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"Il Partito Comunista" - n° 295 - dicembre 2002-gennaio 2003 - [.pdf]

PAGINA 1LA RUSSIA NELLA CONTESA IMPERIALISTICA MONDIALE :
                     La crisi dell’Ottantanove - Petrolio - Il regalo statunitense della guerra in Cecenia - Bellicosi e pacifici.
                   – Il cadavere e il fantasma - Ancora lapsus...
                   – Difendersi dalle crisi aziendali o da quella del Capitale.
PAGINA 2ALGERIA, IERI E OGGI: 8. Bilanci e prospettive marxiste dell’insurrezione algerina
                                  b) Il proletariato di fronte al movimento nazional-rivoluzionario - L’economia urbana - I compiti della
                                      "Rivoluzione algerina" - Gli accordi di Evian ovvero la collaborazione dell’FLN con la borghesia francese.
PAGINA 3 – Crimini di guerra
PAGINA 4Una coperta sempre più corta
                   – Anche in Svizzera "riduzioni" dell’orario e Referendum per ingannare i lavoratori.
                   – Taranto: Sulle lotte operaie pesa l’assenza della Camera del Lavoro.
 
 
 
 
 
 



PAGINA 1

La Russia nella contesa imperialistica mondiale
 

La crisi dell’Ottantanove

Quando in Europa Occidentale già erano consolidati gli Stati-nazione, nell’attuale Russia, all’epoca ai margini della civiltà, si andò formando, sulle rovine dei canati mongoli, un impero, che progressivamente raggiunse l’Estremo Oriente da una parte mentre dall’altra si affacciava minaccioso sull’Europa. Potenza autocratica su una società in gran parte ancora feudale fino al 1917, la Russia – se si esclude il breve ma intensissimo arco di anni 1917-1924 che vide la presa del potere da parte del Partito Bolscevico, la sanguinosa guerra civile, l’instaurazione della dittatura proletaria e, dopo la morte di Lenin, la rivincita controrivoluzionaria borghese – è sempre stata la regione centrale di un vero e proprio Impero.

Questo impero nel 1989 è imploso su se stesso. Le sue popolose periferie, quelle occidentali economicamente più sviluppate del centro, se ne sono staccate e l’anarchia ha regnato proprio in quel super-Stato che fino ad allora vantava un’assoluta e inesorabile centralizzazione politica.

Le leggi della crisi capitalistica, a cui nessun paese può sottrarsi, si sono fatte duramente sentire, come in molte altre parti del globo, con l’unica differenza che la crisi ha colpito quella che dopo gli Stati Uniti d’America era considerata la seconda potenza mondiale e seconda macchina repressiva sulla schiena del proletariato, come gli esempi tragici della repressione della Comune di Varsavia nel 1944 e dell’insurrezione proletaria di Berlino nel 1952 avrebbero dovuto dimostrare.

Commentando quegli avvenimenti scrivemmo allora che la crisi in Moscovia, lungi da leggersi come la crisi di una società comunista, non era che il modello della catastrofe che investirà domani tutte le capitali mondiali dei traffici e del denaro.

Il capitalismo russo, bastonato per primo, con effetti peggiori sulla struttura dell’economia di quelli conseguenti ad una guerra perduta, ha cercato in questi anni di salvare il salvabile, attraverso i nuovi ruspanti imprenditor-mafiosi arricchitisi negli anni di crisi, come sempre spremendo fino alla morte il proletariato.

Fra il 1990 e il 1999 la Russia ha subìto un tracollo economico catastrofico, con una contrazione media annua del 9,6%; nel mondo riesce a partecipare alle esportazioni con una fetta di appena l’1,09% (per un raffronto si pensi che la Germania ha l’8,76% nelle esportazioni mondiali). Soltanto dal 1998 gli investimenti sono scesi di 5 volte. La fiducia dei russi verso le banche è tale che si stima che i dollari che i risparmiatori russi tengono immobilizzati “sotto i materassi” superano la massa del circolante negli Stati Uniti.

La produzione industriale russa oggi è quasi 20 volte minore di quella americana: una bella miseria per il Capitale russo che (pur con le falsificazioni di cifre da parte dei carrieristi burocrati del Cremlino) pretendeva, da Stalin in poi, di poter contendere il potere economico agli Stati Uniti.

A Mosca il 30% della popolazione vive in condizioni di povertà, ma la quota fra giovani tra i 18 e i 25 anni s’impenna al 50%. Il salario medio netto di un lavoratore subordinato è di 51 euro al mese. Nelle strade di Mosca d’inverno è tragedia quotidiana la morte per freddo di poveri senza casa.

Questo spiega perché, dopo i fatti dell’11 Settembre 2001, Vladimir Putin non solo ha mostrato la massima solidarietà alla borghesia americana, ma ha anche dovuto fare buon viso al caro amico Mr. Bush jr. mentre questo si accomodava nel cortile di casa dell’ex impero moscovita, piazzando aerei da guerra, mezzi corazzati, rampe per missili, migliaia di soldati in ben attrezzate e guarnite basi. Nei paesi dell’Asia Centrale, dopo che in Ungheria, in Ucraina, in Romania e in Azerbaigian, gli USA sono riusciti a penetrare in modo decisivo e da lì hanno condotto la guerra in Afghanistan e rafforzato quel posizionamento militare in Asia che da tempo progettavano, ponendo pesanti ipoteche sui tentativi dello Stato russo di ricompattare, almeno in parte, il vecchio Impero.

Mosca sta pagando la sua debolezza economica rispetto alle altre potenze mondiali. Ancora alla fine di novembre, la Russia ha ufficialmente stipulato un’alleanza politico-economica con gli USA, ovviamente non fra pari. Il Cremlino, in particolare, ha dichiarato di essere pronto ad appoggiare la guerra contro l’Irak in cambio di una crescita delle esportazioni di greggio negli Stati Uniti dallo scarso 1% attuale al 10%, soprattutto attraverso il terminale di Murmansk, nel Mare di Barents sull’Artico e del rispetto, da parte statunitense, dei contratti in vigore tra Russia e Irak.
 

Petrolio

Nel sottosuolo russo sono accertate riserve equivalenti al 25% del gas e al 5% del petrolio mondiale. Nel 2001 la produzione di petrolio della Russia seguiva quella dei primi due paesi produttori, cioè Arabia Saudita e Stati Uniti. Il 41% dell’export energetico russo va all’Unione Europea (soprattutto Germania, Francia e Italia). Il gas e il petrolio russi sono importantissimi per gli europei: il 25-30% del gas e l’11% del petrolio dell’Unione Europea sono di provenienza russa. Dall’inizio di quest’anno la Russia è divenuto il primo paese fornitore di energia dell’Italia. La Russia è tornata quindi ad essere quasi il gigante energetico di un tempo, in concorrenza con l’Arabia Saudita ed in futuro, forse, con lo stesso Iraq. Già ora “Riad sta regolando la propria produzione sulla crescita di produzione russa, così da garantire che il regno rimanga il principale produttore mondiale” (Aspenia, n. 18/2002).

Qualcuno si è sbilanciato addirittura a dire che la Russia diverrà il primo produttore di gas e petrolio, ma l’Arabia possiede ben il 25% delle riserve mondiali di petrolio e l’intero Medio Oriente ne conserva il 65%. La Russia rimane però incontrastata nella estrazione di gas naturale e se è probabilmente verosimile che la Russia non potrà ancora per molto produrre petrolio a prezzi competitivi con quelli sauditi e in futuro iracheni, è pur vero che ciò che interessa principalmente agli U.S.A. è la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e il tenere sotto ricatto energetico gli avversari economici.

Inoltre le alternative per il trasporto dell’energia Azerbaigian-Turchia e Turkmenistan-Pakistan sono una spada di Damocle che blocca la minima possibilità della Russia di muoversi autonomamente.

Per gli anni a venire si prospettano quindi tre megaproduttori di petrolio: Irak, Arabia Saudita e Russia. Non solo fra i tre il petrolio russo rimarrà il meno conveniente, ma saranno gli Stati Uniti, con il controllo che una guerra vittoriosa in Iraq concederà loro sul petrolio mediorientale, a decidere da chi comprare e a che prezzo come pure a chi vendere e a che prezzo. Sarà questa per Washington un’arma potente per mettere in difficoltà gli altri blocchi imperialisti, l’Europa, il Giappone e soprattutto la Cina.
 

Il regalo statunitense della guerra in Cecenia

La Guerra in Cecenia, “regalo”, principalmente, americano per contrastare il trasporto del gas e del petrolio dal Mar Caspio sul territorio russo, ha fatto circa 100.000 morti nella prima, secondo le fonti ufficiali, e 40.000 nella seconda. Dopo elicotteri abbattuti, attentati a Mosca (ma molti sospettano che l’esplosione di due palazzi a Mosca il 13 settembre ’99 sia opera dei servizi segreti russi), s’arriva all’incursione al teatro a fine ottobre e al recentissimo attentato al tritolo al palazzo governativo di Grozny.

La Russia si trova con le spalle al muro, non può evitare la sottomissione a Washington e non è in grado di patteggiare alcunché. Chi ci sia dietro ai ragazzi ceceni, immolati per motivi ben più grandi del loro comprendonio, non è facile dimostrarlo, ma pare che le ambasciate di Georgia, Turchia, Arabia Saudita e Azerbaigian fossero in contatto con i terroristi ceceni prima dell’assalto al teatro. Non è difficile capire quale nazione possa controllare da dietro le quinte tali ambasciate.

Un mese dopo l’assalto Russia e Stati Uniti hanno quindi stipulato un patto politico-economico che, se è presto per misurarne la solidità negli anni a venire, è un punto di capitale importanza raggiunto dalla politica estera statunitense. Vediamo cosa dovrebbero guadagnarci reciprocamente.

Che cosa potrebbe guadagnare la Russia. 1) Investimenti americani copiosi sia nel settore industriale sia in quello estrattivo; 2) Soluzione a breve della guerra cecena, che tanto sta sfiancando la tenuta del malconcio esercito russo; 3) Mantenimento dei contratti stipulati dalla Russia con Baghdad (mentre la Total Fina Elf francese, primo investitore in Irak, rischierà grosso); 4) Rimborso del forte debito che l’Irak ha con la Russia; 5) Preferenza da parte americana degli oleodotti e gasdotti passanti per la Russia rispetto a quelli diretti verso la Turchia (l’oleodotto Baku-Ceyhan, progettato per lasciar fuori la Russia, risulterebbe tra l’altro più dispendioso del previsto e passante per zone troppo instabili come il Kurdistan e la collassante Georgia, pur mantenendo un ruolo non piccolo nelle future vie di trasporto dell’energia); 6) Preferenza da parte americana degli oleodotti e gasdotti passanti per la Russia rispetto alla pipeline che dal Turkmenistan, passando per l’Afghanistan, dovrebbe giungere il Pakistan; 7) Agevolazioni nel pagamento entro il prossimo anno di 17,5 miliardi di dollari di debito al FMI; 8) Spartizione del bottino caspico (gas e petrolio) con rispettivo isolamento delle mire energetiche dell’Iran; 9) Protezione di quei pochi mercati in cui le merci russe risultano competitive (Irak, Iran e qualche paese dell’ex Impero Sovietico); 10) Eventuale salita, col prezzo del greggio, della rendita petrolifera moscovita; 11) Riacquisto di un’influenza in Medio Oriente; 12) Controllo dei confini in Asia Centrale e Caucaso, che la Russia da sola non è più da tempo in grado di controllare; 13) Qualche contrattino favorevole sul mercato americano.

Che cosa potrebbero guadagnare gli Stati Uniti. 1) Controllo dei rifornimenti energetici dell’Unione Europea, fortemente dipendente dalla Russia; 2) Isolamento energetico di Cina e Iran; 3) Diversificazione energetica dei rifornimenti americani e conseguente ridimensionamento del potere dell’Opec; 4) Importazioni di enormi quote di petrolio da un paese che, nonostante tutto, è più stabile e sicuro di quelli mediorientali e con minori spese di trasporto (porto di Murmansk e progetto di un oleodotto sotto lo Stretto di Bering che colleghi la Russia all’Alaska); 5) Posizionamento militare in Asia Centrale e Caucaso; 6) Controllo geopolitico dell’Eurasia attraverso una nazione immensa come la Federazione Russa che permette di controllare dal Giappone alla Germania, dalla Cina al Medio Oriente; 7) Facilitazioni alle aziende americane nelle privatizzazioni future; 8) Creazione di una riserva strategica mondiale di materie prime per cui la Russia si è offerta servilmente; 9) Mediazione dei russi tanto politica quanto economica con paesi quali l’Irak, l’Iran e la Corea del Nord; 10) Utilizzo dell’esercito russo e degli impianti militari ereditati dall’Impero Sovietico.
 

Bellicosi e Pacifici

Da un bel po’ di mesi la diplomazia russa si oppone, dai banchi dell’ONU, alla guerra in Irak, assieme ad alcuni paesi europei e alla Cina. Ma tutti questi paesi sono contrari alla guerra non perché siano “pacifisti” (e lo hanno dimostrato in molte occasioni, non ultima la guerra per smembrare la Jugoslavia), ma perché non dispongono ancora di un apparato militare in grado di opporsi alle armate statunitensi.

Di fatto, ad oggi, solo gli Stati Uniti hanno la forza per affrontare una guerra, anche generale. Questo non toglie che al festino bellico parteciperanno tutti i capitalismi per dividersi il bottino. Europa e Russia hanno bisogno di qualche altro anno di tempo per la conversione delle fabbriche e dell’economia in generale in economia di guerra. Ci attende quindi una fase di crescenti tensioni terroristiche fino allo scoppio di un terzo macello mondiale, se non riuscirà ad un proletariato riorganizzatosi a livello internazionale di stopparlo sul nascere con la sua mobilitazione e rivoluzione di classe.

Difficile fare previsioni sui futuri schieramenti di guerra, anche perché la guerra, non lo scordiamo, nonostante le apparenze, non è fra capitalismi ma, prima di tutto, fra classi e per il Capitale Mondiale importante la guerra è farla, con chi e contro cosa è questione secondaria. Intanto rileviamo che un’alleanza militare che si stringesse fra Russia e Stati Uniti seguirebbe la dinamica storica che vide i due paesi nel Novecento alleati nei suoi due principali grossi affari: i due conflitti mondiali. Agli Usa andò bene in entrambi, militarmente, politicamente ed economicamente; alla Russia feudale giocò male il primo; alla Russia capitalista non giocò bene il secondo, nel quale immolò agli interessi del capitale mondiale parti essenziali della sua industria in formazione e del suo esercito industriale. Il proletariato, russo e internazionale, perse nel primo e perse nel secondo: nella curva demografica dei russi c’è un vuoto di trenta milioni fra morti e non nati all’indomani della “vittoria”, vuoto sociale materiale, questo, determinante per il ritardo economico capitalistico russo che ora sta scontando.

Contro i piani di una borghesia degenerata anche in Russia il proletariato dovrà organizzarsi in un Sindacato di Classe, a struttura semiclandestina se necessario, pronto a scontrarsi non sul piano del diritto ma su quello della forza, l’unico strumento che potrà permettere di affrontare la borghesia e di crescere verso l’organizzazione rivoluzionaria. Nelle temperie dello scontro di classe risorgerà anche in Russia il Partito Comunista Internazionale, con il suo coerente ed unitario programma, vendicatore di quei compagni internazionalisti che furono massacrati dagli sbirri dello stalinismo nel tentativo vano di spezzare, insieme alle loro vite, la tradizione del comunismo rivoluzionario.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il cadavere e il fantasma

È noto che non ci occupiamo, come argomento principale, dei riti della borghesia, adusi come siamo, per Metodo, ad andare alla sostanza dei problemi, che sono per noi quelli della sottostruttura economica e sociale, oltre che naturalmente della politica generale, cioè alla salvaguardia degli interessi di classe. Ma questa volta siamo tirati per i capelli a commentare un evento che ci si è affannati (per due giorni!) a definire storico.

Il Pontefice romano ha varcato il Tevere, quanto mai largo, dicono, ed è salito a Montecitorio per far visita al Parlamento italiano riunito per l’occasione. Il cadavere del parlamento, come l’abbiamo storicamente definito, ancora cammina, non cassa di risonanza del bene comune, di tutti, come si sbracciano a dire i devoti sostenitori della borghesia al potere. Questa, in questa fase storica sempre più incarognita e incerta, si aspetta dal fantasma bianco un incoraggiamento, un appoggio che non può mancare, dal momento che Chiesa e Stato, piuttosto che “ciascuno nel proprio ordine sovrani e indipendenti”, hanno bisogno del comune abbraccio per tenere a bada ogni eventuale ribellione e protesta degli inebetiti proletari falcidiati dalla crisi.

Dal Presidente democristiano Casini al laico Pera, che hanno ricevuto il Santo Padre, ci si è fatti in quattro per ridire giaculatorie note: il primo a rimarcare lo stretto rapporto che lega lo Stato italiano alla Santa Sede, ora e sempre; l’altro, raccogliendo a piene mani dal serbatoio teorico dell’amato Popper (il teorico del pluralismo e della società aperta) a precisare, senza mordere minimamente, le ragioni della scelta laica, che prevede il rifiuto del totalitarismo e della intolleranza.

Niente di nuovo, come scontato. Ma lo scopo era quello di “stringersi a coorte”, al suono degli inni, nazionale e vaticano, davanti ai venti di guerra, di crisi profonda della produzione, di lacerazioni del tessuto sociale provato dalla “crescita demografica” e dai “costumi” sempre più “discinti”! La schizofrenia della società borghese che annaspa ha sempre più bisogno di appoggiarsi al sostegno dei nemici di ieri: ormai profitto e rendita, che per noi sono da sempre legati, vanno a braccetto, si tengono per mano.

Mentre l’imperialismo soffia sul fuoco, i confini nazionali appaiono sempre più inadeguati ad affrontare il mare aperto: eppure si fa leva in modo retorico e smaccato sui “valori della patria”, pur sapendo che le differenze tra paese e paese non possono non venir cancellate dall’omologazione del mercato. E della guerra.

Smarriti e tremanti, i governanti della penisola chiedono lumi al fantasma bianco, che ai loro occhi ha avuto meriti quasi esclusivi nel far crollare il Muro di Berlino! Poverini... a che razza di analisi sono abituati !

Ed allora, nell’incontro storico, dai laici ai cattolici, si sono goduti rimpatriata ed ammonimenti, scuotendo la testa in segno di approvazione, come se non sapessero che l’autorità religiosa non entra (ora!) nei dettagli, dove, risaputamente, si nasconde il diavolo. E così si sono lasciati indicare le vie della giustizia, della carità, della tolleranza, dell’amore per la pace!

Ed ora che hanno sentito il Verbo, che faranno ? Ma è chiaro, quello che hanno sempre fatto. Che valore e che effetto avrà avuto l’appello del Papa alla maggiore coesione interna delle forze e dei partiti in nome dell’unione nazionale, nell’ambito dell’armonia tra le patrie d’Europa, che dovranno essere cementate dalla comune fede cristiana?

Assente ancora una volta, fuori, per fortuna, da quella mangiatoia, il proletariato: i suoi presunti rappresentanti fatta eccezione per qualche ex-staliniano alla Cossutta o laico a 90 carati come La Malfa, si sono spellati le mani ad applaudire il fantasma bianco, ed ora cercheranno di tirare la coperta dalla loro parte, scegliendo nel discorso onnicomprensivo quello che più fa loro comodo.

Quale, complessivamente, il senso dello scambio di cortesie tra Stato italiano e Santa Sede? Si dirà, un rapporto storico, che intende chiudere vecchie polemiche per affrontare insieme i tempi incerti cui si sta andando incontro. Ma allora è necessario mettere in guardia il proletariato ad abboccare ad ogni alleanza, peggio se santa, che si tende a stringere contro eventuali suoi tentativi di rinascita.

Se l’unità nazionale, che in Italia si dà per mai risolta, dovesse essere ancora il motivo conduttore di queste manovre, si cadrebbe in un grosso equivoco. I tempi delle patrie e delle unità nazionali da perseguire sono alle spalle della storia: il proletariato non ha nessuna coesione da raggiungere, se non quella di classe, purtroppo scompaginata, umiliata, senza attuale visibilità di nessun tipo.

Eppure certi miti italiani sono infranti.La Fiat spinge il proletariato, dalle Alpi al Lilibeo, a difendersi. Ma non si era detto che la classe non c’era più, soppiantata dai servizi, dalle nuove più remunerative occupazioni? Miti.

E il Potere se ne rende conto, mentre la Chiesa manda in avanscoperta preti e vescovi come nuovi alfieri della lotta per la giustizia, un gioco delle parti che non è decodificabile che come paura che le cose precipitino. Se ne è parlato a Montecitorio, certo, il Papa ha accennato diplomaticamente a tutto, secondo canovaccio ormai noto: niente violenze, niente reazioni al sopruso, tutto deve svolgersi entro i confini costituzionali. L’assetto del potere borghese, senza più la spina nel fianco del cattolicesimo violato, dovrebbe rafforzarsi a spese del proletariato solo e senza referente politico.

Ciò non ha impedito a Wojtyla di cadere nel lapsus, citando Pio IX al posto di Pio XI... vendicando così Papa Mastai che come lui ebbe modo, nel 1848, di “benedire l’Italia”... Chi ha orecchie per intendere, intenda.
 

Ancora lapsus...

L’11 dicembre, nel corso dell’udienza generale, il papa ha svolto la sua catechesi prendendo spunto dal “Lamento del popolo in tempo di fame e di guerra” di Geremia, ed ha sottolineato che la descrizione fatta dal profeta del Vecchio Testamento è purtroppo tragicamente attuale in tante parti del nostro pianeta. Dall’indifferenza per tutto ciò, e dunque dall’allontanamento dall’amore di Dio, secondo Giovanni Paolo II, nasce la condizione di solitudine dell’uomo che percepisce l’abbandono al proprio destino, nel «silenzio di Dio che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità».

Le parole del vecchio Woityla, a parte qualche titolo sui quotidiani del giorno dopo, hanno avuto l’effetto di sempre: non hanno smosso di un millimetro né il popolo dei credenti, né, tantomeno, i potenti della terra ai quali, forse, erano indirizzate. Hanno invece creato scalpore e preoccupazione all’interno della Chiesa cattolica, che non può ammettere affermazioni di questo tipo, sia dal punto di vista dottrinale sia da quello, soprattutto, pratico.

La dottrina cattolica, nella sua formula popolare, insegna infatti che Dio «ha cura e provvidenza delle cose create e le conserva e dirige tutte al proprio fine con sapienza, bontà e giustizia infinita». Se è proprio il papa a dire che Dio si ritira, che getta la spugna, non soltanto dichiara di non professare più le prime due delle tre virtù cardinali, Fede e Speranza; non soltanto rischia la disperazione della Salvezza, che è il primo dei sei peccati contro lo Spirito Santo, ma addirittura potrebbe minare le basi stesse dell’organizzazione temporale della Chiesa.

Quindi i preti si sono subito premurati di dire che il Papa ha ammonito, ma non ha affermato, che è stato male interpretato, o addirittura che si è speculato, stravolgendone il significato, sulle sue parole e via di questo passo per chiudere ogni discussione con la tesi che il papa, per la sua stessa natura di Vicario di Cristo, non può disperare della Provvidenza Divina.

Il fatto però è che anche Cristo coronò la sua esperienza terrena con un gesto di disperazione nei confronti dell’Eterno Padre. Nell’attimo prima di morire Gesù gridò: «Eloi, Eloi, lema sabactani?» che significa «Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?» (Marco, XV-34). La disperazione di Cristo in croce, e forse anche quella del vecchio papa in Vaticano (non migliore calvario!), è la medesima disperazione che attanaglia l’intera umanità, oppressa, schiava, affamata, perseguitata, assassinata; in una parola immolata sull’altare dell’attuale Unico Vero Dio: il Capitale.

La Chiesa non tema, non saranno le parole di un papa a metterla in crisi, anche se annunziasse solennemente urbi et orbi l’inesistenza di Dio. La religione non è nata dall’inganno dei preti e dalla credulità dei popoli: troppo facile sarebbe sfatarla. Sono la disperazione e le miserie umane che hanno generato e che tengono in vita Dio e la religione e le masse sfruttate e diseredate non possono fare a meno di quest’oppio per sopportarle. Le religioni non ci saranno più solo quando non avranno più ragione di esistere, ossia quando l’umanità demercificata tornerà padrona di sé, libera dal terrore e dal bisogno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Difendersi dalle crisi aziendali o da quella del Capitale
 

Il 3 dicembre la Marconi Communication annuncia 1.100 licenziamenti tra i suoi 2.470 lavoratori in Italia. La riduzione del personale sarà così ripartita: 620 a Genova su 1.600, a Marcianise 450 su 750 e a Roma 80 su 170. Non rientrano negli esuberi, per ora, i lavoratori della Tetra che fa capo alla OTE S.p.a. di Firenze con 620 unita (550 a Firenze e 70 a Genova) e i lavoratori della Mobile Acces, 280 unità (150 a Chieti e 130 a Genova). Il destino di queste due divisioni è ancora incerto per la mancata opzione di acquisto da parte di Finmeccanica. Questo nuovo piano di ristrutturazione arriva dopo quello annunciato a marzo 2002 quando già 800 lavoratori furono “allontanati”; allora 400 andarono in cassa integrazione con la “promessa” di reintegro ma, guarda il caso, fanno parte dei nuovi esuberi (Termini Imerese ?), l’altra metà fu “agevolata” all’esodo.

I sindacati tricolore, come fanno sempre per togliere ogni colpa al generale sistema capitalistico, imputano il declino dell’azienda al passaggio ai nuovi padroni inglesi, avvenuto qualche anno fa. Invece non sono certo determinanti eventuali le scelte sbagliate del management inglese ad aver creato la situazione attuale. È la globale crisi di sovrapproduzione la vera causa e il nocciolo della questione.

Il giorno 4 i lavoratori della Marconi che, va precisato, non sono pre-post-industriali tute blu, ma impiegati qualificati del terzo millennio e del tanto auspicato polo tecnologico regno dell’hi-tech – per noi comunque proletari – sono scesi in piazza bloccando, come ormai consuetudinaria forma di protesta di nessuna efficacia, l’entrata dell’autostrada di Genova ovest.

Lo stesso identico giorno a Roma scioperavano i lavoratori del pubblico impiego; a Torino, Termini Imerese, Arese e Cassino quelli Fiat; sono stati annunciati nuovi scioperi nel trasporto aereo ed in quello pubblico, etc. etc. Sarebbe forse più efficace una lotta unificata per la difesa degli interessi generali della classe? Certo che si. Ma questo lo sanno perfettamente anche i sindacatoni filo padronali, che per questo tengono separate le lotte in modo da indebolirle.

Sta ai lavoratori più combattivi uscire da questi sindacati per ricucire le file di una nuova organizzazione che difenda gli interessi dell’intera classe, infischiandosene degli interessi aziendali, che sono gli interessi del padrone.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2


ALGERIA, IERI E OGGI

8. BILANCI E PROSPETTIVE MARXISTE
    DELL’INSURREZIONE ALGERINA
(continua dal n. 293)

L’economia urbana
I compiti della “Rivoluzione algerina”
Gli accordi di Evian ovvero la collaborazione dell’FLN con la borghesia francese

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 


PAGINA 3

CRIMINI DI GUERRA

Era il maggio del 1994. Ben lo potremmo definire “maggio radioso” poiché un’altra determinante tessera veniva alla luce per essere incastonata nel grande mosaico della storia dell’antifascismo militante.

Dopo più di mezzo secolo, dal giorno in cui era stato fatto scomparire, il procuratore militare di Roma riusciva a mettere le mani su di un vasto archivio: esso conteneva «montagne di fascicoli polverosi ognuno con l’intestazione della strage cui si riferisce: Stazzema, Marzabotto, Fivizzano, Barletta, Matera, Conca della Campania, Roma, Carpi, Bolzano, Turchino, Milano... per un totale di 695 località. Contiene anche i fascicoli sugli eccidi dei nostri militari che non si arresero immediatamente ai tedeschi (...) In buona parte di quei fascicoli erano indicati anche i nomi degli assassini comprensivi del grado e del reparto di appartenenza» (L’Unità, 25 novembre).

Se non fosse stato per le alacri ricerche del procuratore militare di Roma chissà per quanti anni ancora questi documenti sarebbero rimasti celati e, forse, mai sarebbero tornati alla luce. Chi li aveva nascosti aveva agito con fredda premeditazione mettendo in pratica un piano geniale ed allo stesso tempo diabolico: gli scottanti dossier erano stati stipati nientemeno che all’interno di un... pensate un po’... armadio. L’armadio era stato chiuso a chiave, e della chiave nessuno ancora è riuscito a trovar traccia. Onde evitare che qualcuno, anche accidentalmente o per mera curiosità, potesse entrare in possesso del materiale contenuto, l’armadio era stato fatto ruotare su se stesso in modo che presentasse le ante a ridosso del muro. Per di più, davanti all’armadio era stato sistemato un cancelletto di ferro. Il quotidiano diessino tiene a precisare che era stato anch’esso meticolosamente chiuso a chiave e dal contesto dell’articolo si evince che anche di questa chiave non se ne sappia più niente. La diabolica mente non aveva tralasciato, infine, di collocare l’armadio in un luogo insospettabile: a Palazzo Cesi, sede della Procura Generale Militare.

Ora, il motivo per cui L’Unità riesuma la vicenda dell’archivio contente le prove delle stragi naziste deriva dal fatto che, dopo otto anni dal ritrovamento, la Camera dei deputati aveva approvato una proposta di legge per la creazione di una commissione bicamerale d’inchiesta sui citati eccidi e, passata al Senato, essa è stata bloccata dagli emendamenti proposti da Cirami, sostenuto dalla maggioranza di centro destra. Cosicché la proposta di legge «dovrà tornare alla Camera, poi di nuovo al Senato in un andirivieni continuo e lento (...) in modo che tutto finisca in paradiso. O, all’inferno. Fate voi».

Di fronte a questo atto di evidente insabbiamento della verità, il quotidiano diessino non usa certo mezzi termini: «Non si conoscono ancora con certezza i nomi ed i volti dei mandanti. Ma si sa chi è il killer, è colui che per la seconda volta ha assassinato le decine di migliaia di vittime massacrate dai nazifascismi durante l’occupazione tedesca tra il 1943 e il 1945. Si chiama Melchiorre Cirami». Poi, facendo brevemente la storia di questo materiale documentario, L’Unità scrive: «Il governo del Cln, quello presieduto da Ferruccio Parri, mette mano ai rapporti delle autorità alleate e degli allora ancora reali carabinieri per dare inizio alle istruttorie... Poi, cambiano i governi, si arriva alle compagini di centro destra (...) Cala il silenzio».

L’articolista esprime tutta la sua indignazione, la sua collera, il suo sdegno per questa macchinazione che, dalla fine della seconda guerra mondiale ad ora, ha fatto di tutto per nascondere ai cittadini la verità, ha coperto i criminali ed ha impedito alla giustizia democratica di sanzionare i loro delitti. Chi sono i colpevoli di ciò? Non ci sono dubbi: da sempre, i governi ed i rappresentanti dei partiti del centro-destra.

L’Unità si dimentica però di dire che anche dopo la caduta del governo Parri, alla quale contribuì pure il PCI, questo restò al governo ancora per un anno e mezzo e per tutto questo tempo furono i “comunisti” Togliatti e Gullo a ricoprire il dicastero della Giustizia. Questi, anziché a perseguire i criminali nazi-fascisti, si adoprarono ad amnistiarli, mentre invitavano prefetti e giudici a reprimere e colpire con pene esemplari gli operai in sciopero. L’Unità si dimentica pure di dire che dal 1994, data della scoperta del famoso archivio, all’installazione dell’attuale governo “di destra”, quando la loro coalizione rappresentava la maggioranza, quando erano alla guida del governo, di tempo ce ne sarebbe stato più che a sufficienza per presentare proposte di legge ed approvarle; per nominare la famosa commissione d’inchiesta; per dare la caccia ai “criminali di guerra” non ancora morti di vecchiaia.

È evidente che l’indignazione del giornale diessino, oltre che offesa all’intelligenza del lettore, è puramente strumentale, partigiana, finalizzata ad espediente di basso politicantismo. Del resto, contro lorsignori, questi stessi argomenti potrebbero essere benissimo usati anche dalla “destra” al potere. Ed infatti la nostra critica parte dalla dimostrazione della correità di entrambe le bande nelle peggiori espressioni della violenza reazionaria capitalistica.

Ma, anche se i nipotini pentiti dello stalinismo avessero tutte le carte in regola, i comunisti si rifiuterebbero ugualmente di farsi coinvolgere in queste campagne di un moralismo peloso, che pretendono di distinguere le guerre in legali ed illegali, ben sapendo che i crimini sono parte integrante della guerra imperialista, che sempre e comunque viene condotta contro il proletariato di tutti i paesi.

C’è una sola maniera per porre fine definitivamente allo sterminio di massa del proletariato internazionale sistematicamente perpetrato dai criminali di guerra e di pace del capitalismo, ed è quello di abbattere finalmente, con la guerra e la dittatura di classe, gli Stati capitalistici e le loro menzogne di Libertà e di Pace. Questo nelle colonne de L’Unità non lo leggeremo mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


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Una coperta sempre più corta

Con la busta paga di gennaio i lavoratori italiani vedranno un minuscolo aumento del loro salario netto, effetto della riduzione del prelievo IRPeF deciso dal governo e contenuto nella Finanziaria 2003. Nei piani dell’esecutivo, l’adozione di questa misura fiscale servirebbe ad “aumentare i consumi” e “dare slancio” all’economia, portando anche un “benessere diffuso” ai lavoratori dipendenti. Oltre le frasi dei tele-imbonitori è ovvio che quella riduzione dell’1% sul prelievo fiscale non porterà certo al rafforzamento del potere d’acquisto di salari e pensioni erosi in modo ben più consistente dal caro-vita.

Altre mazzate verranno nel 2003 con la ripresa dell’assalto alle pensioni, con i fondi pensione obbligatori finanziati col TFR e con l’immancabile aumento dei prezzi al dettaglio degli alimentari e delle tariffe. Invece i salari di molte categorie sono fermi per mancati rinnovi contrattuali e gli aumenti in linea con l’inflazione “programmata” nulla hanno a che vedere con l’inflazione reale.

La politica “federalista” ha il solo scopo di ridurre i costi. Dirottando la gestione di fondamentali funzioni, come la sanità, verso gli enti locali, questi, indebitati in modo spropositato, battono cassa, a loro volta, con l’aumento delle loro gabelle varie. Lo Stato, sempre per ridurre la spesa, diminuisce i trasferimenti alle regioni: la direttiva centrale è risparmio su tutta la linea e ristrutturazione, in primis sul servizio sanitario. Ecco che infuriano i piani regionali di “riordino” della sanità che prevedono la chiusura di reparti o di interi ospedali.

Così per i lavoratori italiani alla riduzione dell’IRPeF corrisponde un molto maggiore aumento di spesa per prestazioni assistenziali gestite dalle regioni o non più offerte dalla sanità pubblica. Il proletariato impoverisce e tira avanti solo con un aumento bestiale dell’orario e dell’intensità del lavoro.

Ma la coperta dei borghesi è sempre più corta. L’abrogazione dell’imposta di successione, come da programma elettorale delle “destre”, favorisce i patrimoni delle grandi famiglie borghesi e arreca all’erario perdite euro-milionarie? Poco male, basta aumentare i proventi del gioco del lotto salito a tre giocate settimanali o imporre una tassa di 20 centesimi sulle sigarette. Purtroppo il Parlamento (quell’istituzione obsoleta e di solo facciata, che recentemente ha fatto ricordare della sua esistenza per via dei “pianisti” - deputati e senatori che votavano al posto dei colleghi assenti), in una spuria maggioranza “bipartisan” ha bocciato la “porno tax” proposta dai soliti bacchettoni cattolici! Insomma la coperta delle finanze statali se la si tira da una parte ne lascia scoperte altre.

Per illudere di “sostenere” la declinante accumulazione di capitale lo Stato “liberista” concede, attraverso strumenti come la Tremonti-bis o il credito d’imposta, ingenti sgravi fiscali alle imprese, oltre alle sanatorie di svariati tipi di evasione. Questo mentre, per la generale crisi economica, l’atteso aumento della base imponibile delle imposte non c’è stato, falcidiata l’Iva, per altro, dall’abolizione della bolla di accompagnamento, grazioso omaggio agli evasori del precedente governo “delle sinistre”.

È davvero un gioco ben studiato quello di fare cadere ogni responsabilità delle difficoltà capitalistiche attuali sul “Premier” Paperone, costretto dalla goebbelsiana macchina di propaganda del regime borghese a fare il pagliaccio in dementi spot pubblicitari. In realtà tutti, a scala mondiale, destri e sinistri, non sperano che nella guerra all’Irak per rilanciare la loro economia. Si attende che il proletariato, che s’ammazza di lavoro e s’intossica alla televisione, cominci a mettersi di traverso a questa schifezza.
 
 
 
 
 
 
 
 


Anche in Svizzera “riduzioni” dell’orario e Referendum per ingannare i lavoratori

Si verifica molto raramente un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro per le classi sfruttate e sottomesse senza aver lottato nemmeno un giorno. Non fa eccezione il “paradiso svizzero”. Invece con grande sforzo i partiti pseudo-socialisti e i sindacati pseudo-operai, con l’appoggio di tutte le cosiddette “forze democratiche” e dell’apparato di propaganda dello Stato democratico-fascista, hanno cercato di illudere la classe proletaria sfruttata che esprimendo semplicemente il proprio voto potessero cambiare le sue condizioni.

È così che l’Unione Sindacale Svizzera nel 1997/8 decise di lanciare l’iniziativa di un referendum per ridurre progressivamente l’orario di lavoro ad un massimo di 1.872 ore annuali, che corrispondono ad una media settimanali di 36 ore per 52 settimane. Questa proposta di riduzione dall’alto dell’orario di lavoro era già stata avanzata anche in altri paesi europei, guidati in gran parte da governi di sinistra, specialmente in Francia e in Italia.

Non sembri strano che proprio in questo periodo in cui si vede l’accentuarsi della crisi economica e l’inarrestabile incremento della disoccupazione, alcuni settori delle varie borghesie abbiano preso in mano la bandiera della riduzione dell’orario di lavoro per portarla nella direzione a loro favorevole, prima che lo facesse il loro nemico di classe.

Nel passato delle lotte proletarie la riduzione dell’orario di lavoro è sempre stata, accanto agli aumenti salariali, la principale rivendicazione. Il programma del 1834 dei primissimi sindacati del Regno Unito, fondati nel 1829 sull’isola di Man, prevedeva la giornata delle otto ore. Non dimentichiamoci poi delle vaste agitazioni e gli scioperi negli Stati Uniti, famoso quello di Chicago, negli anni ’80 di due secoli fa con molti morti proprio per le otto ore. Il 1° maggio 1886 doveva essere, secondo una risoluzione della Federation Of Organized Trades and Labor Unions del 1884, l’inizio della giornata legale dell’orario di lavoro di otto ore. La reazione padronale fu durissima, con il formarsi di associazioni padronali tese a tenere sotto controllo se non far scomparire la pratica sindacale. Due giornalisti nel campo delle lotte operaie scrissero allora: «Dallo scorso maggio molte grosse società e associazioni padronali hanno fatto ricorso a ogni genere di espedienti eccezionali per spazzare via le organizzazioni operaie, che tanta forza avevano acquisito negli ultimi due o tre anni».

Proprio in memoria degli avvenimenti del maggio 1886, il 1° maggio diventava poi il giorno di lotta internazionale innanzitutto per la giornata lavorativa delle otto ore. Da allora tante furono le lotte, tanto il sangue versato da una classe che voleva spezzare le catene della schiavitù del lavoro salariato, di questa cosidetta “libera” società. E nonostante tutto ciò, oggi solo per una piccolissima parte del proletariato mondiale valgono le otto ore!

Perché allora, dopo 116 anni, il regime dei padroni si fa all’improvviso promotore della riduzione dell’orario? È diventato magari più buono proprio in un periodo storico col saggio del profitto che scende inarrestabile? Abbiamo scritto più volte che la loro riduzione dell’orario sarebbe tagliata sulle esigenze del capitale. Per averne conferma anche in questo caso basta leggere la proposta di legge dell’Unione Sindacale Svizzera.

A differenza della proposta francese con la riduzione dell’orario del lavoro non si prevedeva riduzione del salario fino a un tetto di 7.830 Franchi Svizzeri, che corrispondano ad un salario e mezzo della media svizzera. Se fosse vero sarebbe stata tutelata la stragrande maggioranza dei lavoratori, incluso una buona parte dell’aristocrazia, come per esempio i bancari.

Ma veniamo al resto. L’orario di lavoro sì verrebbe diminuito a 36 ore settimanali, però queste avrebbe dovuto essere il risultato della media nell’arco dell’anno. Questo avrebbe comportato la flessibilità dell’orario, col padrone che può adeguare l’orario alle esigenze della produzione, naturalmente sempre nei limiti previsti dalla legge. Il limite delle ore settimanali non avrebbe dovuto superare le 48 ore, il che è un peggioramento: l’attuale legge sul lavoro prevede un massimo di 45 ore e solo per alcuni settori 50 ore come per gli ospedalieri.

Sui periodi di scarsa attività invece la proposta di legge non diceva nulla: il padrone potrebbe senz’altro mandare a casa i lavoratori anche alcuni giorni. Adeguare la forza lavoro alla produzione sarebbero eliminati gli straordinari, se non del tutto sicuramente un buona parte e con essi il 25% di retribuzione in più rispetto all’orario regolare. Solo se alla fine dell’anno le ore lavorate avessero superato le 1.872 ore, cioè le 36 ore settimanali, comunque per non più di 100 ore, la legge prevedeva che queste ore in più avrebbero dovuto essere compensate con tempo libero.

Inoltre erano previsti dei temporanei sussidi statali per le imprese che diminuissero l’orario annuo del 10% o più.

Perché questa legge allora non ha suscitato interesse tra i padroni? Un punto fondamentale è sicuramente quello dell’abbassamento dell’orario a parità di salario. In più, nel frattempo, è stata modificata la legge sul lavoro, con l’appoggio sindacale e della “sinistra”, ovviamente a sfavore dei lavoratori. Per esempio é stato sospeso il divieto del lavoro notturno per le donne; l’orario dalle 20.00 alle 23.00 è trasformato in turno serale senza supplemento di paga, quando prima alle 20.00 iniziava il turno di notte con retribuzione supplementare del 25%.

Ma già nel rinnovo del contratto dei metallurgici nel 1998 (del quale riferimmo in questo giornale) dall’orario settimanale si passò all’orario annuale e per gli straordinari fu istituito per ogni lavoratore un “conto ore”, non retribuite ma recuperate a discrezione del padrone. Anche nelle ferrovie nel 1999 fu firmato un simile accordo. Insomma questa legge dove serviva al padronato è già stata introdotta e aumenti di salari se ne sono visti ben pochi, anzi i salari reali in questi ultimi anni sono scesi.

Del resto è significativo che il sindacato non ha per nulla mobilitato i lavoratori e neanche propagandato il referendum tanto che c’è da sospettare che molti lavoratori non se ne siano neanche accorti. Oltre alla critica ovvia di classe dell’istituto democratico e interclassista del referendum, una vera e propria democratica e legale violenza borghese e piccolo borghese su una questione di “mercato della forza lavoro”, “privata” da regolare fra padronato e classe operaia, in più, in Svizzera circa il 20% della popolazione non ha la cittadinanza e quindi diritto di voto ed è proprio fra questo 20% che troviamo una grande parte dei proletari.

Infine possiamo citare un sindacalista dell’U.S.S. che, dopo aver analizzato la dura sconfitta elettorale, 25% dei voti a favore e il 75% contrari con una partecipazione del 57%, dichiara: «Una larga parte della base è sicuramente favorevole ad una riduzione dell’orario di lavoro, però le paure di diminuzioni salariali e ancor più dello stress sul posto di lavoro erano molto grandi. Questo significa e stampiamocelo bene in testa che la base non ritiene i sindacati all’altezza di difenderli di fronte a questi pericoli».

Bene! Speriamo che il proletariato si renda conto di ciò che tanti già sanno, ovvero che sindacati di regime non fanno altro che gli interessi dei padroni e dell’economia nazionale. Per questo è necessaria una riorganizzazione al di fuori di questi apparati estranei agli interessi della classe lavoratrice e la rinascita del sindacato di classe che si muoverà contro i licenziamenti, le riduzioni dei salari, gli aumenti della produttività, contro ogni tipo di flessibilità e ogni riforma anti-operaia! Par fare questo non serviranno i referendum ma sarà necessario scioperare senza badare a nessuna legge borghese e senza alcun riguardo di fronte alla loro economia nazionale!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Taranto
Sulle lotte operaie pesa l’assenza della Camera del Lavoro

A Taranto la crisi del capitalismo sta scuotendo in modo acuto tanto la grande industria quanto le piccole aziende di servizi. È interessante notare come i diversi tipi di contratto e di categoria alla fine diano una risultante comune per i lavorati impiegati: non corresponsione del salario o perdita dello stesso, miseria e disoccupazione.

All’Ilva la causa specifica sembra la crisi di sovrapproduzione capitalistica dell’acciaio, a sua volta mascherata, negli ultimi mesi, in vertenza “ambientale” con la chiusura di impianti e la perdita già di 300 posti di lavoro per contratti atipici, non confermati. La cosa sta coinvolgendo anche il suo indotto marittimo: all’Anchor Shipping Agency 15 licenziamenti nelle varie sedi italiane, una ristrutturazione “atipica” motivata dall’uso improprio dei mezzi telematici aziendali! Per le aziende del gruppo Parnasso (Global by Flight e Tecnogest), che forniscono servizi alle Asl, è la crisi del “welfare-state” a flagellare: i salari non sono pagati dal lontano maggio e domani sicuramente arriveranno i licenziamenti. La Belleli è in crisi di liquidità per evidenti investimenti azzardati (con ancora 1.000 dipendenti da reinserire), stessa causa che ha coinvolto la CeDi Puglia, proprietaria della catena di magazzini “Gum” in Puglia, Calabria e Sicilia e con 1.200 salariati. La “speculazione” su aziende aperte grazie a finanziamenti statali e poi liquidate al cessare dei benefici, Fonderie Spa e cantieri navali Finapple, dietro il fumo moralista del profitto a spese dello Stato, nasconde la difficoltà di collocare merci su un mercato mondiale saturo anche di motoscafi, yacht e prodotti di alluminio. La locale crisi di liquidità nasce dalle sofferenze aziendali a recuperare crediti, figlie della debolezza sul mercato dei clienti, spesso piccole aziende agricole, artigiane e commerciali prossime al fallimento che giocano al risparmio coi fornitori.

Se per la grande industria e la grande distribuzione, dove soccorre la tradizione di difesa operaia sussiste una qualche presenza “sindacale” con l’istituto delle RSU, nelle piccole aziende le turbolenze del mercato si abbattono sulla classe operaia senza la pur minima difesa. Solo ne giunge un’eco lontana tramite le cronache giornalistiche che ogni tanto affrontano la questione come statistica sul numero di vertenze del lavoro o con inchieste sul lavoro nero o sulle nuove ondate migratorie verso il Nord Italia, mentre i proletari subiscono passivamente la violenza del sistema.

Occorrerebbe che per tutti i salariati, come per i disoccupati, ci fosse un punto di incontro e di organizzazione, una Camera del Lavoro. Il nome è sopravvissuto negli apparati delle Confederazioni, ormai divenute uffici burocratici o, al più, di consulenza per aiutare i proletari a pagare le tasse!

Le sedi dei sindacati di base, che a Taranto ci sono, alla maggior parte dei lavoratori sono sconosciute. Qui, per altro, si presentano non come ambienti propriamente sindacali, aperti a tutti i lavoratori, ma come sedi di gruppi con posizioni politiche estremiste ben definite e pregiudiziali.

Di queste debolezze lo Stato approfitta per discreditare tutti i sindacati di base, rivalutare la Cgil come unico serio paladino operaio, attaccandoli sul loro lato debole, quello politico, confusionariamente no-global e, nella sostanza, piccolo-borghese interclassista e reazionario. A Taranto si sono avuti così otto arresti, fra cui due esponenti della Condefederazione Cobas. Le pretestuose azioni giudiziarie, più che contro una ventina di individui dalle idee pasticciate, sono mirate contro la rinascita del Sindacato di Classe e del Partito della Rivoluzione. Fuori da questo marasma occorre nella classe un processo di decantazione della forma sindacale nella quale dovranno affermarsi i metodi di organizzazione e di lavoro propri della tradizione proletaria e non di quella, sottoproletaria, in voga nei centri sociali.