Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
.
"Il Partito Comunista" - n° 288 - dicembre 2001 - [.pdf]

PAGINA 1 – Militarismo in panni democratici ambiente ottimale per il Capitale.
                  – Da mercato a guerra globale.
                  – Il Muro di Gerusalemme.
                  – Uno sciopero è ...uno sciopero
PAGINA 2ALGERIA, IERI E OGGI - 7. L’insurrezione algerina,
                       rivoluzione tradita del proletariato agricolo e dei fellah (1954-1962)
                  – Enzo Armini
PAGINA 3 – Il fallimento della Sabena e la crisi sociale nel Belgio
                  – Ottimi affari con gli Stati-canaglia.
                  – Il Capitale non ha ideologia.
PAGINA 4Metalmeccanici: Dietro le false divisioni fra i sindacati un altro contratto-batosta
                  – Immigrati e autoctoni nella forza lavoro dei braccianti
                  – I tranvieri di Lione in sciopero contro le 11 ore di lavoro
                  – Ancora un incidente mortale nel porto di Taranto
                  – Risparmio totale alla Railtrack !
 
 
 



PAGINA 1

Militarismo in panni democratici
ambiente ottimale per il Capitale
 

La guerra è intrinseca alla fase suprema del capitalismo, nelle forme di guerra tra Stati e tra alleanze di Stati.

Dopo circa un decennio nel quale, di fatto, gli Usa hanno svolto il compito di “polizia internazionale” senza che altri Stati o alleanze di Stati abbiano potuto contrastarla, oggi, sotto il peso d’una possibile recessione economica, segnalata da tempo dai nostri studi, la potenza americana si trova nella condizione di far fronte alla bisogna sia sul piano economico sia militare. Un potente riarmo (vedi scudo spaziale) metterebbe in movimento le grandi industrie belliche, compreso il grande e decantato indotto tecnologico/telematico.

Si è assistito, nel corso dei dieci anni, a guerre in cui è stata messa alla prova la “fedeltà all’atlantismo”, che hanno rivelato crepe, ma non tali da proporsi come opposizione allo strapotere Usa. La crisi determinata dall’attacco terroristico, al di là delle responsabilità specifiche, si va manifestando come l’occasione per mettere allo scoperto amici, quasi amici, e nemici dichiarati.

L’Europa gioca ancora le sue carte, che vedono i diversi Stati incapaci d’una azione comune. Le vecchie politiche, la tendenza a sottolineare la propria autonomia, come per la Francia o la Gran Bretagna, sono dure a morire. Ma le “crepe” ci sono; si tratta di studiare, stando ai fatti, come potranno diventare importanti. Le grandi potenze, o meglio ex come la Russia, non si possono permettere di opporsi chiaramente al gendarme. Così la Cina, che non può uscire allo scoperto da potenza regionale asiatica, da sempre autosufficiente. La reazione alla crisi denota infatti grande accortezza e doppiezza di atteggiamenti.

Il grande parlare che si fa di Stati islamici moderati o radicali, indica che lo stesso Islam, al di là dei ricatti petroliferi, e del radicalismo di certi fondamentalismi, può al massimo innervosire, come sta facendo, il grande Occidente. La tattica “terroristica”, mentre è capace di seminare terrore, appunto, è indice di mancanza di strategia a lungo termine. Inoltre è anche strumento di arruolamento di massa di diseredati, frastornati, ben più che nel corrotto Occidente, e suscettibili di riporre speranze nei movimenti a base religiosa. Carta geo-storica alla mano, si tratta di vedere come si vanno ridisegnando aree economicamente omogenee, con alleanze efficaci.

Il crollo dell’Urss, da noi sempre auspicato, non è stato meccanicamente sufficiente a rimettere in moto il movimento di classe. Anzi, sull’immediato, comporta, e lo stiamo vedendo, la presa di borghesie e di vecchi gruppi dirigenti che insieme svolgono la funzione di minacciare e scoraggiare ogni azione di ricostruzione del movimento di classe. Nel frattempo, sul terreno militare, sempre più le azioni sia terroristiche sia anti-terroristiche, falcidiano le cosiddette “forze sociali”, in particolare terrorizzano i più deboli ed impressionabili. Il fatto che la guerra imperialistica si confermi sempre più guerra sociale non ha bisogno di dimostrazione.

Gli Stati, in questo contesto, hanno buon gioco a mettere in campo forze speciali, professionali, mercenari, come si diceva al tempo di Machiavelli. Certamente una risorsa che, oltre all’addestramento specialistico, impedisce che sul terreno vengano schierati soldati tradizionali, di cui non sempre è il caso di fidarsi. Questo schema ha però i suoi difetti, in quanto, se lo scopo della guerra è il massacro di proletari, l’uso di professionisti non funziona più come avveniva per la Prima e la Seconda guerra generalizzata. Stiamo allora attenti alle operazioni di “polizia internazionale”, che sono distinte dalla guerra in senso classico. Tutte le guerre del Novecento hanno avuto un nome, una mascheratura, particolare: ora siamo a quella anti-terroristica. È evidente che va spiegata e non confusa con altre forme. Tutte però rientrano, in regime capitalistico, nello schema per il quale la pace e la guerra coesistono, essendo ciascuna il prolungamento dell’altra.

Semmai c’è da dire che questo tipo di prolungamenti è andato infittendosi negli ultimi tempi: la guerra sociale da noi sempre sottolineata, anche quando è stata gabellata per pace sociale da chi di dovere, oggi è sotto gli occhi di tutti.

Sennonché la logica di essa continua, inevitabilmente, ad essere diversamente interpretata. Per la borghesia, le sue istituzioni statali e sovrastatali, appare sempre più, per ragioni di camuffamento ideologico, come guerra culturale, di civiltà e perfino di religione. Per noi è, come sempre, di classe.

Il modo col quale i diversi piani di questa secolare guerra si vanno intrecciando, complicando, per far fronte al dato fondamentale della crisi strutturale dell’imperialismo mondiale, deve essere oggetto di attente rilevazioni, sia sul piano delle forme sia in senso quantitativo, e cioè misurato anche statisticamente, in termini di stato delle economie, della corsa agli armamenti, del progredire delle industrie legate direttamente alla guerra.

Il fatto che la natura sociale dello scontro ormai non potrà più essere negata, non impedirà che la borghesia possa e debba orchestrare giustificazioni credibili, capaci di far breccia su una piccola borghesia terrorizzata, e su un proletariato aristocratico suscettibile d’essere incastrato dalla sirena del nazionalismo, del razzismo, delle xenofobie e simili.

Poiché, come ricorda Lenin in “Imperialismo fase suprema del capitalismo”, l’imperialismo stesso è l’espressione della crescita del capitale monopolistico e della funzione del capitale finanziario alla scala planetaria, si tratta di approfondire secondo quali forme attuali, vecchie, ma fenomenologicamente nuove, il capitale delle piccole imprese, che sempre rinascono come fungaie intorno al grande capitale, si difende, inventando forme di localismo, di nuovo fascismo, mentre il grande capitale, in nome del cosmopolitismo e dell’universalismo, stringe tutto nella sua necessità sia di offesa sia di difesa. Il macello delle mezze classi è sotto i nostri occhi. Ma quello del proletariato nessuno osa vederlo, perché potrà e dovrà assumere di nuovo i contorni della minaccia rivoluzionaria mondiale, ben più grave del pur deleterio terrorismo.

Non solo: il fenomeno terrorismo, che naturalmente non è sorto per caso, dà il destro agli Stati capitalisti di riarmarsi e di militarizzare ulteriormente le loro strutture, dopo che, per circa un decennio, una certa borghesia liberal si era sbilanciata fino a teorizzare, specie proprio in Usa, lo Stato minimo, e perfino l’anarco-capitalismo, che ha sostenuto la liberazione dall’apparato statale. Noi, notoriamente non abbiamo mai abboccato a tale utopia, ed abbiamo sempre sostenuto che liberismo e protezionismo non sono che facce dell’unica medaglia, utili entrambe al mantenimento dello status quo.

Mentre allora il terrorismo dispiega le sue minacce, distraendo una certa fetta del proletariato dai suoi compiti irrinunciabili di organizzazione e di disciplina difensiva di classe, la borghesia ha buon gioco nel prendere la palla al balzo e ingaggiare un’offensiva senza quartiere contro ogni tipo di opposizione che possa essere assimilata al terrorismo per la sua radicalità.

Essa sa bene che il Comunismo vero, quello rivoluzionario, non è addomesticabile. Per questo addita ogni opposizione alla guerra come sentimento e atto disfattista ed antipatriottico. Più la guerra diventa sociale, e tende ad attaccare ogni tentativo di costituzione di opposizione seriamente classista, più sbandiera le sue priorità e addita al pubblico disprezzo i proletari che si oppongono e si opporranno alla guerra.

Niente cambia nella nostra tattica per questo motivo. Il terrorismo si traveste in mille guise, da diavolo a giustiziere, ma il Comunismo non può farlo. E se la sua tattica appare ferma, fissa, e dunque prevedibile, ciò non significa che non sia efficiente. Il programma va gridato dai tetti, non c’è nulla da nascondere al nemico; tranne, nei momenti decisivi, l’esigenza di salvaguardare l’organizzazione dai colpi nemici. Tutto naturalmente dipende dal grado di intensità che raggiunge o raggiungerà la preparazione rivoluzionaria.

Nelle fasi imperialistiche del capitalismo, nella nostra versione, l’economia è segnata dalla preparazione alla guerra, sempre, anche quando sembra che la preoccupazione degli Stati sia quella di garantire il burro, invece dei cannoni. Certo, relativamente, quando c’è da redistribuire briciole che addormentino la coscienza operaia, la politica del welfare sembra relegare in secondo piano la politica del warfare. Ma è solo un’impressione.

Per comprendere questo fenomeno, e non inventarsi nulla che sappia di ideologismo preconcetto, si tratta di analizzare i budget finanziari dei vari Stati. La corsa agli armamenti ha caratterizzato la guerra fredda, al punto che ci si è vantati di aver salvaguardato la pace proprio attraverso l’equilibrio del terrore. Il proletariato è stato chiamato dagli stalinisti ad assecondare questa inevitabile politica in nome della coesistenza pacifica, con la raccomandazione di mettere da parte i vecchi arnesi della lotta di classe.

Crollato il Muro di Berlino ci si è illusi e si è illuso di potersi finalmente dedicare al un welfare veramente consistente, sennonché sarebbero spuntati gli Stati canaglia da tenere a bada, fino a che gli Usa hanno annunciato la necessità di passare allo scudo spaziale.

Ciò, sia chiaro, ben prima dell’11 settembre, giorno del massacro delle Torri gemelle. Possiamo anzi dire che i primi sei mesi del nuovo quasi-presidente Bush sono stati caratterizzati da una serie di niet su tutta la linea tradizionale della politica internazionale. L’oxfordiano Ferguson conferma quanto stiamo dicendo: «il budget americano per la difesa stava già crescendo rispetto al suo punto più basso anche prima di questa crisi. Invece nella maggior parte dei paesi europei siamo ancora alla fase precedente del trend, cioè al trasferimento di risorse dalla spesa militare al quella per pensioni e welfare».

Ora è da aspettarsi, dopo il massacro, che le pressioni dell’Amministrazione Bush non trovino ostacoli interni consistenti alla allocazione di risorse per la guerra. Industriali legati all’apparato militare hanno dichiarato di essere pronti a fare tutto lo sforzo necessario per far fronte “ad anni e anni di guerra”. In un certo senso provvidenziale il massacro, allora?

Al di là delle tragedie, non c’è il minimo dubbio. Passata la tempesta, il Capitale non tarderà a rimarcare ed imporre le sue necessità proprio come è successo dopo ogni grande guerra distruttiva. Non lo diciamo solo noi ma, a suo tempo, Schumpeter, a proposito della distruzione creativa intrinseca all’economia!

I venti di guerra non sono più il frutto della nostra mente malata e del catastrofismo di cui saremmo affetti. Ormai si ammette che tutto è cambiato con l’11 settembre! Si ha sempre bisogno d’una data per giustificare un cambiamento di vita e di approccio all’esperienza, specie quando si fa sempre più cupa: ciò che impressiona e conferma è però l’ammissione che la presente guerra «è mondiale», nel senso che «ha per teatro il mondo, ed ai civili non risparmierà i danni d’ogni genere di armi» (G.Alvi, “Corriere Economia”, ottobre 2001). La nostra posizione di sempre è nota: in regime capitalistico la guerra è per sua natura sociale, e colpisce i civili non tanto o solo quando la guerra si fa guerreggiata in modo caldo e cruento, ma, per chi la sa vedere, tutti i giorni, anche il giorno stesso in cui le potenze capitalistiche siglano le loro paci solenni, oppure promettono che i massacri “non ci saranno mai più”, come hanno reiteratamente detto più in un secolo di storia.

I civili proletari sono giornalmente sottoposti alla estrazione di plusvalore, allo stesso modo in cui sistematicamente si fanno scorte di sangue nei centri ematologici. Per definizione nostra, Dracula non si sveglia solo di notte, nelle sue macabre escursioni, ma è in azione anche di giorno, nei posti di lavoro più o meno sicuri, nelle fabbriche, nei cantieri in cui si muore più che in guerra. La guerra sociale ha raggiunto ormai, per ammissione di tutti, il suo acme, al punto che i civili sono meno al sicuro dei combattenti sui teatri di guerra, come il massacro di New York ha dimostrato. Se ancora durante la Prima guerra mondiale i proletari e i contadini venivano gettati letteralmente sul fronte, oggi il loro fronte è nei posti di lavoro. Solo apparenti paradossi, quasi incredibili se paragonati agli albori del modo di produzione capitalistico, allorché Federico II di Prussia assegnava esclusivamente ai suoi eserciti la funzione della guerra. Ci sarà pure una ragione perché paradossi di questo genere siano diventati moneta corrente. La ragione sta in un sistema di vita perverso, quello capitalistico-borghese che non nega più come l’arena della competizione abbracci tutti i campi, sia quelli in cui si produce, sia quelli in cui ci si diverte, sia dove ci si dedica alla difesa in senso professionale.

Ormai la distinzione che appassionava ancora i rivoluzionari francesi, nel 1789, tra bourgeois, addetto e dedito alle attività economiche ed il citoyen, dedicato a quelle pubbliche e politiche, è ampiamente saltata. Tutti civili e tutti militari, questa sembra la parola d’ordine mobilitante, che noi abbiamo da lungo tempo preconizzato, come la condizione naturale del modo di vita capitalistico.

Naturalmente non abbiamo nulla da obbiettare in senso moralistico; e la descrizione che andiamo facendo non ha più il sapore della provocazione. Corriamo anzi il rischio che appaia datata: se non fosse che la guerra accelererà questo processo, con grandi dolori e decisioni da prendere.

In mancanza della riorganizzazione sul suo terreno della classe, questa guerra, come le altre, servirà per nuove accelerazioni e accumulazioni future. Continua Alvi: «le guerre mutano il quadro, accelerano comunque il declino di alcuni e il predominio di altri». A cosa mirano gli Stati imperialisti di oggi con la guerra che di fatto hanno messo in cantiere, dopo l’attentato? A precisare e determinare i termini della dominazione in modo da ritagliarsi il campo d’azione e di effettivo controllo.

Con quel poco di onestà che certi studiosi riescono a salvaguardare nell’attuale giungla “scientifica”, lo stesso Alvi ha però il coraggio di sottolineare in che consista la necessità della guerra per i paesi imperialisti: a proposito degli Usa riconosce infatti che «l’espansione degli Usa nel quinquennio 1939/44 fu impressionante... fu la guerra l’ambiente ideale per rendere efficaci le misure che Keynes sapeva identiche a quelle dei mercantilisti, ai vecchi teorici dell’economia chiusa e di guerra. Per essi contava l’occupazione e accumulare oro, come avvenne. Il successo americano non dipese dall’incremento dello stock di Capitale... fu l’aumento del tasso di attività generale degli orari, indotti non da investimenti privati, ma dal moltiplicatore pubblico, a fare il miracolo». Nel nostro più esplicito linguaggio: durante la guerra l’estrazione di plusvalore e l’intervento dello Stato produssero il miracolo. La guerra mobilita non soltanto i militari, ma preme sull’apparato produttivo, con tutte la forza dello Stato... democratico.

Oggi così potremo assistere all’ulteriore paradosso: la guerra richiede un nuovo New Deal, questa volta interpretato da liberisti repubblicani! Ma che cosa significano tante sottigliezze... L’importante è che il tasso di profitto, miserevolmente insoddisfacente, si muova. Distruggere per produrre: questa è la norma del Capitale. Al di là di tutti i pianti, le lacrime, il sangue.

Si rendono conto di questo i proletari americani e non? Bisognerà che se ne rendano conto, perché è su di loro che graverà e Guerra e produzione.

Non abbiamo da far leva su nessun “antiamericanismo”, tipico degli staliniani, che con questa risorsa sono campati decenni. Noi non dimentichiamo la decisione di spostare la sede dell’Internazionale a New York, da parte di Marx e compagni, altro che antiamericanismo! E se la classe operaia si è dimostrata nel tempo nazionalista e legata alle fortune del proprio padrone, rimane classe operaia che prova e proverà i morsi della forza anonima a cui è legata mani e piedi.

Questa è la nostra posizione, altro che il canaio che si va facendo a proposito di tifo pro o contro una nazione, pro o contro una civiltà contro un’altra. Ormai, in questa fase, l’unica inciviltà è quella del capitalismo mondiale.
 
 
 
 



Da Mercato a Guerra globale

La fase attuale, e per il materialismo dialettico l’espressione non ha il ristretto significato di qui ed ora, pone una domanda cardine al Partito, e in senso più ampio all’umanità intera: se essa sia o meno l’antesignana immediata dello scontro generale tra gli imperialismi o, meno immediata, l’ennesima crisi di risistemazione di zone di influenza, nella quale l’imperialismo più forte, quello statunitense, riuscirà alla fine ancora una volta a disciplinare il resto del mondo borghese, come lo è stato per la crisi dei Balcani, per l’interminabile agonia della Palestina, per la guerra del Golfo.

L’accelerazione che si è manifestata nel dispiegarsi delle tante crisi che scuotono il mondo del capitalismo, il diminuire degli intervalli di ripresa e di relativa pace militare, la recessione che minaccia Europa e Stati Uniti, e si dispiega in Giappone e nelle economie dell’estremo oriente, forniscono indicazioni che danno per sempre più vicino uno scontro bellico generalizzato. Poco importa se per ora, almeno sul piano produttivo e militare, la forza degli Stati Uniti non sembra poter essere messa in discussione. Un decennio, nel mondo attuale, consente il ribaltamento completo di situazioni che agli studiosi borghesi ed ai teorici della politica paiono assolutamente stabili.

Può essere indicativo riferirsi solo ad un semestre fa. Solo ad inizio anno, nessuno fingeva dubitare del nuovo verbo della globalizzazione, che aveva affossato le vecchie concezioni, la vecchia politica, la passata economia e finanza ed avrebbe dovuto far piazza pulita di errori ed orrori del passato. I sicofanti del capitalismo se l’erano inventato per dare una parvenza di novità teorica alla diffusione planetaria dei mercati e ne avevano lodato le magnifiche sorti e progressive, insieme alle nuove sfide che attendevano l’umanità e promettevano un futuro di speranza e sicurezza. Anche se, nei fatti, la dinamica della concorrenza tra imperialismi, la crescente massa della miseria alla scala mondiale, abbinata alla crescita mostruosa di profitti nelle metropoli, ne dimostrava l’assoluta falsità, la natura propagandistica.

Ma è bastato poco perché i tranquilli telespettatori dei massacri dell’Iraq e dei Balcani si sentissero minacciati di esser trasformati in interpreti diretti, ed agli studiosi per dichiarare che questo modello tanto pieno di ottimismo non si attagliava più alla realtà. L’utopia è andata in crisi non appena la parola recessione è entrata davvero a far parte del lessico quotidiano dell’economia, da quando il colosso imperialista ha reagito con una guerra brutale al feroce attacco terroristico, ed ha sospeso le sue pretese garanzie legali all’interno, arrogandosi il diritto di portare la sua legge dovunque gli paresse opportuno; da quando infine la guerra rischia di ampliarsi dal tormentato e disperato Afghanistan ad altri più ampi teatri.

Oggi viene tranquillamente affermato, senza smentita alcuna che «... la campagna afgana è solo il primo atto... l’inizio di un periodo di turbolenza mondiale, necessario e rivolto a realizzare un ordine internazionale più giusto». E si aggiunge che l’obbiettivo di sradicare questo cancro della civile convivenza è lontanissimo dall’esser raggiunto, e quindi la guerra deve continuare, dovunque abbia le sue radici o anche soltanto dove si presume che le abbia.

Questa è l’ideologica tesi estrema, così come nella feroce semplificazione la propugna nella sua durezza e brutalità l’imperialismo più forte all’attacco del resto del mondo.

Mancando sulla scena la prospettiva della Rivoluzione, il perno su cui torna a ruotare il futuro è la Guerra; compagna inseparabile del Mercato che, dopo di lui, minaccia ora di diventare anch’essa globale. Altrove sulla nostra stampa si leggerà il vero sostrato della necessità per l’ordine imperialistico della guerra.

Pur rigorosamente accomunati nella liturgia della Guerra Santa contro il Terrorismo, anche i teorici borghesi chiariscono, senza giri di parole, condizioni, motivi, scenari. Dal controllo dell’approvvigionamento del petrolio nell’area, al gigantesco scontro a tre USA-Cina-Russia. Non mancano critiche che spieghino la loro parte di verità, mostrando che l’unanimità sulla lotta al terrorismo è una bufala a puro uso e consumo delle folle teledipendenti, laddove ogni Stato che a parole aderisce a questo comune intento, l’interpreta poi a suo specifico uso e consumo.

I nomi che a tutti vengono primi, quelli di Cina e Russia, e poi Israele. L’incerta e debole Europa, nano politico che non ha ancora deciso da quale parte stare, nelle sue componenti oscilla tra dichiarazioni di adesione convinta e una serie di distinguo. Tutti attendono di vedere come la dinamica delle immani forze in corso indirizzerà il processo economico e bellico in atto, per decidere quindi da che parte schierarsi.

Ballano le parole abusate; terrorismo, fondamentalismo, nazionalismi, odi e pulizia etnica; si preparano gli Stati a produrre il giusto clima per un possibile futuro di fronti in lotta. E intanto gli Stati si attrezzano, sul piano interno, a rendere pronti e funzionali gli strumenti per strozzare sul nascere ogni possibile risorgere di un fronte unito di classe.

Su questo duro e difficile crinale cammina il futuro dell’umanità lavoratrice. Anche se spostata di qualche decennio rispetto a quando la prospettammo, l’alternativa rimane la solita: o Guerra o Rivoluzione.
 
 
 
 


Il Muro di Gerusalemme

Il fallimento delle trattative tra Arafat e Barak sotto l’egida statunitense, nel luglio del 2000, ebbe il significato di una dichiarazione di guerra. Arafat è stato spesso accusato di massimalismo per non avere accettato le “generose” proposte di Barak. Ma l’accordo, oltre a non prevedere alcuna possibilità di ritorno per i quattro milioni di profughi, non contemplava lo smantellamento delle colonie israeliane in territorio palestinese né la cessione di Gerusalemme Est. «Né Arafat né alcun altro leader palestinese – commenta lo scrittore palestinese Jamil Hilal su “La rivista del Manifesto” – avrebbe potuto accettare una soluzione siffatta senza perdere ogni legittimità popolare, non solo fra i palestinesi ma anche fra gli arabi e i musulmani».

Restava ad Arafat, come presidente dell’Entità palestinese e soprattutto come referente politico della borghesia palestinese, il problema di tenere a bada i tre milioni di palestinesi rinchiusi nei territori, in gran parte proletari, lavoratori disoccupati, giovani che negli ultimi anni hanno visto peggiorare di continuo le loro condizioni di vita e farsi ancora più duro il regime d’occupazione.

Arafat e i suoi collaboratori, costretti oggi col cannone alla tempia, assediati nelle loro case, non hanno mancato di collaborare con Israele per cercare di porre fine ai disordini: la polizia palestinese non ha esitato a dare la caccia, ammazzare, torturare, mettere in galera gli oppositori alla linea del “pacificatore”, premio Nobel per la pace, Arafat e quando non ha potuto farlo in prima persona ha passato le liste dei “terroristi” ai servizi segreti israeliani che, con una campagna sistematica di interventi ha decapitato gran parte dei gruppi radicali palestinesi d’opposizione. Ma questo regime di terrore non è riuscito a spengere l’intifada né a fermare gli attentati-suicidi in Israele. Il nuovo capo dell’esecutivo, il generale Sharon, che aveva fatto esperienze simili al tempo della guerra in Libano quando comandò l’azione di sterminio a Sabra e Chatila, ha deciso di fare a meno della collaborazione di Arafat e contare soltanto sull’arma della repressione mettendo fine al teatrino delle trattative di pace. Né saremo noi a rammaricarci della fine di quell’inganno.

Non sembra però che la sanguinosa, coraggiosa, rivolta delle masse diseredate palestinesi riesca a trovare una direzione di classe, l’unica che ne potrebbe abbreviare il calvario.

I tragici attentati dei militanti di Hamas e della Jihad contro obbiettivi civili in Israele non contribuiscono certo ad indebolirne l’azione, al contrario servono solo a far stringere tutte le classi della società israeliana attorno al governo e all’esercito e a dare fiato all’opzione della guerra totale contro la popolazione palestinese, ritardando quella polarizzazione sociale della società israeliana che sarà la indispensabile premessa per il superamento anche del dramma palestinese.

Ugualmente le spietate ritorsioni dell’esercito d’Israele che usa carri armati, elicotteri, aerei contro obbiettivi militari e civili spingono il proletariato palestinese nel cul di sacco della rivolta nazionalista, dell’odio razziale e religioso, a tradire insomma le prospettive della propria classe.

La politica di Sharon e quella di Hamas sono complementari, ma neppure Arafat e Rabin erano estranei a questa perversa strategia antiproletaria, come dimostra la storia degli ultimi anni.

La “soluzione” del Muro di Gerusalemme, proveniente da alcuni settori della società israeliana, avrebbe di buono la denuncia dell’occupazione e la fine degli insediamenti nei Territori. La costituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza porterebbe ad un allentamento della tensione militare. Non sarebbe certo la nostra “soluzione”, né quella del proletariato di Palestina perché il nuovo, minuscolo Stato rimarrebbe un “bantustan”, una riserva di manodopera a basso prezzo per le borghesie arabe ed israeliana. Ma sarebbe il riconoscimento da parte israeliana di una dignità civile delle popolazioni autoctone e, da parte del proletariato israeliano, di una parità di classe con quello palestinese.

Ma la questione è assai più intrecciata internazionalmente, perché si addivenga ad una soluzione così semplice, anche perché ebrei e palestinesi non si accorgono che da 50 anni sono esasperati e costretti a farsi a pezzi per un conflitto di interessi che va ben oltre i sassosi campicelli di Galilea, Samaria e Giudea, in un confronto globale fra i cinici capitalismi di America, d’Europa e il mondo arabo.

Dopo gli attentati dell’11 settembre, inoltre, gli Stati Uniti sono passati all’attacco a livello mondiale per guadagnare nuove posizione nel sempre più vicino scontro interimperialistico ed è probabile che Washington spinga oggi lo Stato di Israele verso la guerra totale ai palestinesi in preparazione di un nuovo conflitto nell’area. Dove, come in Afghanistan, a crepare sarebbero, per il momento, i contendenti locali.

In questa situazione difficile i comunisti rivoluzionari non possono che indicare alle avanguardie proletarie di Palestina di tracciare una netta linea di separazione dal nazionalismo palestinese, che è reazionario e controrivoluzionario, quanto l’integralismo islamico, sia negli scopi sia nei mezzi; di non sacrificare inutilmente le loro forze in una lotta che non ha speranza di vittoria e non è la loro; di volgere le energie alla ricostituzione di organizzazioni sindacali di classe capaci di opporsi alle angherie del padronato palestinese ed israeliano; di rintracciare e ricollegarsi alla tradizione e al programma comunista rivoluzionario.

Il proletariato di Palestina deve sapere che è solo nella lotta per la sua emancipazione e che questa non è vicina; deve sapere che i suoi alleati non si trovano né nel “nuovo” imperialismo dell’Europa unita che, si mostra “democratico” per prendere il posto di quello statunitense, né nei corrotti e reazionari regimi arabi, né tra i partiti del pacifismo piccolo-borghese.

La questione palestinese, come l’altrettanto tragica questione curda, non sarà risolta perdurando questo regime di sfruttamento e di guerra; sarà la rivoluzione proletaria internazionale che cova e matura sotto le ceneri di questa società in putrefazione, ad emancipare il proletariato palestinese, come quello curdo, assieme a quello israeliano, turco, europeo. La rivoluzione, come il capitalismo, sarà globale o non sarà.
 
 
 
 


Uno sciopero è ...uno sciopero

Il governo “di destra” sta mantenendo le promesse elettorali, quelle almeno che ha fatto al padronato, e sta dandosi un gran daffare per far quello per il quale è stato messo lì: in sostanza, evitare la figuraccia ai partitacci “di sinistra”. Questo significa continuazione e approfondimento dell’attacco contro la condizione della classe lavoratrice, politica già iniziata dai precedenti governi centristi e “di sinistra”, tutti esponenti degli interessi generali della borghesia.

In questo clima di attacco contro i lavoratori, che si attua nell’abbassamento del salario, soprattutto contro i nuovi assunti, nel peggioramento delle condizioni di lavoro attraverso le assunzioni a tempo determinato e la possibilità di licenziare, nel progressivo smantellamento del sistema pensionistico, in questo clima che chiama allo scontro, i sindacati confederali, con la sinistra CGIL in testa, hanno cercato di recuperare la fiducia dei lavoratori scaricando la responsabilità di questi provvedimenti antioperai sul governo Berlusconi e dichiarandosi disposti a combatterli.

Ma la montagna ha partorito il solito topolino, dopo aver fatto grandi dichiarazioni in difesa dell’”intoccabile” art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che prevede la riassunzione del lavoratore ingiustamente licenziato, i sindacati confederali hanno proclamato due ore (due!) di sciopero articolato per richiamare il governo al rispetto dell’accordo di luglio ‘93 e per rilanciare la concertazione, in mancanza della quale solo “l’articolo 18 non si tocca”! Per il Settore del Pubblico Impiego lo sciopero, indetto per il 14 dicembre, è stato prolungato ad otto ore, anche se con modalità diverse per i vari comparti e addirittura con tre manifestazioni al chiuso, a Roma, a Milano e a Napoli con l’intervento dei tre segretari confederali Cofferati, Pezzotta, Angeletti.

L’attenzione dedicata dai confederali al Pubblico Impiego non è casuale: gli impiegati pubblici sono circa 3,6 milioni, un po’ più di un sesto del totale degli occupati; di questi circa 486.000 sono lavoratori a tempo determinato. Questi lavoratori negli ultimi anni sono stati al centro di importanti processi di ristrutturazione e di privatizzazione che spesso significano gravi riduzioni di personale, aumento dei carichi di lavoro, sostituzione di lavoratori fissi con precari, minimi aumenti salariali e legati sempre alla produttività, attacco al sistema pensionistico.

Tra questi lavoratori, certamente più che nel settore privato, sono presenti le organizzazioni sindacali “di base”, che lentamente erodono qualche posizione ai confederali, apertamente compromessi con le Amministrazioni e con lo Stato. Le recenti elezioni delle RSU hanno visto un generale avanzamento del “sindacalismo di base”, anche se la CGIL, pur perdendo posizioni, è rimasta il primo sindacato.

Le opposizioni sindacali hanno certamente possibilità di crescere in questo settore, possibilità che è però condizionata ad una corretta politica sindacale di classe, che ne osservi alcuni principi fondamentali.

Occorre mantenere il carattere di organismi sindacali, aperti a tutti i lavoratori e solo ai lavoratori. La ricerca dell’unione con movimenti politici o interclassisti come i “centri sociali” o i “no-global” è certamente negativa perché snatura la caratteristica di classe. Il tema centrale e fondamentale, in questi tempi, dell’opposizione proletaria alla guerra, ad esempio, va certamente propagandato tra i lavoratori ed è necessario che le organizzazioni sindacali di base ne facciano uno dei loro temi di mobilitazione e di lotta, ma bisogna mantenere quest’azione su un piano di classe, altrimenti si rischia di trasformare i sindacati in partitini antiglobal che, tra l’altro, già esistono numerosi, allontanando i lavoratori più coscienti e combattivi che schifano quell’ambiente interclassista e velleitario.

Bisognerebbe che gli organi dirigenti dei sindacati conducessero una politica tendente all’unione più larga dei lavoratori su loro obbiettivi comuni, rifuggendo da atteggiamenti stupidamente settari. Purtroppo su questo peccato “chi è senza peccato scagli la prima pietra”!

Esempio clamoroso ultimo: le Rappresentanze Sindacali di Base, che hanno indetto uno sciopero generale del Pubblico Impiego per il 9 novembre scorso insieme alla CUB, allo Slai Cobas e al sindacato anarchico USI, hanno giustamente stigmatizzato la non adesione dei Cobas, attirati forse dalla sirena ciggiellina. Lo sciopero, apertamente boicottato dai confederali, che vi hanno però infine aderito per tre ore, ha avuto un buon successo e così la manifestazione (anche se non quel gran risultato che, forse giustamente, si propaganda). Il 14 dicembre è stato indetto un nuovo sciopero generale del Pubblico Impiego, stavolta dai Confederali; i Cobas della Scuola hanno aderito allo sciopero organizzando una manifestazione a Roma. Le RdB invece non aderiscono, spiegando ai lavoratori che lo sciopero confederale è strumentale perché in realtà non hanno alcuna intenzione di opporsi alla modifica dell’articolo 18 né di richiedere salari adeguati per i lavoratori.

Questo è senz’altro vero, ma non si tiene conto che un’azione di lotta resta tale anche se proclamata dai Confederali e con obbiettivi erronei. Uno sciopero è... uno sciopero! È una espressione di energia della classe che precede i suoi dirigenti, che ha sue istintive e profonde motivazioni anche quando vi vengono artificialmente sovrapposte rivendicazioni spurie. Insomma, il nostro “esercito” è quello, che, con qualunque sciopero, scende in campo: si tratta di vedere da che parte viene diretto, se dai confederali certamente alla sconfitta, dai sindacati di classe, possibilmente, a non perdere.

La giusta politica sarebbe quindi stata quella di aderire allo sciopero, denunciando, sui posti di lavoro e nel corso della manifestazione, come i Confederali non facciano mai sciopero in difesa degli interessi dei lavoratori, e vi siano a volte costretti per evitare che i lavoratori si muovano autonomamente, sfuggano loro di mano, si rivolgano alle nostre organizzazioni.

La necessità di “distinguerci” è reale, purché non ci si distingua male, apparendo una sètta chiusa invece che un sindacato che vuol essere di tutti i lavoratori.

Il sindacalismo “di base”, pur essendo nato in genere dall’impegno di lavoratori combattivi, si trova stretto tra mille legacci legali e corruzioni statali, che lo attraggono all’abbraccio mortale con le istituzioni nemiche, e l’influenza dominante di partitacci opportunisti e falsi amici come Rifondazione, che si oppongono con ogni imbroglio alla rinascita di combattive organizzazioni classiste. Nell’assenza di robusti movimenti difensivi c’è da temere che queste organizzazioni possano non reggere allo scontro che si appresta. Sta alla classe operaia dimostrarsi capace, anche su questo terreno, di rispondere al tipo di attacco che la borghesia si appresta a scagliargli contro, rafforzando e impegnandosi al giusto indirizzo dei suoi indispensabili strumenti di difesa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2


ALGERIA, IERI E OGGI

7. L’INSURREZIONE ALGERINA, RIVOLUZIONE TRADITA DEL PROLETARIATO AGRICOLO E DEI FELLAH (1954-1962)
(continua: n. 286 - n.289)

1) Storia moderna del proletariato algerino

 (continua: n. 286 - n.288)

 
 
 
 
 
 
 
 
 


Enzo Armini

Era nato nel 1918, nel quartiere di San Frediano a Firenze, anni in cui il proletariato, uscito dal primo macello mondiale, tornava ad ergersi minaccioso contro la borghesia. A Firenze non mancarono grandi scontri di classe contro il padronato fino a vere battaglie armate, proprio allora e con centro in quel quartiere proletario, contro le bande fasciste, difese dai democratici carabinieri.

Da giovane Enzo fece tutti i mestieri ma la sua vita fu segnata dalla guerra e della prigionia. Partito militare a diciott’anni per il servizio di leva, lo scoppio della guerra lo sorprese sotto le armi e fu mandato in Iugoslavia. Dopo l’8 settembre, fatto prigioniero dai tedeschi, insieme a migliaia di commilitoni fu trasferito in Germania con un viaggio terribile che costò la vita a molti suoi compagni. Nella Ruhr lavorò in diverse fabbriche; di giorno vi lavoravano le operaie tedesche, di notte i prigionieri italiani. Non amava parlare di quei giorni, ma a volte gli piaceva ricordare come talvolta i prigionieri trovassero nascosto tra gli ingranaggi delle macchine un tozzo di pane lasciato dalle operaie tedesche. Una solidarietà tra proletari che lo aveva aiutato a sopportare fame e fatica e che forse cominciò a fargli capire che operai italiani, tedeschi, francesi o russi erano tutti vittime di una guerra fatta soprattutto contro di loro. Alla fine delle ostilità tornò a casa, a piedi, ridotto pelle e ossa, e come migliaia di altri reduci proletari iniziò una nuova lotta per sopravvivere alla pace.

Alla ricerca di una spiegazione per l’odissea sua e di milioni di proletari che come lui l’avevano subita, Enzo entrò in contatto con alcuni compagni, conobbe il comunismo rivoluzionario e il partito e vi si legò per la vita. Insieme a Giuliano dette vigore alla sezione fiorentina del Partito, sempre in lotta contro gli stalinisti traditori e a fianco dei piccoli nuclei operai che si opponevano allo strapotere del partito opportunista e dei sindacati di regime.

Assunto come conduttore dall’azienda tranviaria fiorentina si adoperò per lunghi anni per la resistenza dei lavoratori allo sfruttamento padronale e alla politica collaborazionista dei sindacati di regime, dando vita al giornale di partito “Il tranviere rosso”, punto di riferimento dei lavoratori più combattivi all’interno dell’azienda e fuori e precursore di alcuni anni del nostro “Spartaco-Sindacato rosso”.

Quando, negli anni Sessanta, la nostra generazione di giovani compagni arrivò al Partito, ci fu inestimabile esempio di comunista, sempre attento, sempre al suo posto e prodigo di lavoro. Tutto conosceva, apprezzava e viveva, naturalmente, come fanno i proletari, senza il bisogno di rumorosa ostentazione.

La morte della sua compagna Silvana lo aveva colpito duramente, ma era riuscito a reagire al dolore di quella perdita con l’aiuto del figlio Claudio, delle sorelle, dei compagni. Una malattia incurabile ha spezzato precocemente la sua forte fibra. Fino agli ultimi giorni ha chiesto di avere il giornale, di essere informato e non ha mancato di maledire questo infame regime di sfruttamento e di guerra.

Ci mancherai, caro Enzo.
 
 
 
 
 


PAGINA 3

Il fallimento della Sabena e la crisi sociale nel Belgio
 

    Il consenso sociale “alla belga”, alimentato dal forte intervento dello Stato nell’economia e nel fornire servizi sociali alla piccola borghesia e a buona parte del proletariato, oltre al mito del “posto sicuro” nelle categorie statali e simili – tutti caratteri, questi, comuni a molti Paesi della vecchia Europa nel secondo dopoguerra, Italia compresissima – ha sofferto un nuovo clamoroso crack col fallimento della Sabena. È cosa mai vista prima l’affondare di una compagnia “di bandiera”, uno dei simboli che gli Stati borghesi imperialisti eleggevano, un tempo, per rappresentarsi nel mondo.
    Dicono che l’attacco terroristico alle “Torri Gemelle” a New York l’11 settembre abbia dato il colpo di grazia ad un processo di dissoluzione che, però, era già in atto per la maggior parte delle aziende del settore. Sembra proprio che per il capitalismo tenere in piedi una compagnia aerea sia divenuto impresa impossibile tanto che tutte queste società sono sull’orlo della bancarotta, rimandata sempre – almeno finora – grazie alle provvidenze statali. Sono migliaia i posti di lavoro già perduti in questo settore su entrambe le sponde dell’Atlantico e si parla con insistenza che il processo di selezione del mercato non lascerà in vita nessuna delle grandi compagnie per far posto a piccole “private”, che, cioè, pagano una miseria i lavoratori e risparmiano su tutto, sicurezza e manutenzione comprese! La parola magica del Capitale e salvifica è ormai una sola: RISPARMIARE!
    Il crollo della domanda di trasporto aereo, dovuto a timori in gran parte irrazionali di pericoli bellici, suscitati dalla ingoiata propaganda militarista degli Stati, ha fatto venir meno alla società belga gli apporti della Swissair, socia per il 49.5% del capitale, a sua volta rovinata dalla crisi e non più in grado di ricapitalizzare nemmeno se stessa. Una iniezione di capitale statale, per altro avversata dalla UE, ha potuto tamponare le perdite per solo un mese. Così la Sabena, messa in liquidazione, ha licenziato quasi tutti i suoi 7.500 dipendenti, portando nel baratro gli altri lavoratori dell’indotto: una catastrofe sociale che coinvolgerebbe 13.000 proletari!
    I lavoratori della Sabena hanno reagito al destino che li attendeva con scioperi che il padronato belga ha definito “selvaggi”: sappiamo che dal 25 al 30 settembre, nel momento in cui la Swissair si defilò, i piloti hanno scioperato, ma la sensazione era quella che potesse esserci un colpo di scena dell’ultimo momento che potesse salvare la compagnia e il posto. Forse si sperava in un aiuto finanziario della Virgin Express, azienda di diritto belga ma a capitale britannico, però il patron Richard Branson ha volteggiato sulla preda come l’avvoltoio, considerandola più appetibile da morta. Il 6 novembre la Virgin pronunziava il suo “no”; quel giorno uno sciopero spontaneo nei settori catering, imbarco e bagagli blocca le attività aeroportuali a Bruxelles.
    Il giorno dopo è dichiarato il fallimento: i lavoratori spontaneamente manifestano in massa paralizzando lo scalo e scendendo in strada in città. Il governo di “sinistra”, così “antifascista” contro facili bersagli di propaganda come quei rozzi di Fini e Berlusconi, manda battaglioni di poliziotti (oltre 150 agenti, secondo “Liberation”) a fronteggiare i disperati lavoratori (veramente innocua la “catena dell’amore” attorno all’ultimo volo da Lomè). La manifestazione di domenica 11 novembre è stata sciolta quando il corteo cercava di entrare nell’aereostazione, per bloccare ancora lo scalo, ma stavolta gruppi di proletari hanno accettato lo scontro con gli sbirri.
    Il possibile rilancio dell’aviazione civile belga avverrà sulla base della DAT, la compagnia regionale scampata al fallimento, tant’è che i grandi vecchi della finanza belga stanno cominciando a tessere le loro trame di alleanze per capitalizzare una nuova compagnia, una “Air Belgium” tutta privata e certo in dimensione ridotta rispetto alla spirata Sabena. Naturalmente i posti che si verranno a creare non assorbiranno tutti quelli perduti e i salari saranno ridotti. La DAT andrebbe a disporre di 2.000-2.500 effettivi contro i 7.500 della Sabena, mentre sui salari sappiamo che uno steward con 7 anni di anzianità vi guadagna la metà (il 53%) di uno della compagnia liquidata. “Le Soir” del 13 novembre riporta che saranno solo in 1.695 a salvare l’impiego, cioè un quarto della forza lavoro.
    I nuovi disoccupati andranno a cercar fortuna in un mercato del lavoro disastrato dalla crisi: per i piloti sarà difficile trovare un nuovo impiego se non in Asia visto l’eccesso di offerta a livello nazionale (recentemente è fallita anche la City Bird, una compagnia privata) e continentale. Si pensi che una società come la irlandese Ryan Air, che a Bruxelles è di casa, concede il colloquio di lavoro a pagamento! (nuova forma di business). Per molti piloti la disoccupazione significa perdere la licenza di volo, che per mantenere la validità richiede determinate ore di navigazione annue, cioè la dequalificazione. Tra le hostess e gli steward a potersi riciclare saranno solo i più giovani: «Siamo come materiali in una discarica: i riciclabili hanno meno di 25 anni, tra i 25 e i 40 si è classificati ingombranti, sopra i 40 si è inerti...», si sfoga un’assistente di volo a “Le Soir”.
    Stessa cosa nel variegato indotto: per le maestranze della Sabena Technics sono in arrivo tra le 500 e le 700 lettere di licenziamento e per gli addetti della società Atraxis, che provvedeva ai sistemi informatici, dipendente per il 90% del suo fatturato dall’aviazione, è fin troppo chiaro il destino.
    Il piano sociale, concertato in modo triangolare da società, sindacati e Stato, prevede il prepensionamento per gli ultra 50enni e un premio di 150.000 FB lordi più una somma variabile secondo l’anzianità per coloro che alla data del 15 dicembre non siano stati ricollocati, ma ha trovato discordi parecchie decine di lavoratori e sono in molti a contestare il ruolo giocato da FGTB e CSC, visti come reggicoda del governo socialista al potere e presenti nella vertenza solo per salvare la faccia. Lo stesso sindacato autonomo dei piloti è stato escluso dal tavolo.
    I sindacati, patriottici e di regime, non danno la colpa al capitalismo ma cercano di sviare la collera proletaria contro l’immancabile terrorismo islamista, nelle speculazioni degli svizzeri imbroglioni che controllavano con un loro uomo pure la presidenza del gruppo, nella politica dell’Europa che proibisce sovvenzioni pubbliche e, ovviamente, nella rigidità dei piloti. Sono tesi riprese dal governo che stigmatizza lo sciopero di settembre, fuori dalle regolamentazioni e quindi illegale, dei piloti.
    Ma per la borghesia belga quello dei sabeniens è un nuovo indesiderato ultimo problema sociale che si aggiunge a quello delle acciaierie (le fucine di Clabecq), dell’industria dell’auto (alla Renault e all’Opel di Anversa), della Continental, della Marks&Spencer, delle poste e a tutti i focolai di crisi (e di lotte) che bruciano ed accomunano il piccolo Paese a tutto il mondo capitalista in questo scorcio di inizio secolo. La manifestazione europea indetta a Bruxelles il 13 dicembre dalla CES per “l’Europa dei lavoratori” vedrà molto attivo il sindacalismo ufficiale belga che cercherà una valvola di sfogo alle tante tensioni sociali che si stanno accumulando. In un dispaccio, il segretario della FGTB, ricordando l’ondata di crisi si limita a chiedere che la finanziaria per il 2002 rimpingui il Fonds de Fermeture, che sia avviata una politica dei redditi che colpisca quelli più alti e le rendite delle società, che si indaghi sulla responsabilità di chi ha portato al fallimento, che l’Europa non renda impossibile il salvataggio delle imprese. Insomma, il solito sindacalismo opportunista.
    In questo quadro di crisi, fino a quando lo Stato riuscirà a pagare la pace sociale con i sempre più anemici sussidi di disoccupazione e casse mutue varie? Fino a qual segno riusciranno i sindacati opportunisti a contenere la protesta proletaria? Quando si formeranno degli embrioni di sindacati ispirati da una visione classista?
    Una cosa è certa: per andare oltre lo stallo dell’inevitabile crollo dell’economia capitalista e delle sue ricette guerrafondaie l’unica soluzione è nella lotta di classe, nell’opposizione classista del proletariato, nel comunismo di cui la società civile è oramai gravida.
 
 


Ottimi affari con gli Stati-canaglia

Mentre infuriano i bombardamenti americani sull’Afghanistan, la strategia anti-terroristica dovrebbe prevedere l’estensione delle azioni punitive contro altri Stati, detti canaglia, terminologia a metà tra quella dei Padri Pellegrini e il gergo dei filmacci di Hollywood. Ma se l’imperialismo americano, pensando alla Germania e alle sue sfere di influenza balcaniche e mediorientali, ricorda ai rivali imperialisti la sua potenza distruttiva, che si abbatte ormai con cadenza ciclica su Stati come Libia, Iraq, Iugoslavia e tenta di isolarli economicamente proibendo al mondo di detenervi rapporti di qualsiasi tipo, è vero però che le Canaglie, nonostante tutto, intrattengono traffici commerciali con molti Paesi alleati degli Usa, per altro fermamente anti-terroristici, se non con le stesse compagnie americane che, aggirando i divieti patrii, agiscono con loro succursali all’estero.

Qui, senza pretendere ovviamente di esaurire l’argomento, forniamo alcune banali notizie.

SIRIA: lo Stato mediorientale, finito l’appoggio della fu Urss nel ruolo di guastatore nella regione, grande sponsor dello Stato-che-non-c’è di Palestina, nemico giurato di Israele nonché protettore e incubatore – dicono loro – di terrorismo arabo, è ottimamente inserito nei traffici commerciali internazionali, basti pensare che il suo porto di Latakia (Laodicea) è uno dei terminali delle rotte delle principali compagnie container mondiali a viaggi settimanali fissi!

IRAN: lo Stato degli ayatollah, già carceriere dell’ambasciata americana, fautore della jihad e gran nemico dell’occidente e degli Stati “materialisti” del fu Patto di Varsavia, è ottimo fornitore dell’Eni tanto che petroliere, anche battenti bandiera iraniana, riforniscono di oro nero estratto nel Caspio iranico in modo cospicuo le raffinerie di Augusta e di Taranto.

IRAQ: nonostante l’embargo e il divieto di volo su quasi tutto il suo spazio aereo e nonostante le settimanali esercitazioni di bombardamenti anglo-americane sul suo territorio, sussistono esportazioni petrolifere, autorizzate dall’ONU per fini umanitari, mentre molti Stati europei ignorano le sanzioni comandate dagli Usa commerciando di tutto. L’imperialismo italiano si fece beffe degli yankee organizzando perfino un concerto di musica pop di tal Battiato che, per esigenze “artistiche”, si fece filo-arabo, con tanto di barba.

LIBIA: in fase di sdoganamento dopo una stagione di proscrizione dovuta all’appoggio al terrorismo, combattuto dagli Usa a suon di bombe aeree. Nonostante il solito embargo americano, petroliere italiane e non, comprese quelle della flotta Eni, hanno continuato a fare la spola tra le raffinerie italiane e i terminali petroliferi libici di Ras Lanuf e Marsa el Braga. Alla fiera campionaria di Tripoli le aziende tedesche e francesi hanno lamentato il dominio del mercato libico da parte dei concorrenti italiani, massimamente siciliani, che intrattengono rapporti commerciali non da adesso e nonostante le crisi politico-militari. Ultimamente, e questo la dice tutta, una nave da guerra libica (una “simpatica” nave-scuola) è stata accolta ed ospite dell’italico porto militare di Taranto!

Con questo non intendiamo negare la canagliaggine di certi piccoli Stati, borghesi e sanguinari, ma che non lo sono di più degli Stati grandi e grossi che li accusano. Anzi questi lo sono, in proporzione alla taglia, certamente di più.
 
 


Il Capitale non ha ideologia

Siano di “destra” o di “sinistra”, siano conservatrici o “rivoluzionarie”, le ideologie che il Capitalismo suscita non sono da considerarsi una vera e propria ideologia del Capitale. La sola Idea di cui quest’ultimo abbisogna è quella dell’unico alimento che consente al suo DNA di riprodursi: il Profitto. Tutto il resto è solo un mezzo uso a quel fine.

Le varie correnti di pensiero, i movimenti politici, filosofici e religiosi, con la loro sfilza di “-ismi”, “-filo” o “-anti”, non sono altro che il portato accidentale di esigenze di frange della piccola borghesia, esprimono l’angusto punto di vista della loro particolare condizione umana, rispondono ad una certa, particolare, linea di conservazione del sistema capitalistico di produzione e vengono nobilitate dai loro adepti che vi vedono la spiegazione o il rimedio dei mali del mondo.

Ne è esempio attuale come viene imbastita la propaganda di guerra da parte delle grancasse globali tutte democraticamente sottomesse alla dittatura assoluta e alla disciplina di ferro degli Stati. Si attinge senza scrupolo di verifica e di coerenza – come il demente martellio della pubblicità ha ormai abituato colti ed incolti – ad ideologie particolari, quasi sempre fra loro in contraddizione: dal patriottismo all’umanitarismo, dal nazionalismo all’europeismo, dall’odio religioso all’ecumenismo, dal razzismo e al ricorso ai filosofemi ottantanoveschi sull’uguaglianza dei cittadini, dall’invocazione, e alla pratica, delle legge marziale al rispetto, a parole, del sacro habeas corpus... Ma a nessuna di queste si lega il Capitale. La sua propaganda le utilizza, in quanto nessuna è per la sua distruzione, a scopo di confusione fra le classi inferiori.

La borghesia non ha più una ideologia da quando non ha più nemici sul suo cammino, o meglio, ne ha uno solo, la Rivoluzione comunista, ma non lo può dire.

Nemmeno obietteremo che è il marxismo l’ideologia anticapitalistica, perché il marxismo, a rigore, non è un’ideologia. A volte si è detto che è una scienza. Meglio ancora diciamo che il marxismo è un programma reale e concreto, ed un metodo di analisi sociale, che nasce da spinte materiali di una vivente classe rivoluzionaria.

Non facile indagare come questa presenza sociale e materiale determina quando e perché i singoli militanti si schierano dalla parte di quel programma, per motivi individuali che possono essere i più diversi.

L’abbattimento dei rapporti sociali capitalistici non sarà il trionfo di un’ideologia su altre ma di una classe, ultima classe della storia, sulle classi possidenti e sulle loro fantastiche e, sinceramente, deformi e mostruose visioni del mondo.
 
 
 


PAGINA 4

Metalmeccanici - Dietro le false divisioni fra i sindacati
Un altro contratto-batosta

    I sindacati tricolore hanno confezionato sulla pelle degli operai il solito regalo per i padroni.
    Tutta la vertenza, nonostante la rottura “clamorosa” della unità sindacale e la conseguente firma dell’accordo separato da parte di FIM e UILM con Federmeccanica, non è mai uscita, ne tantomeno ha mai rischiato minimamente di farlo – considerato come è iniziata e come si è sviluppata – dai binari tracciati dalle esigenze economiche del Capitale, bestia feroce che con avidità reclama lo sfruttare sempre più intensamente il proletariato e pagargli salari sempre più bassi.
    Le capacità di mobilitarsi della classe operaia sono tuttora ad un punto minimo, il pluridecennale periodo di controrivoluzione pesa su un proletariato avvilito e confuso dal disarmante lavoro di disfattismo operato nelle sue file così a lungo dall’opportunismo sindacale e politico.
    Per di più gli operai sono privi dei più elementari strumenti necessari alla difesa delle proprie condizioni, mancano di una organizzazione sindacale di classe che persegua gli esclusivi interessi proletari e sono pertanto in balìa del pescecanismo concertativo con sua maestà il Capitale dalla triade Governo-Sindacati Tricolore-Padronato.
    La piattaforma contenente le richieste salariali per il rinnovo del secondo biennio economico del CCNL dei metalmeccanici presentata ai padroni a dicembre 2000 da FIOM-CGIL, FIM-CISL e UILM-UIL era ampiamente insufficiente ad evitare l’ulteriore perdita del potere d’acquisto dei salari operai. Le 135.000 lire di aumento medio in due anni, richieste in ossequio agli accordi concertativi anti-operai del luglio ‘93, sono infatti ben al di sotto del reale aumento del costo della vita che i proletari constatano quotidianamente. Pur includendo, oltre a 120.000 lire tra inflazione programmata e recupero della pregressa, 15.000 misere lire di aumento legato al “buon andamento del settore”, tra l’altro previsto dal famigerato accordo citato del ‘93, non rispondevano per niente alle esigenze economiche materiali del proletariato, il quale vede da vent’anni ridursi drasticamente e sistematicamente i salari reali sotto la pressione della crisi capitalistica e delle conseguenti ristrutturazioni economiche attuate, con il placet dei confederali, dallo Stato borghese.
    Nonostante la pochezza della piattaforma sindacale, la vertenza è andata per le lunghe, ed ha visto il padronato deciso più che mai a concedere quanto meno possibile, sfruttando per il suo scopo le simulate divisioni interne alle triplice.
    Così, dopo lo sciopero del 18 maggio FIM e UILM, approfittando di una riapertura del confronto con il padronato, decidono di chiudere la trattativa, accordandosi il 3 luglio per un aumento di 130.000 lire lorde. Cifra quest’ultima però comprendente 18.000 lire figuranti come anticipo del recupero del differenziale tra inflazione programmata ed inflazione reale per il primo semestre del 2001, di competenza del prossimo rinnovo contrattuale.
    La FIOM ha gridato all’imbroglio e ha deciso di rifiutare l’accordo inscenando una commedia, con il chiaro intento di rifarsi un po’ la faccia davanti ai proletari, fingendosi paladina delle esigenze dei lavoratori traditi da FIM e UILM. Come poi queste esigenze possano essere rappresentate dalla vergognosa piattaforma unitaria presentata a dicembre, tutta interna alle compatibilità del regime borghese e che la FIOM seguita a difendere, nessuno si cura di spiegarlo.
    Ovviamente non stiamo assistendo ad un impossibile cambiamento in direzione della lotta di classe della FIOM, ma semplicemente ad un’operazione di rinserramento dei ranghi dell’opportunismo sindacale, col darsi una parvenza più battagliera per poter gestire i possibili contraccolpi sociali che la crisi e le misure anti-proletarie adottate dal governo potrebbero generare, garantendo così il tricolor-sindacalismo la pace sociale al Capitale.
    Si noti che, sul piano politico, si assiste ad identica e parallela manovra da parte di Rifondazione Comunista che, non a caso, plaude e collabora all’imbroglio della FIOM. Dall’altro lato la FIOM si dà daffare ad avvalorare con il suo operato la mistificazione che siano davvero in opposizione le due bande del politicantismo borghese, di “destra” e di “sinistra”, che periodicamente si scambiano di poltrona in parlamento al solo scopo di ingannare la classe operaia.
    La prospettiva tracciata dalla FIOM è quindi tutt’altro che imperniata sulla lotta di classe, ne tanto meno potrà in quella direzione esser trascinata da alcun movimento. È al 100% interna al meccanismo della concertazione mirante a distruggere e non a costruire la resistenza classista. E soprattutto non è da farsi illudere dal canto delle sirene della sinistra sindacale, che spaccia a piene mani l’illusione di segnali in FIOM di inversione di tendenza.
    Tutto questo è falso, CGIL-CISL-UIL sono passate irreversibilmente nel campo borghese, e non sono recuperabili ad un’azione di classe, rappresentano una vera e propria gendarmeria di fabbrica al servizio dell’ordine capitalistico, mediante la quale lo Stato controlla la classe operaia e mantiene la pace sociale.
Sin dalla loro fondazione nell’immediato dopoguerra i sindacati tricolore sono stati cuciti sul modello dei sindacati fascisti, cioè corporativi, patriottici, difensori strenui dell’economia nazionale.
    La CGIL da decenni non accoglie più alcuna vera spinta difensiva operaia, nemmeno quando i lavoratori erano pronti e determinati a lottare.
    E’ in questo quadro che vanno considerati i due scioperucci proclamati separatamente dalla FIOM il 6 luglio ed il 16 novembre. Hanno certo accolto una certa volontà di mobilitarsi degli operai, per lo più giovani, ma, purtroppo, rappresentano anche la loro poca energia e totale inesperienza.
    Per la FIOM invece non rappresentano che il biglietto da visita da presentare alla Confindustria al rivendicare le meritate prebende per saper così abilmente attirare il malcontento operaio.
    La ripresa della lotta di classe su un terreno generale non passerà per simili ruffianamenti, ma vedrà la rinascita ex-novo del Sindacato di classe, entro il quale le avanguardie più decise dei proletari organizzeranno la controffensiva economica agli attacchi padronali, sfidando la nefasta e corruttrice azione dell’opportunismo sia sindacale sia politico.
    Quando tale movimento del proletariato si salderà con la teoria marxista incarnata dal Partito Comunista, la classe sarà pronta a sferrare l’attacco decisivo alla borghesia ed al suo Stato.
 
 


Immigrati e autoctoni nella forza lavoro dei braccianti

Certi lavori sono così duri e retribuiti così male che gli operai italiani si rifiutano di farli: è il caso dell’agricoltura, della zootecnia, ma anche dell’edilizia e dell’industria conciaria dove ormai la forza lavoro impiegata è in gran parte immigrata. L’offerta di stranieri è una soluzione alla mancanza di braccianti locali, ma anche una fonte di risparmio se pensiamo che i clandestini sono più facilmente ricattabili nel loro stato di sans papiers. Di fatto e nel complesso, comportano l’abbassamento dei salari di tutta la categoria.

L’ultima estate di siccità ha esacerbato gli animi degli agrari che, oltre alla mancanza dell’acqua, hanno lamentato rumorosamente anche quella delle braccia. È noto come nel settore agricolo l’uso della forza lavoro avvenga sovente aggirando le regole degli ingaggi e lo Stato tolleri, se non favorisca, una presenza clandestina di immigrati per calmierare il mercato del lavoro. Anche un’organizzazione padronale solitamente “moderata” come la Coldiretti alza la voce e chiede per le campagne più braccia colorate e assieme alla Confindustria evidenzia come certe politiche migratorie restrittive – invocate dai partiti di destra per la mungitura elettorale della piccola borghesia urbana, spaventata da fenomeni criminali riconducibili al sottoproletariato – siano stolide per le esigenze dell’apparato produttivo italiano, industriale o agricolo che sia.

Per il 2001, secondo le quote di contingentamento dei flussi migratori, sarebbero dovuti arrivare solo in 33.000 per lavori stagionali, numero insufficiente se pensiamo che questa aliquota è per l’intero territorio nazionale e per tutti i comparti della metropoli italiana che è pur sempre la quinta potenza economica mondiale. Agli agrari meridionali che protestano che nessuno di questi è stato assegnato al Mezzogiorno, il Ministero del Lavoro ha risposto con il placet per altri 1.750 extracomunitari (per la precisione: 1.000 albanesi, 500 tunisini, 150 marocchini, 100 somali) anche per le regioni del Sud. Se la loquacità inviperita dei capi della Coldiretti porta a far capire quanto frequenti siano situazioni “poco trasparenti”, alludendo all’impiego di clandestini, noi crediamo che anche nelle altre regioni la borghesia non si debba ritenere soddisfatta dalle attribuzioni di forza lavoro regolarmente immigrata. D’altro canto fa sorridere che il fenomeno mondiale delle migrazioni possa essere regolato tramite gli uffici di collocamento! E certo non lo pensano quei furbastri affaristi che trafficano in braccia contro paghe miserabili e sanno bene come attingere da quel mercato del lavoro “parallelo”.

Secondo le più recenti stime, in Italia il 10% della forza lavoro agricola è costituita da immigrati; nel 2000 sono stati assunti 65.000 (+20% rispetto al 1999), ma un analoga crescita dovrebbe sussistere anche per il 2001 con una previsione di 80.000 assunzioni di operai a tempo determinato. Ma anche tra gli operai a tempo indeterminato, sono già in 9.000 gli immigrati, soprattutto polacchi, cechi, slovacchi, romeni, croati, ma anche indiani e albanesi.

A quanto pare solo dalla Puglia nella stagione della vendemmia, tra il 20 agosto e la fine di ottobre, partirebbero per il Nord Europa 450 Tir dal peso di 250 qli ciascuno, richiedenti la giornata di 25 operai! Ma è fino a tutto dicembre che la raccolta non concede soste: dopo l’uva arriva il tempo della frutta e di ortaggi vari, fino agli agrumi e alle olive.

La scusa del deficit di manodopera, per tener bassi i salari, torna buona anche per mascherare la odierna crisi del sistema produttivo: in Basilicata gli agrari imputano a questo fattore la riduzione di 60 ettari della superficie coltivata a fragole (con tecniche moderne di coltivazione studiate dal CNR, che ha masserie pilota nella piana di Metaponto, si riesce ad avere anche un secondo raccolto ad ottobre), quando il vero problema è la sovrapproduzione delle merci. Le lamentatio della borghesia sono rivolte ai soldi dalle casse pubbliche e a ulteriori esenzioni fiscali addebitando alla classe operaia anche la colpa della propria crisi.

Per altro i braccianti autoctoni, per esempio in Basilicata, si arrampicano in montagna a curare i faggi e le querce del demanio forestale piuttosto che raccogliere i kiwi o le fragole metapontine. Sono le infami condizioni di lavoro e di retribuzione nelle aziende private che spingono la manodopera locale a preferire impiegarsi - sia pure a tempo determinato - nei lavori di manutenzione forestale: il datore di lavoro qui è un ente pubblico, più rispettoso, per il momento, della retribuzione e dei diritti affermati nel CCNL agricolo, cosa che i privati si guardano bene dal fare, giocando al risparmio e servendosi del caporalato per la mediazione e il controllo dei braccianti.

Di lavoro ce ne sarebbe, quindi, per tutti ed è solo la mancanza della elementare solidarietà di classe degli italici verso i forestieri che fa il gioco del padronato e abbassa salari e condizioni di questi e di quelli, costringendo i secondi a far da crumiri e i primi in semi-disoccupati a vita.
 
 


I tranvieri di Lione in sciopero contro le 11 ore di lavoro

Dal 23 ottobre e sicuramente fino al 5 novembre, poi le nostre informazioni si fermano, i tranvieri di Lione sono scesi in sciopero per richiedere la riduzione dell’orario di lavoro, modulato dalla SLTC (Societé Lyonnaise des Transports en Commun) con turni anche di 11 ore (05.00-14.00/14.00-01.00), pause di 24 minuti e un fine settimana lavorativo su due. I conducenti, devastati dalla fatica per tante ore di guida nel traffico di una città che con i sobborghi conta 1.200.000 abitanti, hanno dunque deciso di intraprendere la lotta e 106 di essi su 113 stanno rivendicando tempi più salutari, una giornata di 7 ore e fruire di 50 minuti di riposo.

L’azienda municipale davanti a tanta determinazione è pure ricorsa in tribunale lamentando l’illegalità dei picchetti ad un deposito di autobus, ma questa manovra non ha distolto i tranvieri dal loro obiettivo e pare che qualche frutto stia arrivando: quelli della SLTC hanno proposto turni da 8 e 9 ore rispettivamente per il 90% ed il 10% del servizio, fattore che produrrebbe anche nuovi posti di lavoro. L’intersindacale ha ritenuto ragionevole tale proposta, mentre è sulla durata del riposo che la disputa continua: l’azienda si attesta sui 36 minuti, mentre i lavoratori ne chiedono 42, con una sosta di 28 al termine di 3 ore di guida e non più di una a durata aleatoria. Sembrerebbe che l’intersindacale si sia stancata dopo 14 giorni di sciopero e abbia dato mandato ai suoi avvocati per una mediazione.

L’epilogo sicuramente opportunista nulla può togliere alla generosa lotta dei tranvieri lionesi che hanno corretto con la forza l’orario “inspiegabile” e demente distribuito in soli due turni a copertura di 20 ore di servizio giornaliero! C’è da considerare che la tranvie a Lione sono un’istituzione recente e questi tempi di lavoro così lunghi e sfavorevoli per i salariati si possono solo spiegare come determinazione della loro debolezza politica. Ma evidentemente alle 11 ore di lavoro anche i proletari del 2001 riescono a reagire in modo classista!

La stampa borghese internazionale ha taciuto sulla vertenza, quando invece questo sciopero ad oltranza e ben riuscito sarebbe da far conoscere, come esempio e incoraggiamento per altri lavoratori, sempre più costretti ad affrontare l’insaziabile nemico capitalista.
 
 


Ancora un incidente mortale nel porto di Taranto

A Taranto il 16 novembre al Molo Ovest la fretta con cui si svolgono le operazioni di carico e scarico ha assassinato un operaio dell’Ilva. Il compagno lavoratore, sceso dal carro che conduceva per scaricare bramme, è stato investito alle spalle da un vagoncino per il trasporto dei tubi d’acciaio. Le esigenze della produzione e della rotazione dei capitali giocano al massacro di vite umane e l’industria dei trasporti ne è coinvolta totalmente. Ha avuto a Taranto una nuova vittima sacrificale il culto paranoico degli orari, che vede armatori e tutta la maledetta classe dei borghesi industriali e commercianti a dettare i tempi col cronometro alla mano per movimentare più in fretta le merci e che rende schiavi i naviganti e tutti i lavoratori marittimi salariati.

Questa mostruosa divinità assetata di sangue è il Capitale: il marxismo ne ha indagato la natura e scoperto che non si può né migliorare né riformare. Diffidino i proletari dai politicanti che promettono leggine e meccanismi migliorativi, e poi magari votano la guerra, unico miglioramento che il capitalismo consente! Questi opportunisti si fingono amici, in qualità di sindacalisti, politici, volontari sociali e preti, ma sono solidali alla classe borghese per perpetuarne l’esistenza e tenere lontani gli ultimi, gli sfruttati, dal loro programma rivoluzionario comunista.
 
 


Risparmio totale alla Railtrack !

Con la messa in amministrazione controllata della Railtrack termina, di fatto, il progetto di privatizzazione delle ferrovie inglesi di thatcheriana memoria.

Dopo cinque anni di gestione privata i debiti sono schizzati oltre i tre miliardi di sterline, nonostante che le tariffe siano in media quattro volte più care che quelle italiane. Le stazioni, dimenticati i fasti d’inizio secolo, sono diventate sporche e pericolose, i ritardi sono incredibili e gli incidenti all’ordine del giorno, per incuria nella manutenzione e mancanza di apparati di sicurezza.

Il fallimento dell’azienda creata dal conservatore John Major mette chiaramente in luce la crisi del sistema delle privatizzazioni, tant’è che anche l’italiano Cimoli ne prende le distanze ed assicura che mai e poi mai la rete sarà data in gestione ai privati. Per quanto riguarda la circolazione del materiale è più possibilista, ma fa capire che soltanto quando aziende come Trenitalia divenissero veramente concorrenti “al loro interno”, potrebbero essere date in gestione o rilevate dal capitale privato, ovvero soltanto quando il capitale nostrano fosse riuscito ad abbattere le resistenze che i ferrovieri oppongono alla ristrutturazione.

Il tracollo inglese dimostra ampiamente che al di fuori di regole precise e di obiettive sicurezze, non solo non può esservi sviluppo del settore ferroviario, ma soprattutto palesa che attraverso lo sfruttamento selvaggio della manodopera ed il risparmio totale, si approda, sia pure dopo un avvio travolgente, soltanto allo sfacelo del sistema. Il capitale britannico ha sfruttato, sino ad oggi, l’onda delle privatizzazioni ed adesso corre ai ripari di nuove pseudo nazionalizzazioni, anche se Blair insiste a difendere quella linea e il suo ministro Byers è stato persino costretto a nascondere, fin che ha potuto, la notizia del fallimento.

Purtroppo tutto questo è accaduto perché nell’occidente capitalistico i lavoratori sono senza armi organizzative, con i sindacati ufficiali in mano al padronato. La classe operaia è in balia della politica di partiti oramai neppure più falsamente comunisti e socialisti. Le poche organizzazioni che tentano di opporsi allo strapotere capitalista sono ancora troppo deboli e disperse e troppo spesso in mano alle sinistre sindacali, sponda ideale al gioco padronale. Il partito comunista rivoluzionario, ridotto negli effettivi dagli effetti della controrivoluzione, fatica a mettersi persino in contatto con la classe. Riappropriarsi della lotta, dello sciopero, creare organizzazioni sindacali salde e decise devono essere gli obiettivi immediati per i proletari dell’intero occidente, se non vogliono consegnarsi mani e piedi legati alla logica della guerra capitalista prossima ventura.