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"Il Partito Comunista"   n° 349 - settembre-ottobre 2011 [.pdf]
PAGINA 1 Il confronto inter-imperialista in Libia.
Grecia in sciopero contro il capitale che è greco, ed europeo e mondiale: La reazione dei lavoratori - L’aperto tradimento del PAME - Per la rinascita del sindacato di classe, per il rafforzamento del partito comunista rivoluzionario.
– Roma, 15 ottobre: Cucinata la sconfitta.
PAGINA 2-3 Riunione di partito a Torino - 24 e 25 settembre [RG111]: Corso del capitalismo - Contesto storico della Siria - La questione militare - Movimento operaio in Usa - Attività sindacale - Economia marxista - Democrazia e movimento operaio in Italia.
PAGINA 4 Debiti pubblici - profitti privati: Il proletariato è schiavizzato dal rapporto di lavoro salariato, non dal “peso del debito”.
Che paghino o non paghino i loro debiti il padronato e tutti gli Stati muovono all’attacco delle condizioni della classe operaia.
Completata la riproduzione di Prometeo: Recuperati i 53 numeri mancanti, fino all’aprile 1938.
PAGINA 5 6 settembre: Contro le manovre del governo e l’accordo del 28 giugno - Per la difesa intransigente della classe lavoratrice - Rinasca il sindacato di classe.
21 ottobre, sciopero Fiat-Fincantieri: La lotta per il lavoro non basta a difendere la classe operaia - Unire le lotte per conquistare il salario a tutti i licenziati e la riduzione dell’orario.
Lear: chiusi nella galera capitalista.
PAGINA 6 Gran Bretagna: Sciopero generale dei lavoratori del pubblico contro i tagli alle pensioni.
U.S.A. - Verizon: 14 giorni di sciopero traditi dai sindacati.

 
 
 

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Il confronto inter-imperialista in Libia

A Tripoli, nei primi giorni di settembre, con la sfilata dei cavalieri berberi nella rinominata “Piazza dei Martiri”, gli stessi sempre esibiti dal rais nelle parate militari, si è celebrata la faticosa conquista della città, la sconfitta del regime e certificata sul campo la vittoria del poliedrico CNT.

La cessazione dei combattimenti è però avvenuta più di un mese dopo con la conquista delle ultime sacche di resistenza a Bani Walid e a Sirte, e soprattutto con la cercata uccisione di Gheddafi, eliminato per non dovergli concedere la parola in un tribunale ove racconterebbe dei molti scabrosi retroscena internazionali dell’affare Libia, che qui non approfondiamo.

Non è chiaro neppure agli esperti di strategia militare che tipo di guerra sia stata; si parla di un nuovo tipo, che necessitava di nuove relazioni fra Stati, nuovi apparati di comando, nuove reti di collegamento, ecc.

Non è stata una guerra dichiarata fra Stati, nonostante il discreto numero dei partecipanti. Nemmeno una sommossa popolare suscitata dal forte impoverimento della popolazione, come nei vicini paesi della sponda sud del Mediterraneo, perché la Libia è relativamente ricca e meta di immigrazione di forza lavoro a basso costo sia dai paesi limitrofi sia asiatici. La crisi c’era ma non così profonda da generare una simile rivolta armata.

Diversi i rapporti di forza e gli scontri sociali nei paesi del Magreb, che hanno prodotto diverse soluzioni: il dittatore tunisino Ben Alì è fuggito dopo i primi violenti scontri, anche lui col suo carico d’oro; Mubarak ha invece reagito con mano pesante alle estese dimostrazioni al Cairo, ma poi è stato costretto a sacrificarsi per evitare che le classi oppresse e il proletariato egiziano potessero estendere i loro scioperi, ed eventualmente costituire un’organizzazione autonoma, che si sarebbe dovuta confrontare poi con le formazioni politico-religiose preesistenti. In entrambi i casi le classi dominanti borghesi sono riuscite, “cambiando tutto per non cambiare niente”, a riprendere, per il momento, il controllo della situazione. In quelle lotte di classe abbiamo denunciato, secondo la nostra posizione comunista, la mancanza di genuine organizzazioni proletarie valide e pronte a prendere la direzione del movimento; anche lì la nostra classe veniva coinvolta e usata per obiettivi ultimi non suoi, anche se nulla è ancora definitivamente compiuto.

Mentre in Egitto non ci sono stati interventi armati stranieri, in Libia sono partiti immediatamente i bombardamenti dagli aerei francesi. La situazione libica ha più affinità con quella irakena e con la cacciata di Saddam Hussein che con le altre dei paesi vicini, nei quali non c’è stato uno sbarco di truppe e non si sono volute distruggere le precedenti strutture di polizia e governo. Non abbiamo assistito nemmeno ad una guerra civile tra opposti partiti politici, palesi o clandestini, di una certa rilevanza perché non ne esistevano e il CNT, nato per l’occasione, non ne ha le caratteristiche per la sua forte disomogeneità.

Il subitaneo riconoscimento da parte delle potenze europee coinvolte è stato deciso soprattutto per garantire la continuità nelle forniture di petrolio e la conferma degli accordi economici preesistenti.

Beché nessuna forza politica interna abbia chiesto un intervento militare in suo sostegno, questi “salvatori umanitari” dell’operazione “Odissea all’alba” sono arrivati in forze con uno sfoggio militare e tecnologico di assoluta avanguardia, evidentemente sproporzionato alle semplici dimensioni dei fatti. Ciascun “salvatore” aveva un proprio particolare obiettivo immediato, ma due erano comuni a tutti: il petrolio libico e, in particolare, arginare l’avanzata cinese nelle economie nordafricane, dato che Pechino è ostinatamente alla ricerca di fonti energetiche, materie prime e mercati per la sua impetuosa economia.

Dire che questo sfoggio di muscoli sia un’anticipazione di uno scontro militare inter-imperialista combattuto in quel paese in un prossimo futuro è oggi azzardato, ma un monito si. Non per nulla la Cina si è sempre dichiarata contraria all’intervento, non certo per solidarietà di paese “comunista” verso il proletariato libico, ma per proteggere i suoi lucrosi contratti.

Che tutto quell’immenso apparato militare sia stato montato solo per disfarsi del regime e del clan di Gheddafi non convince, mentre sembra credibile la ricostruzione, derivata da alcune rivelazioni poi confermate, secondo cui tutto sia stato preventivamente orchestrato con una iniziale regia francese.

Già il 21 ottobre 2010, Nouri Mesnari, l’uomo più fidato del colonnello, lo avrebbe tradito, con lo scopo di un cambio di regime e di un suo diretto tornaconto, magari istituzionale; infatti, rifugiatosi a Parigi, rivelava informazioni militari con tale profusione da essere ironicamente soprannominato Wikileak dai servizi francesi. Il 18 novembre a Bengasi agenti francesi al seguito di una missione commerciale incontravano il colonnello dell’aeronautica Abdallah Gerani pronto a disertare. Scoperto il tradimento del fido collaboratore, Gheddafi chiedeva alla Francia la consegna di Mesnari, che invece otteneva asilo politico e tutela. Il 23 dicembre venivano accolti a Parigi tre libici: Faraj Charrant, Fathi Bourkhris e Ali Mansouri, esponenti importanti del futuro gruppo dirigente della rivolta, e dopo Natale arrivavano a Bengasi i primi aiuti logistici e militari. Il piano della rivolta sarebbe stato pianificato a Parigi con l’aiuto di Mesnari mentre i servizi segreti libici scoprivano le intenzioni del colonnello Gerani e lo arrestavano il 22 gennaio 2011. Ai primi di febbraio sarebbero arrivati addestratori inglesi e americani all’uso di armi pesanti e lanciarazzi.

Il 17 di quel mese scoppia la rivolta in Cirenaica. Fa notizia, a conferma di questa ricostruzione, che altri membri del governo e vari ambasciatori si siano subito dimessi e allontanati dal rais come fosse già costituita una sorta di diplomazia e governo parallelo. Il resto nelle cronache dei giornali fino all’oggi.

Secondo i piani predisposti l’intervento doveva terminare il 27 giugno considerando una massiccia adesione della popolazione alla rivolta, la diserzione in massa dei militari e dei loro comandi e l’appoggio delle organizzazioni delle tribù nelle zone interne. Ma questo non è successo: pare che la maggior parte della popolazione sia stata a guardare, certamente perché non essendoci alle spalle una qualsiasi organizzazione politica di opposizione radicata nella popolazione tutto quanto è sceso dall’alto come le bombe. L’esercito dopo un iniziale sbandamento si è riorganizzato, ma ha dovuto cedere posizioni per l’impari rapporto di forze; nel deserto la vittoria sarebbe stata prossima ma non ancora completa. Questi errori di valutazione e i risultati incompleti hanno costretto la coalizione a prolungare l’oneroso impegno di altri 90 giorni fino al 27 settembre 2011.

Per quanto concerne l’incredibile sfoggio, su entrambi i fronti, di armi di nuova concezione e sistemi complessi possiamo ricordare che, dopo la fine dell’embargo imposto alla Libia dal 1986 al 2004, il rais si lancia in consistenti piani di ammodernamento e potenziamento del potenziale bellico, spinto anche dalla intenzione di diventare la figura egemone di un nordafrica federato sotto la sua ideale tutela. I fabbricanti d’armi di ogni dove, amici e non, lo assecondano, garantiti dalla consistente rendita petrolifera, cui si aggiungono quelli del “mercato parallelo”. In questo tipo di commercio, il divieto di vendita di armi ad un paese scomodo o “canaglia” suscita due reazioni: primo, si favorisce la concorrenza di altri paesi, secondo non si ha più esatta conoscenza dell’arsenale del nemico. Ma un conto è vendere armi leggere e munizionamento, in cui l’Italia ha un ruolo primario nel mondo, altro sono i sistemi d’arma sempre più complessi che necessitano di un continuo e ben informato “servizio post-vendita”, per la formazione del personale, le manutenzioni e i pezzi di ricambio, costosi e difficili da reperire nel mercato parallelo. Il blocco di tale servizio è sempre una forma di controllo e ricatto sul “cliente finale”.

La parte più consistente di questo mercato è sempre stata dell’Urss, ora della Russia, che solo nel 2010, con consegne per il 2011-2012, ha stipulato con la Libia un contratto per 1,8 miliardi di dollari per cacciabombardieri Flanker di ultima generazione, 80 complessi missilistici terra-aria; carri armati per 1,3 miliardi, cui si aggiungono altri mezzi pesanti forniti da alcuni paesi satellite per un totale di circa 4 miliardi. È spiegata quindi, almeno in parte, l’opposizione russa all’intervento Nato e ad un suo coinvolgimento nelle operazioni militari.

A una certa distanza come fornitori seguono la Francia, l’Italia, la Cina ed altri, per un totale di ben 28 paesi tra grandi e piccoli, con la vicina Malta che ha svolto il ruolo di paese terzo con cui triangolare molti di questi traffici.

I buoni affari del commercio d’armi italo-libico si sono sviluppati negli anni salendo a 15 milioni nel 2006 e ben 57 nel 2007. Col “Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato” firmato a Bengasi nel 2008 tra Berlusconi e Gheddafi si stipularono altri accordi che solo per la Finmeccanica hanno prodotto utili per 250-300 milioni e commesse future per 800 milioni. Una considerevole svolta nel commercio d’armi italo-libico avvenne nel settembre 2009 celebrato dall’arrivo a Roma del rais, quando si formalizzò l’acquisto di una importante quota della Finmeccanica da parte di una finanziaria del governo libico, che diveniva così il secondo proprietario di questa azienda strategica in cui si producono armamenti di una certa rilevanza come navi, aerei, carri armati. Nella stessa occasione si autorizzava la vendita di materiale bellico da parte di altre aziende del settore, come Benelli, Beretta, Oto Melara, per un totale di circa 8 milioni di euro. La Selex Sistemi integrati, società della moglie dell’amministratore delegato della Finmeccanica, ha poi siglato nel 2010 un contratto per 300 milioni di euro per la creazione sul confine tra Libia e Ciad di un sistema di protezione e sicurezza, radar e missili.

Il tradizionale doppio gioco italiano ha funzionato anche in questa occasione: da una parte, la “sospensione” del Trattato d’amicizia (tra predoni, evidentemente) era la premessa per trasferire quei bei contratti al CNT, con il quale il ministro degli esteri Frattini si è “attivato” per farsi garantire il riavvio a pace fatta; dall’altra l’Italietta non ha potuto sottrarsi ai suoi impegni di paese Nato. Nulla di nuovo in diplomazia e nel commercio.

I sistemi d’arma più complessi hanno un mercato e un prezzo diversi se possono esporre l’etichetta “testato in combattimento”. I conflitti locali e di breve durata, ma di sempre maggiore intensità, sono il banco di prova di ogni tipo di armamento in vista delle grandi guerre mondiali. Essendo praticamente sempre presenti e a ogni latitudine sono l’occasione per verificarne “sul terreno” le continue modifiche e migliorie. Basti pensare alla continua evoluzione dei droni, i piccoli velivoli teleguidati senza pilota, che da semplici mezzi per l’osservazione aerea ora sono dotati di piccoli razzi con un grande raggio d’azione, costantemente provati nell’interminabile conflitto afgano, per essere poi rivenduti ovunque.

Ecco quindi che la Svezia coglie l’occasione della guerra in Libia per mettere alla prova il nuovo super caccia Gripen, prezzo base 60 milioni di euro; ma battuta sul tempo dal velivolo multiruolo francese Rafale, che ha effettuato la sua prima missione qualche ora prima dell’accordo a Parigi fra tutti i paesi partecipanti alla missione. ”La decisione di effettuare il primo colpo è stata politica e non tattica, e si è portata dietro l’effetto secondario di una buona visibilità per il Rafale”, questo il commento del condirettore dell’Institute for Strategic and International Relations di Parigi. Infatti hanno dato una grande diffusione alle immagini dell’abbattimento dell’unico aereo libico colpito dopo un inseguimento e combattimento da parte del Rafale. La Dassault, la ditta costruttrice francese del Rafale, vanta le meraviglie del suo prodotto le cui vendite però si sono fermate ai 300 esemplari acquistati dal governo francese, perdendo invece tutte le gare d’appalto per questo tipo di forniture in Asia, Africa e Sudamerica e creando ovviamente grossi problemi di recupero degli investimenti e mancati guadagni.

Il resto delle operazioni aeree, tutte ampiamente filmate e diffuse in tutte le televisioni, è stato fatto invece con i classici Tornado, più duttili, meno tecnologici e con equipaggi già ben addestrati al loro uso. Più i sistemi sono complessi più personale necessita per il loro funzionamento. Basti pensare che per impiegare le poche decine di EFA Typhoon inglesi per il “pattugliamento aereo di superiorità” si sono dovuti utilizzare almeno 100 tecnici.

L’elenco degli armamenti è considerevole e lo tralasciamo; tutti avevano dei sistemi da provare come conseguenza della notevole accelerazione nella corsa agli armamenti e della spesa militare, come confermano le statistiche in merito che analizziamo nel nostro costante lavoro di partito.

In fatto di gigantismo e sistemi ipertrofici naturalmente la parte più impressionante è offerta dagli Usa che stanno concretamente esplicitando da parte loro la dottrina “Shock and Awe” cioè colpire ed intimorire il nemico con l’esibizione di organizzazioni militari imponenti. Non è certo una grande novità negli eserciti.

Nel Mediterraneo hanno inviato per il viaggio inaugurale la loro nuova super portaerei USS Gorge HV Bush, considerata la più grande base militare mobile del mondo, dopo aver ricevuto il “certificato di pronto per le operazioni di combattimento” il mese prima della guerra in Libia. Per intenderci bene bisogna notare che il Gorge H.W. Bush Strike Group 2 è un’insieme di almeno 10 unità navali di vario tipo, con eventuali sottomarini nucleari, per un totale di 7.500 uomini. La sola portaerei nucleare ha quattro ettari e mezzo di spazio sul ponte (45 mila metri quadrati) pari a 7 campi da calcio, 5.500 uomini d’equipaggio e porta fino a 90 aerei ed elicotteri. È costata 6,2 miliardi di dollari del 2009.

L’intervento mirato e limitato alla Libia è stato preceduto dalla “Exercise Saxon Warrior”, una grande esercitazione navale di fronte alla Cornovaglia con 26 navi di 6 paesi. Visto il suo programma e svolgimento, che travalicava gli obiettivi contingenti dei fatti libici, e l’enorme dispiego di forze, molti pensarono a preparativi per operazioni di portata ben più grande e ad una probabile escalation militare, che si poteva estendere oltre i confini libici a tutta l’area sud del Mediterraneo.

Ma questo enorme e muscoloso gigante è stato fin qui mosso da un cervello scoordinato producendo risultati non consoni alle aspettative di quanti lo nutrono. L’impaziente Francia ben sapeva che senza il supporto dei sistemi di guerra elettronica americana, gli aerei invisibili ai radar Awacs e i missili da crociera, poteva fare ben poco; la Gran Bretagna per impiegare le decine di Tornado in Libia ha dovuto lasciare metà della sua flotta aerea a casa senza pezzi di ricambio e sospendere i voli dei loro intercettori a difesa. Il comando americano per l’Africa (Usafricom) aveva un suo piano di guerra che pare prevedesse solo l’eliminazione e sostituzione del gruppo di Gheddafi, piuttosto che una lunga e costosa “no-fly zone” o la distruzione delle forze aeree libiche. Forse per contrasti interni ai tre maggiori “salvatori” il comando delle operazioni è poi passato alla Nato. Poi la liquidazione delle forze libiche non è stata così facile come previsto e i fatti militari accaduti sembrano una miscellanea delle varie impostazioni.

I costi di questa breve guerra, secondo la Strategic Cultur Foundation, sono incredibili e non ancora finiti: al 3 giugno il Pentagono dichiara di aver sostenuto costi per 716 milioni di dollari, più 1 milione per ricostituire le riserve del ministero della Difesa più 1 milione in “aiuti umanitari”. Ne prosieguo, oltre il 30 settembre, si prevedeva di spendere altri 400 milioni. I missili Storm Shadow lanciati dai sottomarini nucleari costano ognuno 1,1 milione di dollari mentre il collaudato Tomawak 800 mila dollari. Il ministero della Difesa francese dichiarava spese fino al 3 maggio di 53 milioni di euro per l’operazione United Defender e 32 milioni per le munizioni. All’8 maggio la Gran Bretagna aveva speso 44 milioni di sterline per le armi guidate ad alta precisione. L’invio di 4 bombardieri Tornado GR4, 3 jet intercettori Eurofighter Typhoon e relativo supporto tecnico sono costati 3,2 milioni di dollari ogni giorno. Un’ora di volo dei Tornado costa 33 mila dollari con carburante, manutenzione e addestramento equipaggio. I Thyphoon costano 80 mila dollari all’ora. La povera Italia, tramite il ministro della Difesa La Russa, ha dichiarato di aver dovuto ridurre i costi di partecipazione all’operazione da 142 a 60 milioni di dollari. Dal 30 settembre è previsto che i costi complessivi per le operazioni in Libia sarebbero saliti a 1,1 miliardi di dollari.

Forse è stato proprio questo uno dei motivi per dare una svolta alla guerra e arrivare all’assassinio di Gheddafi.

Non sappiamo ancora quante distruzioni e quanti morti ha provocato, ma sappiamo, da una stima del Fondo Monetario Internazionale, che la guerra sarebbe “costata 35 miliardi di dollari ai 6 milioni e mezzo di cittadini libici, cioè il 50% del PIL del Paese che nel 2010 superava i 70 miliardi di dollari” (Il Manifesto, 29 ottobre).

Questa enorme spesa e le distruzioni sono state pagate con lo sfruttamento e con il pluslavoro estorto ai proletari e ai lavoratori libici e di tutti i paesi coinvolti, mentre i capitalisti si fregano le mani per i profitti che ne stanno ricavando. Il proletariato non ha da richiedere democraticamente una riduzione delle spese militari o a una generica cessazione degli interventi di guerra; deve ricostituire la sua organizzazione di classe per opporsi con la forza al militarismo borghese, per opporre alla guerra tra gli Stati la guerra di classe del proletariato di ogni paese contro il capitalismo mondiale.
 
 
 
 
 
 
 
 


Grecia in sciopero contro il capitale che è greco, ed europeo e mondiale

La situazione economica in Grecia sta andando sempre peggio, come del resto era previsto. Secondo i calcoli del sindacato Gsee nel 2012 la disoccupazione, dopo gli ultimi provvedimenti governativi, sfiorerà un enorme 30%: il numero dei disoccupati sarà più alto di quello di chi lavora.

Per l’abbassarsi del reddito medio, già oggi molti non riescono a pagare la nuova tassa sulla proprietà, che è molto alta (per un vecchio appartamento di 55 mq in una zona economica di Atene si devono versare circa 350 euro l’anno). Circa il 90% dei greci è proprietario della casa dove abita. Alcuni disoccupati e pensionati cercano di affittare la loro stessa abitazione per ricavarne dei soldi, ma una buona parte di questa rendita viene presa dallo Stato con le tasse. Parecchi saranno costretti prima o poi a vendere la casa per poter sopravvivere. Molti giovani vanno all’estero a cercare lavoro, altri hanno cominciato a lasciare la città per tornare in campagna. Nel complesso si diffondono, soprattutto ad Atene, sentimenti di malinconia e di paura. I suicidi sono aumentati rapidamente. E siamo solo agli inizi.

Da anni il governo prende, una dopo l’altra, nuove misure di risparmio giustificandole con la necessità di ottenere un nuovo prestito. Ma, naturalmente, per la Grecia è impossibile ridurre il deficit e pagare il debito e sta sprofondando in uno stato di grande depressione economica.

Si prospettano misure ancora più dure e il controllo diretto delle finanze del paese da parte degli istituti di credito, una via obbligata perché una dichiarazione di fallimento da parte dello Stato ellenico influenzerebbe pesantemente il sistema delle finanze europee, in particolare le banche francesi e tedesche, che sono in una situazione critica, e rischierebbe di trascinare tutti i paesi creditori nel baratro.

Quindi il governo, per ottenere altri finanziamenti dalla “troika”, composta da Bce, Commissione Ue e Fmi, il 3 ottobre ha preso una nuova serie di provvedimenti che, come sempre, colpiscono soprattutto i lavoratori e la piccola borghesia. Si è infatti deciso di ridurre il minimo del reddito esentasse a 5.000 euro, di imporre una tassa anche sulla prima casa (da prelevare dalla bolletta elettrica: se non si paga tagliano la fornitura). Entro la fine dell’anno saranno licenziati 10.000 impiegati statali e 20.000 saranno messi in cassa integrazione (con congedo dal lavoro per un anno al 60% dello stipendio base; se in questo periodo il lavoratore non è richiamato al lavoro, è licenziato). L’obiettivo è quello di licenziare, entro il 2015, 200.000 dipendenti pubblici, precari e fissi. Inoltre si vogliono abolire i contratti nazionali di lavoro che verrebbero sostituiti da accordi aziendali.

Questo accordo ovviamente non porterà alcun vantaggio né ai lavoratori greci né a quelli degli altri paesi europei che stanno pagando sulla loro pelle le conseguenze della crisi.

La reazione dei lavoratori

Il proletariato di Grecia sta cercando di rispondere a questo attacco feroce con la mobilitazione e gli scioperi, ma si trova davanti molti nemici, non solo il padronato e il governo, ma anche sindacati e partiti opportunisti e venduti al nemico di classe.

Il 5 ottobre c’è stato il ventiquattresimo sciopero generale indetto dal sindacato GSEE che organizza i dipendenti pubblici e i lavoratori delle imprese controllate dallo Stato. La manifestazione ad Atene ha avuto un certo successo dato che in strada c’erano circa 30.000 manifestanti.

Il 19 e 20 ottobre si è svolto un nuovo sciopero generale di 48 ore del settore pubblico e privato indetto dal Gsee, dall’Adedy, che organizza anche i dipendenti pubblici, e dal Pame, il sindacato legato al Partito “Comunista”, stalinista, il KKE. Lo scopo era quello di manifestare di fronte al parlamento durante la votazione di ratifica dei provvedimenti anti-operai che il governo aveva preso il 3 ottobre.

Questi sindacati però non vogliono organizzare il proletariato in una prospettiva di lotta di classe; essi si oppongono all’attacco statale e padronale da un punto di vista di angusto nazionalismo, socialdemocratico, parlamentarista, e si dimostrano ogni giorno di più uno degli strumenti principali con cui il regime controlla e reprime la combattività dei lavoratori.

Lo prova proprio la manifestazione del 20 ottobre ad Atene. Qui le manifestazioni si sono svolte in un’atmosfera particolarmente tesa perché da settimane era in corso lo sciopero dei lavoratori comunali: il governo aveva dovuto ricorrere all’esercito per raccogliere la spazzatura che invadeva le strade. I manifestanti nella capitale erano più di 150.000. Il governo aveva mobilitato migliaia di agenti di polizia e ancora una volta le forze speciali, le famigerate MAT, sono intervenute contro i manifestanti facendo largo uso di gas tossici, il cui uso è vietato dalle convenzioni internazionali nella guerra tra Stati, ma non in quella tra le classi!

L’aperto tradimento del PAME

Il 20 ottobre, giorno della votazione dei provvedimenti antiproletari, il sindacato PAME, controllato dal KKE, ha fatto occupare dai suoi militanti le strade di accesso al Parlamento allo scopo di impedire agli scioperanti, radunati in piazza Syntagma, di disturbarne i “lavori”. L’obiettivo era di tenere lontani i lavoratori infuriati dalla zona vicina al Parlamento, evitare lo scontro con la polizia e permettere ai parlamentari di votare tranquillamente.

I capi dei due principali sindacati, il GSEE e l’ADEDY, non godono più della fiducia degli scioperanti che non possono controllare. Solo la forza organizzata del PAME, il sindacato che si presenta come più radicale, era in grado di garantire la protezione al Parlamento, negli ultimi mesi più volte preso di mira dai manifestanti. È stato così che solo gruppi di anarchici, alcune centinaia, hanno attaccato gli attivisti del PAME e si sono scontrati con la polizia posta a difesa del parlamento.

È ormai consueto che i gruppi anarchici affrontino la polizia, la quale attacca poi con ferocia tutti i manifestanti e disperde i cortei. Un po’ quello che è accaduto a Roma il 15 ottobre scorso. Gli scontri tra stalinisti e anarchici sono stati molto duri e sono durati per ore. Quando questi ultimi sono riusciti a rompere la linea degli attivisti del PAME, le forze di polizia hanno attaccato cercando di separare i contendenti. Poco prima della votazione il PAME ha lasciato l’area di fronte al parlamento e la polizia antisommossa ha spazzato via il concentramento degli scioperanti in piazza Syntagma, ormai diviso e disorganizzato.

Durante questo intervento è morto un muratore, membro del PAME. La direzione del Partito “comunista” si è affrettata ad annunciare che era stato ucciso dagli anarchici e ha continuato a ribadirlo anche dopo che dall’ospedale hanno dichiarato che l’uomo era morto per un attacco cardiaco provocato dei gas sparati dalla polizia. Anche l’opposizione di destra ha fatto propria la versione del partito stalinista e si è congratulata con il KKE, guardiano del Parlamento.

Per la rinascita del sindacato di classe, per il rafforzamento del partito comunista rivoluzionario

Di fronte a questa difficile situazione, i partiti della sinistra parlamentare ed anche alcuni extraparlamentari chiedono nuove elezioni, che è il classico stratagemma dell’opportunismo socialdemocratico per spezzare la lotta di classe.

In un periodo di crisi economica come quello che stiamo attraversando, che oggettivamente indebolisce la classe lavoratrice sottoposta al ricatto della disoccupazione e della fame, è ancora più pressante la necessità di organizzare i lavoratori in un sindacato di classe deciso a difendere il proletariato, fuori e contro i sindacati legati a doppio filo col regime, come hanno dimostrato di essere non solo il PAME, ma anche il GSEE e l’ADEDY.

Anche in Grecia le lotte sostenute dai lavoratori negli ultimi due anni mostrano che non c’è salvezza per la classe operaia in un capitalismo decadente se essa non è capace di ritrovare la propria unità e la propria forza nell’azione e nella lotta, per prima cosa rimettendo in piedi le proprie organizzazioni di classe indipendenti e liberandosi dei capi opportunisti e venduti.

È inoltre sempre più necessario che si rafforzi il partito che vive nella tradizione del comunismo rivoluzionario di sinistra, organo indispensabile per preparare l’abbattimento di questo sistema di produzione che sacrifica alla sua sopravvivenza la vita di milioni di proletari.
 
 
 
 
 
 
 
 


Roma, 15 ottobre
Cucinata la sconfitta

In Italia, vista la gravità della situazione economica, cui è corrisposto un atteggiamento apertamente collaborazionista della Triplice sindacale, ed in vista di ulteriori affondi contro la classe operaia, si è ritenuto che fosse il caso di tornare a seminare confusione fra i lavoratori e di accodare i settori più combattivi della classe operaia all’impotenza, alle illusioni e ai movimenti spuri della piccola borghesia. Quindi, gli apparati della sinistra sindacale e qualche dirigenza dei sindacati di base, sempre imprevedibile ed incontrollabile, dopo decenni di divisioni o di disinteresse reciproco, facevano spuntare, all’improvviso, come un fungo, la assemblea del primo ottobre. Questa, cui erano chiamati sindacati, partiti e “movimenti” d’ogni razza e tendenza, avrebbe fondato lì per lì nientemeno che “il movimento dei movimenti”, per rivendicazioni del tutto inconsistenti che critichiamo in altra parte di questo giornale.

La “giornata” del 15 ottobre a Roma, un sabato, da qui nasce. Ed era evidente che qui sarebbe finita. Praticamente nessun organismo reale visibile l’ha indetta, e nessuno l’ha organizzata. Una enorme folla indifferenziata ha percorso le vie di Roma, tenendosi stretta solo al buon senso e alle buone intenzioni. In quell’assenza di indirizzo politico e postura di classe era assolutamente impensabile un qualunque servizio d’ordine a protezione da provocazioni. Una disorganizzazione, diremmo, criminale. Del resto in quel tipo di manifestazione c’era posto per tutti, e così è stato. Inutile scomodare opposizioni fra violenza e non-violenza, legalità ed illegalità, ecc. Quando non siamo sul terreno della lotta di classe vanno irrimediabilmente queste e quelle nel senso della conservazione.

Non sono state le “violenze” di una “minoranza”, a determinare il fallimento della manifestazione ma il fatto che si è conclusa come era iniziata, nel vuoto. Come previsto, tutto è andato come doveva andare: il suo scopo era fin nei suoi primi ideatori la dispersione di quel poco di movimento operaio che c’è oggi. Sconfitta! sconfitta! ha gridato l’indomani Cremaschi. Né lo Stato borghese si è certo indebolito per due vetrine infrante.

La violenza rivoluzionaria della classe operaia non si improvvisa né è anticipata da inutili punzecchiature sui rappresentati dello Stato borghese. La rivoluzione è una guerra, non un giorno di carnevale da segnare sul calendario, una guerra che ha bisogno del suo esercito, al momento disperso e tutto da inquadrare, ed uno stato maggiore, il partito, oggi separato dalla classe. Chi ha fretta non è un rivoluzionario comunista. Nessuna solidarietà mai con lo Stato borghese, ma il comunismo e la classe operaia stanno da un’altra parte.

Questa mancanza di indirizzo – non solo di quella manifestazione ma dell’intero movimento degli “indignati” e di quelli che non vorrebbero “pagare il debito” – deriva dal fatto che si tratta di movimenti interclassisti, che raggruppano lavoratori, precari, disoccupati insieme a vasti e variopinti strati di piccola e media borghesia e di sottoproletariato, che vedono ridursi velocemente le poche o tante riserve accumulate negli scorsi decenni e hanno paura di un domani che percepiscono sicuramente peggiore del presente.

Ogni classe reagisce, a modo suo si ribella, secondo le sue possibilità, metodi ed accenti. Si indigna chi non capisce, chi ritiene che il nemico non rispetti un precedente patto: in una parola, la piccola borghesia e il sottoproletariato. (Anche dei lavoratori si parla oggi di difendere la dignità, scordando che la classe operaia non è una classe di questa società, è una classe di indegni, che conquisterà la sua dignità solo negandosi).

La forza di un fronte di partiti e partitini, parlamentari ed extraparlamentari, democratici e sedicenti comunisti, ecc. non è uguale alla somma delle loro forze, ma si adegua a quella del partito più “destro”, come è stato dimostrato sul piano pratico in tragici risvolti storici e su quello teorico dalla critica del comunismo di sinistra alle proposte di fronte unico. L’unità di azione del proletariato si può realizzare solo sul piano della difesa economica della classe lavoratrice, non su quello politico.

Il proletariato che si muove contro il nemico borghese potrà trascinare nella lotta al suo fianco anche gli strati intermedi solo se dimostrerà di essere la classe più decisa e forte, non mercanteggiando un programma politico di compromesso o prospettando governi “popolari” o “operai”.

I proletari, i giovani, a cui la società del capitale oggi più di ieri nega ogni possibilità di vita, non hanno da schierarsi né con i difensori dell’ordine borghese né con chi sfoga nelle piazze l’estetica della violenza. Altra è la strada che ha da percorrere.
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2-3


Riunione di partito a Torino
24 e 25 settembre 2011
[RG111]


Corso del capitalismo
Contesto storico della Siria
La questione militare [resoconto esteso]
Movimento operaio in Usa  [resoconto esteso]
Attività sindacale
Economia marxista
Democrazia e movimento operaio in Italia  [resoconto esteso]

Tutti dobbiamo ringraziare i compagni di Torino per l’organizzazione semplicemente perfetta della riunione, nonstante la difficoltà di accogliere, alloggiare e rifocillare gli arrivati, scaglionati per forza di cose a tutte le ore del giorno e della notte. Il locale per le sedute si è dimostrato comodissimo e del tutto adatto al nostro lavoro.

È in queste riunioni che troviamo l’istanza più alta e generale della nostra contingente piccola organizzazione, nella quale i diversi gruppi di lavoro riversano i risultati delle loro ricerche, riflessioni e conclusioni, che vengono colà illustrati e da tutto il partito assimilati e fatti suoi. Le riunioni non sono un organo per giudicare o decidere ma di riscontro e sintesi dei vari contributi nella convinzione che il percorso del comunismo è già segnato e che si tratta solo di rintracciarlo.

Al solito qui sotto una estrema sintesi delle numerose relazioni ascoltate, che troveranno esposizione più ampia sulla nostra rivista Comunismo.
 

Corso del capitalismo

Gli ultimi dati sulla produzione industriale vengono a confermare ciò che avevamo anticipato nelle precedenti riunioni, cioè l’impossibilità per i vecchi imperialismi (Europa, Stati Uniti, Russia e Giappone) di uscire dalla recessione industriale del 2009-2010. Non solo questi vecchi capitalismi sono lontano dall’uscita del tunnel, ma la crescita della produzione che si è manifestata a partire dall’inizio del 2010 rallenta nettamente e non solo in Europa e negli Stati Uniti ma nel mondo intero.

Cominciamo dagli Stati Uniti. Dopo aver raggiunto un massimo nel luglio 2010 con +7,5%, gli incrementi annui della produzione induatriali diminuiscono regolarmente e nettamente per arrivare a +3,2% nel settembre 2011. La situazione è talmente preoccupante che la Fed, la Banca Centrale americana, dopo aver in giugno interrotto la sua politica economica di “quantitative easing”, ha deciso d’intervenire di nuovo all’inizio di ottobre acquistando obbligazioni immobiliari e mantenendo il suo tasso d’interesse ad un livello molto basso, fra lo 0 e lo 0,25%, ed è pronta a prendere nuove misure al fine di evitare un nuovo tracollo dell’economia.

L’incremento mensile medio per i 9 primi mesi dell’anno è uguale a +4,5%, e ci possiamo quindi attendere, salvo un brusco rallentamento, un incremento annuo vicino al 4%. Ma la variazione del 2010 rispetto al massimo del 2007 è stato -9,3%, che quindi non sarà recuperato. A questo ritmo, nell’ipotesi generosa di una crescita del 3% negli anni futuri, occorrerà attendere ancora due anni per raggiungere il massimo del 2007. Ma non scordiamo che la crescita annua media del ciclo precedente è stata del 1%: vi sono quindi poche possibilità che il capitalismo americano esca dalla recessione e sembra che si avvii piuttosto verso una nuova caduta.

La Germania. Dopo aver segnato una caduta spettacolare della produzione nel 2009, con precipizi nei mesi di -22%, -24% e -28%, la ripresa all’inizio 2010 è stata vivace con incrementi che culminano nel +20% annuo in maggio. Tuttavia dopo l’inizio del 2011 si assiste, fra alti e bassi, ad una lenta ma irreversibile diminuzione degli incrementi. Da gennaio ad agosto 2011 si passa dal +14,6% al +7,9%.

Se si raffronta l’indice del 2010 (914) col massimo del 2008 (984) si ottiene un -7,1%. L’incremento medio sull’anno precedente nei primi 8 mesi dell’anno è stato del 9,5%. Come dire che la Germania, salvo incidenti, dovrebbe superare il massimo del 2008 ed uscire dalla recessione alla fine dell’anno. Tuttavia, come abbiamo già indicato nel precedente rapporto, la macchina produttiva tedesca dipende enormemente dal mercato mondiale: la Germania esporta circa il 60% della sua produzione. Il che è un fatto insieme di forza e di debolezza: basta che i mercati si contraggano nel resto di Europa, negli Stati Uniti ed anche in Cina, ed ecco il crollo!

Il Giappone nei primi mesi del 2009 ha conosciuto una caduta brutale della produzione con dei minimi nei mesi a -30%, -38%, -33%, -30%, -28%. La ripresa è stata tuttavia assai viva all’inizio del 2010, ma dopo esser culminata nel +32% e +31% a febbraio e a marzo, si assiste subito ad un rallentamento, poi di nuovo ad una caduta della produzione a partire da marzo.

Lo tsunami a metà marzo e l’incidente di Fukushima hanno contribuito aggravando la caduta della produzione, tuttavia la tendenza era già in quel senso fin da prima. Per il capitalismo le catastrofi “naturali” sono un guadagno inaspettato, creano un mercato del tutto nuovo e esercitano una pressione al ribasso sui salari. Tuttavia stavolta l’effetto che avrà questa catastrofe su di una eventuale ripresa non potrà essere che limitato. Il mercato nazionale rimane troppo stretto per la macchina produttiva giapponese.

Non bisogna dimenticare che dal 1991 al 2007, il Giappone ha stagnato in una lunga depressione; l’incremento annuale medio per questo periodo di 16 anni è stato dello 0,47%! Se si rapporta l’indice del 2010 a quello massimo del 2007 si ottiene -11,6%. L’incremento annuo medio nei primi 8 mesi è stato del -3,5%. Come si vede il Giappone non è vicino ad uscire dai suoi problemi.

La Francia, come tutti gli altri paesi manifesta anch’essa un netto rallentamento ed anche indici negativi: -0,1% in aprile e -2,9% in giugno. L’incremento annuo medio nei primi 8 mesi è stato del +3,1%. Ma l’indice della produzione industriale per il 2010 era ancora al -10% in confronto del massimo del 2007. A questo ritmo (ipotesi assai ottimista) e ammettendo che la curva non riprenda a scendere, occorrerebbero ben 4 anni per recuperare quel massimo ed uscire dalla recessione. È davvero tempo di sotterrare questo cadavere che ancora cammina.

La Gran Bretagna ha segnato di nuovo incrementi negativi per tre mesi con -0,3% in giugno, -0,7% un luglio e -1% in agosto. Sui primi 8 mesi la media annua è -0,05%. Di fatto la Gran Bretagna è in recessione fino dal 2000. Fra il 2000 ed il 2007 l’incremento annuale medio è stato -0,6%. E l’indice del 2010 sul massimo del 2000 dà -14,3%. Il vecchio capitalismo inglese non è avviato ad uscire dalla recessione e mostra invece tendenza ad affondarvi di nuovo.

L’Italia. anche qui il rallentamento è netto, con numeri che si avvicinano allo zero, 0,6% in ottobre, 0,8% in marzo, 0,2% in giugno e negativi in luglio con -1,6%. La media degli incrementi ci dà 1,9%. Poiché l’indice del 2010 era -17,6% in rapporto al 2000, bisognerebbe che il capitalismo italiano potesse mantenere questo ritmo per 11 anni per tornare a superare l’indice del 2000!

La Russia anche manifesta un rallentamento della crescita industriale. Con un ritmo oscillante fra il 6-7% da settembre 2010 a febbraio 2011, si passa al 4-5% negli ultimi mesi. Il rapporto fra l’indice del 2010 e quello del 2008 dà -1,8%. Poiché l’incremento medio annuo nei primi 9 mesi dell’anno è 5,3%, la produzione russa potrà riuscire a superare il risultato del 2010. Per contro il livello della produzione resterà sempre nettamente inferiore a quello raggiunto nel 1989, suo massimo d’interguerra: nel 2000 era ancora -21,7% da quello. Ponendo l’ipotesi ottimista, dal punto di vista borghese, di mantenere un ritmo annuale del 4% occorrerebbero, contando il 5% dell’anno in corso, ancora 5 anni per raggiungere e superare il massimo del 1989, e 7 anni nel caso che si avesse un incremento del 3%.

La nostra ipotesi, invece, è che la crisi mondiale che attendiamo, cioè con deflazione, avrà nel frattempo già colpito il capitalismo mondiale e in Russia.

La Cina in apparenza mantiene una insolente accumulazione di capitale: gli incrementi oscillano ad un ritmo indiavolato del 10-11%. Sui 9 primi mesi si avrebbe la media del 10,6%. Ed invece di rallentare gli incrementi hanno tendenza ad un lento aumento. Tuttavia le cifre cinesi sono gonfiate e la sua realtà, benché mirabolante come ogni accumulazione originaria, è molto fragile: più vigoroso e potente il capitale, altrettanto più catastrofiche e distruttive le sue crisi.

Inoltre, come abbiamo visto nelle riunioni precedenti, lo Stato cinese ha dovuto utilizzare le stesse ricette di quelle delle borghesie occidentali per rimandare una grave crisi deflazionista: iniezione massiccia di liquidità a tassi estremamente bassi, intervento dello Stato per sostenere l’industria, ecc. La sola differenza: la banca centrale e lo Stato cinese non sono stati costretti a contrarre dei prestiti onerosi, come in occidente. Ma la crisi arriverà, tutte le su premesse sono mature. Speculazioni immobiliari frenetiche, speculazione sulle materie prime ed i prodotti alimentari, inflazione, ecc. In breve, tutti i sintomi che precedono una recessione ed un “giovedì nero”.

India. Dopo incrementi che oscillano fra il 15% e il 19% all’uscita dalla recessione, il capitalismo indiano ha ritrovato un ritmo di crescita più calmo con una media nei 9 ultimi mesi del 5,4%. Ma ancora si assiste ad un lento rallentamento con incrementi che passano in media dal 6% al 5%. Di fatto, guardando più da vicino, abbiamo un periodo di netto rallentamento da novembre 2010 a febbraio 2011, poi una risalita da marzo a giugno, per infine ridiscendere in luglio ed agosto.

Con una popolazione di 49 milioni di abitanti la Corea del Sud nel 2007 ha un peso sul totale industriale mondiale del 2,1%, subito dopo il Brasile, che ha il 2,2%, confrontabile con il 2,8% della Francia, che ha 65 milioni di abitanti. Quindi a ragione abbiamo aggiunto il Paese alla lista di quelli dei quali seguiamo le statistiche, al quale aggiungeremo, fra i paesi emergenti, il Brasile e, se possibile, l’Africa del Sud. La Corea, dopo aver marcato una forte caduta della produzione industriale nel 2009, ha visto una forte ripresa all’inizio del 2010 con due picchi a +35% e a +38%. Dopo l’aumento della produzione, come ovunque nel mondo, ha fortemente rallentato. Da marzo a dicembre 2010 gli incrementi si sono abbassati con regolarità, passando dal 23% all’11%. Si ha una piccola ripresa al 13,6% a gennaio 2011, poi un calo regolare fino al 4,8% in agosto.

Dopo questo minimo panorama la nostra conclusione: malgrado le iniezioni massicce di denaro da parte delle varie banche centrali, per evitare il collasso del capitale finanziario, e l’acquisto di miliardi di crediti inesigibili da parte degli Stati, il che ha condotto alcuni di essi ad una situazione di quasi fallimento, come l’Islanda, l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo, e che ha posto gli altri in una situazione critica, malgrado le misure keynesiane di rilancio dell’industria tramite lavori pubblici senza fine, o con provvedimenti di sostegno, nei quali gli Stati hanno versato centinaia di miliardi di dollari, il risultato non è brillante. Se la deflazione ha potuto essere evitata di un pelo, è stato a prezzo di un forte indebitamento degli Stati, e tuttavia senza permettere una uscita dalla recessione. Questo rallentamento generale sembra piuttosto annunciare una ricaduta brutale.

Sono presenti tutte le condizioni per una vasta crisi di sovrapproduzione sincronizzata a scala mondiale fra Asia, Europa ed America del nord. Una crisi di una forza distruttiva mai vista nella storia, la cui spirale deflazionista coinvolgerà nella rovina quella palude sociale immonda costituita dalle classi medie, ed una parte della grande borghesia. A fianco di queste condizioni oggettive, maturano le condizioni soggettive sotterranee necessarie al ritorno sulla scena sociale del partito comunista internazionale e ad una ripresa della lotta di classe rivoluzionaria che spazzerà sul suo passaggio tutte le borghesie ed i loro Stati.
 

Contesto storico della Siria

A seguito delle manifestazioni che in Siria da mesi chiedono un cambiamento di regime, abbiamo iniziato una ricerca, i cui primi risultati un compagno ha esposto in questa riunione, che tenderà a darci la chiave di quanto realmente accade nel paese, al di fuori di ogni interpretazione ideologica borghese.

È fondamentale individuare quali strati sociali, quali classi sono coinvolte nella protesta, quali le formazioni i gruppi o i partiti che dirigono il movimento, quali obbiettivi si propongono e con quali mezzi. Come nostra tradizione, questo richiede lo studio approfondito del passato delle lotte di classe nel paese e nella regione.

La Siria ha fatto la sua rivoluzione nazionale e ottenuto l’indipendenza ormai da decenni; e lo Stato siriano ha già mostrato più volte la sua natura controrivoluzionaria, sia all’interno sia all’esterno dei suoi confini. È lo Stato della borghesia e dei proprietari fondiari.

La posizione strategica della Siria ne fa un obbiettivo appetitoso per tutti gli imperialismi che ambiscono ad influire sulla regione, dagli Usa alla Russia, dalla Cina all’Iran, da Israele alla Turchia, ancor più oggi che la crisi internazionale spinge questi predoni a ridefinire le zone di influenza.

In questa situazione, un qualsiasi movimento politico che si muova per chiedere una maggiore e generica democrazia e libertà, senza porre al centro delle rivendicazioni la questione di classe, ha il solo significato di voler spostare il Paese in un altro campo imperialistico. Il proletariato industriale e agricolo di Siria non ha alcun interesse a scendere in piazza e spargere il suo sangue per passare da un padrone imperialistico all’altro.

La classe operaia in Siria, così come i lavoratori in Tunisia, Egitto o Israele, per difendersi come per affermarsi come classe, non chiedono di cambiare padrone ma di lottare contro la propria borghesia, qualunque essa sia, da qualsiasi imperialismo venga appoggiata, costruendo un fronte di classe per la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro, ritrovando la propria indipendenza politica, attraverso il collegamento all’indirizzo comunista internazionalista.

Attraverso lo studio approfondito della storia, dell’economia, della società siriana, il lavoro tenderà a confermare questo assunto generale.
 

La questione militare

La sconfitta a Custoza, nel luglio 1848 e il ritorno dell’esercito piemontese dietro i suoi originari confini sul Ticino segna l’inizio di una fase sfavorevole ai movimenti rivoluzionari sia in Italia sia nel resto d’Europa: Francia, Austria, Ungheria, Croazia e territori Cechi con il consistente intervento della Russia zarista e feudale.

Ferdinando II, dopo violenti bombardamenti di Messina e Palermo (per questo fu poi chiamato Re Bomba), riprese il totale controllo del Regno delle Due Sicilie, favorito dagli insanabili contrasti interni al governo rivoluzionario siciliano in merito alla questione agraria, ovvero la vendita o meno ai contadini senza terra dei latifondi sequestrati al clero e ai lealisti borbonici. Una consistente parte dei grandi proprietari terrieri non voleva la formazione di una classe di piccoli contadini indipendenti ma accrescere le loro già vaste proprietà.

Nello Stato pontificio l’allocuzione di Pio IX, in aprile, e il richiamo delle truppe inviate a sostegno di quelle piemontesi provocò la sollevazione della città e, dopo pesanti scontri, la fuga del papa che si rifugiò a Gaeta protetto da Ferdinando II. Fu quindi proclamata la Repubblica Romana nel febbraio 1849, governata da un triunvirato con a capo Mazzini; Garibaldi arrivò con i suoi volontari sudamericani. Prese la strada per Gaeta anche il Granduca di Toscana Leopoldo II, che da una parte chiedeva l’aiuto militare degli austriaci, dall’altra riceveva i moderati toscani per una soluzione pacifica.

In Piemonte Carlo Alberto fu oggetto di critiche da tutte le parti politiche. Per non aver compreso che non si trattava di ingrandire il Regno sabaudo con limitate conquiste militari, ma di un movimento di indipendenza nazionale e per questo di non aver utilizzato con determinazione l’aiuto dei volontari. Inoltre si chiedeva che fosse sollevato dal comando diretto dell’esercito per non aver seguito le indicazioni del suo stesso Stato maggiore ed interferito nel suo operato. Iniziò quindi la riorganizzazione dell’esercito piemontese il cui comando effettivo fu affidato al polacco Chrzanowsky, con scelta quanto mai infelice.

Ritenendo l’Austria in difficoltà con la rivolta ungherese Carlo Alberto nel marzo 1849 denunciò l’armistizio. Gli Alti Comandi sabaudi propendevano per una guerra lampo con importanti battaglie campali in cui pensavano di avere maggiori possibilità di successo; il Re Tentenna invece voleva puntare su Milano per conquistarla con l’aiuto di una sicura rivolta della città ma prima che si ribellasse da sola. Si rifece lo stesso errore di disposizione delle truppe che aveva provocato la sconfitta di Custoza: furono dislocate su una linea di oltre 70 km con il maggiore concentramento intorno a Novara, da cui si attendeva l’attacco degli austriaci, quello minore a sud di Vercelli con un vuoto al centro.

Il collegamento dei due blocchi fu affidato alle truppe a cavallo, per lo più volontarie, del generale Ramorino, di una certa esperienza ma noto per la sua scarsa propensione ad ubbidire agli ordini. Doveva spostarsi a nord su Novara mentre puntò nell’oltrepò pavese dove secondo lui sarebbe arrivato Radetzky tagliandosi fuori dal teatro di guerra. Fu destituito, poi fucilato per tradimento.

Radetzky attaccò a sud in massa; non trovando valida resistenza giunse fino a Mortara lasciando però la strada libera per Milano dove le truppe piemontesi ora avrebbero potuto avanzare facilmente. Si sarebbe potuto anche convergere su Pavia e prendere gli austriaci alle spalle e tra due fronti. Ma anche qui non si scelse nulla. Radetzky la sera sferrò invece lui un forte attacco su Mortara, che dovette cedere, ed arrivò a 12 chilometri dal comando sabaudo. Il 23 marzo intorno alla collinetta della Bicocca si svolsero i combattimenti decisivi che videro la decisa sconfitta dei piemontesi.

Carlo Alberto la sera stessa fuggì verso il Portogallo abdicando in favore del figlio che il giorno dopo a Vignale firmò un armistizio cui seguì il favorevole trattato di pace di Milano per garantire agli austriaci un tranquillo fronte sul Ticino. Di fatto la guerra era durata solo quattro giorni.

Si è poi data lettura di più corrispondenze di Engels in merito al tradimento di Ramorino, la sua valutazione sulla sconfitta di Novara e il giudizio su Radetzky.

Dopo di ciò il Maresciallo si occupò di riportare i vecchi regimi a sud del Po, dalla ripresa di Brescia, scendendo poi in Toscana per sottomettere Lucca, Pisa, Livorno e infine Firenze, dietro forti indennizzi economici. Dopo il suo ingresso nella città, poté tornare anche Leopoldo II, scortato, o ostaggio, dalle guardie austriache.

Pio IX aveva rivolto il suo appello a tutte le potenze cattoliche d’Europa perché lo facessero tornare a regnare su Roma; gli risposero in quattro: la Francia di Luigi Napoleone, che utilizzò ogni sorta di raggiri e doppi giochi pur di riportare un successo personale; l’Austria mandò Radetzky. Questi dovette dividere le proprie forze su più direttrici nell’Italia centrale, in una marcia lenta sebbene vittoriosa, ma non fece in tempo a giungere a Roma prima dei francesi. Il terzo fu Ferdinando II di Napoli, cui fu imposto dai francesi, che volevano prendersi tutto il merito dell’operazione, di stare in disparte ed impegnare le truppe di Garibaldi, da cui invece fu sconfitto. Infine la Spagna, le cui truppe, per gli stessi motivi di orgoglio francese, furono tenute lontano da Roma a presidiare parte del Lazio.

La Repubblica Romana era così accerchiata. I francesi non ottennero gli immediati successi previsti ma, giunti nuovi rinforzi, dopo violenti bombardamenti durati tre settimane, Roma distrutta si arrese ai generali francesi. Parte dell’esercito romano seguì Garibaldi nel tentativo di portare soccorso a Venezia, ma dopo pochi giorni tutti si dispersero.

Radetzky ora poteva concentrarsi su Venezia: prima fu bombardata Marghera e completamente distrutta, pensando così di convincere la città lagunare ad arrendersi senza subire un attacco diretto dal mare, cosa non facile per i massicci e ben disposti forti dotati di potenti artiglierie. Dopo vari tentativi di ottenere una soluzione diplomatica, da Vienna giunse l’ordine di concludere con le armi la questione immediatamente. Iniziò così un violento bombardamento durato 24 giorni dopo di che, complice la fame e la malaria, anche Venezia nell’agosto 1849 si arrese. La reazione assolutistica aveva ripreso il controllo dell’Italia.

Le città insorte si arresero solo dopo pesanti bombardamenti e duri combattimenti, segno di una forte e determinata volontà popolare con un giovane proletariato, qui ancora al seguito di una borghesia incerta quando non sostenitrice del vecchio regime. Da un punto di vista tecnico con la realizzazione di cannoni sempre più potenti e precisi, l’artiglieria assume un ruolo fondamentale nelle campagne militari.

Concludeva il rapporto il sintetico giudizio di Engels: “Il tradimento della borghesia italiana”.
 

Movimento operaio in Usa

Gli anni ’80 del secolo vedono una svolta fondamentale nella storia del movimento operaio americano, la fondazione della American Federation of Labor, la federazione sindacale che avrebbe accompagnato il proletariato statunitense, e anche canadese, negli anni che seguirono, e che opera ancor oggi nello scenario sindacale di oltreoceano.

Nel preambolo dello statuto della Federation of Organized Trades and Labor Unions of the United States and Canada, come la A.F.L. si chiamava nel 1881, l’anno di fondazione, si leggeva: «Una lotta è in corso in tutti i Paesi del mondo civile tra oppressori e oppressi, tra capitale e lavoro, una lotta che cresce di intensità di anno in anno, e che può avere conseguenze disastrose per milioni di lavoratori se non si accompagna a un mutuo sostegno. La storia dei salariati di tutti i Paesi non è altro che un succedersi di lotte e miseria, generati da ignoranza e mancanza di unità; mentre quella dei non produttori di tutti i tempi dimostra che una minoranza ben organizzata può fare meraviglie, nel bene e nel male. Adeguandosi al vecchio adagio “Nell’Unione è la forza”, la formazione di una Federazione che comprenda tutte le organizzazioni di mestiere e lavoro del Nord America, una unione fondata su una base grande come la terra sulla quale viviamo, è la nostra sola speranza».

Si trattava di una associazione basata sul più puro sindacalismo, ben diversa dai Knights of Labor, con i quali ebbero a competere per diversi anni, prima di emergere come i veri rappresentanti del proletariato organizzato americano. Come abbiamo visto, furono i K.L. a alienarsi il favore della classe, con dei comportamenti spesso antisindacali se non di aperto collaborazionismo.

Fu la lotta per le otto ore, e delle prese di posizione nettamente di classe, che segnarono presso i proletari la differenza tra le due organizzazioni, e che, dopo anni di stagnazione, determinarono la crescita della Federazione, che nel 1886, in un congresso a Philadelphia, adottò la nuova denominazione, A.F.L.

La nuova Federazione si distingueva dai K.L. per alcune posizioni fondamentali. In primo luogo era rigorosamente riservata ai puri salariati; inoltre considerava fondamentale l’arma dello sciopero. Nei primi anni aveva anche atteggiamenti socialisteggianti, apportati dal suo principale fondatore, Samuel Gompers, secondo i quali gli interessi di capitale e lavoro non potevano convivere in armonia.

Anche riguardo al tipo di sindacato, inizialmente appariva ovvia la superiorità del sindacato d’industria, che era più suscettibile ad accogliere anche i lavoratori non specializzati, mentre quello di mestiere tendeva a un maggiore corporativismo, rendendo difficili estese mobilitazioni di numerosi proletari. Ma pur di non perdere il seguito di molti sindacati, Gompers non esitò a cambiare idea in breve tempo. Lo stesso accadde nei confronti delle categorie di lavoratori più deboli: donne, negri, immigrati (per non parlare dei cinesi). Dopo un periodo di maggiore apertura, in cui doveva competere con i K.L., la A.F.L. divenne sempre più discriminatoria e concentrata sui soli specializzati.

Il relatore si è poi soffermato su due grandi scioperi che nel 1892 scossero gli Stati Uniti da est a ovest, quello di Homestead (Pennsylvania), della siderurgia, e quello dei minatori di Coeur d’Alenes, nell’Idaho. Diversi sotto molti aspetti, avevano in comune l’attacco padronale alla sindacalizzazione degli operai, che si stava diffondendo, e la violenza di tale attacco, esercitato con i vari mezzi a loro disposizione, cui gli operai dovettero rispondere con altrettanta violenza. Quindi la cronaca di tali scioperi è anche di scontri armati, nei quali i proletari, in situazioni molto diverse, dimostrarono una eccezionale capacità organizzativa e militare, e una tenacia che riscosse l’ammirazione degli stessi avversari.
 

Attività sindacale

Il rapporto ha esposto il corso degli avvenimenti sindacali successivi alla precedente riunione generale del partito a maggio, ai quali il partito ha opposto la sua puntuale critica ed il suo chiaro indirizzo. Una disamina e un commento più di dettaglio di quella e di questo troverà posto nel prossimo numero del giornale.

Un breve collegamento ha prima ripercorso per sommi capi i precedenti: dall’accordo quadro separato di Cisl e Uil sugli assetti contrattuali del gennaio 2009, completato dall’accordo attuativo, sempre separato, dell’aprile 2009, all’attacco della FIAT, con gli accordi di Pomigliano, Mirafiori ed ex-Bertone, a quello di Federmeccanica, con la disdetta del Ccnl e la firma del contratto separato con Fim e Uilm, per arrivare allo sciopero generale proclamato dalla Cgil il 6 maggio di quest’anno.

Questo sciopero – e si passava così al contenuto del nuovo rapporto – era stato invocato dalla sinistra CGIL fin dalla manifestazione FIOM del 16 ottobre 2010. Giungeva dopo ben sette mesi, consumatesi le varie sconfitte (Mirafiori, Pomigliano, ex Bertone), non per contrastare con la forza l’attacco padronale, ma per sostenere la politica sindacale corporativa della CGIL.

Il suo risultato è stato infatti l’Accordo del 28 giugno fra confederali e Confindustria. L’accordo ha aperto una breccia fatale nel muro del contratto nazionale consentendo ai contratti di derogare ad esso.

Inoltre rafforza il sistema di regole a difesa dei sindacati di regime, con l’introduzione della “certificazione della rappresentanza”, e rafforza la disciplina di fabbrica con l’introduzione della cosiddetta validità “erga omnes” degli accordi aziendali.

La CGIL dipingeva l’accordo con Confindustria come un muro contro possibili provvedimenti peggiori. La sua opposizione interna, FIOM in testa, nulla ha fatto che andasse oltre la propaganda per votare contro al referendum fra gli iscritti CGIL, il cui esito favorevole alla Confederazione era scontato.

Gli incalzanti avvenimenti successivi hanno dimostrato l’inconsistenza e la falsità delle argomentazioni della CGIL, la sua natura definitivamente di regime e anti-operaia e l’impotenza della sua opposizione interna.

A luglio il governo ha varato una manovra finanziaria. Contro questa manovra la CGIL non muoveva un dito. Non solo. Continuando a peggiorare la situazione finanziaria dello Stato, il 4 agosto, insieme agli altri sindacati di regime, a Confindustria, all’Associazione delle banche italiane, la CGIL presentava al governo un documento – “Proposte delle parti sociali” – in cui venivano richiesti tutti quei provvedimenti da sempre invocati da industriali ed organismi finanziari nazionale e internazionali. Fra gli altri: “modernizzare le relazioni sindacali”.

Il 13 agosto è varata una seconda manovra. Il suo articolo 8 è una pugnalata contro i lavoratori: con esso i contratti aziendali possono derogare non solo ai contratti nazionali, ma ad ogni legge. È la morte – prevista dal marxismo rivoluzionario – del “diritto del lavoro”: nel capitalismo ciò che conta non sono i diritti ma la forza. Per difendere la classe operaia bisogna organizzare la sua forza, non appellarsi ai diritti.

La CGIL ha reagito alla manovra di agosto con inusuale tempestività, proclamando lo sciopero generale per il 6 settembre. Ma anche questo sciopero, come quello del 6 maggio, non aveva l’obiettivo respingere l’attacco con la forza, ma di rafforzare la politica sindacale corporativa della CGIL. La manovra finanziaria era convertita in legge il 14 settembre; il 21 settembre la CGIL ratificava l’Accordo.

Il giorno successivo alla ratifica, si è riunita a Cervia l’Assemblea nazionale dei delegati FIOM, per discutere e varare la piattaforma per il rinnovo del Cnnl dei metalmeccanici, in scadenza a fine 2011. La chiave di volta della piattaforma è la ricerca dell’unità con FIM e UILM considerata condizione necessaria.

Questa impostazione spiega da sé come l’azione sindacale FIOM non si distingua da quella della CGIL. La FIOM insegue FIM e UILM, nonostante questi rappresentino una minoranza degli iscritti, presentando una piattaforma a perdere, perché considera l’unità sindacale e non la forza operaia lo strumento necessario per difendere i lavoratori. Ai contratti separati di FIM e UILM la FIOM non lotta per imporre al padronato un suo contratto separato migliore. Questa, che è l’unica strada che difenda i lavoratori, è bollata e liquidata come “pazzia”! Non si dice che non è percorribile perché manca la forza, la si esclude per principio.

A Cervia si discute anche dell’Accordo del 28 giugno appena ratificato dalla CGIL. La proposta di rigettare l’accordo, rifiutandosi di applicarlo viene sonoramente bocciata. L’opposizione all’accordo, come a tutto il resto, rimane “a parole”, perché la FIOM non vuole andare allo scontro con la CGIL, e, pur di evitarlo, è disposta a far subire ai lavoratori le peggiori conseguenze della sua politica sindacale. La FIOM tiene i suoi iscritti imprigionati dentro la CGIL.

La piattaforma per il rinnovo del Ccnl è approvata con 506 voti favorevoli, 1 voto contrario, 7 astenuti. Anche i contrari, che vi sono, votano a favore. La sinistra in FIOM sta con la maggioranza per dare “un segnale di unità”; la FIOM non va allo scontro con la CGIL per “restare uniti” in un simile momento di difficoltà; la CGIL ricerca l’unità con CISL e UIL perché “le divisioni indeboliscono”.

Sono i lavoratori che si devono dividere da tutto questo complesso apparato che li imprigiona per ricostruire il loro Sindacato di classe, fuori e contro CGIL, CISL e UIL.
 

Economia marxista

Nella riunione di Partito del settembre scorso, la prevista esposizione del capitolo 30 del III Libro del Capitale è stata preceduta da una serrata critica alla richiesta del “rifiuto del pagamento del debito statale”, che pare suscitare oggi grandi speranze nella scimunita “area di sinistra”. La impotente teorizzazione piccolo borghese fa il paio con la sballata opposizione: “finanza” destabilizzante e rovinosa – capitalismo produttivo, se regolato e ben condotto, invece giusto o tollerabile.

La crisi nascerebbe insomma da una condotta sregolata e truffaldina, dall’ingordigia senza limiti né regole della “finanza”. Il rifiuto di pagare i debiti contratti per le malefatte del “lato oscuro” del capitale, potrebbe costituire la premessa per un ritorno alla forma “etica” della produzione capitalistica, smascherate le infamie e truffe della finanza globalizzata.

Il movimento rivoluzionario deve espungere da sé questa ideologia del bottegaio soffocato dai debiti, che vede la soluzione per i suoi guai nella loro cancellazione, costi quel che costi.

La nostra riproposizione dei principi della dottrina rivoluzionaria che è stata sviluppata nell’arco di tre anni sulla V Sezione del III Libro, e in specie sul Capitale produttivo di interesse, ha teso proprio a rimarcare la impossibile separazione tra finanza e capitale, sì che l’una è veramente la spina dorsale dell’altro né è concepibile quella senza l’altro. Nella cosiddetta “finanza globalizzata”, che in nuce analizzava Marx, appare di una chiarezza senza discussioni.

Su motivi, cause ed esiti della crisi non ci sono più dubbi; la nostra lunghissima memoria storica, ben superiore a quella di qualunque altra scuola economica o politica, ci fa riconoscere eventi, tragitti ed esiti già sperimentati dall’umanità lavoratrice. Il Partito deve fare ogni sforzo per denunciare questa ideologia da mezze classi in rovina, e riproporre l’indirizzo di classe.

Della presentazione del fondamentale capitolo 30, “Capitale monetario e capitale effettivo: Credito commerciale, accumulazione di capitale monetario”, è stata a questa riunione svolta la parte introduttiva.

Dopo aver concluso nel capitolo precedente che la maggior parte del capitale bancario, consistente in titoli, è capitale fittizio, si affronta l’analisi del processo di circolazione del capitale bancario, nella sua forma di capitale effettivo.

Due domande aprono il lavoro di analisi. La prima è se l’accumulazione del capitale monetario, cioè del capitale produttivo di interesse sia o no indice di una riproduzione allargata; se sia cioè solo un modo per definire la sovrapproduzione industriale o sia invece solo un fenomeno collaterale. E, per converso, fino a che punto la mancanza di denaro disponibile per il prestito esprima la mancanza di capitale reale, cioè capitale merce e capitale produttivo, e fino a che punto questa difficoltà monetaria coincida con la mancanza di denaro cioè mancanza di mezzi di circolazione.

L’accumulazione di capitale monetario e la formazione di un patrimonio monetario si sono risolti in una accumulazione di diritti di proprietà sul lavoro.

Entriamo più in dettaglio su questo concetto di accumulazione di diritti. Consideriamo innanzi tutto l’accumulazione di capitale del debito pubblico, che esprime il rafforzarsi di una classe di creditori autorizzati a prelevare certe somme sul gettito delle imposte. In questo fatto appare chiaro come una accumulazione di debiti si manifesta come accumulazione di capitale e che si realizza il capovolgimento caratteristico del sistema creditizio.

Questi titoli di credito rilasciati in cambio del capitale dato in prestito e ormai speso, sono duplicati cartacei di un capitale distrutto, che però esercitano per chi li possiede la funzione di capitale perché sono merci vendibili e possono essere ritrasformate in capitale.

Anche i titoli di proprietà sulle imprese, che sono effettivamente titoli su capitale effettivo, sono caratterizzati da questa particolare proprietà. Non permettono di disporre direttamente di questo capitale ma conferiscono diritti legali su una parte del plusvalore che da esso sarà creato, e sono in questa forma titoli come duplicato cartaceo del capitale effettivo; si trasformano in rappresentanti nominali di capitali inesistenti.

Siccome duplicati, sono essi stessi negoziabili come merci e circolano quindi come valori capitali; sono fittizi e il loro valore può accrescersi o diminuire con un movimento del tutto indipendente da quello del valore del capitale effettivo.

In condizioni di diminuzione del saggio dell’interesse, conseguenza della caduta tendenziale del saggio di profitto, il loro prezzo, cioè la loro quotazione in borsa, ha una tendenza al rialzo. Questa ricchezza immaginaria cresce nel corso dello sviluppo della produzione capitalistica.

Profitti e perdite che si generano dalle oscillazioni di prezzo di questi titoli di proprietà, come il loro accentramento in poche mani, ribaltano il modo originario di appropriarsi del capitale che è quello dal lavoro. Nota Marx: «questo tipo di patrimonio monetario fittizio non rappresenta soltanto una parte considerevole del patrimonio monetario dei privati, ma anche del capitale bancario».

Anche se questa classe di proprietari possiede il capitale e i redditi sempre in forma di denaro o in forma di crediti sul denaro, in ogni caso intasca una buona parte dell’accumulazione reale.

In altri termini titoli di Stato, azioni, ed altri titoli di qualunque tipo sono sfere di investimento per il capitale prestabile, cioè per il capitale che è destinato a diventare capitale produttivo di interesse; ma non rappresentano essi stessi il capitale da prestare, di cui in sostanza costituiscono l’investimento.

Però, per quanto riguarda la funzione che il credito esercita nel processo di riproduzione, cioè quello di cui industriali e commercianti hanno bisogno nella loro attività, sconto di cambiali, contrarre di un prestito, non sono né azioni né titoli di Stato. Ciò di cui hanno bisogno è il denaro.

Facendo astrazione da ciò che accade nel mondo del sistema finanziario, è il movimento e le caratteristiche di questo capitale che deve essere dato in prestito ciò che deve essere analizzato, il capitale monetario prestabile. Non prestito di immobili, macchine, o altro capitale fisso; non anticipi che industriali e commercianti si fanno reciprocamente sotto forma di merci nel processo di riproduzione. Si tratta qui esclusivamente dei prestiti monetari che i banchieri nella loro qualità di intermediari concedono agli industriali ed ai commercianti.
 

Democrazia e movimento operaio in Italia

Dal 2 al 7 settembre 1867 si tenne a Losanna il II Congresso dell’Internazionale, dove apparvero chiari i grandi progressi compiuti dall’Associazione. Il suo fruttuoso intervento in importanti questioni tra industriali e lavoratori in Francia e in Inghilterra le aveva valso l’adesione di intere leghe operaie; si fondavano qua e là giornali internazionalisti, e perfino in America gli operai cominciavano a guardare con fiducia verso la nuova organizzazione. Anche in Italia, le società operaie di Napoli, Milano, Genova, Bologna, Bazzano si erano messe in corrispondenza con il Consiglio Generale di Londra.

Degli esiti del congresso Marx si dichiarò molto soddisfatto, tant’è che scrisse ad Engels: «Les choses marchent. Alla prossima rivoluzione, che è forse più vicina che non sembri, noi [...] avremo questo strumento in mano nostra [...] E tutto ciò senza denaro e nonostante gli intrighi proudhoniani di Parigi, di Mazzini in Italia [...]. Davvero, possiamo essere soddisfatti!» (11 settembre 1867).

Quasi contemporaneamente si tenne, a Ginevra, il congresso della Lega per la Pace e la Libertà (9 settembre 1867).

Questa nuova associazione, composta di puri borghesi, si proponeva di lanciare al mondo un programma capace di abolire le tensioni ed i conflitti che tormentavano tutta l’Europa del XIX secolo.

Perfino Mazzini si rifiutò di aderire ad una simile accozzaglia delle più disparate e sospette ideologie. Secondo Mazzini non la pace, ma libertà e giustizia erano da conquistare, quindi altre lotte e guerre sarebbero state necessarie per raggiungere lo scopo. Dare fin da allora la propria adesione alla pace ad ogni costo sarebbe stato soltanto reazionario. Inoltre l’esperienza e il buon senso insegnavano che iniziative del genere non potevano che risultare sterili di qualunque risultato.

Garibaldi invece vi aderì e presentò una serie di sconclusionati punti programmatici in un miscuglio di radicalismo.

Ma, Garibaldi a parte, a favore del quale possiamo dire che non ha mai avuto la pretesa di essere un teorico, il congresso dei pacifisti ginevrini rappresentò una occasione d’oro per Bakunin. Questa tribuna internazionale gli diede la possibilità di propagandare il suo programma politico, religioso e sociale, come lo aveva maturato nel corso del suo soggiorno in Italia, anche se, “accortamente”, non mancò di adattare il suo anarchismo alle esigenze del convegno democratico-borghese senza imbarazzarsi di fronte alla impossibilità di conciliare l’abolizione dello Stato con la costituzione di un entità super statale: gli Stati Uniti d’Europa.

Il congresso della Pace si concluse con la vaga dichiarazione, che non poteva impegnare nessuno, della necessità «di far mettere all’ordine del giorno in tutti i paesi la situazione delle classi laboriose e diseredate, allo scopo che il benessere individuale e generale possa consolidare la libertà politica dei cittadini». A nome dell’Internazionale Dupont aveva concluso il suo intervento con queste parole: «Per fondare una pace perpetua è necessario distruggere le leggi che opprimono il lavoro, tutti i privilegi, e fare di tutti i cittadini una sola classe di lavoratori. In una parola, accettare la rivoluzione sociale con tutte le sue conseguenze». Bastano questi pochi accenni per accorgersi come le posizioni delle due organizzazioni internazionali fossero inconciliabili.

Gli echi di quelli che Mazzini chiamò “gli stupidissimi discorsi” di Ginevra non si erano ancora spenti, quando con la sconfitta dei garibaldini a Mentana nel novembre 1867 si dimostrò la necessità di ricorrere ancora alle armi per il trionfo della stessa democrazia borghese.

Ormai non vi erano più dubbi che il governo costituzionale potesse svolgere solo un ruolo reazionario. Ma allo stesso tempo veniva dimostrata tutta l’impotenza delle agitazioni mazziniane e la fine dell’epoca delle spedizioni garibaldine. I giovani rivoluzionari non tardarono a comprendere, forse più con il sentimento che con la ragione, come i problemi che stavano loro a cuore non avrebbero potuto essere risolti se non attraverso il superamento delle vecchie ideologie democratiche.

Ma a produrlo, al solito, non fu il maturare delle “idee”, ma l’azione del movimento operaio.

Il 1868 fu anno di miseria nera per le classi lavoratrici italiane. Ad aggravare la crisi economica che travagliava il paese da ormai otto anni era sopraggiunta la guerra del ‘66 e il corso forzoso. A tutto ciò nel ‘68 si aggiunsero i danni del cattivo raccolto del ‘67, l’industria in crisi, la svalutazione monetaria che portava al ristagno del commercio di importazione e di esportazione: i generi di prima necessità rincaravano vistosamente, i salari operai si mantenevano ad un livello bassissimo mentre l’imposta di ricchezza mobile, stabilita nel ‘66, decurtava in modo spietato i già miseri salari.

In tutto il paese, nelle città come nelle campagne, il malcontento sfociò in frequenti e clamorosi atti di protesta. L’opposizione, sia nei giornali sia nel parlamento non mancava di accusare il governo della grave crisi economica che colpiva le classi più deboli. Ma i lavoratori, delle città e delle campagne, non si accontentarono delle proteste morali e delle platoniche dichiarazioni di solidarietà da parte della sinistra democratica, e violente manifestazioni dilagarono in tutto il paese.

Gli operai e gli artigiani di città diedero sfogo al loro malcontento con la richiesta di aumenti salariali, con pubbliche dimostrazioni e, soprattutto, intensificando il movimento di resistenza. Infatti gli scioperi del 1868 nelle grandi città industriali, differenziandosi da quelli degli anni precedenti, rivelarono una nuova caratteristica: quella di abbracciare categorie diverse dello stesso territorio, ossia cominciano gli scioperi generali. Il proletario non si sentiva più appartenente ad una particolare categoria, ma ad una particolare classe sociale.

Ai primi dell’anno, oltre alla tassa di ricchezza mobile, si era cominciato a parlare di quella che sarà la più odiosa di tutte le tasse e che graverà esclusivamente sulle classi più misere: la tassa sul macinato.

I deputati della sinistra borghese, preoccupati delle conseguenze che essa avrebbe potuto determinare portando le grandi masse alla disperazione, inscenarono la loro opposizione d’ufficio. All’epoca fu Crispi a presentarsi come il maggior difensore dei deboli: quello stesso Crispi che, divenuto poi capo del governo, non ebbe nessuno scrupolo a reprimere nel sangue il movimento dei Fasci Siciliani.

Anche giornali democratici e le associazioni operaie si limitarono ad una pressione morale sulla Camera perché il progetto non venisse approvato.

Lo stesso Ministro dell’Interno, prevedendo rivolte da parte dei contadini, il 24 dicembre aveva diramato ai prefetti il telegramma: «Attuazione legge macinato segna momento importantissimo nell’assetto finanziario e politico del regno [...] Spetta ai signori prefetti rendere vana l’opera sovvertitrice col prevenire ogni disordine».

Infatti già dal giorno 26 si verificarono i primi tumulti tra i contadini del Veronese; che immediatamente si propagarono a Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia. A partire dal 1° gennaio in pochissimi giorni manifestazioni di protesta e rivolte contadine contro il “macinato” si propagarono a tutto il regno. Nelle province di Bologna, Reggio Emilia e Parma, le rivolte assunsero l’aspetto di vere e proprie sommosse, tanto che il 5 gennaio il governo concesse pieni poteri, militari e civili, per l’Italia centrale a colui che era l’uomo giusto per riportare l’ordine e la legge, colui che già nei moti palermitani del ’66 si era distinto per la sanguinaria repressione e, sul campo, si era guadagnato l’appellativo di “Macellaio”: il generale Raffaele Cadorna.

Il Macellaio, cioè Cadorna, aveva le idee chiare su quali fossero i mezzi da usare per “pacificare” il paese, ma non da meno erano i suoi colleghi. Infatti, secondo quanto venne pubblicato in vari giornali in tutta l’Italia si ebbero 257 morti, 1099 feriti, 3.788 arrestati.

A questo proposito è bene ricordare l’atteggiamento tenuto da Mazzini nei confronti dei moti contro la legge sul macinato, a dimostrazione di come la democrazia borghese si sia guardata bene dal prendere la direzione delle rivolte popolari quando queste potevano mettere in discussione l’impalcatura borghese del nuovo Stato italiano. Giuseppe Pomelli, nel suo libro dal titolo “Patriotti e soldati reggiani del Risorgimento”, a proposito degli avvenimenti del 1869 scrisse: «Un momento più favorevole per fare la rivoluzione non poteva esserci; invece non solo i capi mazziniani consigliarono la calma, ma Mazzini stesso scrisse lettere nelle quali addirittura combatteva quel moto e calorosamente raccomandava di non parteciparvi ma anche di cercare di farlo cessare».

La rivolta, scoppiata spontaneamente, assunse forme, proporzioni e pericoli per le istituzioni borghesi non previsti nemmeno dal governo. Furono i dirigenti del partito repubblicano a venirgli in soccorso; quegli stessi, che da anni predicavano la rivoluzione ed incitavano individui e gruppi a tenersi pronti, non pensarono affatto alla rivoluzione, mentre avrebbero avuto la forza di trasformare la rivolta dei contadini in una, ben più pericolosa, di operai e di artigiani nelle città, solo che avessero agitato la bandiera della repubblica e soprattutto quella delle riforme sociali. Ma Mazzini si preoccupava soprattutto della unità nazionale e tutto doveva essere rimandato a dopo il suo pieno compimento.

Lo stesso Nello Rosselli, nel suo libro “Mazzini e Bakunin” commenta: «Se proprio si guarda alla sostanza delle cose, bisogna riconoscere che, dalla unificazione politica in poi, Mazzini fu un elemento di conservazione assai più che di vero rinnovamento. Parla di rivoluzione, caccia questa parola in tutti i suoi scritti, ma non pensa a organizzarla sul serio; capisce che così bisogna fare per tenere la coesione nella Sinistra e per non lasciarsi sfuggire gli elementi più giovani e attivi: è una parola d’ordine, nulla più. E intanto, fin quando i giovani intellettuali e gli operai staranno stretti intorno alla rivoluzione di Mazzini, l’unità e l’ordine sociale potranno dormire sonni tranquilli».
 
 
 
 
 
 
 
 

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Debiti pubblici - profitti privati
Il proletariato è schiavizzato dal rapporto di lavoro salariato, non dal “peso del debito”
 

Intorno al tema del pagamento o meno del debito pubblico dello Stato italiano si è costituito un movimento con un confuso programma interclassista, che mescola rivendicazioni sindacali e più propriamente politiche. “Noi il debito non lo paghiamo”: ma del debito di chi si sta parlando, se i proletari sono per definizione dei nullatenenti?

Il debito che lo Stato ha contratto verso la classe borghese nostrana o verso altri Stati non interessa i lavoratori salariati. La classe operaia si mantiene attraverso la vendita – ripetuta giornalmente – della propria forza-lavoro ed il salario che riceve è praticamente tutto consumato. Così si riproduce l’intero esercito industriale, che comprende non solo gli attivi, ma anche gli anziani, i disoccupati, i giovani non ancora avviati alle galere industriali, ecc. Il rapporto di lavoro salariato, che regola la precaria esistenza in vita degli schiavi moderni, non sarà mai intaccato da qualsiasi evoluzione del circuito del debito internazionale.

Un costituendo movimento che pone a base delle proprie fondamenta un problema relativo ad uno scontro interno alla borghesie o fra diverse borghesie nazionali, mentre afferma di difendere gli interessi dei lavoratori, non può che camminare nella direzione sbagliata.

“Contro l’Europa delle banche”: perché questa separazione opportunista tra capitalisti buoni e tagliatori di cedole cattivi? A cosa servono le banche se non a trasformare il denaro in capitale da gettare nella produzione immediata?

L’assemblea del 1 ottobre è stata la costituente di un movimento che avrebbe per obiettivo “di reagire alla aggressione alla democrazia e ai diritti sociali” tramite la formazione di “un fronte comune”. Un fronte di che genere? A giudicare dai continui richiami a tutto il classico armamentario riformista, di un fronte politico.

Si mischiano vaghi sentimenti pacifisti ad echi antipolitici e indignazione per la corruzione e i privilegi “di casta”. Si annacquano rivendicazioni sindacali determinanti, come la richiesta di riduzione dell’orario di lavoro (seppur non specificando che tale riduzione dovrà aversi a parità di salario e di intensità), in un brodo riformista e insaporito con la salsa della reintroduzione della scala mobile.

I proletari devono lottare per la difesa del salario, anche per chi è espulso dal lavoro o non lo trova, al fine non di sopire ma di inasprire le contraddizioni di classe fino poi lasciarle esplodere nella guerra sociale per l’assalto al potere statale.

Affiancando a rivendicazioni sindacali vecchie illusioni staliniste si torna a parlare di nazionalizzazione delle banche, di nuovo modello di sviluppo, di tassazione dei grandi patrimoni, di vincoli alle scelte delle multinazionali. Poi, lotta all’evasione, difesa della scuola pubblica, riforme fiscali, economia compatibile con la difesa dell’ambiente, per arrivare al cavallo di battaglia del camaleontico opportunismo ormai di un secolo e mezzo: intervento pubblico nell’economia. Perché il massiccio sostegno dello Stato a banche e imprese non sarebbe intervento pubblico? Lo Stato interviene sempre, cambiano solo le forme di questo intervento a seconda delle esigenze di valorizzazione del capitale.

Quale il collante in grado di tenere assieme “soggetti” così eterogenei? Lo si ripete nei documenti prodotti in vista della formazione di questa “area”, che dovrebbe collocarsi all’estrema sinistra dello schieramento istituzionale: una “democrazia radicale anticapitalista”! La democrazia, da miglior involucro del capitalismo, perfezionatasi nel fascismo e più ancora nel post-fascismo, dovrebbe diventare “anticapitalista”! Si chiede il ritorno all’involucro e alla ideologia giovanili del capitalismo ignorando che le sovrastrutture finiscono per adeguarsi alla base economica, e che se questa è sempre più concentrata e tirannica lo dovrà essere anche quella. Non solo è parola antioperaia, è addirittura reazionaria.

Ma gli organizzatori vedono il movimento come “un’alternativa radicale che colpisca gli interessi della finanza e delle banche”, in grado di ristabilire “eguaglianza e diritti”, e col fine di liberare la società “dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi”. Esattamente il contrario della reale necessità storica: per colpire gli interessi del capitalismo, sia esso giunto alla “fase finanziaria” o meno, occorre proprio violare la uguaglianza borghese, fino a prevedere la dittatura del proletariato; solo con questo intervento politico comincerà l’opera di disintegrazione del mercato, non una riforma interna al dominio democratico, ma la sua distruzione.

Partiamo dal fondo.

Lo Stato interviene costantemente nell’economia, oggi non meno e non più di ieri. Non è, né è stato, per nulla un passo verso il socialismo la creazione delle imprese economiche di Pantalone o l’autogestione delle imprese ad opera dei lavoratori da esse dipendenti, per il semplice fatto che il socialismo non affiderà di certo la produzione sociale a gruppi particolari. Queste imprese di proprietà dello Stato-Padrone non possono essere sottratte al mercato e alle sue leggi. Il capitalismo di Stato non può uscire dal mercato perché quello è il suo ambiente vitale e d’elezione, al di fuori del quale non potrebbe più essere capitale e Stato del capitale.

Il rimpianto del vecchio Stato assistenziale (con la sua opera di corruzione di larghe fette del proletariato), tanto da rivendicare un piano “straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione”, è una chiara dichiarazione di fede socialdemocratica. Lo Stato “assiste” la classe operaia per fregarla meglio, come il secondino “assiste” il carcerato, per mantenere, completare e rendere più ordinata la sottrazione del plusvalore. Una quota del salario mensile viene trattenuta dallo Stato borghese che la investe a suo piacimento, sottratta al consumo operaio e trasformata in capitale. Sono solo i proletari che alimentano lo Stato assitenziale, che infatti è in attivo. Ma quando, a chi e quanto sarà restituito ai lavoratori lo deciderà lo Stato, vedasi le recenti “riforme” delle pensioni.

Accanto trovano il loro posto gli altri miti tipicamente riformisti: le banche dovrebbero ritornare sotto il controllo diretto dello Stato. Ma lo Stato di chi? questo il punto focale. Finché si concepisce quella macchina organizzata dalla classe dominante per reprimere la nemica classe proletaria come un organismo al di sopra delle parti e di ogni sospetto, è naturale che la soluzione delle crisi cicliche del modo di produzione capitalistico vada ricercata in nazionalizzazioni o creazioni di municipalizzate. Quando invece si abbraccia la teoria comunista rivoluzionaria, non si può che concludere per la distruzione dello Stato borghese con tutte le sue istituzioni e apparati, materiali ed ideologici compresi: scuola, tribunali, esercito, polizia, organi di comunicazione di massa, ecc.

Sulla pretesa della distribuzione del reddito e della riforma fiscale basta notare che si tratta di tagliare diversamente una torta già divisa in partenza in parti diseguali dalla natura stessa del rapporto salariale e dall’arcano della fattura del plusvalore.

“C’è un governo unico delle banche e della finanza che domina le nostre vite” si dice nell’assemblea del primo ottobre; giusto, ma come farvi fronte? Il governo unico sta a significare che la borghesia ha scoperto la propria coscienza di classe. A questa centralizzazione si deve rispondere con altrettanta concentrazione, non con il federalismo movimentista, con il “movimento dei movimenti”. Dietro l’opportunismo dei mestatori di sempre, è sempre meglio lasciar fare alla “base” e poi cavalcarne l’onda!

Per i “movimentisti” il nemico non è l’intero modo di produzione capitalista, il più bestiale della storia, ma “il sistema finanziario globalizzato, gli accordi di Maastricht, il potere delle banche, della finanza e del grande capitale”, è il “liberismo”. Concetto questo di sicuro effetto sulla “base”, ma che sta all’opposto da ogni linea di difesa classista e dal fine di riorganizzare il fronte proletario. A metà strada tra un sindacato che rifiuta la concertazione confederale e un partito politico che si collocherebbe nel tanto accogliente “arco costituzionale”, non è stato un passo verso il ricompattamento delle frantumate spinte operaie; non lo poteva essere a causa del programma interclassista che sta alla sua base e che lo condannerà a rivestire un ruolo di servizio del dominio del capitale internazionale nella sua base italiana.

I sindacati di base che si pongono sul terreno della lotta e della difesa di classe non hanno nulla da guadagnare nell’aderire a questi tentativi malconci di mascherare il riformismo con una facciata barricadera; al contrario ne verranno risucchiati e ripercorreranno strade già battute nei decenni trascorsi, quando nell’ossessiva ricerca del successo immediato e dell’ingrandimento delle proprie file i primi timidi segnali di ripresa del sindacalismo di classe vennero annegati nel mare dell’immediatismo. Non è possibile scavalcare il nodo storico della rinascita del Partito di classe con la costituzione di organismi ibridi.

Il grido di battaglia dei lavoratori più combattivi e coscienti deve risuonare forte e chiaro: sciopero generale ad oltranza! Non si tratta di cercare nuovi metodi di lotta e parole d’ordine alla moda. È necessario riappropriarsi del potente strumento dello sciopero intercategoriale, sola arma in grado di contrastare un padronato, rigidamente concentrato e schierato compatto a difesa dei propri profitti.

Nulla di buono potrà uscire da un neonato movimento che sorge già con tutte le peggiori malattie senili dell’opportunismo interclassista.
 
 
 
 
 
 
 


Che paghino o non paghino i loro debiti il padronato e tutti gli Stati muovono all’attacco delle condizioni della classe operaia
 

Come scientificamente previsto dal comunismo marxista, le contraddizioni interne del regime capitalistico ne stanno determinando la rovina

L’attuale crisi economica internazionale non è solo finanziaria ma di sovrapproduzione. Il dissesto del debito e la speculazione non sono la causa ma le inevitabili conseguenze della recessione e del fallimento storico del capitale – che è industriale e finanziario insieme – come modo di produzione. I mercati sono intasati di merci invendute, molti rami di industria riducono la produzione e intere fabbriche chiudono. I lavoratori in cassa integrazione e i disoccupati aumentano, spesso senza alcuna assistenza sociale. Il Capitale sempre con maggiore difficoltà riesce a mantenere in vita i suoi schiavi salariati.

Gli Stati di tutto il mondo, sia a governo “di destra” sia “di sinistra”, sono “intervenuti” per difendere i profitti del capitale nazionale, da un lato riducendo con la forza i salari ed aumentando l’intensità e la durata della vita lavorativa, dall’altro accumulando enormi debiti al fine di rimandare il precipitare di una crisi già in atto da decenni e che infine è esplosa ancor più gigantesca. L’avvolgersi della crisi mondiale ha successivamente dimostrato fallire il regime del profitto sia sotto la forma di capitalismo di Stato sia del cosiddetto liberismo. Per l’incalzare della crisi è sempre più difficile nascondere la ferrea dittatura del capitale sulla classe operaia sotto il turpe mito borghese della democrazia.

Qualunque politica attui lo Stato borghese esso è e sarà sempre contro la classe operaia (prima, con o dopo “Berlusconi”). Il capitale nazionale italiano è indissolubilmente intrecciato al mercato e alla finanza mondiali. Chiedere di tagliare quei legami è indicazione ancora più reazionaria, oltre che utopica. A qualsiasi governo di ogni Stato, di quello italiano ma anche dei massimi imperialismi ed organismi della finanza internazionale, la politica di bilancio, fiscale ecc. è imposta dall’esterno, dal deteriorarsi della sottostruttura economica, né hanno essi alcuna libertà di scelta.

Tanto che ad una borghesia nazionale sia concesso di rimandare la dichiarazione di fallimento, quanto che essa venga infine costretta ad accettarlo, insomma, che “paghi” o che “non paghi”, muteranno comunque in peggio le condizioni dei lavoratori se questi non sapranno opporre alla pressione padronale e statale la loro forza e la loro ordinata e generale mobilitazione di classe.

Il debito, dello Stato borghese verso i borghesi e dello Stato borghese verso altri Stati borghesi, non riguarda la classe dei lavoratori. È indice dello stato agonico e della rovina loro, non della nostra classe. I lavoratori non sono oppressi dalla “schiavitù del debito”, ma dalla schiavitù del salario.

Necessità della classe lavoratrice non è consigliare allo Stato borghese quello che dovrebbe fare al fine, impossibile, di “tornare alla crescita”, ma contrastare con tutte le sue forze il tentativo padronale di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori, per dividerli, per incanalarne il movimento verso false strade.

La crisi, così generale, profonda, irreversibile, dimostra che il regime capitalistico non può dare speranza ai proletari. Non troveranno salvezza a chiudersi all’interno della singola fabbrica, né della singola nazione. I proletari non hanno patria. Il proletariato può salvare se stesso, e con esso tutti gli oppressi del Mondo, solo ricostituendo la sua unità di classe, prima all’interno delle nazioni poi internazionale.

Questo regime non cadrà solo per il suo, pur evidente, fallimento economico, sociale ed ideale. Se la classe borghese riuscirà a mantenere il potere politico negli Stati, se non interverrà la internazionale azione cosciente del proletariato rivoluzionario e del comunismo, l’umanità sarà precipitata in una terza guerra imperialista, unico strumento che permette al Capitale di rigenerarsi attraverso la distruzione catastrofica di masse enormi di merci e di uomini.

La crisi del capitalismo, lungi dal risolversi, si aggraverà in una spirale di cause ed effetti sempre più drammatici. Ad essa non esiste una varietà di soluzioni possibili: esiste una sola soluzione borghese a cui si contrappone la soluzione proletaria. Il suo disciogliersi avverrà necessariamente attraverso l’alternativa: o guerra imperialista fra gli Stati nazionali borghesi o rivoluzione proletaria internazionale.

Tutti i governi borghesi, “di destra” e “di sinistra”, come oggi, spinti dalla crisi, hanno imposto durissimi provvedimenti contro la classe lavoratrice, domani, di fronte al suo ulteriore precipitare, cercheranno di trascinare i lavoratori nella carneficina della guerra, per spartirsi il mercato mondiale, ma soprattutto per impedire con la guerra la rivoluzione.

Questa prospettiva indicata dal comunismo rivoluzionario sarà confermata domani come lo è stata oggi la previsione marxista della grande crisi, perché poggia sulla medesima base scientifica del marxismo, sulla sua lettura della esperienza storica di due secoli di capitalismo, delle sue crisi, di due guerre mondiali e delle sue Rivoluzioni.

Le rivendicazioni di “non pagare il debito” e la lotta “contro l’Europa delle banche” non difendono la classe operaia. Saranno utili invece al futuro governo borghese, verniciato di rosso o di nero, che avrà il compito di trascinare i lavoratori alla guerra in difesa “del Paese” contro le nazioni nemiche.

La vera lotta proletaria non è contro il debito ma per il salario! I lavoratori devono tornare ad impugnare le rivendicazioni storiche del movimento operaio:
- salario minimo garantito per tutti i lavoratori adeguato al costo della vita;
- lo stesso salario minimo per i lavoratori licenziati;
- riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;
- uguali condizioni di lavoro al di sopra di razza, nazionalità, sesso;
- diritti di cittadinanza ai lavoratori immigrati e alle loro famiglie.

Queste rivendicazioni accomunano tutti i lavoratori e uniscono le loro lotte al di sopra delle divisioni fra aziende, categorie, razze, religioni. Sono le uniche sulle quali è possibile costruire una mobilitazione generale della classe.

Queste rivendicazioni storiche sono state strappate di mano ai lavoratori, sostituite con altre che li dividono e li rinchiudono nelle galere aziendali, fatte loro dimenticare, da decenni di sindacalismo di regime di CGIL, CISL e UIL. Ma chi oggi propone ai lavoratori al loro posto la “lotta contro il debito” sta solo mettendo una veste nuova al vecchio opportunismo anti-operaio di sempre!

Ciò che diventa sempre più urgente per i lavoratori è la ricostituzione di un fronte unico sindacale sulla base di queste rivendicazioni, per la loro difesa incondizionata, contro l’interesse dell’economia nazionale borghese e fuori dalle compatibilità capitalistiche, che apra la strada alla ricostituzione di un potente Sindacato di classe, fuori e contro tutti i sindacati di regime!

La classe operaia deve sapersi organizzare separata dalle nemiche classi dominanti e dagli incerti strati intermedi e dai loro “movimenti”, perché solo essa porta in sé la forza e il germe del futuro. Solo una classe ben inquadrata e diretta verso i suoi obbiettivi, che impieghi l’arma dello sciopero e non le schede elettorali e referendarie, potrà domani trascinarsi dietro le infinite espressioni del malcontento sociale contro il capitalismo.

Per questo è necessario che si rafforzi e si estenda l’organizzazione politica del proletariato, il Partito Comunista Internazionale, indispensabile per mantenere oggi la prospettiva rivoluzionaria comunista, per guidare domani il proletariato alla lotta per la conquista del potere politico, verso la piena emancipazione comunista dell’uomo.
 
 
 
 
 
 
 
 


Completata la riproduzione di Prometeo
Recuperati i 53 numeri mancanti, fino all’aprile 1938

Come in altre occasioni abbiamo avuto modo di affermare, la ricerca e riproduzione degli strumenti che segnano il filo rosso della tradizione rivoluzionaria, attività che il partito ha sempre svolto e continuerà a svolgere, è dettata dalla necessità di salvare dalla distruzione e scomparsa un prezioso materiale storico e ricostituire un archivio di partito il più completo possibile onde permettere alla nostra attuale compagine, e soprattutto al futuro partito rivoluzionario, di disporre di armi teoriche e di pratici insegnamenti acquisiti attraverso la viva esperienza della lotta di classe.

Non mania di collezionismo o velleità editoriale, per occupare una “nicchia di mercato” e di far soldi con la messa in commercio di materiale che possa allettare i pruriginosi istinti dei intellettuali piccolo-borghesi. Altri fessi, a partire da anni lontani, hanno tentato (fra l’altro, invano) di far cassetta pubblicando testi con nomi di illustri autori.

Per quanto riguarda la Frazione all’estero avevamo già riprodotto, negli anni passati, le collezioni complete di Bilan, Communisme, Octobre, oltre a vari Bollettini, ed i primi 100 numeri di Prometeo, dal giugno 1928 al marzo 1934.

La collezione di Prometeo era rimasta incompleta poiché risultava che unica copia esistente fosse quella posseduta, in microfilm, dalla Fondazione Feltrinelli di Milano la quale, malgrado nostri vari tentativi, non ci ha consentito di farne copia.

C’è voluta la cocciutaggine dei nostri compagni per riuscire a scovare, in luogo insperato, un altro esemplare del microfilm.

Acquisito questo ci siamo trovati di fronte ad un altro non meno grave problema: la maggior parte dei fotogrammi era praticamente illeggibile, così siamo dovuti ricorrere all’opera dei nostri “tecnici” per ripulirli pagina dopo pagina dalle macchie scure che ne impedivano la lettura. Si è trattato di un lungo e meticoloso lavoro che però, alla fine, ha dato il buon risultato del recupero dei 53 numeri mancanti, ossia fino all’aprile 1938, permettendo il completamento della raccolta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


6 settembre
Contro le manovre del governo e l’accordo del 28 giugno
Per la difesa intransigente della classe lavoratrice - Rinasca il sindacato di classe
 

La manovra economica è un nuovo pesante attacco contro tutta la classe lavoratrice. Distrugge il contratto collettivo nazionale di lavoro attraverso la possibilità nei futuri contratti aziendali di derogare ad esso su quasi ogni materia; consente che i contratti aziendali concedano la piena libertà di licenziamento, in deroga all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; accelera il processo d’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni delle lavoratrici del settore privato

Tutti questi provvedimenti nella loro essenza si riducono all’obiettivo di fondo perseguito dalla borghesia, dai suoi Governi di destra o sinistra, dal suo Stato, in ogni paese: la riduzione del salario, sia esso diretto (busta paga), indiretto (servizi sociali), differito (liquidazione, pensione).

Ridurre il salario significa aumentare lo sfruttamento del proletariato. Questa è la sola reale misura che il capitalismo ha a disposizione per mantenere in vita la sua economia, minata dal cancro incurabile del calo del saggio del profitto e dalla sovrapproduzione di ogni tipo di merci: le vere cause della crisi, che non è italiana né europea, ma è mondiale.

La classe lavoratrice – il proletariato – non deve farsi carico della sopravvivenza di questo sistema economico perché esso è destinato inesorabilmente al collasso e comporta sempre più sfruttamento, miseria, oppressione e guerra per i lavoratori di tutto il mondo. L’economia capitalistica continuerà ad affondare, avvitandosi in crisi sempre più estese e catastrofiche, ma la classe lavoratrice non si rassegnerà ad affogare con essa e lotterà per i suoi opposti interessi di classe, contro questo sistema sociale che ha fatto il suo tempo.

Per questo, oggi, la strada che i lavoratori devono intraprendere non è quella di chi propone false ricette alternative volte alla impossibileripresa della crescita dell’economia capitalistica, sostenendo uno dei due schieramenti parlamentari che si fingono contrapposti, né quella di chi favoleggia un’economia capitalistica diversa, più “umana” e meno distruttiva per il lavoro e le risorse naturali, da realizzare attraverso l’azione di movimenti di tutte le classi e senza mettere in discussione il regime sociale e politico borghese. Il Capitale sarà sempre disumano e distruttivo.

Oggi, per i lavoratori, la questione centrale è quella di organizzare la difesa intransigente delle loro condizioni, il che significa lottare senza farsi carico alcuno delle sorti dell’economica nazionale.

La direzione della CGIL è stata costretta a organizzare lo sciopero di oggi per non screditarsi del tutto davanti ai lavoratori. Ed è un fatto positivo che una parte importante del sindacalismo di base vi abbia aderito, superando la pratica annosa degli scioperi separati. Ma è evidente a tutti che scioperi di questo tipo non sono e non saranno sufficienti per fermare l’attacco presente e quelli futuri.

Solo la forza può imporre al Capitale e al suo Governo il ritiro di questi provvedimenti. Questo significa mobilitare i lavoratori in uno sciopero generale a oltranza fino al ritiro della manovra. È evidente che una simile mobilitazione non s’improvvisa. Occorre una organizzazione sindacale estesa e determinata a un lungo lavoro per preparare la classe a un simile scontro. Questo sindacato oggi non esiste.

Di fronte alla manovra di luglio, infatti, che ha colpito pesantemente i servizi sociali e ha prorogato il blocco dei contratti per i dipendenti pubblici, la CGIL non solo non ha mosso un dito, ma il 4 agosto ha presentato al Governo – in comune con gli altri sindacati di regime (CISL, UIL, UGL), con Confindustria e con l’Associazione della Banche – le “Proposte delle Parti Sociali” per unirsi agli industriali e alle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali nel richiedere privatizzazioni, modernizzazionedello Stato sociale, della Pubblica Amministrazione e delle relazioni sindacali: tutti i soliti ipocriti eufemismi coi quali la borghesia camuffa gli attacchi contro i lavoratori.

La parte della manovra che distrugge il contratto nazionale di lavoro è figlia legittima dell’Accordo del 28 giugno fra Confindustria e CGIL-CISL-UIL, che già segnava un passo decisivo in questa direzione. Coerentemente CISL e UIL lo riconoscono e plaudono sia a quell’accordo sia a questa parte della manovra. È la maggioranza CGIL che ora deve fare le capriole, sostenendo che la manovra ribalta quell’Accordo. Il Governo non ha fatto altro che accelerare i tempi. L’Accordo del 28 giugno deve essere respinto al pari della manovra d’agosto.

L’opposizione interna alla CGIL ha fatto pressioni sulla direzione per la proclamazione di questo sciopero, perché teme il totale discredito del suo sindacato fra i lavoratori. Ma non perché vuole ritornare ad un vero sindacato di classe, cosa nella quale altrimenti si sarebbe impegnata da almeno due decenni, fuori e contro la CGIL. Essa rappresenta solo l’ala meno conseguente e la copertura del sindacalismo concertativo e di regime.

La CGIL non potrà mai diventare un sindacato di classe, non potrà mai arrivare a consentire uno scontro aperto perché la sua politica è fondata sul dogma che debba esistere un sistema di regole, condivise da borghesi e lavoratori, che possa tutelare gli interessi di entrambi e che eviti lo scontro di classe. Questa illusione ha retto fintantoché l’economia capitalistica è cresciuta, dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale. Con l’approfondirsi della crisi si sta dimostrando che non esistono regole o diritti, che sono cancellati quando è in pericolo la sopravvivenza del Capitale. Non esistono regole o leggi che possano difendere i lavoratori al di fuori della loro forza organizzata, che deve essere superiore a quella della classe nemica.

Ai lavoratori spetta dunque di ricostruire il loro Sindacato di classe per organizzare la difesa efficace dai sempre più duri attacchi della borghesia. Un sindacato realmente autonomo dal padronato e dal suo Stato: che rigetti tutte quelle forme di corruzione, mascherate da diritti, quali i distacchi permanenti e temporanei e per contare essenzialmente sull’impegno gratuito dei suoi militanti; che rifiuti il pagamento delle quote per delega per non lasciare il suo finanziamento in mano al padrone e rendergli nota la lista degli iscritti; che sia rappresentativo non perché sottostà alle regole concesse dal padronato o dallo Stato (RSU, RSA) ma solo perché di fatto in grado di organizzare i lavoratori e dirigere scioperi efficaci.

La condizione proletaria non sarà per sempre, come da ogni lato viene martellato, legata alle sorti dell’economia capitalistica, chiamata in ogni paese “economia nazionale”. Il capitalismo stesso ha ovunque nel mondo – e da decenni! – creato le condizioni per il suo superamento: ha sviluppato la forza produttiva del lavoro a tal punto da rendere possibile soddisfare i bisogni dell’umanità con poche ore di lavoro medio quotidiano. Oggi si tratta di liberare il lavoro dalle leggi economiche capitalistiche che impediscono questa necessaria e razionale organizzazione della produzione e della società. Ma, per farlo, bisogna liberare la classe mondiale dei lavoratori dal dominio politico del Capitale, della borghesia.

Coerentemente e a necessario completamento di questa guerriglia per la difesa delle proprie condizioni, già oggi la classe lavoratrice trova nel suo Partito, il Partito Comunista Internazionale, l’anticipazione della sua definitiva emancipazione sociale e politica rivoluzionaria per giungere domani a combattere e vincere la sua guerra che cancellerà il capitalismo per sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


21 ottobre, sciopero Fiat-Fincantieri
La lotta per il lavoro non basta a difendere la classe operaia
Unire le lotte per conquistare il salario a tutti i licenziati e la riduzione dell’orario
 

La mancanza di commesse per i cantieri navali, così come la chiusura delle fabbriche FIAT e il massiccio ricorso alla Cassa integrazione, sono parte della crisi di sovrapproduzione del capitalismo mondiale che investe tutti i settori produttivi. In Italia, in Europa, nel mondo le fabbriche chiudono e licenziano, o interrompono la produzione ricorrendo, dove vi sono, agli ammortizzatori sociali.

Questa crisi in cui sprofonda il capitalismo non ha soluzione al suo interno. Continuerà ad aggravarsi in una spirale dalle conseguenze sempre più drammatiche.

Non solo non si torneranno a produrre tante navi, auto, e ogni altro genere di merci come ai livelli precedenti, ma la borghesia cercherà di farlo con meno operai e per meno salario.

Affrontare questa situazione con una miriade di vertenze aziendali, separate fra loro, per i lavoratori è una via suicida. È necessario invece unire le singole lotte in un movimento generale di tutta la classe lavoratrice. Questo sarebbe il compito primario di un vero sindacato di classe.

A questo scopo lo sciopero del 21 ottobre di FINCANTIERI e del gruppo FIAT insieme è un fatto positivo. Ma non è sufficiente. Ciò che occorre è impostare le lotte per obiettivi che uniscano veramente, al di sopra della fabbrica, azienda, categoria.

Di fronte alla crisi la lotta per difendere “il posto di lavoro” è sempre più inadeguata. Infatti:

– Nell’ambito ristretto del cantiere e della fabbrica la lotta per scongiurare il licenziamento o la cassa integrazione può servire a guadagnare un po’ di tempo, a rimandare di qualche mese la chiusura; ma si permette intanto al padronato di alimentare la concorrenza tra cantiere e cantiere, tra fabbrica e fabbrica, addirittura tra un lavoratore e l’altro;

– Mentre la minaccia del licenziamento e la disoccupazione accomunano sempre più tutta la classe operaia, restano a difendere il “posto” un numero ristretto ai dipendenti di una singola azienda, la “loro”, invece di divenire la base per una molto più forte lotta comune;

– Se alcune aziende sopravvivono, colpendo duramente i loro operai, molte altre non reggono alla recessione e chiudono. Cosa dovrebbero fare quei lavoratori per rivendicare “un lavoro”, offrirlo gratis?

– Lottare “per il lavoro”, o per il “blocco dei licenziamenti”, conduce gli operai, pur di continuare a lavorare, ad accettare ogni imposizione padronale, tagli al salario, aumenti dei carichi di lavoro, esuberi, come, ultimo esempio, a Monfalcone, con la firma anche della FIOM provinciale e della RSU, e al Muggiano, e prima a Pomigliano e a Mirafiori. Questo peggiora la condizione dei lavoratori ancora in produzione, che accettano di lavorare in meno e più intensamente, e quella dei sempre più numerosi disoccupati, che un lavoro non lo troveranno mai, dividendo e contrapponendo gli uni agli altri;

– Lottare per il “sostegno statale” spinge i lavoratori a richiedere che a ottenere i finanziamenti sia la “propria” azienda, se non il “proprio” stabilimento o cantiere, e non si pensa alle altre. Inoltre, fatto ancor più grave, divide i lavoratori delle grandi aziende, che sono una minoranza della classe operaia, da quelli delle piccole e medie, che non possono sperare negli aiuti dello Stato.

Di fronte alla crisi generale del capitalismo, devastante e definitiva, i lavoratori non devono lottare solo contro l’azienda, “per il lavoro”, ma soprattutto e sempre più contro tutta la borghesia, industriale e finanziaria, affinché paghi ai licenziati, attraverso il suo Stato, un salario adeguato a vivere. Sarà un problema dello Stato borghese, e del padronato, decidere se pagare i lavoratori mantenendoli inattivi, o fornire loro un lavoro.

La rivendicazione del salario ai lavoratori licenziati e ai disoccupati unisce tutti i lavoratori: delle grandi aziende e delle medie e piccole, delle ditte in appalto e delle aziende committenti, i lavoratori precari e quelli relativamente più garantiti, gli occupati e i disoccupati.

Ad essa deve essere affiancata la rivendicazione di un salario minimo per tutti i lavoratori, uguale al salario di disoccupazione, e quella della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Questi sono gli obiettivi sui quali è possibile creare un movimento di tutta la classe operaia. Per imporli i lavoratori devono costruire la loro organizzazione di lotta: un vero Sindacato di classe, fuori e contro tutti i sindacati di regime (CGIL, CISL, UIL) che da decenni sono lo strumento indispensabile della borghesia per mantenere divisa e sconfiggere la classe lavoratrice.

Questa crisi per il capitalismo è mortale. Al di sopra di tutte le illusioni si sta dimostrando che la borghesia, pur di mantenere il proprio dominio e i propri privilegi, è pronta a sacrificare la grande maggioranza dell’umanità.

Solo la classe operaia ha in sé la forza e il germe della società futura. Se il capitalismo muore i lavoratori invece vivranno, in una società libera dal Capitale.

Lottare per il salario ai lavoratori di cui il Capitale vuole disfarsi, per esso ormai merci inutili, significa già oggi unire la lotta per le necessità immediate di ogni lavoratore alla lotta per la società di domani, senza classi e senza lavoro salariato.
 
 
 
 
 
 
 


Lear: chiusi nella galera capitalista
 

Dopo mesi di dissidi interni il conflitto tra la Fiom da una parte e la maggioranza della Cgil dall’altra sembra essersi risolto a favore della seconda, con la prima costretta a rientrare nei canoni del sindacalismo concertativo; ha prevalso la via del riavvicinamento alla linea espressa dalla segreteria confederale e, a testimoniare questa “ritrovata unità”, sempre e comunque avversa alla classe salariata, nell’accordo integrativo firmato alla Lear campeggia anche la firma della Fiom. Che fine hanno fatto le proteste contro il “modello Marchionne”? Sono sparite come sempre dentro le manovre da retrobottega che caratterizzano da decenni il sindacalismo nostrano marcio di opportunismo e cogestione.

L’integrativo firmato presso l’Unione industriali di Napoli ricalca fedelmente gli accordi alla Fiat di Pomigliano e Mirafiori: premio di produzione per un 30% legato alla presenza in fabbrica; possibilità di spostare la mensa per i turnisti a fine turno; possibilità di elevare fino a 120 le ore di straordinario comandato (in deroga al contratto nazionale); sistema di turnazione in deroga al decreto legislativo del 2003; energica clausola di raffreddamento per prevenire le proteste spontanee dei lavoratori.

In sede di referendum tra i lavoratori l’accordo è stato bocciato, ma con una spaccatura quasi a metà. Lo Slai-Cobas ha cantato vittoria inneggiando alla “democrazia” ristabilita. Noi comunisti non saremmo così ottimisti: la riscossa operaia, anche quando si riflettesse nel prevalere in meccanismi elettorali e nelle opinioni dei singoli, potrà fondarsi solo sul dispiegarsi di una forza reale, nell’intensificazione delle lotte intransigenti e nella robusta organizzazione della classe.

La generalizzazione di questo tipo di accordi (che a questo punto diventa insensato definire “separati”) impone una riflessione d’ordine generale sulla contrattazione decentrata. Il testo del 21 settembre si apre significativamente con il problema della presenza al lavoro: «Le parti convengono che la presenza al lavoro dei dipendenti è condizione indispensabile per garantire il rispetto degli impegni di fornitura nei confronti del Cliente»; il fulcro sta proprio qui: aumentare la produttività per garantire consegne tempestive alla Fiat. Al di là delle migliaia di particolarità aziendali è sempre questo lo “spirito” della contrattazione di secondo livello, far meglio aderire le norme che governano il processo di lavoro alle esigenze di valorizzazione di quella quota particolare del capitale mondiale in modo da spingere all’estremo lo sfruttamento della forza-lavoro.

È una novità dell’ultima ora? Assolutamente no. Indubbiamente la crisi generale di sovrapproduzione ha inasprito lo scontro, ma i germi delle situazioni odierne si possono ritrovare già in quei contratti aziendali degli anni ’60, quando l’espansione del capitalismo seguente alla fine della Seconda Guerra imperialista permetteva di elargire briciole dei sovrapprofitti imperialisti.

La politica volta a sviluppare a dismisura la contrattazione articolata veniva presentata, allora, come metodo per derogare, in meglio per i lavoratori dell’azienda, dal contratto nazionale. L’istituto del premio di produzione permette di dimostrare la continuità di fondo del sindacalismo tricolore che attraversa i periodi di prosperità come quelli di crisi. Il capitalismo ha la necessità di valicare continuamente i limiti che esso stesso ha posto nel passato, spingere l’estrazione di plusvalore oltre il livello precedente. Nei momenti di espansione il sistema dei premi di produzione può essere definito come “positivo” (non in termini morali): se produci di più riceverai un premio per questo; nel corso delle crisi invece il premio diventa “negativo”: se non ti assenti potrai arrivare al 100% dello stipendio. Cosa c’è di comune? Il sistema è costruito in modo da aderire comunque alle esigenze produttive delle imprese, inchiodando in un modo o nell’altro i lavoratori tra le mura della fabbrica. L’incentivo alla produzione altro non è che un incentivo allo sfruttamento, un mezzo per scaricare sulle spalle dei salariati persino il compito di fustigarsi qualora non siano sufficientemente produttivi.

Gli ultimi contratti decentrati chiudono il cerchio. Il sindacato di regime in Italia, completamente prono alle richieste della classe borghese, non è in grado di darsi una linea che contrasti in maniera generale l’offensiva capitalista. Invece di unire tutti i fronti di lotta in un’unica battaglia almeno a livello nazionale con la proclamazione di uno sciopero generale ad oltranza, invece di preparare la classe operaia ad uno scontro che sarà necessariamente aspro e di lunga durata, la Triplice sfianca le lotte che scoppiano spontaneamente isolandole, presentando ogni singola vertenza come un “affare” che riguarda esclusivamente il singolo capitalista e la manodopera che direttamente opprime.

Ai lavoratori che gridano: Salario!, rispondono in coro i sindacati: Lavoro! Quale lavoro? Non esiste lavoro in generale, ma il lavoro salariato, sempre più precario, sottopagato, massacrante. Combattere per questo genere di lavoro equivale a difendere la miseria assoluta di un’intera classe.

Il proletariato, storicamente chiamato a seppellire la società capitalista, ha sempre più i caratteri di classe internazionalmente omogenea. Viceversa, ogni programma sindacale che esalti le particolarità delle diverse “realtà” aziendali non può che porsi inevitabilmente a difesa dello sfruttamento operaio, incentivandolo e facendo aderire al meglio l’organizzazione del lavoro agli interessi dell’impresa. I contratti di secondo livello, nell’epoca del sindacalismo patriota, hanno il compito di intensificare la produttività della forza-lavoro. I contratti aziendali diventano delle professioni di fede al sacro mito della produttività, e non casualmente si aprono con dichiarazioni d’intenti volte a migliorare la competitività aziendale. La vittoria del fascismo a livello sociale sta anche in questo, i lavoratori devono sentirsi membra di un corpo al cui vertice sta la borghesia ma per il cui funzionamento pacifico e normale sono chiamati a sacrificarsi. Ogni lotta deve essere prevenuta (tregua sindacale) e indirizzata in binari che, se essa dovesse comunque scoppiare, garantiscano la non interruzione del meccanismo di sfruttamento della classe operaia; ciò è tanto più vero nei periodi di crisi acuta ma non lo è meno nei momenti di boom economico.

I comunisti non negano la realtà e la necessità anche di una lotta operaia all’interno delle fabbriche e del reparto, della “galera aziendale”, ma ritengono che, in particolare in un momento di crisi, la forza della classe diminuisce all’interno della singola impresa e che si possa invece dispiegare soltanto socialmente. La difesa operaia è possibile solo nell’unità di lotta e di organizzazione dei lavoratori di tutte le categorie.
 
 
 
 
 
 
 


Gran Bretagna
Sciopero generale dei lavoratori del pubblico contro i tagli alle pensioni
 

In Gran Bretagna il 30 giugno più sindacati del pubblico impiego e della scuola hanno chiamato i loro iscritti ad uno sciopero contro l’intenzione del governo di modificare il sistema delle pensioni. Questo avrebbe comportato un aumento dei contributi a carico dei lavoratori, il prolungamento della durata della vita lavorativa e la riduzione delle pensioni.

Lo sciopero si è dimostrato poi il maggiore negli ultimi cinque anni e nel pubblico impiego nell’ultima generazione.

Tre sindacati degli insegnanti, la University and College Union, la National Union of Teachers e la Association of Teachers and Lecturers vi hanno aderito insieme al Public and Commercial Services Union, e poi i lavoratori delle agenzie per il Lavoro, i dipendenti delle dogane, degli uffici dei passaporti ed altri.

Il maggior sindacato del pubblico impiego, lo Unison, non ha però nemmeno indetto il referendum fra i lavoratori, necessario per la legge inglese per indire uno sciopero. Secondo quanto affermato dal suo dirigente, Dave Prentice, perché aveva in corso delle trattative col governo che dovevano concludersi proprio il giorno dello sciopero. Queste trattative, su questioni “di principio”, sarebbero state seguite da ulteriori incontri sulle varie modalità di pensione in settori specifici.

Una nota fatta trapelare dalla confederazione sindacale generale, il Tuc, rivelava che la richiesta sarebbe stata di alcuni vantaggi solo per alcuni particolari settori. Questo atteggiamento, come prevedibile, ha gravemente compromesso i sentimenti di unità che si erano lentamente rafforzati negli ultimi mesi e infine manifestati in quello “spettro” dello sciopero comune, una moltitudine di lavoratori di diversi sindacati e di diversi settori che manifestavano insieme in molti cortei e adunate in tutto il Paese. La strategia del Tuc quindi ha graziosamente assecondato la politica di divisione del governo, il quale, tramite la solita campagna orchestrata dai media, usa i pregiudizi della “gente comune” per mettere gli uni contro gli altri i lavoratori privati e pubblici, spostando l’attenzione su alcuni minimi vantaggi di cui ancora godono questi secondi.

La Unison ha parlato, dopo, di aver intenzione di indire fra i suoi iscritti il referendum per uno sciopero, ma da farsi nel tardo autunno, e che non c’è stato. Scusa il ritardo per le difficoltà imposte dalla legislazione vigente, che per indire uno sciopero obbliga il sindacato a produrre un dettagliato tabulato degli iscritti ed indire poi il referendum di tutti costoro: una procedura che, dicono, richiederebbe fino a 17 settimane!

È certo vero che i padroni hanno usato i tribunali per invalidare i risultati dei referendum appigliandosi a piccoli errori di procedura, e provocare ritardi, come nella recente contestazione alla British Airways, e alla Docklands Railway (qui, in realtà, hanno dovuto fare marcia indietro e pagare al sindacato Rmt 100.000 sterline di danno!). La Unison quindi dice che ha bisogno di altro tempo per prevenire ogni pretesto legale.

Ma la questione è molto più generale. Se la legislazione tende a mettere al bando le azioni sindacali (ed il governo sta ora parlando di rendere gli scioperi sempre illegali in alcuni “settori chiave”, come per esempio la metropolitana) sicuramente ciò che occorre è una vigorosa ed estesa campagna contro questa legislazione antioperaia! E questa sarebbe la migliore rivendicazione per una intesa e cooperazione fra i diversi sindacati. Ma di fatto questo non avviene ed il silenzio dei sindacati sull’argomento non può essere interpretato che come una accettazione di fatto.

Il movimento sindacale in Gran Bretagna è controllato dal Labour Party; ed il Labour Party è una creatura del capitalismo. Questo è lo stretto nodo gordiano che è da tagliare se la classe operaia deve progredire verso la protezione delle sue condizioni di vita e di lavoro.

Lo sciopero del 30 giugno, benché impressionante per partecipazione, era limitato ad un solo giorno e come per legge preannunciato in anticipo in modo che le amministrazioni potessero predisporre adeguati piani di sabotaggio.

Non è questa la strada per impostare una effettiva difesa contro gli attacchi sempre più violenti dei padroni e dei loro rappresentanti politici, che devono trovarsi contro una organizzazione sindacale preparata a combattere su basi di classe. Non possiamo dire in che forma sarà ricostituita questa unione di classe, ma ci dovrà essere, sia attraverso scissioni del presente movimento, oppure fuori e contro gli attuali sindacati, come sembra sempre più probabile.

Il movimento dovrà anche riconnettersi con il partito di classe, Il Partito Comunista Internazionale, spezzato il “tradizionale” appoggio a quell’orribile escrescenza borghese che è il Labour Party.
 
 
 
 
 
 
 


U.S.A. - Verizon
14 giorni di sciopero traditi dai sindacati
 

Il 7 agosto, non appena scaduto il loro contratto di lavoro, sono entrati in sciopero i 45.000 lavoratori della Verizon Communications, fornitore globale di telecomunicazioni a banda larga e wireless. I lavoratori hanno deciso che ne avevano abbastanza: Verizon avanzava ulteriori dure richieste: tagli alle prestazioni mediche e la perdita della maturazione delle pensioni dell’anno in corso.

Lo sciopero, che ha coinvolto operatori del call center, tecnici ed installatori, dal Massachusetts fino alla Virginia, è stato indetto dal Communications Workers of America, che ha rappresentato 35.000 lavoratori in sciopero, e dall’International Brotherhood of Electrical Workers che ne rappresentava 10.000.

In particolare Verizon pretende che i lavoratori contribuiscano al loro premio di assistenza sanitaria con una somma da 1.300 a 3.000 dollari all’anno per la copertura dei familiari. Verizon vuole anche congelare i contributi aziendali per la pensione dei dipendenti, limitare a 5 i giorni di malattia durante l’anno, diminuire le disposizioni di sicurezza sul lavoro ed eliminare le pensioni per i lavoratori futuri.

Nonostante i profitti record (27,5 miliardi dollari di fatturato per il solo secondo trimestre 2011) Verizon vuole risparmiare 20,000 dollari l’anno su ogni lavoratore, ossia 1 miliardo. Questo in una compagnia in cui 5 dirigenti negli ultimi quattro anni hanno guadagnato 258 milioni in remunerazioni e premi; l’amministratore delegato da solo nel 2010 ha guadagnato 18 milioni.

Questo scioperò è stato il più grande negli Stati Uniti da quello di due giorni, nel 2007, dei 74.000 dipendenti della G.M. Come prevedibile, i sindacati coinvolti nello sciopero sono stati del tutto inani, tanto che entrambe le dirigenze sindacali hanno volute premettere che non c’era nulla da potersi spartire. Inoltre non sono state contestate da alcun sindacato le ridicole intimazioni dei tribunali contro gli scioperanti, cioè che in Pensylvania, i picchetti si limitassero a sei scioperanti e a New York al numero di crumiri presenti in ogni luogo di lavoro.

Da segnalare che il principale sindacato americano, AFL-CIO, non ha avuto niente da dire a proposito di questo sciopero.

Quando i lavoratori in sciopero cominciarono a denunciare diversi atti di violenza da parte di crumiri e dirigenti, Verizon replicò elencando le interruzioni del servizio ai clienti ed arruolando il Federal Bureau of Investigation per indagare su più di 90 atti di presunto “sabotaggio” attribuiti ai lavoratori, compresi alcuni “fili tagliati”, caso affidato all’FBI in quanto minaccia alla “sicurezza nazionale”. I lavoratori Verizon hanno risposto che erano solo tattiche intimidatorie ordite dalla società.

La scadenza di Verizon data agli scioperanti per ritornare al lavoro era il 31 agosto, in caso contrario tutte le prestazioni sanitarie sarebbero state sospese.

Lo sciopero è stato revocato il 21 agosto. Il 23 i 45.000 dipendenti sono ritornati al lavoro, senza un contratto ma solo con un “impegno di continuare le trattative”, senza aver ottenuto nulla e senza possibilità di azioni dall’esterno dei sindacati.

È tempo, è davvero urgente per il proletariato gettare nella pattumiera della storia tutte le illusioni sul sistema capitalistico e ricominci da capo il suo lavoro di organizzazione. Occorre un vero sindacato di classe, composto soltanto di lavoratori e che operi solo nel loro interesse, per difendere i reali bisogni e problemi della classe operaia, e con i mezzi adeguati alla loro risoluzione. Sarà altresì fondamentale per il proletariato degli Stati Uniti aderire al programma del comunismo rivoluzionario di sinistra, rappresentato dal Partito Comunista Internazionale.