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"Il Partito Comunista"   n° 330 - settembre 2008 [.pdf]
PAGINA 1 Lo spettro del grande crac.
La guerra fredda è stata ed è solo scontro fra capitalismi.
– Terremoti e geologia sociale.
PAGINA 2 I Rapporti sul Fascismo presentati dalla Sinistra ai Congressi dell’Internazionale.
PAGINA 3 Il vaso di coccio libanese e i compiti del proletariato: Dalla crisi istituzionale allo scontro armato - Una difficile situazione sociale - Hezbollah falsa alternativa - La prospettiva proletaria e internazionalista.
PAGINA 4 – Grande industria, emissioni di veleni, complicità del regime.

 
 
 
 
 

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Lo spettro del grande crac
 

La Patria è sul Grappa! si diceva nel 1917 nell’Alma Italietta i cui sacri confini erano in pericolo sotto l’incalzare delle armi nemiche. È vero, ogni patria in pericolo ha il suo Grappa, linea estrema di difesa e resistenza oltre la quale c’è la rotta; quale che sia il genere di guerra in corso. Quella del capitalismo mondiale, almeno dal 1987, con crisi finanziarie a cadenza più o meno biennale, è veramente una guerra di lunga durata. Non ancora contro il suo storico becchino, il proletariato internazionale oggi piegato e vinto, ma contro le conseguenze della sua follia produttiva, dell’incontenibile anarchia del mercato mondiale su cui si scaricano tutte le contraddizioni tra il produrre, il consumare, e l’accumulare.

Nel mondo sovrastrutturale della finanza tutto ciò si manifesta con esplosioni violente e spettacolari che scatenano il panico da “fine del mondo”. Anche se il più delle volte i crolli del mercato azionario, anche i più profondi, si risolvono alla fine in una ripulitura delle tasche degli sciocchi che hanno preteso partecipare al gran banchetto dove nessuno vorrebbe pagare ciò che consuma, nello sgonfiarsi della “bolla” speculativa e nel far ripartire poi il meccanismo del ladrocinio legalizzato verso “nuove avventure”, in un ciclo ancora più accelerato e demente.

L’ultima in ordine di tempo, ma certamente la più intensa per gravità, è la crisi indotta dalle operazioni sui mutui americani, che ha colpito non solo i listini di borsa ma sta facendo vacillare i colossi finanziari e tende a propagarsi anche agli altri comparti mondiali.

Di fronte alla bufera che monta c’è poco da schierarsi dalla parte dei “monetaristi”, da quella dei “neo classici” o seguire la moda delle nuove teorie macroeconomiche: quando la Patria è in pericolo, gli effetti della follia della finanza scuotono il fradicio mondo borghese e vacillano i pilastri della creazione di valori di carta, le teorie si mettono da parte, i sacri principi della “libertà di mercato” semplicemente si ignorano, e si ripristinano le ricette dei nonni.

La cura pare negare decenni di ferrei propositi per limitare al massimo gli interventi diretti dell’autorità statale nei fatti dell’economia, ed in specie della finanza. Prima che tutto vada a catafascio, babbo Stato Federale provvede a metterci una pezza, “garantendo” la truffa con i soldi pubblici. Questi ultimi, a loro volta, non sono che altri debiti, seppure fregiati del sigillo del Tesoro americano. Lo Stato acquisisce quindi due grandi Compagnie sull’orlo del fallimento, poi due della massime Banche del paese accollandosi i loro debiti e non sappiamo se finisce qui...

Impossibile sapere la misura di questo debito: venticinque miliardi di dollari, più probabilmente trecento, forse di più. Un buco, una voragine non commensurabile. Nemmeno con il suo ipertrofico apparato di calcolo e controllo, con la sua sterminata rete di raccolta di informazioni a scala mondiale, gestite da schiere di analisti, il sistema capitalistico “globalizzato” è in grado di definire solo una scala di grandezza dell’ammontare della carta che ha emesso, e quale sia “buona” e quale no, a quanto ammonti il suo debito o il suo credito “in sofferenza”, come si dice in banca. Impotenza di una società fondata sulla “fiducia” e sull’accumulazione privata, dei borghesi individui come delle istituzioni a tutti i livelli, che non riesce nemmeno a conoscere se stessa. Se sopravvive è per caso! perché il becchino proletario è al momento assopito...

Provano ora ad evitare che sprofondino quattro delle massime banche, che si tirerebbero dietro non poco della sconquassata finanza mondiale, quattro tra i più giganteschi enti creatori di carta straccia travestita da valore che operino sul mercato globale.

È significativo che proprio gli strumenti che il capitalismo si dette or sono giusto ottanta anni allo scopo di contribuire ad una sua uscita ordinata dalla crisi, oggi sono quelli stessi che col loro fallimento vengono a precederla e ad innescarla! Fannie e Fred, le due finanziarie americane al collasso, furono infatti create negli anni Trenta per reperire i fondi necessari al riavvio dello stremato mercato immobiliare uscito dalla Grande Depressione, negli anni Sessanta si sono trasformate in società private quotate in borsa, e negli anni della finanza “avanti tutta” la loro funzione è diventata di acquistare pacchetti di mutui, erogati da altre banche, trasformarli in titoli e collocarli sul mercato: è il gioco di far credere che abbia un valore un “foglio” che testimonia un possibile valore in un futuro, più o meno prossimo, più o meno probabile.

Con una garanzia complessiva sui mutui erogati di cinquemila trecento miliardi di dollari, quasi la metà dei mutui fondiari erogati negli Stati Uniti d’America sono riciclati in titoli a giro per il mondo. Vedi la fregatura della globalizzazione, che noi chiamiamo, scusate, imperialismo, col movimento non solo delle merci ma piuttosto dei capitali: vai tu a sapere dove si ramifica l’infezione.

Il Tesoro, e di concerto la Banca Federale, garantiscono di colmare la voragine. La solita ricetta: soldi dei contribuenti, o tipografie che lavorano a ritmi sostenuti, o un miscuglio delle due possibilità, in buona pace delle bufale che la loro pretesa scienza economica diffonde a larghe mani.

Nella sostanza la ricetta non cambia se per le altre banche la “soluzione” non è stata di salvataggio, ma l’acquisizione forzosa, sotto pressione del Tesoro americano, da parte di altre, o addirittura di istanza di fallimento. Anche in questi casi la speranza è che l’effetto domino sia fermato o almeno rallentato da altri soggetti finanziariamente più robusti, che se ne accollino, ovviamente con robusti aiuti fiscali, pezzi e attività ancora attive, o almeno non in perdita. Così lo Stato americano, tramite i suoi organi, ha deciso il “salvataggio”, ovvero la concessione di finanziamenti quasi a fondo perduto, della più grande compagnia assicuratrice del mondo.

Il problema, a questo punto della vicenda, è soltanto decidere chi salvare e chi abbandonare alla voracità “del mercato”, cioè al fallimento dichiarato. In prima fila ci sta chi ha compiuto i danni più grossi, ovvero le compagnie maggiori e che più hanno venduto fumo, quelle il cui tonfo avrebbe gli effetti più dirompenti.

Qualche anima dotata di maggior senso di ironia si domanda dove sia finita la cosiddetta “economia di mercato”, dal momento che il Tesoro diventa, in modo diretto o mediato il controllore, se non il proprietario di una parte enorme dell’intero assetto finanziario Usa. La domanda si risponde da sola. Il capitalismo, soprattutto nella sua attuale fase terminale, la più terribile per le sorti immediate e future dell’umanità, non conosce più forme specifiche o di elezione per la sua esistenza e voracità. Come in guerra non ci sono regole, se non quelle imposte dalla stringente necessità. Quel che serve per la sopravvivenza del Capitale va fatto; e qualunque genere di ordine e principio, che pure i suoi servi di destra o di sinistra invocano per limitarne la follia auto-distruttiva, deve essere inesorabilmente ignorato. Anzi, queste drammatiche rinunce ai loro stessi modelli e regole sono da tutti benedette. Presidenti a termine e candidati, inflessibili Governatori delle Banche Centrali, custodi dell’ortodossia monetaria e del mercato, Ministri del Tesoro e via elencando nelle gerarchie dell’Economia, della Finanza, dello Stato. Non una voce fuori dal coro: la salvezza prima di tutto!

Nonostante ogni illusione, l’immane sovrastruttura di debiti travestiti da valori che muove ormai in larga parte la finanza mondiale, ha bisogno di uno sviluppo sempre crescente della produzione, cioè dell’accumulo di plusvalore operaio. Scollegare la “Finanza” dal ciclo di produzione-vendita-accumulazione capitalistica è, specialmente nelle fase di crisi, un sogno proibito di tutte le Autorità monetarie. Nella fase attuale il processo mondiale di inflazione pare rallentare e comincia a profilarsi lo spettro della deflazione, vero indicatore della grande crisi di sovrapproduzione. Ecco perché rispetto a questa sono state di altra portata la “bolla” della New Economy o le crisi innescate dalle truffe della Enron e collegate, o nella Italietta i casi Cirio o Parmalat.

I travolgenti effetti di un crac generalizzato della struttura finanziaria degli Usa si porterebbero sull’intero assetto bancario e monetario mondiale poiché il debito estero americano è finanziato con titoli di Stato posseduti da tutto il mondo, cinesi e russi per primi. Le autorità monetarie hanno il ben misero armamento dei bassi tassi per aumentare il circolante e permettere di far fronte alle scadenze ed ai debiti, su tutte le sponde degli oceani, ad est ed ovest, non ci sono altri strumenti di intervento. E tutte le Autorità del capitale, in Cina, in Europa, in Giappone hanno provveduto a gettare denari nella fornace della crisi. Denari che servono a coprire debiti di dimensioni enormemente superiori, considerata la carta straccia prodotta. Ma altro da fare non c’è.

Una pezza, per quanto piccola sia, è meglio di nulla, anche perché sperano nell’effetto “segnale” dato ai mercati, ovvero a tutti i creditori pagati con fogli senza valore, allo scopo di dar tempo ai Grandi di salvare il salvabile prima che se ne accorgano i piccoli Pinocchi che hanno portato i loro gruzzoli nel Campo dei Miracoli.

Peggio andrà per i proletari che il capitale ha costretto ad affidargli i loro risparmi come trattenute obbligatorie per la vecchiaia e la malattia: questa parte integrante il salario è stata forzatamente trasformata in capitale e destinata alla giostra dei finanziamenti, degli interessi dei quali per decenni se ne è appropriato il capitale. Nella crisi quella ricchezza e riserva operaia è stata dilapidata nei salvataggi bancari e ben poco ne verrà restituito alla classe lavoratrice.

Giustamente i proletari in Italia si sono tenuti alla larga dal gorgo dei “Fondi” di cui anche i sindacati di regime magnificavano le virtù magiche di moltiplicazione del valore. Il futuro che resta alle giovani generazioni proletarie è la condizione normale e necessaria di senza riserve della classe dei salariati. Questo stato di continua emergenza, incertezza e rovina incombente, questa totale mancanza, teorizzata anzi come giusta e morale, di sicurezze anche minime per l’immediato futuro, questo disprezzo arrogante e cieco per ogni necessità umana, sacrificata al profitto, alla truffa eretta a sistema, tutto questo è il capitalismo, che si conferma ed esaspera nella sua fase terminale.

Non siamo in grado di prevedere date e scadenze. Abbiamo però la certezza dell’esito. Alla fine di questo ciclo, crisi ricorrenti e sempre più estese, generalizzate e profonde, un cumulo gigantesco di debiti e di carta straccia verrà ad ingolfare e bloccare la riproduzione mondiale del Capitale. Si porrà allora una unica via di uscita per l’azzeramento di tutti quei conti in rosso, la unica soluzione borghese, la Guerra. L’altra, la vera, soluzione per lo azzeramento dei conti è la Rivoluzione internazionale della classe operaia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


La guerra fredda è stata ed è solo scontro fra capitalismi
 

Il giorno 8 agosto, in coincidenza con l’apertura delle Olimpiadi a Pechino, ove si concentravano i governanti e l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, forze armate della Georgia sono penetrate nella provincia secessionista dell’Ossezia del Sud, con l’intenzione di rimanerci, per mettere di fronte al fatto compiuto una imbarazzata diplomazia mondiale.

Quel territorio alpino è abitato da sempre, sui due versanti russo e georgiano, da una etnia di montanari che parlano una loro lingua. Popolazioni di vallate e alti valichi di confine, geograficamente e storicamente a dividere Europa ed Asia, da sempre nemiche a quelle delle sottostanti pianure, dedite alla pastorizia e al piccolo contrabbando ma su una terra di grande importanza strategica per imperi antichi e imperialismi moderni.

Meno arretrati gli insediamenti nei territori meridionali alla catena del Caucaso, attraversati dalle vie di comunicazione fra il Mar Nero e il Caspio e sedi di antiche comunità umane in una intricata mescolanza di razze e culture delle quali solo le maggiori sono la georgiana, l’armena e l’azera. Questa immaturità nazionale e borghese della regione e la necessità di unificare almeno le infrastrutture stradali e ferroviarie (oggi si pone la questione degli oleodotti) convinse i rivoluzionari comunisti di Russia nel corso della guerra civile a preferire una soluzione unitaria in una Repubblica Transcaucasica.

Nel contesto della guerra civile che si era combattuta fra il potere dello Stato e dell’esercito dei Soviet e le potenze capitalistiche, a quel fine riappacificate, il paese fu successivamente occupato da truppe dei diversi imperialismi occidentali e oggetto delle loro brighe propagandistiche e diplomatiche.

Dovremmo dedicare un apposito studio alla discussione sulla questione georgiana all’interno dei partito comunista, che vide allora la netta condanna di Lenin sia della politica “nazionale grande-russa” attuata da Stalin nei confronti delle piccole nazionalità caucasiche, sia degli atteggiamenti sbrigativamente amministrativi utilizzati per mettere a tacere il dissenso dei comunisti georgiani.

Oggi la situazione storica è del tutto diversa, non si tratta più di un conflitto politico e sociale, di una guerra civile che assume l’aspetto di una contesa fra Stati ed eserciti emananti da classi opposte per il controllo militare di un dato territorio, ma di colossi imperialisti, entrambi borghesi, che nel loro scontro per dividersi i profitti incuranti massacrano le classi inferiori di tutte le comunità dell’occasionale teatro di guerra, esattamente come calpestano e opprimono le classi lavoratrici nella madrepatria.

Una eventuale questione nazionale georgiana, come anche il separatismo dei contadini osseti o abkasi, i quali Lenin avrebbe voluto non ignorasse la politica dell’esercito comunista, nell’attuale scontro imperiale sono gettati nello sfondo, ridotti a pretesto per la propaganda di parte che cerca di nascondere gli egoismi del grande capitale alla ricerca di mercati e di materie prime sotto l’ipocrisia delle “liberazioni”, della “difesa della pace”.

Nella politica estera e militare reciproca dei due opposti blocchi imperiali risalta di nuovo una evidente continuità fra quella attuata nei confronti della Russia staliniana, sedicente comunista, e di quella di oggi, che si proclama democratica e anti-comunista, tanto che i motivi della “guerra fredda” sembrano radicati nella conformazione stessa dei continenti e delle stirpi che vi abitano e indipendenti dal volere degli uomini e dalle alterne vicende della lotta delle classi sociali.

La lezione borghese è semplice: pur nella crisi delle piccole Nazioni, travolte dalla “globalizzazione”, le grandi imperiali sono un approdo della storia ormai definitivo e permanente e una sistemazione e ambito per sempre conchiuso della politica. Qualunque governo vi si instauri, esso è espressione di affermati sistemi di interessi “oggettivi”, propri di quella terra: quindi, mostrano dall’evidenza, i russi restano russi, che al Cremlino abiti Lenin, Stalin o Putin.

Meno elementare la dialettica marxista che si può ridurre alla formula che vi è continuità nell’affrontarsi dei giganti imperiali capitalistici solo finché si tratta di giganti imperiali capitalistici. Il potere politico, temporaneo, degli Stati comunisti, necessariamente confinato in un dato territorio e dominante una data popolazione, ha il fine di negare se stesso, nell’obiettivo anti-nazionale della distruzione di tutti gli Stati nazionali, il suo compreso. Lo scopo del comunismo, rappresentato nella coscienza e nella volontà del partito mondiale, non è la “coesistenza” fra paesi ma il loro superamento rivoluzionario a scala universale. La politica estera e militare di Lenin, per esempio, nei confronti della Georgia era opposta a quella di Stalin. Non che Lenin fosse un “pacifista”, ma la politica sua e del suo partito poteva concepire bene il sacrificio degli interessi dello Stato comunista russo a vantaggio del progredire della rivoluzione mondiale in un contesto che, prima che di guerra fra Stati, è, trasversale, di guerra fra classi.

Del tutto opposta la linea di politica estera russa impostata dallo stalinismo, e proseguita dai post-stalinisti Krusciov-Breznev e dagli anti-stalinisti Eltzin-Putin i quali tutti rivendicano un retaggio nazionale che, esplicitamente, fanno risalire a Pietro il Grande.

Oggi sono 16 anni che la Russia è tornata ad occupare con le sue truppe e controlla l’Ossezia del sud e l’Abkazia. Il suo fine dichiarato è solo quello di “peacekeeping”; come gli statunitensi armerebbero il governo georgiano per “consolidarvi la democrazia”.

Una prima guerra in Ossezia è stata combattuta nel 1993, nel periodo turbolento successivo alla indipendenza georgiana dall’Urss, quando il rinato Stato caucasico fu interessato da guerre separatiste nelle province di Ossezia del Sud e di Abkazia, sicuramente sostenute da Mosca; il risultato è che da allora queste godono di una indipendenza sostanziale, sebbene non siano mai state riconosciute da nessuno, neppure dalla Federazione Russia.

Questo mese di agosto l’azione armata condotta dal governo filo-americano di Saakashvili sperava di cogliere di sorpresa i russi: hanno sparato contro i “peacekeepers” e costretto i civili alla fuga sotto i bombardamenti, confidando nell’effetto sorpresa. L’operazione militare è stata sicuramente resa possibile dai rifornimenti americani, ma forse decisa “autonomamente”. Lo farebbe pensare il calcolo di Saakashvili così grossolanamente sbagliato: la replica russa, anche se un po’ tardiva, alla fine ha visto i russi avanzare alcuni pezzi sulla scacchiera. Una provocazione del genere era forse attesa per ribattere al colpo inviando con buona organizzazione una divisione di veterani della Cecenia tenuti pronti nella confinante Ossezia del Nord, qualche migliaio di soldati, un centinaio di carri armati con copertura aerea. Per la capitale osseta Tskhinvali c’è stata vera battaglia, fra forze pressoché equivalenti, è durata due giorni ed è stato anche ferito il comandante russo. I russi hanno poi sconfinato in territorio georgiano per decine di chilometri occupando la città di Gori.

I rapporti di forza, su questo terreno certo sfavorevoli a Tiblisi, hanno portato alla resa immediata, costretto i georgiani ad una disordinata ritirata fino alla capitale e alla perdita di tutti i loro carri armati. I georgiani né avevano un piano alternativo né ovviamente potevano contare sul sostegno se non verbale degli yankees. Contemporaneamente Mosca bombardava il porto di Poti e il suo importante terminale petrolifero e gli imponeva un blocco navale. Per di più approfittava dello smacco georgiano per riaccendere il focolaio in Abkazia, inviarvi nuove truppe ed estromettere definitivamente i georgiani ancora presenti nella parte meridionale del territorio.

Il governo georgiano – che si distingue in corruzione, condizionamenti mafiosi, tronfio nazionalismo, regime di polizia e politica ovviamente anti-operaia – da coerente organo di sfruttatori borghesi si è gettato nella folle impresa senza minimamente curarsi dei sicuri “effetti collaterali”: il massacro degli osseti, vittime sacrificali delle sue ambizioni sotto-nazionali, ha condannato anche i georgiani, suoi connazionali ma avversari di classe, contadini poveri e proletari, esponendoli col suo avventurismo alla reazione dell’Orso russo e delle bande di “cosacchi”, gruppi paramilitari distintisi in saccheggi e stupri. Questa pur minima guerricciola è costata forse 1.500 morti, ma i dati non sono sicuri, feriti, distruzioni, sfollati... Per le classi povere e sfruttate, come sempre, il nemico è in casa propria.

Per garantire l’ordine davanti alla disastrosa sconfitta il Governo di Tiblisi ha dichiarato lo stato di guerra e la legge marziale, certo temendo più eventuali rivolte interne che gli invasori.

La Russia, stavolta, si è fermata. Non poteva riconquistare la Georgia, ma ha lanciato un pesante ammonimento ai confinanti Stati borghesi ex suoi satelliti in procinto di aderire alla Nato o di ospitare sul proprio territorio installazioni militari, come l’Ucraina, la Polonia e la Repubblica Ceca. Sul terreno della diplomazia si è mossa con cautela per fingere di rispettare gli ultimi brandelli del diritto internazionale, del quale si proclama fra gli ultimi difensori, dopo che gli Usa e il codazzo di alleati europei (meno Grecia e Spagna) hanno contribuito a metterlo in ridicolo con l’amputazione territoriale dalla Serbia del Kosovo e dopo che l’Europa aveva combattuto la guerra per lo smembramento della Iugoslavia, all’interno della sua “sfera di influenza”.

Il governo Saakashvili confida di garantire l’indipendenza della Georgia, e in modo “irreversibile”, affiliandosi all’Alleanza Atlantica e alla Unione Europea – sull’esempio delle tre repubbliche baltiche, della Polonia e di altri ex satelliti di Mosca – in modo da scoraggiare l’espansionismo russo nel Caucaso. In questo modo si offrono all’imperialismo americano che nell’area del Medio Oriente sta conducendo la sua spregiudicata politica guerrafondaia per il controllo delle risorse energetiche. Gli Usa è da anni che armano Tiblisi, fornendo armi e assistenza militare: hanno addestrato sul campo di battaglia in Iraq le loro forze armate e hanno inviato istruttori e sofisticati apparati (uno di questi è stato conquistato dai russi e gli Usa ne hanno richiesto la restituzione!). Il ponte georgiano, come bene sanno anche i russi, è fondamentale sulla via per il Caspio e i suoi giacimenti petroliferi.

Non è solo l’accesso alle fonti energetiche a muovere gli americani ma anche il tentativo di creare nuove condizioni per controllare l’Europa dopo la caduta dell’ordine di Yalta ed evitare che si renda troppo indipendente da Washington e magari potenziale alleato di Mosca, e in futuro di Pechino. Gli Usa a tale scopo influenzano gli Stati dell’Europa dell’Est, giocando sulla storica paura verso il troppo prossimo e incombente imperialismo del Cremlino e destabilizzando dall’interno il difficile percorso unitario dell’Unione Europea, che nella configurazione a 27 membri è soggetta agli umori degli Stati affrancatisi dall’influenza moscovita.

Ma la sconfitta diplomatica e militare di Tiblisi è anche quella di Washington. L’imperialismo europeo ha cercato di occupare il vuoto non occupato dagli americani, al momento imbarazzata parte in causa, prendendo l’iniziativa di fingere di patteggiare con le parti in conflitto, tramite Sarkozy, portavoce temporaneo della UE, una pace favorevole a Mosca: sostanzialmente riportare la situazione alla condizione precedente la guerra ma senza accennare alla difesa della integrità territoriale della Georgia.

Per Mosca, smaltita la fase acuta della crisi post-sovietica e momentaneamente rimpinguata dalla rendita del petrolio e delle altre materie prime, l’espansione verso Oriente dei confini della Nato costituisce una provocazione a cui dover rispondere, una conseguenza della sconfitta non solo nella “guerra fredda”, con la perdita del controllo economico e militare dell’Est Europa del Patto di Varsavia e dei “Paesi socialisti” del Terzo Mondo, ma anche esser regredita rispetto ai territori facenti parte dell’Urss prima della Seconda Guerra e prima ancora dell’Impero degli Zar.

Alla base della dottrina militare della Russia è, dal 1600, evitare l’accerchiamento, il che include la necessità strategica di una vasta zona cuscinetto ai confini, fascia che attualmente le potenze di Usa e Cina stanno erodendo o minacciando, alimentando propositi di rivincita. Diversamente gli Stati Uniti, potenza marittima affacciata su due oceani, puntano sul controllo delle vie di comunicazioni e dei bacini di materie prime.

L’Ossezia si pone su storiche direttrici di sviluppo imperiale, per mantenere destabilizzato il Caucaso e tenervi lontano i rivali. Oggi è l’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyan, il cui tracciato è totalmente in territori esterni alla Russia, obiettivo difeso dalla Nato. Da notare che stavolta è stato risparmiato dai bombardamenti.

Si tratta anche di tranquillizzare le repubbliche dell’Asia Centrale, anch’esse oggetto di interessamento americano; e anche Iran e Cina, oggi tiepide alleate di Mosca in chiave anti-americana ma potenzialmente rivali negli scenari geo-politici asiatici.

L’Europa, almeno quella del Club di Roma (i Paesi fondatori della Cee), pur rifiutando di riconoscere le province secessioniste della discordia, non ha approvato le sanzioni contro la Russia, che rimane un suo partner commerciale importante, mostrando di continuare ad oscillare fra i due colossi militari entro i quali, fin dalla Seconda Guerra, si trova costretta a barcamenarsi, politica che riproduce a scala maggiore la morsa che stringe minime entità come la Georgia.

In questo gioco a vendersi meglio, i Paesi dell’Est europeo preferiscono le carezze del mastino più lontano, accusano Parigi, Berlino e Roma di collusione coi russi e chiedono “protezione” a Washington. La Polonia ora aderisce allo scudo Nato antimissile, tirandosi addosso minacce russe e retropensieri non amichevoli di tedeschi e francesi.

La guittesca politica dell’amicizia personale condotta da Berlusconi nei confronti di Putin, Bush, perfino col turco Erdogan e ora pure con Gheddafi aggiorna l’ambigua politica estera della borghesia italica, sempre pronta a saltare da una parte all’altra della barricata.

Quindi, nulla di nuovo: l’imperialismo mostra i suoi inevitabili caratteri portando guerra e distruzione in ogni regione del Mondo, e preparando laddove sussiste ancora la pace borghese condizioni per le più immani carneficine in un continuo affrontarsi di eserciti, che non rappresenta ed ubbidisce ad altro che alla lotta fra grandi imprese capitalistiche e fra grandi banche internazionali, che secondo l’oscillare dei loro tassi di profitto e dell’interesse muovono con dita invisibili gli ambasciatori e i generali, e le moltitudini umane, come i pezzi di un gioco.

Vano esercizio quindi, anche in questo ultimo conato di guerra, il voler rintracciare la parte di chi aggredisce da quella di chi è aggredito, Georgia o Russia: la risposta marxista è che indistintamente tutti i capitalismi sono aggrediti, dalla crisi della loro economia prima di tutto, dal chiudersi dei mercati, dalla caduta del saggio del profitto. Questo li costringe, tutti, alla guerra e li spinge a gettarsi gli uni contro gli altri.

Ma il vero ed unico aggressore, a scala storica generale, che inesorabilmente ben sanno che li attende è la classe operaia mondiale, con la sua Rivoluzione per il sempre più incombente Comunismo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Terremoti e geologia sociale

Sono del 1908 a Reggio Calabria il fortissimo terremoto e il maremoto che vengono paragonati ai recenti dell’Oceano Indiano e al tremendo terremoto cinese. A Reggio ci sono ancora le baracche dei terremotati; a fianco ad esse sognano di voler costruire il super-ponte sullo stretto di Messina. Una moderna Torre di Babele.

Al capitale rendono buoni affari le catastrofi, sia di guerra sia naturali, che distruggono lavoro morto e vivo, permettendo all’economia borghese la frenesia del ritmo di accumulazione. La distruzione di masse tuttora utili di prodotti del lavoro passato rende necessaria la loro sostituzione con lavoro vivo. Non semplici appalti di manutenzione, di non grande entità, ma giganteschi affari per ricostruzioni e per nuove costruzioni.

Il capitale è ormai inadatto alla funzione sociale di trasmettere il lavoro delle generazioni passate e dell’attuale alle future. E anche lo testimonia l’incapacità del capitale, in veste democratica o totalitaria, di conservare per le future generazioni una natura ospite per i viventi, ove accumula le sue scorie, chimiche, radioattive, ecc.

Su queste problematiche la ipocrisia borghese è venuta a costruire e diffondere una sorta di nuova religione universale, la cosiddetta ecologia, fondata, come tutte le religioni, sullo stravolgimento di problemi reali in superstizione, ignoranza, moralismo e impotenza.

I conti non tornano più. Opere tecnicamente possibili e socialmente utili, come per esempio il tunnel ferroviario sotto la Manica, sono non più favorite ma ritardate nel tempo e compromesse nella progettazione ed esecuzione dal modo di produzione capitalistico. La impresa che, con ritardo storico di un secolo, ha scavato lo “Eurotunnel” è fallita per ben due volte, prima come esecutrice dei lavori poi come società per la sua gestione commerciale. O il commercio o il progresso, ormai.

Il caso del Ponte di Messina è molto meno serio, spostandoci qui sul terreno della italica pulcinellata. Basti ricordare che si verrebbe a sospendere un’arcata di una luce ancora mai osata sopra una faglia tettonica attiva.

Non ci esprimiamo qui sulla validità degli altri progetti presentati in alternativa al Ponte, alcuni forse meno problematici e costosi. Fatto è che, oltre che per la statica e la geologia, l’opera non “sta sù” nemmeno economicamente. Il gigantesco ponte sarebbe capitale fisso e immobile. È capitale fisso quel capitale che viene trasmesso nel nuovo prodotto in più cicli produttivi. Un ponte è uno dei tanti mezzi il cui valore, come qualunque capitale fisso, incide sul costo del prodotto trasportato nel luogo di consumo: la sua utilità, in regime capitalistico, si misura nella diminuzione dei costi di trasporto.

Ma, nonostante la spesa di progettazione (si fa per dire...) del Ponte, ad opera di appositi enti e studi, abbia già assurto a cifre enormi, nessuno ha mostrato una valutazione della sua gestione economica nel tempo. Se i costi di manutenzione, di ammortamento e per gli interessi saranno superiori agli attuali non si sarà avvicinata l’isola alla penisola ma allontanata. Perché non ci dicono se il pedaggio sarà inferiore o superiore a quello degli attuali traghetti?

Dopo la costruzione del ponte verrà smantellata tutta l’attuale flotta, efficiente, di traghetti, o lasceranno esistere una libera concorrenza, come è stato per l’attraversamento della Manica? Interverrà lo Stato imponendo balzelli?

È evidente che lo scopo del capitale non è l’uso del ponte ma la sua costruzione, nella classica inversione di mezzo-fine che ormai compenetra tutti gli aspetti della vita sociale e la psicologia stessa e i comportamenti degli individui. Una idolatria, appunto, verso il Totem-Capitale nei suoi riti della economia della sciagura.

Questa inversione si riflette, per esempio, anche nella vigente normativa tecnica per le costruzioni. Secondo l’ultimo decreto, del febbraio scorso, il progettista dovrebbe adeguarsi al criterio di garantire una “durata prevista” che per un un edificio adibito ad abitazioni è limitata ad un secolo. È evidente il carattere ideologico della norma non essendo in alcun modo possibile stabilire tecnicamente la “probabilità” del tempo del futuro collasso di un fabbricato: si misurerà il progredire della ruggine nelle strutture metalliche? Risulta innegabile che il capitalismo si impegna, a forza di legge, a costruire peggio di tutti i regimi sociali che l’hanno preceduto, la tecnica dei quali ci ha lasciato in dote le città in cui viviamo, molte vecchie di secoli e millenni.

Lo sviluppo delle forze produttive già oggi raggiunto a scala mondiale, che rende anacronistico l’ulteriore esistenza di classi sociali, permetterebbe la produzione secondo un piano prestabilito. Espressione teorica di questa maturità storica è il socialismo scientifico.

Compito storico della dittatura del proletariato moderno, organizzato in partito politico, è l’abbattimento del potere politico borghese, premessa al ristabilimento del rapporto organico fra le forze della natura e della società. Superata la fase della produzione di merci, la società riacquisterà il dominio dei produttori sui prodotti. L’umanità avrà allora percorso un suo ciclo, passando dal “regno della necessità” al “regno della libertà”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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I Rapporti sul Fascismo presentati dalla Sinistra ai Congressi dell’Internazionale

Premessa alla pubblicazione in inglese
 

Il rappresentante della Sinistra comunista italiana fu incaricato dall’Internazionale Comunista di preparare due rapporti sul Fascismo, che espose a Mosca rispettivamente il 16 novembre 1922 ed il 2 luglio 1924, nel corso del IV e del V Congresso. Oggi, a distanza di più di ottanta anni, quella formidabile dialettica è altrettanto e più valida di allora.

La borghesia internazionale, per quanto fosse riuscita ad isolare la rivoluzione comunista negli angusti limiti della Russia ex zarista e semifeudale; per quanto, dopo un periodo di sbandamento e di quasi rassegnazione a vedersi strappare il potere dal proletariato in armi, fosse già passata al contrattacco a scala internazionale, ed in Italia, sbarazzandosi della scomoda maschera democratica, avesse instaurato un regime di chiara dittatura di classe, malgrado tutto ciò il proletariato non si dichiarava battuto e si preparava al momento della riscossa.

Erano però i Partiti Comunisti e l’Internazionale che cominciavano a presentare le prime debolezze ed i primi cedimenti alla infiltrazione opportunista nella compagine rivoluzionaria. Ma, sebbene tutta l’impalcatura dell’organo mondiale della rivoluzione corresse seri rischi, non era inevitabile che tutto fosse perduto: un riacutizzarsi dello scontro di classe avrebbe potuto riportare i Partiti e l’Internazionale nel proprio e necessario alveo della rivoluzione.

Purtroppo tutto ciò non è avvenuto, ed oggi, di fronte allo strapotere della classe borghese, comunismo, rivoluzione, dittatura del proletariato appaiono alla ubriacata opinione pubblica utopie di un mondo passato, che la storia avrebbe dimostrato essere irrealizzabili sogni di illusi.

Noi al contrario affermiamo che, anche allora, a vincere il proletariato non fu, principalmente, la sconfitta militare nello scontro armato con la borghesia, con una classe apertamente in lotta per mantenere il potere e l’altra determinata a strapparglielo: la sconfitta del proletariato è stata ottenuta tramite il tradimento del suo stato maggiore, tramite la degenerazione controrivoluzionaria che ha corrotto i Partiti e l’Internazionale, deformando dapprima, poi capovolgendo le sue basi teoriche e programmatiche.

Oggi ancora ritornare alla dottrina originaria e al programma del comunismo incorrotto – quello di Marx, di Lenin e della Sinistra – rappresenta la base necessaria ed indispensabile per la futura riorganizzazione del proletariato rivoluzionario su scala internazionale, premessa per il successivo e risolutivo assalto alle roccheforti del capitalismo per la conquista rivoluzionaria del potere.

È per questa necessaria affermazione di partito che ripubblichiamo i rapporti sul Fascismo in quel primo dopoguerra, ormai lontano ma che ancora appare fiammeggiante di rivoluzionaria lotta di classe: non ricerca storiografica ma arma critica indispensabile al movimento, ai nostri compagni e ai proletari che sono alla ricerca del loro autentico partito.

* * *

Sul tema Fascismo, a partire da questi due rapporti, il nostro partito, nel solco del marxismo di sinistra, ha dedicato molteplici studi. Alla domanda: che cos’è il Fascismo, non risponde con il luogo comune “dittatura negatrice della libertà e della democrazia”, democrazia che di ogni libertà rappresenterebbe la salvaguardia. Utile per nascondere il carattere del potere di classe, il Fascismo non è invece che uno dei molti aspetti assunti nella storia dal dominio borghese. Ma ne è il più moderno, il più efficace, il più perfezionato, il più aderente alle necessità del capitalismo nella sua ultima fase: l’imperialismo.

La nostra indagine sul fascismo, come del resto su tutte le forme sovrastrutturali e politiche che la società assume, si basa essenzialmente sull’analisi dello sviluppo nei successivi momenti storici delle forze produttive e dei rapporti economici di classe.

Schematizzando al massimo possiamo affermare che, dopo la sua conquista rivoluzionaria del potere, la borghesia attraversa una fase liberistica del capitalismo, contraddistinta da una economia in cui prevale la libera concorrenza fra produttori e fra commercianti. In corrispondenza del liberismo in economia si professa il liberismo in politica: ogni cittadino, si insegna, sta verso lo Stato nello stesso rapporto di tutti gli altri, il Parlamento primeggia sull’Esecutivo ed ogni Legge e decisione discende dalla sua preventiva approvazione.

Naturalmente, se la democrazia, in questa fase, rappresenta una forma di governo congeniale alla borghesia ed utile per raggiungere il compromesso fra le sue componenti, è pur sempre già un inganno e una mistificazione nei confronti del proletariato: per il proletariato la libertà giuridica corrisponde, nella reale valutazione economica dei rapporti sociali, alla libertà di vendere la propria forza lavoro, non avendo altra alternativa che la morte per fame. La migliore dimostrazione che anche in questo periodo liberale lo Stato altro non era che il garante degli interessi della classe borghese venne dall’estendersi e dall’acuirsi della lotta di classe che smascherava la reale natura dittatoriale dello Stato, seppure parlamentare e democratico.

Con l’estendersi della produzione delle merci e con la conseguente concentrazione del capitale in poche mani, il capitalismo trapassa, di fase in fase, fino ad arrivare alla sua ultima: l’imperialismo. Le caratteristiche dell’imperialismo è noto che sono state definite da Lenin come segue:
- Concentrazione della produzione e del capitale che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
- Fusione del capitale finanziario con il capitale industriale ed il formarsi, sulla base di questo capitale, di una oligarchia finanziaria;
- La grande importanza acquisita dall’esportazione di capitali in confronto alla esportazione di merci;
- Sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si spartiscono il mondo;
- Compiuta spartizione della Terra tra le grandi potenze imperialistiche.

Nella fase imperialistica moderna il sistema capitalistico sottopone ad una radicale revisione tutti i canoni che lo avevano ispirato nella fase liberistica. In questa nuova epoca la borghesia rinuncia ad alimentare i suoi originari miti della illimitata libertà dei cittadini, e in economia della libera concorrenza per le aziende, e ricorre a forme di contenimento delle opposizioni in politica e di intervento statale sui mercati e sulla finanza.

Questa diversa situazione economica necessariamente si riflette anche nelle istituzioni di governo; la politica dello Stato si evolve verso forme di sempre più stretto controllo, di direzione unitaria, in una impalcatura gerarchica fortemente centralizzata. È il grande capitale, il capitale finanziario che, dominando la scena economica, si assume il controllo diretto delle leve dello Stato, insofferente di ogni indisciplina. In questa fase la democrazia viene a mancare alla stessa classe dominante, ed è sostituita con organi di governo apertamente dispotico non solo nei confronti del proletariato ma anche della piccola borghesia, dei contadini, dei piccoli commercianti, ecc. Sempre schematizzando possiamo affermare che il fascismo è semplicemente una delle espressioni caratteristiche – se vogliamo, la più caratteristica – del moderno stadio di sviluppo della società borghese, costretta a forme di totalitarismo politico capaci di fronteggiare, con unità e disciplina di classe, le sue contraddizioni e la pressante necessità storica della spinta rivoluzionaria del proletariato.

Tale concetto è sempre stato un punto caratteristico della valutazione storica e politica della nostra corrente rivoluzionaria di sinistra. Anche in occasione dell’avvento di Hitler al potere in Germania, in polemica con Trotzki, la nostra Frazione si espresse affermando che la nuova forma di organizzazione politico-sociale, il nazismo, era stata imposta al capitalismo dalle condizioni economiche e, soprattutto, dal rapporto dello scontro di classe.

Nella fase dell’imperialismo, dall’inizio del Novecento e poi irreversibilmente, tutti gli Stati capitalisti, anche quando non arrivino a strutturarsi in regimi apertamente fascisti, ne assumano di necessità le peculiari caratteristiche, seppure mantengano una formale democrazia con un simulacro di Parlamento e una apparente pluralità di partiti. Le trasformazioni degli istituti statali e della vita civile in tutti i paesi del mondo l’ha dimostrato chiaramente, con la riduzione del pluripartitismo ad una triviale sceneggiata fra cortigiani mantenuti dallo Stato, col finanziamento statale diretto dei partiti, dei giornali e financo dei sindacati operai.

* * *

Dal punto di vista strettamente storico l’analisi del fenomeno fascista deve necessariamente partire da quello straordinario evento storico che fu la Prima Guerra mondiale.

Ha fatto la sua prima teorizzazione ed apparizione in Italia. Quando la guerra divampò in Europa, in Italia il popolo di ogni strato sociale, se si eccettuano i nazionalisti, fu pressoché concorde nella posizione della neutralità. Ma non erano neutrali gli interessi del grande capitale, quindi la diplomazia italiana intraprese immediatamente trattative con i governi degli opposti schieramenti cercando di profittare dagli eventi bellici il maggior vantaggio possibile. Scontenta delle offerte fattele dal governo Austro-ungarico, finì con il concludere l’entrata in guerra al fianco della opposta coalizione siglando il famoso Patto di Londra.

Questi fatti furono preceduti da una grande campagna interventista nella quale di non poca importanza fu il ruolo assunto da Benito Mussolini. Mentre il Partito Socialista Italiano manteneva lo stesso atteggiamento di opposizione alla guerra che aveva assunto durante la campagna militare di Libia, Mussolini, che da due anni si trovava a dirigere l’Avanti!, il quotidiano del partito, tentò all’inizio qualche timida mossa a favore della partecipazione contro l’Austria-Ungheria. Ma i socialisti non si discostavano dalle loro tesi di neutralità mentre ogni interventismo mascherato all’interno del partito veniva denunciato dalla sua ala sinistra. Mussolini si schierò quindi apertamente a favore della guerra, legandosi così, anche formalmente, ad un movimento interventista che raggruppava nelle sue file uomini di tendenze le più disparate e di cui i centri del capitalismo nazionale si servivano perché l’entrata dell’Italia in guerra divenisse inevitabile e fosse vista come logica e naturale soluzione.

La Prima Guerra mondiale – condannata come guerra imperialista da Lenin, dalla Sinistra del Partito Socialista Italiano e da poche altre eccezioni, e da doversi sabotare da parte del proletariato di tutti i paesi – veniva presentata da Mussolini come fatto rivoluzionario che avrebbe aperto alle masse proletarie la strada della loro emancipazione. Perfino ad armistizio concluso Mussolini, sfruttando le sofferenze e le illusioni dei combattenti, scriverà: «La guerra ha portato le masse proletarie in primo piano. Essa ha spezzato le loro catene. Essa le ha estremamente valorizzate. Una guerra delle masse si conclude con il trionfo delle masse (...) Se la rivoluzione del 1789, che fu nello stesso tempo rivoluzione e guerra, aprì le porte e le vie del mondo alla borghesia che aveva fatto il suo lungo e secolare noviziato, la rivoluzione attuale, che è anche una guerra, dovrà aprire le porte dell’avvenire alle masse che hanno fatto il loro duro noviziato di sangue e di morte nelle trincee (...) La rivoluzione è continuata sotto il nome di guerra per 40 mesi. Essa non è finita (...) Quanto ai mezzi, noi non abbiamo pregiudizi, accettiamo quelli che saranno necessari: i mezzi legali e quelli cosiddetti illegali».

Mussolini, di fronte ai possenti movimenti di classe delle masse proletarie, non tardò a manifestare quali fossero i mezzi “legali” ed “illegali” che intendeva mettere al servizio della “rivoluzione”. Messa la sua organizzazione al servizio e al soldo degli interessi del capitalismo, dal 1919 in poi, quotidianamente si assisté ad un crescendo continuo di violenze e intimidazioni di ogni genere nei confronti dei lavoratori e delle organizzazioni proletarie. Queste imprese criminali, benedette dalla Chiesa, avallate dallo Stato, sostenute dalla polizia e dall’esercito, rese impunite dalla magistratura, si svolgevano seguendo una linea di sviluppo territoriale che portava alla graduale conquista strategica della penisola. Con la sua vera e propria organizzazione militare il fascismo puntava al controllo delle posizioni chiave nei centri economici italiani. Da Bologna, l’avanzata fascista si sviluppava in due direzioni da un lato si dirigeva verso il triangolo industriale: Torino, Milano, Genova; dall’altro in direzione della Toscana, dell’Italia centrale e di Roma.

L’assalto rivoluzionario del proletariato in Italia nel 1922 era già stato sconfitto per l’opera subdola della socialdemocrazia: non fu quindi il fascismo a salvare la borghesia dal comunismo. Ma gli esponenti del grande capitale italiano si erano ormai convinti che l’unico rimedio sia contro il ritorno del pericolo rivoluzionario sia per disciplinare le mezze classi piccolo borghesi fosse l’andata al potere di Mussolini e del Fascismo. Tutti i vecchi uomini di Stato ed i partiti politici dello schieramento democratico si dichiaravano pronti ad accettarli nel regio governo. Rimaneva da definire solo la contrattazione, a denti stretti, del numero dei portafogli da attribuire ai fascisti: una volta trovato questo accordo l’entrata trionfale di Mussolini in Roma, che vi arrivò da Milano in vagone letto, non poteva che essere la logica conclusione.

Nessun intervento venne messo in atto né dallo Stato, né dai partiti democratici per arrestare la presunta “rivoluzione” fascista. Al momento della “Marcia su Roma” il Re si rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio, cosicché i fascisti poterono convergere indisturbati nella capitale.

L’unica resistenza i fascisti la trovarono nei quartieri proletari di Roma, dove gli operai, guidati dai comunisti, si scontrarono contro le squadre mussoliniane. Anche in quella occasione, come era ormai tradizione consolidata, la Guardia Regia occupò il quartiere operaio privandolo di ogni mezzo di difesa e quindi permise ai fascisti accorsi di sparare a sangue freddo sugli operai. Quando poi il Partito Comunista propose lo sciopero generale come risposta di classe alla presa del potere da parte dei fascisti, i dirigenti socialisti della Confederazione Generale del Lavoro lo contennero e spinsero gli operai a non seguire le “pericolose” esortazioni dei gruppi rivoluzionari, mentre i capi delle altre centrali sindacali non diedero neppure risposta.

Era la fine di ottobre 1922, Mussolini presentava per l’approvazione parlamentare il suo primo governo. Il governo Mussolini venne votato da 306 deputati. I fascisti erano soltanto 35, poco più del 10%.

Per il Partito Comunista d’Italia il deputato Rabezzana lesse una dichiarazione di partito in cui si affermava che «il fondersi di tutti i partiti borghesi intorno al fascismo è una conferma dell’esattezza della critica nostra. Il fascismo al governo dimostra assai meglio di 100 e 100 conferenze che un’epoca rivoluzionaria si è aperta. La morte della democrazia coincide con l’agonia della classe dominante (...) Voi fascisti siete i continuatori ed eredi legittimi di tutta la tradizione politica della borghesia italiana».

La Sinistra comunista italiana ha sempre negato che il fascismo debba essere considerato come una “parentesi storica” bruscamente aperta e bruscamente chiusa, quasi come una alzata e calata di sipario. Ha sempre ritenuto, al contrario, che tra democrazia pre-fascista, fascismo e democrazia post-fascista vi sia continuità storica, sociale, politica ed economica. Nel 1945, nella nostra rivista “Prometeo” scrivevamo: «La guerra in corso è stata persa dai fascisti, ma vinta dal fascismo (...) Il mondo capitalistico avendo salvato l’integrità e la continuità storica delle sue possenti unità statali, realizzerà un ulteriore sforzo per dominare le forze che lo minacciano ed attuerà un sistema sempre più serrato di controllo dei processi economici e di immobilizzazione dell’autonomia di qualunque movimento sociale e politico minacciante di turbare l’ordine costituito (...) Questa verità fondamentale ogni giorno più si manifesta nel lavoro di organizzazione, per il controllo economico, sociale, politico, del mondo».

Dalla univoca interpretazione che demmo del fenomeno fascismo è coerentemente discesa la nostra valutazione di quella che venne poi denominata “resistenza antifascista”: un movimento del tutto privo e che rifiutava ogni connotazione di classe, e che anzi prevede la sottomissione del proletariato ad una parte dei partiti borghesi per il conseguimento del fine, antistorico, utopico e reazionario, del “ritorno alla democrazia”. Per questo abbiamo sempre considerato l’antifascismo come il più pernicioso prodotto del fascismo. La guerriglia dei “partigiani” – e questo in Spagna nel 1936 come poi in Italia e in altri paesi – anche quando composta da confusi gruppi proletari, non poteva svincolarsi dalle sue premesse patriottiche e democratiche, in irriducibile antitesi, storica e politica, al movimento di classe per il socialismo, nonostante le mille menzogne dei socialdemocratici e degli stalinisti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Il vaso di coccio libanese e i compiti del proletariato
 

Con sollievo Le Monde salutava nel suo editoriale del 22 maggio 2008 l’accordo che, a Doha, ha risolto la crisi istituzionale in Libano portando finalmente all’elezione del nuovo presidente Michel Suleiman: «Merita senza dubbio di essere meditata la lezione di Doha, che prova la superiorità del dialogo sull’uso della forza». Difficile concordare con l’editorialista: l’accordo di Doha, che ha messo una provvisoria fine agli scontri armati in Libano, ha dimostrato semmai l’esatto contrario, è con l’uso della forza infatti che si è raggiunto un nuovo status quo, un nuovo anche se precario equilibrio.

L’accordo, raggiunto tramite la mediazione della Lega Araba, ha previsto l’elezione immediata del Presidente della Repubblica e la formazione di un governo di unità nazionale composto da 30 membri (16 della maggioranza filo-occidentale, 11 dell’opposizione e tre di nomina dello stesso presidente). Questo governo dovrebbe guidare il Paese fino alle elezioni previste per la prossima primavera. I ministri dell’opposizione, costituendo un terzo più uno dei membri del governo, avranno diritto di veto sulle questioni legate alla sicurezza e alla politica estera. L’accordo è stato salutato come positivo da quasi tutti i maggiori partiti politici libanesi e da tutti gli Stati coinvolti, Siria e Iran da una parte, Francia, Stati Uniti, Arabia Saudita ed Egitto dall’altra.

Ma questa “unanimità” di giudizi non ci fa mutare il nostro: questo accordo rappresenta solo una tregua, che in questo momento può far comodo a molti ma che è destinata a finire presto. Il nuovo governo di unità nazionale infatti ha ottenuto la fiducia del Parlamento solo ai primi di agosto, a testimonianza di gravi divergenze. Nel programma di governo uno dei punti fondamentali è rappresentato dal riconoscimento del «diritto del Libano, del suo popolo, dell’esercito e della resistenza a continuare la liberazione e a recuperare terreno con tutti i mezzi legittimi a disposizione»; ci si riferisce qui ad alcuni piccoli territori al confine tra Libano, Siria e Israele che sono ancora occupati dall’esercito israeliano.

Il governo cerca un po’ di stabilità nascondendo dietro al nazionalismo i profondi contrasti sociali.

Il 13 agosto il presidente libanese ha incontrato a Damasco il presidente siriano. L’incontro ha avuto una certa rilevanza perché ha portato al reciproco riconoscimento tra i due Stati con apertura delle rispettive ambasciate nelle due capitali. Ma proprio lo stesso giorno a Tripoli, nel Libano del nord, una potente bomba ha investito un autobus facendo 18 morti, tra cui molti militari.
 

Dalla crisi istituzionale allo scontro armato

La settimana di scontri che ha interessato il piccolo Paese mediterraneo nella prima metà di maggio è l’ennesima dimostrazione della fragilità del “vaso di coccio” libanese, stretto tra una serie di vasi di ferro che vanno dai confinanti Siria e Israele fino ai più lontani Iran e Stati Uniti. Una fragilità di cui rischia di fare le spese, ancora una volta, il proletariato, sia esso sciita, sunnita o cristiano, libanese, palestinese o siriano.

L’invasione, due anni fa, del Libano meridionale da parte dell’esercito israeliano, preceduta da prolungate ondate di bombardamenti, fu contrastata non dall’esercito ma dalle milizie di Hezbollah, che diedero filo da torcere ai super armati ma mal diretti e demotivati reparti di Tel Aviv. Da allora il Paese continua a vivere nell’incubo quotidiano di una nuova guerra.

Nello scorso maggio il Libano si trovava ancora nella grave crisi istituzionale iniziata alla fine del 2006 quando, scaduto il mandato del Presidente Emile Lahud, il Parlamento avrebbe dovuto procedere all’elezione di un nuovo Presidente della Repubblica, che deve essere un esponente della comunità cristiano-maronita in base alla Costituzione confessionale del 1956, che spartisce il potere tra le varie comunità religiose.

Il Parlamento però, profondamente diviso al suo interno, mai procedette all’elezione, falliti i numerosi tentativi di arrivare ad un compromesso, essenzialmente, tra la maggioranza filo-occidentale e la minoranza filo-siriano-iraniana. Era così rimasto in carica Emile Lahud. Anche il governo, presieduto da Fuad Seniora, era in crisi dopo le dimissioni, sempre alla fine del 2006, di ben 6 ministri dell’opposizione, di cui 5 sciiti.

Nel gennaio dell’anno scorso Hassan Nasrallah, il capo del partito sciita Hezbollah, la maggiore forza di opposizione, parlando dinanzi a decine di migliaia di sostenitori proprio mentre Bush era in giro per il Medio Oriente, avvertiva che non avrebbe accettato soluzioni per il Libano nel senso voluto da Washington.

Il 20 maggio l’esercito libanese dette l’assalto al campo palestinese di Nahr al Bared, vicino a Tripoli, per colpire una misteriosa organizzazione legata ad Al Qaeda, Fatah al Islam. L’assedio, che costrinse migliaia di civili palestinesi ad abbandonare le loro case, poi distrutte dall’artiglieria pesante, durò fino al 2 settembre quando l’esercito riuscì ad occupare il campo dopo aver ucciso più di duecento guerriglieri e con la perdita di 160 soldati libanesi e di alcune decine di civili palestinesi.

L’esercito libanese apparve gravemente impreparato ad affrontare i guerriglieri e nei primi giorni della battaglia subì pesanti perdite; solo successivamente riuscì a passare all’offensiva, grazie alle munizioni fornite, pare, dalla Siria e ai mezzi corazzati dagli Usa, in una collaborazione incongrua solo apparentemente.

Secondo alcune fonti giornalistiche esisterebbe una collaborazione tra questo gruppo qaedista, sunnita, e la maggioranza di governo, anch’essa sunnita, per contrastare Hezbollah ed anche la presenza palestinese. Non è infatti da escludere che l’offensiva contro il gruppo di guerriglieri sia stata lanciata proprio per avere l’occasione di cacciare dal campo i palestinesi e distruggere le loro case, visto che da tempo il governo intendeva riprendere la sovranità sui cosiddetti campi profughi, abitati in maggioranza da proletari.

Il 12 dicembre 2007 il generale Francois El Hajj, che aveva diretto le operazioni contro il campo di Nahr al Bared, veniva ucciso da un’autobomba a Beirut. Il generale era indicato come probabile successore di Michel Suleiman alla guida dell’esercito, quando quest’ultimo fosse divenuto, come è poi successo in giugno, Presidente della Repubblica.

Non venne allora accettato il piano proposto dalla Lega Araba che cercava di arrivare ad una soluzione politica della crisi, prevedendo pressoché gli stessi punti che verranno sottoscritti il 21 maggio a Doha, cioè l’elezione di Suleiman a presidente, la creazione di un governo di unità nazionale che rappresentasse sia la maggioranza sia l’opposizione, il riconoscimento ai ministri dell’opposizione del diritto di veto sulle questioni rilevanti, soprattutto in politica estera, ecc.

Il 15 gennaio 2008 una autobomba esplodeva al passaggio di un’auto blindata dell’ambasciata statunitense; nello scoppio morivano quattro civili libanesi. Si continuò da allora a lavorare di bombe. Il 25 gennaio un alto funzionario dei servizi segreti libanesi veniva fatto a pezzi insieme alla scorta e a tre civili da una bomba piazzata nel sottopassaggio di un’autostrada. Appena 16 mesi prima il vice capo del controspionaggio della polizia era stato ucciso da un’altra autobomba.

Il 13 febbraio veniva ucciso in Siria con la stessa tecnica Imad Moughniyeh, capo delle operazioni militari e dei servizi segreti di Hezbollah. Imad pare fosse nel paese appena da un giorno, era molto prudente e avrebbe dovuto essere protetto anche dagli efficienti servizi segreti di Damasco. Chi lo aveva tradito dunque e perché? Forse proprio i dirigenti siriani per ingraziarsi gli Stati Uniti e Israele, ridurre la pressione sul Paese e favorire quei colloqui segreti che stavano svolgendosi in Turchia proprio tra Siria e Israele?

Il 16 febbraio Hezbollah chiamava alla mobilitazione 50.000 uomini nel sud del Libano, ufficialmente per prevenire un temuto attacco israeliano, ma forse per dare una nuova prova della sua forza ed efficienza militare.

L’uso dell’esplosivo per “indirizzare” la politica del governo è la dimostrazione della guerra che i servizi segreti dei vari Paesi interessati al “futuro” del Medio Oriente (e del suo petrolio) stanno combattendo per assicurarsi il controllo del Libano.
 

Una difficile situazione sociale

Oltre a quella istituzionale, anche la situazione sociale non è affatto tranquilla e si è aggravata negli ultimi mesi.

Alla fine di gennaio scorso nella periferia sud di Beirut, a maggioranza sciita, sono scoppiate proteste contro le frequenti interruzioni di elettricità; il governo era accusato dai manifestanti di privilegiare nelle fornitura le zone a maggioranza filogovernativa e di sacrificare i quartieri sciiti, controllati dall’opposizione. Durante le manifestazioni è intervenuto l’esercito che è stato fatto segno a lanci di pietre; qualcuno ha sparato su un dirigente di Amal, il vecchio partito sciita alleato di Hezbollah, che pare stesse cercando di calmare i manifestanti. Alla fine dei moti resteranno uccise otto persone; l’esercito nega di avere sparato sui dimostranti ed in effetti sembra che gli uccisi siano stati bersaglio di cecchini.

Nel maggio scorso è stato lo stesso governo libanese, notoriamente alleato dei “possessori di cedole petrolifere”, che, per cercare di buttare acqua sul fuoco, prendendo atto della insostenibile situazione dei ceti più bassi della popolazione impoveriti da una inflazione a due cifre, ha proposto, per la prima volta dopo dieci anni, un innalzamento dei salari minimi a 320 dollari.

Secondo dati riportati sulla stampa, l’inflazione ufficiale è stata pari al 16% nel 2007, causata soprattutto dal rincaro del costo dei generi alimentari e del petrolio. Il petrolio, il cui prezzo è aumentato da 0,60 dollari al litro nel 2007 a 0,90 dollari nei primi mesi del 2008, serve sempre di più per utilizzare i generatori di corrente che a Beirut arriva per sole tre ore al giorno. Il salario medio dei 650.000 salariati ufficiali del Libano è pari a circa 500 dollari e solo un 10% circa di loro percepisce il salario minimo o una cifra inferiore.

Molte famiglie riescono a tirare avanti solo perché ricevono una forma di “sussidio” attraverso il controllo statale dei prezzi di elettricità, gas, benzina e farina. Il movimento sciita aiuta la sua comunità fornendo assistenza medica e scolastica, per l’abitazione, aiuti alimentari e benzina. Molte famiglie riescono a vivere grazie alle rimesse dei numerosi emigrati. Nonostante questo pare che la situazione sociale sia veramente difficile. Circa il 50% dei giovani lavora all’estero; il 28% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà; il 20% più povero della popolazione accede solo al 7% dei consumi mentre il 20% più ricco ne arraffa il 43%.

Secondo una ricerca effettuata dalla Confederazione Generale del Lavoro (CGTL) una famiglia di 5 persone per vivere decentemente ha bisogno di almeno 640 dollari al mese; i sindacati dunque hanno chiesto al governo che il salario minimo sia elevato non a 300 ma a 600 dollari.

In una recente intervista il presidente della CGTL ha dichiarato: «Abbiamo avuto salari congelati per 12 anni, a partire dal 1996, e le indennità sociali stanno regredendo (...) Per questo abbiamo chiesto al Governo una discussione su tre punti principali: aumento dei salari minimi, controllo dei prezzi ed alcune altre misure riguardanti gli aspetti sociali ed economici (...) Abbiamo chiesto che il salario minimo fosse alzato a un milione di lire libanesi [un po’ più di 600 dollari, ndr] (...) Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro il costo della vita è aumentato fino al 60% nel periodo che va dal 1996 al 2007 (...) Il governo ha risposto offrendo di elevare il salario minimo garantito a 500 mila lire libanesi, ma senza aumentare i salari».

Bisogna ricordare anche che buona parte dei palestinesi, che costituiscono la parte peggio pagata del proletariato in Libano, non potrà beneficiare di questo provvedimento perché spesso lavora in nero. Infatti ai palestinesi è proibito per legge di esercitare ben 70 professioni, non possono lavorare come medici o avvocati per esempio, né possono accedere alla proprietà. La disoccupazione tra loro è molto alta, soprattutto nei campi profughi dove ne vive circa la metà; ad Ain el Hilweh, il più esteso campo profughi, si stima essa arrivi al 70%. Il numero dei palestinesi residenti in Libano è stimato tra i 400 e i 700 mila, su poco più di 3 milioni e mezzo di abitanti, rappresentano dunque un problema o, a seconda altri punti di vista, una forza, quando, come in anni passati, hanno saputo uscire dall’influenza dei partiti nazionalisti per scegliere la strada della lotta per la loro difesa in quanto proletari, su base interreligiosa e di classe.

La CGTL, visto che il governo ha rifiutato la richiesta di aumento del salario minimo, ha indetto uno sciopero per il 7 maggio con una manifestazione a Beirut. La manifestazione è stata proibita, ufficialmente per via di un mancato accordo sul suo itinerario.

Proprio negli stessi giorni il governo denunciava l’esistenza di un sistema di sorveglianza dell’aeroporto di Beirut installato da Hezbollah, il partito sciita, e rimuoveva dunque il capo della sicurezza dell’aeroporto, accusato di spionaggio; decideva anche di smantellare la rete telefonica terrestre autonoma, ad uso militare, installata da Hezbollah nelle zone del Libano sotto il suo controllo.

La manifestazione operaia si è tenuta ugualmente, nonostante il divieto delle autorità. Durante la manifestazione decine di camion hanno bloccato con montagne di sabbia tutte le vie di accesso all’aeroporto internazionale che ha dovuto essere chiuso.

Il giorno successivo, l’8 maggio, varie zone di Beirut sono state paralizzate da blocchi stradali organizzati soprattutto da sostenitori di Hezbollah, mentre il loro capo, Nasrallah, definiva le misure del governo come una vera e propria dichiarazione di guerra contro il movimento, rivendicandone la funzione di forza nazionale e ribadendo quindi la necessità del suo armamento, di cui fa parte la rete telefonica autonoma. A proposito del suo uso infatti, Nasrallah precisava che «la rete telefonica è terrestre ed è esclusivamente ad uso militare per consentire ai quadri alle cellule e al comando della resistenza di comunicare senza essere ascoltati dal nemico (Israele); non si creda che la usiamo per far soldi».
 

Hezbollah falsa alternativa

Per il governo invece il movimento sciita violerebbe, per il solo fatto di essere armato, la sovranità nazionale e rappresenterebbe una sorta di Stato nello Stato. La questione centrale è dunque quella dell’armamento di Hezbollah; una questione che era già stata al centro dello scontro politico negli anni scorsi. Fino allo scoppio dell’ultima guerra con Israele c’era chi pensava di risolvere il problema assorbendo l’ala militare di Hezbollah dentro la difesa nazionale.

La soluzione non doveva essere di gradimento dello Stato d’Israele che infatti scatenò la guerra proprio per distruggere la milizia sciita. Lo scopo non fu raggiunto e anzi la forza dimostrata dal movimento sciita non permise, alla fine della guerra, di chiederne il disarmo neppure a fronte dell’intervento delle forze dell’ONU, con l’Italia in prima linea.

La situazione nel Paese restava però tesissima. Negli ultimi mesi il partito americano, il partito Mustahbal di Saad Hariri, disponendo di milioni di dollari, ha cercato di rafforzarsi creando una sua Agenzia di milizia privata, la Secure Plus, forte di circa 3.000 uomini.

Sembra dunque che il governo con le misure decise ai primi di maggio intendesse provocare una risposta violenta di Hezbollah per poterlo sconfiggere sul suo terreno, nelle strade. Infatti in alcuni primi scontri sono stati i militanti di Hezbollah e di Amal a cadere; ma in poche ore la situazione si è rovesciata, i soldati dell’Agenzia, rimasti spesso senza direttive precise e anche senza munizioni, si sono imboscati o consegnati alle milizie sciite, che hanno preso il controllo dell’intera Beirut ovest e hanno lanciato un pesante avvertimento a Saad Hariri e al suo alleato Jumblatt, assidui frequentatori del Dipartimento di Stato Usa. La sede di una TV del partito Al Mustaqbal è stata incendiata e quella del quotidiano del partito di Hariri colpita da un razzo. Anche a Tripoli, nel Jaball druso e in altre parti del Libano gli scontri, durati una settimana, si sono risolti a vantaggio di Hezbollah, lasciando sul terreno più di 60 morti e più di 200 feriti.

L’esercito libanese non è intervenuto direttamente nella battaglia, limitandosi a cercare di dividere i combattenti. Un comunicato ufficiale del comando ha dovuto ammettere che «la crisi minaccia l’unità delle istituzioni militari». Dunque l’esercito, nonostante abbia ricevuto dagli Usa, solo negli ultimi tempi, ben 60 miliardi di dollari per armamento e addestramento, resta inaffidabile nel caso dovesse essere impiegato contro l’opposizione.

Ma la direzione di Hezbollah non ha voluto profittare della vittoria per far cadere il governo; ha riconsegnato ai militari la parte della città passata sotto il suo controllo in cambio del ritiro dei provvedimenti contro il movimento. Inoltre ha anche ordinato di riaprire le strade per l’aeroporto.

Le trattative tra i partiti governativi e quelli dell’opposizione per uscire dalla crisi sono riprese nei giorni successivi a Doha, nel Qatar, sotto l’egida della Lega Araba, nonostante le premesse poco rassicuranti visto che l’Arabia Saudita e l’Egitto si erano schierati apertamente contro Hezbollah seguendo le indicazioni statunitensi. Da parte sua lo sceicco Naim Kassem, seconda carica del partito sciita «ha dichiarato che le armi dell’organizzazione saranno sempre puntate contro Israele, sostenendo che la lotta interna in cui è stato coinvolto il gruppo è stata scatenata dalle decisioni del governo, volte a colpire la resistenza e fare gli interessi degli Stati Uniti» (Daily Star, 16 maggio).

Intanto le manovre militari israeliane intorno all’isola di Cipro, i movimenti delle forze statunitensi, le infiammate dichiarazioni diplomatiche fanno ritenere da alcuni analisti che si stia avvicinando il momento di un attacco aereo contro l’Iran da parte dell’aviazione di Tel Aviv, un accadimento questo che potrebbe coinvolgere il proletariato dell’intera regione in una nuova guerra.
 

La prospettiva proletaria e internazionalista

In questo scenario, che minaccia di fare del Libano, e non solo il campo di battaglia dello scontro tra gli imperialismi, il proletariato della regione rischia ancora una volta di essere travolto dalle false divisioni nazionali, etniche e religiose divenendo lo strumento cieco della classe dominante, che è divisa tra i due campi in lotta ma unita nel difendere i suoi interessi anche a costo di una nuova guerra.

Tutti i giornali scrivono che il popolo libanese, dopo le tragedie che ha subito per trent’anni, non si farà trascinare in questo vortice; noi comunisti non ne siamo affatto convinti: la decisione della guerra, anche quella “civile” non ha bisogno di essere “condivisa” dalla maggioranza della popolazione ma viene decisa e imposta da ristretti gruppi di affaristi borghesi per difendere ed incrementare i loro affari, camuffandoli da interessi generali, “del Paese”.

In tutto il Medio Oriente, l’unica forza che può opporsi ad una nuova guerra è solo quella della classe operaia, quando sappia liberarsi dall’influenza dei partiti borghesi, mascherati sotto esteriori paramenti religiosi o copricapi etnici, ma schierati dalla parte di Washington o di Teheran. In particolare il proletariato libanese non deve affidare le sue sorti al partito Hezbollah e ai suoi alleati, che hanno preso il posto dei vecchi partiti stalinisti nello sporco lavoro di tenere lontani i proletari dalla difesa dei loro interessi di classe e internazionalisti, schierandoli sul fronte dell’antiamericanismo e dell’antioccidentalismo. Questi partiti, grazie all’eclettismo politico che condividono con il vecchio opportunismo nazional-comunista, sono strumenti della reazione al servizio delle classi ricche e della contesa fra gli gli schieramenti imperiali.

Il proletariato libanese, come hanno dimostrato le vicende tragiche della guerra civile, ha nemici ambedue gli schieramenti politici del paese e tutti gli Stati borghesi. Non può sperare nell’azione interessata e controrivoluzionaria della diplomazia internazionale ma solo sulle proprie forze. Partendo dalla difesa delle sue condizioni immediate di vita e di lavoro può ricostituire la sua unità di classe e, superando le artificiali divisioni religiose e nazionali, accoglierà nelle sue organizzazioni sindacali tutti i proletari, senza alcuna preclusione. Queste porranno nei loro obbiettivi la liberazione dei fratelli di classe palestinesi dalla condizione di “profughi” in cui vengono costretti dalla classe dominante. Deve riarmarsi, oltre e prima che di fucili, della sua teoria rivoluzionaria, del suo partito comunista. È questa una indispensabile condizione perché il proletariato possa sfuggire al tragico ruolo di carne da cannone anche nella prossima guerra imperialista.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Grande industria, emissioni di veleni, complicità del regime
 

Anche a Taranto, come si muore in fabbrica per incidenti sul lavoro si muore in città per tumori da inquinamento. È uno dei tanti aspetti del capitalismo, mostro assetato di sangue proletario.

Un recente studio dell’osservatorio epidemiologico della Regione su dati 1998-2004 evidenzia come in Puglia ad essere più esposti ai tumori polmonari siano gli abitanti della città di Taranto. E non è un caso in una città così industrializzata. Gli “esperti” indicano nel benzene, nella diossina e negli idrocarburi presenti nell’atmosfera le cause di siffatte malattie.

Secondo i dati resi disponibili dall’Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti, la situazione ambientale tarentina è davvero critica per produzione di monossido di carbonio, diossina e mercurio. Per la diossina è come se per 45 anni consecutivi fosse stata annualmente emesso il doppio di quella di Seveso. Le leggi italiane non sono state ancora armonizzate con quelle più severe europee e quindi è ancora del tutto “legale” che dal solo camino E312 dell’impianto di agglomerazione dell’Ilva venga emesso il 90% di tutta la diossina prodotta in Italia, con valori 1.000 volte superiori a quanto consentito dalla UE.

Del mercurio, dati dichiarati dall’Ilva stessa, si è passati dai 118 kg del 2002 ai 665 del 2005: questo metallo finisce in mare dove, attraverso trasformazioni bio-chimiche nella flora batterica, viene a legarsi come metil-mercurio alle membrane cellulari nei pesci e nei crostacei. Tramite la catena alimentare il mercurio, molto nocivo alla salute, passa nei mammiferi.

Il primario di ematologia dell’Ospedale Nord di Taranto ha dichiarato in un’intervista al Corriere del Mezzogiorno del 5 dicembre che ogni 100.000 residenti ci sono 50 nuovi casi di tumori ematologici in città. In Italia la media è di 35 su 100.000. Fra le cause della differenza l’inquinamento sarebbe la preponderante. «La diossina, il benzene, gli idrocarburi – afferma l’ematologo – si depositano facilmente nei grassi e agevolano l’insorgere dei tumori nelle loro varie forme. E a Taranto, queste sostanze le respiriamo ogni giorno, in grandi quantità. La città deve convivere con uno dei più grandi poli siderurgici d’Italia, e a Brindisi, qualche chilometro poco distante, ci sono mega aziende che producono energia ma anche benzene e idrocarburi».

Un’associazione ambientalista ha fatto fare delle analisi sul latte materno e i risultati sono stati quelli temuti: i valori di diossina e policlorobifenili sono di 30 volte superiori alla dose tollerabile in base ai parametri della Oms. Gli “esperti” stavolta hanno cercato di minimizzare, temendo che le donne tarantine smettano di allattare al seno, cosa che sarebbe ancora più nocivo per i neonati.

Tra le varie dichiarazioni degli “addetti ai lavori” è emersa però una allarmante verità sulla salute dell’umanità oggi a livello internazionale. In una intervista ad un giornale locale, il direttore dell’Agenzia Regionale per l’Ambiente ha sostenuto che la presenza di diossina nel latte materno sia risultato dell’inquinamento in tutto il mondo e proprio di tutte le città industrializzate. Ha sostenuto che «nel 2008 è impossibile ed impensabile che ci sia latte umano che non contenga diossina. Non esiste zona nel globo terrestre dove l’inquinamento non abbia prodotto i suoi effetti negativi».

Evidentemente l’accumulo di diossina nell’organismo bene non fa: a Seveso, ad esempio, 25 anni dopo l’esplosione della Icmesa, sono ancora in crescita le leucemie e i linfomi.

Al contrario Ilva, Eni e Cementir, i tre colossi del polo industriale tarentino, le cronache economico-finanziarie li descrivono come in ottima salute capitalistica: l’Ilva è lo stabilimento siderurgico più grande in Europa, il 10° a livello mondiale e i cui utili nel 2006 sono stati di 696,4 milioni di Euro con un +44% sul 2005; la Raffineria Eni sta per raddoppiare la sua capacità produttiva; la Cementir registra utile netto di 114,3 milioni (+5% sul 2005); gli affari vanno tanto bene che in una nota stampa il gruppo ha anticipato di due anni gli obiettivi economici del piano triennale 2005-2008.

Qui saremmo davanti ad aziende prospere, che dispongono di tutti i mezzi finanziari per rendere meno inquinanti le loro emissioni nell’atmosfera. Le tecniche non mancano, manca la “volontà”, dicono, per far questo, la “necessità”, diciamo noi, di fare profitti sulla pelle dei lavoratori salariati e delle loro famiglie, cercando di contenere al massimo i costi.

Le stesse amministrazioni locali, che attualmente, regione, provincia e comune, sono a guida di centro-sinistra, sembrano potere e volere fare ben poco. Gli atti della intesa Regione-Ilva sono paradigmatici: vengono assegnati milioni di Euro ma si ritirano dalla costituzione di parte civile nei processi per inquinamento e disastro ambientale; in cambio il padrone Riva si impegna a fare dei lavoretti da nulla, tipo finanziare il rifacimento delle facciate ai condomini del rione Tamburi imbrattate dai fumi, riempire le buche nelle strade e promettere di assumere disoccupati dai quartieri più miserevoli della città.

Il sindacalismo di regime è fedele alla sua natura: “concerta” e non si oppone, salvo per quelle poche ore di sciopero quando davvero non può farne a meno, quando avviene l’incidente e ci scappa il morto (che sono 3 o 4 all’anno).

Il Capitale, nella sua spaventosa corsa all’accumulazione, anche in pace concorre a massacrare l’umanità, avvelenandola lentamente, tanto negli “avanzati” e “democratici” Stati come l’Italia, quanto in Paesi di giovane capitalismo come Cina ed India. Sperare che i capitalisti spontaneamente vogliano inquinare di meno, pur esistendo gli strumenti tecnici per poterlo fare, è utopistico. I grandi tavoli istituzionali a cui gli inquinatori sono invitati da amministratori locali per solenni accordi ambientali sono quasi sempre uno spettacolino per tranquillizzare le popolazioni, ma poi continuare ad agire per massimizzare il tasso del profitto, e a versare nell’ambiente ogni tipo di veleno.

La soluzione al cosiddetto “problema ambientale”, vigendo il capitalismo, non esiste. Solo impostando una economia di piano socialista, una volta abbattuta rivoluzionariamente e una volta per sempre la dissennata anarchia della produzione capitalista. Per dirla con Marx: «La società deve calcolare in precedenza quanto lavoro, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza essa può adoperare, senza danno (...) Nella società capitalistica, invece, in cui l’intelletto sociale si fa valere sempre soltanto post festum, possono e devono così intervenire costantemente grandi perturbamenti» (Il Capitale, Libro II).

Nell’”Antidüring” Federico Engels scrive: «Solo una società che proporzioni armoniosamente le une nelle altre le sue forze produttive, secondo un solo grande piano, può permettere all’industria di stabilirsi in tutti i paesi con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e alla sua conservazione, e rispettivamente allo sviluppo degli altri elementi della produzione (...) Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie».