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"Il Partito Comunista"   n° 336 - luglio-agosto 2009 [.pdf]
PAGINA 1 Il comunismo e il proletariato in Iran non hanno alleati all’interno dei confini nazionali: Una nazione pienamente capitalista - La presenza della classe operaia - Le manifestazioni di giugno.
Si scuote in Cina il gigante proletario.
– La lotta dei metallurgici di Vigo.
PAGINA 2-3 Una riunione di intenso e coerente lavoro - Genova, 6 e 7 giugno [RG104]: Un secolo di crisi in Usa - La negazione comunista della democrazia - Il vulcano Pakistan - La questione militare - La caduta del saggio del profitto - Origini del Partito Comunista Cinese.
    [La continuazione dello studio sulla Sezione Italiana Adriatica del Partito Operaio Socialista in Austria, per mancanza di spazio è rimandata al prossimo numero].
PAGINA 4 – Un secolo di disinfestazione dal menscevismo.

 
 
 
 
 
 
 

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Il comunismo e il proletariato in Iran non hanno alleati all’interno dei confini nazionali
 

Una serie di manifestazioni ha scosso nei mesi di giugno e luglio l’Iran, il più importante paese dell’area mediorientale, cruciale dal punto di vista degli equilibri imperialistici mondiali e quindi da quello, che a noi primariamente interessa, della rivoluzione proletaria mondiale.
 

Una nazione pienamente capitalista

Oggi l’Iran è un paese pienamente capitalistico. È largamente urbanizzato: con una superficie di 1.648.195 kmq (oltre cinque volte l’Italia), dei circa 72 milioni di abitanti il 70% vive in città. Nell’area urbana di Teheran risiedono all’incirca 13,5 milioni di abitanti, quasi il 20% dell’intera popolazione. Altre importanti città sono Mashad (2,5), Esfahan (1,6), Karaj (1,4), Tabriz (1,46) e Shiraz (1,3). Vi sono poi una quindicina di centri urbani fra i 200.000 e gli 800.000 abitanti e un’ottantina intorno ai 100.000. Oltre la metà della popolazione ha meno di 17 anni e i due terzi meno di trentacinque.

L’Iran è un paese industriale, con una numerosa e combattiva classe operaia.

È noto che è uno dei principali produttori mondiali di petrolio e gas naturale. Nel 2007, con una produzione di 4,1 milioni di barili al giorno di crude oil, petrolio greggio, pari al 4,5% della produzione mondiale, di cui 2,4 esportati, è stato il quarto produttore mondiale dopo Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti e il quarto esportatore mondiale dopo Arabia Saudita, Russia e Norvegia. Nel 2008 la produzione è diminuita a 3,6 barili/giorno.

L’industria di estrazione, lavorazione e trasporto del petrolio occupa centinaia di migliaia di lavoratori. Quaranta sono i principali campi di estrazione attivi, 27 onshore, sulla terraferma, e 13 offshore, sul mare, la maggior parte localizzati nella regione Sud-occidentale del Khuzestan, al confine con l’Iraq.

Nove le raffinerie, situate, in ordine di capacità produttiva, presso le città di Abadan, Esfahan, Bandar Abbas, Teheran, Arak, Tabriz, Shiraz, Kermanshah e sull’isola di Lavan. Ventuno i complessi industriali petrolchimici.

I principali terminali per l’esportazione del petrolio sono quelli delle isole Kharg e Lavan, oltre ai minori dell’isola Kish, di Abadan, Bandar Mahshar, tutti nel Golfo Persico, e quello di Neka, sul Mar Caspio.

Le industrie del cemento e dell’acciaio rappresentano significativi settori del capitalismo iraniano, con una quarantina di cementifici, di cui i principali a Teheran (il maggiore, con circa 1.000 operai), Abyek, Fars, Bandar Abbas, Saveh, Sepahan; le due principali acciaierie sono ad Esfahan (che occupa 18.000 operai, 8.000 dipendenti diretti e 10.000 per ditte in appalto) e ad Ahwaz.

L’industria dell’auto occupa nel suo complesso 150.000 lavoratori fra diretti e indiretti delle diverse case automobilistiche – Iran Khodro, Saipa, Kerman e Bahman – tutte in affari con i gruppi europei e coreani (Peugeot Citroën FIAT, Renault, Kia e Hyundai). L’Iran Khodro, il primo gruppo automobilistico del paese e del medioriente, ha 34.000 dipendenti diretti con due grandi fabbriche a Teheran ed una ad Abhar.
 

La presenza della classe operaia

I lavoratori iraniani negli ultimi anni sono stati protagonisti di numerose ed anche dure lotte, con scontri, arresti e morti.

Il regime borghese iraniano inquadra i lavoratori nella Khane-ye Kargar (Casa dei Lavoratori), una sorta di sindacato di Stato, cui fa capo in ogni azienda con più di 35 dipendenti una Shora-ye Eslami (Consiglio Islamico del Lavoro). Questi organismi furono creati nel 1984, successivamente alla violenta repressione del movimento operaio. Ufficialmente istituiti per tutelare gli interessi dei lavoratori, fungono da vera e propria polizia di fabbrica.

Un emendamento del 2003 al Codice del Lavoro del 1990 ha consentito la formazione di sindacati indipendenti dallo Stato e senza previo permesso dell’autorità, ma con la fondamentale esclusione delle aziende “strategiche” quali la Khodro e quelle del settore petrolchimico. Per gli altri settori il diritto sancito sulla carta è negato nei fatti e i lavoratori che tentano di organizzarsi subiscono svariate forme di repressione, di cui la più comune è il licenziamento. Tuttavia ad oggi in diversi settori si sono formati una decina di sindacati che si autodefiniscono indipendenti, in contrapposizione al sindacato dello Stato “islamico”.

La legge proibisce gli scioperi: i lavoratori però, in teoria, possono non lavorare restando sul posto di lavoro. In tutto il settore pubblico invece lo sciopero è vietato in ogni sua forma.

Paradossalmente il governo ha fissato la soglia di povertà per il 2009 alla cifra di 850.000 tomans, pari a circa 874 dollari, mentre il salario minimo e stato fissato a 263.000 tomans, 270 dollari.

Nel gennaio 2004 la polizia sparò contro alcuni dei 1.500 lavoratori in sciopero della miniera di rame di Khatoonabad, uccidendo quattro operai e ferendone molti altri.

A cavallo fra il 2005 e il 2006 un potente sciopero fu condotto dai tranvieri di Teheran – che in tutto sono ben 17.000 – di cui abbiamo ampiamente riferito su questo giornale nel n. 316 del 2006. I tranvieri e gli operai dell’azienda pubblica di trasporto di Teheran dal 2003 avevano iniziato ad organizzarsi per formare un nuovo sindacato indipendente su basi di classe, il Sindacato dei Lavoratori della Compagnia di Autobus di Teheran e Sobborghi (Sherkat-e Vahed, Sandikaye kargarane sherkate vahed).

A giugno 2008 oltre 2.000 lavoratori della Haft Tapeh Sugar Cane Plantation and Industry Company – azienda statale per la coltivazione e la lavorazione della canna da zucchero nei pressi della cittadina di Shush nella provincia del Khuzestan – dopo ripetuti e lunghi scioperi, con manifestazioni e scontri di piazza, hanno formato un sindacato indipendente.

Gli operai della Iran Khodro sono scesi in sciopero a febbraio e a maggio per rivendicazioni salariali ed ottenendo che fossero accolte.

Il Primo Maggio una manifestazione promossa da ben nove sindacati indipendenti al Laleh Park di Teheran cui partecipavano circa 2.000 lavoratori è stata attaccata dalla polizia che dopo aver picchiato e usato gas lacrimogeni ha arrestato 150 lavoratori. Sempre il Primo Maggio fatti analoghi sono avvenuti a Sanandaj, in Kurdistan, uno dei centri dove più alta è stata in questi anni la combattività dei lavoratori, con 12 arresti.

Il 19 giugno 4.000 operai della Brick Kilns, fabbrica di mattoni in Shabestar, sono scesi in sciopero per ottenere i salari arretrati ottenendo soddisfazione dopo 17 giorni di sciopero.

Pochi esempi questi per descrivere la combattività operaia in Iran.
 

Le manifestazioni di giugno

A maggio il sindacato dei tranvieri di Teheran ha pubblicato un breve manifesto in previsione delle decime elezioni presidenziali della “Repubblica islamica”. In esso si afferma che il sindacato «non appoggia nessuno dei candidati in lizza» in quanto tutti considerati nemici degli interessi della classe lavoratrice e che «oggi, per i lavoratori e le loro famiglie, l’incoraggiamento a partecipare alle elezioni è una delle cose più prive di senso del presente dibattito».

Fra i candidati Mir Hossein Mousavi si è rivelato il principale sfidante del presidente in carica Ahmadi Nejad. I due, come vari “analisti” borghesi ci hanno spiegato a profusione, sarebbero rappresentanti di opposte fazioni della classe borghese. Mousavi avrebbe il sostegno di una importante fetta del clero islamico composta dai cosiddetti centristi vicini a Rafsanjani (gli ayatollah Javadi Amoli, Amini, Ostadi, Bayat Zanjani), dagli ayatollah “riformisti” (Montazeri, Taheri, Sanei, Mousavi Tabrizi, Mousavi Bojnurdi), dagli islamisti provenienti dagli ambienti universitari allievi di Khomeini, Taleghani, Bazargan e Shariati. Ahmadi Nejad è sostenuto dalla guida suprema Alì Khamenei, la più alta carica prevista dalla costituzione, dalla maggioranza dei ranghi dell’Esercito e delle milizie paramilitari dei Pasdaran e dei Basij che controllano il complesso militar-industriale e varie sfere della vita economica, dalla burocrazia di Stato delle Fondazioni iraniane, col loro giro d’affari esentasse e che rendono conto solo alla Guida Suprema.

La posta in gioco è la ripartizione del plusvalore estorto al proletariato d’Iran e, pare, il controllo di settori chiave come il commercio estero e soprattutto l’impiego della rendita petrolifera. A quanto sostengono vari “specialisti” Mousavi sarebbe propenso ad un più disinvolto processo di privatizzazione del vasto settore dell’economia di proprietà statale, ad una maggiore apertura ai capitali stranieri, ad una riduzione della spesa sociale e a una non ben precisata virata nel campo delle relazioni internazionali. Tutte differenze ben difficili da soppesare e da porre a verifica e che dal punto di vista della classe operaia hanno ben poca importanza.

I fatti che hanno dato il via al movimento di protesta sono noti. Una volta resi pubblici i risultati delle elezioni del 12 giugno e in seguito alla denuncia di brogli da parte di Moussavi una prima partecipata manifestazione ha percorso le strade del centro di Teheran. I manifestanti agitavano vessilli color verde a indicare il loro sostegno al capo dell’opposizione e rivendicavano l’annullamento o la revisione delle elezioni.

Le manifestazioni dei primi giorni hanno visto una partecipazione vastissima e si sono presto diffuse ad altre città del paese. Successivamente il numero dei manifestanti è andato diminuendo – pur rimanendo ragguardevole – mentre parallelamente è aumentata la repressione da parte della polizia e delle milizie Basij cui i manifestanti hanno fatto fronte coraggiosamente a costo di centinaia di arresti ed anche della vita.

Lo scontro era previsto dal clan di Ahmadi Nejad, tanto che preventivamente, ancor prima dell’inizio delle manifestazioni, alcune decine di professori dell’Università di Teheran sono stati tratti in arresto e ciò ha contribuito a scatenare la reazione degli studenti. Moussavi quindi ha giocato la carta della piazza pur correndo il rischio che il movimento potesse tralignare i limiti accettabili per entrambe le fazioni borghesi in lotta.

Le manifestazioni hanno avuto vigore per una decina di giorni, raggiungendo l’apice il 22 giugno, giornata durante la quale vi sono state la maggior parte delle vittime. Poi il movimento è andato scemando, riaccendendosi il 9 luglio, per le manifestazioni promosse dagli studenti in occasione della commemorazione della repressione del loro movimento del 1999, e venerdì 17 luglio, in occasione della preghiera tenuta da Rafsanjani, da molti considerato il vero uomo forte alle spalle di Moussavi, all’Università di Teheran.

Non essendo noi fisicamente presenti in Iran e per le difficoltà dovute alla lingua non è possibile farsi un’idea completa del movimento di giugno-luglio. Tuttavia mettendo insieme vari tasselli il quadro è abbastanza definito.

Innanzitutto si può dire cosa il movimento non è stato. Non è stato un movimento di lotta della classe operaia, che ne è rimasta sostanzialmente estranea. Non vi sono stati scioperi né a Teheran, dov’era il cuore della protesta e dove vi sono i grandi impianti industriali della Khodro, Khodro Diesel, Saipa Diesel, la raffineria di Esma Ilabad, ecc. con decine di migliaia di operai, né nelle altre grandi città iraniane dove è giunta l’onda del movimento. Questo non vuol dire, come si è letto da più parti, che il proletariato parteggi per Ahmadi Nejad. Piuttosto che questo movimento non è stato percepito come proprio dai lavoratori. D’altronde, almeno in apparenza, il programma di Moussavi, fatto di privatizzazioni e riduzione della spesa sociale per un Iran più “moderno”, appare ancora più antioperaio di quello di Ahmadi Nejad e se può affascinare una parte della società questa è la piccola borghesia o, come ama definirla il giornalismo borghese, la classe media.

Il movimento, poi, ha avuto come centri organizzativi le università e le moschee, gli studenti e la struttura organizzativa a sostegno di Moussavi, con ruolo certamente fondamentale di parte del clero. Ciò è emerso con più evidenza col passare dei giorni. La preghiera di Rafsanjani all’Università di Teheran venerdì 17 luglio ha rappresentato il sigillo finale ad ogni sorta di dubbio in proposito. Le manifestazioni d’altronde hanno avuto come teatro principale il centro cittadino – intorno all’Università Statale e al politecnico Amir Kabir – e i quartieri benestanti nord-orientali, in un’area compresa fra Piazza Enghelab, Piazza Vanak e la moschea di Ghoba, mai i quartieri proletari della capitale e delle altre città.

Insistentemente è stato detto da più parti che Moussavi si è ritrovato a capo della protesta suo malgrado. Ci permettiamo di dubitarne. Se è vero che le manifestazioni hanno oltrepassato spesso il limite accettabile da parte del regime sul piano dell’ordine pubblico, cosa per altro determinata per lo più dall’azione repressiva di polizia e Basij, tuttavia esse non hanno mai messo in discussione lo stesso carattere “islamico” del regime e smesso di gridare “Allah Akbar” ed agitare i vessili verdi.

Pare quindi che debbano andare amaramente deluse le speranze di chi aveva creduto di vedere nelle manifestazioni iraniane di questo inizio d’estate il principio di un movimento che, a mo’ dei grandi processi rivoluzionari, travalicasse i suoi stessi obiettivi, proclamati al suo nascere. A qualcuno potrebbe esser venuto in mente il 1905 russo: il 22 gennaio gli operai marciarono in quella che stava per diventare la Domenica di Sangue, in processione dietro al Pope, innalzando icone sacre e cantando l’inno imperiale per portare una supplica con varie richieste allo zar Nicola II, riduzione dell’orario di lavoro, fine della guerra russo-giapponese... L’esercito aprì il fuoco e fu l’inizio della rivoluzione.

Gli attori del movimento iraniano odierno sono diversi. Nel dicembre del 1904 a San Pietroburgo erano scesi in sciopero decine di migliaia di operai delle officine Putilov. Nel gennaio 1905 gli operai scioperanti avevano raggiunto il numero di 80.000. Nulla di questo è successo oggi in Iran. Gli scontri e i morti non bastano a parlare di rivoluzione e nemmeno di un movimento potenzialmente rivoluzionario. Come nella Russia semi-feudale del 1905-’17, a maggior ragione nell’Iran e in tutto il mondo capitalistico contemporaneo la sola rivoluzione possibile è quella che vedrà protagonista la grande classe dei lavoratori salariati: il proletariato. La rivoluzione sarà degli incolti lavoratori, non dell’acculturata società civile fatta di studenti e “classe media”. E non sarà nemmeno la rivoluzione di proletari, studenti e piccola borghesia “uniti nella lotta” ma della sola classe lavoratrice. Gli strati sociali impoveriti e intermedi fra proletariato e borghesia potranno, nella migliore delle ipotesi, andare a rimorchio del primo, se forte e vincente. Ma, come la storia ha già troppe volte dimostrato, anche in Iran, nel momento in cui la classe operaia si trovasse debole o esitante, saranno sempre pronti a schierarsi con la reazione, con la borghesia, vestendo i panni dei difensori della patria e cantando, a seconda della contingenza, “Allah Akbar” o “Viva il duce”.

Il proletariato iraniano non ha alleati all’interno dei confini nazionali ma solo al di fuori di essi, nei lavoratori, nei contadini poveri e nei diseredati dei paesi vicini e di tutto il mondo. L’unica vera prospettiva è quella della rivoluzione mondiale proletaria. Questo è il solo obiettivo per cui devono lavorare i comunisti degni di questo nome. Chi non dà questa prospettiva ai lavoratori, o la mette “momentaneamente” da parte, con la pretesa di cavalcare l’onda di un movimento che si sa essere estraneo alla classe operaia ma che si vuole presentare come utile ai suoi fini e quindi al comunismo, lega una volta di più le mani dei lavoratori al carro dei suoi futuri carnefici.

È chiaro che non è possibile che i lavoratori iraniani si mettano sulla strada della rivoluzione autonoma e internazionale con le loro sole forze, in presenza di una situazione mondiale priva di questa prospettiva. Perché ciò sia possibile è necessario un ribaltamento dei rapporti di forza fra le classi a livello mondiale.

Ma per quanto questo obiettivo sia arduo e ardito – nessuno ha mai detto che la strada dei comunisti sia in discesa! – ciò non giustifica in nessun modo l’intraprendere altre strade che sono sempre illusorie e orientate in senso opposto a quello della rivoluzione. La sola strada è quella della ricostruzione del Partito Comunista mondiale sulle sue vere basi. Con le attuali forze a disposizione del Partito ciò oggi passa per un’attività che è per nove decimi di sola analisi e critica dei movimenti sociali in atto. Ma questa è la necessaria premessa alla futura azione non più solo teorica ma finalmente pratica, nel vivo della lotta di classe e della Rivoluzione.
 
 
 
 
 
 
 
 


Si scuote in Cina il gigante proletario
 

Venerdì 25 luglio 30.000 operai cinesi della Tonghua Iron & Steel Group, un’acciaieria nella cittadina di Erdaojiang nella provincia nord-orientale dello Jilin, una delle tre province della Manciuria, 30 miglia a Nord del confine con la Corea del Nord, sono scesi in sciopero contro le voci di licenziamenti in seguito alla prospettata fusione dell’azienda locale con la Jianlong Steel Holding Company di Pechino. La rabbia degli operai è esplosa violentemente al punto che il direttore della fabbrica è stato ucciso per mano dei lavoratori ed è stato impedito l’accesso allo stabilimento ai soccorsi e alla polizia. I lavoratori sono poi usciti dalla fabbrica scontrandosi per le strade della città con le forze dell’ordine. La notte stessa i rappresentati del governo provinciale, proprietario dell’acciaieria, hanno annunciato l’annullamento del piano industriale.

L’industria dell’acciaio cinese è la prima al mondo col 38% della produzione mondiale nel 2008. Questa percentuale è cresciuta nell’anno in corso: mentre la produzione mondiale di acciaio è crollata nei primi sei mesi del 2009 del 21% quella cinese è cresciuta del 6%. L’industria siderurgica cinese è però dal punto di vista capitalistico molto frammentata. In Cina infatti vi sono all’incirca 800 aziende produttrici di acciaio. Il primo gruppo industriale, la Shanghai Baosteel Group, conta appena per il 5% della produzione nazionale. Questo dato mette in evidenza il grado ancora relativamente basso della concentrazione del capitale in Cina e ne conferma la giovinezza.

La Shanghai Baosteel Group impiega circa 108.000 operai; se con questi operai sforna il 5% della produzione nazionale, con un calcolo approssimativo possiamo valutare che gli operai cinesi impiegati nell’industria siderurgica siano più di due milioni.

Questi numeri misurano l’enorme potenziale rivoluzionario rappresentato dal proletariato cinese, e la lotta degli operai di Erdaojiang lo conferma. È fondamentale ribadire che il bilancio di forze fra rivoluzione e controrivoluzione, fra borghesia e proletariato, si pone a livello mondiale, essendo ormai planetaria la trama della produzione e del commercio capitalistici. Quando l’immenso gigante proletario cinese si alzerà in piedi e inizierà a combattere vedremo allora il primo decisivo passo per il ribaltamento degli attuali sfavorevoli rapporti di forza per la classe operaia di tutti i paesi, per la rivoluzione, per il comunismo.
 
 
 
 
 
 
 
 


La lotta dei metallurgici di Vigo

Da mesi sale la tensione in Galizia, Spagna del nord ovest, dove è in crisi crescente il settore metallurgico che nella sola regione di Pontevedra riunisce circa 2.500 imprese e occupa 27.000 addetti, prevalentemente nel settore della cantieristica navale e dell’auto (gruppo PSA francese). Il 31 dicembre scorso è giunto a scadenza un accordo regionale che istituiva, tra l’altro, una agenzia di collocamento per il settore e prevedeva la progressiva trasformazione dei contratti precari in lavoro a tempo indeterminato, un accordo che però nel corso del biennio è stato regolarmente disatteso dalla locale associazione imprenditoriale.

Già da febbraio sono iniziati i primi scioperi che hanno portato alla creazione di una commissione che deve trattare per il nuovo contratto di lavoro. La situazione è pesante: i sindacati chiedono ragione del mancato rispetto del precedente contratto e avanzano richieste salariali ritenute troppo onerose dalle imprese. Queste il 15 maggio hanno tenuto a Vigo un incontro fra loro per studiare una strategia comune.

La prima giornata di sciopero è stata proclamata dai sindacati per il 5 maggio 2009. Dopo questo sono già stati sei gli scioperi durante i quali si sono ripetuti scontri violenti per le strade del centro della capitale con la polizia, il blocco di viali e strade, l’occupazione di centri commerciali e una decisa volontà di vittoria nella battaglia per difendere il potere d’acquisto dei salari, di fronte ad un padronato impegnato a scaricare il costo della crisi sui lavoratori. Giovedì 4 e venerdì 5 giugno gli scontri tra i lavoratori e le forze speciali della polizia sono stati molto duri nella capitale di Pontevedra.

La stampa e i politici manipolavano l’informazione, spingendo il sindaco di Vigo (appartenente al Blocco Nazionalista Gallego) a “condannare il vandalismo degli operai”. Le provocazioni della canaglia poliziesca, i cui effettivi erano stati rinforzati con altre brigate antisommossa, sono state contrastate dagli operai erigendo delle barricate nel centro di Vigo, tentando di assaltare il Municipio, cercando di occupare alcuni centri commerciali e con altri atti di difesa e attacco proletario.

L’argomento essenziale della borghesia, il costo insostenibile degli aumenti salariali richiesti dagli operai, comincia già a perdere di significato quando, secondo fonti sindacali, le giornate di sciopero hanno causato perdite maggiori del costo degli aumenti salariali richiesti. Questo dimostra che il padronato ha altri obbiettivi, cerca lo scontro sociale per infliggere una disfatta al proletariato.

Nella giornata di venerdì 12 sono stati chiamati alla lotta anche i lavoratori metallurgici di quelle imprese che avevano già rinnovato il loro contratto, per questo hanno partecipato allo sciopero circa 40.000 metallurgici, tra i quali è da rimarcare la partecipazione in prima linea delle giovani generazioni di lavoratori.

I lavoratori di Vigo hanno dimostrato dunque di saper rispondere all’offensiva padronale nel solo modo possibile, con la mobilitazione e la lotta che si preannuncia lunga e dura. Nel frattempo le organizzazioni sindacali, sotto la spinta della combattività operaia, hanno annunciato che gli scioperi saranno proclamati senza un calendario prestabilito ma in funzione delle convenienze del momento per i lavoratori.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2


Una riunione di intenso e coerente lavoro
Genova, 6 e 7 giugno 2009
[RG104]
Un secolo di crisi in Usa Course of the economic crisis
La negazione comunista della democrazia - [resoconto esteso] Communism, the historical negation of democracy
Il vulcano Pakistan The Pakistani volcano
La questione militare - [resoconto esteso] The military question
La caduta del saggio del profitto From The Capital, Volume 3
Origini del Partito Comunista Cinese Origins of the Chinese Communist Party

 
 

Il partito ha tenuto la sua periodica riunione generale di lavoro, con rappresentanza di quasi tutti i nostri gruppi, nella sede della redazione di Genova nei giorni 6 e 7 dello scorso giugno.

La funzione attuale del partito, nei suoi compiti immediati è volta a scopi essenzialmente difensivi, della dottrina scientifica del marxismo, dei principi tattici dimostrati da una ormai lunga esperienza storica, e difesa di quella nozione di partito comunista che lo distingue da tutti gli altri partiti, anche sedicenti operai e di sinistra.

Come il partito comunista, fin dalle sue origini, ha sempre teso ad un suo tipo proprio di naturale e volontaria unicità di movimento, confermato nella separazione della Prima Internazionale dal federalismo e dall’individualismo degli anarchici, il partito rinato nel secondo dopoguerra ha appreso la lezione della degenerazione della Terza per opera dello stalinismo, che distrusse il partito comunista mondiale lacerando l’organizzazione con l’uso sistematico del frazionismo dall’alto, nascosto dietro le forme della democrazia interna.

Lo prova lo stile di lavoro che ci siamo dati, non inventato o rivelato da alcun grande capo ma spontaneamente assunto, naturale atteggiamento di tutti i militanti che si sono succeduti e senza bisogno di alcuna legge o regolamento interno che lo prescriva o punisca la loro infrazione. Ugualmente lo prova la qualità dei nostri studi, pur di notevole difficoltà, che coerentemente si affiancano l’uno all’altro senza esibizionismi e privi della morbosa opposizione e del “giallismo” che caratterizza gli ambienti della piccola borghesia e dell’opportunismo.
 

UN SECOLO DI CRISI IN USA

Il rapporto sul corso della crisi ha esposto le serie che teniamo aggiornate degli indici mensili della Produzione industriale e del Commercio, separatamente per tutti i maggiori capitalismi, compresi gli ultimi arrivati ma di non poco peso.

Per ciascuno si mostrava l’andamento della crisi negli ultimi mesi, dimostrando che ovunque proseguiva il regresso.

In particolare, dalle serie storiche della produzione industriale si può cercare di tirare un raffronto fra l’attuale crisi e le numerose precedenti, quanto a frequenza, durata e profondità. Un approfondimento dell’analisi dovrebbe prendere in considerazione altre grandezze, produttive, finanziarie e commerciali.

Qui, limitatamente agli Stati Uniti e dal 1919, le riassumiamo in una tabella. Questa prende in considerazioni solo le crisi della durata di almeno un anno. Tutti gli incrementi sono calcolati come variazione percentuale rispetto al precedente massimo produttivo nello stesso mese, che, nelle crisi prolungate, può risalire indietro di più di un anno.

L’anno e il mese di inizio della crisi è nella prima colonna. Sono quella del Primo Dopoguerra, 1920-21, la Grande Crisi del 1929-36, quella di Anteguerra del 1938-39, quella del Secondo Dopoguerra, 1945-1950, quelle Intercalari del 1953, del 1957 e del 1970-71, quella mondiale del 1974-75, le successive decennali del 1980-83, del 1990-91 e del 2001-03. Infine la recessione in corso, iniziata nel giugno dello scorso 2008.

Dal 1920 al 2008, in 88 anni abbiamo avuto 12 gravi crisi, in media una ogni 8 anni, circa. Si può vedere un“anticipo” di quella del 1957, ed una “aggiunta” di quella “globale” del 1974.

Nella seconda colonna (*) abbiamo la durata in mesi della contrazione produttiva, nella terza (**) il numero di mesi che furono necessari al recupero del massimo precedente. Sommando la terza colonna abbiamo un totale di 399 mesi: quasi quattro anni ogni dieci della vita dell’ultimo secolo del capitalismo Usa è trascorso in recessione! Ciò, come sappiamo, non toglie che, nello stesso periodo, il volume della produzione, e quindi del capitale, è aumentato in Usa di venti volte, evidentemente accresciutosi negli altri sei anni di quei dieci.

La quarta colonna (***) riporta la contrazione massima al fondo della recessione.

Considerando i dati di queste prime quattro colonne è possibile tentare una suddivisione delle undici crisi precedenti alla attuale. Secondo la profondità della recessione, dopo quella massima del 1929, che più che dimezzò le produzioni, arriviamo ad una contrazione di un terzo nelle altre tre crisi fra le due guerre, del 1920 e del 1937, e in quella del 1945, immediatamente alla fine della seconda. Invece le successive altre sette crisi avute in questo secondo dopoguerra mostrano una virulenza nettamente minore.

Riguardo alla durata del recupero del massimo avemmo crisi molto lunghe quelle del 1929, sette anni, e quella del 1945, cinque-sei anni. Più brevi tutte le altre, non più di due anni. Tornano a crescere in durata due delle più recenti: quella del 1980 e quella del 2001, protrattesi per quasi quattro anni.

Nelle restanti colonne a destra sono riportati i decrementi mensili nei primi quattordici mesi di ogni crisi. Supponendo che le cifre che gli istituti statistici borghesi diffondono siano attendibili e che le recenti non lo siano ancora meno delle antiche, possiamo azzardare un raffronto fra l’andamento della crisi in corso e le precedenti. La crisi che stiamo vivendo “parte” più lentamente di quelle gravissime dal 1920 al 1945: scende a -10% al suo ottavo mese, solo dalla metà ad un terzo di quelle, e vicino a quanto erano scese le crisi del 1953, del 1957 e del 1974, ma certo peggio delle altre intercalari. Queste tre, però, dopo l’ottavo mese tendono a rallentare la caduta, quando oggi l’andamento sembra orientato ad ulteriore flessione, sebbene inferiore ai corrispondenti massimi storici
 

Mese di
inizio
della
recessione
Durata
mesi
(***) Decremento % dal precedente mese di massimo,
nei primi 14 mesi della crisi
(*) (**)  1° 10° 11° 12° 13° 14°
1920, settembre 16 24 -31 -2 -5 -12 -18 -29 -31 -31 -23 -27 -28 -27 -25 -23 -17
1929, dicembre 41 83 -54 -6 -7 -7 -9 -11 -14 -17 -22 -23 -24 -25 -23 -25 -27
1937, ottobre 15 23 -32 -4 -15 -25 -26 -28 -29 -31 -32 -31 -28 -23 -18 -23 -21
1945, febbraio 19+11 66 -35 -3 -3 -5 -7 -9 -11 -21 -27 -31 -28 -27 -30 -35 -31
1953, novembre 13 14 -10 -3 -6 -6 -8 -9 -9 -10 -9 -10 -10 -8 -5 -2 -1
1957, ottobre 13 15 -13 -4 -4 -7 -8 -11 -13 -12 -11 -8 -7 -6 -5 -4 -2
1970, gennaio 16 23 -6 -1 -1 -1 -1 -2 -3 -2 -3 -5 -6 -6 -4 -2 -3
1974, luglio 17 29 -12 -1 -2 -2 -3 -7 -9 -10 -10 -12 -11 -11 -9 -9 -7
1980, febbraio 39 43 -11 -0 -1 -2 -6 -8 -10 -6 -5 -5 -2 -1 -2 -1 -0
1990, dicembre 12 23 -4 -1 -1 -2 -4 -3 -3 -2 -2 -2 -2 -2 -1 -1 -1
2001, gennaio 18 42 -6 -1 -2 -3 -4 -4 -5 -4 -5 -6 -6 -6 -6 -4 -4
2008, giugno ? ? ? -0 -0 -2 -6 -4 -5 -8 -10 -10 -12 -11 -12 -15 -13

 
 
 
 

LA NEGAZIONE COMUNISTA DELLA DEMOCRAZIA

Uno dei compiti primari del partito è quello di ribadire il principio fondamentale del marxismo rivoluzionario secondo cui tra la democrazia e la lotta e l’azione di classe per l’emancipazione proletaria non vi può essere nulla in comune.

Il regime democratico non è che una delle facce dietro cui il capitalismo governa la sua dittatura di classe, ma, allo stesso tempo, è la più subdola, con la mistificazione secondo cui il popolo, a maggioranza, chiamato ad esprimere il proprio parere attraverso il voto, avrebbe la facoltà di determinare l’azione politica dei governi così coinvolgendo sentimentalmente, con l’appoggio dei partiti opportunisti, vaste aree del proletariato.

Noi, al contrario, affermiamo che attraverso le libere elezioni il popolo può, tutt’al più, scegliere la congrega di politicanti che, per un certo numero di anni, gestiranno gli interessi della classe dominante, ossia del Capitale, e la politica sociale di qualsiasi governo democratico-borghese non sarà per il proletariato che sfruttamento e miseria.

Fare soltanto un elenco dei testi, delle tesi, degli scritti che, da Marx ad oggi, su questo argomento sono stati elaborati nella continuità del comunismo di sinistra sarebbe già un lavoro di immensa portata e, quindi, il rapporto tenuto nel corso della riunione generale, non ha potuto che sunteggiare brevemente tali posizioni.

L’opportunismo che nelle sue varie forme ha attraversato la strada al movimento comunista, accusata la classe dominante di tradire i suoi stessi principi democratici, ha costantemente fatto appello al proletariato perché impegnasse la sua battaglia non per il rovesciamento del regime del capitale, ma per il ripristino delle disattese regole democratiche, i cui valori, considerati eterni, sarebbero utili ed indispensabili al raggiungimento di una futura uguaglianza sociale. I comunisti rivoluzionari non deprecheranno mai la “democrazia tradita” o la “falsa democrazia”, perché riconoscono nella democrazia, in quella perfetta e “teorica” ancor più che in quella “realizzata”, il nemico da abbattere, il mito dal quale liberare la mente ed il cuore della classe proletaria.

Il rapporto iniziava elencando tutta la serie degli assunti generali borghesi su cui si basa il principio democratico, i quali, anche se fossero realmente e appieno praticati, non impedirebbero affatto il governo dittatoriale della sola classe dominante.

Il rapporto si soffermava poi sulla cosiddetta “questione morale”, altro cavallo di Troia con cui l’opportunismo fa breccia all’interno della classe proletaria (ma non in quella borghese).

Dopo aver dato lettura di una limpida citazione di Engels sull’argomento, per non scomodare oltre i nostri Maestri veniva letto un collage di dichiarazioni nientemeno che di... Bettino Craxi. Craxi, ex segretario del PSI, ex presidente del consiglio, ex vice presidente dell’Internazionale Socialista, quando ormai aveva perso tutto, dagli esilii africani onestamente spiegava le ragioni per le quali, all’interno dei partiti democratici (di tutti i partiti), nulla di onesto vi fosse per il semplice fatto che nulla di onesto vi era mai esistito: digressione questa leggera utilizzante un nostro nemico costretto a valutazioni con argomenti tali da rasentare il determinismo dialettico.

Si passava poi ad una serie di citazioni tratte da Marx, Lenin e dalla Sinistra italiana a dimostrazione di come il socialismo, inteso come dottrina sociale e di scontro di classe non derivò da un ulteriore sviluppo della democrazia, ma si affermò come una solenne denunzia del fallimento storico del principio democratico, e degli inganni che questo necessariamente conteneva.

Il socialismo proclamò che la borghesia, anche quanto ancora aveva da svolgere una sua funzione rivoluzionaria, lo faceva esclusivamente nell’interesse di una nuova classe di dominatori, e che, spodestata la vecchia aristocrazia, aveva dato origine ad un’altra classe oppressa: il proletariato. Il programma di uguaglianza e di libertà borghese serviva solo a nascondere una nuova forma di oppressione, di nuove disuguaglianze altrettanto profonde di quelle antiche; che, agitando il concetto della democrazia, o dominio politico delle maggioranze, preparava il dominio economico di una nuova minoranza, della nuova oligarchia del capitale.

Mentre la borghesia, nata rivoluzionaria, dopo aver conquistato il potere diventava per fatalità di cose conservatrice e reazionaria, per le stesse determinazioni sociali il proletariato si faceva rivoluzionario, poneva esplicitamente il problema sul terreno economico, e concepiva un suo programma di classe, che consiste nella espropriazione dei mezzi di produzione e di scambio, e nella loro socializzazione.

Se è vero che, anche in tempi di stabile potere capitalistico, i marxisti rivoluzionari ammisero la partecipazione del partito comunista alle elezioni borghesi, si pensi al parlamentarismo rivoluzionario voluto da Lenin, lo fecero alla condizione di approfittare degli spazi concessi dalla democrazia per utilizzarli a finalità esclusivamente di agitazione di classe, mirando al rafforzamento del partito nella sua lotta finalizzata alla distruzione degli istituti democratici, non certo ponendosi come traguardo le amministrazioni cittadine o, addirittura, la trasformazione socialista per via parlamentare.

Dopo la vittoria della controrivoluzione staliniana, a scala storica il risultato di questa tattica, che fu contrabbandata come “leninista”, è oggi sotto gli occhi di tutti. È avvenuto esattamente l’opposto di quanto Lenin aveva auspicato: avendo aderito alle regole del gioco democratico, di cui la “battaglia” elettorale è la massima espressione, fu progressivamente abbandonata qualsiasi impostazione comunista rivoluzionaria, o semplicemente classista, per attestarsi su di una piattaforma politica comune ad alcuni partiti borghesi. I partiti che si definivano comunisti o socialisti si ridussero a trasformare la loro propaganda in una accozzaglia di motivi popolareschi in cui venivano smarriti e dispersi i principi di classe.

Dopo avere definito la nostra posizione nei confronti della democrazia interclassista veniva chiarito quale sia il giudizio dei comunisti rivoluzionari riguardo alla sua applicazione all’interno del partito.

È chiaro come nel partito venga meno la nostra critica verso l’artificiosa unificazione dei contrastanti interessi di classe all’interno dello Stato borghese: al partito si aderisce spontaneamente per lottare, con determinati mezzi, verso il fine comune di una sola classe. Però, anche all’interno del partito mai abbiamo ritenuto che il pronunziato della maggioranza sia per se stesso da ritenere il migliore. La riprova di ciò sta nel fatto che, ancora nei partiti che utilizzavano il metodo del “centralismo democratico”, nei momenti cruciali dell’avanzata rivoluzionaria le decisioni non furono prese banalmente a maggioranza. Lenin, noi lo abbiamo sempre ribadito, non ha mai attribuito alla democrazia interna al partito un valore di principio e la Sinistra italiana già dal 1922 proponeva di abbandonare senz’altro anche la formula di “centralismo democratico” per affermare che il partito comunista fonda la sua organizzazione sul “centralismo organico”.

Oggi, nel nostro partito, fondato su unicità di teoria, principi, finalità e tattica, dove viene esclusa la pratica delle fusioni o del noyautage in e con altre organizzazioni politiche, ma che ammette soltanto l’adesione individuale, non c’è più posto non solo per il principio democratico, che significa la lotta di correnti o frazioni finalizzata ad individuare l’indirizzo del partito scegliendo fra nomi di illustri compagni, ma nemmeno per il banale e rudimentale meccanismo democratico.

Tutti coloro che a questa necessaria statura non sono riusciti ad elevarsi, o mantenersi, e si sono trovati a disagio, hanno già fatto la scelta che coerentemente potevano fare: abbandonare le file del partito.
 

IL VULCANO PAKISTAN

Il compagno ha presentato l’inizio del lavoro sul moderno Pakistan, un Paese di grande peso strategico, pieno di contraddizioni sia sul piano dei rapporti tra le classi sia tra le diverse etnie che lo compongono.

La giovane repubblica conta ben 176 milioni di abitanti e una superficie di 804.000 Kmq, circa tre volte l’Italia. Per intenderne l’importanza strategica basta pensare agli Stati con cui confina: l’Afghanistan, impegnato in una nuova guerra dell’oppio, a nord e a ovest; l’inquieta repubblica dell’Iran ad ovest; le due grandi potenze di India e Cina ad est.

Le divisioni tribali e di religione hanno segnato le guerre che hanno opposto il Pakistan al suo potente vicino meridionale, l’India, per il Kashmir, ma anche la questione del Belucistan la cui popolazione rivendica l’indipendenza, o a quella delle regioni settentrionali confinanti con l’Afghanistan e abitate dalla stessa popolazione Pasthun, dove proprio in questi giorni è in corso l’offensiva dell’esercito americano contro le bande di talebani.

Ma il vulcano Pakistan, come è stato recentemente definito, cela nelle sue viscere ribollenti anche enormi contraddizioni di classe: una giovane e giovanissima classe operaia, il 20% della forza lavoro, impiegata soprattutto nel settore tessile, è sfruttata fino ad essere ridotta, è il caso di migliaia di bambini, in schiavitù. Nelle campagne una agricoltura moderna si accompagna a metodi di lavorazioni della terra arcaici. La popolazione rurale rappresenta ancora il 65% della popolazione del Paese, e di quella il 68% è impiegata nell’agricoltura (43% della forza lavoro totale). Il 2% dei proprietari fondiari possiede oltre il 45% della terra; questa minoranza ha accesso all’acqua e anche ai sussidi governativi; si calcola di contro che il 60% delle famiglie rurali viva in povertà.

Il 37% della forza lavoro si dedica ai servizi, un dato che conferma che il Pakistan, con tutte le sue contraddizioni, è un paese moderno, a capitalismo sviluppato.

Per l’imperialismo internazionale oggi il Pakistan ha importanza primaria non solo per l’esito della guerra afgana ma soprattutto perché controllare quel Paese significa controllare quattro tra le maggiori potenze mondiali, la Cina, l’India, la Russia e l’Iran.

A questi giochi il proletariato industriale e agricolo del Pakistan, i suoi contadini poveri, i servi semischiavi devono restare estranei. Essi non hanno da scegliere alcun nuovo campo imperiale a cui vendersi, hanno da rivendicare la loro completa, rivoluzionaria emancipazione dall’oppressione di classe, il comunismo.
 

LA QUESTIONE MILITARE

Questa parte del rapporto, che per motivi di tempo non fu possibile presentare alla riunione di partito precedente, esponeva, con la sconfitta di Napoleone, la fine delle guerre europee della Francia rivoluzionaria.

Per meglio comprendere i fatti d’arme sono state illustrate due cartine con gli spostamenti delle truppe in questione nelle quattro battaglie di Ligny, Quatre-Bras, Wavre e Waterloo, località molto vicine tra loro, parte di un unico grande schema strategico di combattimento, svoltesi le prime due il 16 e le ultime due il 18 giugno 1815.

Gli storici si sono chiesti con insistenza quale sarebbe stato l’assetto e il futuro dell’Europa se allora avesse vinto Napoleone, il quale, dal punto di vista puramente militare, avrebbe anche potuto, inizialmente, battere la Coalizione. Ma ormai erano profondamente mutate le condizioni che avevano favorito le fortune della Francia borghese e del suo Generale e Imperatore. Il mondo feudale in Europa, anche se alcuni spezzoni caparbiamente sopravvivevano, era stato sostanzialmente compromesso e la borghesia stava espandendo ovunque il suo dominio. Napoleone era stato la sua spada, aveva esaurito il suo compito e doveva essere messo da parte, e non solo per fermare l’espansionismo francese.

Per conseguire questi obbiettivi la Coalizione stava approntando una consistente sommatoria di varie forze europee, borghese Inghilterra e feudale Prussia in testa, per un totale teorico di circa 800 mila uomini, di cui già 210 mila disposti in campo nei pressi di Bruxelles mentre i restanti si stavano concentrando oltre il Reno. Napoleone invece disponeva dell’Armata del Nord di 124 mila uomini. Di più, i fucilieri inglesi disponevano dei nuovi fucili Baker di portata circa doppia di quelli francesi.

Napoleone, venuto a sapere che l’invasione della Francia era stata fissata per il 1° luglio 1815, decise di attaccare d’anticipo cercando di impedire il congiungimento delle forze prussiane con quelle inglesi.

Impostò uno schema strategico di battaglia detto “della posizione centrale”, adottato con successo altre volte. In pratica, una consistente forza francese al comando del generale Grouchy avrebbe dovuto impegnare l’insieme dei prussiani di Blücher, bloccarli nei pressi di Ligny, sconfiggerli con determinazione ed impedire ai superstiti di congiungersi con gli inglesi. Un’altra offensiva francese al comando di Ney avrebbe dovuto attaccare gli inglesi nei pressi del bivio di Quatre-Bras, strategico per i collegamenti verso Bruxelles, mentre la Vecchia Guardia sarebbe stata capace di intervenire su uno o entrambi i fronti secondo la bisogna per l’attacco finale. La sera avrebbero dormito a Bruxelles.

Molte furono, su entrambi fronti, le errate valutazioni, le approssimazioni e i gravi errori di comando, soprattutto dei generali francesi, che alla fine, complice anche il maltempo, determinarono la sconfitta di Napoleone.

A Ligny, vista la pessima disposizione in campo dei prussiani, Napoleone modificò lo schieramento francese e la battaglia poté iniziare solo nel primo pomeriggio; questa si concluse con un successo di Grouchy, che però non seppe sfruttare a fondo, causa anche dell’oscurità e della pioggia sopraggiunta. Non solo non inseguì i prussiani, con Blücher pure ferito, ma addirittura ne perse il contatto sperdendosi nelle campagne in direzione opposta. Questi ne approfittò: lasciata una minima forza come retroguardia per fermare eventualmente Grouchy, si diresse a Wavre, secondo gli accordi con Welligton, comandante generale della Coalizione, per poi confluire su Waterloo.

A Quatre-Bras il generale Rebecque, capo dello stato maggiore del principe d’Orange e responsabile di quell’area, osservati i movimenti francesi e intuita la manovra, mandò dispacci a Wellington, che sottovalutò, anzi non prese alcuna decisione e la sera partecipò al gran ballo della duchessa di Richmond. Rebecque, non ottenendo risposta dal comando, ben valutando il pericolo, disubbidendo agli ordini precedentemente ricevuti di spostarsi con le truppe altrove, decise di fermare l’avanzata francese. La battaglia fu molto concitata, confusa, con continui arrivi di truppe su entrambi i fronti per dar manforte ai combattenti e si concluse, anche per il sopraggiungere della notizia dell’esito della battaglia di Ligny, con la presa del quadrivio da parte francese e il ripiegamento del sopraggiunto Wellington.

Ma, conclusi i combattimenti, inspiegabilmente Ney diede l’ordine di ripiegare indietro di quattro chilometri e il quadrivio fu lasciato sguarnito.

Il 17 giugno le forze dei due eserciti si disposero per la battaglia decisiva.

Il 18 la retroguardia di Blücher, uno dei comandanti della quale fu Von Clausewitz che per questo non poté partecipare a Waterloo, ingaggiò battaglia a Wavre con le forze di Grouchy, che nel frattempo aveva ripreso contatto con i prussiani, mentre alle prime luci dell’alba il grosso prussiano diresse da Wavre sul teatro di guerra principale per attaccare sul fianco destro i francesi.

Lo schieramento inglese e dei suoi alleati, forte di 96 mila uomini, si snodava sulle alture del Monte St. Jean (a Waterloo c’era solo il comando generale e non si svolse alcun combattimento). Visto lo schieramento francese, composto di 72 mila effettivi, ed il suo poco sicuro, Wellington decise di modificarlo mentre Napoleone completava il suo con difficoltà a causa della forte pioggia caduta nella notte che ostacolava le manovre della fanteria e vanificava l’effetto delle palle di cannone che affondavano nel fango al primo rimbalzo.

Dai dettagliatissimi resoconti da entrambe le parti degli avvenimenti abbiamo tratto una breve cronaca della giornata che qui riassumiamo ulteriormente rimandando i lettori alla nostra rivista: “Comunismo”.

Il piano di Napoleone prevedeva un attacco diversivo contro la fattoria fortificata di Hougoumont, condotto dal fratello Gerolamo, allo scopo di impegnare e creare disturbo all’ala destra nemica, mentre i suoi reparti migliori dovevano attaccare il centro, conquistare il monte St. Jean e dirigersi quindi a Bruxelles. Dell’arrivo di Blücher non c’era da preoccuparsi perché c’era Grouchy al suo inseguimento e i prussiani si sarebbero trovati tra lui e la Vecchia Guardia. Sconfitti gli anglo-prussiani, del resto della Coalizione, ancora in fase di concentramento, se ne sarebbe occupato poi.

Tutto iniziò alle 11,35. Non andò affatto come previsto perché gli scontri per il controllo della fattoria di Hougoumont, durati tutta la giornata, si rivelarono una voragine che inghiottiva senza alcun risultato concreto sempre più forze francesi, che non poterono quindi partecipare alla manovra principale. L’attacco centrale, condotto con più ondate di assalti fra cavalleria e fanteria, fu neutralizzato dai precisi fucilieri inglesi e sbaragliato dalla cavalleria inglese al contrattacco. Gli scontri si protrassero con alterne fortune per tutto il pomeriggio quando arrivarono le prime avanguardie prussiane che si cercò di contrastare distogliendo reparti dal centro, visto che Grouchy non stava affatto inseguendo i prussiani. Le forze francesi si trovarono impegnate contemporaneamente su tre fronti molto vicini tra loro. Attacchi e contrattacchi, presa di obbiettivi e loro successiva perdita si susseguirono fino ai primi sbandamenti francesi quando rimase solo la Vecchia Guardia come ultima difesa di Napoleone, la quale si sacrificò per permettere la fuga dal campo di battaglia del grande generale.

Morirono 25 mila francesi, 22 mila inglesi e 7 mila prussiani; 7 mila furono i prigionieri francesi.

A Wavre Grouchy ottenne un’inutile vittoria mentre erano giunte le notizie dell’esito di Waterloo. Il mattino seguente entrambi gli schieramenti ripiegarono verso le proprie retrovie.
 

LA CADUTA DEL SAGGIO DEL PROFITTO

Nella riunione si è ripreso il corso espositivo di un argomento cruciale del Terzo Libro de Il Capitale, per mettere a fuoco quello che per la nostra dottrina è il motore ultimo, e nascosto alle teorie economiche borghesi, degli scorsi quasi dieci anni di crisi ininterrotte. Senza voler nulla inventare o riaggiornare, seguendo il filo teorico esposto nelle pagine della Terza Sezione, abbiamo riproposto i fondamenti teorici della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Prima di entrare nel merito della Legge, sono stati riproposti alcuni concetti definiti, sempre dal Terzo Libro, nella Prima Sezione, cioè il rapporto esistente tra il Profitto del capitalista e il Plusvalore prodotto. Il Profitto costituisce, dal punto di vista del capitalista, aumento non solo della parte di Capitale anticipato come Salari, che concorre al processo di valorizzazione, ma anche della parte Capitale Costante, che non vi concorre. Così, in questa forma di prodotto del Capitale complessivo anticipato, il Plusvalore assume la mutata forma di Profitto. Dal momento che per l’economia borghese sparisce ogni differenza fra Capitale Costante e Capitale Variabile nella formazione del Prezzo di Costo, la variazione di valore che si verifica durante il processo di produzione non appare più per il capitalista come derivante dalla parte variabile di capitale bensì attinente tutto il capitale nel suo complesso.

Il Plusvalore – e quindi la sua controparte capitalistica, il Profitto – consiste nell’eccedenza del Valore di produzione sul Prezzo di costo, ovvero nell’eccedenza della somma complessiva di lavoro incorporato nella merce rispetto alla quantità di lavoro pagato.

Il Plusvalore diviso il Capitale Variabile si definisce Saggio del Plusvalore; il rapporto fra il Plusvalore e il Capitale complessivo si definisce Saggio del Profitto. Le due relazioni pur trattando la stessa grandezza esprimono relazioni diverse.

Di tutti i fattori che influenzano il Saggio del Profitto, fluttuazione dei prezzi delle materie prime, ecc., alla riunione di partito è stato dato un breve cenno al particolare meccanismo della rotazione del capitale, descritto ed analizzato nel Secondo Libro: per effetto dell’intervallo di tempo indispensabile per la rotazione dell’intero capitale questo non può essere tutto contemporaneamente impiegato nella produzione e quindi una sua parte si trova permanentemente di riposo, o nella forma di capitale monetario, di materie prime in magazzino, di capitale merce pronto ma non ancora venduto, oppure come titoli di credito non ancora scaduti.

Il capitale operante nella produzione e appropriazione del Plusvalore viene diminuito di questa parte, e nella stessa proporzione viene ridotto il Plusvalore prodotto e acquisito. Quanto è più breve il tempo di rotazione, tanto minore è questa quota inoperosa del capitale, e analogamente tanto maggiore il Plusvalore, restando invariate le altre circostanze.

Storicamente poi il Saggio del Profitto si trasforma, o meglio, si stabilizza alla scala sociale in Saggio Medio del Profitto.

Stabilite queste caratteristiche basilari contenute nel concetto marxista di Profitto, è stata affrontata l’esposizione della Terza Sezione.

La tendenza alla caduta del Saggio del Profitto non è una scoperta di Marx, ma una preoccupata quanto inspiegata constatazione degli economisti, in particolar modo Ricardo. Nella Terza Sezione ne viene svelata l’origine razionale e scientifica. La legge esprime il fatto che di una data quantità di capitale, c’è storicamente un aumento continuo della sua parte investita in mezzi di lavoro, e una diminuzione di quella spesa in lavoro vivo. Poiché in proporzione diminuisce la massa del lavoro vivo, operante su accresciuti ma sterili mezzi di produzione, diminuisce del pari anche il lavoro non pagato, e la parte di valore che lo rappresenta, in rapporto al valore del capitale complessivo. In altri termini, una parte in proporzione sempre più piccola del capitale complessivo si converte in salari. La diminuzione del capitale variabile e, proporzionalmente, l’aumento del capitale costante, anche se in senso assoluto entrambi crescono, è solo una diversa espressione dell’aumentata produttività del lavoro.

L’aumento della produttività del lavoro sociale, vertiginoso nel modo capitalistico di produzione, determina quindi la tendenza alla diminuzione progressiva del Saggio del Profitto. Questo sebbene l’incremento costante della massa assoluta del Plusvalore, ovvero del Profitto: alla relativa diminuzione del Capitale Variabile e del Profitto sul Capitale totale corrisponde, nella media storica, un aumento della massa di entrambi. Questo effetto doppio può essere spiegato soltanto dal fatto che la massa del Capitale nel suo complesso tende ad aumentare in modo più rapido di quanto cresca la Produttività del lavoro.

Quindi la teoria insegna e l’esperienza conferma che, storicamente,
– crescono: il numero degli operai e delle ore lavorate, il capitale speso in salari, il plusvalore, il saggio del plusvalore;
– crescono ancor più velocemente: il capitale speso in materie prime e impianti, il capitale complessivo;
– diminuisce: il saggio del profitto.

La tendenza espressa nella legge ha ovviamente anche processi e eventi antagonistici, tali cioè da frenarla o rovesciarla: dall’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, alla diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante, al commercio estero che fa diminuire di prezzo sia gli elementi del capitale costante sia i mezzi di sussistenza necessari nei quali si converte il capitale variabile, fattori tutti che tendono ad accrescere il saggio del plusvalore o a diminuire il valore del capitale costante.

Questi fattori possono esercitarsi, ovvero si rendono utilizzabili solo attraverso un ampliamento della scala della produzione. L’ampliamento del commercio estero che fu un presupposto del capitalismo nella sua infanzia, ne diventa un prodotto per il suo bisogno di un mercato sempre più esteso.

Un processo di particolare importanza è inoltre dato dall’aumento del capitale azionario.

Caduta del saggio di profitto e accelerazione dell’accumulazione sono aspetti diversi di uno stesso processo, ambedue esprimono lo sviluppo della forza produttiva del lavoro. L’accumulazione accelera la caduta del saggio di profitto e questa diminuzione impone a sua volta la concentrazione e la centralizzazione del capitale.

Per altro il processo non può compensarsi all’infinito tanto che la caduta del saggio del profitto appare una minaccia immanente, che finisce per rallentare la formazione di nuovi capitali, favorire la sovrapproduzione, la speculazione, la crisi. Gli economisti borghesi temono come male assoluto questo fenomeno, che pure rilevano negli indici economici.

La produzione di plusvalore è il motore della produzione capitalistica, ne costituisce il motivo immediato e definitivo; l’accumulazione del plusvalore costituisce il processo di produzione.

Ma questo è solo il primo atto del processo: il secondo è rappresentato dalla vendita del prodotto complessivo. Sono le condizioni di questa vendita che assicurano il profitto al capitalista. Produzione e realizzazione differiscono dal punto di vista del tempo, del luogo e della sostanza. Al termine della catena sta la capacità di consumo “solvibile” della società.

Il mercato sul quale le merci realizzano il proprio valore deve essere costantemente ampliato, quindi i rapporti e le condizioni che lo regolano assumono sempre più l’apparenza di una legge naturale indipendente dai produttori. La contraddizione cerca una compensazione mediante l’allargamento del campo estero dello smercio.

Con lo sviluppo del modo capitalistico di produzione diminuisce il saggio del profitto mentre la sua massa aumenta, insieme alla massa del capitale messo in opera.

La massa assoluta secondo cui il capitale cresce dipende quindi dalla sua grandezza esistente. Se questa grandezza è data allora la proporzione secondo cui il capitale cresce, cioè il saggio del suo incremento, dipende dal saggio del profitto.

L’aumento della forza produttiva del lavoro può accrescere la dimensione del capitale solo se, alzando il saggio del profitto, aumenta la parte di profitto annuo che deve essere riconvertita in capitale. Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro aumenta il valore del capitale, accrescendo la massa e la varietà dei valori d’uso che corrispondono ad un medesimo valore di scambio e che formano gli elementi concreti del capitale: con lo stesso capitale ed il medesimo lavoro viene creata una maggiore quantità di beni che possono – e devono – essere riconvertiti in capitale.

Questi due momenti del processo di accumulazione contengono una contraddizione che si manifesta in tendenze e fenomeni contrastanti, e agiscono nello stesso tempo l’uno contro l’altro. Insieme alla caduta del saggio del profitto cresce la massa dei capitali. Al tempo stesso si verifica una diminuzione di valore del capitale esistente che tende a frenare questa caduta ed accelera l’accumulazione.

Periodicamente il conflitto fra le forze contrastanti erompe in crisi, che sono sempre soltanto temporanee soluzioni delle contraddizioni esistenti, violenti sismi che ristabiliscono momentaneamente l’equilibrio.

La produzione capitalistica comporta la tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore che tale sviluppo consente. Nello stesso tempo questa stessa produzione capitalistica ha come scopo ultimo la conservazione del valore capitale esistente e di accrescimento quanto più rapido possibile di questo valore, e considera il valore capitale esistente soltanto un mezzo per il massimo aumento possibile di questo stesso valore.

Per ottenere questo scopo utilizza tutti i metodi, compresi la diminuzione del saggio del profitto, il deprezzamento del capitale esistente, lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a spese delle forze produttive già realizzate.

In altre parole il periodico deprezzamento del capitale esistente, che è un mezzo intrinseco del modo capitalistico di produzione per arrestare la diminuzione del saggio del profitto e di accelerare l’accumulazione del valore capitale mediante la formazione del nuovo capitale, turba le condizioni in cui normalmente si compie il processo di circolazione e di riproduzione del capitale e provoca di conseguenza degli arresti improvvisi e delle crisi del processo di produzione.

La produzione capitalistica tende continuamente a superare i suoi limiti contingenti, ma riesce a superarli soltanto con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti, però su scala nuova e più alta.

Il processo porta altre due conseguenze: aumento del minimo di capitale necessario per la messa in opera produttiva del lavoro e concentrazione dei capitali perché ad un certo punto un capitale con un basso saggio del profitto accumula più rapidamente di un capitale piccolo con un elevato saggio di profitto.

Questa contraddizione crescente, raggiunta una certa massa critica, producendo una nuova diminuzione del saggio di profitto, porta la massa dei piccoli capitali sulla strada della speculazione, degli imbrogli creditizi ed azionari, della crisi. Questi capitali, incapaci di operare per proprio conto, si mettono a disposizione, sotto forma di credito, delle grandi imprese. Il fenomeno si caratterizza allora come sovrapproduzione di capitale, anche se non di merci individuali e indica semplicemente una sovra-accumulazione di capitale.

Una parte di capitale rimane quindi inattiva mentre l’altra, per la pressione del capitale inattivo, si valorizza ad un saggio di profitto ridotto. La presenza di due porzioni di capitale in condizioni contraddittorie non potrebbe aver luogo senza conflitti; è la concorrenza che decide quali aliquote debbano essere condannate all’inoperosità. L’antagonismo si appiana solo in un modo, con la distruzione di capitale per un ammontare corrispondente al capitale inattivo, distruzione che si ripartisce in modo non proporzionale sull’intera massa dei capitali esistenti.

Ma la distruzione principale avverrebbe per i valori-capitale, cioè la parte che rappresenta l’anticipo su un’aliquota del valore futuro: obbligazioni sulla produzione sotto forme diverse, che si troverebbero subito deprezzate, in seguito alla caduta dei redditi sulla cui base sono calcolate.

Il ristagno e questa disgregazione paralizzano la funzione del denaro come mezzo di pagamento, spezzando in punti diversi la catena dei pagamenti che scadono a date fisse, provocando di conseguenza il collasso del sistema creditizio che si è sviluppato contemporaneamente al capitale.

In effetti ciò che questa sovrapproduzione nasconde è la sovrapproduzione assoluta di mezzi di produzione, che operano come capitale e nel ciclo produttivo in funzione del valore accresciuto che deriva dall’aumento della loro massa.

Vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza perché possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento ad un determinato saggio del profitto. Sono prodotte troppe merci perché il valore ed il plusvalore che esse contengono possa essere realizzato e riconvertito in nuovo capitale.

Non viene prodotta troppa ricchezza ma, periodicamente viene prodotta troppa ricchezza nelle sue forme capitalistiche, che sono governate da un carattere antitetico.

L’enorme sviluppo delle forze produttive in relazione alla popolazione e l’aumento ancora più spropositato dei titoli di credito che si accrescono molto più rapidamente della popolazione, si trovano in contrasto tanto con la base su cui opera questa immane forza produttiva, tanto con l’accrescimento della ricchezza che diviene sempre più soffocante, e con le condizioni di valorizzazione di questo capitale crescente.

Da questo contrasto hanno origine le crisi.
 

ORIGINI DEL PARTITO COMUNISTA CINESE

Un inquadramento storico, tratto dai lavori del partito, ci conduce alla comprensione di come la rivoluzione industriale borghese si è affermata in Cina nel contesto di guerre coloniali, le “guerre dell’oppio”. Il Celeste Impero, perde le guerre con le potenze occidentali, si frantuma, si disgrega. Si rompe definitivamente il meccanismo a ripetere delle rivolte contadine e redistribuzione delle terre, che aveva creato quella stabilità millenaria attraverso le varie dinastie.

All’inizio del ‘900 nascono i nuovi rapporti di produzione. Prima la rivolta dei Tai Ping poi quella dei Boxer preconizzano la caduta dell’Impero e la riunificazione della Cina in un unico Stato.

Tutti gli imperialismi d’occidente cercano in Cina la soluzione alla propria crisi e contraddizioni, con l’impianto di industrie ad altissimo tasso di sfruttamento. Si forma un piccolo ma concentrato proletariato dentro e intorno alle zone di influenza imperialista, le ferrovie, i porti.

Nel 1911 un tentativo di rivoluzione politica borghese, guidata inizialmente da Sun Yat-sen, subito decade in poteri di cricche, diffusi sul territorio, tenuti insieme in modo effimero da Yuan Shi Kai, ex generale dell’esercito Manciu’ del sud. La borghesia cinese, legata agli interessi imperialisti, non ha né la forza né il coraggio di affermarsi come Stato nazionale.

La più alta espressione rivoluzionaria borghese in un movimento tendenzialmente nazionale e nazionalista è del 1919, il movimento del 4 Maggio, che scaturisce dalle illusioni, e quindi dalle delusioni, di contare qualche cosa al Congresso di Versailles, consesso dei briganti per la spartizione del bottino dopo la Prima Guerra mondiale.

Tutto il periodo che va da dopo il movimento del 4 Maggio fino a tutto il 1927 sarà all’insegna delle lotte operaie e proletarie.

Il PCC si formerà sotto la spinta delle più pure determinazioni materiali: il sorgere di nuovi rapporti di classe, la nascita del proletariato e della sua lotta, la vittoria della dittatura proletaria in Russia, l’inizio del ciclo rivoluzionario comunista in tutto il mondo.

Lenin nel 1912 scriveva: «Il proletariato si svilupperà. Esso, organizzerà probabilmente un partito operaio socialdemocratico cinese, il quale pur criticando le utopie piccolo borghesi e le idee reazionarie del programma politico ed agrario di Sun Yat-sen, sceglierà sicuramente con cura, conserverà e svilupperà il suo nucleo rivoluzionario democratico».

Si poneva quella che il marxismo ha definito “rivoluzione in permanenza”, accollarsi anche la realizzazione del programma rivoluzionario democratico da parte dell’avanguardia del proletariato, il Partito Comunista. Da qui sul piano tattico derivava l’appoggio, da allargare fino a temporanea alleanza con il movimento nazionale democratico rivoluzionario, come sostengono le tesi del secondo congresso dell’IC.

Infatti, le tesi del 1920 dell’IC danno una spinta decisiva alla formazione del PCC che, in via di formazione, avrà il suo primo congresso nel luglio 1921. Dal 1920 si formarono in quattro-cinque città gruppi di comunisti. L’IC interviene in un’opera di aiuto e coordinamento delle forze pur limitate enucleatesi.

Il Kuomintang (KMD) invece, espressione ideologica del populismo alla cinese ispirato da Sun Yat-sen, è un partito politico e movimento rivoluzionario democratico che già era organizzato da prima del 1911 ed aveva una certa influenza sulle “masse popolari”, anche se esclusivamente nella provincia del Guang Dong.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Un secolo di disinfestazione dal menscevismo
 

Prima vittoria del marxismo in Russia

In precedenza alla formazione del partito, la classe operaia russa aveva condotto scioperi che dopo il 1890 esprimevano la necessità di una coscienza più matura. Dal risveglio spontaneo della classe e dalla presenza di una gioventù rivoluzionaria socialdemocratica, nacque il partito bolscevico, “il meno opportunista della Seconda Internazionale”. Come corrente di pensiero e come partito politico esiste dal 1898. Ma già nel 1903 sfocia in due partiti: il menscevico e il bolscevico.

La sua elaborazione viene facilitata da una teoria rivoluzionaria giusta e univoca. Ma anche dall’esperienza dei brancolamenti, dai tentennamenti, dagli errori e dalle delusioni del pensiero rivoluzionario in Russia.

Il pensiero d’avanguardia dal 1840 al 1900 aveva cercato avidamente una teoria rivoluzionaria e seguiva con attenzione e accuratezza sorprendente ogni ultima parola dell’Europa e dell’America in questo campo. La Russia in verità è pervenuta al marxismo come all’ultima teoria rivoluzionaria giusta, attraverso il travaglio di mezzo secolo di una storia di tormenti e di sacrifici inauditi, di instancabili ricerche, studi, esperimenti, di applicazioni pratiche, delusioni, verifiche, confronti con le altre esperienze dell’Europa. Nella seconda metà del secolo decimonono, dispose come nessun altro paese al mondo, di una grande ricchezza di legami internazionali, di una intima conoscenza delle forme e delle teorie mondiali del movimento rivoluzionario. Nell’ultimo decennio del secolo XIX il socialismo premarxista è battuto.
 

La lotta al socialismo premarxista continua

Il socialismo premarxista continua la lotta non più sul suo proprio terreno, ma su quello generale del marxismo, come revisionismo. L’ex marxista Bernstein ha dato il suo nome a questa corrente, poiché ha fatto maggior rumore e formulato nel modo più completo le correzioni da apportare a Marx. “Il fine è nulla il movimento è tutto”, queste parole alate di Bernstein esprimono al meglio l’essenza del revisionismo.

Durante la formazione del partito in Russia, negli anni 1900-1903, Plechanov chiedeva l’espulsione di Bernstein. Nulla di strano che in Russia l’opportunismo fosse più debole che in Germania e ancora più che in Francia e in Italia. Lo dimostra anche la lotta sostenuta nella questione organizzativa, contro l’errore di Martov e Akselrod nel formulare il primo paragrafo dello statuto del partito, dando a qualsiasi professore, a qualsiasi studente di liceo e a ogni scioperante la possibilità di dichiararsi membri del partito, confondendo l’avanguardia con tutta la classe.

Oggi partiti di “cittadini e movimenti” sono diventati di attualità, per esempio in Italia col nuovo Partito Democratico, che si caratterizza e vanta della sua mancanza di programma.

La lotta dei bolscevichi s’inserì nella lotta ideologica del marxismo rivoluzionario contro il revisionismo della fine del secolo XIX, preludio di grandi battaglie all’interno dei partiti socialisti del proletariato d’occidente, che andava atteggiandosi in posizioni di offensiva sociale. L’esperienza del 1905 rafforzò nel partito russo la coscienza politica, nei militanti e nei capi, e nelle masse le tecniche della lotta operaia e la natura dei diversi partiti. Senza la “prova generale” del 1905 non sarebbe stata possibile la vittoria della rivoluzione dell’Ottobre 1917.

L’opportunismo è mancanza di precisione, di chiarezza. Per questo è inafferrabile. I comunisti russi vinsero perché smascherarono e scacciarono spietatamente tutti i fautori di frasi rivoluzionarie. Questa lotta si sviluppò contro l’opportunismo dei socialisti rivoluzionari, non-marxisti, e dei menscevichi, pseudo-marxisti. Una lotta che continuò, e più avrebbe dovuto, anche dopo la conquista del potere.

In Russia, nel 1903 e nel 1905, la storia si è permessa uno scherzo: ha costretto gli opportunisti di un paese arretrato ad anticipare gli opportunisti dei paesi avanzati; e i comunisti a combatterli e, separatisi nettamente da essi, a vincerli. Dal 1898 al 1903, dal 1905 al 1908, dal 1914 al 1918 sono le altre tappe intermedie fino al 1921.
 

Come si difende il partito ?

Il 1921, l’anno della NEP, può essere considerato il vertice della lunga lotta, prima della inesorabile discesa che tutt’ora perdura.

Con la NEP la rivoluzione, politicamente vincitrice, continua la sua opera per via economica riformista, in attesa che si sviluppi nella Russia arretrata quella produttività e socialità del lavoro fondamento e condizione del socialismo.

Infatti, prospettandosi la necessità di una lunga dittatura del partito comunista incorrotto, rimasto unico nostro caposaldo di forza e garanzia, Lenin interviene di nuovo sulla necessità dell’allontanamento degli intrusi dal partito e rammenta che più di una volta il partito ha proceduto alla revisione dei suoi membri per lasciarvi soltanto i membri pienamente devoti al comunismo. «Abbiamo utilizzato la mobilitazione per il fronte e i sabati comunisti per epurare il partito da coloro che vogliono unicamente approfittare dei vantaggi che offre la posizione di membro di un partito che è al potere, da coloro che non vogliono sobbarcarsi il fardello di un lavoro pieno di abnegazione in favore del comunismo». «I menscevichi s’insinuano nel partito comunista di Russia non solo per machiavellismo, nel quale hanno dimostrato di essere maestri, quanto per la propria “adattabilità”. L’opportunista di distingue per la sua adattabilità e i menscevichi, come opportunisti, si adattano, per così dire, “per principio”, alla corrente dominante fra gli operai, si mimetizzano».

Pochi anni dopo, il menscevico Viscinsky, riuscito a rimanere nel partito nonostante Lenin, istruirà i processi che stermineranno le falangi bolsceviche.

Quindi: quale il raffronto fra questa lotta all’opportunismo che anche noi, corrente di Sinistra nel PSI, avevamo condotta nei partiti della Seconda Internazionale, e il centralismo organico che già allora preconizzavamo per la Terza ? Nei partiti della Internazionale, non federazione ma vero unico partito comunista mondiale, come in compiuto embrione è il nostro, è possibile addivenire ad una forma più coerente di vita ed evoluzione della sua compagine militante, a cui abbiamo dato la qualificazione di organica. Nel partito comunista sano e maturo, lo inevitabile e necessario continuo ricambio cellulare al suo interno si svolge senza traumi e senza “perdita di informazione”, nella continuità e salute dell’organismo completo. L’operazione diviene naturale conseguenza del corretto e pieno svolgimento collettivo, in positivo, delle sue funzioni, e nell’affermazione pratica di rapporti fra militanti orgogliosamente e felicemente improntati a moduli di relazione post-borghesi. Nel partito che all’interno di questa società morente rappresenta e si batte per il comunismo, il reclutamento di nuove forze o l’allontanarsi di quelle ormai logorate non si attua quindi più tramite “decisioni” particolari, in un faticoso innesto di rami di diversa origine o in dolorose amputazioni.
 

Dopo il 1921

Tutta l’opera di Lenin per potenziare la dittatura del proletariato mentre si lasciava che si formassero in Russia le basi produttive del socialismo, viene poi capovolta.

La Terza Internazionale varava al congresso del 1921 la tattica del Fronte Unico e della conquista della “maggioranza” della classe operaia, dando nuovo credito ai partiti dell’opportunismo, appannando nella coscienza della classe la loro opposizione al comunismo.

Mentre si edifica il suo mausoleo, si vara la campagna di reclutamento detta “leva di Lenin”, che sommerge la vecchia guardia di nuovi venuti d’ogni genere. Così da un lato si indeboliva la sola faccia, politica, del comunismo in Russia, dall’altro, nei dibattiti che seguirono, la vecchia guardia inutilmente si opponeva alla “realizzazione” del “socialismo integrale” nella sola Russia, che in realtà, nel campo economico, verrà a significare un cedimento al programma sotto-borghese dei contadini e alle carestie degli anni Trenta.

Ciononostante nel 1936 la Russia dichiara, in nome del “socialismo scientifico”, di avere realizzato il socialismo, ma il rapporto sociale è ancora, e non ovunque ancora, la produzione mercantile.

I fondamenti ideologici del socialismo premarxista, di Proudhon, Gramsci, ecc. continuano ad ispirare la prima palese vittoria controrivoluzionaria in Russia. Segue la Seconda Guerra mondiale, lo scioglimento della Terza Internazionale, la sconfitta della rivoluzione cinese.

Col rifluire dell’onda rivoluzionaria, la piccola borghesia, che si era momentaneamente sottomessa alla causa proletaria, torna ad accodarsi al ristabilito potere grande borghese, portandosi dietro settori proletari. In ciò la tragedia della Terza Internazionale, la risonanza internazionale della controrivoluzione staliniana, la salvezza del capitalismo.
 

Inizio del secolo ventunesimo

A cavallo dei secoli XX e XXI il vacuo socialismo premarxista riappare non più come revisione del marxismo ma palesemente anti-marxista. Comunismo, socialismo, cattolicesimo perdono ogni confine e connotazione. Riappare la tendenza, come nel congresso socialdemocratico del 1903 in Russia, ad un partito senza tessere, anti-comunista e anti-socialista, simile a quello teorizzato alla fondazione del partito fascista nel marzo del 1919. Il dettame oggi di una masnada di partiti è beffarsi di etichette e di definizioni ideologiche. Come i fascisti non sono né socialisti né antisocialisti, e, a seconda della opportunità, decidono di marciare sul terreno della collaborazione di classe, della lotta di classe, della sottomissione di classe, della espropriazione di classe. Sono, come il fascismo, “problemisti”, degli antipartito senza principi fissi. Hanno per sola norma l’azione del momento, come Bernstein: il fine è nulla, il movimento è tutto. Principi, fini, soluzioni generali della lotta sociale, non s’enunciano né si deve.

Quando al coro si aggiunge un qualunque Grillo parlante, loro, immersi nello stesso sudiciume, l’accusano di populismo, qualunquismo, di “antipartitismo”.

Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra, fino a che ci saranno classi. Oltre che con la forza delle armi, la dittatura capitalistica si regge con l’inganno e la menzogna, un nauseante oscurantismo mascherato dalla complicità dei partiti degli anti-partito.

Riconoscere l’esistenza delle classi, senza ammettere che la lotta della classe operaia può storicamente ambire alla presa del potere politico, alla sua dittatura di classe, significa voler perpetuare il capitalismo e la schiavitù del lavoro salariato. Chi si accontenta di riconoscere la lotta delle classi, scoperta non da Marx ma da borghesi prima di lui, non è ancora un comunista, non esce dai limiti del pensiero e della politica borghese. Accettano solo alcune delle forme degli Stati borghesi, straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica, inesorabilmente, la dittatura della borghesia.

La dittatura borghese in forma democratica si è dimostrata la più efficiente per l’inganno del proletariato, riuscendo ad utilizzare i partiti dell’anti-marxismo di tutte le sfumature, dai partiti staliniani ai cristiani e fino, oggi, a quelli dei vari “arcobaleni”, uno articolato schieramento a difesa del rapporto sociale capitalistico, una casta sacerdotale stipendiata per mantenere la rassegnazione nell’animo degli oppressi, pronta a far fronte ai fremiti di rivolta causati dal disagio sociale.

Il passaggio dal capitalismo al comunismo, naturalmente, non può non produrre un’enorme abbondanza e varietà di forme politiche, ma la sostanza sarà inevitabilmente una sola: la dittatura del proletariato, diretta dal suo partito, da tutte le parti rinnegato.