Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 331 - ottobre-novembre [.pdf]
PAGINA 1 Viva la crisi di questo regime di sfruttamento e di rapina! Per la lotta di classe, Per il Comunismo !
Un mondo intero da conquistare.
Hollywood.
PAGINA 2-3 Riuscita riunione generale di lavoro a Cortona il 28-29 settembre: IL TERZO LIBRO DEL CAPITALE - SULL’ORIGINE SINDACATI - LA QUESTIONE MILITARE - PER UNA STORIA DELLE RELIGIONI - CORSO DELLA CRISI ECONOMICA - L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO.
PAGINA 4 – 1921 - Il Soviet denuncia un significativo patto di pacificazione fra fascisti e socialisti - Le vignette dell’Avanti! (da Il Soviet, nr. 29 dell’1 ottobre 1921).
Ecologia.
Morto che parla.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 1


VIVA LA CRISI DI QUESTO REGIME DI SFRUTTAMENTO E DI RAPINA !
PER LA LOTTA DI CLASSE, PER IL COMUNISMO !
 

LAVORATORI, COMPAGNI !

La crisi della finanza mondiale accumula ogni giorno nuovi record negativi per l’economia capitalistica. Gli Stati di tutti i paesi si danno da fare ad aiutare i bancarottieri e ad aumentare lo sfruttamento della classe che lavora. Tutti i megafoni del regime ripetono di continuo che bisogna avere "fiducia", che non è la fine del capitalismo. Non è la fine del capitalismo, ma la sua agonia, in attesa che la rivoluzione comunista finalmente venga a spezzare la non più sopportabile cappa di piombo dei rapporti di produzione fondati sul Profitto, la Rendita, l’Interesse.

La crisi non è determinata dalle malefatte di pochi capitalisti senza scrupoli, come ripete la propaganda borghese, né dalla mancanza di controlli statali sulla finanza. Il regime capitalistico è in crisi a causa delle sue contraddizioni interne, così come previsto dall’analisi di Marx. È la caduta tendenziale del saggio di profitto che spinge grandi masse di capitali a spostarsi dalla produzione di merci alle truffe finanziarie. È la crisi di sovrapproduzione che blocca le industrie e i commerci. Dietro la crisi del capitale finanziario si nasconde la crisi generale dell’economia capitalistica, la recessione, la deflazione.

Se la borghesia grande e piccola piange i suoi capitali andati in fumo, il proletariato, come da sempre, non ha da perdere che le proprie catene. E tutto un mondo da conquistare. Stretto tra licenziamenti, aumenti dell’orario e dello sfruttamento, abbassamento dei salari reali, smantellamento dello stato sociale, non può che ribellarsi alla sua condizione e gridare: VIVA IL COMUNISMO!

LAVORATORI !

Il capitalismo aveva promesso benessere, pace, libertà, democrazia – ha seminato in tutto il mondo fame, guerra, ingiustizie, feroci dittature contro il proletariato, anche quando mascherate di democrazia o di un falso socialismo come già in Russia o nella Cina di Mao e del dopo-Mao. Le convulsioni economiche di oggi, che già hanno provocato grandi peggioramenti alla condizione del proletariato in tutti i paesi, non potranno che andare aggravandosi.

Il Capitale nella sua storia ha già dimostrato come può uscire dalle sue crisi: con nuove guerre che distruggano apparati industriali, infrastrutture, merci e aprano la strada ad una nuova divisione del mondo tra i nuovi imperialismi, una guerra mondiale come mondiale è la sua crisi. Il Capitale cercherà di avviare il proletariato di tutti i paesi alla guerra, come greggi di pecore, in un nuovo macello imperialista, ancora più terribile di quelli del 1914 e del 1939. Questo se la classe operaia non vi si opporrà con la sua forza internazionale e rivoluzionaria.

Perché il regime del Capitale non crollerà da solo ma dovrà essere distrutto in tutto il mondo da una rivoluzione sociale, della classe operaia contro borghesia e fondiari, come nella Comune di Parigi del 1871 e nella Russia dell’Ottobre 1917.

OPERAI, COMPAGNI !

Oggi, contro tutto questo, i lavoratori più coscienti e combattivi possono battersi. Si deve opporre allo strapotere della borghesia e dei suoi funzionari politici e sindacali il lavoro per la rinascita di organismi sindacali di classe che tendano ad organizzare i lavoratori per la loro difesa sui posti di lavoro e come classe. Occorre superare le divisioni di questa lurida società borghese, fra pubblici e privati, giovani e vecchi, precari e “garantiti”, indigeni e immigrati Il razzismo è il miglior antidoto alla lotta di classe. E viceversa.

È necessario procedere, superando ogni misero settarismo, verso la più larga unità di organizzazione e di azione di tutti i lavoratori per la difesa delle loro condizioni, fuori e contro le Confederazioni sindacali ufficiali passate irreversibilmente dalla parte dei padroni.

In questa vera e propria guerra sociale, la classe verificherà che la lotta economica non è sufficiente. Il proletariato per difendere la sua stessa sopravvivenza dovrà abbattere questo regime della fame a della guerra. La parte più combattiva della classe, liberata dall’influenza dell’ideologia borghese dominante e di ogni riformismo, ritroverà il suo vero antico partito, in cui vedere e comprendere la realtà sociale e in cui militare per la rivoluzione comunista internazionale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Un mondo intero da conquistare

Durante la diffusione, allo sciopero del sindacalismo di base del 17 ottobre a Roma, del volantino qui sopra pubblicato, un paio di giovani, dopo aver letto nel titolo Viva la crisi!, sono tornati indietro dai nostri compagni per chiedere come si possa esser così cinici da gioire della crisi, che ricadrà pesantemente sulle spalle del proletariato mondiale. Gli abbiamo risposto in questi termini, o avremmo potuto disponendo di più tempo.

Quella dei cinici fu un’antica scuola filosofica con accenti anche rivoluzionari e per niente “cinica”, tanto che volentieri accettiamo l’accostamento e non siamo indifferenti alle sofferenze della nostra classe, delle quali anzi soli ne conosciamo la dimensione assoluta e le cause profonde.

Dovrebbe intanto esser cosa evidente che la presente catastrofica crisi economica mondiale non è in alcun modo provocata dall’intervento dei comunisti e nemmeno è pensabile farla derivare, con i tempi che corrono, dalle eccessive rivendicazioni del movimento operaio. La crisi erompe incontenibile dal sottosuolo di questa società malata. È la crisi del Capitale, forza sociale impersonale, tanto che nemmeno i borghesi né tutta la mondiale classe borghese né tutti i suoi potentissimi Stati, con la loro Scienza roboante, con i loro forzieri pieni d’oro e gli arsenali di armi micidiali, riescono a differire o alleviare, tantomeno ad impedire.

È il Capitale, uno dei poli di un ben definito rapporto fra gli uomini, che è in crisi. Questo è costituito da un accumulo di ricchezza materiale, sotto forma di una enorme massa di merci, che non riesce più a riprodursi e perde il suo valore. Questa drastica distruzione di valore è reale e fondamentale, ma se tutte le classi sono, e saranno di più domani costrette a subire la crisi del Capitale, diversi sono gli effetti su ciascuna di esse.

Il piccolo numero di grandi borghesi, gli oscuri arbitri della finanza e delle industrie e vera personificazione del Capitale, quelli non ci rimettono mai, anzi, personalmente perfino continuano ad arricchirsi, giocando “al ribasso”.

La piccola borghesia sì, vedrà massacrata la sua condizione sotto il rullo della recessione e della deflazione e travolte tutte le sue misere sicurezze, materiali ed ideali. Commercianti, piccoli imprenditori e piccoli fondiari nelle truffe e nei crolli della Borsa e dei prezzi vanno perdendo risparmi e ricchezze, che le banche incamerano, e la loro condizione precipita rapidamente in quella del proletariato, e anche peggio. Va in pezzi il loro antico mito della democrazia in politica e del progresso in economia. È ovvio che la piccola borghesia non è nella condizione di poter spiegare a se stessa le vere cause di questa improvvisa rovina e i suoi risentimenti possono facilmente essere diretti dalla viscida propaganda degli Stati nelle direzioni più scomposte e nefande.

Resta la classe operaia. La sua massima sottomissione, come classe, al capitale è raggiunta quando i profitti traboccano e se ne può divertire una piccola parte ad elevare i salari di poco sopra al minimo.

La prova è sotto gli occhi di tutti. Il proletariato, tutto quello che aveva da perdere l’ha perduto durante il “benessere”. Il periodo di falso, insano e drogato “consumismo”, durante l’alternarsi dei governi della destra e della sinistra borghese, ha posto le condizioni, politiche, psicologiche, morali, legislative, normative e contrattuali perché le nuove generazioni proletarie già oggi ed effettivamente, non abbiano più nulla da perdere. Non solo la classe è stata definitivamente privata del suo partito comunista e di ogni speranza di riscatto. Non solo i suoi sindacati di regime si sono trasformati irreversibilmente in strumenti della sua sottomissione. Per i giovani operai i salari sono già oggi sotto la soglia della sopravvivenza e gli orari sono già a discrezione dei capitalisti. La classe operaia non ha dovuto attendere il crollo di Wall Street per vedere il regime del capitale che le toglieva ogni minima riserva e sicurezza. La triste storia dello scorso trentennio, di euforia del capitale e di smarrimento divisione e disfatta proletaria, è lì a dimostrarlo. E ormai solo i proletari con i capelli bianchi possono illudersi in pochi anni di assegno di pensione.

Cresce sì nella crisi la massa dei disoccupati, ma per la classe la mancata entrata in salari può essere compensata dal suo accresciuto valore reale a causa della deflazione.

In questa società capitalista e borghese qual’è quindi l’unica ricchezza e risorsa su cui hanno sempre potuto contare e che oggi sola resta ai lavoratori? Il fiero e incondizionato affidarsi alla lotta di classe. E quella non sarà certo nessuna crisi a togliergliela.

Questo anche se il regime del capitale fosse eterno e non mai modificabile la sottomissione ad esso del lavoro in forma salariale.

Per di più, noi comunisti siamo sì orgogliosi che la dottrina sociale della classe operaia, formulata da Marx con forza di scienza esattamente 160 anni fa, trionfi e si imponga sullo sconcerto e il panico dei borghesi grandi e piccoli. Tutte le previsioni del marxismo si sono avverate e la sua predizione, che le contraddizioni interne al sistema di produzione capitalistico l’avrebbero portato ad esplodere, è oggi gridata sulle prime pagine di tutti i giornali. Il capitalismo, si deve concludere, è lo stesso medesimo in tutte le metamorfosi e tempi del suo ciclo, non è riformabile non esiste un suo lato benigno, altro non può causare, sempre, se non miseria lacrime e sangue.

E poiché noi comunisti lavoriamo nella certezza che i lavoratori hanno un mondo intero da conquistare, consideriamo la crisi del nostro storico e ormai secolare nemico, non solo una ineluttabile, ciclica, necessità economica ma come un momento convulsivo ed acuto nel progredire irreversibile della fase agonica del suo modo di produzione, premessa questa materiale alla possibilità e necessità della soppressione rivoluzionaria del suo potere e del superamento del suo ordinamento economico.

I lavoratori coscienti quindi non si faranno contagiare dal montante senso di apocalisse, morte e impotenza che infetta tutti gli ambienti borghesi, nell’abbaglio che la fine del capitalismo sia anche quella dei viventi e del mondo.

Noi sappiamo che la ineluttabile crisi porterà il capitalismo a nuove e crescenti convulsioni e infine ad una terza guerra mondiale. Ma le nuove generazioni proletarie, appresa la lezione tremenda della catastrofe materiale del suo nemico e la parallela catastrofe dottrinaria e politica dei partiti della collaborazione sociale e patriottica, ritroverà se stessa, la sua fede comunista e certezza di vittoria in una guerra di classe che non consentirà tregua fino alla definitiva distruzione del capitale in ogni regione del mondo.

Per questo, in pieno accordo con la nostra secolare tradizione di sentimenti e di ragione, torniamo ad esclamare VIVA LA CRISI DI QUESTO REGIME DI SFRUTTAMENTO E DI RAPINA!
 
 
 
 
 
 
 
 


Hollywood

Con il film delle elezioni americane l’industria di Hollywood merita l’Oscar. Su questo teatrino, finanziato con investimenti da colossal dalle massime industrie del paese, gli svergognati opportunisti e i decerebrati sinistri di tutto il mondo hanno versato fiumi di inchiostro, dall’inizio delle primarie fino alla scontata vittoria, in una gara di servilismo e di euforia da rimbambiti. Fra chi va in sollucchero perché alla direzione del massimo Stato borghese e imperiale ci hanno messo un negro di umili origini, e ritiene la cosa progressista, e la risposta del nostro Cavaliere che lo trova bello giovane e abbronzato, è senz’altro meno cretina la carineria del secondo...

«Se c’è ancora qualcuno là fuori che dubita del fatto che l’America sia il posto dove tutto è possibile, che ancora si chiede se il sogno dei nostri Padri sia vivo oggi, che ancora si interroga sul potere della nostra democrazia, stasera ecco la risposta». Queste sono le prime parole che recita Barak Obama, nei panni del quarantaquattresimo presidente a stelle e strisce, “il primo colorato alla Casa Bianca”.

Tutto fumo negli occhi al proletariato americano e internazionale. La crisi economica morde sempre più, e la paura borghese che il proletariato possa tornare a lottare per difendersi, ritrovando la via storica del risoluto scontro di classe, ha fatto decidere che queste elezioni servissero a rinverdire il patriottismo e la democrazia inter-classista e l’illusione che un governo diverso possa attuare una politica meno nemica e meno incurante della sorte dei lavoratori.

Noi sappiamo che nulla può cambiare per gli sfruttati di questa putrida società, se non la si sovverte, e che gli unici ad avere questo potere sono proprio gli sfruttati stessi. Il programma del neo eletto è pieno di promesse impossibili da mantenere in questa fase decadente del capitalismo se non con una nuova politica di riarmo, come avvenne dopo la crisi del 1929, che sfogò allora e che spingerà il capitalismo in un nuovo macello mondiale domani. Un demagogo democratico e popolare è necessario al militarismo più sfrenato e alla coscrizione di massa per la quale uno che reciti la parte della vittima funziona meglio di un “duro”. Obama non è meno peggio di Bush, è peggio.

Ha promesso che riformerà il sistema sanitario per assistere chi non può permettersi l’assicurazione. Ma non più tardi di tre giorni dalla sua vittoria leggiamo che «il crollo finanziario degli ultimi due mesi, i “salvataggi” a raffica di banche, assicurazioni e imprese in crisi che hanno fatto impennare la spesa pubblica e il deficit, oggi rendono più difficile l’applicazione di una riforma che ha costi elevati. Il presidente ammette che l’emergenza economica potrebbe costringerlo a ridimensionare o rinviare parte del suo piano» (CdS).

Intanto il terremoto finanziario si sta abbattendo inesorabile sui lavoratori e sulle loro famiglie. Il Dipartimento del Lavoro ha comunicato che il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti in ottobre è già aumentato al 6,5%, quota non raggiunta dal marzo 1994; ottobre è stato il decimo mese consecutivo con perdita di posti di lavoro, per un totale di 1,2 milioni, dei quali metà negli ultimi tre mesi. In ottobre erano senza lavoro circa 10,1 milioni di lavoratori, un aumento di 2,8 milioni rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, quando il tasso di disoccupazione era al 4,8%.

Ai proletari d’America di tutte le razze e ai fratelli di classe del mondo i comunisti devono ripetere che è il decorso della crisi economica che determina le scelte dei governi, da chiunque questi siano guidati, e non l’inverso. Non è che l’economia andava male per colpa di Bush, né che oggi sarà salvata dal Messia Obama. Con l’uno o con l’altro la classe operaia rimarrà sottomessa alla schiavitù della legge del profitto e del lavoro salariato. Respingendo il vile culto dell’individuo propagandato dai media borghesi, affermiamo che lo sfruttamento di cui ha da patire la classe lavoratrice è dovuto a spinte economiche che procedono indipendenti dalla volontà dei partiti e degli individui che si succedono al governo.

La nostra rivoluzione, al contrario, sarà anonima, perché gli uomini che combatteranno nel loro partito comunista, tenendosi fortemente per mano, come scrive Lenin, non avranno bisogno dello schermo di “grandi uomini” per trovare se stessi, nella lotta e nel fine.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINE 2-3



Riuscita riunione generale di lavoro a Cortona
28-29 settembre 2008
[RG102]
A Successful General Meeting in Cortona
- Il Terzo Libro del Capitale Financial capital
- Sull’origine dei sindacati [resoconto esteso] Origin of the trade unions
- La questione militare [resoconto esteso] The Military Question
- Per una storia delle religioni Towards a History of religion
- Corso della crisi economica Course of the economy
- L’antimilitarismo nel movimento operaio [resoconto esteso] Working class anti-militarism

 
 

La riunione di lavoro del partito si è riunita a Cortona nei giorni sabato 27 e domenica 28 settembre, ma alcuni compagni sono arrivati già nella giornata di venerdì. Altri attesi sono stati bloccati all’ultimo momento da temporanei problemi di salute.

Gli ambienti per le sedute, prenotati dai compagni chianini – una delle nostre più vecchie sezioni, cui recentemente è venuto a mancare il caro Giandomenico – si sono dimostrati ben adatti alla necessaria concentrazione per il nostro lavoro, che, al contrario della demagogia borghese imperante, non è mai facile e richiede sempre notevole sforzo anche intellettuale, doti che attingiamo e ci attendiamo non tanto da singoli, di oggi o di domani, ma da una compagine militante quale è l’insieme del partito, organismo espressione del comunismo che matura in questa società, e che come ogni complesso organismo vivente può presentare sorprendenti capacità di resistenza, forza e adattamento, unite però ad una grande fragilità quando fosse costretto a tradire se stesso, il suo programma, e il suo corretto metodo.

Tutti i momenti della riunione si sono svolti nell’atmosfera migliore e senza alcuna perdita di tempo.

Al solito e come di necessità abbiamo trattato al sabato mattina dell’organizzazione di tutti i lavori e dedicato il pomeriggio e la domenica all’esposizione delle relazioni. Queste, tutte dal contenuto necessario e determinante per il corretto indirizzo futuro del partito rivoluzionario mondiale, sono state ascoltate con attenzione e, senza il fastidio degli “interventi a caldo” coma si usa presso i borghesi e i chiacchieroni, sono destinate ad ulteriore considerazione collettiva quando saranno pubblicate sulla nostra rivista “Comunismo” e a successivi approfondimenti.
 

IL TERZO LIBRO DEL CAPITALE

La riunione del partito si è svolta proprio durante la fase di deflagrazione della crisi finanziaria che stravolge l’economia mondiale, a puntuale conferma che l’esposizione del Terzo Libro del Capitale, nei capitoli XXII “Ripartizione del profitto e saggio dell’interesse“ e XXIII, “Interesse e guadagno d’imprenditore”, con le sue definizioni, seppure il testo sia rimasto nella forma di appunti di lavoro, si attaglia perfettamente alla stralunata e feroce realtà del capitalismo finanziario del nuovo millennio.

Il rapporto ha avuto come argomenti la descrizione analitica della forma autonoma del capitale produttivo di interesse e il processo con cui l’interesse si rende autonomo nei confronti del profitto. La tesi centrale, corollario della più generale Legge del Plusvalore, è che l’Interesse è una parte del Profitto. Questa relazione di contenimento condensa tutta la indagine e critica di Marx e nostra alla moderna società del prestito, della finanza e della banca.

Il saggio dell’interesse è regolato dal sagio del profitto. Più esattamente dal saggio generale del profitto: il saggio medio del profitto è il limite massimo possibile del saggio dell’interesse. Questo raggiunge il suo livello massimo durante le crisi, quando per pagare bisogna prendere a prestito, costi quel che costi.

In questo meccanismo gioca un ruolo fondamentale lo sviluppo del sistema creditizio. Mediante le banche e tutti gli strumenti del credito si ottiene di disporre liberamente e in misura crescente dei risparmi monetari di tutte le classi. Parimenti la concentrazione di questi capitali in masse sempre più ampie, che possono così agire come capitale monetario, riduce il saggio dell’interesse. Sul mercato monetario cessa la concorrenza fra le sfere diverse della produzione e della circolazione, che sono ora riunite nella figura di chi prende a prestito. Con lo sviluppo della grande industria il capitale monetario sul mercato è rappresentato non dal singolo capitalista, bensì come una massa concentrata, organizzata, posta sotto il controllo della banca, che rappresenta il capitale sociale. Per ciò che attiene alla domanda di capitale, al capitale da prestito sta di fronte l’insieme di una classe; ma per quanto riguarda l’offerta del capitale, essa si presenta globalmente come capitale da prestare.

Questi sono alcuni motivi per cui, mentre il saggio del profitto è diverso da un ramo all’altro della produzione, il saggio dell’interesse, seppure vari di grandezza anche in tempi brevi, si presenta uguale per tutti coloro che prendono a prestito. Il saggio dell’interesse si manifesta sempre come saggio generale dell’interesse, tanto denaro per tanto denaro.

L’interesse è una parte del profitto, ossia del plusvalore che il capitalista, industriale o commerciante, deve pagare al proprietario del capitale. Per tutto il tempo che il suo capitale è prestato e funziona come capitale, esso apporta al suo proprietario un interesse, una quota parte del profitto. Nel ciclo, quando il capitale monetario ha la funzione di capitale, cioè è utilizzato nel processo produttivo, il proprietario non ne ha la disponibilità e finché gli apporta un interesse non si trova in mano sua.

La differenza fra chi opera con capitale proprio e chi con capitale prestato, fintantoché entrambi operano come capitalisti, consiste soltanto nel fatto che uno deve pagare un interesse e l’altro no; cioè uno incamera integralmente il profitto e l’altro il profitto meno l’interesse. Per il capitale produttivo che opera con capitale preso a prestito il profitto lordo si suddivide in due parti: interesse ed eccedenza sull’interesse, che rappresenta la quota di profitto; è questo profitto che a lui appare come prodotto del capitale quando il capitale effettivamente opera, in contrapposizione agli interessi che deve pagare sul profitto lordo. La parte che gli resta del profitto prende la forma di profitto industriale, o commerciale, ovvero di guadagno d’imprenditore.

La ripartizione qualitativa del profitto lordo si muta in una ripartizione quantitativa, che dipende da quanto vi è da dividere, dal modo con cui il capitalista industriale amministra il capitale e dal profitto lordo che gli viene apportato.

La proprietà del capitale è rappresentata dal capitalista monetario; l’interesse che gli viene pagato appare come una parte del profitto lordo che spetta alla proprietà del capitale. In opposizione a questo, la parte di profitto che tocca al capitalista attivo appare come guadagno di imprenditore, che proviene esclusivamente dalle operazioni o dalle funzioni che sono effettuate con il capitale nel processo di produzione.

Per quel che attiene al capitalista monetario, l’interesse sembra un semplice frutto della proprietà del capitale in sé, non connessa al processo di riproduzione del capitale, perché, dal suo punto di vista, questo capitale non lavora, non opera. Il guadagno di imprenditore si presenta al capitalista industriale o commerciale come frutto esclusivo delle funzioni che egli compie con il capitale, frutto cioè del movimento nel processo di rotazione del capitale; un processo che gli appare unicamente come la sua specifica attività, che contrasta con la non partecipazione del capitalista monetario al processo di produzione.

Questa opposizione delle due parti del profitto lordo, come se provenissero da due fonti sostanzialmente diverse, si impone all’insieme della classe capitalistica. L’interesse si cristallizza in modo da non presentarsi più come una suddivisione del profitto lordo. Nella coscienza borghese non appaiono come due parti del profitto distribuite a diverse partizioni della classe dominante, ma come due categorie diverse di profitto che stanno in diverso rapporto con il capitale, e quindi con le diverse funzioni del capitale. La ripartizione quantitativa del profitto lordo assume così una forma autonoma.

Se il capitalista industriale si raffronta con il capitalista monetario, la sola differenza che lo contraddistingue consiste nel guadagno di imprenditore, l’eccedenza del profitto lordo sopra l’interesse medio. Se il capitalista industriale lavora con capitale proprio invece che preso a prestito, questi si distingue dal primo in quanto intasca egli stesso l’interesse invece di pagarlo ad altri. In ambedue i casi la parte del profitto lordo distinto dall’interesse appare all’intera classe dei capitalisti come guadagno di imprenditore, e l’interesse come un plusvalore che il capitale produce di per sé e che produrrebbe anche senza un impiego produttivo.

Riportiamo qui la splendida chiosa di Marx alla arrogante pretesa dei guadagni di borsa come da un “campo dei miracoli”: «È naturalmente assurda la trasformazione del capitale complessivo in capitale monetario senza che vi sia della gente che compri e valorizzi i mezzi di produzione nella cui forma è presente il capitale complessivo, a parte la frazione relativamente piccola dello stesso che si trova nella forma di denaro. E racchiude inoltre l’assurdità ancora più grande, che è alla base del sistema capitalistico di produzione, che il capitale produrrebbe interesse senza operare come capitale produttivo, ossia senza creare plusvalore, di cui l’interesse è solo una parte; che il modo di produzione capitalistico percorrerebbe il suo corso senza la produzione capitalistica».

È terminato questo capitolo della nostra esposizione con l’analisi e la critica sviluppata da Marx al guadagno di imprenditore.

Sulla base della produzione capitalistica il capitalista dirige il processo di produzione come pure il processo di circolazione. In contrapposizione con l’interesse, il suo guadagno di imprenditore gli appare come indipendente dalla proprietà del capitale, e piuttosto come un risultato delle funzioni che esso esercita non come proprietario ma come lavoratore operante, che partecipa allo sfruttamento del lavoro.

Alla luce della ripartizione del plusvalore nel processo di produzione, ne segue che il guadagno di imprenditore sembra derivare non dal capitale in quanto tale, ma dal processo di produzione. Questo è stato separato dal suo specifico carattere sociale, che ha la sua esistenza caratteristica sotto la forma di interesse di capitale.

In merito un’altra illuminante citazione riguarda il preteso moderno fenomeno dei manager: «La produzione capitalistica stessa ha fatto sì che il lavoro di direzione, completamente distinto dalla proprietà del capitale, vada per conto suo. È diventato inutile che questo lavoro di direzione venga esercitato dal capitalista. Un direttore d’orchestra non ha affatto bisogno di essere proprietario degli strumenti dell’orchestra come pure non appartiene alla sua funzione di direttore di occuparsi in qualsiasi modo del “salario” degli altri musicisti. Le fabbriche cooperative forniscono la prova che il capitalista, in quanto funzionario della produzione, è diventato superfluo, proprio come egli stesso, pervenuto al grado più elevato della sua cultura, stima superfluo il proprietario terriero».

Infine, nelle società per azioni, caratteristiche del sistema creditizio moderno, c’è la tendenza a separare sempre di più il lavoro di amministrazione dalla proprietà del capitale, sia personale o preso in prestito. Qui non ci dilunghiamo sull’imbroglio tipico delle società per azioni per ciò che riguarda lo stipendio di amministrazione: accanto al dirigente si presentano una quantità di consiglieri di amministrazione e di controllo che decurtano a loro vantaggio l’interesse degli azionisti.
 

SULL’ORIGINE SINDACATI

Il secondo rapporto proseguiva con la disamina della rinascita dei sindacati nel secondo dopoguerra, che è giunta a considerare i giudizi che ne dava il giornale del nostro partito di quegli anni, “Battaglia Comunista”. Sulle sue pagine si rintracciano le valutazioni circa la evoluzione delle grandi organizzazioni sindacali nell’epoca di affermato imperialismo: «vincolati allo Stato e agli organi politici della nuova dittatura capitalistica, come già sotto il fascismo, per quanto in forma diversa». E vi si legge anche il resoconto di una coerente e impegnata attività dei nostri gruppi operai allora inquadrati come frazione all’interno della Cgil. Sebbene asservita al regime democratico e borghese, i comunisti, iscritti alla Cgil, non trascuravano ogni possibilità per indirizzare nel senso di classe le lotte antipadronali.

Relativamente all’anno 1945 si riferiva delle lotte dei braccianti in Puglia, che giunsero ad incendiare gli istituti dello Stato, presto difesi dai partiti e dalle armi del Cln, «i sovversivi di oggi non meno feroci dei conservatori di ieri in camicia nera». Il ministro “compagno” Scoccimarro arrivò nelle Murge in piena rivolta e, accompagnato dal dirigente della locale sezione “comunista”, si recò subito alla tenenza dei carabinieri, che poco prima avevano sparato sulla folla, per elogiare la loro funzione nel “pubblico interesse”.

Altri temi affrontati con piglio combattivo e precisione di parole sono quelli della organizzazione sui posti di lavoro. Dietro la proclamata “apartiticità” le Commissioni interne furono create dall’alto con la rappresentanza chiusa dei partiti del Cln in funzione di conciliazione con i padroni e di controllo sulle maestranze. I nostri compagni eletti dalla base operaia ne venivano quindi esclusi d’imperio.

“Battaglia Comunista” non manca di denunciare la politica economica, fatta propria anche del sindacato, che puntava alla ripresa della produzione nazionale sui sacrifici dei lavoratori, per solo in futuro poter chiedere miglioramenti d’orario e di paga. Anche contro il mito della nazionalizzazione delle industrie già ci si esprimeva recisamente, negando che il cambiamento della forma di proprietà da privata a pubblica, come una «via di mezzo» fra capitalismo e socialismo, o «partecipativa», cambiasse qualcosa nel regime dell’oppressione salariale.

Questo capitolo dello studio terminava con la lettura di un manifesto rivolto dal partito agli operai per invitarli alla «lotta e all’unità»: «Anche se la direzione dei sindacati è opportunista e controrivoluzionaria a voi non mancherà né la capacità né la forza per servirvi dei sindacati stessi e piegarli ai fini della vostra lotta».

L’indirizzo attuale del nostro partito in campo sindacale, che considera le grandi confederazioni sindacali di oggi non più recuperabili ed utilizzabili ad un’efficace azione difensiva ed indica la necessità dell’organizzazione operaia fuori e contro la Cgil, non contraddice la giustezza di quella impostazione, che il partito praticò da allora fino alla riprova delle lotte sindacali del 1978. Non che la Cgil di allora fosse migliore di quella di oggi; quello che è venuto a cambiare con gli scioperi di fine anni settanta in poi si ravvisa nel fatto che non minimi gruppi di lavoratori sono stati costretti ad organizzarsi e ad impegnarsi nelle lotte all’esterno e quasi sempre contro il sabotaggio aperto e dichiarato della Cgil.
 

LA QUESTIONE MILITARE

Questo quarto capitolo del rapporto sulla questione militare, afferente la Rivoluzione francese, descrive il periodo dalla presa della Bastiglia nel 1789 al colpo di Stato di Napoleone del 18 Brumaio 1799. Lo schema è il medesimo dei precedenti: una prima parte dedicata a definire il quadro politico in cui si sviluppano i fatti, le alleanze fra le classi e le contraddizioni fra il vecchio ed il nuovo che spingono in avanti la situazione, ed una seconda in cui si descrive l’organizzazione della forza necessaria per tali eventi.

I risultati della prima violenza rivoluzionaria fra il 1789 e il 1791 sono numerosi: l’incontrastato dominio della monarchia assoluta è spezzato ed il re deve scendere a patti con una nuova classe, la borghesia ora alleata col proletariato per rivendicare importanti spazi di potere.

L’inevitabile forte opposizione della monarchia genera la necessità di un forza ugualmente organizzata, che si esprime nella Comune insurrezionale, la quale trasferisce il re da Versailles a Parigi e ai cui vertici sono posti prevalentemente dei borghesi allo scopo di controllare la Guardia Nazionale, prima formazione armata rivoluzionaria.

I nuovi decreti riguardano la sostituzione dei funzionari regi nell’amministrazione del centro e della periferia, riforme economiche quali l’abolizione della decima e l’incameramento dei beni ecclesiastici e una nuova legge elettorale basata sul censo, che denota la preoccupazione della borghesia di gestire il potere. Inizialmente l’Assemblea Costituente concede i diritti politici a quanti potevano pagare un’imposta pari a tre giornate lavorative, ma successivamente la Costituzione del 1791 si baserà sulla distinzione tra 4 milioni di cittadini “attivi”, che votano in quanto proprietari, e 22 milioni di “passivi” che non votano perché non proprietari. Il censo elettorale viene a cancellare di colpo ogni significato alle parole di Uguaglianza e Libertà. Ora la borghesia incomincia a frenare il movimento che aveva generato perché buona parte di essa era già paga di quanto ottenuto.

Le riforme economiche attuate, specialmente l’incameramento dei beni ecclesiastici, si traducono in un puro trasferimento di ricchezza verso la borghesia mentre il proletariato agricolo e i piccoli proprietari sperano in una ripartizione delle terre in loro favore. Si levano sommosse contro queste misure di assegnazione soprattutto nella Vandea la cui rivolta fu soffocata nel sangue.

Anche il proletariato urbano insorge per vedere migliorate le sue condizioni di vita, di lavoro e salariali ma le sue manifestazioni nella primavera del 1791 sono disperse dai fucili della Guardia Nazionale. La borghesia, spaventata dalla forza risoluta del proletariato, corre ai ripari ed approva in tutta fretta nel giugno dello stesso anno la legge antisindacale Le Chapelier che vieta ogni possibilità di organizzazione ed associazione fra gli operai: ha ora ben compreso che il suo ex alleato è il suo prossimo nemico e becchino!

La borghesia detiene il potere legislativo mediante il forte controllo dell’Assemblea Legislativa monocamerale, ai vertici della forza militare ci sono i suoi uomini migliori, la sua forza economica si è ingigantita di colpo con minima spesa, ed ora vorrebbe tornare ai suoi buoni affari.

Il tentativo di porre fine alla rivoluzione riuscirebbe se il re, sostenuto da clero e nobiltà, sia in Francia sia riparata presso le corti straniere, non tentasse di fuggire all’estero per organizzare la ripresa del potere, sostenuto ora anche dalle potenze europee che temono il diffondersi delle idee rivoluzionarie. Questo fa precipitare ed accelerare gli eventi da parte di quanti si sentono traditi ed esclusi nella gestione del potere.

Le immediate manifestazioni popolari sono ancora una volta disperse con la forza della Guardia Nazionale; subito dopo la borghesia restaura il potere del re, scioglie l’Assemblea Nazionale ed impianta l’Assemblea Legislativa mediante la nuova legge elettorale basata sul censo. Di fatto inizia la prima controrivoluzione in un quadro di rapporti di forze in Europa estremamente fragile e contraddittorio.

Prima della rivoluzione la monarchia assoluta dei Borboni era molto invisa e ostacolata sia dalla storica rivale Inghilterra, a cui contendeva l’egemonia economica nel continente, nelle colonie e sui mari, sia dalla Prussia e dall’Austria, dove la nobiltà feudale mal sopportava lo strapotere francese.

Valutando erroneamente il rapporto delle forze in campo, ritenute favorevoli alla coalizione antifrancese, minacciano un intervento armato contro la Francia, per puro calcolo economico non certo per amore e solidarietà verso Luigi.

A Parigi la cosa è presa molto sul serio e la guerra appare una soluzione per tutte le forze in gioco francesi, sia pur con motivazioni ed intenti diversi ed opposti. Il re spera in una sconfitta della Francia rivoluzionaria per restaurare le monarchia assoluta, mentre i partiti rivoluzionari pensano che la guerra venga a rafforzare la rivoluzione trasformandola da nazionale in internazionale, ovvero una guerra per la rivoluzione. Invano Robespierre e i Giacobini si oppongono, convinti di dover rafforzare la rivoluzione interna prima di pensare a quella esterna, ma la pressione di due mondi che non potevano più coesistere in Europa, quello feudale e quello borghese, impone la scesa in guerra. L’Assemblea francese approva la proposta reale di guerra contro l’Austria e la Prussia.

Le prime sconfitte sul campo militare non tardano a causa della totale disorganizzazione e confusione dell’esercito francese. Sono però proprio questi insuccessi a spingere in avanti i rivoluzionari che temevano una loro pesante sconfitta; questi dopo la rivolta dell’agosto 1792 imprigionarono il re, elessero nelle sezioni popolari una nuova Comune rivoluzionaria ed imposero all’Assemblea di varare nuove grandi riforme economiche e politiche come il suffragio universale e un governo di sua emanazione: di fatto si era arrivati alla repubblica.

In campo militare però continuarono gli insuccessi, compreso il tradimento di La Fayette che passa agli austriaci dopo l’arresto del re. Le masse, decise a difendere a tutti i costi la rivoluzione, invadono le prigioni e massacrano i nobili, il clero e i controrivoluzionari che vi erano rinchiusi ed accorrono in massa nell’esercito per difendere “la patria in pericolo”. Queste nuove energie ribaltano la situazione militare sia sul fronte interno delle province ribelli, come la Vandea, sia esterno ed infine l’esercito francese avanza di vittoria in vittoria.

Il Terrore, che aveva salvato la repubblica, non serve più e anche Robespierre e il suo programma sono decapitati. La reazione termidoriana non è una controrivoluzione feudale e monarchica ma un bisogno della grande borghesia commerciale, industriale e rurale di godersi i frutti politici ed economici della rivoluzione, che avevano iniziato ma che altre classi hanno portato a compimento. Il suo potere è ancora instabile perché la classe operaia, alla testa di tutti i ceti popolari, dopo una prima fase di demoralizzazione riprende la sua lotta di emancipazione.

In campo ora non ci sono più i vecchi nemici feudali ma lo scontro si fa più diretto fra le due classi ex alleate: borghesia e proletariato. La borghesia comprende che per mantenere il potere ha bisogno di un governo forte, ovvero la dittatura militare; così governo politico e militare dopo il colpo di Stato del 18 Brumaio si accentrano nella figura di Napoleone Bonaparte, che sull’onda delle sue vittorie potrà consolidarlo e trasformarlo in Impero.

Dopo questo inquadramento storico e politico si è iniziato a riferire sull’evoluzione della forza militare che ha supportato questi avvenimenti.

Prima della rivoluzione francese i conflitti europei erano condotti con attento risparmio delle forze in armi. Non erano volti ad annientare il nemico ma solo ad ottenere limitati successi nei teatri di guerra, da completare poi al tavolo delle trattative di pace; ovviamente anche i risultati erano limitati a qualche roccaforte, piccole province o parti di colonie. I soldati erano reclutati a forza fra contadini e sbandati di ogni genere e sottoposti a ferrea disciplina per scoraggiare fughe e diserzioni ad ogni occasione propizia. Un retaggio dell’ordinamento feudale stabiliva gli aristocratici quali ufficiali per nascita ed escludeva i non nobili da qualsiasi grado e carriera militare. La rivoluzione affida invece gradi e comandi in base all’anzianità ma soprattutto al coraggio e al merito nelle battaglie aprendo in questo modo carriera, opportunità e ricchezza ai più intraprendenti. Numerosi sono i generali di meno di trent’anni che conquistano il comando nei giorni critici della rivoluzione; lo stesso Bonaparte, proveniente dall’accademia militare, diviene generale di brigata a soli 25 anni.

Il nuovo esercito rivoluzionario è riformato in tre anni, fra il 1789 e il 1792, tra notevoli difficoltà, dal generale Dumoriez in una sola armata di 60-80 mila uomini. Si tratta di un mosaico di unità militari alcune delle quali di vecchia formazione ed altre di volontari rivoluzionari, con una grossa carenza di quadri medi e superiori perché solo una minima parte dei vecchi ufficiali di origine aristocratica rimane nel nuovo esercito.

Rotto il blocco nemico la Francia vara nuove leggi per organizzare un nuovo tipo di esercito molto diverso da quello feudale basato ora sul carattere di massa: nel 1798 si ha la legge sulla coscrizione obbligatoria, che successivamente fu adottata da tutti gli Stati. Questa accresciuta e preventivabile disponibilità di grandi masse di soldati determinò il cambiamento delle tattiche militari basate su offensive a grande scala: era nato l’esercito della borghesia, possibile con la grande produzione di massa, soprattutto nell’artiglieria

Si sono richiamate, prima di passare ai grandi mutamenti strategici di Napoleone, le innovazioni in campo militare di re Gustavo Adolfo di Svezia, che aveva introdotto importanti modifiche nell’utilizzo dell’azione combinata fra artiglieria e fanteria, uniformò e razionalizzò i calibri delle artiglierie per una maggiore uniformità di fuoco ed introdusse la salva di fucileria mediante la quale la linea dei moschettieri scaricava contemporaneamente i suoi colpi sul bersaglio. Con ciò si provocavano maggiori perdite al nemico e una maggiore disorganizzazione. Alla salva seguiva l’assalto dei picchieri che finivano i nemici e mentre si diradava il fumo si ricaricavano i moschetti. Questo tattica combinata fra fuoco d’artiglieria e assalto di fanteria è rimasta in uso fino tutta la Prima Guerra mondiale e parte della Seconda, in cui centinaia di migliaia di fanti, se non milioni, furono lanciati all’assalto con la baionetta dopo un fuoco di copertura. Fu modificato inoltre il combattimento della cavalleria reintroducendo la carica a briglia sciolta dopo la scarica dei moschettieri.
 

PER UNA STORIA DELLE RELIGIONI

La relazione intende costituire una premessa al progettato studio sulle storia delle religioni, nell’ambizione di addivenire ad una prima collocazione storica delle concezioni del mondo che si sono sviluppate, affermate e confrontate nei paesi e nei continenti d’Oriente.

Il gran parlare che si è fatto per oltre un secolo della crisi dell’Occidente ci riguarda, non tanto perché rivendichiamo la cultura dell’Occidente, ma per il fatto che il comunismo non può trascurare la realtà e negare che nell’area occidentale è maturata la scuola di pensiero che oggi postula la fine delle forme di vita e di produzione sociale culminate nel capitalismo imperialistico.

Discettare di declino o fine dell’Occidente per finire nel tema della catastrofe, come se sia imminente la fine del mondo, e non invece quella d’una forma storica di vita sociale, assume nella nostra ottica un sapore che torna classicamente a vantaggio delle classi dominanti, che in qualche modo, anche se non sempre consapevoli, sembrano recitare la formula di Luigi XV, après moi le déluge!

Ha allora senso la questione dell’ontologia fondamentale, nella quale abbiamo le carte in regola: Marx dice infatti nella Ideologia Tedesca: «La coscienza non può mai essere qualcosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita».

Mangiare il dio è una costante in tutte le religioni, Cronos mangia i figli, Niobe li fa a pezzi, nel significato di trasformare, distruggere, credere che la vita consista in un processo incessante di scambio e di incorporazione reciproca tra le creature. La tradizione dice che prima della Creazione ci fu una resa di conti tra Dio e il più bello degli angeli, Lucifero, lo scontro si incentra su una ribellione, un’azione che contesta il Principio.

Marx ha potuto analizzare il Capitale, partendo dalla monade merce, per proiettare nel futuro uno scenario nel quale la merce non ha più ragione d’essere, dove non può aver spazio l’uomo atomizzato della società di classe. Il linguaggio concettuale-base, che proviene ampiamente dalla cultura ebraica, è in grado di farlo, ma la lingua da sé non può tutto, come non può tutto la teoria estranea all’azione.

Se nell’ebraismo il lavoro è la colpa da espiare per una ribellione e trasgressione originaria, per il pensiero greco è la scelta della volontà di potenza che, interpretando il divenire incessante della realtà, cerca di imporgli il suo marchio. Il materialismo storico sa distinguere tra la metafisica greca, il pensiero dei proprietari di schiavi in nome della libertà, e la convinzione ebraica della comune radice di tutti gli uomini, secondo un processo finalistico che dovrebbe portare alla Terra Promessa. Ma non è sufficiente sostenere che, essendo l’ebraismo una dottrina dell’azione... siamo tutti nella stessa barca: sappiamo quali differenze ci siano tra la teoria dell’azione (magari la buona azione!) alla Bernstein, alla Dühring, o come la contempla la nostra teoria.

In questa fase, nella quale sembra riaffermarsi la tesi dello scontro di civiltà, si vuole seppellire sotto il peso delle Idee la realtà concreta delle forme e delle condizioni reali e materiali.

Di fronte a filosofie della storia così sistemate la nostra posizione è nota: non la filosofia fa la storia ma l’esatto contrario, anche se ad un certo livello di scambio tra teoria e azione non c’è reciproca indifferenza ma compenetrazione e rimbalzo continuo.

Il Vero come Intero proviene nella memoria di specie non solo dalla cultura del cosiddetto occidente, ma più da quella d’oriente. Una prova risiede nelle difficoltà ancora oggi di stabilire se la terra della Mezzaluna fertile, su cui sono concentrate le tre grandi tradizioni monoteiste, in tensione da sempre, sia da considerare occidente oppure oriente, Medio Oriente o Medio Occidente?

Il termine di Vero dall’indoeuropeo significa “che possiede intereo gli attributi della sua natura”. Ciò significa che la specie ha conservato la memoria, seppure inconscia, della sua interezza originaria, del comunismo primitivo. In questa concezione non esistono individui senza legame organico con la specie, o la comunità di appartenenza. La nostra versione parte dal presupposto che il superamento non consiste nel contrapporre un’antropologia umanistica all’idealismo borghese, quanto nella possibilità-necessità del rovesciamento della prassi, in modo tale che l’uomo singolo possa ricongiungersi a tutte le sue potenzialità di lavoratore, aperto alle diverse funzioni e non condannato a nessuna specializzazione imposta.
 

CORSO DELLA CRISI ECONOMICA

Il rapporto ha esposto i quadri economici aggiornati relativi alla produzione industriale ed al commercio internazionale dei principali capitalismi nazionali del mondo.

Per la produzione industriale sono stati presentati i grafici – aggiornati ai primi mesi dell’anno corrente – per i seguenti nove paesi: Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia, Cina e India.

1) Gli Stati Uniti, dopo la precedente crisi iniziata nel gennaio 2001 e terminata nel maggio 2002 – con un calo della produzione industriale del 3,5% nel 2001 e una perfetta stagnazione nel 2002 (0,0%) – hanno mantenuto indice positivo dell’incremento della produzione industriale fino a tutto il 2007 (+2,1%), con indice massimo di incremento medio annuo nel 2006 (+3,9%). Il 2007 segna già dunque un rallentamento della crescita. Nei primi tre mesi del 2008 la produzione sale ancora (gennaio + 1,0%; febbraio + 1,6%; marzo +0,3%) ma aprile e maggio (-0,7% e -0,2%) registrano la prima flessione della produzione industriale USA dopo sei anni di crescita. A giugno e luglio l’indice è nuovamente positivo (+0,6% e +0,3%) ma agosto segna una nuova e più decisa delle precedenti flessione (-1,1%) e settembre aggrava il calo: -2,8%, la diminuzione più marcata dal dicembre 1974.

2) La Germania – dopo la crisi 2001-2002 (0,0%; -1,0%) – presenta una costante crescita dell’incremento della produzione industriale dal 2003 (+0,4%) fino al 2007 (+5,98%). I primi mesi del 2008 hanno indice ancora fortemente positivo (gennaio +7,0%; febbraio +5,9%) ma da giugno si registra un marcato rallentamento (giugno +0,8%; luglio +1,6%).

3) Anche il Giappone ha subìto l’ultima crisi nel biennio 2001-2002 (-6,4%; -1,1%). Dal 2003 la produzione industriale cresce. L’anno di massima crescita relativa rispetto all’anno precedente della produzione industriale è il 2004: + 5,4%. Segue un andamento oscillante con un netto rallentamento della crescita nel 2005 (+1,2%), una nuova accelerazione nel 2006 (+4,5%) e un nuovo rallentamento nel 2007 (+2,9%). L’aggiornamento dei nostri dati arriva ai primi tre mesi del 2008. Gennaio e febbraio sono ancora positivi ma marzo segna il primo calo della produzione (-0,4% mensile) e da giugno 2002 -2.43%.

4) Il capitalismo francese ha vissuto l’ultimo biennio di crisi traslato un anno dopo rispetto ai paesi sopra citati: 2002 (-1,3%) – 2003 (-0,4%). I quattro anni successivi sono tutti di crescita: 2004 (+2,5%), 2005 (+0,2%), 2006 (+0,5%), 2007 (+1,6%). I primi due mesi del 2008 segnano ancora un indice di crescita positivo: gennaio (+2,7%), febbraio (+1,9%).

5) L’Italia, insieme all’Inghilterra, è l’unico dei nove capitalismi presi in esame nel presente rapporto a non aver ancora raggiunto né tanto meno superato il livello massimo della produzione industriale a cui era giunta prima della crisi nel 2001. Di fatto quindi dal 2000 la produzione industriale è stagnante. Il capitalismo italiano quindi non ha nemmeno fatto in tempo ad uscire dalla crisi economica del 2001 che si ritrova nuovamente travolto dall’ondata della sopraggiungente nuova recessione. Ecco i numeri: 2001 (-0,8%), 2002 (-1,3%), 2003 (-0,9%). Dopo un anno di flebile crescita (2004: +0,9%), nel 2005 la produzione industriale torna a diminuire più di quanto fosse cresciuta l’anno prima: -1,8%. Il 2006 ha indice positivo (+2,2%) ma già il 2007 marca un netto rallentamento (+0,4%) con a dicembre un calo del 6,4%. La tendenza all’approssimarsi della crisi è confermata dalla quasi inesistente crescita di gennaio 2008 (+0,5%) e dal nuovo calo della produzione di febbraio: -0,8%.

6) Come detto la Gran Bretagna è il solo capitalismo, oltre a quello italiano, dei nove qui presi in esame non essere ancora uscito dalla crisi del 2001. Come per l’Italia dal 2001 la diminuzione della produzione industriale dura tre anni invece che due: 2001 (-0,1%), 2002 (-2,0%), 2003 (0,3%). Come per l’Italia dopo un 2004 di flebile crescita (+0,8%) segue un nuovo calo della produzione nel 2005: -1,8%. Per i due anni successivi la crescita è ancora più debole di quella del capitalismo italiano: 2006 (+0,2%), 2007 (+0,8%). Confermano l’andamento debole i primi tre mesi del 2008: gennaio (+0,4%), febbraio (+1,3%) e marzo (+0,2%).

7) Il settimo paese preso in esame è stata la Russia. Il capitalismo di quello che fu il capostipite dei falsi paesi socialisti, dopo il terribile crollo avvenuto fra il 1990 e il 1998, analogo – quanto meno per dimensioni – alla grande depressione americana 1929-1933, ha conosciuto anni di sola crescita a un ritmo medio nel periodo dal 1999 al 2007 del 6,24%. La produzione è confermata in crescita anche nei primi tre mesi del 2008: gennaio (+4,8%), febbraio (+7,5%), marzo (+6,5%).

8) Cina. Il compagno che ha curato il rapporto ha fatto una fondamentale premessa all’esposizione dei dati sul corso del capitalismo cinese. Il criterio di calcolo degli incrementi della produzione industriale utilizzato dagli uffici statistici dello Stato cinese differisce da quello utilizzato a livello internazionale: mentre nel resto del mondo per ogni azienda è preso in considerazione solo il valore aggiunto (in linguaggio marxista il profitto), le statistiche cinesi prendono in considerazione tutto il fatturato (capitale costante + capitale variabile + profitto). Questo equivale a truccare le carte e nella fattispecie a ingigantire le performances del giovane capitalismo asiatico: lungo una filiera produttiva lo stesso valore aggiunto di ogni azienda verrà calcolato non una volta soltanto ma tante volte quanti saranno i passaggi successivi per giungere al prodotto finale, ossia destinato al consumo. Va da sé quindi che i mirabolanti dati di cui si fa vanto il borghesissimo governo di Pechino vanno ridimensionati.

9) Ultimo paese preso in esame è stata l’India il cui capitalismo gode degli alti incrementi tipici di tutti i giovani capitalismi. I suoi dati sono sempre stati decisamente inferiori a quelli cinesi. Ciò è imputabile in parte alla più giovane età del capitalismo cinese. Inoltre la premessa al metodo di calcolo degli statisti di Pechino contribuisce a ridimensionare la differenza fra i due emergenti imperialismi

Dopo la presentazione dei grafici relativi agli incrementi della produzione industriale dei più importanti capitalismi mondiali il rapporto è proseguito con l’esposizione della tabella relativa al commercio internazionale aggiornata all’anno 2007. La tabella è espressa in miliardi di dollari e si riferisce ai soli scambi di merci materiali, esclusi quindi i servizi.

La Germania conferma essere il primo paese esportatore al mondo con una bilancia dei pagamenti di anno in anno sempre più positiva. Le esportazioni tedesche hanno iniziato a prendere il volo a partire dal 2001. Questo non a caso è l’anno dell’introduzione della moneta unica europea. Con l’euro l’imperialismo tedesco acquisisce un notevole vantaggio competitivo nei confronti di paesi come l’Italia, abituata a sostenere il suo export con svalutazioni della Lira. L’industria metalmeccanica italiana viene così travolta da quella tedesca, in particolar modo nel mercato Est europeo, uno dei principali sbocchi dell’export della Repubblica Federale Tedesca. Ciò spiega in parte gli ottimi ritmi di crescita della produzione industriale tedesca dopo la crisi del 2001 e di converso i mediocri risultati dell’imperialismo italiano. Ciò è ulteriormente confermato dal peggioramento, anche se contenuto, della bilancia commerciale italiana proprio a partire dal 2001.

Gli Stati Uniti si confermano secondo paese esportatore ma, a differenza della Germania, con una bilancia commerciale assai negativa. Questo passivo, in rapida crescita dal 1997 al 2006, si è ridotto nel corso del 2007 in ragione della svalutazione del dollaro.

Nei giorni della riunione ancora non si potevano conoscere le statistiche della grave recessione in corso, innescata dal tracollo finanziario delle banche americane. Questa nuova crisi, possiamo già osservare in base ai dati disponibili, esplode, come previsto, in un momento di forte crescita dei capitalismi più giovani, di crescita non disprezzabile di Stati Uniti e Germania e di stagnazione solo nei restanti paesi europei.
 

L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO

Il rapporto sull’antimilitarismo iniziava mettendo in evidenza come la rivoluzione russa di febbraio e l’intervento americano in guerra avessero consentito la rimozione definitiva dei deboli accenti di classe che il Psi aveva mantenuto durante il corso del conflitto. La destra, rappresentata dal gruppo parlamentare, aveva immediatamente abbracciato la tesi secondo cui, data la nuova situazione, la guerra aveva assunto un carattere democratico, di liberazione e perfino rivoluzionario.

Non c’era molto da scandalizzarsi per queste prese di posizione da parte della destra ultra-riformista, che non aspettava occasione migliore per passare definitivamente nel campo della concordia nazionale. La cosa veramente preoccupante era invece il fatto che perfino la Direzione del partito avesse fatto propri quegli atteggiamenti: pubblicamente dichiarava «Al posto di due raggruppamenti imperialistici in contrasto, il britannico-russo e il tedesco, noi troviamo ora una alleanza di Stati dominati dallo spirito rinnovatore e democratico russo-americano, contro una autocrazia indebolita e svuotata, cui dovrebbe bastare un urto interiore deciso per mandarla in frantumi» (Avanti!, 12 aprile 1917).

Di fronte alla ubriacatura democratica era necessario ristabilire i veri termini della questione; e di questo si occupò soprattutto la gioventù socialista ribadendo ancora una volta che la guerra era imperialista da entrambe le parti. E dimostrando come il militarismo non fosse un residuo dei tempi passati, ma il prodotto moderno del capitalismo e della sua caratteristica forma politica: la democrazia.

La conferma veniva proprio dal crollo dello zarismo che dimostrava come la Russia si fosse rivelata il paese meno adatto alla guerra, perché gli mancavano del tutto o difettavano quelle condizioni economiche, finanziarie, politiche di cui godevano gli Stati avanzati. Al contrario gli Stati Uniti, lo Stato democratico per eccellenza, il più moderno, il più evoluto, era stato quello che con maggiore freddezza aveva calcolate le proprie convenienze capitalistiche, prima nella neutralità, poi nella guerra.

Da questa chiarissima premessa derivava quali dovessero essere i compiti del partito. Innanzi tutto porsi all’avanguardia del proletariato, sul terreno della lotta di classe, contro il capitalismo ed il militarismo borghese; facendo diretto appello al proletariato per la trasformazione della guerra tra Stati in guerra fra classi.

Ma per poter fare questo si rendeva indispensabile uscire dalle ambiguità, trarre con coraggio un bilancio storico del socialismo di vecchia data e prepararsi immediatamente alla formazione di partiti autenticamente rivoluzionari.

Frattanto ad oriente si verificavano grandiosi avvenimenti ed i giovani socialisti italiani immediatamente seppero decifrare, alla luce della dialettica marxista, la portata della rivoluzione russa. Lo Stato zarista non riuscì né ad evitare la sconfitta sul campo di battaglia, né, all’interno, le più aspre ripercussioni economiche della guerra. I moti generati dal malcontento e dalla carestia trovarono nel programma dei socialisti il loro naturale sbocco politico e si indirizzarono al rovesciamento del potere governativo.

Le correnti borghesi in Russia, che si appoggiavano ai governi alleati, si impegnarono alla continuazione della guerra contro i tedeschi in nome dell’onore nazionale e della fedeltà agli impegni diplomatici: tentarono di trasferire il potere alla Duma, di formare un governo col predominio dei loro partiti, e di accantonare le questioni sociali. Parallelamente il proletariato costituiva i Soviet, in cui erano rappresentate le varie correnti socialiste. La bolscevica che fra queste era la più estrema e genuina, si batteva per la pace, rifiutava la collaborazione anche transitoria di classe, e invocava la presa del potere per attuare una rivoluzione radicale diretta dal proletariato e dai contadini poveri.

Inizialmente il principio della coalizione borghese riuscì ad affermarsi nel governo presieduto dal riformista Kerensky. Venne ripresa la guerra contro i tedeschi. Questo bastò a far comprendere al proletariato russo quali pericoli contenesse la politica borghese e riformistica di Kerensky. Il bolscevismo guadagnava vistosamente terreno. Finalmente il governo venne rovesciato, ed il Soviet in cui i bolscevichi erano divenuti l’enorme maggioranza assunse il potere. Come nella Comune di Parigi, anche in quella di Pietrogrado, la rivoluzione vinse marciando in direzione opposta al fronte di guerra, non sparando sul nemico straniero, ma volgendo le armi contro il nemico interno, contro il potere di classe della borghesia.

Dall’esperienza russa i rivoluzionari italiani raccoglievano le prove della corretta applicazione pratica degli insegnamenti della dottrina marxista. Il movimento socialista aveva infatti urgente bisogno di arrivare a definire in modo più netto possibile la tattica dei futuri partiti epurati dalle incrostazioni riformiste, con parole chiare e nette sulla propaganda e sull’azione, dando ad essi limiti esatti e definitivi, eliminando le concezioni ed i metodi riformisti.

I bolscevichi, adottando la più rigida intransigenza rispetto non solo ai partiti borghesi, ma anche, e soprattutto, alle stesse frazioni socialiste, erano giunti a raccogliere l’entusiastico consenso della stragrande maggioranza delle masse russe. E la riprova della giustezza della loro tattica veniva, a maggior ragione, dal fatto che quel metodo era stato adottato e si era dimostrato vincente proprio nel paese in cui, per le speciali condizioni sociali, avrebbe potuto aver credito la tattica della “coalizione di tutte le forze contro il comune nemico”.

Le concessioni al nazionalismo e alla guerra avevano ricevuto il colpo di grazia dagli avvenimenti russi. Nel 1917 il partito bolscevico aveva impostato tutta la sua battaglia per la presa del potere sulle parole d’ordine: “via dal fronte”, “liquidiamo la guerra”, in contrapposizione a quelle dei borghesi e dei menscevichi: “guerra rivoluzionaria di difesa nazionale”, “guerra santa antitedesca”. Dopo la presa del potere il partito mantenne la sua promessa e liquidò la guerra. Il 7 novembre il governo dei Commissari del Popolo, con il suo primo atto di politica estera, propose formalmente a tutti gli Stati belligeranti immediate trattative per la pace. I governi Alleati risposero rifiutando e minacciando di invadere militarmente la Russia se avesse fatta una pace separata. L’11 novembre con un “Proclama agli Operai, Soldati e Contadini” i bolscevichi annunciarono la pace separata e la pubblicazione dei trattati diplomatici segreti.

Le trattative con i tedeschi cominciarono il 9 dicembre, ma solo il 25 i tedeschi formularono le loro enormi richieste di annessione. La delegazione russa non poteva accettare simili condizioni capestro, interruppe le trattative rifiutando di firmare la pace, ma annunciando al mondo che l’esercito russo non avrebbe opposto resistenza all’invasore, facendo appello al proletariato tedesco e di tutti i paesi perché insorgesse contro i governi imperialisti e la guerra. I tedeschi denunciarono l’armistizio e ripresero la marcia in avanti. Lenin molto insisté e spiegò e al congresso del partito come al IV congresso dei Soviet vinse la tesi della pace. La delegazione dei Soviet tornò a Brest-Litowsk, vi trovò condizioni ancora più inesorabili: le firmò “senza neppure leggerle”. La guerra era finita. Il 16 marzo il congresso ratificava: “Non aspettiamo un cambiamento di queste condizioni da forza bellica, ma dalla rivoluzione mondiale”.

Brest-Litowsk rappresentò la conclusione magnifica di tutta l’impostazione teorica bolscevica sulla guerra. Secondo la logica borghese quello tenuto dai bolscevichi fu un comportamento di pura pazzia. Questa era la situazione: la Russia era stata decisamente battuta dal punto di vista militare; andava smobilitando i resti del suo esercito, e non contenti di ciò, i bolscevichi dichiaravano che, se non avessero fatto la pace, non avrebbero  neppure combattuto. Evidentemente non si trattava di pazzia, ma di una logica del tutto nuova: quella della rivoluzione proletaria. La forza effettiva e formidabile nella quale Lenin, Trotzki e compagni contavano era la forza di classe del proletariato tedesco, che – secondo quanto aveva affermato Karl Liebknecht – era il vero nemico del militarismo tedesco, così come il proletariato russo era stato il nemico, ed il trionfatore, del militarismo russo.

Sabotare dunque uno solo dei due militarismi non vuol dire aiutare l’altro, ma sabotarli entrambi, sabotare il loro comune principio storico, il loro comune mezzo di conservazione e di dominio.

Questo significa che il potere proletario impronterà la sua azione sulla base di uno stretto pacifismo? Niente affatto! Lenin non ha mai negato, per principio, l’eventualità ed il ricorso alla “guerra rivoluzionaria”: tra il 1918 ed il 1920 la Russia condusse autentiche guerre rivoluzionarie, sia difensive contro gli attacchi di spedizioni alimentate da francesi e inglesi, etc., sia offensive contro la Polonia.

Ma la teoria leninista della guerra rivoluzionaria è a queste condizioni: che si abbia uno Stato effettivamente proletario, che sia condotta da un esercito rosso come Lenin lo annunciò al II congresso, che sorgano ovunque eserciti proletari e i comunisti di tutti i paesi lavorino a formare un esercito solo!

Date queste condizioni la guerra rivoluzionaria non è solo possibile, ma anche legittima, in quanto coincide con la guerra civile mondiale, e può sorgere tanto come resistenza ad una invasione capitalistica nel paese proletario, quanto come guerra di attacco contro il capitalismo mondiale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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1921 - Il Soviet denuncia un significativo patto di pacificazione fra fascisti e socialisti

Su Il Soviet nr. 29 dell’1 ottobre 1921 apre il giornale l’articolo “La beffa della tregua”, scritto successivamente all’assassinio di Di Vagno, organizzatore sindacale di braccianti in Puglia, deputato nelle liste socialiste. Nell’occasione il compagno corsivista “Noi” contesta col Psi e la sua politica di “pacificazione sociale” adottata verso i fascisti.

L’articolo inizia così: «E così anche l’Avanti! è costretto a confessare con amarezza che il trattato di pacificazione tra la vittima e il carnefice non è mai stato rispettato». Ricordando anche gli altri assassinii, quelli di Panepinto, Bernardino Verro, Giovanni Orcel, Spartaco Lavagnini, che dimostravano come fallimentare fosse stata la strategia di riportare sul terreno della legalità la guerra di classe, Il Soviet chiedeva infine: «Che cosa intendono fare di fronte alla recrudescenza fascista? È possibile che l’esperienza tragica di circa un anno di offensiva nemica non debba servir di norma per l’orientamento, per la tattica ulteriore».

Per dimostrare la vigliaccata dei socialisti, tesi alla ricerca di una pacificazioni tra i partiti della sinistra e della destra borghesi, contro quello proletario e comunista, Il Soviet riferiva del “Patto di Pieve d’Olmi”, piccolo centro a pochi chilometri da Cremona, dove, a seguito dell’uccisione di uno squadrista fascista da parte presumibilmente di comunisti, i socialisti e i fascisti, insieme a presidenti di cooperative, poliziotti e carabinieri codificano un patto contro i comunisti.

L’accordo era locale ma diretta espressione della politica nazionale adottata dal Psi, come evidentemente lo erano le vignette dell’Avanti!

Nella stessa pagina del Soviet, a chiosa dell’articolo “Le vignette dell’Avanti”, viene pubblicato quel documento. Le parti (socialisti e fascisti, tra cui l’on.Farinacci) deploravano l’assassinio del fascista Priori e stilavano un documento volto ad assicurare tra i partiti del luogo una pace duratura.

Così, mentre i socialisti di oggi tramite le loro fondazioni, come appunto quella intitolata a Peppino Di Vagno, cercano di ricucirsi un partito in nome della loro storia e dei loro martiri, rileggendo le pagine del Soviet di allora abbiamo una testimonianza diretta di cosa arrivò ad essere il riformismo (politica a cui oggi tutti i “sinistri” si ispirano, dal Pd a Rifondazione), tra la sua pratica opportunista di trascinare il proletariato sul terreno legale e la collaborazione di fatto con le violenze fasciste nell’aperta e codificata politica anti-comunista e contro-rivoluzionaria.

La stessa politica contro il comunismo e contro gli operai avrebbe ispirato gli anti-fascisti anche quando, avendo il fascismo sbarrato loro la via pacifica e democratica, passarono a quella violenta e clandestina. Per la difesa delle istituzioni borghesi, con qualunque mezzo; contro il comunismo, ugualmente, con qualunque mezzo.

L’articolo prende spunto da alcune vignette disegnate sull’Avanti! da Scalarini che vorrebbero alludere a connivenze tra i comunisti e i capitalisti durante e dopo la guerra. Il nostro giornale ammoniva Serrati, il segretario socialista, che se non fosse interrotta quella diffamazione, con lo Scalarini i comunisti sarebbero passati a vie di fatto, senza perdersi in denunce in Procura per “diffamazione”.

Qui trascriviamo il nostro articolo “Le vignette”, che commenta l’episodio, e il testo del Patto siglato.
 

Le vignette dell’Avanti!
da Il Soviet, nr. 29 dell’1 ottobre 1921

    Giacinto Menotti Serrati è tutto preso dai lavori pel prossimo congresso. E non può dar intera la sua attività di biliosa [... parola illeggibile] pettegola alla lotta contro i comunisti e la III Internazionale.
    Ma non fa nulla: il glorioso “Avanti”, pur tra il dibattito delle tendenze, avrà sempre spazio sufficiente da dedicare alla miserabile campagna fatta di falsità, di malignità e insinuazioni. G. M. Serrati, in materia, è previggente. Sapeva che Scalarini faceva bene per sé. E per un poco ha ceduto il posto alla sua matita.
    Diciamo con franchezza che Scalarini ha superato il maestro in malafede e vigliaccheria. Egli ha tracciato delle vignette che sono un marchio d’infamia per [...] e per l’”Avanti”. Alla lotta a base di ferree accuse e di precise documentazioni che i comunisti fanno quotidianamente ai magni uomini del P.S.I. si risponde con mezzi che ci farebbero dare in scoppi di risa se non ci costringessero a nauseanti considerazioni sulla miseria morale di certi uomini che pur il proletariato ha circondato della sua simpatia e del suo affetto.
    Scalarini è un mascalzone: un inqualificabile mascalzone. Ma egli dovrà pur pagare l’opera ignobile della sua matita. Per ora, se quell’opera persisterà, non c’è di meglio che affidare il diffamatore alle cure dei giovani comunisti della sua città. Per gli uomini privi perfino di quel poco di pudore ancor vivo nel calunniatore, il quale si sforza almeno di dare alla sua calunnia una parvenza di verità, noi diciamo che non c’è rimedio più adatto.
    Per ora, alle vignette, le quali nientedimeno vorrebbero dimostrare come i comunisti siano stati in combutta coi capitalisti durante la guerra, e lo siano tuttora, rispondiamo con un vergognoso documento riprova schiacciante degli accordi social fascisti contro i proletari comunisti.
    E per questa volta ci pare che basti.

Pieve d’Olmi, lì 14 settembre 1921.
    “Oggi sono convenuti in Municipio i signori on. Farinacci Roberto, per la Federaz. Prov. Fascista; il sindaco Pagani Giuseppe, per l’Amministrazione comunale e per la Sezione socialista; gli assessori Denti Pietro, per la Lega Contadini; Merbo Abramo, per la Cooperativa terrazieri; Manzini Gaetano, per la Lega muratori; il signor Resca Giuseppe presidente della cooperativa “Risorgimento”, i signori Galli Emilio, Sotti Mario, Schiavi Modesto per il Fascio di Pieve d’Olmi, con l’intervento del commissario signor Greco Luciano e del tenente dei carabinieri reali, sig. Bellucci Ermanno.
    Tutti i rappresentanti si dichiarano concordi nel deplorare l’assassinio efferato del fascista Priori e di stipulare un trattato che assicuri ai partiti del luogo il rispetto reciproco ed alla popolazione una pace sincera.
    Si impegnano quindi:
a) di arginare il movimento comunista in paese;
b) di nominare una Commissione composta da due fascisti e da due socialisti e da un presidente da nominarsi dai quattro membri, alla quale dovranno essere denunciati gli eventuali incidenti e tutti coloro che appartengono al movimento comunista: questo per differenziare socialisti e comunisti;
c) di non dar mai, i lavoratori socialisti, la loro adesione a scioperi politici anche se ricevessero imposizioni dagli Organismi provinciali. Di denunciare alla Commissione tutti coloro che violeranno il trattato di pacificazione;
d) in caso di sciopero economico, i lavoratori socialisti devono dare ai datori di lavoro un preavviso di almeno ventiquatto ore e di non abbandonare mai il bestiame;
e) di opporsi alla venuta a Pieve d’Olmi di elementi sovversivi di altri paesi con intento di creare disordini;
f) i fascisti si impegnano di proteggere e di difendere i lavoratori da ogni eventuale rappresaglia e minaccia da qualsiasi parte esse vengano.
    Fatto, letto e sottoscritto: Farinacci Roberto, Paganini Giuseppe, Manzini Gaetano, Denti Pietro, Merlo Abramo, Resca Giuseppe, Scotti Mario, Galli Emilio, Schiavi Modesto, Grieco Luciano commissario di P.S., tenente dei carabinieri reali Ermanno Bellucci».
Altro che politica di compromessi! In compagnia di commissari di pubblica sicurezza, ecco la fine dei socialisti italiani!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Ecologia

Una delle nevrosi che la involuzione della società borghese diffonde è quella cosiddetta ecologica. I singoli, nell’angoscia per l’approssimarsi del precipizio nella crisi, si rifugiano nelle superstizioni e nei riti scaramantici, seppure modernamente travestiti di razionalità. La raccolta differenziata, che oggi va per la maggiore, vede gli innamorati che invece di alzar gli occhi alle stelle, li volgono alla pattumiera in un morboso e sicuramente insano tramestio...

Ben sappiamo che la presente società del capitale, fondata sull’individualismo e sull’alienazione mercantile dell’uomo, è la più superstiziosa, pavida e intimorita di tutte quelle che nei millenni l’hanno preceduta. E più si dimostrerà tale domani, quando sarà possibile riconsiderarla dall’osservatorio della società comunista. Il moderno libero cittadino è e si sente in balìa degli eventi più del primitivo nella sua caverna o del servo davanti al chierico o al Signore feudale, e la vera scienza vive clandestina, nel pensiero comune e in gran parte della vita pratica.

La religione ecologica è utopica e reazionaria: pretende un capitalismo che non inquina, che fa le cose per bene, che non eccede. Un bamboleggiarsi con i fatti dell’economia e della storia, che però è utile a distogliere speranze, prospettive e milizia volte al superamento del capitalismo come modo di produzione.

Esempio di come funziona la trappola.

Alla Raffineria ENI di Taranto un inconveniente tecnico ha provocato l’emissione dai camini di idrocarburi puzzolentissimi, con fumate nere e alte fiamme. È la seconda volta in pochi giorni. Una riunione sindacale ha deliberato due giornate di sciopero, dato che la direzione ha addebitato ai lavoratori la responsabilità dei guasti, ammonendone formalmente una cinquantina; i sindacati invece sostengono che sia l’azienda a non voler investire nell’ammodernamento degli impianti.

La necessaria reazione di classe sarebbe di lottare almeno a dimensione cittadina per imporre all’azienda l’adeguamento delle attrezzature, in difesa della salute di chi ci lavora e ci abita vicino.

Ma ecco che intervengono gli ecologisti. Entro 90 giorni i cittadini di Taranto saranno chiamati ad esprimersi con un referendum consultivo sulla chiusura dell’Ilva, altro impianto vomita-veleni! Il Comune aveva respinto la consultazione, non ha nemmeno un regolamento su questi referendum e dovrebbe redigerne uno entro tre mesi, ma il Tribunale Amministrativo Regionale ha dato ragione ad un’associazione ambientalista, la “Taranto Futura”, che ha chiesto la consultazione.

Ovviamente, qualunque fosse il risultato, il referendum consultivo non avrà alcun effetto. E per primi a votar contro sarebbero i lavoratori della raffineria e dell’Ilva, ai quali gli ecologisti certo non vengono a garantire un pane meno avvelenato!

Diversamente reagisce la piccola borghesia locale che nella sua idiota miopia sogna un futuro senza industrie e votato al turismo e alla portualità. Che l’acciaio lo vadano a fare in Cina! senza pensare che finora l’attività del porto di Taranto si è retta grazie alle navi da carico di prodotti siderurgici e alle petroliere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Morto che parla

Dopo circa 25 anni dalla scomparsa della giovane Emanuela Orlandi, per opera di una super teste è tornato alle cronache il nome di monsignor Marcincus, già direttore della Banca Vaticana IOR. Secondo la testimone sarebbe stato proprio il monsignore a dare l’ordine di rapire e far sparire la ragazza; gli esecutori, invece, sarebbero stati gli affiliati alla famigerata banda della Magliana che, sempre secondo la testimone, erano soliti riciclare e rigenerare i loro illeciti proventi attraverso lo IOR.

Il Vaticano, a differenza del suo abituale costume che è quello di tacere, è uscito ufficialmente allo scoperto dichiarando che si tratta di accuse «infamanti senza fondamento nei confronti di mons. Marcincus, morto da tempo e impossibilitato a difendersi».

Questa presa di posizione di Oltre Tevere ci richiama alla mente una vicenda passata alla storia con il nome di “sinodo del cadavere”. Papa Stefano VI, nell’897, fece riesumare il cadavere di papa Formoso, morto ormai da un anno, lo fece vestire dei paramenti pontifici e collocare in trono. Alla mummia furono poi scanditi, uno per uno, tutti i capi d’accusa a suo carico. Il cadavere, sottoposto ad accuse così schiaccianti e circostanziate, non ebbe il coraggio di proferire una sola parola a propria discolpa. Venne allora sentenziata la sua colpevolezza e decretata la condanna eterna. Gli vennero strappati di dosso i paramenti sacri e mozzate le tre dita della mano destra con le quali aveva impartito le benedizioni; il cadavere venne poi trascinato per le vie di Roma fino a che, tra le grida di giubilo del popolaccio, fu gettato nel Tevere.

Si trattava allora del Vaticano formato I Millennio; il Vaticano del III dichiara invece che un morto non può parlare, e non sarà certo monsignor Marcincus a fare eccezione.

Questo è vero, ma è anche vero che quando il monsignore la possibilità di difendersi l’aveva, si guardò bene dal mettersi a disposizione della “giustizia” italiana e, mentre Calvi si suicidava impiccandosi, con la mani legate dietro la schiena, sotto un ponte del Tamigi e Sindona beveva il suo ultimo caffè, Marcincus se ne stava in tutta tranquillità all’interno dell’impenetrabile Vaticano strafregandosene del mandato di cattura spiccato nei suoi confronti.

Noi non sappiamo e nemmeno ci interessa sapere se la banca del Vaticano è (stata) o non in rapporto con la malavita, se è solita riciclare denaro sporco frutto del crimine e tutte le altre cose ad esso connesse, compresi i rapimenti o gli omicidi. Quello che però noi, di certo, sappiamo è che la banca vaticana, volendo, è in grado di fare tutto ciò perché è l’unica banca al mondo franca da indagini di polizia e magistrature.

Che il Vaticano possa essere stato (o sia) ricettacolo di malaffare non è certo storia di oggi. In un articolo non proprio recentissimo, scritto da Federico Engels il 9 aprile 1891, riguardo allo scandalo, guarda caso, della Banca di Roma, si legge: «Tanlongo [il direttore della banca - n.d.r.] è un uomo devoto che ogni mattina alle 4 andava alla messa, e là combinava certi affari con persone e intermediari che non avrebbe certo desiderato vedere nel suo ufficio in banca. Tanlongo era in ottimi rapporti con il Vaticano e non presso il giudice istruttore italiano, ma in Vaticano, inaccessibile alla polizia italiana, ha portato quei documenti che lo garantivano contro i suoi potenti amici e protettori».

Come andarono le cose, quando monsignor Marcincus non era ancora “buonanima”? Esattamente alla stessa maniera, il Vaticano ha gelosamente custodito al suo interno tutti i documenti e si è rifiutato di consegnarli alla magistratura italiana.

Il Vaticano non si limitò a garantire, attraverso l’immunità diplomatica, la libertà del “banchiere di dio”, il Vaticano fece molto di più, invocò l’articolo 11 dei Patti del Laterano che stabilisce: «Gli Enti centrali della Chiesa cattolica sono esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano». In poche parole il Vaticano chiese, ed ottenne, che la banca IOR venisse riconosciuta come soggetto necessario ed indispensabile alla Chiesa cattolica per l’espletamento delle proprie attività religiose. Chi indaga sullo IOR indaga sulla fede, chi colpisce la banca vaticana è nemico della religione, è nemico di Dio.

Questo dato di fatto, riconosciuto dai trattati internazionali vigenti (Patti Lateranensi) può fare indignare gli anticlericali radical borghesi che gridano: “Simonia, simonia!”. A noi, al contrario, tutto questo ci conferma nei postulati della nostra dottrina marxista: capitale e religione sono indissolubili ed unico è il loro destino: solo dopo che l’umanità si sarà liberata, per l’azione rivoluzionaria del proletariato, dalla schiavitù del capitale si libererà pure da quella religiosa; di tutte le religioni.