello dalle ipocrite dichiarazioni che i socialdemocratici fanno quando a lor volta parlano di unità sindacale. Il recente Congresso confederale votava unanime un analogo invito, ma esso aveva senso e valore ben diverso dal nostro, e noi domandiamo che col nostro non venga confuso. Mentre nelle masse organizzate vive spontaneo e diffuso il desiderio dell’unità proletaria, nell’intendimento dei capi socialisti, che a Livorno ostentarono di votare questo principio, si cela una sottile ipocrisia, e l’intendimento di precludere con un’abile politica di ostruzionismo la via ad una valorizzazione delle forze a loro avverse. Essi sottilmente confondono l’unità delle masse organizzate con la benevola neutralità verso di loro, col disarmo dell’opposizione all’attuale maggioranza confederale da loro diretta. Noi, all’opposto, vediamo nell’unità organizzativa delle masse sindacate la condizione indispensabile per menare felicemente a termine la campagna contro l’opportunismo annidato nel movimento proletario, e che pretende di parlare in nome del proletariato, mentre fa un’opera che solo avvantaggia la borghesia.

Noi quindi esortiamo ancora gli organizzati, che sono in organismi estranei alla Confederazione, a vincere le esitazioni. Non si tratta di andare verso gli opportunisti, di accogliere un loro invito impegnandosi a risparmiarli, ma di accettare dal Partito comunista e dall’Internazionale di Mosca la proposta di adottare un metodo tattico che vuole servire e servirà a smontare spietatamente la dittatura dei controrivoluzionari e degli opportunisti sulle masse sindacate.

Certo, dopo che questo nostro appello e tutta l’opera nostra avranno – e noi ardentemente lo auguriamo – convinto i lavoratori a cui ci rivolgiamo, non pochi altri problemi ed ostacoli si presenteranno, per giungere alla sistemazione del movimento sindacale italiano, in relazione naturalmente a quello internazionale, nel senso da noi auspicato.

Noi confidiamo però che non si tratterà di problemi insolubili e di ostacoli insormontabili, purché vi si ponga della buona volontà, della chiarezza, della sincerità. Noi confidiamo che la nostra parola non cadrà nel vuoto, che della questione come noi la tratteggiamo si occuperanno le assemblee proletarie, tutti gli organismi che raggruppano i lavoratori d’ogni categoria, che ognuno porterà il suo contributo perché i punti più difficili del lavoro da compiere siano felicemente superati. Chi questo avrà fatto, avrà fatto il suo dovere verso la causa della rivoluzione proletaria.

Il Partito comunista attende con interesse l’esito di questa sua iniziativa, esso impegna al suo successo tutte le energie di cui dispone; l’attività di tutti i suoi aderenti, e sopratutto degli organizzati, degli organizzatori, delle organizzazioni, che sono sulle direttive del Partito, tanto nel seno della Confederazione che degli altri organismi sindacali. Il Partito comunista d’Italia saluta con entusiasmo tutti i lavoratori rivoluzionari che gli verranno incontro in questa sua opera fondamentale per la preparazione del proletariato italiano alle supreme battaglie della sua liberazione.

Compagni lavoratori organizzati!

Noi siamo sicuri che avrà presso di voi eco formidabile il nostro grido:

     Viva l’Internazionale dei Sindacati rossi ! Abbasso l’Internazionale dei gialli e dei rinnegati!
     Viva la vittoria di Mosca su Amsterdam, della rivoluzione sul tradimento opportunista!
     Viva l’unità dei lavoratori sul terreno della lotta rivoluzionaria per l’abbattimento della borghesia e il trionfo del comunismo !
     Viva l’unità delle forze proletarie italiane, che farà di esse un fascio solo, contro la dittatura dei pompieri, attorno alla bandiera della rivoluzione!

Il Comitato centrale del Partito comunista
Il Comitato sindacale del Partito comunista

 

 

 

“Il Comunista”, 7 agosto 1921
DIRETTIVE DELL’AZIONE SINDACALE DEL P.C.

1. Situazione internazionale sindacale

La sistemazione [...] nei quadri internazionali [del movimento] operaio italiano – problema a cui il partito comunista fin dal suo sorgere ha dedicato la massima attenzione – non è certo ancora raggiunta, né si può dire che abbia fatto grandi passi coi congressi nazionali della Confederazione del lavoro e del sindacato ferrovieri. Non tutti i grandi organismi proletari italiani hanno ancora preso posizione chiara dinanzi al fondamentale dilemma: Mosca o Amsterdam? In seguito ai risultati del Congresso internazionale dei sindacati rossi, si dovranno avere immancabilmente in Italia i congressi nazionali della Confederazione, dell’Unione sindacale, del Sindacato ferrovieri, e tutti questi organismi dovranno definire la loro posizione in base alle chiare basi organizzative poste a Mosca. Il Partito comunista constata che le risultanze conosciute del congresso sindacale internazionale confermano la tattica da esso adottata in materia sindacale, e compendiata nell’appello lanciato tempo addietro per l’unificazione delle organizzazioni operaie italiane. Appena sarà ritornata la sua delegazione sindacale, il Partito comunista convocherà un convegno sindacale per definire il suo lavoro circa la questione internazionale, e rivolgerà alle masse organizzate la sua parola circa l’atteggiamento da prendere nei congressi degli organismi nazionali operai.

2. L’offensiva dei dirigenti confederali contro i comunisti

Il Partito comunista deve però dire la sua parola ai lavoratori e ai suoi membri, che militano nelle organizzazioni economiche, su vari problemi importantissimi del momento attuale, riflettenti soprattutto le direttive della massima organizzazione operaia italiana: la Confederazione generale del lavoro, nella quale i comunisti formano la forte e combattiva opposizione all’indirizzo dei dirigenti.

Nella recente riunione del Consiglio direttivo della Confederazione è stato adottato un deliberato che prelude all’apertura anche in Italia di una campagna, che i dirigenti dei sindacati ancora dominati dal riformismo hanno adottata in molti altri paesi, sentendosi feriti direttamente dalla tattica sindacale dei comunisti. Mentre questi sono per l’unità sindacale e il lavoro nell’interno dei sindacati contro i capi di destra, costoro minacciano di attuare la scissione operaia escludendo i comunisti dalle organizzazioni. Il Comitato esecutivo confederale ha avuto i poteri d’attuare queste espulsioni di organizzazioni o di gruppi dall’organismo confederale.

Il chiaro obbiettivo dei mandarini della Confederazione, i quali si accorgono come la nostra offensiva faccia loro perdere terreno ogni giorno e prepari la liberazione del proletariato italiano dalla loro influenza addormentatrice, è di sabotare la formazione d’una maggioranza comunista nelle organizzazioni da loro dirette.

Il Partito comunista raccoglie in pieno la sfida lanciatagli in tal modo da coloro ch’esso ritiene i peggiori nemici della causa proletaria. Esso conferma anzitutto pienamente e incondizionatamente, anche dinanzi alla situazione creata dal deliberato confederale, la sua tattica di rimanere nella Con-federazione, e di lavorare per attrarvi tutte le organizzazioni di sinistra; e tale dichiarazione deve servire di norma a tutti i compagni, che dall’atteggiamento dei bonzi traessero l’avventata conclusione che convenga predisporsi alla scissione sindacale. I comunisti non se ne vogliono andare e non se ne andranno dalle file delle organizzazioni confederali. Essi dichiarano arbitrario ogni atto tendente ad escludere dalle file del sindacato, non chi ne violi la disciplina specifica nella lotta contro i capitalisti, ma chi nel seno di esso agiti date direttive e metodi di lotta politica proletaria. Se alcuno deve essere eliminato dalle file dell’organizzazione, è chi ne rinnega nel fatto il principio fondamentale della lotta di classe, e costui va cercato appunto tra coloro che hanno votato a Roma quel deliberato, di cui la stampa capitalista ampiamente e logicamente si è rallegrata.

Il Partito comunista dichiara che i suoi aderenti lotteranno con tutti i mezzi, nessuno escluso, contro quello che deve essere ritenuto un atto arbitrario ed un tentativo di sopraffazione, cioè contro lo sfratto anche di un solo comunista dalle file dell’organizzazione dei suoi compagni di lavoro.

Ogni tentativo in questo senso venga dai nostri compagni – evitando ogni possibile fatto compiuto che possa stabilirsi nel senso delle imposizioni dei dirigenti confederali, come consegne di qualsiasi genere, rinunzia ai diritti sociali, ecc. – comunicato di urgenza al Comitato sindacale comunista locale e centrale, che darà le particolari disposizioni del caso. Restino intanto stabilite queste poche fondamentali direttive pratiche.

Se l’espulso è un organizzato, tutti gli organizzati comunisti lo sosterranno, esigendo che l’espulsione si discuta nell’assemblea della Lega e boicottando ogni adunanza da cui lo si voglia escludere, con tutti i mezzi possibili.

Se l’espulso è un organizzatore, sia esso funzionario locale o delle Federazioni nazionali, i compagni organizzati chiederanno il pronunziato dell’organizzazione locale, proporranno che l’organizzatore venga riconfermato ed in caso estremo adotteranno il boicottaggio, in tutte le forme, del suo sostituto.

Se si volesse escludere un’intiera organizzazione locale, essa si rifiuterà con tutti i mezzi di evacuare i locali sociali, e con l’appoggio delle altre organizzazioni comuniste interverrà a tutte le riunioni e congressi a cui ha diritto di rappresentanza, sotto pena di boicottaggio in tutte le forme dello svolgimento di dette adunanze.

Ulteriori misure potranno essere caso per caso indicate dai Comitati sindacali comunisti. La massima pubblicità sarà data dalla stampa del partito agli episodi di questa lotta, additando al disprezzo dei lavoratori coscienti le gesta reazionarie dei capi sindacali su questo terreno.

3. La politica di “pacificazione” dei dirigenti confederali

I comunisti restano nella Confederazione, e vi restano per esercitare a fondo la loro funzione di spietata critica alla politica dei dirigenti. Nessuna occasione deve essere trascurata per invitare le masse a disapprovare le trattative e gli accordi coi fascisti, che per i comunisti hanno valore di tradimento della causa proletaria. Dovunque gli organizzati e organizzatori comunisti dichiareranno e spiegheranno chiaramente che la Confederazione del lavoro non può e non deve disciplinarmente impegnare i suoi iscritti a direttive d’ordine politico, che potrebbero risultare dalle sue intese con coloro che finora hanno impunemente posto a sacco le sedi proletarie. Se la Confederazione è “alleata” al partito socialista, lasci a quest’ultimo la cura di dirigere in questo campo l’attività di quegli organizzati che sono iscritti o simpatizzanti socialisti. In realtà i dirigenti confederali, che nell’ultima loro riunione si sono espressamente occupati perfino della politica parlamentare, sono divenuti i dittatori dello stesso partito socialista, che stanno trasformando in un partito laburista legato alla loro politica di collaborazione e di corporativismo. I comunisti, che restano nella Confederazione, vi stanno per spezzare questa politica rovinosa e per liberare le masse da questa dittatura controrivoluzionaria, lavorando alla penetrazione dello spirito comunista nei sindacati. Malgrado gli atteggiamenti dei dirigenti confederali, i comunisti contano sull’ausilio dei lavoratori organizzati nella lotta aperta contro le bande della reazione. Questa parola dev’essere portata in tutte le adunanze proletarie.

4. Crisi economica e disoccupazione

Una direttiva unica deve essere data alla propaganda ed all’azione dei comunisti in questo campo. La critica più aspra dev’essere opposta all’indirizzo sancito in materia dagli organi confederali, e dev’essere denunziata la loro acquiescenza alle imposizioni dei capitalisti. La chiusura delle aziende, l’insufficienza delle provvidenze governative in materia di sussidi e di concessioni di lavori pubblici, l’illusione di poter ottenere più efficaci interventi dello Stato per via parlamentare e collaborazionista, come si propongono i dirigenti confederali, l’arrendevolezza di questi dinanzi all’offensiva dei padroni contro i concordati conquistati dai lavoratori, sono tutti elementi che devono essere messi da noi nella loro vera luce, spiegando che, secondo la nostra tattica rivoluzionaria, una soluzione radicale di questi problemi non esiste che nella conquista del potere da parte del proletariato, che la evidente insolubilità di essi deve essere utilizzata per condurre appunto le masse a questa convinzione ed intensificare tra esse la preparazione rivoluzionaria, mentre i riformisti, per evitare questo, illudono i lavoratori affermando che esista la possibilità di migliorare le difficoltà della crisi presente nell’ambito del regime attuale.

È importante mostrare che i dirigenti confederali, con tale politica, mentre nulla realizzano di concretamente utile alle masse, pongono la loro tesi collaborazionista e pacifista non solo al disopra dell’interesse della rivoluzione, ma anche contro gli interessi immediati dei lavoratori, rinunziando, per non turbare le loro manovre e intese politiche con gruppi borghesi, all’impiego della forza sindacale del proletariato, per la battaglia contro l’offensiva padronale, che potrebbe venire ingaggiata quando si fosse veramente decisi a spingerla a fondo, sul terreno politico. Ciò sarà possibile solo sloggiando i disfattisti dalla dirigenza delle masse proletarie organizzate; e questi argomenti devono venire impiegati per attrarre i più larghi strati dei lavoratori nella lotta contro i dirigenti confederali.

Per la questione dei disoccupati, il Partito comunista lancerà tra breve un apposito appello. Dal nostro punto di vista questa diviene una questione squisitamente politica. Si deve svolgere la critica dei palliativi che propongono i riformisti. Lo Stato borghese, cui essi si rivolgono, non può provvedere alla tragica situazione delle folle dei senza lavoro che con misure inefficaci e aventi carattere di una grama beneficenza. Dal punto di vista di classe, una sola soluzione può essere agitata, il principio della sostituzione del sussidio con la corresponsione dell’intiero salario al disoccupato legittimo in ragione del numero dei membri della sua famiglia. Questo principio, stadio elementare verso l’economia socialista, mentre è incompatibile con l’esistenza del potere borghese, sarebbe una realizzazione immediata del potere proletario, che intaccando a fondo i privilegi del capitale, stabilirebbe l’eliminazione di qualunque disparità di trattamento tra i lavoratori, sulla base dell’obbligo sociale del lavoro.

5. Tattica nelle agitazioni economiche

I riformisti son soliti ad avvalersi di un argomento specioso contro i nostri compagni che lavorano nei sindacati, quello cioè che noi non avremmo la possibilità di fare, e non faremmo in realtà, nei conflitti sindacali, nulla di praticamente diverso da essi. Bisogna rispondere che i comunisti non si sognano di negare le conquiste contingenti della lotta sindacale nel campo della contrattazione delle condizioni di lavoro, che non escludono che sia problema tattico da risolversi volta per volta quello della convenienza di accettare o meno le proposte dei padroni, di spingere ad oltranza o di arrestare ad un certo limite gli scioperi. Né i comunisti pretendono di possedere una ricetta per vincere infallibilmente le agitazioni di carattere economico. Ciò che li distingue dai riformisti e dai socialdemocratici, è la propaganda rivoluzionaria che essi traggono occasione di esplicare da ogni episodio della lotta, economica, il loro costante sforzo di creare nei lavoratori una coscienza politica e di classe. Inoltre i comunisti devono provare che il fatto che i grandi centri della rete dell’organizzazione proletaria siano in mano ad amici larvati della borghesia o ad avversari della preparazione rivoluzionaria, che considerano come il massimo pericolo l’allagarsi delle agitazioni ed il loro investire tutta la vita sociale e politica del paese, lega le mani ai lavoratori organizzati e ai loro organizzatori anche dove questi seguono le direttive comuniste. Siccome i comunisti sanno di non poter realizzare i loro scopi se le grandi masse sono ancora dominate dall’influsso dei capi sindacali, essi considerano al primo piano della loro lotta rivoluzionaria la necessità di sloggiare costoro, posizione per posizione, dalla organizzazione proletaria.

Tutta l’attività sindacale dei comunisti si basa su questa constatazione: che nell’epoca attuale di convulsionaria crisi del regime borghese non è più sufficiente la semplice attività tradizionale dei sindacati, che vedono la loro azione divenire sempre più difficile man mano che la crisi si inasprisce. Per affrontare i problemi della vita quotidiana operaia, occorre poter controllare nel suo insieme il funzionamento della macchina economica, per concretare le misure che possono combattere le conseguenze del suo dissesto. È illusorio che l’attuale sistema politico porga al proletariato il mezzo di esercitare una qualsiasi influenza sull’andamento di questi fenomeni, da cui pur dipendono le sue sorti e le sue condizioni di esistenza; e tutti i problemi si riducono a quello unico di sostituirsi, con un grande sforzo rivoluzionario di tutto il proletariato, alla classe dei suoi sfruttatori, che, detenendo il potere, impediscono qualunque mitigazione delle dolorose conseguenze del capitalismo, in quanto impediscono ogni limitazione dei privilegi dei capitalisti.

I sindacati devono quindi divenire le falangi dell’esercito rivoluzionario, imbevendosi dello spirito politico comunista, e lottare, inquadrati dal partito di classe, per la conquista del potere, per la realizzazione della dittatura proletaria.

Il Comitato Esecutivo
Il Comitato Sindacale

 

 

 

“Il Comunista”, 14 agosto 1921
CIRCA L’UFFICIO CONFEDERALE DI LEGISLAZIONE SOCIALE

Poiché l’ufficio, che la Confederazione generale del lavoro ha istituito per lo studio e la discussione dei problemi inerenti alla legislazione sociale, ha carattere di organo sindacale consultivo interno, le Federazioni e le Camere del lavoro dirette da comunisti possono e devono parteciparvi, designando il loro rappresentante.

I compagni comunisti componenti del detto organismo regoleranno collettivamente la loro linea di condotta secondo le direttive del Partito in materia, quali esse furono anche portate alla discussione del Congresso confederale di Livorno.

Essenzialmente i comunisti sosterranno che i Sindacati non devono addivenire a compromessi di collaborazione con gli organi dello Stato con l’obbiettivo di ottenere provvedimenti protettivi della classe operaia, la quale non può conseguire i suoi postulati che attraverso una lotta fuori e contro l’apparecchio statale borghese, per giungere all’abbattimento di questo.

Il Comitato esecutivo
Il Comitato sindacale

 

 

 

“Il Comunista”, 21 agosto 1921
RAPPORTI CON ALTRI PARTITI E ORGANISMI SINDACALI

Nella molteplicità delle situazioni locali, che scaturiscono da questo agitato periodo, non sempre i compagni seguono la giusta via d’applicazione delle direttive tattiche che l’Esecutivo si preoccupa di tracciare all’azione del partito. Riteniamo quindi necessari i chiarimenti che seguono.

Non si deve accedere a comitati ed iniziative, a cui partecipino vari partiti politici, come quelli che spesso vengono annunziati con comunicati elencanti le rappresentanze dei vari organismi, con manifesti firmati dai vari organismi, con manifesti firmati dai vari partiti, e simili, senza avere preventiva autorizzazione dell’Esecutivo.

Per determinate iniziative, che non abbiano carattere strettamente e specificamente limitato al Partito comunista, l’Esecutivo ha comunicato ed eventualmente comunicherà che l’azione viene demandata agli organi sindacali, nei quali s’incontrano lavoratori di tutti i partiti. In tal caso i comitati devono essere composti da rappresentanze sindacali, sia degli organismi confederali che, se ne è il caso, degli organismi dell’Unione sindacale, ed il Partito comunista non deve figurare né inviare rappresentanze politiche, partecipando indirettamente attraverso i suoi membri che militano nei sindacati: quindi le Sezioni comuniste non delegheranno rappresentanti né firmeranno manifesti, né appariranno come iniziatrici di comizi ecc., lasciando tutto ciò agli organi sindacali, tanto se diretti dal nostro partito che nel caso opposto. Questo è il criterio che si è adottato, ad esempio, per l’assistenza alle vittime politiche, e per il soccorso alla Russia.

In altri campi, in cui si ravvisa la specifica funzione politica del partito, non è dato né costituire comitati misti, né demandare il movimento agli organi sindacali; ciò vale, ad esempio, e sopratutto, per l’inquadramento militare.

Ogni deroga da queste norme, a cui non si vuole dare un valore assoluto di principio, è di esclusiva spettanza dell’Esecutivo. Ci auguriamo che i compagni si attengano d’ora innanzi strettamente a quanto sopra.

Il C.E. del P.C.I.

 

 

 

“Ordine Nuovo”, 10 settembre 1921
LA TATTICA SINDACALE COMUNISTA

Il convegno sindacale comunista, riunito con la rappresentanza dell’Esecutivo del Partito, udita la relazione della delegazione al Congresso internazionale dei sindacati rossi; dopo adeguata discussione sulla situazione internazionale degli organismi sindacali italiani e sul problema dell’unità proletaria; facendo integralmente propria la piattaforma della Internazionale comunista; constata con compiacimento che le decisioni del Congresso di Mosca confermano in tutto e per tutto le direttive di azione sindacale dei comunisti italiani già indicate, dinnanzi ai vari problemi, dal Comitato esecutivo e dal Comitato sindacale, e che si concretano nei caposaldi seguenti:
     1. I comunisti lavorano nell’interno della C.G.d.L. contro l’indirizzo e l’influenza degli attuali dirigenti socialdemocratici per ottenere l’adesione all’Internazionale sindacale rossa;
     2. I comunisti si prefiggono come loro principale obbiettivo sindacale il raggiungimento dell’unità di tutte le organizzazioni economiche del proletariato italiano, e s’impegnano a fiancheggiare tutta l’opera che svolgerà in questo senso l’Esecutivo dell’Internazionale sindacale rossa, sulla base del principio fondamentale di tendere all’unificazione di tutte le forze proletarie nella più potente centrale sindacale, tanto se questa aderisce o non aderisce a Mosca;
     3. I comunisti che militano nella U.S.I., organismo aderente all’Internazionale sindacale rossa, restino nei suoi ranghi e non svolgano opera per il passaggio dei singoli sindacati alla Confederazione del lavoro, ma appoggino con tutte le loro forze l’unificazione dell’U.S.I. con la C.G.d.L.;
     4. D’altra parte i comunisti militanti nell’U.S.I. non possono svolgere opera per il passaggio dei singoli sindacati dalla Confederazione all’U.S.I.;
     5. Se gli sforzi dei comunisti e della I.S.R. per l’unificazione proletaria in Italia non raggiungessero il loro scopo, la posizione dei comunisti rispetto alla U.S.I. dipenderà dalle decisioni dell’I.S.R.;
     6. Nel Sindacato ferrovieri italiani e in altri sindacati autonomi i comunisti sostenga­no l’adesione alla I.S.R. e la unificazione con la massima organizzazione proletaria italiana.

Il convegno fa voti che gli sforzi concordi di tutti gli elementi veramente rivoluzionari conducano alla realizzazione dell’unità sindacale dei lavoratori italiani, base indispensabile per lo sviluppo rivoluzionario della lotta per il comunismo.