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"Il Partito Comunista" n° 311 - marzo-aprile 2005 - [.pdf]
PAGINA 1 – Conferenza pubblica a Genova:
     Proletariato iracheno contro l’Islamismo e contro la Democrazia.
– Una sempre più logora mistificazione elettorale.
Ottobre 1934: UN EPISODIO DELLA RIVOLUZIONE MONDIALE:
     La Comune delle Asturie.
PAGINA 2 Il mito borghese della «divisione dei poteri».
PAGINA 3 ALGERIA, IERI E OGGI : 10. Capitalismo a viso scoperto: Farsa democratica tra massacri e crisi economica - CONCLUSIONI - Appendice: LA QUESTIONE BERBERA.
PAGINA 4 Sani atteggiamenti anti-borghesi dal primo incontro fra partito marxista e movimento operaio nella A.I.L.: IL GOVERNO FRANCESE E L’ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI.

 
 
 
 

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Conferenza pubblica a Genova
Proletariato iracheno contro l’Islamismo e contro la Democrazia
 

Prima di tutto vanno ricordate le notevoli tradizioni di combattività del giovane ma numeroso e concentrato proletariato iracheno. Lungo tutto l’arco del processo di emancipazione nazionale, la piccola borghesia imprenditoriale, intellettuale e studentesca urbana e la grande massa dei contadini poveri delle campagne si sono trovati accanto un movimento operaio, ben inquadrato nei sindacati sul terreno difensivo e sempre in prima linea nei ripetuti episodi di guerra civile che aggredivano il regime fondato sul potere dei proprietari feudali, appoggiato dall’imperialismo inglese, spesso con l’intervento cruente delle sue mitragliatrici ed autoblindo.

Alla coraggiosa classe operaia irachena, in quei decenni di lotte di emancipazione nazionale della sua borghesia, è però mancata la direzione di un vero partito comunista. Il partito comunista iracheno, benché mostrasse di rifarsi alla tradizione di Marx e di Lenin, e a cui venne ad aderire entusiasta la gran massa della classe lavoratrice industriale e delle campagne, nacque, per il ritardo storico della regione, solo nel 1935, quando già aveva trionfato a scala mondiale l’indirizzo staliniano sul movimento comunista. In realtà, quindi, come contemporaneamente stava avvenendo in tutti i paesi, il cosiddetto partito comunista veniva a ridursi ad uno fra gli altri dei partiti nazionali con la funzione specifica di sottomettere il movimento operaio agli interessi borghesi.

In particolare, in Iraq, come in tutti i paesi che stavano attraversando il ciclo delle rivoluzioni antifeudali e anticoloniali di indipendenza nazionale, lo stalinismo tornò ad imporre la errata dottrina menscevica della cosiddetta “rivoluzione per tappe”, secondo la quale il partito comunista e il movimento della classe operaia dovrebbero prima battersi, al fianco della borghesia rivoluzionaria, contro le classi feudali od autocratiche e contro il colonialismo imperialista, per rimandare la lotta per la dittatura proletaria e il comunismo a dopo l’instaurazione del potere statale borghese, con tutte le sue istituzioni funzionanti, parlamentari, costituzionali, poliziesche, eccetera. Cento e cento esperienze storiche dell’Ottocento in Europa e del Novecento in Asia hanno dimostrato che quel potere borghese neonato sarà immediatamente votato ed esplicherà tutte le sue energie per la distruzione del partito comunista e per soffocare nel sangue le avanguardie operaie.

La direttiva ortodossa, che fu di Marx e fu di Lenin, opposta a quella “per tappe”, è della “rivoluzione in permanenza” che tende ad innestare la rivoluzione socialista su quella antifeudale, appoggiandosi anche sulla rivolta dei contadini poveri, per saltare la fase della sistemazione parlamentare-democratica, non concedendo alcuna tregua al nuovo regime e non consegnando il potere statale ad alcun Fronte di Liberazione di partiti borghesi né ad elezioni né ad Assemblee Costituenti, ma al solo partito comunista. Questa prospettiva generale, che trionfò in Russia nel 1917, non si è altrove potuta ripetere per il tradimento staliniano dei principi, dei fini e dei mezzi del comunismo.

Praticamente in tutto il mondo le nazionalità che avevano la massa-critica storica per affermarsi in Nazioni autonome borghesi, nel corso della seconda metà del secolo scorso l’hanno conseguito, sebbene con gli evidenti limiti posti dal generale dominio economico e militare degli imperialismi. Questa emancipazione nazional-borghese si è compiuta anche nei più evoluti e popolosi Stati del Medio Oriente, dall’Egitto alla Persia, Iraq compreso. Il potere statale vi è saldamente e irreversibilmente detenuto dalla classe dei capitalisti, industriali, agrari e finanziari e questo indipendentemente dalla occasionale forma di governo sotto cui si nasconda, laico o teocratico, dittatoriale o democratico. La classe operaia non è la più radicale di uno spettro di classi rivoluzionarie, ma è la unica e sola classe rivoluzionaria.

Oggi e in Iraq, quindi, è superata anche la fase storica che giustifica la tattica comunista della “rivoluzione in permanenza”. L’intervento della coalizione capeggiata dagli Usa non va interpretato come una guerra coloniale o di restaurazione di un potere pre-borghese indigeno, ma come un episodio di una guerra fra Stati borghesi, imperialista, tendenzialmente e sostanzialmente mondiale, che si combatte sulle rive del Tigri e dell’Eufrate ma costituisce in realtà uno scontro fra i massimi imperialismi per contendersi il controllo delle fonti energetiche e per l’accerchiamento militare dei concorrenti capitalismi di Europa, di Russia e di Cina.

È quindi con una guerra imperialista che si trova a fare i conti il proletariato iracheno. Non si pone più la necessità di appoggio alcuno ai fini nazionali e patriottici della propria borghesia. Anzi tale solidarietà costituisce tradimento, perché si pone, storicamente, all’ordine del giorno solo e soltanto l’abbattimento del suo potere e l’affermazione rivoluzionaria di quello comunista.

Il fatto che i rapporti di forza fra il proletariato e il capitalismo, a scala regionale e mondiale, non siano ancora tali da consentire oggi la possibilità di quell’abbattimento e imposizione del potere della classe operaia, ci porterà a restar fermi al nostro posto, non ad incamminarci sulla via della sottomissione ad uno dei due fronti imperialisti. La consegna, anche in Iraq, è del disfattismo, nel rifiuto di qualsiasi riconoscimento di necessità patrie e nazionali, nell’operare la riorganizzazione e la lotta della classe, indifferenti alla sconfitta in guerra della propria borghesia, anzi augurandoselo.

Questo, certo, anche se non neghiamo che una sonora batosta sul campo della tronfia ma traballante coalizione Usa-britannico-italiana verrebbe più utile alla rivoluzione mondiale che una sua vittoria. Ma a condizione che la classe operaia, in Iraq e nel mondo, non si allei con i “nemici dei suoi nemici”!

Le tristi vicende del ciclo storico presente, interessanti anche i paesi di più recente o tardiva industrializzazione, sono da rintracciarsi nei miasmi che emanano dell’involuzione agonica del tardo capitalismo, dal precipitare nella sua crisi economica e dall’inevitabile collidere dei militarismi. Per il capitalismo mondiale la guerra diviene una necessità sempre più pressante. Il resto, tutte le idealità che oggi anche in Iraq si sprecano nella propaganda da ogni banda (Libertà, Indipendenza, Democrazia, “Valori dell’Occidente”, Fedi religiose, di setta, di razza) non sono che un gioco di specchi, uno schermo multicolore mantenuto continuamente in movimento per nascondere quella impietosa verità, per proteggere il mostro del capitalismo dall’assalto dell’unica classe potenzialmente in grado di abbatterlo, la classe operaia.

Quindi, oggi, sul piano dei suoi sentimenti, aspirazioni ed atteggiamenti, la classe operaia in Iraq non ha da combattere i soldati inviati dai capitalisti inglesi, americani o italiani di più o diversamente di come avrebbe da combattere gli sgherri di un governo indipendente dei capitalisti irakeni, fosse esso “laico” e democratico ovvero “islamico” e apertamente dittatoriale. Si deve trincerare nelle sue organizzazioni specifiche di classe, il sindacato e il partito. E avrà da organizzarsi per difenderli contro le aggressioni provenienti da entrambi gli schieramenti, quello “islamico” e quello “democratico”, quello xenofobo e quello modernista.

Ripudierà il metodo partigianesco, quintocolonnista, guerrigliero e interclassista, per battersi, centralizzata dal suo unico programma emancipatore di classe, apertamente proclamato, inquadrata e disciplinata nelle sue storiche forme di guerra, che si ordinano dagli scioperi difensivi e locali, allo sciopero generale, fino, domani, allo sciopero insurrezionale, diretto dal partito comunista mondiale.
 
 
 
 
 
 
 
 


Una sempre più logora mistificazione elettorale
 

Un’altra sarabanda elettorale si è consumata. Secondo i sempre più demenziali ripetitivi e scontati media del regime, di destra e di sinistra, sarebbero state un ennesimo “test”, particolarmente sentito dalle varie fazioni in lotta e significativo “sondaggio politico”.

Avrebbe “vinto” il cartello di centro-sinistra, confermando, e lo ammettono gli stessi “sconfitti”, che le elezioni di “medio periodo” sono sempre punitive per le forze di governo, “destre” o “sinistre” che siano. Lo stesso Berlusconi sostiene che, pur essendo virtuose le politiche del suo governo, ovviamente in ottica borghese, di fronte al corso dell’economia internazionale, alla concorrenza delle economie emergenti, al caro-vita, alla guerra ecc. ecc., è inevitabile che lo stato di crisi generi scontento e quindi si voti “contro”. Implicitamente viene confermata la nostra tesi marxista, e quindi astensionista, che di fronte alle determinazioni economiche, tipiche dell’età dell’imperialismo ultra-maturo, l’unica alternativa al governo borghese non sta nella ingannevole “alternanza” degli schieramenti ma nella soluzione extra-capitalista, extra-democratica ed extra-parlamentare rappresentata dal comunismo rivoluzionario. Ma questo, ovviamente, il Cavaliere di Arcore non lo potrà mai dire e men che meno i suoi antagonisti di regime, quel guazzabuglio di organizzazioni che vanno dai cattolici alle sinistre “rifondatrici”, che indicano sempre e comunque fedeltà al regime borghese e alle sue istituzioni.

Cosicché, nell’usuale elezione d’ogni primavera, nell’assenza totale di programmi e prospettive sociali, quello che conta è che resti ben collaudato il diversivo del voto e il mito borghese della “volontà popolare”.

Quest’anno, poi, sono stati sperimentate due “novità”, ulteriormente involutive, per quanto fosse difficile immaginarlo, del metodo elettoralesco e scadimento nell’imbonimento più squallido: le “primarie” e il “voto disgiunto”. Con la convocazione delle “primarie”, “all’americana”, i Democratici di Sinistra hanno consentito, al costo di un Euro, ad ogni “cittadino”, anche non iscritto a quel partito o perfino iscritto ad altro partito, di votare per “eleggere” il candidato che preferisse. Col “voto disgiunto” è stato consentito di poter votare per un candidato, ma anche per una lista che sostiene un suo avversario. Questi nuovi ritrovati della “democrazia” vanno nel senso del nascondere dietro le immagini sorridenti di personaggi da farsa l’assenza di programma politico di ex-partiti, o aborti di partiti che, tutti, ormai sono mantenuti solo dalle sovvenzioni dello Stato borghese, ridotti a compagnie teatrali per la propaganda e ad esangui macchine elettorali. La loro unica funzione, di tutti, “destri” e “sinistri”, non è la direzione, in parlamento, della macchina statale, ma svolgere, sotto la direzione e le precise indicazioni della Stato, funzioni di confusione e diversivo anti-proletario.

Gli stessi borghesi ammettono che non esistono differenze tra le varie fazioni elettorali, che tutte si muovono nell’ambito della dittatura del Capitale, anche quando si dicono “comuniste”, e che la volontà popolare è pura astrazione.

Gli “elettori”, tramontate le “ideologie”, dicono, hanno trasferito anche nella scheda elettorale il grado di alienazione a cui il bombardamento mediatico li spinge nella scelta del “prodotto-partito” o “prodotto-candidato”, da consumare nel rito stanco della democrazia imperialista. Tutti devono poter esprimere la loro “opinione”! Salvo poi le combine delle liste di disturbo, le reti clientelari e tutto il mercimonio che è il meccanismo vero della loro bella Democrazia. Nella, sempre più stanca, kermesse “post-tutto”, c’è posto per ogni imbroglietto, dai candidati da rotocalco (imprenditori, sindacalisti, attori, sportivi...), al fingere di favorire qualcuno con leggine dell’ultimo momento, al pagare con qualche euro il voto del sottoproletariato o con la promessa di un lavoro ai disoccupati, all’atteggiarsi, a scelta, al “vero” democratico, fascista, bacchettone, miscredente, xenofobo, razzista, femminista, ambientalista... tutte le infinite false opposizioni proprie della sgangherata ideologia borghese.

In realtà, invece, siamo arrivati ad una versione aggiornata del listone monopartitico fascista. Dopo che tutto sarà stato “deregolato”, non saremo certo noi a gridare alla “democrazia violentata” quando, uno dei prossimi governi, verrà a “deregolamentare” anche il rito elettorale, il che non potrà che suonare ormai come una liberazione sia per i borghesi sia per i proletari.

La nostra strada, della Rivoluzione e del Comunismo, non passerà né dalle elezioni né dai parlamenti, ma dai duri e proclamati termini Partito unico di classe e Dittatura.
 
 
 
 
 
 
 
 


Ottobre 1934: UN EPISODIO DELLA RIVOLUZIONE MONDIALE
La Comune delle Asturie

Il trascorrere del tempo ci dà la possibilità di commemorare alcune delle maggiori manifestazione delle lotta di classe del proletariato internazionale. Da parte nostra, e come il lettore può verificare in tutti i testi della nostra corrente, non si tratta di un rituale allo stile borghese, poiché ogni sconfitta proletaria (come ogni sua effimera vittoria) costituisce una di quelle che chiamiamo lezioni delle controrivoluzioni, lezioni che sono parte inseparabile del bagaglio dottrinario del nostro movimento, cioè della classe operaia mondiale.

Il moto rivoluzionario dei minatori delle Asturie nel suo settantesimo anniversario non ha certo suscitato grande interesse nei media borghesi. Meglio così. Quando gli studiosi della classe nemica, e i loro ausiliari opportunisti, si danno a ricordare qualcosa che si riferisce alla classe proletaria, lo fanno con la evidente intenzione di corromperne ogni significato.

Qualcuno, nello svolgere quella miserabile funzione, è perfino arrivato ad affermare che l’Ottobre Rosso delle Asturie è stato espressione non della classe operaia, e dei minatori in particolare, ma della società asturiana, una sollevazione a fine separatista, tipica di quella razza indomabile che sarebbero gli asturiani, con ben in mente il ricordo delle famose Guerre Cantabriche contro Roma. Per quanti confronti si facciano, il contesto storico e sociale delle feroci guerre fra i popoli settentrionali della penisola iberica (e non solo delle Asturie) e le legioni romane è completamente differente. Quelle tribù combattevano per mantenere le loro strutture barbare di fronte allo schiavismo invasore. Alcuni dei loro discendenti, duemila anni più tardi, lottarono invece contro la struttura imperante dell’epoca e, per nostra disgrazia, ancora di oggi: la società capitalista, rappresentata nel 1934 dalla repubblica democratico-borghese.

Qui vogliamo ricordare di come si forgiasse la rivolta, del suo impareggiabile ed eroico slancio, del vergognoso e mille volte traditore isolamento in cui fu chiusa, e della sua sconfitta e della brutale repressione cui fu oggetto.

Tre anni dopo l’instaurarsi della repubblica, i lavoratori spagnoli già avevano avuto modo di verificare e soffrire nelle loro carni martoriate che tipo di repubblica quella fosse e quali interessi difendesse, senza lesinare bastone e piombo. L’aggravarsi della situazione economica fece che le lotte rivendicative andassero radicalizzandosi sempre più, e che le masse operaie e contadine povere punissero con l’astensione coloro che li avevano illusi circa il nuovo regime repubblicano, il blocco repubblicano-socialista (PSOE). Questo si riflesse nelle elezioni del 1933 nel quale la destra borghese ottenne una vittoria parziale, parlando in termini elettorali.

Fu proprio questo che motivò la svolta a sinistra, puramente verbale d’altronde, nella direzione del PSOE. Così l’ultrariformista Largo Caballero e il suo seguito imbastirono una campagna al fine di spaventare le destre con parole mai usate prima: rivoluzione sociale, dittatura del proletariato, che potevano impressionare i bacchettoni ignoranti, ma non i circoli del potere reale della borghesia, più preoccupati per il crescente radicalismo delle masse operaie e contadine che per gli eccessi verbali dei riformisti.

È in questo periodo che, su iniziativa del Blocco Contadino e della Sinistra Comunista (la quale non ha alcun legame con la nostra corrente) si dette il via alla Alleanza Operaia. Con una impostazione erronea fin dal principio, queste organizzazioni, che si presumevano critiche di fronte al riformismo socialdemocratico e lo stalinismo, dettero vita ad un Fronte Unico che raggruppava tutte le organizzazioni proletarie, sindacali o politiche, e che manteneva un carattere puramente difensivo. Così dichiarava le sue intenzioni l’Alleanza Operaia di Barcellona: «Le entità sotto firmatarie, di tendenze e aspirazioni dottrinali diverse, però unite nel comune desiderio di salvaguardare le conquiste conseguite fino ad oggi dalla classe lavoratrice spagnola, hanno costituito la ‘Alleanza Operaia’ per opporsi al trionfo della reazione nel nostro paese, per evitare qualsiasi tentativo di colpo di Stato o l’instaurazione di una dittatura, qualora così si facesse, e per mantenere intatti, indiminuiti, tutti quei vantaggi conseguiti fino ad oggi, e che rappresentano il patrimonio più pregiato della classe lavoratrice».

Come sostengono le nostre posizioni sul Fronte Unico politico, il riformismo-stalinismo può solo adempiere ad un compito di sabotaggio degli interessi operai e rivoluzionari. La classe operaia internazionale aveva bisogno, allora e oggi, di un unico partito realmente rivoluzionario e libero da compromessi con altre organizzazioni politiche, per quanto proletarie che fossero, e si sarebbe dovuto stabile un Fronte Unico solo fondandosi sulla base delle rivendicazioni economico-sindacali, capaci di mobilitare sul terreno immediato le più vaste masse proletarie.

Il sabotaggio di PSOE-UGT non tarderà a manifestarsi in occasione dello sciopero contadino dell’inverno 1934. Il padronato agrario, incoraggiato dal trionfo elettorale dei suoi rappresentanti, aveva deciso di revocare le maggiorazioni salariali che il proletariato dei campi aveva ottenuto con dure e sanguinose lotte. La Federazione dei Lavoratori della Terra (UGT), spinta dal profondo rancore dei contadini contro gli attacchi padronali, indiceva allora lo sciopero generale in tutte le campagne spagnole, in un momento propizio, la mietitura. Ma lo sciopero fu tradito dagli stessi che lo avevano proclamato, negandogli la solidarietà del proletariato delle città ed isolando i lavoratori agricoli dal resto della classe operaia. Da parte sua la CNT, contraria, e non le mancavano i motivi, alla collaborazione con i riformisti del PSOE-UGT, non appoggiò lo sciopero contadino, anche a seguito della sconfitta dei precedenti, come sempre, prematuri e disorganizzati movimenti insurrezionali, che erano stati repressi ferocemente dallo Stato borghese.

Ciononostante, la CNT regionale delle Asturie avrebbe abbracciato senza riserve la sua inclusione nella Alleanza Operaia. Era un fatto incontestabile la stretta e fraterna unione esistente fra i lavoratori minatori delle due centrali sindacali, UGT e CNT, nelle Asturie e in Leon, conseguenza delle speciali caratteristiche del lavoro nelle miniere di carbone che facevano vedere nel compagno affiliato all’altra centrale sindacale un fratello di classe, un altro sfruttato con gli stessi desideri di lotta e di emancipazione sociale. Questo fattore, di fondamentale importanza nello sviluppo della lotta di classe, avrebbe determinato l’unità senza crepa alcuna del proletariato minerario delle Asturie.

Il primo ottobre 1934, dopo la rituale rappresentazione parlamentare, il governo Samper aveva presentato le dimissioni. Correvano insistenti voci circa la formazione del nuovo governo che avrebbe incluso un membro della Confederazione Spagnola dei Diritti Autonomi (CEDA), partito filo-fascista che rappresentava gli interessi della borghesia agraria e industriale. Se questo si fosse realizzato, proclamavano solennemente i caporioni del PSOE-UGT, avrebbero chiamato allo sciopero generale e sarebbe stata la rivoluzione. La CEDA andò a far parte del governo, e quelli che avrebbero dovuto fare la rivoluzione si limitarono a chiedere al presidente della Repubblica, con uno sciopero generale pacifico, le dimissioni del governo Lerroux-CEDA.

La situazione che si creò nella classe operaia spagnola è facile da immaginare. Le masse, desiderose di affrontare armate la reazione borghese, vedevano passare i giorni senza che niente succedesse, salvo alcuni episodici scambi di colpi d’arma da fuoco e poco più. Esistevano armi sufficienti per dare il via ad una insurrezione operaia con prospettive di riuscita, però mancava la volontà politica rivoluzionaria di farlo. Il Lenin spagnolo (come gli stalinisti avrebbero chiamato Largo Caballero prima di affrettare la sua caduta in piena guerra civile) dimostrò di non esser altro che un volgare Kerensky.

Mentre questo succedeva a Madrid, nell’altra zona determinante di Spagna, forse la maggiore, accadeva altrettanto a seguito della mossa maestra della piccola borghesia catalanista, che deteneva il potere della Generalitat e alla politica opportunista della Alleanza Operaia catalana, che lasciarono ogni iniziativa nelle mani della sempre borghese Generalitat. Altro fattore determinante, soprattutto a Barcellona, dove era la principale forza proletaria, fu il rifiuto della CNT, che diffidando della svolta a sinistra del PSOE, si limitò al mero appoggio verbale. Sommiamo a questo i ripetuti e scapigliati tentativi insurrezionali precedentemente orditi dalla FAI (organizzazione anarchica che controllava politicamente la CNT), e che avevano lasciato esausta la combattiva milizia confederale.

L’atmosfera sociale spagnola, come può provarsi, era svreccitata, e il suo scaricarsi nel bacino minerario delle Asturie avrebbe presto attratto l’attenzione mondiale.

È certo che l’Alleanza Operaia delle Asturie, il cui embrione era il patto CNT-UGT del marzo 1934, avrebbe inglobato sia il PSOE (trascinatovi dalla forza degli avvenimenti però con la stessa volontà disfattista e riformista che a Madrid) e altre forze politiche, fra le quali il Blocco Operaio e Contadino e la Sinistra Comunista summenzionati (dalla cui fusione sarebbe nato successivamente il POUM) e la succursale stalinista spagnola, il PCE, che all’indomani dell’insurrezione si sarebbe accodato ad un’Alleanza Operaia che fino al giorno prima aveva tacciato di controrivoluzionaria. La combattività dei minatori ancora una volta metteva in evidenza che le loro organizzazioni si vedevano sorpassate da masse proletarie che si collocavano alla loro sinistra al grido di guerra “Fraterna unione proletaria” che faceva tremare la borghesia e suoi accoliti.

Il fallimento dell’adunata patriottica che le destre avevano organizzato a Covadonga per il mese di settembre fu effetto dell’azione contundente della classe operaia delle Asturie. Questo parziale successo avrebbe influito molto sullo stato d’animo dei minatori, i quali, a partire da questo momento, dedicheranno tutte le loro energie alla preparazione dell’insurrezione. Se crediamo alle dichiarazioni del riformismo, l’innesco dell’insurrezione sarebbe stata, all’inizio di ottobre, l’inclusione nel governo dei membri della CEDA.

La iniziale mancanza di armamento fu supplita con l’impiego di grandi quantità di dinamite, strumento di lavoro che, maneggiato da quegli esperti, avrebbe subito dato i suoi frutti. Una dopo l’altra sarebbero cadute in mano dei minatori rivoluzionari le caserme della Guardia Civile e di Assalto del bacino carbonifero, però i lavoratori delle due grandi città, Oviedo e Gijon, avrebbero mantenuto un atteggiamento di attesa, con uno sciopero generale pacifico controllato direttamente dal riformismo. Questo sarà uno dei fattori determinanti l’inizio della sconfitta.

Dopo duri combattimenti i lavoratori rivoluzionari presero possesso delle vie della capitale della provincia, Oviedo, e del principale porto delle Asturie, Gijon. Però in nessun momento la direzione PSOE-UGT, chiaramente maggioritaria nel proletariato, lanciò la parola d’ordine di unirsi ai minatori. Questi, e gli operai della CNT di Gijon, che a mala pena riuscirono ad armarsi, dopo essersi battuti valorosamente contro un nemico molto meglio armato, e che li bombardava impietosamente dall’aria, dovettero ripiegare verso le miniere. Intanto l’aviazione stava facendo stragi fra gli operai e preparando l’avanzata dei mercenari della Legione e dei regolari negri inviati per primi dal governo della Repubblica borghese, che non si fidava della lealtà delle truppe di rinforzo, che per lo più simpatizzavano con i rivoluzionari e alcuni dei quali, sottufficiali e soldati, sarebbero passati ad ingrossare lo loro file unendosi alla sorte dei loro fratelli di classe.

Nelle retrovie tutto era dedicato all’azione militare ed officine e fabbriche erano convertite alla produzione di strumenti offensivi e difensivi. Però la carenza di munizioni si fece presto sentire. I numerosi prigionieri fatti fra le forze dell’ordine furono ben trattati dai minatori ed assistiti se feriti. Ma poco sarebbe stata riconosciuta alla classe operaia questa sua magnanimità nel momento della repressione borghese, massiccia ed indiscriminata come è sua norma.

Poco a poco gli operai andavano esaurendo le munizioni finché fu forza trattare la resa. Non sarà mantenuta alcuna delle garanzie offerte dal generale massone Lopez Ocha, il quale in compagnia del suo camerata Franco, diresse le azioni repressive. Queste raggiunsero tutti i settori della popolazione mineraria delle Asturie, non solo i membri dei comitati rivoluzionari, contandosi a centinaia gli assassini di uomini, donne e anche bambini piccoli. Niente sembrava placare la sete di sangue operaio della borghesia e dei suoi criminali assoldati. Nel frattempo, il resto del proletariato spagnolo osservava attonito la atroce carneficina, immobilizzato dai suoi dirigenti. La Comune asturiana cadrà eroicamente, abbandonata alla sua sorte da quegli stessi che, due anni dopo, avrebbero ripetuto la medesima politica, stavolta con carattere generale e con l’impronta dell’autentico genocidio, su tutto il territorio di Spagna.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Il mito borghese della «divisione dei poteri»
 

Quale che sia la futura evoluzione, o conclusione, della parentesi berlusconiana (e questo, a causa di un proletariato assente dalla scena politica, sarà determinato solo ed esclusivamente dagli interessi del capitalismo italiano ed internazionale e non dal gregge di fessi che vanno a votare) un dato di fatto certo è che tale periodo sarà stato estremamente negativo per la classe operaia e per il suo partito.

Ciò non perché il governo Berlusconi abbia scatenato repressioni antiproletarie ed anticomuniste. Di repressioni il potere non ne ha bisogno: da lunghi decenni la classe operaia è piegata su se stessa ed il suo partito quasi inesistente. Neppure la politica economica dell’attuale governo può essere considerata particolarmente antiproletaria: qualsiasi altra coalizione borghese, in mancanza di una classe lavoratrice schierata sul fronte della lotta di classe, avrebbe affrontato la crisi capitalista in modo analogo, cioè cercando di farne sopportare il peso al proletariato.

Il peggior peccato di Berlusconi è un altro, è quello di aver rinfocolato nel proletariato sentimenti di fiducia nell’ordinamento democratico, ed in modo particolare nella peggiore delle sue istituzioni: la Magistratura, il potere giudiziario, “braccio secolare” del regime capitalista.

Secondo quanto affermato dai suoi avversari politici, Berlusconi, praticamente, con i suoi soldi, i suoi avvocati, le sue televisioni e quant’altro possiede, non solo sarebbe riuscito ad evitare il meritato carcere a causa delle sue frodi, ruberie, corruzioni, etc. (come se la storia borghese si dividesse in due ere: quella “Prima di Silvio” in cui regnavano legalità e onore, e quella “dopo Silvio” in cui regna la corruzione e l’interesse personale); non solo si sarebbe costruito un movimento politico che gli ha permesso di diventare capo del governo per ben due volte, ma addirittura tenterebbe di realizzare un suo scellerato progetto di potere teso ad eliminare le istituzioni democratiche sostituendole con una sua personale dittatura. E, per portare a termine questo disegno, il primo passo da compiere sarebbe quello di assoggettare ai propri interessi il potere giudiziario dello Stato che, eroicamente, malgrado calunnie e minacce, continua a portare avanti la sua battaglia per la difesa della democrazia e le libertà costituzionali.

Per farla breve, sotto Berlusconi lo Stato correrebbe il serio rischio di non rappresentare più la totalità del popolo e di tutelare gli inviolabili diritti di tutti e di ogni cittadino, a prescindere dalla loro condizione sociale (la tragicità sta proprio in quel “a prescindere”!). Non tutelerebbe nemmeno gli interessi di una specifica classe sociale – la borghesia – come aveva fatto il fascismo, bensì si limiterebbe ad essere il garante dei soli interessi personali del Cavalier Silvio Berlusconi.

I rappresentanti dei partiti di opposizione, ragliando e starnazzando, prospettano una nuova forma di governo che metta Berlusconi a riposo (o in galera) e che ripristini il rispetto della legge. E questo sentimento di difesa della democrazia e della legalità, dove effettivamente tutti i cittadini siano uguali di fronte alla legge, si cerca di far passare nella classe lavoratrice perché senta come rivolti contro di essa i presunti colpi inferti alla Magistratura ed alle istituzioni costituzionali.

Noi marxisti da sempre abbiamo affermato che la macchina effettiva dello Stato borghese non è il Parlamento e nemmeno il suo governo, inteso come “staff” di uomini che temporaneamente ed occasionalmente ricoprono incarichi ministeriali. La vera macchina dello Stato risiede nella sua burocrazia, nella sua polizia, nell’esercito, nella Magistratura. Burocrazia, polizia, esercito, Magistratura sono gli strumenti su cui si basa il potere di classe della borghesia e sono i naturali supporti di ogni governo borghese.

Magari! magari una frazione della classe capitalista, qualunque essa sia, ci sgombrasse il terreno dalla Magistratura! Ci farebbe un grosso favore, ed ancor più grosso ce lo farebbe se sgombrasse finalmente il campo dall’inganno democratico! Invece tutta la diatriba è solo “fantapolitica”, con la quale la parata dei commedianti di Montecitorio rimbecillisce i lavoratori che hanno il torto di eleggerli e di prendere sul serio simili fesserie.

Basterebbe che il proletariato, per un solo istante, si ridestasse dall’ipnosi democratica e si disponesse nel suo naturale terreno di classe, basterebbe ciò per vedere immediatamente partiti di destra, di sinistra e la Magistratura unanimemente concordi nel riconoscere il proletariato rivoluzionario come il solo nemico dell’ordine borghese. Ed anche se un giorno, per ipotesi, si addivenisse all’arresto di Silvio Berlusconi, la funzione della Magistratura resterebbe immutata: quella di gendarme dello Stato capitalista.

* * *

La moderna concezione della giustizia, così come oggi è intesa, trae la sua origine dal Code Civil napoleonico di cui, quest’anno, viene celebrato il secondo centenario della promulgazione.

In tutta Europa il sistema giuridico era rappresentato da un guazzabuglio di norme che affondavano le loro radici in sistemi dalla più disparata origine: vi si trovavano elementi che risalivano al diritto romano, norme elaborate dalla Chiesa, il cosiddetto diritto canonico, statuizioni di Parlamenti, Diete, corporazioni, regolamenti emanati dall’imperatore germanico e da tutta la gerarchia feudale, etc... Massima importanza rivestivano altresì le consuetudini e le tradizioni locali. Fino al 1804 in Francia, ad esempio, vi erano regioni in cui vigeva le droit écrit cioè una derivazione, per quanto degenerata, del diritto romano, localizzate al Sud, ed altre regioni a droit coutumier, in prevalenza al Nord, che si basavano sulla tradizione consuetudinaria.

La cosa sorprendente era che nella molteplicità ed intreccio di queste fonti del diritto non vi fosse una vera e propria gerarchia: le disposizioni di un signore feudale non abrogavano le consuetudini locali ed il diritto canonico conviveva con quello romano e con le ordinanze parlamentari. Tutto questo non poteva non provocare un caotico accatastarsi di regole, contrastanti le une con le altre, in un groviglio tale che non si poté fare a meno dal ricorrere a quell’istituto che poi divenne tipico dell’era medioevale: il privilegio.

L’istituto ed il termine che lo contraddistingueva, “privilegio”, non era inteso in senso negativo, ma rappresentava la tutela di diritti di cui godevano classi, ceti sociali, corporazioni. Così i nobili avevano la loro particolare legge e potevano essere giudicati soltanto dai loro pari mentre gli ecclesiastici erano sottoposti al solo diritto canonico. Anche i mercanti erano liberi dall’assoggettamento delle leggi locali, ma disponevano di propri tribunali e godevano di una propria legge, la lex mercatoria.

La società umana, nei confronti della legge si trovava ad essere suddivisa sia in senso verticale, ossia nella pluralità delle sue categorie, sia anche in senso orizzontale poiché il territorio era sottoposto a vari tipologie legislative a seconda che si trattasse di castelli, di città, di baronie, zone franche, etc.

Il moderno concetto di cittadino era ancora sconosciuto, l’individuo, di fronte alla legge era suddito; la stessa espressione “soggetto di diritto”, che oggi significa “detentore di diritto”, nel Medioevo significava “assoggettato” (sub iectus).

Anche il concetto di proprietà era del tutto diverso da quello oggi ritenuto... naturale. Si pensi che nella Francia pre-rivoluzionaria esistevano ben sedici tipologie possessorie. Per esempio, se una comunità di villaggio per consuetudine godeva di diritto di pascolo, di erbatico, legnatico o di raccolta in un feudo, il Signore del feudo non poteva privare il villaggio di tale concessione o semplicemente destinare quel dato territorio ad altro uso, trasformando un pascolo o un bosco in terreno coltivato. Il concetto di proprietà, borghesemente intesa, era semplicemente estraneo al pensiero medioevale, infatti sarà il Codice napoleonico, all’art. 544, a stabilire «le droit de jouir et disposer des choses de la manière la plus absolue», il diritto di godere e disporre delle cose nel modo più assoluto. Il triplice motto di liberté, égalité, propriété, renderanno il cittadino maître et possesseur del mondo intero sotto tutti i suoi molteplici aspetti.

Con il codice napoleonico del 1804 la legge diviene “uguale per tutti”. Si fa strada l’idea di una legge generale, che promana direttamente dal legislatore, di fronte alla quale tutti i cittadini sono “perfettamente uguali”. Mentre nell’antico ordinamento il giudice non si limitava ad applicare le norme, ma di queste si serviva per “creare” il diritto, con l’avvento del Codice la legge diviene uno strumento da applicare in modo meccanico ed acritico, le sentenze non saranno altro che la conclusione di un sillogismo di cui la base fondamentale e principale è la legge, mentre il caso particolare acquista solo una importanza secondaria, marginale.

Poiché è il Parlamento che si assume in esclusiva il potere di legiferare, la legge, immediatamente, diviene strumento della politica e nessun giudice potrà più sottrarsi al suo dettame; anche nel caso in cui la ritenesse immorale, liberticida, ingiusta. Si realizza la completa subordinazione dell’attività giudiziaria al controllo politico, il giudice da interprete della legge ne diviene il semplice esecutore. Non a caso venne decretato l’istituto del référé législatif in base al quale al giudice veniva imposto di chiedere al legislatore l’interpretazione della legge ogni qual volta essa apparisse controversa. La Magistratura diveniva semplicemente un corpo di funzionari soggetti al Ministero della Giustizia; in particolare il Pubblico Ministero si trovava in un rapporto di dipendenza gerarchica nei confronti del Ministro il quale aveva il potere di impartirgli direttive ed ordini per quanto riguarda le funzioni inerenti all’esercizio dell’azione penale.

Ricordiamo, per inciso, che, caduto Napoleone, la Restaurazione si guardò bene dal distruggere queste conquiste storiche della rivoluzione borghese.

Nel suo trattato di filosofia del diritto il tedesco von Radbruch scriveva nel 1932: «È un dovere professionale per il giudice rendere effettiva la volontà della legge, offrire in sacrificio la propria intuizione del diritto al comando giuridico dell’autorità».

Questo concetto della funzione del giudice come di totale e semplice esecutore della legge, in Italia trovò la sua massima espressione nel Tribunale Speciale fascista. Ciò non significa che i tribunali democratici si discostino da questo concetto, significa solo che sono espressioni più spurie del medesimo meccanismo di potere, ma di questo accenneremo più avanti.

Nel Tribunale Speciale, i rappresentanti del Pubblico Ministero ed i giudici istruttori venivano nominati direttamente dal potere esecutivo e potevano essere revocati in qualsiasi momento. Poiché il loro compito non era quello di interpretare, ma semplicemente di applicare la legge, sia i Giudici Istruttori, sia il Presidente, i Vice-presidenti, e tutti gli altri Giudici potevano anche non essere forniti di laurea in legge (Regio Decreto 12 dicembre 1926 e Regio Decreto 1° marzo 1928). Tutt’al più potevano essere affiancati da un magistrato. Contro le sentenze del Tribunale speciale non era ammesso né appello, né ricorso. Soltanto poteva essere chiesta la revisione. Nel caso di condanna a morte, però, non vi era nemmeno questa possibilità perché l’esecuzione doveva avvenire nelle 24 ore.

A titolo di esempio di questa attitudine della Magistratura fascista a farsi strumento della politica di regime rammenteremo il caso del gennaio 1928 quando 20 comunisti di Firenze furono processati per aver tenuto una riunione, in casa di uno dei coimputati, il 13 ottobre 1924. I partecipanti al convegno sarebbero stati armati di revolver ed avrebbero discusso sulla eventualità di costituire delle squadre armate di partito. Il Pubblico Ministero chiese la condanna di 15 dei 20 imputati e 10 anni di carcere per Onorato Damen. Il Tribunale fu clemente, assolse 9 imputati, ma a Damen aggravò la pena infliggendogli 12 anni di galera. Per quanto riguarda il diritto, non fu possibile obiettare che all’epoca della riunione incriminata il Partito Comunista era una associazione del tutto legale, e che comunque l’amnistia del 31 luglio 1925 avrebbe cancellato il reato. L’argomento dell’accusa fu semplice e non privo di logica: «È vero che nel luglio 1925 un’amnistia fu concessa, ma bisogna tenere a mente che i delitti di cospirazione o di costituzione di bande armate sono permanenti, cioè durano fino a che i colpevoli non danno prova esplicita di aver rinunciato a delinquere. Spetta agli accusati dare questa prova» (“Corriere della Sera”, 31 gennaio 1928).

* * *

Dopo questa breve divagazione riprendiamo il filo del nostro discorso.

Il 30 Ventoso dell’anno XII del calendario repubblicano francese, cioè il 21 marzo 1804, condotti a termine i lavori iniziati dalle Assemblee rivoluzionarie, veniva promulgato il Code Napoléon, così denominato perché entrava in vigore sotto l’Impero ed anche perché Napoleone stesso aveva avuto (almeno così volle che si dicesse) parte attiva nella sua elaborazione.

Il Codice, questo corpo dottrinario della nuova classe al potere, segnò la vittoria definitiva della borghesia sull’ancien régime e ruppe irrevocabilmente con i sistemi di diritto pre-borghese, dando l’avvio, in tutta l’Europa, alla codificazione delle leggi.

Al Code Napoléon seguirono quattro nuovi codici che furono: il codice di procedura civile promulgato nel 1806, il codice del commercio del 1807, il codice di procedura penale del 1808 e il codice penale del 1810.

Il Code, rendendo intangibile la proprietà borghese di fronte a qualsiasi attacco, rappresentò, ad un tempo, la massima espressione della vittoria della borghesia sullo sconfitto regime feudale e, soprattutto, la sua strenua difesa nei confronti della nuova classe in veloce formazione ed ascesa: il proletariato. Si trattava di un corpo di leggi che erano allo stesso tempo rivoluzionarie e reazionarie, che rappresentavano la volontà di sbarazzarsi di tutti gli orpelli del passato ma allo stesso tempo costituivano i bastioni di difesa di classe dagli attacchi del quarto stato.

Napoleone riprese dalla rivoluzione tutto ciò che era strettamente necessario per l’incontrastato dominio della borghesia: non solo rimase in vigore la legge Le Chapelier, che proibiva i sindacati, del 1791, ma furono anche istituiti i “libretti di lavoro”, senza i quali l’operaio non poteva esser assunto; il padrone inseriva in questo libretto l’attestato di lavoro e il motivo per cui era stato licenziato. Si può quindi immaginare l’abuso e l’uso terroristico di questa facoltà del capitalista-giudice di privare l’operaio non solo del lavoro ma di condannarlo anche per la vita futura.

In Italia, alla costituzione del Regno fu esteso all’intero territorio nazionale l’ordinamento giudiziario piemontese, che era stato adottato qualche anno prima e che recepiva il sistema francese.

Il sistema adottato con la prima legge italiana di ordinamento giudiziario, del 1865, che ribadiva la completa dipendenza della Magistratura dal potere esecutivo, determinò critiche da parte di un certo movimento di opinione che si ispirava ai principi anglosassoni, nell’ambito dei quali l’indipendenza del giudice era considerata un principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale.

Le riforme ottenute dal movimento che rivendicava l’indipendenza della Magistratura furono però molto limitate: le più importanti riguardarono l’introduzione del concorso per esami come unico metodo di selezione iniziale (che risale a una legge Zanardelli del 1890) e la previsione di forme di consultazione di organi composti di magistrati che culmineranno nella istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura (legge Orlando del 1907).

Queste riforme, tuttavia, non scalfirono la struttura gerarchica del corpo, né spezzarono il cordone ombelicale che lo legava al potere esecutivo, particolarmente in virtù del collegamento assai stretto esistente tra il Ministero della Giustizia e la Corte di Cassazione, la quale a sua volta esercitava la sua egemonia sull’intero corpo sia attraverso il controllo delle sentenze sia soprattutto attraverso la gestione dei concorsi che condizionavano la carriera dei magistrati.

La dimostrazione di quanta fosse la dipendenza della Magistratura dall’esecutivo ci è offerta dal fatto che il regime fascista non ebbe bisogno di introdurre controriforme di particolare rilievo per esercitare i suoi poteri dittatoriali.

Le leggi di ordinamento giudiziario del 1923 e del 1941, che vennero a sostituire quella del 1865, si limitarono ad eliminare alcune delle riforme del periodo precedente, senza necessità di sconvolgere un sistema che ben si adattava alle esigenze della dittatura. Lo scioglimento dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Italiani fu uno dei provvedimenti di questo genere, ma esso fu determinato più dalla generale impostazione totalitaria del regime che non da finalità specificamente riferibili ai problemi della Giustizia.

Il post-fascismo si fece carico di riesumare quel poco di riforme tendenti a realizzare l’indipendenza della Magistratura che, nel periodo liberale, erano state timidamente abbozzate.

Nel 1946 con la Legge “sulle guarentigie della Magistratura” venne eliminato il rapporto di dipendenza gerarchica che legava il pubblico ministero al Ministro della Giustizia; la Costituzione del 1948, poi, introdusse diverse riforme, la più importante delle quali fu l’attribuzione delle funzioni relative allo stato giuridico dei magistrati ad un organo indipendente dal potere politico e composto in maggioranza di magistrati eletti dai magistrati stessi, cioè al Consiglio Superiore della Magistratura, rinnovato nei suoi poteri e nella sua composizione.

Tutto il Titolo IV della Costituzione si occupò dell’ordinamento giurisdizionale e delle relative norme ponendo così un complesso di principi e di regole che avrebbero dovuto rappresentare le basi per una radicale inversione di tendenza rispetto ai precedenti periodi, quello post-unitario e quello fascista che, come abbiamo visto, rispetto al primo non rappresentò una soluzione di continuità. Al centro di questo complesso di principi stava l’affermazione dell’indipendenza della Magistratura, che trovava il suo punto di forza nel trasferimento dal Ministro ad un rinnovato Consiglio Superiore delle funzioni di gestione del personale giudiziario. L’attuazione delle norme costituzionali relative a questa materia però ha sempre incontrato grandi difficoltà, tant’è vero che non è mai stata neppure tentata la redazione di una nuova legge generale sull’ordinamento giudiziario, nonostante che la Costituzione, nella VII Disposizione Transitoria, esplicitamente la prescrivesse. Forti resistenze all’attuazione della piena indipendenza della Magistratura vennero da parte di un buon settore della Magistratura stessa che non vedeva di buon occhio delle innovazioni che avrebbero rotto la continuità con i precedenti regimi.

Comunque una certa progressiva evoluzione in senso autonomistico fu realizzata soprattutto fra il 1960 ed il 1990 (con estrema lentezza e cautela, quindi): l’ordinamento giudiziario italiano venne progressivamente differenziandosi dal modello napoleonico e fu fatto sfoggio, forse più teorico che pratico, di un esercizio delle proprie funzioni in piena libertà ed indipendenza dal potere politico, così come la Costituzione e la legge del 1946 avevano sancito.

Per portare a compimento questa evoluzione in senso di una piena realizzazione della divisione dei poteri, sarebbe stato necessario elaborare quella legge sull’ordinamento giudiziario richiesta dalla Costituzione che mai ha visto la luce, cosicché è ancora oggi in vigore l’intelaiatura generale del 1941. Attualmente provvedimenti ispirati ai principi costituzionali repubblicani coesistono in un quadro generale ispirato ancora ai canoni napoleonici del 1810. Né migliore è la situazione per quanto riguarda i Codici di procedura, sia quello penale, rinnovato nel 1988, sia quello civile, più volte riformato, ma sempre in modo parziale per far fronte ad esigenze particolari.

Il problema dell’indipendenza della Magistratura dalla tutela del potere politico non è una esigenza sorta nella fase post-fascista. Già nel 1848 Antonio Rosmini nel suo “Progetto di Costituzione” ipotizzava l’esistenza di una Alta Corte di Giustizia Politica (l’attuale Corte Costituzionale) con un numero di giudici pari a quelli di una Camera, eletti dal popolo con suffragio universale, che avesse per compito quello vigilare a che «qualche deliberazione del Potere non violasse i diritti guarentiti dal presente Statuto». In Europa fu l’Austria che con la sua Costituzione del 1920, per prima, mise in atto l’indirizzo rosminiano. Venne impiantata la Corte Costituzionale, un tribunale preposto a dichiarare illegittime quelle leggi che avessero violato o che si fossero trovate in contrasto con i principi sanciti dalla Costituzione, anche se queste leggi fossero state create nel pieno rispetto dell’iter procedurale e quindi fossero formalmente valide. Con ciò ci si ispirava a quella concezione filosofica secondo la quale il potere non può essere amministrato in modo assoluto ma sub lege et per leges. (Peccato che la Corte Costituzionale austriaca si dimenticasse di rendere nullo, nel 1938, il referendum che sanciva l’Anschluss con la Germania!).

A questo punto però l’ordinamento borghese si troverebbe di fronte ad un altro rischio, che venga ribaltato l’iniziale gerarchia: l’organo legislativo, il Parlamento (già di per sé completamente succube dell’esecutivo) si troverebbe ad essere sottoposto non solo a vincoli procedurali e formali, ma anche sostanziali e di contenuto, potrebbe cioè cadere sotto la tutela della Magistratura. Il giudice potrebbe divenire giudice della legge stessa. C’è infatti chi ritiene, e non del tutto a torto, che in tal modo un organo giudiziario si troverebbe a svolgere un’attività essenzialmente legislativa, il che, da un lato, comprometterebbe il tradizionale principio di divisione dei poteri e, dall’altro, configurerebbe un legislatore privo di elezione e di rappresentanza popolare.
 

(Fine al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 

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ALGERIA, IERI E OGGI

10. CAPITALISMO A VISO SCOPERTO
(continua dal n. 309)

Farsa democratica tra massacri e crisi economica
CONCLUSIONI
Appendice: LA QUESTIONE BERBERA
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Sani atteggiamenti anti-borghesi dal primo incontro fra partito marxista e movimento operaio nella A.I.L.

Nel 1866 la polizia francese aveva confiscato un rotolo di giornali e qualche lettera al passaggio del confine di un delegato al ritorno dal Congresso di Ginevra della Associazione Internazionale dei Lavoratori, che successivamente i comunisti chiameranno Prima Internazionale. Peter Fox, un buon compagno, membro assiduo del Consiglio Generale, fu da questo incaricato, il 1° gennaio 1867, di redigere una pubblica denuncia in merito, poi apparsa sui giornali "The Commonwealth" del 12 gennaio e "The Working Man" del 1° febbraio.

Nei toni giusti si reagisce alle provocazioni e agli intralci posti dal regime di polizia installato a Parigi, ben differenziandosi dai principi astratti di morale sociale borghese, e buon atteggiamento si indica al movimento operaio nei confronti di quel governo "non democratico".

Si tratta di contegno ed espressioni certamente pre-marxisti. Non è qui esclusa la possibilità di svolgimenti nel senso della deviazione a-politica, che negli anni avvenire verrà a raffrenare il naturale ed organico sviluppo di quella coscienza del movimento che i nostri maestri avevano ragione di sperare. Saranno i "bakuniniani", portatori dei concettini e ubbie tipiche delle mezze classi, a far politica all’interno del nostro partito – con i mezzi che sappiamo e che fecero imprecare i nostri Carlo e Federico – e invitando il proletariato a non farla all’esterno, la politica, contro i nemici borghesi.

Ma qui siamo ancora in una fase adolescenziale del movimento proletario, in un non ben differenziato partito-sindacato, quando l’incoscienza porta talvolta a volere e vedere meglio, nella massa, piuttosto che in età più acculturate, e corrotte. Una certezza e un orgoglio di classe, però, che portava quei pochi giovani ed inesperti militanti, per lo più personalmente lavoratori, in quelle semplici riunioni nelle sere londinesi, a considerarsi e ad atteggiarsi a rappresentanti di una effettiva potenza mondiale.

Già affermati e condivisi i fini comunisti ultimi della classe, mancava certo, al di fuori del minimo gruppo attorno a Marx, la coscienza di tutti i necessari passaggi intermedi, si sottovalutava certo la capacità di resistenza e le vili risorse di una classe borghese cui millenni di domini di classe avevano appreso ogni arte e malizia. Ma è più vicino alla realtà storica e sociale quell’istinto, quel sentimento e certezza sulla potenza e sui destini proletari, o la percezione d’oggi che la classe a tutto sarebbe impotente, anzi che nemmeno esiste?

La dottrina scientifica del proletariato continuava a sgorgare impetuosa, in quegli anni, dalla penna febbrile di Marx. Ma la nuovissima scienza non veniva a negare quelle anticipazioni e quei sentimenti di sdegno e di sfida, anzi li presuppone e di essi si alimenta.

Una effettiva potenza mondiale, ingenua, ma che la borghesia per prima riconobbe e temette. Un primo innesco di materiale infiammabile, nella tumultuosa ricerca da parte del movimento operaio della nozione di sé, sia pure confusa e per tentativi, in campo internazionale, fra la scienza di Carlo Marx che, partito personificato, si divideva instancabile fra la Biblioteca del British Museum e le riunioni serali dell’Associazione, e che dovette in quei mesi dare alle stampe il Primo Libro del Capitale, e la crescita vigorosa dell’impegno, della combattività e della aggregazione proletaria, che allora pareva inarrestabile in Europa ed America.

Una fisica reazione chimica nello spazio storico, preparata nei decenni, che poche volte occorre, come sarà di nuovo nella Terza Internazionale, e che tornerà domani ad abbagliare, ricco degli accumulati, sistematizzati ed assimilati insegnamenti di Marx e degli eventi ulteriori, cioè dell’indispensabile vivente partito, stavolta in una latitudine, forza serena e necessità, come evento di natura, che, noi stessi, comunisti di oggi, forse stentiamo a prefigurare.

Riproduciamo qui la prima parte del semplice testo.
 

IL GOVERNO FRANCESE E L’ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI

Per i primi due anni di esistenza di questa Associazione, cioè fino al riunirsi del Congresso di Ginevra, il Consiglio Generale ha avuto poca o nulla da lamentarsi circa la condotta del Governo francese nei confronti della Associazione Internazionale del Lavoratori. Le comunicazione del Consiglio con i suoi corrispondenti in Francia non sono state interrotte; la vendita delle tessere non gravemente intralciata. Se, qua e là, le autorità locali minacciavano gli inviati del Consiglio di terribili conseguenze qualora avessero proceduto al reclutamento, queste minacce restavano fulmini a ciel sereno e non erano messe in pratica contro coloro che avevano il coraggio di sfidarle.

Nello stesso tempo è pur vero che proprio l’esistenza dell’Impero Francese e delle leggi di pubblica sicurezza, che esso dichiara necessarie per il suo mantenimento, impediscono gravemente il progredire dell’Associazione. In primo luogo la mancanza del diritto di pubbliche riunioni impedisce ai membri dell’Associazione di trovarsi insieme e di organizzare le loro sezioni in modo aperto e formale. Ma il Consiglio Generale né si attendeva né desiderava che le leggi dell’Impero fossero modificate in modo da compiacere i suoi interessi. Il danno che così essi subiscono non ha niente di “particolarmente” ingiusto verso di loro. È un’offesa inflitta piuttosto all’intera naziona francese, e secondariamente verso ogni progressista liberale e democratico europeo, i quali tutti hanno interesse all’esistenza del diritto a riunirsi pubblicamente in Francia. Quindi, esso non muove alcuna pubblica protesta in merito.

In secondo luogo, il generale spirito terrorista, sul quale il governo francese fa tanto affidamento, non poteva non trattenere molti francesi, che condividono i principi e i progetti dell’Associazione, dal divenirne membri e dal legarsi alle sua fortune in Francia. Ma anche questo danno è generale ed indiretto. Inoltre, era noto ai fondatori dell’Associazione che questo sarebbe stato uno degli ostacoli al suo successo in Francia. Il Consiglio Generale era preparato ad un certa quantità di grave lavoro in conseguenza del terrore che pervade tutto ciò che riguarda un’azione politica indipendente in Francia, e quindi non può uscirsene ora a lamentarsi per questo.

Se il governo francese avesse continuato nell’atteggiamento di neutralità (forse sprezzante) che aveva mantenuto fino, e durante, il Congresso di Ginevra, il Consiglio Generale non sarebbe stato costretto alla presente dichiarazione ai membri dell’Associazione. Ma è a partire e successivamente al radunarsi del Congresso a Ginevra che al governo francese è parso il caso di modificare atteggiamento nei confronti dell’Associazione. I motivi di questo cambiamento di politica non si possono rintracciare in un qualche atto di particolare antagonismo commesso vuoi dal Consiglio Generale vuoi dai delegati al Congresso, francesi e non francesi.

Sarebbe stata la massima follia da parte del Consiglio Generale, o dei delegati al Congresso, cercare e provocare l’ostilità del governo francese. Qualche pochi membri parigini dell’Associazione presenti al Congresso come individui la pensavano diversamente, ma, non essendo delegati, non fu loro consentito di parlare al Congresso. I delegati avevano da portare avanti il gravoso compito che si sono dati, e non hanno deviato né a destra né a sinistra per metter su una dimostrazione anti-bonapartista».
 

Segue la dettagliata denuncia del sequestro della stampa, delle proteste mosse dal Consiglio Generale, anche tramite il Foreign Office!, e, infine, della sollecita restituzione, tramite questo, dell’intero pacco.