Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista" n° 307 - luglio-sett. 2004 - [.pdf]
PAGINA 1 – Duplice terrorismo antiproletario:
    -  La classe operaia irachena e i travestimenti del suo nemico borghese
    -  Il precedente dei socialisti di Serbia
    -  L’attentato di Madrid.
PAGINA 2 – La Libertà, oggi e domani
Notiziario: L’oppio migliore è quello afghano - Prestige, un anno dopo - Cina: uno solo il capitalismo - Parmalat “socialista” - Lo dicono loro - Sudan: Petrolio o religione? - I milioni della UGT - Cecenia: atrocità ricompensata - Tribunali anti-scipero - Israele e “armi di distruzione di massa” - Un incubo
PAGINA 3 ALGERIA, IERI E OGGI : 10. Capitalismo a viso scoperto: Farsa democratica tra massacri e crisi economica.
PAGINA 4 – Misera fine dell’imbroglio delle 35 ore
– Lo sciopero nei supermercati americani  (continua).

 
 
 
 
 

PAGINA 1


Duplice terrorismo antiproletario

La classe operaia irachena e i travestimentidel suo nemico borghese
 

Sedici mesi fa gli Stati Uniti, con l’aiuto della Gran Bretagna, invadevano il territorio dell’Iraq. Poi si sono aggiunti borghesie di secondo, terzo e quart’ordine, ma non meno criminali, ciniche e sanguinarie, come quella italiano. E di una ipocrisia, se possibile, ancora più rivoltante.

I motivi della guerra dichiarati erano pretestuosi: il regime iracheno veniva presentato come un pericolo per l’intera “comunità internazionale” perché in possesso di un arsenale di “armi di distruzione di massa”, rivelatosi poi inesistente, e di legami e protezioni, poi mai dimostrate, assicurate dal regime all’organizzazione “terrorista”, ma sempre più misteriosa, di Al Qaeda.

I veri motivi erano altri, molto più importanti nella contesa interimperialista: occupare un’area strategica e fra le prime nella produzione del petrolio, in modo da poter condizionare le economie dei maggiori blocchi mondiali, Cina, Giappone, India, Europa. Le oscillazioni attuali del prezzo del greggio dimostrano che l’operazione è riuscita.

L’intero paese fu occupato in poche settimane sia per la superiorità di mezzi dell’alleanza angloamericana, sia, e forse a maggior causa, perché l’esercito iracheno, ben più numeroso, disertava in massa, non ritenendo giustamente quei proletari in divisa di doversi minimamente sacrificare e versare altro sangue per gli interessi della loro borghesia e in difesa del loro Stato nazionale. Sapevano di non avere allora, né di avere oggi nulla da guadagnare dalla “vittoria” del proprio paese.

I guai per gli occupanti sono iniziati dopo la caduta, vergognosa, del regime di Saddam Hussein. La tenuta del territorio si è rivelata costosa per le truppe della Coalizione occidentale che, se pur presenti con quasi 200.000 uomini, non sono riuscite nell’opera di “pacificazione”. Presto il numero dei soldati occidentali uccisi per mano di una guerriglia ben armata, anche grazie alla gran quantità di armi rimaste disponibili dopo la guerra, ha superato di gran lunga quello dei militari morti durante l’invasione.

I partiti della “sinistra”, non solo Rifondazione in Italia ma ovunque, e perfino gruppi che si rifanno alla tradizione comunista, considerano sacrosanta l’azione delle bande armate ed esaltano le gesta della “resistenza” contro l’occupazione, incitano il proletariato mondiale a simpatizzare e quello iracheno ad appoggiarla, in nome della indipendenza nazionale del paese, della democrazia, della libertà...

Il comunismo autentico non può non dissentire da questa tragicamente errata prospettiva.

Il proletariato iracheno – che vanta una antica tradizione sindacale e di lotta sociale – è certo in grado di riconoscere di che razza sia chi dichiara di portare la “libertà”, mentre sgancia superbombe sulla popolazione civile.

I primi mesi dell’occupazione hanno confermato i suoi peggiori timori riguardo alle intenzioni del “liberatori”. Il disordine della guerra ha ulteriormente danneggiato l’economia del paese, della qual cosa fa le spese un numero enorme di disoccupati. Lo scioglimento dell’esercito e il licenziamento della estesa burocrazia legata al vecchio regime hanno ridotto alla fame altre decine di migliaia di famiglie, improvvisamente trovatesi senza reddito. Le devastazioni mirate e i saccheggi, che hanno colpito un paese impoverito da più di dieci anni di sanzioni e dalle precedenti guerre, comportano gravi disagi alla popolazione, priva di energia elettrica, con difficoltà per l’approvvigionamento di acqua e perfino di benzina. D’altronde l’amministrazione degli occupanti ha speso ben pochi quattrini per far funzionare le infrastrutture di base, già funzionanti ed efficienti ma che intenderebbe “ricostruire”.

Inoltre gli scontri armati fra le forze della coalizione e del loro governo fantoccio da una parte e le bande della guerriglia dall’altra, vedono l’impiego, da entrambi i lati, della strategia del terrorismo nei confronti della popolazione. Le rappresaglie sono pesanti e coinvolgono in massima parte la popolazione civile, il proletariato e il popolino urbano, che è anche sottoposto a rastrellamenti e arresti indiscriminati.

La denuncia dei tristi effetti dell’occupazione militare sul proletariato iracheno è naturalmente più che motivata. Il governo iracheno, diretta emanazione dell’occupante, con in testa un Allawi, ex agente della CIA, non si è dimostrato nei confronti dei lavoratori per niente migliore di quella di Saddam Hussein. E il proletariato iracheno sa che ben poco verrebbe a cambiare anche quando il governo del paese emanasse da un parlamento eletto dopo formali, multipartitiche e democratiche elezioni politiche.

Ma la realtà dei fatti è che sul territorio iracheno si combatte una guerra fra i diversi imperialismi per la divisione del bottino, dalla rapina della rendita petrolifera alle commesse della “ricostruzione”. La vile e impotente borghesia irachena si barcamena e appoggia in parte all’uno in parte all’altro imperialismo e, se possibile a più di uno contemporaneamente. È baatista e anti-baatista, laica e islamica, democratica e integralista.

E in contesa c’è lo sfruttamento del proletariato. Per il proletariato iracheno, quindi, la lotta contro l’occupazione militare, in sé, è un obbiettivo di nessun significato, un cul di sacco nel quale lo si vuole spingere distoglierlo dai suoi fini ed interessi immediati, per sottometterlo, terrorizzarlo ed per utilizzarlo come carne da cannone per gli sporchi e reazionari giochi borghesi.

Lo Stato iracheno – pienamente borghese per quanto un burattino degli americani – è condannato dal petrolio racchiuso nel suo sottosuolo ad essere nel mirino delle maggiori potenze capitalistiche del globo. La sua indipendenza, dopo che nel 1956 le truppe britanniche lasciarono il Paese, è stata solo formale, a parte, forse, il breve arco di anni in cui una giovane borghesia nazionalista ha tentato di raggiungere una relativa autonomia ma solo approfittando delle divergenze tra i blocchi nel periodo della “guerra fredda”.

Il clero islamico non rappresenta un’alternativa al regime borghese, se non in un suo travestimento che serve a nascondere dietro le infuocate invettive la sua intelligenza con le forze economiche dominanti e con le cancellerie segrete dei paesi imperialisti.

Un proletariato occidentale, meno imbastardito da decenni di predominio opportunista, metterebbe tra i suoi primi compiti la lotta contro il militarismo, contro la guerra e l’occupazione militare di altri paesi, denunciando ogni solidarietà alle mene imperialiste della propria borghesia. Denuncerebbe che anche nei paesi interventisti è la classe dei lavoratori a pagare i costi materiali della guerra.

Ugualmente il proletariato iracheno fuggirà ogni ipotesi di collaborazione con movimenti borghesi, che è far loro troppo onore dire nazionalisti – la cui ferocia antiproletaria è stata dimostrata a più riprese proprio in Iraq.

La guerra tra Stati borghesi rompe la solidarietà tra proletari, spediti sui fronti a scannarsi reciprocamente, ma non la solidarietà tra le contrapposte borghesie che, prima dell’interesse nazionale, pongono al primo posto il comune loro interesse di classe, la conservazione del dominio sulla classe operaia.

Un esempio di questa solidarietà borghese si verificò in Iraq nel 1991 quando, dopo la sconfitta nella guerra per il Kuwait, migliaia di soldati iracheni al Sud e al Nord rivolsero le armi contro il regime odiato che per lunghi anni li aveva mandati al massacro, trovando l’appoggio del proletariato. Le armate americane che stavano risalendo verso Baghdad fermarono l’offensiva, cessarono i bombardamenti contro i reparti della Guardia Repubblicana, fedele a Saddam, e appoggiarono la repressione della rivolta. Il sanguinario Saddam Hussein salvò il potere e la pelle proprio perché fu ritenuto indispensabile per assicurare la pace sociale nel paese, e gli interessi delle potenze occidentali.

La guerra in corso è un altro atto dello stesso dramma, fra gli stessi attori. E i lavoratori iracheni devono denunciare anche la guerra di oggi, da entrambi i lati. Si svolge in Iraq, ma assume sempre più le caratteristiche della preparazione di un generale Terzo Conflitto imperialista, e anti-proletario.

La “resistenza” irachena rappresenta uno dei fronti su cui si è schierata una parte della borghesia, con l’appoggio più o meno esplicito di uno schieramento di Stati che mal sopportano l’egemonia statunitense. I comunisti e la classe operaia irachena e internazionale non hanno da schierarsi né con gli uni né con gli altri ma contro ambedue.

Del resto, un repentino ritrarsi delle truppe d’occupazione dall’Iraq potrebbe non portare affatto ad un miglioramento della situazione per le masse povere, in una situazione di indefinita instabilità politica e sociale, abilmente alimentata dall’interno e dall’esterno. La classe operaia irachena non ha nulla da guadagnare dalla partenza degli americani, dopo di che si troverebbe schiacciata forse in modo ancora peggiore, sotto un aperto regime islamico, come in Iran, o di arbitrio totale, come in Somalia. Dietro l’apparente caos, continuerebbero a premere sulle sue spalle sia la dittatura della borghesia nazionale, comunque camuffata, sia gli artigli della rapina imperialistica.

La prospettiva anche per il proletariato iracheno oggi non può essere che un’altra. Difenda intanto la classe operaia irachena i suoi interessi e si organizzi autonomamente in solidi sindacati, come sembra stia già coraggiosamente facendo.

Sul piano politico al proletariato occorre si ricostituisca il suo partito internazionale fondato sull’integrale e originale programma comunista marxista. Un partito che abbia tratto tutte le lezioni della controrivoluzione staliniana con i suoi terribili effetti sul nostro moviento sia nei paesi industrializzati sia in quelli arrivati dopo al capitalismo moderno. Solo attrezzata con un simile partito, e unificata in esso, la classe dei lavoratori potrà vincere.

Compito del Partito Comunista Internazionale di oggi è tenere fermi, in un isolamento quasi completo, questi punti cardinali del comunismo.
 
 
 
 
 
 

Il precedente dei socialisti di Serbia

Nel 1914 un Impero multinazionale, quello asburgico, intendeva sfruttare le sue potenzialità militari per reagire ad uno stato di crisi politica, economica e sociale sempre più minacciosa. Si cercava sia di reprimere i movimenti nazionalisti, sia il crescente movimento operaio, sia di opporsi alla pressione dell’impero russo nei Balcani.

L’azione bellica fu indirizzata verso la piccola ma riottosa Serbia, da secoli baluardo contro il turco invasore.

Come tutti sanno l’assassinio dell’Arciduca d’Austria, vittima sacrificale offerta ai nazionalisti della “mano nera” – banda non meno misteriosa ed equivoca dell’attuale “terrorista” di Al Qaeda – determinò il famoso ultimatum austriaco, al quale la Serbia rispose accettandone praticamente tutte le condizioni, così come ha fatto il regime iracheno dinanzi alle ripetute ingiunzioni ed ispezioni di Washington. Il risultato, lo sappiamo, fu lo stesso: la guerra dichiarata nonostante tutto.

A differenza della guerra irachena, quella si trasformò subito in guerra mondiale per il coinvolgimento immediato della Russia da una parte e della Germania dall’altra, seguita immediatamente da Francia e Inghilterra.

Quello che ci interessa però mettere in evidenza è l’atteggiamento che mantenne allora il piccolo partito socialista serbo e il socialismo di sinistra a livello internazionale di fronte a questo palese atto di aggressione di un grande Impero contro un piccolo Stato.

Il Partito Socialista di Serbia non chiamò alla resistenza contro l’invasore. Anzi, facendo proprie le parole d’ordine del socialismo rivoluzionario, chiamò il proletariato serbo a non aderire alla difesa della patria minacciata e invasa, chiamò invece al disfattismo rivoluzionario, ricordando ai proletari che il loro primo nemico è nel loro paese, costituito dalle classe dominanti, dai capitalisti e dagli agrari che con le guerre si arricchiscono sulla pelle dei proletari.

I proletari serbi, non appoggiati da una sollevazione proletaria europea e degli altri partiti socialisti contro la guerra, fu spedito nelle trincee per lunghi anni. 400.000 di loro, su 4 milioni di abitanti che aveva il paese, furono trucidati. E chi sopravvisse si ritrovò alla fine un regime forse peggiore di quello austriaco.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

L’attentato di Madrid

Pubblichiamo qui una nota – tradotta dall’ultimo numero della nostra rivista in lingua spagnola La Izquierda Comunista – che inquadra l’attentato di sangue e morte dell’11 marzo scorso in un treno a Madrid.

Giungono oggi dall’Ossezia le notizie di un ennesimo ed analogo atto di terrore, che tutti gli altoparlanti degli opposti regimi borghesi descrivono come episodi di uno inspiegabile quanto “inevitabile” scontro fra le “civiltà”, fra le religioni e le razze umane. Da più parti, le più autorevoli, si ripete, con malcelata soddisfazione, che “è così già iniziata la Terza Guerra mondiale”, colpa una “aggressione” dalla quale “tutti” saremmo “costretti” a “difenderci”.

Ancora una volta in Ossezia dobbiamo invece rilevare che le vittime del “terrorismo” sono state solo e soltanto proletari, evitando sempre accuratamente i mandanti di simili azioni suicide di minacciare i simboli, gli uomini e gli apparati degli Stati che dichiarano, a parole, essere loro “nemici”.

Per contro i “nostri”, le forze militari degli Stati “aggrediti” non esitano ad aiutare i “fanatici islamisti” a fare a pezzi i corpi dei disgraziati proletari, letteralmente presi nel mezzo fra le due furie omicide. Così in Ossezia, così in Iraq, così in Palestina: il “terrorismo”, che mai dichiara alcun programma politico né referente sociale, è sempre funzionale alla propaganda del militarismo capitalista, ai Putin e ai barbuti ceceni, alla banda Bush-Bin Laden, ai vecchi compari, complementari e collaboranti, Sharon-Arafat.

È vero, è una guerra. La loro, comune, guerra contro la classe operaia mondiale, guerra per distoglierla dalle sue lotte e dalla sua organizzazione, contro quella classe operaia che ovunque, al Nord come al Sud del Mondo, in Europa come in Medio oriente, negli Usa come in Russia e in Asia è oggettivamente l’unico vero grandeggiante potente e incontenibile nemico mortale di questa società putrefatta e assassina.
 



 

Le perdite civili causate dai grandi conflitti bellici capitalistici aumentano via via che il Capitale estende al pianeta la sue leggi mercantili e, con esse, perfeziona costantemente i mezzi di produzione, e di distruzione. Lo dimostra il confronto fra il numero delle vittime civili in quello che fu il primo conflitto imperialista europeo, fra Stati pienamente capitalisti, la guerra franco-prussiana, con quello nella Prima Guerra mondiale e soprattutto nella Seconda. Da considerare anche le conseguenze sulla popolazione dei cosiddetti “conflitti minori”, praticamente ininterrotti fin dalla resa degli Strati dell’Asse nel 1945.

Poiché il proletariato per il Capitale non è che una merce, che deve essere soppressa quando necessario, è da prevedere che i prossimi cozzi interimperialistici troveranno nella massa della popolazione civile, cioè nel proletariato, un obbiettivo inerme e senza capacità di risposta. Così è successo nelle ultime guerre balcaniche, in Africa e, per opera del terrorismo, come abbiamo potuto verificare, in Spagna.

Gli attentati del marzo scorso a Madrid sono da considerare una macchinazione di quelle che i diversi Stati borghesi utilizzano in funzione dei loro scopi, ai quali ben si prestano, per il carattere segreto, le organizzazioni che fanno del terrorismo il loro modus operandi. Non v’è praticamente alcuna organizzazione di questo genere e ovunque che non mantenga, direttamente o indirettamente, coscientemente o incoscientemente, un legame con qualche apparato di Stato.

Attentati a basso costo e di grande ripercussione sono gli ideali in questa logica criminale capitalistica. È così che i treni della periferia di Madrid, stracolmi di lavoratori nell’ora di punta, erano un obbiettivo perfetto. Gli esplosivi, procurati tramite un delinquente-confidente della polizia, furono piazzati nei treni in degli zaini, dei quali nessuna delle vittime che dormivano nelle carrozze poteva immaginare il contenuto. Le bombe, armate a mitraglia per provocare il maggior numero di vittime, sono esplose con i risultati che tutti conosciamo.

Che si sia trattato di un attacco contro la nostra classe è fuori dubbio. Non un attentato contro gli spagnoli, poiché molte delle vittime, morte o ferite, erano di altre nazionalità, tantomeno un attentato contro la cristianità, come ha insinuato quel mestatore del prete Rouco Varela. No, il solo tratto comune a tutte le vittime era la loro condizione di lavoratori, di schiavi salariati che debbono procurarsi il sostentamento spostandosi, a volte molte decine di chilometri, per andare a sopportare lunghe ed estenuanti giornate per pochi soldi.

Madrid è tornata ad essere in quegli istanti la città martire che fu negli anni lontani della guerra civile, quando i bombardamenti fascisti accompagnavano le attività quotidiane dei suoi abitanti operai. Anche in quella occasione erano i quartieri proletari i più colpiti dall’aviazione e dall’artiglieria franchista. E come allora, e come suole accadere fra la gente umile nelle avversità, è emerso l’istinto solidale, questa caratteristica della specie umana dal comunismo tribale fino alla maledetta attuale società classista. In modo spontaneo fu fatto tutto quello che si poteva, gli uni prestando soccorso ai feriti nella zona della tragedia, gli altri, migliaia, offrendo il proprio sangue a colmare l’enorme emorragia versata dalla classe operaia di Madrid e mondiale. Gesti, occasionali certo, però significativi, che ci ricordano come lo spirito del comunismo non sia del tutto cancellato dopo migliaia di anni di società classiste fondate sulla disuguaglianza e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Istinti che contribuiscono a rafforzare la nostra fede nella rivoluzione e nella società senza classi, conseguenza della dialettica storica.

Poi, dopo l’emozione, è venuta la riflessione. Chi ha istigato gli attentati? Qual’era il loro vero scopo?

Poiché non possiamo muoverci che sul piano delle congetture, e alla luce dei risultati, ci permettiamo di ipotizzare che ciò che si cercava era di riorientare la politica estera spagnola, utilizzando stavolta il cosiddetto terrorismo islamico.

A pochi giorni dalle elezioni generali gli attentati hanno influito decisamente sul loro risultato. Questo era presente al governo borghese del PP fin dal primo momento, da qui i patetici sforzi per incolpare l’ETA, cercando di allontanare i sospetti dalla rappresaglia islamica per l’appoggio spagnolo agli Stati Uniti nell’invasione dell’Iraq. L’impressione è stata che il PSOE si sia ritrovato una vittoria elettorale insperata, e nemmeno in un certo senso voluta, alla luce del suo atteggiamento di prudente silenzio davanti all’attentato e alle menzogne governative.

Sono state quelle menzogne e la vergognosa manipolazione dei fatti nella imminenza delle elezioni che ha spinto, la notte precedente ad esse, migliaia di persone a scendere nelle strade. Che l’obbiettivo dei più non fosse altro che far cadere il governo del PP risultò confermato dalla vittoria del PSOE, che ha fatto cessare ogni manifestazione. Pertanto nessuna “azione di massa” di maggiore importanza, come hanno allegramente proclamato alcuni. In realtà, ciò che è successo, tutto perfettamente nella più assoluta normalità democratica, è stato un passaggio di consegne delle redini dello Stato capitalista spagnolo. Come conseguenza, essendo normale che il PSOE avrebbe approfittato dell’occasione che gli si offriva, stiamo oggi assistendo a svolazzi retorici che il governo “più a destra” di Aznar sarebbe stato incapace di pronunciare: cioè, maggiore legame con l’imperialismo europeo che con quello USA, ulteriore liberalizzazione dell’aborto, ma senza fretta, togliere l’obbligo della religione nelle scuole, ma vedremo poi come andrà a finire, uguaglianza dei diritti per le coppie omosessuali, e poco altro. Per quel che è importante, le leggi sul lavoro e la politica economica, tutto rimarrà lo stesso, cioè dipendendo soltanto dal grado di combattività della classe operaia, che sta toccando anche in Spagna i suoi minimi storici.

Riassumendo, ancora una volta sangue del proletariato è stato versato per scopi che non sono i suoi, ma dei suoi diretti nemici. Onoriamo i nostri caduti perseverando nella lotta contro questa società infame.
 
 
 
 
 
 
 

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La Libertà, oggi e domani

L’ideologia ufficiale del Capitalismo, che ce la sorbiamo da tutti i programmi “intelligenti ed educativi”, si basa sulla mitizzazione della cosiddetta “libertà di scelta”, concetto vuoto come “natura umana”, che non indica nulla di concreto. Quella, se non si limita ad esprimere la “libera impresa in libero mercato”, ma sotto la “protezione” dello Stato, è una vera buaggine.

Infatti ogni “scelta”, di un individuo o di qualunque di un sistema vivente, è una soluzione di “massima resa col minimo sforzo”, al fine della sua sopravvivenza, fatta in base alle conoscenze acquisite. La leggendaria libertà borghese altro non è che attribuire all’individuo isolato, soggetto economico, la determinazione delle soluzioni a beneficio della propria sopravvivenza, e la rilevazione dei dati attinenti la sua delibera.

In realtà la libertà “vera”, assoluta, non può esistere altrimenti il mondo sarebbe un caos totale e, quindi, inesistente. Prendiamo, ad esempio, una scimmia che si trova a scegliere tra due banane quale mangiare, l’una posta più in alto dell’altra. La scimmia deve scegliere quella più in basso perché ogni forma di vita, uomo compreso, è un sistema che richiede il massimo rendimento, principio base della vita. Se un sistema vivente, oggi ridotto all’astrazione dell’individuo, non si basa su questo principio, in breve si distrugge, e cessa come forma vivente.

Il filosofo illuminista Immanuel Kant affermava, in difesa del concetto di libera volontà dell’Uomo, che la legge degli Stati punisce gli individui che commettono una “scelta errata”, un “torto”, presupponendo che essi lo facciano “liberamente”, con l’esclusivo ausilio della propria volontà. Ma noi sappiamo bene che la sovrastruttura giuridica di uno Stato non ha lo scopo di punire o premiare il comportamento dei cittadini, bensì quello di indirizzare tale comportamento per mantenere l’ordine costituito, il “vivente” (si fa per dire!) modo di produzione capitalistico, fondato sul privilegio di classe.

Questa libertà appariva quasi “possibile”, e fu osannata, nella fase di espansione capitalistica, quando effettivamente il capitalismo “liberava” l’uomo da antichi vincoli, quando davvero, per dirla col Poeta, “ognuno è artefice della propria fortuna”. Oggi, in fase imperialista e di crisi di sovrapproduzione, che necessita di forti interventi centralizzatori e reazionari, la parte più avanzata e cosciente del mondo intellettuale borghese nega sempre più l’esistenza della libertà, come degli altri “valori” borghesi, affermando la necessità di “altri valori” che tengano conto dell’influenza dell’ambiente (la crisi economica, la guerra) sulla vita degli individui. Solo nelle “soap opera” si sente ancora dire la minghiata che la vita “te la costruisci da solo”.

L’altro aspetto che rende più ridicolo ancora il concetto di libertà borghese è l’irretroattività. Nell’accezione filosofica classica il concetto di libertà, oltre ad essere data dal “processo decisionale”, che presuppone una Volontà separata dal Mondo, che decide senza alcuna influenza di questo, è data anche dallo svolgimento con cui il soggetto realizza la sua scelta. Il soggetto che realizza la sua scelta, non ha la possibilità, quando lo voglia, di tornare indietro sui suoi passi, cancellare gli effetti delle sue azioni e rifiutarsi di realizzare o di tenersi i frutti della propria scelta. Ogni “libera scelta” diviene così una irreparabile amputazione della propria “libertà”.

Per questo ogni scelta è un dramma e talvolta un trauma intollerabile nella vita di un essere umano. Ogni soggetto rimane intrappolato nella spirale delle scelte che è stato spinto a fare, deve subire le conseguenze della strada che ha precedentemente intrapresa.

Prendiamo come esempio i due principali istituti borghesi che hanno lo scopo basilare della produzione e riproduzione della Specie: il lavoro ed il matrimonio.

Di fronte al lavoro, per la maggior parte salariato, esempio di “libertà ed emancipazione” dell’Uomo, vi è da dire che la scelta è davvero ampia: lavorare o essere emarginati. Sottoporsi alle vessazioni, allo sfruttamento e alla fatica quotidiana o essere condannato all’umiliazione, alla sozzura, ad una vita bestiale e randagia. Anche la scelta della professione da svolgere è tutt’altro che il frutto di una scelta libera: ogni individuo fa ciò che gli eventi della propria esistenza, determinati dal turbinoso ambiente in cui vive, lo spingono a fare, dalla sua provenienza e dal suo sviluppo che lo collocano in una certa “nicchia” nel mercato del lavoro.

Guardando da vicino gli svariati esempi di matrimonio, ci sovviene il sospetto che tale istituzione sia sempre meno “naturale” e faccia sempre più fatica a sopravvivere. Per il borghese maschio, il matrimonio è qualcosa che lo porta ad interpretare il ruolo del padre padrone, che non deve essere poi molto piacevole e che comporta arrabattarsi per soddisfare i consumistici capricci di moglie e figli. La femmina borghese può invece scegliere fra il ruolo o della donna sottomessa che si è venduta al marito e che tutto subisce con religiosa pazienza o dell’isterica e capricciosa padrona di casa.

Ma anche nelle più paritarie famiglie proletarie (benché lì l’ideologia e i valori borghesi attecchiscano anche meglio e facciano più fatica a morire) dove marito e moglie collaborano per sbarcare il lunario, si nota che il desiderio di stare insieme per tutta la vita è più un’eccezione che non la regola e la monogamia appare tutt’altro che una condizione naturale degli esseri umani. In effetti anche la scelta del coniuge è determinata dall’ambiente e dagli eventi da esso determinati nella vita dell’individuo: egli sceglie la persona con cui ha degli interessi, delle aspettative comuni, condizione questa che, come tutte le altre, non è per nulla immutabile durante la vita di una persona. La soluzione che la moderna società offre a tale condizione è il divorzio, che è però troppo oneroso per la maggior parte delle famiglie lavoratrici, sia in termini economici sia come difficoltà nell’educazione e nell’allevamento dei figli. La maggior parte dei coniugi passano, quindi, la vita insieme per necessità.

Altro concetto di libertà, ben più concreto e coerente, è quello che gli dà il marxismo, che presuppone una liberazione da qualcosa, da un preesistente storico gravame: la libertà degli schiavi romani dai latifondisti proprietari di schiavi, ovvero la libertà dei servi dai feudatari, la libertà della borghesia rivoluzionaria da nobili e clero per sprigionare le forze produttive capitalistiche, infine la libertà del lavoro salariato dal Capitale.

Alla società futura, comunista, proprio in quanto liberata dai rapporti economici e dalle costrizioni del bisogno immediato e ricca di enorme potenza effettiva su se stessa e sull’ambiente, si porrà davvero la crescente necessità di scelte gravi e di serie di critici dilemmi circa la via da intraprendere.

A fronte di cotanta scienza e forza dovrà soccorrere anche un nuovo tipo, superiore, di adeguata espressione e controllo della emotività collettiva. Tutte le società, fin dalle più primitive, ancora comunistiche, si sono date riti e cerimonie, una liturgia (che vuol dire “luogo ove si lavora insieme”), di danze e canti e ove si beve e si consumano pasti preparati alla bisogna. Il fine è dichiarare e affrontare insieme il misto di terrore-attrazione che felicemente caratterizza la nostra specie nei confronti del futuro e dell’ignoto.

Per noi individui, immersi nella società borghese, la “scelta” è molto più semplice: sottomettersi o combatterla! Oggi la classe operaia, sola, può tornare ad essere “libera” e “artefice della propria fortuna”, rintracciando, accettando, sottomettendosi al sua programma rivoluzionario comunista e disciplinandosi al suo partito.
 
 
 
 
 
 

NOTIZIARIO

L’oppio migliore è quello afghano

Dopo che le truppe del Bene hanno cacciato il Male, la produzione di oppio in Afghanistan è cresciuta dal 6% rispetto all’ano passato. Così questo singolare paese si è diventato il primo produttore mondiale della altrettanto singolare materia prima. La superficie coltivata è passata da 74.000 ettari a 80.000. Nel 1999 si produceva in 18 province, oggi in 28 delle 32 nelle quali si divide il Paese. Nonostante la “proibizione” del governo condotto da Hamid Karzani di coltivare l’oppio è certo che l’affare prospera e muove 1,3 miliardi di dollari, la metà del PIL del Paese. L’Afghanistan non è l’Iraq, manca di petrolio, e con qualcosa dovrà ben pagare le spese della guerra, dell’occupazione e la corruzione delle bande criminali locali. Come sempre l’oppio, oltre ad affare redditizio, adempie ad una importante funziona controrivoluzionaria.

Prestige, un anno dopo

Senza alcuna certezza sulle capacità di resistenza del relitto, la presenza in fondo all’Atlantico di quel mostro marino con migliaia di tonnellate di petrolio nelle cisterne, continua ad essere una questione incandescente. Quello che è invece sicuro è chi pagherà l’indennizzo ai danneggiati. Secondo quanto ha dichiarato il Direttore del Fondo Internazionale di Compensazione dei Danni provocati dagli Idrocarburi, il suddetto Fondo dispone di liquidità equivalenti solo al 15% del totale dei danni e che per quanto riguarda il rimanente “dovrà aiutare il contribuente spagnolo”, cioè i proletari, che sono quelli che pagano le tasse.
È passato un anno e lo Stato borghese ha messo mano all’opera creando inutili organismi burocratici diretti da politicastri con salari milionari. Non è stata approntata nemmeno un’opera di prevenzione, cosicché innumeri fratelli gemelli del Prestige continuano a solcare le acque della Galizia.
D’altro lato sembra che l’esperienza delle migliaia di volontari sia sembrata geniale e danno per fatto che, giunto il momento, dopo un nuovo disastro, la ripeteranno. Si parla perfino di organizzare le prossime olimpiadi a Madrid con l’aiuto di “volontari” che, come schiavi moderni, compensati solo con vitto e branda, serviranno utilmente il capitale.

Cina: uno solo il capitalismo

Il mondo assiste stupefatto all’incomparabile progresso dei metodi “socialisti” in Cina. Il governo ha annunciato la chiusura di 2.500 imprese pubbliche in due anni, con una forza lavoro di più di 5 milioni di lavoratori. L’ha detto molto chiaramente il ministro Li Rong: “Le imprese in rosso che ancora lavorano saranno senz’altro tutte chiuse”. Le banche infatti non rinunceranno ai debiti contratti da queste imprese, che montano a 25,21 miliardi di Euro. Dal 1998 la Cina ha licenziato 28 milioni di lavoratori statali e le cose sembra continueranno così giacché, secondo lo stesso Li Rong, la maggioranza delle imprese pubbliche cinesi sarà privatizzata nei prossimi 5 anni. Solo chiede, come i suoi omologhi stalinisti europei, che si riconosca una volta per tutte che effettivamente, grazie alla rivoluzione borghese maoista, la Cina è equiparata al resto del mondo: un paese con un solo sistema: quello capitalista.

Parmalat “socialista”

A Cuba è stata scoperta una frode gigantesca per un valore di miliardi di dollari. I dirigenti della impresa Cubacanán hanno fatto né più né meno che i loro omologhi del resto del mondo. L’esistenza della frode finanziaria anche a Cuba pone solo in evidenza il carattere apertamente borghese del suo sistema socioeconomico perché, ed è necessario ripeterlo un’altra volta data la attuale debolezza della memoria umana, ciò che caratterizza la economia socialista, che nascerà insurrezionale o non sarà, è l’inesistenza di bilanci economici di impresa, di profitti e di perdite, di scritture monetarie e di scambio di equivalenti. Nella società socialista non potranno esistere frodi finanziarie per la semplice ragione che non vi esisterà moneta, ne tantomeno profitto ed interessi, individuali, di impresa, di Stato.

Lo dicono loro

«I profitti del primo trimestre si preannunciano buoni e le borse li aspettano con ottimismo. Tuttavia molti analisti mettono in guardia: il ritorno alla redditività è stato in buona parte grazie al taglio dei costi, a partire da quelli del personale, non da un improvvisa espansione delle vendite» (“Affari e Finanza”, 29 marzo).
Gli analisti borghesi più ottimisti sostengono che, tutto sommato, le azioni rendono come non da tempo dimostrando che poggiano su di piedistallo di granito incuranti di guerre, bombe e altre catastrofi. “Sottili critici” fanno notare che questi utili non nascono da un’espansione-boom dei mercati, dei consumi e degli investimenti, ma solo da una compressione scientifica dei costi. Le grandi multinazionali e le piccole imprese hanno tagliato i posti di lavoro e così si spiega perché, nonostante l’economia americana abbia ripreso a “volare”, l’occupazione rimane sempre al palo.
Con sempre meno salari in giro è difficile dare sfogo alla sovrapproduzione. Una maggiore intensità del lavoro con un maggior orario di lavoro per i salariati che restano inseriti nel ciclo produttivo provoca aumento di produttività del lavoro sociale e del saggio di sfruttamento. Ma la massa del Capitale, e dell’esercito industriale, si contrae. È questo che, in ultima istanza, conduce il Capitale alla catastrofe.

Sudan: Petrolio o religione?

Con una popolazione di 31 milioni di abitanti, in Sudan, paese con una superficie tre volte l’Italia, si va combattendo una cruenta guerra civile pseudo-religiosa. Il conflitto, con due milioni di morti in venti anni, è stato presentato alla popolazione mondiale come uno scontro fra cristiani del Sud e musulmani del Nord. Guarda caso, però, che ancora una volta nel mezzo ci si ritrova il petrolio, sbaragliando tutte queste falsità e mostrando apertamente la vera natura anche di quella guerra: il controllo dei ricchi giacimenti (si parla di una produzione per il 2007 di 500.000 barili al giorno), con la zuffa fra le diverse potenze imperialiste per tanto goloso boccone.

I milioni della UGT

Secondo la denuncia presentata in Spagna alla Finanza dalla Guardia Civile, il sedicente “sindacato di classe” UGT si sarebbe appropriato di sette milioni di Euro destinati ai famosi “corsi di formazione continua” per i lavoratori. Non è la prima volta che vengono fuori notizie di questo tipo, né sarà l’ultima. A queste “imprese sindacali” quello che meno importa è la “formazione” per la sicureza degli operai. Tantomeno della loro vita, complici dello smisurato numero di accidenti sul lavoro che sono in Spagna i maggiori di Europa.

Cecenia: atrocità ricompensata

Il Ministro dell’Interno russo ha nominato comandante in capo delle truppe destinate alla Cecenia il generale Dadónov, il quale la stessa stampa russa accusa di atrocità senza limite contro la popolazione cecena. Questa nomina è l’evidenza della recrudescenza della guerra caucasica e delle sue ripercussioni terroristiche contro la popolazione civile lavoratrice, tanto russa quanto cecena.

Tribunali anti-scipero

Anche se i sindacati sono, bene o male, rispettosi delle leggi, l’ordine borghese si dà alla repressione individuale. Così è successo con alcuni lavoratori del sindacato galiziano CIG, condannati fino a sei anni di carcere per aver formato un picchetto che si suppone abbia “coartato” alcuni crumiri durante lo sciopero generale del giugno 2002. I “gravissimi” delitti imputati erano “spinte”, “percosse alle spalle” e aver gettato sacchetti di spazzatura contro le vetrine di un bar.

Israele e “armi di distruzione di massa”

Secondo la Associazione degli Scienziati Atomici lo Stato di Israele possiede niente meno che 200 bombe atomiche. Il fatto non costituisce nessuno scandalo, né sarà sicuramente motivo di invasione poiché si tratta dello Stato lacché degli Usa. Inoltre di una piena democrazia che, come tutti sanno, si distingue per l’uso “razionale” e sempre “ben proporzionato” della violenza, anche atomica.

Un incubo

Stime borghesi prevedono (o sperano) che nel 2020 circoleranno nel mondo due miliardi di automobili. Vogliono infatti costringere ogni famigliola asiatica a farsi inghiottire, poveretta, dalla scatoletta-simbolo della libertà consumistica – genitori davanti, figlioletti dietro – a dannarsi nel traffico e ad appestarsi di fumi velenosi. Tommaso Hobbes denunciava che nel suo secolo, il ‘600, a causa della rovina e la morte per fame dei piccoli agricoltori inglesi, in seguito alla violenta trasformazione a pascolo estensivo delle loro fattorie, “le pecore mangiavano gli uomini”. Si potrebbe calcolare quando la fertilità delle automobili, in aumento, supererà quella degli uomini, calante, in questo dantesco orribile pasto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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ALGERIA, IERI E OGGI

10. CAPITALISMO A VISO SCOPERTO
(continua dal n. 305)

Farsa democratica tra massacri e crisi economica

(Continua al n.309)

 
 
 
 
 
 
 
 

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Misera fine dell’imbroglio delle 35 ore

«Ciò che serve è una maggiore flessibilità a livello aziendale. Alcune conquiste sindacali come le 35 ore o i 30 giorni di ferie all’anno non possono essere considerate acquisite per sempre. Inoltre bisogna eliminare quei sistemi retributivi troppo egualitari». Con queste parole Michael Heise, capo economista di Allianz Group e Dresdner Bank, apre un’intervista fattagli dal Sole 24 Ore nel mese di luglio. Il buon servitore del capitale Heise nel proseguo dell’intervista si rammaricava del fatto che sono trascorsi quattro anni dall’Agenda di Lisbona, firmata dalla Ue nel 2000 per trasformare l’Europa nell’area più dinamica del mondo entro il 2010.

«Ma non bisogna farsi prendere dal pessimismo – continua – Il recente allargamento a Est offre una buona opportunità di dare nuovo slancio all’Agenda di Lisbona. I nuovi membri stanno non solo praticando politiche più liberiste e competitive offrendo aree di produzione meno care, ma stanno anche premendo per riformare le tasse e il sistema pensionistico. I dieci nuovi arrivati, a dispetto della piccola taglia, avranno un impatto molto positivo sull’Unione. I prossimi cinque anni promettono di essere migliori dei primi cinque dopo Lisbona».

Come sappiamo i capitalisti, agguerriti concorrenti fra loro per accaparrarsi commesse e quote di mercato, sono invece saldamente uniti quando si tratta di applicare misure a discapito della loro storica classe avversa: il proletariato. La cosiddetta agenda di Lisbona non è certo l’unico esempio sia a livello quantitativo sia qualitativo degli attacchi che la borghesia, stretta nella morsa della crisi del suo sistema di produzione, sferra all’inerme classe lavoratrice.

L’intervista a Heise ci permette di elencare alcune conflittualità in corso o appena concluse che vanno nella direzione di quanto detto sopra.

Germania: secondo la borghesia il paese sta già largamente soffrendo i rigori del vento freddo della competizione in un mercato più esteso dopo l’allargamento a Est. Nelle fasce operaie meno qualificate si è fatto strada un senso di “inevitabilità” sulla revisione di alcune conquiste sindacali quali le 35 ore settimanali, i 30 giorni di vacanze all’anno, le strutture “troppo egualitarie” dei salari e le troppe “rigidità” del mercato del lavoro. Questi aggiustamenti sarebbero dolorosi ma necessari. Ma scenari apocalittici di settimane lavorative di 50 ore o un settimana in meno di ferie all’anno non sono l’oggetto vero delle contrattazioni. Ciò che serve è maggior flessibilità a livello di impresa. Alla Opel di Eisenach, in Germania est, i “sindacati” hanno accettato di far incrementare l’orario da 38 a 47 ore settimanali a parità di stipendi “pur di conservare” i 1.800 posti di lavoro fino al 2007. La Daimler Chrysler ha chiesto una forte riduzione dei costi del lavoro minacciando altrimenti la delocalizzazione. Il sindacato Ig Metall, che conta 2,5 milioni di iscritti, ha firmato in due fabbriche Siemens un accordo per aumentare l’orario di lavoro a 40 ore, per evitare la minaccia di spostamento della produzione in Ungheria.

Belgio: La Marichal Ketin è una fonderia che produce cilindri a Sclessin, alla periferia di Liegi, di proprietà del gruppo tedesco Gontermann Peiper. Anche se si tratta di un piccolo sito produttivo che conta solamente un centinaio di operai è sicuramente un apripista per future contrattazioni. Nei prossimi mesi vi si riapriranno le trattative intercategoriali e la questione del tempo di lavoro sarà al centro delle discussioni. È stato proposto ai dipendenti di lavorare 40 ore, invece delle 36 pattuite con un accordo di categoria, a parità di salario. Ma i 97 operai e i 30 impiegati in un’assemblea hanno risposto no. Vista la reazione negativa dei lavoratori, la direzione ha rimandato ogni decisione all’autunno, sperando in un clima più favorevole...

In Belgio non è la prima volta che viene sollevato il problema dell’aumento dell’orario di lavoro. Ci aveva già provato qualche mese fa una filiale della Siemens, ma senza riuscire ad imporre, per ora, quello che è stato accordato agli stabilenti tedeschi. Alla Ketin, i sindacati però, dopo una prima reazione negativa unanime, cominciano già a mostrare qualche disponibilità, utilizzando, come spesso accade in Belgio, argomentazioni pretestuose per cercare di dividere i lavoratori “valloni” dai “fiamminghi”.

Francia: Il governo non modifica la legge sulle 35 ore, ma la rende aggirabile aprendo così la strada alle imprese. I lavoratori della Bosch di Vénissieux (Rodano-Alpi) hanno rinunciato, con un referendum, alle 35 ore, per evitare una delocalizzazione nella Repubblica Ceca: la maggioranza degli 820 dipendenti ha ceduto (la Cfdt e la Cgc hanno firmato l’accordo), mentre coloro che hanno rifiutato (la Cgt ha detto no) pagheranno con il licenziamento. Analogo ricatto alla Doux, primo produttore europeo di polli d’allevamento: sono state soppresse le ore di pausa (due e mezza a settimana), che non verranno pagate ed andranno ad aumentare l’orario di lavoro, ufficialmente per far fronte alla crisi del settore (Euro alto, influenza dei polli, ecc.). E uguale scenario alla Seb, leader mondiale dei piccoli elettrodomestici che sta assorbendo il concorrente Moulinex, dove un accordo che aveva concesso le 32 ore è ora sospeso (fonte Il Manifesto).

Una prima legge Fillon (dal nome del ministro del lavoro) del 17 gennaio 2003 ha sospeso di fatto l’applicazione delle 35 ore nelle imprese con meno di 20 dipendenti. Al tempo stesso ha aumentato da 130 a 180 le ore legali di straordinario. Una seconda legge Fillon, del 4 maggio 2004, ha autorizzato gli accordi a livello di impresa al ribasso rispetto a quelli di categoria: è questa legge che ha permesso l’intesa alla Bosch.

Le condizioni di lavoro e i salari continuano ad essere attaccati a forza di ricatti da parte del padronato unito. La stessa unità necessitano i lavoratori per poter vincere qualche battaglia, in attesa della vittoria finale che li libererà dalla schiavitù salariale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Lo sciopero nei supermercati americani

(Continua - Seconda parte)

Dicevamo che, quando, verso Natale scorso, ai lavoratori dei supermercati fu ridotto dai sindacati il sussidio di sciopero, molti si trovarono in gravi difficoltà. Alcuni vendevano l’auto ed altri invece, più sfortunati, sfrattati di casa, furono costretti a dormirci dentro.

In gennaio, quando ormai il morale degli scioperanti stava calando, i rappresentanti dell’AFL-CIO decisero che era venuto per loro il momento di impegnarsi direttamente nella vertenza, che già coinvolgeva decine di migliaia di lavoratori nei supermercati del Sud della California.

Il loro contributo non fu tuttavia quello di dare forza allo sciopero per vincere la battaglia, come molti lavoratori all’inizio si erano illusi, bensì fu il preludio alla sua disastrosa conclusione.

Certamente non si impegnarono a diffondere informazioni sulla lotta, neanche agli stessi membri dell’UFCW al di fuori della California, mentre la stampa borghese, quando non propagava menzogne sullo sciopero, si occupava della ben più importante cronaca rosa delle celebrità. Fuori della California pochi lavoratori ne vennero a conoscenza ed anche in quello Stato erano i lavoratori a dover dare informazioni. Le riunioni sindacali consistevano in un funzionario che dava un minimo di direttive facendo poco o nulla per spiegarle mentre ogni discussione mancò sempre del tutto

Verso la metà di febbraio la stessa stampa borghese, che aveva diffuso previsioni funeste e di “violenze” causate dall’intervento dell’AFL-CIO, dovette ravvedersi e riconoscere che non c’era da preoccuparsi circa l’azione dell’AFL-CIO, assolutamente inoffensiva. Sicuramente i “veterani” del sindacato imposero la “campagna di preghiere” e “di invio di lettere” volte a ad ottenere la solidarietà dei dirigenti, inginocchiati ai piedi dei padroni, in quanto non potevano avere altro effetto che demoralizzare ulteriormente i lavoratori, ormai prostrati fisicamente e psicologicamente.

Nell’ultima settimana di febbraio , i capi dell’UCFW capitolavano di fronte alle richieste del cartello dei supermercati, rinnegando quasi ogni rivendicazione dei lavoratori. Questi, dopo cinque mesi di dura lotta, avrebbero dovuto accettare un contratto che ricalcava le richieste originarie dei padroni in ottobre, contro le quali erano scesi in sciopero. Demoralizzati, la maggioranza disgustata votava per l’accordo. L’obbiettivo della UFCW e della AFL-CIO di costringere questi coraggiosi proletari ad accettare la sconfitta era stato raggiunto.

Nel mezzo di questa amara conclusione, il nuovo presidente dell’ UCFW dichiarava lo sciopero vittorioso e proclamava: «Ora è il tempo dell’azione! Il 2004 è l’anno in cui porre all’ordine del giorno la riforma del sistema di assistenza sanitaria e richiedere che ogni candidato alla Presidenza si impegni ad assicurare a tutte le famiglie dei lavoratori una aperta e completa assicurazione sanitaria». Ecco che la lotta dei lavoratori, tradita dai sindacati, veniva ora utilizzata per la campagna elettorale del Partito Democratico, che promette di voler rimettere in piedi lo scassato sistema sanitario americano. Pochi giorni prima della sconfitta operaia il candidato democratico John Kerry aveva parlato ad un picchetto del UCFW a Santa Monica, raccogliendo le benedizioni dei dirigenti sindacali. La lotta nella quale i lavoratori avevano perso le loro case, l’assistenza sanitaria e si trovavano ridotti sull’orlo della sopravvivenza, diveniva così per i caporioni sindacali solo una occasione per chiamare i proletari sotto le bandiere dei partiti e del regime capitalista che li opprime.

In realtà, qualsiasi sia il governo, batterà la stessa via comunque le carte vengano mescolate, perché il mazzo è truccato e tutte le carte elettorali portano lo stesso segno: Menzogna.

Le azioni dell’UCFW e dell’AFL-CIO non possono che rafforzare la nostra valutazione sugli attuali Sindacati, del loro asservimento al regime borghese. E queste sconfitte, che non ci sorprendono, a riconfermano le vecchie lezioni. In questi tempi duri la lotta di classe deve sottostare ad un ciclo di amaro apprendistato, e noi comunisti pazientemente registriamo ogni nuova lezione da ogni successiva sconfitta.

Si potrebbe domandare: se questo sindacati di regime sono solo strumenti nelle mani dei padroni, perché mai avrebbero dovuto dapprima approvare lo sciopero? Nel 1992 spiegammo in “Il Partito e i Sindacati”: «Prevediamo anche che, quando fronteggiati da una forte pressione da parte dei lavoratori, questi sindacati verificheranno la necessità di accodarsi alle lotte condotte su larga scala, ad anche porvisi alla testa nelle occasioni in cui non fosse stato possibile rintuzzare, isolare o reprimere i più combattivi elementi. Il sindacato di regime in questi casi svolgerà la sua funzione ponendosi anche alla testa del movimento e sostenendone le rivendicazioni, nel tentativo di controllarlo, circoscriverlo, deviarlo e portarlo alla sconfitta. L’alternativa di abbandonare la lotta ai suoi destini, potrebbe portare gravi conseguenze per il regime».

Se l’UFCW non si fosse posto alla testa dello sciopero dei lavoratori dei supermercati, si sarebbe probabilmente assistito ad un grande sciopero non controllato. Mentre il risultato migliore è stato conseguito sabotando la lotta dall’interno. Questa è la funzione propria dei sindacati di regime.

Definire questi sindacati “traditori” non chiarisce tuttavia sufficientemente la loro natura. La loro essenza è quella del nazionalismo e della collaborazione di classe, essendo il loro approccio all’azione sindacale basato sulla pretesa che lavoratori e capitalisti possano prosperare assieme nell’ambito dell’economia nazionale. Di fatto sono organizzazioni strettamente legate al regime del capitale, tramite i partiti politici e le istituzioni governative, secondo una fitta rete di relazioni intrecciate fra i loro rappresentanti e quelli della classe dominante. In definitiva la loro concezione di sindacato e di azione sindacale non ha niente a che vedere con la lotta di classe.

Può essere uno sciopero sottoposto all’approvazione dell’ “opinione pubblica” della cosiddetta “comunità” senza confini di classe? No, certamente! Lo sciopero è un’arma della lotta della classe lavoratrice e ad essa solo spetta il diritto di decidere quando e come utilizzarla. La borghesia, che dispone di illimitate risorse per orientare la “pubblica opinione”, non avrebbe grosse difficoltà nel rivolgerla contro i lavoratori in lotta, specie in un periodo controrivoluzionario. Dunque sta ai lavoratori, determinati alla difesa dei loro interessi, agire indipendentemente.

Riguardo alla generalizzazione della lotta , certamente già lo sciopero della Hormel del 1985 aveva dimostrato che l’azione locale non è sufficiente per vincere. È necessario lo sciopero generalizzato che superi l’isolamento imposto dalla divisione del lavoro. Solo quando il sistema di produzione sia minacciato contemporaneamente in vari punti e l’operatività della rete delle aziende compromessa dalla lotta operaia, solo queste gravi difficoltà potranno imporre al padronato la resa di fronte alle rivendicazioni operaie. Inoltre, al di là del risultato immediato di uno sciopero, importante è l’unità che si è potuta ottenere fra lavoratori di differenti categorie, località e nazionalità, come dichiarava il nostro “Manifesto” del 1848: «oggi o domani i lavoratori possono risultare vittoriosi, ma solo per un momento. Il reale frutto delle loro battaglie risiede non nel risultato immediato, ma nell’espandersi dell’organizzazione fra i lavoratori».

Ciò di cui i proletari hanno bisogno sono sindacati di classe, autonomi dallo Stato e dai padroni, improntati alla lotta di classe e alla difesa senza compromessi degli interessi dei lavoratori. E difendere questi interessi non significa difendere le istituzioni assistenziali offerte dallo Stato borghese, condannate ad essere spazzate via quando non funzionali alla salvaguardia del sistema.

La reale difesa degli interessi della classe proletaria, in definitiva non può trovarsi che nell’attacco alle istituzioni che rappresentano il regime capitalista, perché il capitalismo genera miseria per il proletariato.

La principale lezione che si può trarre dalla lotta dei lavoratori dei supermercati del Sud California è che gli attuali sindacati sono inutilizzabili per gli scopi della lotta di classe e che nuove organizzazioni debbono nascere al di fuori e contro di questi.

Si potrebbe obbiettare che la struttura dell’AFL-CIO è quella di una federazione di sindacati, in teoria autonomi rispetto alla struttura nazionale, e che quindi, sulla carta, non si può escludere che possa anche accogliere all’interno delle organizzazioni di classe. La sostanza della questione è che, comunque sia la pressione degli organizzati o quant’altro, di fatto tutti i sindacati “autonomi” all’interno di questa organizzazione vengono ad assumere le caratteristiche di “business unions”, sindacati d’affari, cioè con l’identica attitudine alla collaborazione di classe. Inoltre il suo stesso statuto fa sue l’ideologia e le istituzioni del regime statale Statunitense ed impedisce la partecipazione a lavoratori che si ispirano sia al “terrorismo” sia al “totalitarismo”, il che certamente va interpretato come una veto alla partecipazione di militanti comunisti. Questo, insieme alla sua radicata, traboccante attitudine alla collaborazione di classe, significa che è estremamente improbabile che un reale sindacato operaio emerga dall’interno dell’AFL-CIO, e noi avvisiamo i lavoratori a non contarci.

Così non facciamo affidamento sui movimenti di “base” all’interno dei sindacati, che intendono “democratizzarli” e farli più combattivi. Si ricordino i “Camionisti per un Sindacato Democratico”, movimento sindacale che è sopravvissuto per più di 20 anni. Non solo non hanno ottenuto niente in tutti quegli anni, nel senso che non sono mai divenuti un vero sindacato, ma il loro programma si è ridotto a non molto di più che un’immagine allo specchio di quello di un sindacato di regime, nonostante le sue pretese “democratiche”. Laddove il problema non è di forme più o meno democratiche di organizzazione, bensì di contenuti e dell’orientamento classista che deve ispirarli.

Infine noi richiamiamo i lavoratori ad ignorare la parata elettorale, ricorrente e falsa rappresentazione della lotta politica all’interno delle istituzioni del regime. I centri di potere nel regime borghese hanno da lungo tempo cessato di emanare dai meccanismi elettorali, che sussistono solo in quanto strumento di distrazione e propaganda. Kerry o Bush, così come ogni altro candidato “indipendente”, più o meno dotato di retorica populista, sono servi degli stessi padroni. Il governo dello Stato, indipendentemente dal pupazzo che lo rappresenta, è lì per difendere il potere delle classi dominanti. Solo attraverso la distruzione di quella macchina statale, la classe lavoratrice sarà capace di costruire un apparato di potere rivolto alla difesa dei propri interessi.

Piuttosto che farsi coinvolgere nella prossima sarabanda elettorale i lavoratori debbono agire indipendentemente, rigettando l’incontro con i partiti e movimenti borghesi, nella prospettiva della ricostruzione della propria organizzazione di classe. Certamente è più facile a dirsi che a farsi. Si dovrà ripartire dalla base, affrontando lo scontro con i sindacati attuali, costruendo comitati di lotta e sviluppando collegamenti fra località e categorie.

In parallelo dovrà crescere la rete dell’organo politico della classe proletaria: il Partito Comunista rivoluzionario, sotto il cui indirizzo la lotta di classe potrà svilupparsi in modo conseguente fino alla conquista del potere politico e alla emancipazione del lavoro dal Capitale.