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"Il Partito Comunista"   n° 332 - dicembre 2008 [.pdf]
PAGINA 1 La rivolta dei giovani di Grecia in un mondo di miseria.
Operazione di polizia contro il proletariato chiuso nella Striscia di Gaza.
12 dicembre - Alla crisi del Capitale rispondere con la lotta di classe !
PAGINA 2 L’attentato ad Hitler del luglio 1944 e la complicità delle democrazie nella guerra al proletariato tedesco.
PAGINA 3 Teatrino parlamentare.
PAGINA 4 Immigrati si ribellano a Bari.
In crisi anche le Agenzie del Lavoro.
Lo spettro della fame.
Marketing.

 
 
 

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Rivolta dei giovani di Grecia in un mondo di miseria

In Grecia è in corso un movimento giovanile di massa, esploso in reazione alla brutalità della polizia, ma in generale contro la situazione sociale nel paese. Nonostante la repressione, per molti giorni la situazione nelle strade è restata fuori controllo con il governo che si è dimostrato incapace di imporre l’ordine. È la più estesa ribellione fin dall’epoca del crollo della giunta dei colonnelli nel 1974.

Nel centro di Atene le manifestazioni si sono concentrate intorno alle Università, come al solito (in Grecia le Università godono per legge del diritto di asilo politico), mentre a Patrasso la stazione centrale della polizia è stata posta sotto assedio. Si sono avute numerose rivolte e molto partecipate ad Atene, nelle altre città della Grecia e in tutto il paese, assedi ed attacchi contro dozzine di stazioni di polizia, violenti scontri, occupazioni di edifici pubblici e blocchi stradali. Venerdì 19 c’è stata una dimostrazione di alcune migliaia di studenti che per ore hanno resistito ai lacrimogeni e mentre scriviamo vi sono ancora 800 scuole e 150 facoltà occupate. Le sedi della Confederazione sindacale (Gsee) sono occupate da gruppi di sinistra, prevalentemente anarchici.

Al movimento partecipano per la maggior parte studenti, anarchici, ma più che altro giovanissimi arrabbiati. Esprimono la loro indignazione non solo contro l’omicidio di uno di loro ma contro le conseguenza della crisi sociale: basso livello di educazione, povertà, ineguaglianze, corruzione, elevato tasso di disoccupazione giovanile. È una generazione che sente di non avere futuro e molti di loro reagiscono in violenti scontri con la polizia: centinaia di giovani che per giorni hanno affrontato le forze speciali lanciando pietre e bottiglie molotov.

Ma oggi, a quindici giorni dall’uccisione del giovane, il movimento è stato isolato. Al solito, un segno di questo indebolimento sono le azione scomposte di gruppi anarchici che “fanno” la “loro rivoluzione” scontrandosi con la polizia e azzardando “esemplari” azioni violente. Ogni disordine è usato dalla borghesia per discreditare il movimento e tenervi lontano i lavoratori.

Non si può assimilare questo movimento a quello dei sobborghi di Francia. Ovviamente ci sono periferie povere anche ad Atene, ma non sono i ghetti di Parigi. E i dimostranti non sono dello stesso tipo: qui sono prevalentemente studenti e giovani in genere, non gli “invisibili” dei sobborghi francesi.

La classe operaia, al momento, non ha reagito e le masse del proletariato non hanno partecipato alla rivolta. Mercoledì 10 c’è stato uno sciopero generale, dichiarato già prima degli eventi. Il Primo Ministro ha ripetutamente invitato i capi della Confederazione Operaia Greca a sospenderlo, ma questi hanno rifiutato. Lo sciopero ha avuto una vasta adesione, soprattutto nel settore pubblico, come al solito.

La linea del governo, di destra, impelagato in una sua profonda crisi politica, è stata della “tolleranza zero”. La polizia ha avuto ordine di essere aggressiva e provocatoria. Più di 100 persone sono state arrestate.

L’opposizione socialdemocratica, il Pasok, che si candida per il prossimo governo, prende distanza da questi movimenti ed evita accuratamente di mobilitare i suoi sostenitori. Il forte Partito Comunista Greco, stalinista, ha assunto la vergognosa posizione di appoggiare il governo: ha attribuito l’assassinio a insufficiente preparazione del poliziotto e ha condannato gli scontri come provocazioni organizzate da misteriosi centri situati “fuori” e “dentro” il paese, e denuncia i rivoltosi come agenti della malavita e suoi appartenenti. Intanto cerca di controllare la sua base attraverso riunioni di partito. Solo la minore Coalizione di Sinistra, Sinaspismos, che anche vorrebbe partecipare al nuovo governo col Pasok, ha appoggiato le manifestazioni e vi ha preso parte, ma condannando gli scontri ed esortando affinché si plachino.

I vertici dei sindacati fanno tutto il possibile per evitare di difendere il movimento e mobilitare i lavoratori. Le uniche forze organizzate che vi hanno un ruolo importante sono gli anarchici e i gruppi della “sinistra estrema” (Trotzkisti, Maoisti, ecc.), che vantano un ruolo dirigente nel movimento studentesco universitario. Queste forze, che si sottomettono alla spontaneità e idealizzano la “gioventù”, parlano di “insurrezione popolare” e chiedono la caduta del governo. Parte dei dimostranti si è avvicinata agli anarchici, la “strategia” della maggioranza dei quali, in Grecia, si riduce alle sommosse, il che è un gran bel regalo allo Stato borghese!

Naturalmente responsabile di questi eventi è la profonda trasformazione sociale che si è avuta in Grecia nello scorso ventennio. Secondo i dati ufficiali il 21% della popolazione vive in povertà. Decine di migliaia di giovani operai ed impiegati prendono intorno a 700 euro al mese. Il tasso di disoccupazione è superiore al 10%. Questo sebbene la crisi della finanza mondiale non abbia ancora investito il paese, il che è solo questione di tempo.

Il problema è che le masse lavoratrici non si sono lasciate coinvolgere, e probabilmente nemmeno stavolta lo saranno. Molte ne sono le ragioni.

I sindacati sono completamente controllati dalla burocrazia sindacale, legata ai partiti borghesi di destra e di sinistra. La classe operaia ha patito molte sconfitte negli ultimi anni con peggioramento delle condizioni di vita, delle norme di lavoro e nella sicurezza sociale. Gran parte delle famiglie sono indebitate con le banche per mutui sulla casa, con prestiti al consumo e con le carte di credito. Migliaia di lavoratori si trovano a far fronte al pericolo della disoccupazione e della insicurezza del lavoro. Gli operai si sentono individui isolati e disillusi che cercano di tirare avanti in una situazione che peggiora di giorno in giorno. Nonostante i sogni ad occhi aperti del sinistrismo piccolo borghese, dell’anarchismo e dello spontaneismo, non basta un movimento di giovani pur gagliardo a mettere in movimento la classe operaia.

Un altro fattore molto importante è una generale sfiducia nella politica e la mancanza di una prospettiva sociale, sentimenti questi certo assai diffusi anche negli altri paesi di Europa.

Così il governo ha potuto adottare un atteggiamento energico contro i dimostranti mentre allo stesso tempo semplicemente conta nello svuotarsi del movimento in occasione delle vacanze di Natale.

È necessario analizzare tutti questi eventi in base alla loro reale portata. Non è una “insurrezione”. È un movimento giovanile che, per sua natura, ha i suoi limiti. Non basta qualche decina di migliaia di manifestanti in una capitale di 5 milioni di abitanti per vederci una insurrezione.

Né ci sono insurrezioni senza la partecipazione della classe operaia; la sola vera insurrezione possibile è quella del proletariato e niente può rimpiazzare il ruolo storico della classe operaia; solo la sua mobilitazione può rappresentare un reale pericolo per il sistema capitalista. Anche in Grecia il movimento non si può radicare senza la mobilitazione delle grandi masse proletarie, che ancora non hanno alzato la testa. Quindi la preoccupazione principale dello Stato è la repressione della classe operaia, perché la borghesia teme lo scoppio del movimento dei lavoratori in futuro, sotto il forte effetto della crisi economica mondiale. Gli eventi in Grecia sono preludio a un più grande disordine sociale.

Ovviamente, mancando il partito, il livello di coscienza di classe sia fra i giovani sia fra i lavoratori è praticamente a zero. La prevalente richiesta politica, avanzata da molti gruppi sinistrorsi, è rovesciare il governo di destra, il che è espressione solo di “riformismo movimentista”, tipico di quell’estremismo di “sinistra” che viene in appoggio alle forze dell’opposizione borghese del Pasok.

Gli eventi sottolineano invece la necessità di un partito comunista internazionale, unica forza che può esprimere gli interessi della classe operaia, cuore, braccio e mente di ogni questione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Operazione di polizia contro il proletariato chiuso nella Striscia di Gaza
 

Il 27 dicembre un martellamento di missili e bombe, sganciate dagli aerei F16 e dagli elicotteri Apache, gioielli dell’industria bellica statunitense, ha colpito la Striscia di Gaza; i bombardamenti sono proseguiti ininterrottamente per otto giorni e nella notte del 4 gennaio sono iniziate, dopo un intenso cannoneggiamento, le operazioni di terra con largo impiego di mezzi corazzati e artiglieria meccanizzata.

L’editoriale di Le Monde del 30 dicembre definisce "inutile bagno di sangue” il brutale attacco contro il ghetto di Gaza. «Ci fermeremo solo dopo aver finito il lavoro» dichiara il ministro della difesa e capo del partito laburista Ehmud Barak, in tutto allineato alla collega agli esteri Tzipi Livni e al capo del governo Ehoud Olmert.

L’azione contro Gaza non è stata causata dalla rottura della tregua da parte di Hamas col lancio dei missili Kassam, come ripete senza tregua la propaganda dei governanti israeliani. I lanci di missili contro il territorio israeliano, che provocano grande paura e vittime tra la popolazione, si verificavano già quando la Striscia era sotto il controllo diretto dell’esercito israeliano. Il governo israeliano sa quindi bene che l’occupazione non è il mezzo migliore per impedirli.

Un’altra motivazione per l’attacco viene trovata nelle prossime elezioni in Israele: per prendere voti serve, in tutto il mondo, terrorizzare l’elettorato e dimostrarsi guerrafondai. Ehmud Barak ha guadagnato ben 4 punti nei sondaggi dopo i bombardamenti su Gaza, un punto ogni 100 morti.

Gaza è una città, con gli edifici accostati l’un l’altro. I missili e le bombe massacrano miliziani e poliziotti ma anche civili. È come in Libano appena due anni e mezzo fa, ma in una situazione ancora peggiore per la popolazione civile che non può in alcun modo sfuggire, chiusa com’è in quel carcere di poco più di 350 chilometri quadrati.

Sono anni che questo piccolo territorio è sottoposto ad assedio e i confini sono chiusi: l’elettricità arriva da Israele, così come il carburante, i viveri, le medicine. La disoccupazione ha raggiunto il 50% della popolazione attiva; non esiste più una economia che possa dirsi tale; l’attività delle piccole industrie che pur vi erano si è azzerata; anche la pesca non è più possibile dopo il blocco della marina israeliana che impedisce ai pescherecci di prendere il mare.

Alla morsa su Gaza partecipa attivamente lo Stato egiziano, che controlla il confine meridionale della Striscia e che non permette a nessuno di uscire né consente che gli assediati ricevano aiuti di alcun genere, né alimentari né medicine. Lo Stato egiziano, colpito gravemente dalla crisi economica, con una situazione sociale sul punto di esplodere, teme che il proletariato di Gaza possa costituire la scintilla che propaghi l’incendio all’interno del paese, il più popoloso dell’area con un proletariato forte e con tradizione di classe, come hanno dimostrato gli ultimi scioperi contro i salari da fame. Il regime ribadisce quindi i suoi legami con l’imperialismo statunitense, che lo foraggia generosamente, e collabora al massacro del popolo palestinese.

La Lega Araba, d’altra parte, non è riuscita neppure a riunirsi mentre l’Europa dimostra ancora una volta il suo disinteresse ed impotenza. L’ONU comprova la sua complicità: alla riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza nella notte del 4 gennaio gli USA hanno bloccato una timida dichiarazione, presentata dalla Libia, che chiedeva un immediato cessate il fuoco ed esprimeva preoccupazione per "il montare della violenza a Gaza".

Oltre le personali motivazioni "elettorali" del suo lurido personale politico, lo Stato d’Israele ha scelto la guerra perché rappresenta l’unica strada per rimandare la sua crisi: non perché metterà fine ai lanci di razzi o agli attentati suicidi, tutt’altro, ma perché l’aiuta a sopravvivere nell’impasse economica e sociale. Il regime del Capitale si rafforza con la guerra. In Israele la guerra rinsalda la collaborazione tra le classi, necessaria alla borghesia per continuare a fare il cane da guardia dell’imperialismo in Medio Oriente. Per questo il proletariato di Israele deve restare terrorizzato e sottomesso e carne da cannone, non per difendere "gli ebrei” minacciati da "l’odio arabo", ma per difendere gli interessi statunitensi nell’area.

La guerra permette alla borghesia di nascondere la crisi economica, i licenziamenti, la miseria che sempre più accomuna il proletariato d’Israele a quello dei paria palestinesi; la guerra permette di far dimenticare al proletariato d’Israele che dopo 40 anni di continuo stato di guerra e collaborazione con la sua borghesia, esso si trova con le spalle al muro, impoverito economicamente e moralmente, privato dei suoi sindacati e del suo partito, e asservito agli interessi del più odioso militarismo.

La guerra contro Gaza è una manna per l’industria delle armi, l’unica che non è in crisi; missili e bombe moderne, scagliate a migliaia, rappresentano un affare di milioni di dollari; la guerra inoltre permette di affinare la tecnologia, provando le armi in corpore vili. La guerra trova la sua ragione nella guerra stessa.

Come la guerra del 1982 a Beirut, quando le borghesie israeliana e libanese decisero la strage nel campo profughi di Sabra e Chatila, questa guerra è soprattutto una guerra sociale, contro il proletariato. È contro la popolazione civile; ha come obbiettivi i proletari quanto e prima dei miliziani e delle truppe di Hamas. Terrorizzare, annichilire, distruggere merci e uomini, è l’unico “disegno politico” che sta dietro anche questa ennesima strage.

L’invasione di terra infatti non riuscirà nei suoi scopi dichiarati. Israele può vincere, forse e precariamente, sul piano strettamente militare occupando la Striscia, ma non può controllare un territorio così densamente popolato; per questo si ritirò nel 2005 cercando di chiudere Gaza dietro un cordone sanitario.

Il fatto che a contrastare la macchina da guerra dell’esercito di Israele rimanga solo l’apparato di Hamas può forse fare di quel partito il punto di riferimento dello esangue, corrotto e reazionario nazionalismo palestinese, ma esso partito ed essa causa non debbono ottenere la solidarietà e l’appoggio del proletariato comunista, palestinese e mondiale.

I dirigenti di Hamas non temono la guerra perché sanno che la guerra rafforzerà il loro movimento e sperano porterà alla sua definitiva supremazia su Al Fatah e sull’Autorità Nazionale Palestinese, così come è accaduto in Libano, dove il movimento Hezbollah con la guerra è riuscito ad imporsi su tutte le comunità del paese, cristiani compresi, come il portabandiera del nazionalismo libanese.

È probabile che il proletariato di Gaza sia spinto dallo spettacolo delle stragi a stringersi sotto le bandiere verdi dell’Islam, che si atteggia ad unico partito con la volontà di resistere agli aggressori. Ma il regime di Hamas è dittatura borghese, come quello dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, un governo che non solo combatte con ogni mezzo la prospettiva comunista rivoluzionaria, ma che reprime spietatamente anche le organizzazioni sindacali di classe.

Il proletariato di Gaza non deve dimenticare la sua guerra, che è contro la fame, la miseria, le malattie. Come nella Comune di Parigi la sua è una guerra su due fronti, contro il carri armati d’Israele e contro il governo di Hamas, che per imporre la sua egemonia sul territorio palestinese non esita a coinvolgere le masse proletarie in uno scontro suicida e senza prospettive.

Le manifestazioni che si stanno tenendo in tutto il mondo, per protestare contro la strage ma in appoggio al nazionalismo palestinese e contro l’imperialismo israeliano e statunitense, manifestazioni che hanno visto anche la partecipazione di lavoratori immigrati dai paesi arabi, lungi dal contribuire a fare chiarezza sui compiti del proletariato, mancano il loro obbiettivo. Quella che si combatte non è una guerra fra nazioni, fra razze o religioni, ma fra classi. La classe dei lavoratori di Palestina, di Israele e di tutto il mondo non ha da schierarsi con uno dei fronti imperialisti e nemmeno con una causa misera e persa come quella della borghesia palestinese. Farlo significherebbe inserirsi nella propaganda bellicista della borghesia e nei suoi giochi diplomatici, in preparazione di un più ampio scontro armato globale, e contribuire a mantenere i lavoratori legati al nazionalismo e dell’interclassismo.

L’indicazione del Partito Comunista rivoluzionario è netta: nessuna solidarietà al reazionario movimento nazionale palestinese, nessuna alleanza con movimenti e partiti borghesi nel nome di un generico antimperialismo.

Il proletariato dei paesi arabi e di Israele deve per prima cosa ricostruire le proprie organizzazioni di difesa e di lotta, autonome dai partiti borghesi e da quelli opportunisti; senza di queste, senza i suoi sindacati di classe e il suo partito, esso è destinato a restare carne da macello al servizio di una politica borghese sempre più militarista, cinica e criminale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

12 dicembre 2008
Alla crisi del Capitale rispondere con la lotta di classe !

LAVORATORI, COMPAGNI!

La crisi mondiale del capitalismo è ormai già più grave di quella del 1929. Porta con sé licenziamenti in massa nei paesi sia di vecchia sia di giovane industrializzazione; persino in Cina rallenta assai la crescita ed aumentano i disoccupati. In questa situazione per le giovani generazioni di proletari diventa sempre più difficile trovare un lavoro qualunque. I più colpiti sono i precari, i primi a non essere confermati, insieme agli immigrati, mantenuti nel ghetto della clandestinità per costringerli a vendere la loro forza lavoro per un tozzo di pane.

Intanto le borghesie di tutto il mondo reagiscono alla crisi aiutando i bancarottieri e aumentando lo sfruttamento della classe operaia in tutti i settori. Anche categorie un tempo considerate “privilegiate” come i lavoratori dell’Alitalia, vengono oggi costretti ad orari massacranti e a salari di sopravvivenza.

Se la borghesia grande e piccola piange i suoi capitali andati in fumo, il proletariato che, come un secolo fa, non ha da perdere che le proprie catene, deve ribellarsi alla sua condizione e gridare: alla crisi di questo regime di sfruttamento e di rapina rispondiamo con l’organizzazione e la lotta sindacale di classe!

PROLETARI!

Questa profonda e internazionale crisi è dovuta al fatto che il Capitale è sopravvissuto a se stesso e non è più nemmeno in grado di nutrire i suoi schiavi salariati, invece che trarne ricchezza. La sua attuale fase agonica non è stata determinata dalle malefatte di una banda di speculatori senza scrupoli, come ripete la propaganda borghese, né dalla mancanza di controlli nel settore delle Borse. Tutta la società del Capitale è entrata in crisi a causa della follia delle sue interne contraddizioni, così come previsto e denunciato dall’analisi marxista: è il turbine provocato dalla caduta tendenziale del saggio di profitto che spinge le masse umane, rese impotenti e cieche, nel baratro della miseria, della insicurezza, e domani della guerra imperialista.

LAVORATORI, OPERAI!

I partiti socialdemocratici, staliniani ed ex-staliniani avevano promesso, e illuso la classe operaia, che il Capitalismo avrebbe portato benessere, pace, libertà, democrazia. Ha seminato in tutto il mondo fame, guerra, ingiustizie, feroci dittature, apertamente o in forma democratica. Intanto la classe operaia così ingannata veniva spinta a disarmare sia sul piano organizzativo sindacale sia politico dell’ideale comunista.

Il Capitale ha già dimostrato come reagisce alla sua crisi: per recuperare risorse da donare generosamente ai magnati della finanza e dell’industria, riduce il salario differito, taglia cioè su sanità, scuola, pensioni. Ma questi espedienti non saranno sufficienti al capitalismo per uscire dalla sua crisi. Questa, alla fine, non potrà essere superata che con una nuova guerra, che distrugga apparati industriali, infrastrutture, l’enorme accumulo di merci sovraprodotte e apra ad una nuova ripartizione del mondo tra gli imperialismi, vecchi e nuovi.

Il proletariato oggi non può rinunciare alla difesa delle sue condizioni quotidiane di esistenza. Domani non potrà aspettare di esser mandato al macello come un enorme gregge di pecore. Il proletariato internazionale, già costretto a combattere due guerre mondiali, quella del 1914-1918 e quella del 1939-1945, non consentirà di essere scagliato nuovamente contro i suoi fratelli sotto il pretesto di una nuova crociata spacciata per “anti-terrorista”, “umanitaria”, “democratica”...

Il Capitalismo è incompatibile con la sopravvivenza dell’uomo. I bombardamenti sui civili in Afghanistan, i quotidiani massacri del popolo iracheno, le violenze sotto pretesto religioso dall’ex Iugoslavia all’Africa all’India, trovano la loro origine nel bisogno di guerra del Capitale. Le spese per gli armamenti sono in vertiginoso aumento in tutti i Paesi, Italia compresa: la produzione di aerei e carri armati, navi e cannoni e bombe non conosce crisi. Già la guerra si prepara sia armandosi sia diffondendo paura e odio tra gli sfruttati.

LAVORATORI, COMPAGNI!

Lo sciopero di oggi è indetto dalla CGIL, a parole, contro la politica del governo e per la tutela dei lavoratori precari e dei salari colpiti dalla crisi. Ma, in realtà, la triste situazione di oggi della classe operaia è il risultato di tutta una continua serie di peggioramenti che negli scorsi decenni le sono stati imposti con la complicità e il caloroso consenso della CGIL, insieme e prima fra tutte le altre Confederazioni. Sia la Legge Biagi sul precariato sia la “riforma” delle pensioni sono state elaborate e imposte ai lavoratori prima fra tutti dalla CGIL. Questa, quindi, oggi continua a mentire ai lavoratori mentre afferma di volerli difendere.

La CGIL ha quindi acconsentito ad organizzare lo sciopero di oggi per due motivi: primo, evitare che i sindacati di base possano esser loro a mobilitare i lavoratori, i quali sono inevitabilmente spinti a reagire e a scendere in lotta indipendentemente da tutti; secondo, acconsentire a manovrette ed equilibri di potere interni ed esterni al sindacato, dare un po’ di lustro alla “sinistra sindacale”, ai partitini ex-parlamentari non-pentiti e difendere i suoi affari non da poco minacciati dalla nuova banda al governo. Insomma, la CGIL chiede il ripristino del “tavolo della concertazione”, che per i lavoratori significa solo nuovi sacrifici.

Alla CGIL, che è ormai irrecuperabile ad una vera azione di difesa operaia, occorre opporre una nuova organizzazione sindacale generale e unitaria di classe, che sappia abbandonare ogni personalismo e atteggiamento settario e, superando l’equivoca collocazione gruppettara a metà strada fra il sindacato e il partito, addivenire alla necessaria disciplina fra tutte le parti del movimento della classe lavoratrice.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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L’attentato ad Hitler del luglio 1944
e la complicità delle democrazie
nella guerra al proletariato tedesco
 
«La storia non si fa, ed è già saltuaria fortuna decifrarla. Anzi non se ne decifra nemmeno la via sicura, se ne stabiliscono solo alcuni legami tra date condizioni e corrispondenti sviluppi» (“Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”, 1955).
Il 20 luglio scorso ricorreva il 64° anniversario del fallito attentato ad Hitler.

A Berlino il governo federale tedesco ha celebrato la ricorrenza con la deposizione di una corona di fiori al Bendlerblock, il luogo in cui il colonnello Graf von Stauffenberg, esecutore materiale dell’attentato, ed i suoi complici furono, il giorno stesso, fucilati. La cerimonia comprendeva il giuramento di circa 500 reclute del Wachbataillons ed una parata militare che, quest’anno, per la prima volta, si è svolta davanti al Reichstag. Così l’esercito ha voluto ricordare la resistenza militare contro la dittatura nazista.

Nei giorni precedenti le televisioni in Germania avevano rammentato al pubblico l’evento mandando in onda vari film evocativi dell’attentato. Alla borghesia tedesca manca una bella “resistenza” popolare, colorata di rosso, come quella italiana e si devono accontentare di quello che hanno.

La commemorazione non deve avere molto commosso il cuore del cittadino medio tedesco e soprattutto non ha commosso affatto il cuore del personale politico della democrazia post-nazista. Infatti i rappresentanti politici, e tra questi Norbert Lammert, presidente del Bundestag, il suo vice, Wolfgang Thierse, e perfino il sindaco di Berlino Kalus Woweit, prendendo a pretesto le ferie estive, avevano precedentemente dichiarato che non avrebbero preso parte alla cerimonia. Nemmeno Frau Angela Merkel si era dichiarata disponibile, tant’è che aveva dato al suo ministro di Stato Frau Hildegrad Müller l’incarico di presenziare alla cerimonia. Poi all’ultimo momento c’è stato il ripensamento e, forse per non correre il rischio di sentirsi addossare delle simpatie hitleriane, sia la Merkel sia il ministro degli Esteri Frank Walter Steinmeier erano presenti alla commemorazione.

* * *

Fino a non molto tempo addietro la storiografia ufficiale, dalla democratica alla stalinista, era stata unanime nel sostenere la completa, entusiastica adesione di tutto il popolo tedesco al nazismo e, di conseguenza, ad ogni singolo tedesco veniva addossata la responsabilità dell’ascesa al potere di Hitler e dei crimini compiuti dal suo regime. In base a questa tesi, l’attentato del 20 luglio 1944 veniva considerato come un semplice complotto di palazzo per eliminare il Führer e, facendo ricadere su di lui le colpe di tutti i crimini, salvare il salvabile. Infatti, si diceva, la presunta opposizione si era opportunisticamente palesata solo quando la sconfitta era ormai certa, con i Russi che premevano verso il Reich e gli Alleati saldamente attestati in Francia.

Nella Germania di quegli anni una opposizione proletaria organizzata e radicata nella classe operaia non esisteva, e questo per il semplice fatto che non avrebbe potuto esistere. Il movimento rivoluzionario comunista, che nell’immediato primo dopoguerra, sull’onda dell’Ottobre russo, aveva sferrato in Germania il suo formidabile attacco contro lo Stato capitalista, era stato tradito e decapitato dai boia socialdemocratici. Sotto il dominio del Kaiser, Carlo Liebknecht e Rosa Luxemburg avevano pagato con il carcere la loro fede comunista e la loro attività rivoluzionaria, però fu il governo socialista democratico ad assassinarli!

Al regime nazista fu poi trasferito il compito di portare a termine l’opera di distruzione degli organismi di classe del proletariato. Infine, dopo che il partito comunista e le strutture di difesa economica di classe erano stati annientati, con l’accordo tra Hitler e Stalin si giunse alla soluzione finale di quei dirigenti comunisti che fino ad allora erano riusciti a sopravvivere.

Conseguentemente l’opposizione al nazismo poté svilupparsi esclusivamente nei circoli militari, religiosi ed intellettuali. Si trattava di una opposizione che, nel migliore dei casi, auspicava l’abbattimento del nazismo ma che non metteva minimamente in discussione l’apparato economico e sociale capitalista che lo aveva generato. Anzi, attraverso l’uso dello strumento democratico, si riprometteva di rafforzarlo. Questo esattamente come in Italia e in Francia.

I centri di opposizione al regime hitleriano si formarono in due distinti ambienti sociali, entrambi borghesi: civile e militare. Fu sempre all’interno dei circoli militari che vennero progettati i vari attentati ad Hitler che, secondo alcuni storici, addirittura ammonterebbero ad una sessantina; tutti quanti destinati all’insuccesso.

Si dice che Hitler fosse stato sempre assistito dalla fortuna, ma forse la sua fortuna fu quella di possedere un servizio informativo di tutto rispetto!

Abbiamo ricordato come, dopo la guerra, gli oppositori del nazismo furono accusati di aver osato troppo poco e di aver agito troppo in ritardo, quando cioè tutto era ormai perduto per la Germania. Questo non è vero; in realtà le prime congiure contro Hitler furono ordite già prima dell’invasione della Cecoslovacchia. Fin dal 1938, infatti, gli antinazisti avevano progettato piani per arrestare il Führer e consegnarlo ai giudici perché rispondesse dei propri delitti.

Un impegno particolare fu profuso dagli oppositori nel vano tentativo di scongiurare lo scatenarsi della Seconda Guerra mondiale. Per portare avanti questa loro battaglia pacifista usarono tutti i mezzi di cui disponevano. Fin dal 1938 i generali Beck, Olbricht, von Tresckow, attorno ai quali si era formato il primo nucleo di congiurati, erano giunti alla conclusione che per salvare la Germania e conservare la pace in Europa fosse indispensabile l’eliminazione fisica di Hitler. Questo fu il periodo in cui vennero studiati, in ambiente militare, i primi progetti di colpo di Stato; progetti che sfumarono tutti.

Successivamente fu lo Abwehr, il controspionaggio militare, a rappresentare il punto di riferimento dei congiurati, a capo dei quali si trovavano il generale Oster, stretto collaboratore dell’ammiraglio Canaris, capo dello stesso Abwehr ed il colonnello von Stauffenberg, l’esecutore materiale dell’attentato del 20 luglio.

Nel corso della guerra l’opposizione interna all’esercito crebbe di molto e venne creata una rete di collegamento ben ramificata nei punti nevralgici delle istituzioni.

Nel marzo 1943 il gruppo di militari riuniti nella sezione “Gruppo Armate Centro” organizzò, a pochi giorni di distanza, due attentati a Hitler, entrambi falliti.

Nonostante tutti questi tentativi andati a vuoto, all’interno dell’esercito non fu mai abbandonata l’idea di un colpo di Stato.

Da parte dei militari venne accordata molta cura nell’azione diplomatica presso i governi delle nazioni democratiche che loro, con incredibile dabbenaggine, immaginavano sinceramente amanti della pace. Così dall’estate del 1938 cominciò ad operare una diplomazia parallela e clandestina. Numerose furono le missioni all’estero, alla volta di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e soprattutto presso la Santa Sede. Ciò a conferma del falso storico concernente il presunto filonazismo del Vaticano.

Lo scopo di tutte quante queste missioni era di far conoscere ai governi d’Europa e degli Stati Uniti i piani aggressivi di Berlino nei confronti di Austria, Cecoslovacchia, Polonia, etc. Alle potenze democratiche veniva chiesto di non assecondare il governo tedesco, ma di minacciarlo di gravi ritorsioni in modo tale da farlo desistere dai suoi progetti espansionistici e bellicosi.

Il borgomastro di Lipsia Gördeler, recatosi a Parigi nel marzo e aprile 1938 per incontrare un alto funzionario del Ministero degli Esteri, ottenne da Léger soltanto generiche e non impegnative promesse. A Londra fu accolto con la massima freddezza e addirittura si sentì apostrofare con il titolo di traditore della patria dal primo consigliere del ministro degli Esteri. I generali Oster e Beck inviarono, nei mesi successivi, altri loro emissari con la medesima richiesta, ed ottennero la medesima risposta.

Quando il 5 settembre il ministro degli Esteri Lord Halifax ricevette il dott. Theo Kordt, consigliere presso l’ambasciata tedesca a Londra, senza preamboli e senza diplomazia si sentì rinfacciare che: «Se nel 1914 l’allora ministro degli Esteri Sir Gray avesse preso una posizione decisa, e avesse messo in evidenza che la Gran Bretagna si sarebbe schierata con la Francia, indubbiamente la guerra sarebbe stata evitata».

Il problema stava proprio nei termini esposti dal diplomatico tedesco. Ma perché allora, se la situazione era la stessa, la “Perfida Albione” avrebbe dovuto comportarsi, ora, in maniera differente? Ed infatti si comportò alla stessa maniera, dando spago alla Germania. Il primo ministro Chamberlain e il suo Governo avevano già deciso di consegnare il territorio dei Sudeti a Hitler, come di fatto venne poi concordato alla Conferenza di Monaco. Gli inglesi davano ad intendere che in questo modo, soddisfacendo le richieste della Germania, si sarebbe evitata una nuova guerra europea. Mentre sapevano bene che la stavano alimentando.

Frattanto Hitler, approfittando della condiscendenza delle potenze europee, occupava non soltanto il territorio dei Sudeti ma, successivamente, l’intera Cecoslovacchia e faceva il suo trionfale ingresso a Praga.

Contrariamente a quanto sosteneva il ministro degli Esteri von Ribbentrop, e cioè che Inghilterra e Francia non sarebbero intervenute di fronte ad una invasione della Polonia, i militari tentarono ancora una volta di dimostrare ad Hitler che ciò avrebbe rappresentato lo scoppio della guerra europea. A questo scopo, nell’estate del 1939, inviarono in Inghilterra il tenente colonnello von Schwerin con una duplice missione:
- saggiare le intenzioni degli inglesi e preparare poi una dettagliata relazione, da presentare al Führer, sulle reali intenzioni dei cugini d’oltre Manica;
- contattare segretamente gli ambienti governativi londinesi ed esortarli a trattare Hitler con la massima durezza. Il messaggio che il colonnello doveva consegnare diceva: «Fate incrociare davanti a Danzica una squadra, fate vedere al capo dell’aviazione tedesca una flotta aerea nuova di zecca, stringete un patto militare con l’Unione Sovietica. Solo il pericolo di una guerra su due fronti può trattenere Hitler da altre avventure».

Non se lo filarono neppure! Ed in quella medesima estate fu Hitler a stipulare il patto di amicizia con Stalin.

Può sembrare strano, ma sono proprio i militari, i tecnici della guerra, quelli che più di tutti ignorano le ragioni profonde, la necessità storica della guerra imperialista. In particolare nella fase imperialistica del capitalismo non sono gli eserciti che consigliano la pace o la guerra, ma è la necessità della pace o della guerra che detta le proprie condizioni agli eserciti.

Anni dopo, a partire dall’estate del 1942, furono alcuni esponenti del “circolo di Kreisau” a recarsi all’estero per esporre ai governi europei le posizioni della dissidenza tedesca. Fu fatto pervenire al ministro degli Esteri inglese Eden un memorandum nel quale si chiedeva che le potenze alleate distinguessero tra nazismo e popolo tedesco e che i tedeschi in generale non venissero considerati responsabili di quello che stava accadendo. Da parte sua Eden rispose di ritenere collettive le responsabilità del nazismo e che era impossibile fare delle distinzioni, perché di antinazisti non ne esistevano. Gli “inviati” negli Stati Uniti ricevettero la stessa risposta da alcuni autorevoli membri del Governo di Washington.

Tale posizione assunta dagli Alleati in quegli anni fece da sfondo ideologico alle decisioni prese alla Conferenza interalleata di Casablanca del gennaio 1943, la quale dichiarò che avrebbe preteso dalla Germania, e non soltanto dal nazismo, una resa totale e incondizionata. Questa dichiarazione rappresentò il colpo mortale per tutti quelli che clandestinamente, e con gli immaginabili pericoli derivanti per la loro vita, lavoravano per rovesciare il regime nazista. A questo punto, se non vi era possibilità di influire in qualche maniera sulle sorti della guerra, l’opposizione al nazismo non aveva più nessuna ragione di esistere e, comunque, sarebbe stata destinata a sicura sconfitta.

In questo modo, oltre che sulle proprie forze il nazismo poteva contare sul sostegno indiretto (e non solo) delle potenze democratiche.

A questo riguardo è interessante una annotazione del Segretario della Sacra Congregazione Vaticana per gli Affari Straordinari, Mons. Tardini, scritta dopo avere avuto un colloquio con l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede: «Gli Alleati hanno dichiarato che non intendono trattare con i nazisti: quindi i nazisti non possono fare la pace. Gli Alleati hanno preannunciato che vogliono distruggere il militarismo tedesco: quindi i militari germanici non possono fare la pace. Gli Alleati hanno fatto capire che vogliono togliere alla Germania notevoli parti del suo territorio: quindi i civili non possono fare la pace (sarebbero tacciati di traditori della nazione)» (Vaticano, 28 febbraio 1944).

Ciononostante il 20 luglio 1944, al Quartier Generale di Rastenburg, nella cosiddetta “Tana del Lupo”, nel corso di un incontro di routine tra Hitler ed i suoi ufficiali scoppiava la bomba. Ma, come tutti i precedenti, anche quest’ultimo attentato fallì. La carica esplosiva nascosta dentro la borsa dei documenti fu portata all’interno del locale dove si teneva la riunione dal colonnello von Stauffenberg e appoggiata sotto il tavolo, vicino alla sedia di Hitler. Come si può vedere dalle fotografie il locale venne completamente distrutto, alcuni collaboratori di Hitler vennero feriti gravemente, uno rimase ucciso, mentre il Führer ne uscì illeso.

* * *

In Olanda, una ragazzina di appena 15 anni compiuti da pochi giorni, e che ormai da due con la famiglia sopravviveva in una soffitta nella vana speranza di salvarsi la vita evitando la cattura da parte della polizia (tedesca ed indigena), questa ragazzina, il giorno dopo l’attentato ad Hitler, scriveva nel suo diario:

     «Venerdì 21 luglio 1944 - Cara Kitty, adesso sono speranzosa, adesso finalmente va bene! Si, davvero, va bene! Notizie fantastiche! È stato fatto un attentato a Hitler, e nemmeno da comunisti ebrei o capitalisti inglesi, ma da un generale tedesco di pura stirpe germanica che è conte e per giunta ancora giovane. La “divina provvidenza” ha salvato la vita al Führer, che purtroppo se l’è cavata con un paio di graffietti e qualche scottatura. Alcuni ufficiali e generali che gli stavano vicini sono morti o feriti. Il principale attentatore è stato fucilato.
     «È la prova migliore che ci sono molti ufficiali e generali che ne hanno piene le tasche della guerra e vorrebbero far sprofondare Hitler negli abissi più fondi per poi istituire una dittatura militare, fare la pace con gli Alleati, armarsi di nuovo e, dopo una ventina d’anni, cominciare un’altra guerra. Forse la provvidenza ha volutamente esitato ancora un po’ a toglierlo di mezzo perché per gli Alleati è molto più facile che i germanici puri e senza macchia si ammazzino tra loro, così i russi e gli inglesi avranno meno da fare e potranno cominciare subito a ricostruire le proprie città. Ma non siamo ancora a questo punto, e non c’è niente che io desideri meno che precorrere questi eventi gloriosi. Però ti renderai conto che quello che dico è la verità e nient’altro che la verità. È un’eccezione che una volta tanto non stia a fantasticare su ideali più alti.
     «Hitler poi è stato così gentile da comunicare al suo popolo fedele e affezionato che a partire da oggi tutti i militari devono obbedire alla Gestapo e che tutti i soldati che sanno che un loro superiore ha partecipato a questo vile e meschino attentato, possono sparargli!
     «Bella storia verrà fuori. Il soldato Fritz ha male ai piedi da tanto camminare, il suo capo, l’ufficiale, gli fa una lavata di testa. Fritz prende il fucile e grida: - Beccati questa, tu che volevi assassinare il Führer! - una fucilata e quel borioso capo, che osava sgridare Fritz, passa a vita eterna... o a morte eterna? Finirà che i signori ufficiali se la faranno addosso per la paura quando incontreranno un soldato o dovranno dare un ordine perché i soldati hanno più potere di loro.
     «Capisci qualcosina, oppure ho di nuovo chiacchierato troppo? Non ci posso fare niente, sono troppo allegra per essere logica data la prospettiva che in ottobre potrò tornare a sedermi su di un banco di scuola! Ops! Non ti avevo appena detto che non voglio mettere il carro davanti ai buoi? Perdonami, non per niente mi chiamano “la contraddizione ambulante!”
     «Tua Anne M. Frank».
Anne Frank, non si siederà più su di un banco di scuola, 14 giorni dopo, il 4 agosto, il nascondiglio di Prinsengracht 263, verrà scoperto, i rifugiati arrestati ed avviati ai campi di sterminio.

Abbiamo riportato questa pagina del “diario” perché vi sono diversi spunti interessanti. Particolarmente acuto è il giudizio sui cospiratori che dopo aver fatto “sprofondare Hitler negli abissi più profondi” avrebbero istituito “una dittatura militare”, e, fatta “la pace con gli Alleati”, si sarebbero “armati di nuovo per cominciare un’altra guerra dopo una ventina di anni”

Oltre a questo Anne Frank evidenzia almeno altri due aspetti che appaiono inconcepibili, per quello che dovrebbe essere un normale svolgimento delle indagini per la scoperta della rete di cospiratori che si annidava dietro colui che materialmente aveva piazzato la bomba.

L’attentatore e i suoi più stretti collaboratori, ossia i capi, gli organizzatori, le menti del complotto vennero catturati ed immediatamente fucilati. Ma i morti non parlano e non possono rivelare alcunché. Perché un così differente trattamento in confronto a Georg Elser, l’attentatore solitario che nel 1939 aveva pure lui provato ad uccidere Hitler con una bomba piazzata nella sala dove avrebbe tenuto una riunione, e che venne ucciso soltanto nel 1945, quando la guerra stava per finire?

Inoltre, ogni soldato Fritz avrebbe potuto sparare al proprio ufficiale coinvolto nel complotto. Evidentemente questa è una esagerazione, ma è una esagerazione che anticipa quello che poi sarebbe successo: una vastissima, violentissima e brutale repressione a tutti i livelli che superò di gran lunga la rete dei cospiratori.

C’è da chiedersi: l’immediata fucilazione dei capi della rivolta fu dovuta ad una risposta emotiva dei dirigenti nazisti o si vollero tappare le bocche di chi troppo sapeva? O ancora, si potevano tranquillamente tappare quelle bocche perché i dirigenti nazisti già sapevano tutto e, forse, l’attentato venne lasciato compiere proprio per poter, poi, scatenare la repressione e ripulire l’esercito da tutti quegli ufficiali, che erano in gran numero, pronti a fare il salto della quaglia?

Dobbiamo convenire col “diario” che la “divina provvidenza” ha salvato la vita al Führer, perché, anche vedendo le fotografie della sala della riunione dopo lo scoppio della bomba, sembra del tutto impossibile che qualcuno possa esserne uscito indenne. Ma, al momento dello scoppio, il Führer si trovava veramente all’interno della sala delle riunioni, oppure, così come l’attentatore, se ne era allontanato?

Certo i dubbi ed i misteri, in proposito non sono pochi:

- Dopo l’esplosione l’attentatore von Stauffenberg e il suo aiutante Häften videro trasportare un corpo adagiato su di una barella, coperto con l’impermeabile di Hitler, e da ciò dedussero che il Führer fosse morto. Chissà perché proprio l’impermeabile di Hitler venne usato per coprire il cadavere? Forse proprio perché gli attentatori credessero di avere raggiunto il loro scopo?

- Un’altra cosa molto strana è il fatto che i due attentatori, nel momento di massimo allarme, abbiano potuto senza difficoltà allontanarsi in macchina dal Quartier Generale di Hitler (non a caso era denominato “Tana del Lupo”), raggiungere l’aeroporto e prendere l’aereo per Berlino, recarsi alla Bendlerstrasse, sede dell’OKW, e da lì dirigere quel colpo di Stato... che non ci fu.

- Lo stesso giorno, circa due ore dopo, Mussolini arrivò a Rastenburg. Nel corso di una trasmissione di Rai Tre del 2006, Luigi Romersa, giornalista inviato speciale di guerra racconta in questi termini l’episodio: «Il treno che trasportava Mussolini, in previsione di un attacco aereo venne fermato e rimanemmo fermi per parecchio tempo. Per un paio d’ore o tre. Ad un certo momento vedemmo arrivare una automobile militare con a bordo due colonnelli i quali chiesero di parlare con Mussolini e dissero di essere stati mandati dal Quartier Generale di Hitler per prendere Mussolini, che sapevano fermo nella foresta per via del bombardamento, perché il Führer aveva desiderio di averlo vicino durante questa conferenza militare che si stava svolgendo. Io credo – continua Romersa – che Mussolini sia entrato subito in sospetto e rispose con la sua voce ferma. “Io quando ho un programma sono solito rispettarlo fino alla fine. Non cambio il programma esistente”. E rifiutò di seguire questi due ufficiali».

- Mussolini arriva alla stazione di Rastenburg. Ad attenderlo vi è Hitler; il Führer porta un lungo mantello nero sopra la divisa. Unico indizio di eventuali ferite riportate per l’esplosione è che al Duce dà la mano sinistra, mentre la destra rimane nascosta sotto il mantello. Ma poi, quando accompagna Mussolini a visitare il luogo del delitto, non porta più il mantello e le due mani (nelle fotografie) sono ben visibile e prive di qualunque segno di ferita. È ancora Luigi Romersa che parla: «Poi ci fu il racconto di Hitler. Hitler chiamò un sottufficiale il quale gli portò la divisa che lui indossava quando scoppiò la bomba. Sembrava una divisa tagliata con le forbici, dai pantaloni alla giacca, ed era tutto un brandello, tutto un brandello, tutto un brandello...». La divisa era tutta un brandello, ma chi ci stava dentro non aveva riportato nessuna ferita apparente.

Però, volendo, ci sarebbe anche un certo documento, redatto da un personaggio che, per il ruolo ricoperto e per la tradizionale accortezza tipica dell’organizzazione a cui apparteneva, non era certamente solito dar credito a dicerie o a notizie se non suffragate da prove, o quanto meno non riportate da persone “degne della massima fede”. Si tratta di monsignor Orsenigo, Nunzio Apostolico in Germania.

È ormai trascorso un anno dall’attentato alla “Tana del Lupo”, la Germania è completamente occupata dalle truppe alleate, Hitler ha trangugiato il suo veleno e la resa senza condizioni è stata firmata; il Nunzio Apostolico invia a Mons. Tardini, il seguente rapporto:

«Eccellenza Reverendissima. Mi permetto di portare a conoscenza di Vostra Eccellenza Reverendissima quanto mi fu confidenzialmente riferito circa la preparazione e lo scopo dell’attentato del 20 luglio 1944 contro il Führer. Viene anche asserito che esistono di questa recente versione, per sé non inverosimile, anche dei documenti probativi. Si dice molto riservatamente che l’attentato fu ideato non da elementi antinazisti, ma invece dallo stesso partito nazista, o meglio da alcuni elementi che erano nella Cancelleria del Führer stesso (i direttori delle tre sezioni dell’Ufficio di Cancelleria: cultura - politica - affari privati erano allora Borgmann, Lammers, Meissner) e fra questi sarebbe stato ideato e anche preparato in tutti i particolari l’attentato del 20 luglio dello scorso anno. Scopo dell’attentato non sarebbe stato la soppressione di Hitler, il quale infatti non era presente al momento dell’esplosione, ma intervenne solo dopo, ma sarebbe piuttosto stato di poter scoprire con questo mezzo potente sincere dichiarazioni in ordine al nazismo, specialmente conoscere chi sarebbe stato disposto a collaborare ad un futuro eventuale Governo antinazista. Ciò è verosimile; tuttavia alcune circostanze restano ancora non chiarite, per esempio, come ad artefice materiale dell’attentato (cioè per deporre l’ordigno sotto la sedia di Hitler) si sia riusciti a guadagnare un militare di sentimenti religiosi e di aperta pratica cattolica; a meno fosse egli pure inconsapevolmente un istrumento cieco di questa congrega traditrice. Sta però il fatto che fu conservata per la futura epurazione la nota esatta della data e di quanto ciascuno degli interrogati aveva detto in ordine al Governo da instaurarsi a colpo avvenuto, come successe a danno dell’ex-Presidente Bolz, come pure sta il fatto che la repressione, quasi prevista e preordinata, assunse proporzioni superiori ad ogni previsione: si parla di migliaia e migliaia di sacrificati, la maggior parte per impiccagione lenta e filmeggiata, caduta ora nelle mani degli alleati. Tutto questo è qui ancora sconosciuto; i pochi che ne sono al corrente e che, vivendo qui, sono meglio in grado di valutare le possibilità della raffinata malvagità nazista, non escludono la probabilità di questa versione. - Eichstätt, 3 luglio 1945 - Cesare Orsenigo».
Secondo le confidenziali indiscrezioni raccolte dal Nunzio apostolico, indiscrezioni che lui stesso ritiene “verosimili”, risulterebbe che:
1) l’attentato del 20 luglio altro non sarebbe stato che una messinscena orchestrata dalla stessa Cancelleria di Hitler;
2) si sarebbe trattato di un espediente per scoprire “chi sarebbe stato disposto a collaborare a un futuro eventuale Governo antinazista”, e quindi a epurare i vertici militari ed i quadri del partito da possibili traditori;
3) sarebbe stato organizzato non per eliminare Hitler ma per consolidarne il potere;
4) von Stauffenberg, l’esecutore materiale dell’attentato, sarebbe stato un inconsapevole strumento di questo diabolico piano.

Con questo non intendiamo sposare la tesi “revisionista” sull’esplosione avvenuta il 20 luglio 1944 all’interno della “Tana del Lupo” ma, assieme a Mons. Orsenigo, ci limitiamo a dire che ciò potrebbe essere “verosimile”. In fondo non è che la cosa ci interessi molto, anzi non ci interessa affatto.

A parte questo, vediamo di spiegarci come mai il colpo di Stato non riuscì.

Non certo per il fatto che Hitler fosse scampato all’esplosione. L’esito dell’attentato, di per sé è ininfluente al fine del colpo di Stato. È l’esplosione della bomba, non il suo effetto immediato quello che conta, che serve a determinare il punto di non ritorno, lo scontro aperto fra le due fazioni antagoniste. Hitler vivo o Hitler morto contava poco, quello che contava era il fatto che da quel momento non si sarebbe più potuto tornare indietro e per i congiurati, che si erano scoperti, l’unica via di salvezza sarebbe stata la battaglia e la vittoria. E la dimostrazione di questa elementare verità sta nel fatto che la repressione fu generalizzata e soprattutto brutale: con i “colpevoli” attaccati vivi ai ganci da macello.

Facciamo un paragone con l’Italia.

Il 25 luglio 1943 Mussolini viene, con l’inganno, arrestato. Il vile reuccio si guarda bene dal diffondere la notizia dell’arresto, ma si limita ad annunciare le “dimissioni” di Mussolini. I golpisti, Vittorio Savoia e Pietro Badoglio, erano terrorizzati al pensiero di una eventuale reazione fascista. Ma la reazione non ci fu e tra i “6 milioni di baionette” non si trovò un coltello spuntato che si ponesse a difesa del Duce. Questo perché? Perché alla classe dominante italiana e al suo capitalismo straccione, ma non per questo meno avido di profitto, era stata prospettata la possibilità di una via d’uscita tramite l’alleanza con i vincitori, i nemici di ieri. Sul piatto della bilancia pesava quella che sarebbe stata la brutale reazione dei camerati traditi, ma questa reazione si sarebbe abbattuta e avrebbe gravato sul proletariato, quello civile e quello in divisa. È chiaro, anche qualche borghese sarebbe stato immolato a“lla causa”, ma la borghesia, come classe, ne avrebbe avuto (e ne ebbe) tutto da guadagnare.

Questa possibilità di salvezza alla borghesia tedesca fu negata nel modo più tassativo, la coalizione alleata aveva come scopo quello di portare la distruzione fino alle fondamenta dell’apparato produttivo tedesco ed allo stesso tempo di seminare il terrore e la disperazione nel proletariato di Germania, proletariato di forte tradizione rivoluzionaria. I futuri vincitori avevano stabilito che la fine della guerra avrebbe dovuto trovare la Germania ridotta ad un cumulo di macerie. Per questo motivo i tentativi di pace separata proposti dal governo nazista tanto agli anglo-americani quanto ai russi non furono nemmeno presi in considerazione. Allo stesso modo non furono nemmeno prese in considerazione le proposte degli oppositori che si dichiaravano pronti ad eliminare Hitler a patto che venisse loro concessa una pace che non fosse una resa senza condizioni.

Ancora il 20 febbraio 1945, l’ambasciatore von Weizsäcker, chiedendo l’intercessione del Vaticano presso gli Alleati, presentava a Mons. Tardini un voluminoso documento con le proposte del suo governo per una pace equa. Il Segretario della Congregazione obiettò: «Un documento come quello che mi ha consegnato non potrà essere preso in considerazione dall’Inghilterra e dall’America. Come si fa a far credere che il nazismo è stato mal compreso, che vuole la libertà di tutte le nazioni d’Europa, che non vuole altro che conservare la propria popolazione entro i propri confini?». Di rimando l’ambasciatore: «Crede Lei che l’Inghilterra e gli Stati Uniti sarebbero disposti a “payer qualque chose” se qualcuno eliminasse Hitler e iniziasse trattative?». Il prelato scosse la testa: «Li vedo troppo ostinati in quella formula: resa senza condizioni».

* * *

La versione ufficiale di quelle che furono le ore successive allo scoppio della bomba è più o meno nota. Si dice che la famosa “Operazione Valchiria” non abbia funzionato come doveva a causa di ritardi, esitazioni, ripensamenti, etc. tanto è vero che quella notte stessa i capi dei congiurati, riuniti nell’Oberkommando della Wehrmacht a Berlino, furono tutti arrestati ed immediatamente fucilati come traditori.

Ma la “Operazione Valchiria” non era un piano segreto, messo a punto dai congiurati per attuare il colpo di Stato, tutt’altro. La “Operationsplan Walküre” era un piano ufficiale di Stato, progettato per reprimere eventuali sollevazioni popolari. I responsabili dell’ordine pubblico non escludevano la possibilità di insurrezioni, soprattutto all’interno delle fabbriche, dove si trovavano ammassati milioni di lavoratori forzati, qualora l’assoluto controllo che doveva essere esercitato su di essi fosse venuto meno o soltanto allentato, anche a causa dei martellanti bombardamenti aerei. Tra l’altro il piano, come era naturale, prevedeva l’occupazione e la difesa di tutti gli edifici pubblici, i ministeri e di tutte le reti di comunicazione in Germania.

Ci sarebbe quindi da pensare che i “putschisti“ abbiano temuto maggiormente l’eventualità di moti proletari che non la stessa reazione nazista, e che sia stato proprio il timore di provocare una rivolta generalizzata che li abbia trattenuti dal portare a fondo lo scontro.

Alla mezzanotte del 20 luglio Hitler stesso con un messaggio radiofonico si rivolse al popolo tedesco, informandolo che per intervento della “divina provvidenza” era scampato all’attentato portato a termine da «una piccolissima cricca di ufficiali ambiziosi e irresponsabili». Poi lanciò la minaccia che avrebbe agito contro i responsabili della congiura «come noi nazionalsocialisti siamo soliti fare».

Dei processi contro i congiurati fu incaricato il Volksgerichtshof, e Hitler stesso indicò al suo presidente il modo in cui dovevano essere eseguite le sentenze: «Voglio che siano impiccati – disse – come bestiame da macello». Le prime sentenze furono eseguite 1’8 agosto e i condannati furono appesi, come il Führer aveva ordinato, a ganci da macello a Ploetzensee.

Nelle settimane successive il numero degli arrestati salì a circa 600. Una seconda ondata di arresti e di fermi, ordinati a “scopo preventivo”, fu avviata verso la metà di agosto. Essa coinvolse circa 5.000 presunti avversari del regime, in gran parte provenienti dalle file dei vecchi partiti e sindacati, del tempo della Repubblica di Weimar. Verso la fine di settembre Hitler ordinò di continuare l’ “epurazione” e di estenderla a tutti i settori direttamente o indirettamente implicati nella congiura. A seguito di questa nuova ondata repressiva, migliaia di persone furono arrestate e diverse centinaia giustiziate. I processi e le esecuzioni continuarono quasi sino alla fine della guerra; pochissimi scamparono alla forca per il solo fatto che i carri armati alleati furono più veloci del boia.

La vastità di questa carneficina sconfesserebbe quando affermato da Hitler, che i congiurati fossero solo “una piccolissima cricca di ufficiali ambiziosi e irresponsabili”, confermerebbe invece l’ipotesi, avanzata anche dal Nunzio Apostolico, e cioè che si sia trattato di una “repressione prevista e preordinata”.

* * *

La versione dei fatti data da Hitler la sera del 20 luglio fu presa per buona non solo dalla stampa tedesca, ma anche da quella internazionale, soprattutto da quella alleata. I governi democratici, nei loro comunicati, ripeterono le “notizie di agenzia” diramate da Hitler: la congiura era stata ordita da una “piccolissima cricca di ufficiali ambiziosi”. La stessa versione fu ripetuta anche dopo la guerra e continua ancor oggi ad essere quella più diffusa ed ufficiale.

Gli Alleati avevano stabilito che i tedeschi, indistintamente, dovessero essere considerati tutti quanti nazisti convinti e come tali trattati. Quindi un attentato che avesse tolto di mezzo il capo del nazismo e, magari, il nazismo stesso sarebbe stata una grave iattura per i loro piani di guerra.

Churchill, ad esempio, che pure era a conoscenza di molte cose anche degli anni precedenti, nel suo messaggio alla Camera dei Comuni del 2 agosto 1944 tagliò corto e definì l’attentato a Hitler come «una semplice lotta di potere tra i generali del Terzo Reich». A questo proposito la storica Dönhoff in un suo libro afferma che a Churchill non interessava tanto l’eliminazione di Hitler quanto «la distruzione una volta per sempre della potenza della Germania».

La stampa democratica ripeteva quanto affermato dal democratico Churchill. A titolo di esempio riportiamo quello che fu scritto da due autorevoli quotidiani statunitensi. Il “New York Times” scrisse che l’attentato a Hitler faceva pensare più «all’atmosfera di un cupo mondo criminale» che a ciò che ci si aspetterebbe da un «normale corpo di ufficiali di uno Stato civile», e si scandalizzava che per un anno intero alti ufficiali dell’esercito avessero tramato contro «il Comandante Supremo delle Forze Armate» al quale avevano giurato fedeltà e per di più ricorrendo, come mezzo per realizzare l’attentato, «alla bomba, arma tipica della malavita» (9 agosto 1944).

Nello stesso giorno lo “Herald Tribune”, scriveva: «In generale, agli americani non dispiacerà che la bomba abbia risparmiato Hitler e che ora egli si liberi personalmente dei suoi generali. D’altronde gli americani non hanno nulla da spartire con gli aristocratici, in particolare con quelli che onorano i colpi di pugnale».

A Versailles, nel 1919, alla Germania erano state imposte condizioni di pace iugulatorie, ma il territorio tedesco non era stato invaso dagli eserciti nemici ed il suo apparato produttivo non aveva subito danni. Era un “errore” che gli Alleati si erano ripromessi di non commettere mai più in futuro. Questa volta era loro intenzione di ridurre tutto il territorio tedesco ad un ammasso di macerie.

Il Piano Morgenthau, condiviso da Churchill e da Roosevelt, altrimenti detto “pastorizzazione della Germania” o “soluzione terra delle patate” prevedeva la trasformazione della Germania in un paese agricolo e pastorale, completamente deindustrializzato ed con una popolazione che avrebbe dovuto “vivere con il minimo necessario”; ed i vincitori avrebbero dovuto “impedire qualsiasi aumento del livello di vita” anche in futuro. Per portare a compimento un piano del genere i bombardamenti aerei sulle città tedesche erano uno strumento non solo necessario ma indispensabile. Una fine precoce del nazismo avrebbe costretto gli Alleati a concludere la guerra prima di avere terminato la loro opera di distruzione. Infatti dal giorno successivo dell’attentato ad Hitler i bombardamenti sulle popolazioni inermi delle città si susseguirono con un ritmo di crescita vertiginoso. Tanto per fare un paragone, un macabro paragone, possiamo mettere a confronto questi dati: dal 1° settembre 1939, giorno dell’inizio della guerra, fino al 20 luglio 1944, il numero dei morti in Germania fu di circa tre milioni. Nei dieci mesi che seguirono l’attentato a Hitler fino al termine della guerra (maggio 1945) il numero dei morti salì a circa 5 milioni.

Cinque milioni di morti; già, solo 5 milioni perché, per essere considerato “olocausto” ce ne vogliono almeno 6.

In quei mesi migliaia di migliaia di inermi proletari tedeschi venivano trucidati dai bombardamenti democratici. A ragion veduta diciamo proletari perché, se fino al luglio 1941 i bombardamenti erano mirati a colpire obiettivi militari ed industriali, e quindi potevano avere un senso dal punto di vista della condotta della guerra, una direttiva inviata proprio il 9 luglio 1941 dai dirigenti del Bomber Command ai subalterni indicava di cambiare strategia: i nuovi obiettivi sarebbero stati i popolosi agglomerati urbani dei centri industriali «per abbattere in generale il morale della popolazione, e soprattutto quella degli operai dell’industria».

Questa fu la vendetta di classe delle potenze democratiche: la carneficina indiscriminata del proletariato tedesco.

Dal gennaio fino al maggio del ‘45, cioè fino alla resa della Germania, le città distrutte vennero nuovamente bombardate dall’aviazione alleata. Harris, il capo del Bomber Command a guerra finita dirà: «Dovemmo di nuovo distruggere le città distrutte (...) Nella maggior parte dei casi tutto ciò che era incendiabile si era tramutato da tempo in cenere e fu possibile sganciare solo pesanti bombe dirompenti, che avevamo fatto costruire in abbondanza per tale scopo».

Con la sconfitta del nazi-fascismo si aprì un’era di pace, di libertà, giustizia e democrazia. L’era in cui tutti noi viviamo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 3


Teatrino parlamentare

Durante il dibattito in Aula dello scorso 20 novembre, all’on. Zacchera che accusava l’opposizione di abituale ostruzionismo, e quindi della necessità, da parte del governo, di dover spesso ricorrere alla fiducia, il deputato Giachetti del Partito Democratico rispondeva indignatissimo: «Di cosa ci accusa il collega Zacchera, che abbiamo, come dire, fatto una battaglia sulla finanziaria e sul bilancio senza fiducia, corrispondendo a quanto ha chiesto il Presidente della Camera: facendola approvare soltanto per il nostro senso di responsabilità alle otto e mezza di un giovedì quando la maggioranza si era dileguata e non aveva i numeri per approvare il bilancio finanziario in aula? Di che cosa ci vuole accusare il collega Zacchera e la maggioranza ?».

Appena un paio di giorni prima c’era stato il “pizzino” (ripreso in diretta televisiva) vergato dal dalemiano Nicola Latorre, vicecapogruppo del PD al Senato e passato all’avversario politico, on. Bocchino del PdL. Di fronte agli attacchi di Donadi, rappresentante dell’Italia dei Valori, che accusa la maggioranza di bloccare la nomina del presidente della vigilanza Rai e del dovere istituzionale di votare un candidato dell’opposizione, scelto dall’opposizione, il berlusconiano Bocchino si trova visibilmente imbarazzato ed incapace di dare risposta. A questo punto interviene Latorre scrive un messaggio sul bordo di un giornale e lo passa a Bocchino: «Io non lo posso dire, ma...» (e segue il suggerimento). L’on. Bocchino riprende la parola e con due battute, mette a tacere il dipietrista.

Ah, grande scandalo sui giornali, per i connubi palesi e segreti tra destri e sinistri figuri!

Che altri si scandalizzino, non noi. A noi ci piacciono così, privi di scrupoli, che dimostrino chiaramente di essere tutti quanti della stessa razza, che non c’è alcuna differenza tra uno schieramento e l’altro; che i deputati della maggioranza il giovedì pomeriggio possono liberamente far festa e abbandonare in massa l’aula parlamentare, tanto la legge finanziaria (o altra) la voteranno quelli della minoranza.

È questa la democrazia! Che i democratici non fingano di scandalizzarsi, e i proletari aprano gli occhi!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 4


Immigrati si ribellano a Bari

Tra il 24 e il 25 dicembre al Centro Identificazione ed Espulsione di Bari Palese ci sono stati due episodi di rivolta da parte di reclusi algerini.

In quel triste ammasso di baracche allestito in uno spazio adiacente all’aeroporto vengono chiusi gli immigrati arrestati perché entrati clandestinamente in cerca di lavoro: esperite ricerche e atti burocratici da lì vengono espulsi dal territorio nazionale. Vige un sistema carcerario vero e proprio dove, solo per il fatto di non avere le “carte” necessarie, gli immigrati, che fuggono da condizioni di vita impossibili, vengono trattati da criminali.

Una condizione odiosa che ha portato decine di reclusi a tentare la fuga. Questo sapendo che, una volta catturati di nuovo, avrebbero rischiato, oltre al rimpatrio, di finire sulla forca o nelle galere algerine.

Il motivo del nervosismo degli carcerati (ma non tutti i 196 ospiti del Centro sono algerini) è dovuto all’attuazione di un patto bilaterale tra Roma e Algeri per l’immediato rimpatrio degli immigrati clandestini in virtù del quale è certa l’espulsione. Questo accordo contro i lavoratori migranti, stipulato ad Alghero nel novembre del 2007, è stato in contropartita ad una intesa economica tra i due Stati sulle forniture metanifere, risorsa di cui l’Italia è grande importatrice dal Paese maghrebino. Alle borghesie stavano a cuore sia gli affari sia ben dosare l’afflusso di lavoro immigrato, rendendolo più ricattabile e precario anche in virtù di questi accordi.

Negli ultimi quattro mesi sono stati quattro i fatti di questo tipo. A dicembre il primo tentativo di fuga: su 10 algerini che ci hanno provato arrampicandosi alla palizzata di recinzione, in 9 sono riusciti ad evadere. Intervenuta la polizia, sembrava tornata la calma. In realtà i reclusi stavano organizzando un nuovo piano e il giorno successivo – il Natale – poco dopo la mezzanotte, in una sessantina, armati in modo rudimentale con bastoni ricavati da arredi e suppellettili, si sono diretti in massa verso i pochi poliziotti di guardia che non sono riusciti a impedirne la fuga. In una quarantina hanno guadagnato la libertà.

I poliziotti di guardia hanno dichiarato di considerarsi fortunati per come è andata a finire perché, di fronte alla determinazione degli immigrati a riprendersi la libertà, hanno temuto per la loro stessa vita: “Sembravano dei bisonti in fuga”, hanno affermato.

Ma tanta forza, nata dalla disperazione, è un fatto materiale dovuto alle condizioni di vita. Oggi è un piccolo drappello della classe operaia internazionale massacrato dalle politiche imperialistiche ad esprimere una rivolta, ma con il progredire della crisi sempre più ampi settori della classe, saranno spinti alla miseria e alla rabbia. I sessanta algerini imbufaliti di oggi sono l’anticipazione dei milioni di proletari delle metropoli che si solleveranno domani!
 
 
 
 
 
 
 
 
 

In crisi anche le Agenzie del Lavoro

Il padronato italiano, con l’avallo dei governi di centro sinistra e centro destra e con la complicità dei sindacati confederali, è riuscito nell’ultimo ventennio ad imporre alla classe lavoratrice condizioni di lavoro sempre peggiori.

Con le misure contenute nel “pacchetto Treu” e con la successiva riforma denominata Biagi sono stati introdotti strumenti che hanno esteso la precarietà e la flessibilità del lavoro. Si sono sviluppate così le prime agenzie di lavoro interinale, oggi chiamate “somministratori di lavoro“, in breve un caporalato legalizzato.

Queste agenzie reclutano sul mercato mano d’opera da mettere a disposizione dei propri clienti, le aziende, le quali dirigono, controllano e utilizzano il lavoratore senza esserne i datori di lavoro, perché l’assunzione del lavoratore viene effettuata dalle agenzie.

La direzione di una di queste aziende, la Adecco, ha inviato un comunicato ai propri lavoratori. Vista la data, 15 dicembre, un bel regalo con tanto di auguri per un sereno natale. Il comunicato parla di un esubero di 240 lavoratori, circa il 10% degli occupati totali in Italia, che verrà sanato con riduzioni di organico nelle filiali, non confermando i contratti a tempo determinato, e la chiusura di 18 agenzie. I clienti della Adecco sono aziende dell’industria, del commercio e dei servizi che, alle prese con la devastante crisi in atto, ricorreranno sempre meno all’utilizzo del “lavoro somministrato”. Queste le ragioni del comunicato.

I lavoratori della Adecco hanno quindi cominciato ad organizzarsi in assemblee per trovare una piattaforma e cercare di difendere la loro condizione.

La crisi mondiale del capitalismo tutto travolge e miete vittime ovunque. Particolarmente indifesi sono i proletari che oggi, senza una organizzazione e una azione comune, non possono opporsi per imporre le proprie necessità ai padroni e al loro Stato. Questo la borghesia lo sa perfettamente e di conseguenza, con una martellante propaganda, attuata in particolare stampa e televisione, cerca di dividere e mettere gli uni contro gli altri i lavoratori. Il pubblico contro il privato, i “privilegiati” che hanno ammortizzatori sociali, vedi Fiat, contro quelli che non ne hanno. La vomitevole campagna contro i lavoratori dell’Alitalia ne è solo un esempio.

Altro strumento sono i sindacati di regime i quali, suggerendo o approvando le politiche antioperaie frutto della concertazione e della collaborazione di classe, hanno disarmato e disabituato il proletariato alla lotta collettiva, che oggi si trova impreparato a rispondere alle tragiche conseguenze della crisi.

Ai pochi lavoratori della Adecco, uniti alla massa sterminata di lavoratori che oggi in tutto il mondo si trovano nella stessa condizione di sfruttamento e di precarietà, non rimane altra strada che quella – lunga e difficile – della lotta e della riorganizzazione sindacale come classe. Ma è la loro e unica strada. Saranno sospinti dalla forza delle cose a ritrovare il senso di appartenenza e di solidarietà di classe, oggi smarrito, che solo permette di poter reagire e resistere agli attacchi del padronato, fino domani a vincerlo definitivamente in una società senza denaro, senza padroni e senza salariati.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Lo spettro della fame

Il 9 dicembre è stato pubblicato dalla FAO il rapporto per il 2008 dal titolo “Lo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo“. Vi si trova conferma, semmai qualcuno ne avesse ancora bisogno, della barbarie alla quale porta questo insensato e iniquo sistema di produzione e distribuzione. Stime preliminari quest’anno aggiungono altri 40 milioni di uomini a coloro che soffrono la fame, portando il numero complessivo dei sottonutriti a 963 milioni, rispetto ai 923 del 2007. L’attuale crisi finanziaria ed economica – avverte la FAO – potrebbe far crescere ulteriormente la cifra.

«Nel 2008, nonostante il calo dei prezzi dall’inizio dell’anno – ha dichiarato il Vice Direttore Generale della FAO Hafez Ghanem – nei paesi in via di sviluppo [nota formula ambigua] per milioni di persone [parola alla moda, ha sostituito la “gente”, obbligatoria da usare al posto di “lavoratore” o, semplicemente, di “uomo”] riuscire a mangiare ogni giorno una quantità di cibo sufficiente per poter condurre una vita attiva e sana è ancora un sogno lontano. I problemi strutturali della fame, come l’accesso alla terra, al credito ed all’occupazione, sommati ai prezzi sostenuti dei generi alimentari, continuano ad essere una spaventosa realtà».
La maggioranza dei sottonutriti, secondo i dati 2007 riportati nel rapporto, il 65 per cento, vive in soli sette paesi: India, Cina, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh, Indonesia, Pakistan ed Etiopia. Si nota che di questi almeno quattro, e popolosissimi, sono o stanno diventando grandi potenze economiche, politiche e militari: l’equazione giusta non è fame uguale mancato sviluppo del moderno capitale, ma il contrario. Ovviamente i funzionari ben pagati della FAO, lì infilati come agenti delle multinazionali alimentari, non lo possono ammettere. Capitalismo uguale fame, a Dacca, a Giacarta e nel Guangdong, come, presto, anche a Parigi, a New York, Mosca, Londra, Napoli o Milano.

Contro le leggi del profitto e della rendita nulla possono gli ipocriti appelli borghesi ad un “risoluto impegno”, a “livello globale”, con “azioni concrete” per ridurre il numero di coloro che soffrono la fame. I risultati della illusoria teoria che il progresso avrebbe gradualmente portato benessere in ogni paese, sono sotto gli occhi di tutti e l’alimentazione resta il problema principale dell’uomo come nei millenni antichi.

Solo nel comunismo, società che prevede il razionale utilizzo colturale della terra agraria secondo un piano e la distribuzione non mercantile dei prodotti, ricondotti a valori d’uso e non merci, sarà possibile e facile soddisfare i bisogni, anche i più raffinati, dell’intera umanità. Per arrivare a ciò il capitalismo deve essere abbattuto e distrutto espropriando ai padroni borghesi la terra e i mezzi di produzione. Questo è il compito futuro dei proletari insorti in ogni angolo di questo mondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Marketing

Stampa e televisione hanno dato risalto alla notizia del “filantropo” Enzo Rossi, 42 anni produttore della pasta all’uovo Campofilone nell’omonimo paese in provincia di Ascoli Piceno il quale ha provato a vivere con lo stipendio di un suo operaio. Dopo 20 giorni ha finito i soldi e ha quindi deciso di aumentare di 200 euro al mese, netti, gli stipendi dei suoi dipendenti, che sono in gran parte donne. Ha dichiarato di essersi vergognato, perché non è riuscito a fare nemmeno per un mese intero la vita che le sue operaie sono costrette a fare da sempre. Ha detto che “è giusto togliere ai ricchi per dare ai poveri”. Al giornalista di Repubblica che gli chiedeva come si è svolto l’esperimento il Robin Hood marchigiano ha risposto: «È stato semplice. Io mi sono assegnato 1.000 euro, e altri 1.000 sono arrivati da mia moglie, che lavora in azienda con me. Duemila euro per un mese, tante famiglie vivono con molto meno. Abbiamo fatto i conti di quanto doveva essere messo da parte per la rata del mutuo, l’assicurazione auto, le bollette... Con il resto, abbiamo affrontato le spese quotidiane. Il risultato è ormai noto: dopo 20 giorni non avevamo un soldo, anche se ero stato attento a ogni spesa. Mi sono vergognato. Sa cosa vuol dire questo? Che in un anno intero io sarei rimasto senza soldi per 120 giorni, e questa non è solo povertà, è disperazione».

Signor Rossi, per caso non sarà comunista? gli viene chiesto. «No. Non sono marxista. Sono un ex di destra». Perché allora questo mese da “povero” e soprattutto la decisione di aumentare i salari a chi lavora per lei?

«Perché stiamo tornando all’800, quando nella mia terra c’erano i conti e i baroni da una parte ed i mezzadri dall’altra, e si diceva che i maiali nascevano senza coscia perché i prosciutti dovevano essere portati ai padroni. Negli ultimi decenni il livello di vita dei lavoratori era cresciuto e la differenza con gli altri ceti era diminuita. Adesso si sta tornando indietro, e allora bisogna rimediare».

L’intervista contiene altre frasi strappa lacrime da far invidia alle tragicommedie del defunto Mario Merola, ma fermarsi qui può bastare.

Certo non gli diamo torto sul fatto che i salari reali e differiti e le condizioni di lavoro anche del proletariato “occidentale“ stiano peggiorando progressivamente con l’aumentare della crisi di sovrapproduzione, ma non ci facciamo intortare, e tanto meno debbono farlo i lavoratori, dal buonismo padronale. Le migliorie si ottengono lottando non aspettando che la classe avversa faccia delle regalie. Certo stiamo parlando del padronato in generale e non tanto del “padroncino” di bottega che può essere anche in buona fede ed addirittura essere marxista. Al padroncino marchigiano bisogna riconoscere che con un colpo degno della miglior agenzia di marketing ha fatto conoscere il proprio prodotto in tutta Italia, cosa che gli riporterà nelle tasche aziendali quel poco di aumento del capitale variabile.