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"Il Partito Comunista"   n° 361 - settembre-ottobre 2013 [.pdf]
PAGINA 1 Per la lotta della classe operaia in Egitto contro lo Stato borghese, il suo esercito e i suoi servi laici o islamici, tutti ad essa ugualmente nemici.
Il proletariato deve condannare l’intervento militare per gli interessi imperialisti in Siria.
Terra di scontro fra i capitalismi.
PAGINA 2 Primo resoconto della riunione del partito a Parma25-26 maggio 2013 [RG116] (segue): Economia marxista - La Questione militare: La guerra franco-prussiana.
Per
il sindacato
di classe
I potenti scioperi del proletariato egiziano: Continuità del regime borghese da Nasser a Mubarak - Un decennio di crescita impetuosa delle lotte proletarie - La formazione delle nuove organizzazioni sindacali - Ma gli scioperi continuano - Ostacoli alla formazione di un sindacato di classe
Vittorie e sconfitte sulla via del sindacato di classe.
Più ricco il capitale più misera la classe lavoratice, la riprova in Germania e negli Stati Uniti
Attività sindacale del partito: Uno sciopero del S.I.Cobas a Torino - Electrolux comanda, la Fiom obbedisce - Ideal Standard: La difficoltà di una lotta in difesa del lavoro.
PAGINA 5 La Germania nel gioco delle forze imperiali: “Imbarazzo” nazionale - Moderni travestimenti del feticcio democratico - Lotta al terrorismo?
PAGINA 6 Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (continua dal numero 359): 11. Il posto dell’imperialismo nella storia - 12. Lo scontro per il petrolio mediorientale.

 
 
 
 

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Per la lotta della classe operaia in Egitto contro lo Stato borghese, il suo esercito e i suoi servi laici o islamici, tutti ad essa ugualmente nemici

In Egitto, dopo i giorni di lotta di strada, stragi ed eccidi, i commentatori borghesi approfittano dell’emotività del momento per tutto nascondere e confondere, parlano di “guerra civile” ma” nessuno indica quali opposti interessi di classe si stanno scontrando. Spiegano tutto come un conflitto tra i Fratelli Musulmani, che rivendicherebbero una violata “legalità democratica” dal colpo di Stato, e l’esercito, ben intenzionato a ristabilire l’ordine, in questo appoggiato da un largo fronte “laico”.

Non dobbiamo farci trarre in inganno dai simboli, dalle parole d’ordine, dagli obbiettivi che i manifestanti sui due fronti scrivono sulle loro bandiere. Le ragioni profonde di questo scontro non si possono ridurre ad una lotta per la “legalità”, per la “democrazia”, o per la “legge islamica”, in una società come quella egiziana, pienamente capitalistica, anche se forme economiche passate ed anche arcaiche sono tuttora presenti, come nella maggior parte delle società borghesi. Dietro ai manifestanti, ovviamente, nella condizione attuale dell’Egitto, ci sono motivazioni materiali e necessità vitali, che però né l’uno né l’altro fronte hanno la possibilità di risolvere. Né i capi dell’esercito né i Fratelli Musulmani potranno assicurare un futuro e una vita degna ai milioni di egiziani che da due anni si sono mobilitati e scendono nelle piazze.

La classe lavoratrice, l’unica che avrebbe la forza per contrapporsi al regime borghese, è rimasta, giustamente, assente da questo scontro. Questo non vuol dire certo che il proletariato sia indifferente alla situazione economica e sociale, né che qualche lavoratore non si sia lasciato fuorviare dall’uno o dall’altro fronte in lotta. Le manifestazioni organizzate dai Fratelli Musulmani per il ripristino del legale governo Morsi non hanno emozionato il proletariato; non abbiamo infatti notizie di scioperi o di dichiarazioni dei sindacati indipendenti in appoggio al movimento di piazza. Al contrario, le uniche prese di posizione, come denuncia un volantino dei sindacati indipendenti, sono state quelle dei sindacati ufficiali, che hanno chiesto ai lavoratori di manifestare in appoggio ai golpisti di Al-Sisi.

Nell’esercito, per quanto ne sappiamo, non si sono registrati casi di diserzione, sicuramente non di massa e, nonostante la durezza della repressione, l’apparato dello Stato ha tenuto.

I Fratelli Musulmani sono uno dei più vecchi partiti borghesi in Egitto, dispongono in tutto il paese di una organizzazione capillare formatasi in quasi un secolo nel quale hanno dovuto agire in semi-clandestinità, ma tollerati dal regime, che non di rado ne ha tirato fuori i capi dalle galere per servirsene contro il proletariato.

Una organizzazione sperimentata e l’azione di assistenza sociale che il movimento tradizionalmente svolge tra i ceti meno abbienti grazie alle notevoli risorse economiche di cui dispone, sono i fattori che possono spiegare la mobilitazione in suo appoggio nei giorni di metà agosto. I manifestanti appartenevano per lo più alle masse diseredate che sono gran parte della popolazione d’Egitto, ma anche alle classi medie delle campagne: pare che migliaia di manifestanti siano stati portati nelle principali città con gli autobus. Ma provenivano anche dalle città, mentre le classi borghesi che stanno dietro ai Fratelli Musulmani non si sono certo arrischiate a scendere nelle strade. Il proletariato industriale o agricolo è stato invece totalmente assente.

La scelta dei Fratelli Musulmani di scagliare i propri seguaci contro l’esercito, che pur aveva più volte annunciato che avrebbe sciolto le manifestazioni con la forza, può essere stata una cinica scelta per recuperare un po’ di credibilità, oltre che, forse, una sopravvalutazione della propria forza.

Al governo, i Fratelli Musulmani si sono dimostrati incapaci di trovare una qualsiasi soluzione alla crisi economica che attanaglia l’Egitto. In passato si erano alienati ogni sostegno da parte dell’Arabia Saudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti a causa della loro approvazione al regime di Saddam Hussein quando l’esercito iracheno invase il Kuwait. In seguito la politica di avvicinamento all’Iran e di appoggio ad Hamas ha peggiorato le cose. Non potevano dunque attendersi aiuto da parte dell’Arabia Saudita ed alleati. Al contrario il Qatar, che sostiene i gruppi salafiti e terroristi in Siria, in Africa del nord e nel Sahel, ha generosamente finanziato i Fratelli versando ai loro diversi capi, secondo il Financial Time, ben 8 miliardi di dollari.

Ma non uno di questi dollari è stato usato per contribuire alla ripresa dell’economia egiziana, in un momento in cui il paese sta negoziando col Fondo Monetario Internazionale un prestito di 4,8 miliardi di dollari. Al settore turistico alberghiero, che assicurava all’Egitto preziose entrate in valuta estera, è stato dato il colpo di grazia nominando dei vecchi terroristi nei posti chiave del settore.

Alle richieste del proletariato industriale la sola risposta che i Fratelli Musulmani hanno saputo dare è stata la mitraglia, mostrando apertamente la loro natura antiproletaria e reazionaria.

L’aggravarsi della crisi economica, la crescente instabilità sociale, l’aumento degli scontri di piazza hanno finito per alienare ai Fratelli il sostegno delle classi borghesi e piccolo-borghesi che avevano sperato in loro per il ritorno alla stabilità e alla pace sociale.

In questa situazione economica catastrofica, il loro odio verso i cristiani, che li ha spinti ad assassinarli gratuitamente e a bruciare numerose chiese, e la loro dichiarata volontà di imporre una costituzione basata sulla legge islamica, hanno finito per esasperare la grande maggioranza della popolazione che ha manifestato la sua forte opposizione.

L’esercito, che rappresenta una grande potenza economica e i cui capi hanno temuto di perdere i loro privilegi, ha deciso di dare una decisa rimessa in riga alla Fratellanza. Malgrado gli appelli alla calma lanciati dalle borghesie europee e nordamericane, che sempre vedono nella religione un solido bastione della controrivoluzione, l’esercito ha condotto una metodica repressione e arrestato i capi dei rivoltosi; ma, significativamente, lasciando in libertà i più radicali.

Il braccio armato dello Stato borghese si è mostrato in tutta la sua brutalità ed è fuor di dubbio che quello che la gerarchia militare è stata capace di fare contro i Fratelli Musulmani, lo farà senza esitazione anche contro il proletariato, suo vero nemico.

Questo frusto gioco non è sfuggito almeno ad una parte dei proletari egiziani: si legge nell’appello ai lavoratori proposto il 26 luglio da una consistente minoranza del Comitato esecutivo dei Sindacati indipendenti: «Chiedetevi: nell’interesse di chi continuano questi scontri e lo spargimento di sangue? È nell’interesse di entrambi, dei capi dei Fratelli Musulmani e dell’esercito. Come i poveri sono la carne da cannone nelle guerre tra Stati, così i poveri dell’Egitto sono la benzina dei conflitti e delle guerre intestine».

In ultima analisi questi scontri si iscrivono nella preparazione della guerra interna contro il proletariato. Il sangue dei morti e dei feriti versato nelle piazze delle principali città d’Egitto aveva per scopo di rivolgere un terribile monito al proletariato e alle classi oppresse d’Egitto, classi che la crisi economica mondiale, ed egiziana in particolare, minaccia di mettere in movimento.

Ed è a questo proletariato, schiacciato dai salari da fame e dallo sfruttamento capitalistico, costretto ad una vita infame e senza prospettive, che ci rivolgiamo. Il proletariato non è “il popolo”, non è una massa indistinta che si muove senza una precisa direzione, in balia di ogni demagogia. Esso rappresenta una classe sociale che ha un programma determinato e conosce precise forme di lotta e di organizzazione. Può diventare un esercito capace non solo di fermare l’apparato produttivo capitalistico ma di affrontare la macchina statale fino alla sua distruzione e all’instaurazione della sua dittatura di classe. Quando il proletariato si metterà in movimento le istituzioni tutte della repressione borghese, che oggi appaiono invincibili, si riveleranno impotenti, minate al loro interno dalle contraddizioni stesse della società capitalistica.

Per arrivare a questo risultato, per diventare un esercito disciplinato e potente, la classe operaia, in ogni paese, dovrà lottare per la rinascita delle organizzazioni per la sua difesa sul piano economico – opera che in Egitto ha già compiuto i suoi primi importanti passi con la nascita della Federazione dei Sindacati Indipendenti (EFITU) fuori e contro la federazione sindacale di regime – e ricongiungersi col suo partito di classe, il Partito Comunista Internazionale.
 
 
 
 
 
 


Il proletariato deve condannare l’intervento militare per gli interessi imperialisti in Siria

Pubblichiamo il volantino che i nostri compagni hanno diffuso quando pareva imminente un attacco degli Stati Uniti contro la Siria.

Stati Uniti, Turchia, Canada, Arabia Saudita e Francia sostengono l’intervento militare; il parlamento inglese si è pronunciato contro; Germania e Giappone mostrano “riserbo”; Russia, Cina, Indonesia, Argentina, Brasile, Sud Africa e Italia e il segretario generale dell’Onu, sono contrari all’intervento. Papa Francesco si è pronunciato contro la guerra e il presidente del Venezuela ha inviato una lettera a Obama perché abbandoni ogni atteggiamento bellicoso.

La stampa borghese sulla crisi in Siria affastella le menzogne dei due fronti imperialisti che si affrontano nella regione. Lo stesso Obama ha ammesso di non poter «onestamente dimostrare che l’uso delle armi chimiche da parte di Assad contro donne, bambini e civili innocenti rappresenti una minaccia immediata alla sicurezza degli Stati Uniti». Vanta però l’appoggio della comunità internazionale per un attacco alla Siria, ed insiste per imporre l’applicazione delle norme internazionali che proibiscono le armi chimiche.

Dietro quelle ipocrite denunce “umanitarie” e i discorsi sulla “democrazia” si nascondono le cause economiche che hanno prodotto la crisi. La classe operaia non si deve far manipolare da alcuna delle bande imperiali che intervengono nelle guerre solo per il controllo dei mercati e delle materie prime strategiche.

Di fronte a questi obbiettivi gli Usa non hanno esitato nemmeno ad appoggiare in Siria quelle forze dell’estremismo islamico che altrove combattono come “terroriste”. I mezzi di comunicazione e le cosiddette ”organizzazioni umanitarie” completano il quadro delle forze ingaggiate nello scontro. I lavoratori sappiano che la preoccupazione per l’uso delle armi chimiche, per le morti e le sofferenze della popolazione siriana è una menzogna utilizzata dalle potenze imperialiste per giustificare una nuova guerra.

La Siria non è che il teatro operativo dello scontro interno ai fronti imperialisti come è successo in Afghanistan, in Iraq, in Libia.

Dopo la guerra, in ogni paese occupato, le potenze si suddividono gli affari, e a questa ripartizione partecipano spesso entrambe le fazioni in guerra. Basta verificare quali sono i paesi e le imprese che controllano il traffico del petrolio e la ricostruzione delle infrastrutture in Iraq o Libia. Gli interessi militari e geopolitici sono un riflesso degli interessi economici delle multinazionali e dei loro governi. Questo non potrà esser nascosto, qualunque sia la relazione dell’Onu sull’uso delle armi chimiche da parte del governo siriano.

La classe operaia in Siria rimarrà oppressa sia che resti sotto il governo attuale sia che esso venga sostituito da uno nuovo appoggiato dagli Stati Uniti; cambierà solo chi controlla il petrolio e il gas.

Al di sopra di queste contese fra borghesi si elevi la fondamentale lotta di classe, che in questa epoca storica si riduce allo scontro fra borghesia e proletariato. Anche gli scontri militari sono parte dell’oppressione del proletariato e della controrivoluzione. Questo anche se la classe operaia per adesso non riesce a combattere per se stessa e da ogni parte alza le bandiere patriottiche e controrivoluzionarie, un proletariato disorganizzato o controllato da partiti allineati ad uno dei blocchi imperiali.

Solo il risorgere della lotta di classe proletaria nei paesi come gli Usa, la Russia, la Cina, la Germania e le altre metropoli imperialiste potrà impedire le guerre e aprire la strada alla planetaria rivoluzione sociale.

La classe operaia si mobiliterà in tutto il mondo unendo le sue rivendicazioni economiche immediate alla lotta per la conquista del potere politico e la instaurazione della dittatura del proletariato.

Trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria, sotto la direzione del proletariato e del suo partito. In tutti i paesi allora si rivolgeranno le armi della guerra fra gli Stati borghesi contro di essi.

O guerra mondiale imperialista o rivoluzione comunista mondiale!
 
 
 
 
 
 


Terra di scontro fra i capitalismi

Sono già più di due anni che la Siria è diventata terreno di scontro tra gli imperialismi. In tutto questo periodo un accorto dosaggio dei rifornimenti ha fatto in modo che le parti si siano scannate senza che una sia riuscita a prevalere. I vari gruppi di ribelli, sia siriani sia stranieri, divisi in numerose fazioni in guerra anche fra loro, sono armati e addestrati dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Turchia e aiutati finanziariamente dalle monarchie del Golfo Persico, in primo luogo l’Arabia Saudita e il Qatar.

Il regime, nonostante disponga di armi pesanti, dell’aviazione e dell’aiuto di Russia e Iran, non è riuscito a tenere tutte le regioni del Paese; dopo aver perso importanti posizioni soprattutto ai confini con la Turchia e la Giordania, solo negli ultimi mesi è riuscito a passare al contrattacco grazie all’intervento dei ben addestrati e motivati guerriglieri sciiti libanesi del movimento Hezbollah.

Adesso, dopo che sono rimasti sul terreno, si calcola, quasi 100.000 morti, Washington ha minacciato di intervenire apertamente nella guerra, giustificando l’intervento col violato “diritto internazionale”, che da tutti gli Stati, Washington compresa, è sempre stato considerato solo carta straccia.

Ma le gerarchie statunitensi non sono concordi su questa azione. Durante il dibattito precedente alla decisione del Congresso, il capo degli Stati Maggiori riuniti Martin Dempsey, ha espresso più volte la sua perplessità – come riporta il Sole 24 Ore dell’8 settembre – e l’ex comandante dell’Army War College, sul Washington Post ha scritto chiaramente che le Forze armate sono contrarie a questa guerra i cui obbiettivi non sarebbero affatto chiari. Anche tra i politici la linea di demarcazione non passa tra i due partiti, democratico e repubblicano, ma tra singoli deputati e senatori a seconda degli interessi che rappresentano.

Il motivo di questa incertezza è che gli obbiettivi a breve termine dell’intervento sono inesistenti: non si vuole abbattere il regime di Assad, che ha sempre rappresentato un ottimo difensore dello status quo in Siria e in Libano, ed è riuscito a tenere a bada il movimento dei Fratelli Musulmani, che ha esemplarmente massacrato a decine di migliaia; dunque non si può indebolire troppo il suo esercito. Allo stesso tempo si vuole evitare che i gruppi della guerriglia salafita prendano la direzione del movimento armato antiregime; con i paesi del Nord Africa in ebollizione si vuole evitare il pericolo di veder nascere, anche in Siria, un regime confessionale, antioccidentale e inneggiante alla Sharia. Questo “intervento punitivo” non dovrebbe risolvere ma perpetuare lo stallo attuale.

Più chiari risultano invece gli obbiettivi globali e più a lungo termine di un eventuale intervento americano, che proseguirebbe quella strategia per il mantenimento dell’egemonia mondiale iniziata nel 2001 con la guerra in Afghanistan e proseguita con la guerra contro l’Iraq e poi contro la Libia. Queste guerre non hanno rappresentato dei successi sul piano militare: la guerra in Afghanistan si sta concludendo con una sostanziale sconfitta, con una ritirata come quella già effettuata dall’Iraq, e anche in Libia la caduta del regime di Gheddafi ha portato ad una situazione caotica di sfaldamento dello Stato centrale sostituito da poteri locali in forte attrito tra di loro.

Queste guerre, che hanno causato la morte di centinaia di migliaia di civili e immani distruzioni, hanno anche costituito un vero salasso per il bilancio degli USA ma sono servite al complesso militare-industriale statunitense per continuare a mantenere il più alto livello di spesa militare al mondo, pari al 50 % del totale mondiale.

Pochi mesi fa il Pentagono ha rivisto la sua strategia tesa a mantenere la supremazia degli Stati Uniti a livello mondiale, affermando chiaramente che la priorità dell’impegno avrebbe dovuto spostarsi verso l’Oceano Pacifico, per contrastare la nuova minaccia del gigante cinese che, grazie ad impegnativi investimenti per il riarmo, sta cercando negli ultimi anni di allargare la sua zona d’influenza soprattutto in prossimità delle coste e di rendere più sicure le rotte marittime e terrestri per i suoi commerci, entrando in collisione con gli storici alleati degli USA nell’area, Giappone, Corea del Sud, Filippine, lo stesso Vietnam.

La guerra in Siria potrebbe dunque apparire in contraddizione rispetto alla nuova strategia planetaria di Washington, ma non è così.

La Siria, fra il Mediterraneo, la Turchia, l’Iraq, la Giordania, Israele e il Libano, è una zona di passaggio fra Oriente ed Europa. È in progetto un oleodotto per trasportare attraverso l’Iraq e la Siria le enormi riserve di gas scoperte in Iran verso il Mediterraneo. Questo rafforzerebbe l’Iran, mentre gli Stati Uniti ed alcuni Stati alleati degli Usa, come il Qatar e l’Arabia Saudita, ci perderebbero economicamente e politicamente, poiché il gas andrebbe a soddisfare il gran bisogno che ne ha l’Europa. Da aggiungere che proprio in Siria sono stati scoperti importanti giacimenti di gas naturale.

Attualmente la tragica situazione dell’Iraq e della Libia, ben lontani per il momento dall’assicurare l’estrazione di petrolio nelle quantità raggiunte prima della guerra, e gli accordi tra USA e Arabia Saudita che limitano l’attività estrattiva di questo Paese, contribuiscono a tenere il prezzo del petrolio sufficientemente alto da rendere economicamente conveniente per l’industria estrattiva statunitense ricavare gas e petrolio dagli scisti.

La prima conseguenza della sola minaccia di attacco contro la Siria è stata infatti quella di un aumento del prezzo del petrolio; un attacco effettivo porterebbe conseguenze negative per i Paesi dipendenti dal petrolio mediorientale, ma avrebbe conseguenze positive sull’economia statunitense, che da quel petrolio non dipende.

Non per caso dunque, alla riunione del G20 a Mosca ai primi giorni di settembre, il Vice Ministro cinese per l’economia non si è perso in chiacchiere umanitarie ma ha detto che l’attacco contro la Siria avrebbe ripercussioni negative sull’economia mondiale per il forte rialzo del prezzo del petrolio, da qui la netta opposizione della Cina, il più grande importatore di petrolio al mondo. Colpendo la Siria dunque, gli Stati Uniti colpirebbero in primo luogo la Cina.

La Russia, esportatrice di gas e petrolio, soprattutto verso l’Europa, avrebbe un vantaggio dall’aumento del prezzo, ma subirebbe uno smacco dall’indebolimento o dalla caduta del regime di Assad; la Siria è tradizionalmente legata alla Russia che le fornisce armi e addestra l’esercito, e per contro mantiene nel porto di Tartus l’unica base per la sua flotta mediterranea. Mosca teme inoltre un rafforzamento dei gruppi terroristi musulmani che, finito il lavoro in Siria, potrebbero spostarsi nella devastata Cecenia a rinfocolarne la guerriglia.

L’Europa ha dimostrato ancora una volta di non esistere come soggetto politico unitario e la voce dei suoi rappresentanti, pur contrari in maggioranza a un intervento unilaterale, è risultata molto debole. Più significativo il deciso no della Germania, opposto al deciso si della Francia, nonostante il famoso asse Parigi-Berlino! L’economia europea che dipende dalle forniture di gas provenienti sia da Mosca sia dal Medio oriente, non ha nulla da guadagnare da questa guerra nonostante le manie tardo imperiali di Parigi.

Il Sud Africa è contrario all’idea di un intervento militare, come i paesi più importanti dell’America latina, dall’Argentina, al Brasile al Messico al Venezuela.

Israele ha cercato di mantenere una posizione defilata e non picchia sui tamburi di guerra, pur riaffermando il patto d’acciaio con Washington, ma anche Tel Aviv, schierata sulla linea del fuoco, avrebbe ben poco da guadagnare da questa guerra, almeno all’immediato.

Apertamente sul fronte interventista sono in primo luogo l’Arabia Saudita, “primo cliente del complesso militare-industriale americano”, il cui governo gioca il ruolo di protettore dei musulmani sunniti per allargare la sua influenza regionale ed è impegnato in un duro confronto con l’Iran sciita. Sulla stessa riga si muove il Qatar, piccolo Stato ma economicamente molto potente, esportatore di petrolio e di capitali con grande influenza su alcune economie europee come quella francese, inglese e anche tedesca. Queste due potenze petrolifere e finanziarie, molto attive anche nella crisi egiziana, dove però si sono trovate schierate su sponde opposte, l’Arabia saudita in difesa dell’esercito e il Qatar a fianco dei Fratelli Musulmani, si ritrovano adesso unite per richiedere a gran voce l’intervento militare fino alla caduta del regime di Assad e la formazione di un governo guidato dai capi della guerriglia sunnita, una prospettiva che porterebbe all’isolamento di Teheran ma che non è molto gradita a Washington.

Anche il governo turco, che durante questa lunga guerra si è più volte violentemente scontrato con quello siriano, dopo il passo indietro degli Stati Uniti, si è trovato spiazzato. Oltre a sostenere i guerriglieri sunniti, per Ankara c’è anche il problema di tenere a bada la minoranza curda presente sia in territorio turco sia in quello siriano, e che Damasco ha sempre protetto.

In questa situazione estremamente frammentata, l’azione diplomatica di Mosca, crediamo sia stata accolta con sollievo da molti Paesi non solo dell’area mediorientale. Non è difficile comprendere che le conseguenze di un intervento diretto degli Stati Uniti, anche se “mirato”, sarebbero state ben difficilmente controllabili e che sarebbe stata tutt’altro che da escludere la possibilità di un allargamento del conflitto al Libano, ad Israele, all’Iran. Questo avrebbe potuto significare l’inizio di quella guerra mondiale tra gli imperialismi, che la crisi economica di sovrapproduzione sta preparando, ma che sembra ancora prematura. Washington deve dunque muoversi con cautela e deve oggi accontentarsi di affermare che non l’azione della diplomazia moscovita ma la minaccia dei suoi missili, ha costretto Assad a più miti consigli.

In questi giochi di guerra il proletariato siriano e internazionale non ha una parte da scegliere, un fronte su cui schierarsi, ambedue i fronti rappresentano interessi imperialistici e reazionari. Il movimento proletario deve opporsi a questa dinamica che prepara una guerra distruttrice di uomini a milioni, facendo nuovamente risuonare il grido dell’Internazionale Comunista: No alla guerra tra gli Stati, per la guerra tra le classi! Per la Rivoluzione proletaria internazionale.
 
 
 
 
 
 

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Primo resoconto della riunione del partito a Parma
25-26 maggio 2013 [RG116]


- Corso dell’economia mondiale
 - Il riarmo degli Stati
 - Attività sindacale del partito
 - Per uno studio del capitalismo indiano
 - La crisi finanziaria mondiale
 - Economia marxista
 - Condizione operaia in Bangladesh
 - La questione militare

(Continua - Completiamo qui i riassunti schematici delle relazioni esposte a Parma)
 

Economia marxista

Il compagno incaricato del rapporto, dopo essersi riallacciato a quanto esposto nella precedente riunione, ha focalizzato l’attenzione dei presenti sull’Introduzione a Per la critica dell’economia politica, testo che – pur incompiuto – contiene una descrizione a tratti ben delineati del metodo della scienza comunista.

Nel Capitolo 3 di questo fondamentale lavoro si afferma come la maniera di esporre le risultanze scientifiche richieda, per appropriarsele, di passare dall’astratto al concreto, e conseguentemente riprodurle come qualcosa di mentalmente concreto, “ricreando” così il reale nel pensiero. Grazie a questo procedimento è possibile creare quello che Marx definisce concreto di pensiero, sintesi di molte determinazioni, unità del molteplice. Solo in quanto sintesi determinata è accessibile al pensiero

Riusciamo a cogliere il movimento della realtà solo costruendo quel processo sintetico, che riparte dalle determinazioni più astratte dopo di aver estrapolato i dati necessari dal materiale oggetto d’indagine, con l’ausilio degli strumenti della scienza positiva. La scienza è pertanto “oggettiva” soltanto «nel senso che traduce proprietà reali del mondo, proprietà inerenti agli “oggetti” indipendentemente dal soggetto (individuale o collettivo) conoscente» (“Marxismo e Scienza borghese!, Il Programma Comunista, 1968/21).

L’economia politica dei borghesi, al contrario, si ferma alla descrizione di un reale confuso e indistinto. È il metodo opposto a quello utilizzato da Marx nel Capitale, dove si «svela l’intima essenza sociale della merce e del denaro e di lì parte per salire alla definizione completa e complessa dell’intero apparato economico, politico e sociale del modo di produzione capitalistico, per poi ridiscendere a definire e chiarire tutti i fenomeni conseguenti, soprattutto svelandone il carattere non eterno e definitivo (...) È il metodo che abbiamo definito dal particolare al generale, contrapposto a quello metafisico-idealistico che parte dal generale, ossia da una concezione filosofica generale che pretende di abbracciare l’intera essenza della vita e della natura, poggiante su una serie di principi aprioristici desunti dal puro pensiero razionalistico (filosofia e ideologia borghese) o di rivelazione divina (teologia e dottrine mistico-religiose delle epoche precapitalistiche) e con ciò pretende di spiegare ogni fenomeno particolare» (Marxismo e Conoscenza, Comunismo, 1986/20).

A questo punto il relatore è tornato a sottolineare come il metodo marxista abbia determinato la struttura del Capitale. La sua ripartizione in Libri, Sezioni e Capitoli è il riflesso intellettuale di un movimento reale. È il materiale studiato che impone quel piano, adeguato al pensiero per afferrarlo. Il capitalismo è concepito come un organismo vivente (invece l’economia classica, riprendendo il metodo illuminista enciclopedico, dispone i rapporti sociali in una relazione puramente esteriore). Sarebbe «inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche nell’ordine in cui furono storicamente determinanti. La loro successione è invece determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese (...) Non si tratta della posizione che i rapporti economici assumono storicamente nel succedersi delle diverse forme di società ed ancor meno della loro successione “nell’Idea” (Proudhon) (...) ma della loro articolazione organica all’interno della moderna società borghese» (Marx, Grundrisse).

Sezione sul capitale, Sezione sulla rendita fondiaria, Sezione sul lavoro salariato. È l’ennesima riprova di quanto sosteniamo attorno alla dialettica materialista, la quale ricostruisce il funzionamento vitale di un organismo disponendo i vari organi nell’ordine gerarchico determinato dalla sua funzione principale, in questo caso quella del capitale. Dialettica, quindi, quale scienza delle relazioni: «Vi è relazione tra cosa e cosa, tra evento ed evento del mondo reale, così vi è relazione tra i riflessi (più o meno imperfetti) di questo mondo reale nel nostro pensiero, e tra le formulazioni che noi adoperiamo per descriverlo e per immagazzinare e sfruttare praticamente la conoscenza di esso che abbiamo acquisita» ("Sul metodo dialettico", Prometeo, 1950/1).

Il rapporto di capitale domina l’intera società borghese; in questa sezione i muscoli dialettici sono messi a dura prova trattando del “capitale in generale”. Per elaborare questo concetto occorre escludere l’analisi della concorrenza e del credito; nella prima abbiamo a che fare con l’azione del capitale sul capitale, perciò sono presupposti i molti capitali; nel secondo il capitale figura di fronte ai singoli capitali come elemento generale. In entrambi i casi abbiamo a che fare con il movimento reale dei capitali concreti, mentre noi dobbiamo analizzare il modello di capitale nella sua media ideale (si veda "Vulcano della produzione o palude del mercato", Il Programma Comunista, 1954/13-19).

L’analisi del capitale in generale si riduce perciò allo studio delle determinazioni comuni a tutti i capitali, tramite cui si esprime il carattere storico determinato del modo di produzione capitalistico. Gli economisti classici invece considerano il capitale come lavoro accumulato; è però impossibile passare direttamente dal lavoro al capitale (con ciò si identificherebbe il capitale con la produzione in generale, con l’uso di lavoro salariato o schiavistico o di produttori liberi associati che sia) come è impossibile passare direttamente dalle diverse razze umane al banchiere. Per poter portare a termine questa analisi non si deve partire dal lavoro salariato, ma dal valore di scambio figliante plusvalore.

Il capitale in quanto denaro figliante denaro deriva dalla circolazione, pertanto parrebbe corretto partire da questa per descriverne l’intero ciclo; niente affatto, occorre scovare il rapporto dominante che determina in ultima istanza i rapporti gerarchici di tutte le altre relazioni caratterizzanti questo determinato modo storico di produzione.

Prima di poter afferrare la determinazione fondamentale occorre analizzare i rapporti reciproci tra le varie determinazioni, ed è solo da questo intreccio dialettico che può risultare il rapporto dominante; tale risultato non può giungerci da un loro studio separato, ma intendendole come momenti di un insieme. Oggetto dello studio (come lo stesso Marx afferma esplicitamente) è anzitutto la produzione materiale, intendendo con tale termine non la ricerca del profitto ma la riproduzione della specie. Nella Introduzione si svolge una fitta indagine sui rapporti reciproci tra produzione, distribuzione, scambio e consumo, per arrivare alla conclusione per cui questi non sono altro che momenti di un processo unitario, differenziazioni interne dell’unitario modo di produzione.

Uccisa ogni metafisica, al proletariato rivoluzionario toccherà decretare la morte della classe che ha elevato altari in suo onore.
 

La Questione militare
La guerra franco-prussiana

Nella nostra dottrina la guerra, che culminò con la caduta del Secondo Impero francese, seguita dalla proclamazione della Terza Repubblica ed infine dalla gloriosa se pur breve esperienza, nonostante la sua sanguinosa sconfitta, della Comune di Parigi, segna l’importante spartiacque della fine della lotta comune tra borghesia e proletariato contro i precedenti regimi feudali. Inizia da qui lo scontro diretto, in armi, del proletariato contro la borghesia per la distruzione del suo Stato e del suo sistema economico e sociale per passare al superiore piano di specie del comunismo.

L’esperienza del movimento operaio si era già condensata in importanti pilastri teorici: il Manifesto del Partito Comunista del 1848, il Primo Libro del Capitale del 1867. Nel 1864 a Londra si fonda l’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Da allora, in Europa, i nazionalismi divennero reazionari e i pretesi “completamenti” delle rivoluzioni democratiche borghesi o delle “indipendenze” solo un pretesto per mandare al macello i proletari sotto diverse divise.

Abbiamo in merito dato lettura alla riunione di parti del Primo Indirizzo del Consiglio Generale della A.I.L. sulla guerra franco prussiana, del luglio 1870, le risposte delle assemblee dei lavoratori sassoni e quelle del comitato di Berlino dell’Internazionale, che chiamavano alla solidarietà tra i lavoratori sulle opposte frontiere. La solidarietà proletaria era temuta dagli stati maggiori perché avrebbe disarticolato anche il miglior piano strategico. Quella non avvenne nelle trincee, ma furono significative le diserzioni di massa, tra cui quella di 50 mila soldati francesi, dopo la prima fase della battaglia di Le Mans nella notte dell’11 gennaio 1871, che di fatto concluse i combattimenti a sud di Parigi.

Le cause della guerra erano per la Prussia – ora come Confederazione Germanica del Nord, di 22 Stati sui 39 tedeschi, con 24 milioni di abitanti – l’esigenza di completare il processo di unificazione, necessario al suo poderoso sviluppo produttivo, ma anche di acquisire i territori di lingua tedesca sotto dominio francese dell’Alsazia e della Lorena, ricchi di miniere di ferro.

Da parte francese, Napoleone III temeva un avversario tedesco unificato sotto un potente Stato prussiano; all’interno i repubblicani che, dopo la soppressione della Seconda repubblica, chiedevano concessioni democratiche; temeva inoltre l’insorgere di moti rivoluzionari di una classe operaia sempre più decisa; il clero faceva pressioni per un maggiore impegno della Francia nel proteggere lo Stato della Chiesa, in difficoltà per il processo di unificazione italiana. Infine Napoleone III abbisognava di una rivincita sulla sconfitta nella guerra col Messico per recuperare i forti crediti che quel nuovo governo repubblicano non intendeva più pagare; sotto la minaccia americana di un intervento diretto e dopo alcune sconfitte fu costretto a ritirarsi senza aver concluso niente. C’era poi il problema del Lussemburgo, conteso tra Francia e Germania.

Ogni modo di produzione ha una sua organizzazione militare: quella capitalista è basata sulla grande produzione industriale di merci; imponenti eserciti con la leva militare generale e obbligatoria ormai in tutti gli Stati; tutte le armi da fuoco ora sono a canna rigata e a retrocarica, permettendo rapidità, intensità e precisione di tiro mai prima raggiunte. Questo determina una diversa impostazione e organizzazione militare: dell’esperienza napoleonica si mantiene il principio di “marciare separati e combattere uniti”; diviene impossibile, come nel periodo delle guerre feudali, risolvere il conflitto in una sola grande battaglia, mentre ora si deve raggiungere la vittoria attraverso una serie di azioni parziali, su più fronti, con diverse battaglie secondarie volte a fiaccare l’avversario; accerchiare il nucleo centrale nemico tagliato dai rifornimenti e precluderne ogni possibilità di azione. Solo allora può darsi la battaglia finale.

Per il prussiano von Moltke la guerra austro-prussiana del 1866 fu il collaudo di questa nuova strategia militare.

Invece la potente macchina bellica francese dall’epoca napoleonica a quella della guerra di Crimea aveva man mano perso di efficienza e potenza ed ora, segno del declino del regime, era gravemente inefficiente, disorganizzata e in balia di una dilagante corruzione. Sono state lette citazioni da Engels e Trotzki su questo punto.

L’esercito prussiano, espressione di un sistema produttivo giovane e in crescita, fu invece preparato con precisione e attenzione ad ogni dettaglio, compreso il trasporto rapido delle truppe di invasione usando le ferrovie francesi sulla scorta di dettagliate cartografie dei teatri di guerra.

Il casus belli, atteso da Bismarck per far apparire i suoi piani di aggressione difensivi, capitò in occasione di una disputa dinastica legata alla successione al trono di Spagna, rimasto senza eredi diretti. Prussia e Francia manovrarono con ogni mezzo per insediarvi loro protetti, fino a che il principe prussiano Leopoldo fu costretto a rinunciare alla candidatura, già accettata. Parigi, non paga del risultato, chiese alla Prussia ulteriori garanzie per impedire a Leopoldo di ripresentare o accettare la candidatura in futuro. Il dispaccio con cui il re Guglielmo accoglieva di fatto la richiesta fu intercettato da Bismarck e manomesso in modo da farlo apparire offensivo verso il governo francese. Questo indignò la “opinione pubblica”, che reclamò di vendicare l’offesa con le armi.

Napoleone III, pressato dall’ala militarista della borghesia, mal valutando le reali forze in campo, pensando di cogliere di sorpresa i prussiani, decise di attaccare immediatamente pur con la metà delle truppe necessarie, sconvolgendo i predisposti, già imprecisi, piani di guerra. Del tutto inefficiente la sussistenza e la logistica. Sulla carta poteva disporre di 1,2 milioni di soldati, lo stesso numero dei prussiani, ma che invece in soli 18 giorni schierarono tutte le loro truppe, secondo i piani previsti.

Per finanziare questi costosi eserciti si ricorse ai “crediti di guerra”, un insieme di misure economiche, tra cui l’emissione di obbligazioni bancarie, rendendo così i prestatori di capitali, grandi e piccoli, direttamente interessati all’esito militare. A. Bebel e W. Liebnecht votarono contro i crediti al Parlamento tedesco, e per questo, con altri, furono incarcerati nella fortezza di Königstein. La borghesia francese, con il terzo processo contro i membri francesi dell’Internazionale, privò la classe operaia francese di molti dirigenti rivoluzionari: ogni borghesia inizia la guerra sul fronte interno.

Le tre armate prussiane erano posizionate nel Palatinato tra il Reno e la Mosella, da cui penetrare tra l’Alsazia e la Lorena, come mostrato ai compagni alla riunione con una cartina; altre erano dislocate alla frontiera austriaca e sulla costa baltica, per neutralizzare eventuali invasioni laterali. Anche parte delle forze francesi fu dislocata sui Pirenei per contrastare eventuali attacchi spagnoli; inoltre fu organizzato un corpo di spedizione, protetto da tutta la flotta francese, per invadere la Prussia dal Baltico.

Il primo facile sconfinamento fu francese, il 31 luglio, magnificato dalla stampa parigina come l’inizio di una rapida “passeggiata” a Berlino. Ma due giorni dopo i francesi furono costretti a retrocedere in disordine sia perché si stavano incuneando tra il grosso dei prussiani sia perché avevano appreso dai giornali inglesi, non dai loro inefficienti servizi di informazione, che i prussiani stavano preparando un poderoso attacco più a sud, presso Weissebourg. Il 4 agosto con due attacchi simultanei, uno all’insaputa di von Moltke, i francesi subirono pesanti sconfitte a Wörth e Spicheren, da dove i prussiani dilagarono sulle due direzioni tagliando ai francesi la strada Verdun-Parigi, come mostrato da altra cartina.

I piani francesi di invasione nella sola prima settimana di guerra sfumarono; annullata la spedizione sul Baltico e spostate a rafforzare le difese quelle truppe ed armi presto sbarcate dalla flotta, e questa riparata in porti sicuri.

L’incertezza strategica francese e il cambio di governo fanno perdere tempo prezioso, utilizzato dai prussiani per completare l’avanzata su Parigi. L’iniziativa è prussiana e i francesi muovono solo in risposta. Nell’indecisione c’è un concentramento nella fortezza di Metz, che viene cinta d’assedio, mentre le altre armate prussiane proseguono, pur con duri scontri, in direzione di Parigi. Dopo oltre due mesi d’assedio, e vari infruttuosi tentativi di romperlo, Metz si arrende con 180 mila prigionieri ed ingente materiale bellico.

Parigi, per non ammettere il disastro ed evitare moti rivoluzionari, manda ordini di improbabili contrattacchi, cerca di alleggerire la pressione al nord aprendo un fronte a sud-est, dove gli unici successi sono di Garibaldi a Digione, insufficienti però a capovolgere la situazione generale.

Le truppe rimaste, e non sconfinate disarmate in Belgio e Svizzera, sono indotte dalle manovre prussiane a concentrarsi su Sedan; il 1° settembre inizia una grande battaglia dove la potente artiglieria prussiana colpisce inesorabilmente i francesi accerchiati, come visto in altra cartina militare esposta. “Ordine, contrordine, disordine” sono la caratteristica dei francesi. Nel primo pomeriggio, Napoleone III decide di arrendersi. È condotto prigioniero a Francoforte, cessando così il Secondo Impero.

Man mano che cadono le altre fortezze francesi, i prussiani, che controllano circa un quarto della Francia, completano l’accerchiamento di Parigi con 200 mila uomini, spostandovi quanto possono della loro artiglieria.

Nel frattempo, il 20 settembre, approfittando delle difficoltà francesi, l’esercito sabaudo apre a Roma la “breccia” di Porta Pia “conquistando” la storica capitale nazionale.

Al tempo Parigi conta 1,85 milioni di abitanti. 300 mila sono nella Guardia Nazionale, forza creata per la sua difesa, altri 100 mila nella guardia Nazionale Mobile. È un raro caso in cui gli assediati sono in forte superiorità rispetto gli assedianti.

Una divisione di marinai è distribuita nella cerchia dei 18 grandi forti esterni, che secondo il precedente sistema di difesa avrebbero dovuto tenere lontani i combattimenti dalla piazzaforte principale, come mostrato con altra cartina; il livello di queste truppe è però molto scarso, giovani reclute dirette da ufficiali di marina frettolosamente riconverti per operazioni di terra: i reparti più esperti o sono prigionieri o altrove.

Da Engels abbiamo letto le considerazioni secondo cui le forze prussiane non avrebbero potuto far capitolare Parigi coi soli bombardamenti, di necessità politica più che militare. I cannoni prussiani ora sparano proiettili a lunga gittata che esplodono all’impatto con grande distruzione.

Durante l’assedio, il 18 gennaio 1871, nella reggia di Versailles Guglielmo di Prussia è incoronato Imperatore di Germania, suggellando così il processo di unificazione del suo paese.

Il giorno seguente un tentativo in grande per rompere l’accerchiamento si risolve in una fuga disordinata. Dopo di che si accettano le pesanti condizioni prussiane: l’esercito consegnerà tutte le armi e i depositi, l’occupazione militare dei forti e dei 6 distretti continuerà fino al completo pagamento di un’indennità di 5 miliardi di franchi oro.

Le perdite francesi furono molto alte: 140 mila morti, 140 mila feriti, 200 mila casi di congelamento, 600 mila prigionieri e una enorme quantità di materiale, che testimonia il poderoso sviluppo industriale per la guerra. I prussiani ebbero invece 47 mila morti, 80 mila feriti e 13 mila prigionieri e persero solo 6 cannoni.

A Parigi le pesanti condizioni economiche imposte alla popolazione tra cui la soppressione dello stipendio alla Guardia Nazionale, l’unica formazione rimasta con le armi a difesa dell’ordine pubblico, generarono imponenti manifestazioni che si trasformarono nella proclamazione della Comune di Parigi il 28 marzo 1871. Abbiamo concluso il rapporto leggendo alcune citazioni di Engels e Marx tra cui: «Questa guerra ha spostato il centro di gravità del movimento dei lavoratori continentale dalla Francia alla Germania».
 
 
 
 
 

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Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

 


I potenti scioperi del proletariato egiziano

I più radicali movimenti di massa messi in moto dalla crisi economica mondiale del capitalismo esplosa nel 2008 si sono avuti, ad oggi, in Egitto e in Tunisia. La classe lavoratrice in questi paesi si è mobilitata con forti scioperi per i propri obiettivi economici, organizzandosi sindacalmente a tal scopo.

È stata l’azione del proletariato, autonoma sul piano economico anche se non ancora su quello politico, a costringere le locali borghesie a sostituire i loro arnesi politici, Mubarak e Ben Alì, non più adatti a mantenere il controllo sui lavoratori, secondo il classico motto “cambiar tutto per non cambiare niente”.

Ciò conferma la fondamentale tesi marxista che nel capitalismo la sola classe rivoluzionaria è il proletariato. Tesi confermata, a rovescio, dai movimenti di massa per esempio in Turchia e in Brasile, dove i lavoratori non hanno agito per i propri fini, nemmeno economici, non hanno scioperato in modo apprezzabile, sono rimasti mescolati indistintamente in manifestazioni a carattere popolare, cioè interclassista, e di conseguenza i locali regimi borghesi non hanno avuto bisogno di sostituire il proprio personale politico per fingere un cambiamento.
 

Continuità del regime borghese da Nasser a Mubarak

In Egitto le lotte dei lavoratori sono cresciute a partire dal 2004, col primo di una lunga serie di scioperi, fuori dal controllo del sindacato di regime egiziano, la Federazione Egiziana dei Sindacati (ETUF), dei 24 mila operai, di cui 1/3 donne, della fabbrica tessile Misr Spinning and Weaving Company di Mahalla, il più grande stabilimento tessile del Nord Africa e del Medio Oriente.

La ETUF fu fondata nel 1957, dopo il colpo di Stato del luglio 1952 dei “Liberi Ufficiali” capeggiati da Nasser, che la borghesia appoggiò e la cui ragione di fondo fu creare condizioni più favorevoli all’investimento di capitale. «Non fu una rivoluzione, ma un pacifico e forse concordato passaggio di mano del comando dello Stato» (“Base produttiva e lotte di classe in Egitto”, Il Partito Comunista n.36/1977, 41/1978).

Le masse operaie e contadine saggiarono presto la natura del nuovo regime. Gli operai delle grandi fabbriche di Kafr el Dawwar, scesi in sciopero nell’agosto del 1952 per rivendicazioni salariali al grido di “Viva la rivoluzione dell’esercito”, e i fellah (i contadini poveri) dei dintorni che solidarizzarono con loro furono accolti dall’abbraccio fraterno dell’esercito che ne uccise 8. I dirigenti operai Mustafa Khamis e Mohammed Hassan el Bakari furono processati e giustiziati.

A marzo 1975 lo sciopero degli operai della Misr di Mahalla sfociò in una rivolta durata tre giorni. La polizia uccise 50 lavoratori ma fu costretta ad abbandonare la città e le richieste degli scioperanti furono accolte. Probabilmente a seguito di questa ed altre lotte, nel 1976 fu promulgata la Legge n.35 che rafforzò il controllo dell’ETUF sulla classe lavoratrice.

Nei primi anni dopo il 1952, giovandosi del clima mondiale di forte crescita economica permessa dalle distruzioni della Seconda Guerra mondiale, anche l’economia egiziana crebbe, pur non a ritmi molto elevati, e consentì un ridotto progresso delle condizioni di vita della classe lavoratrice, dovuto, quindi, non alla politica nasseriana, di stampo socialdemocratico, ma a quella determinata fase dell’economia capitalistica mondiale. Già nella seconda parte della presidenza di Nasser, che morì nel 1970, la crescita economica iniziò a rallentare. L’inizio della lunga crisi economica mondiale, nel 1974, bloccò tale progresso e diede inizio a un graduale arretramento.

È l’andamento dell’economia capitalista, che solo il marxismo sa prevedere, a determinare le politiche dei governi borghesi, non viceversa. Ecco perché la maggior parte dei socialdemocratici, che in ogni paese nei primi decenni del secondo dopoguerra avevano sostenuto politiche di estensione dello Stato sociale e, in parte, di nazionalizzazione, con la crisi economica si sono adeguati alla crisi del Capitale, diventando artefici delle cosiddette politiche neoliberiste. Le minoranze della socialdemocrazia rimaste fedeli alla originaria impostazione politica interventista sono peggiori dei loro ex compagni perché fanno credere ai lavoratori che il capitalismo stia da anni peggiorando le loro condizioni per colpa di una particolare politica – il neoliberismo – e non perché non può essere altrimenti dati i suoi immodificabili caratteri.

In Egitto, anche Sadat, successore di Nasser, non fece altro che seguire, giocoforza, le mutate esigenze dell’economia capitalista, inaugurando, nel 1974, la politica che definì della “Porta aperta” (Infitah), ossia volta a rendere più appetibile l’investimento in patria dei capitali privati egiziani ed esteri.

Nel 1981 Sadat fu ucciso in un attentato. Fu allora istituito lo stato d’emergenza durato fino a maggio 2012, e reintrodotto a luglio scorso, in base al quale ogni forma di assembramento è proibita e punibile. Gli successe Mubarak, che nel 1991 siglò col Fondo Monetario Internazionale un Programma Economico di Ristrutturazione e Aggiustamento Strutturale, che spingeva nella medesima direzione, per la semplice ragione che la crisi avanzava. A seguito di questo accordo fu promulgata la Legge 301 che stabilì la privatizzazione di 314 imprese pubbliche.

Nel nostro lavoro “Il fondamentalismo islamico nei paesi del Magreb, una fuorviante prospettiva per il proletariato”, pubblicato su Comunismo n.44 del luglio 1998, nel capitolo sull’Egitto, significativamente intitolato “La polveriera egiziana”, scrivevamo: «Le cifre dell’autosufficienza alimentare sono complessivamente peggiorate (...) Un esempio per tutti il grano: nel 1960 la produzione nazionale copriva il 66% del consumo, nell’87 scende al 22%, per risalire al 45% nel 1991 (...) L’Egitto rimane uno dei primi paesi importatori agricoli mondiali con un enorme deficit commerciale».

Nel 2003 fu approvata la Legge Unificata sul Lavoro che introduceva maggiore flessibilità nell’assunzione della forza lavoro attraverso forme contrattuali a tempo, il precariato, e dava mano libera alle imprese nei licenziamenti. Evidente l’analogia con gli altri paesi, il che dimostra ancora una volta come sia l’economia capitalista a determinare la politica dei partiti borghesi.
 

Un decennio di crescita impetuosa delle lotte proletarie

Si arriva così al 2004. Dal 1988 al 1993 le statistiche danno una media di 27 scioperi all’anno. Dal 1998 al 2003 la media annuale sale a 118. Nel 2004 si contano 265 agitazioni; 222 nel 2006; 580 nel 2007; 630 nel 2008, 700 nel 2009, 530 nel 2010, 1.400 nel 2011, 1.969 nel 2012 e 2.400, fra manifestazioni e scioperi, nel primo quarto del 2013, in una progressione travolgente!

Nel dicembre 2006 gli operai della Misr di Mahalla entrarono in sciopero a oltranza, determinati come mai prima, e dopo quattro giorni ottennero quanto rivendicato. 6.000 operai della fabbrica abbandonarono L’ETUF che si era opposta apertamente allo sciopero. Il comitato di sciopero costituitosi per la lotta assunse carattere permanente, primo passo di una nuova organizzazione sindacale, e continua ancor oggi ad operare.

La sciopero vittorioso diede l’esempio, si estese alla fabbrica d’auto di Mahalla, all’acciaieria e ai cementifici di Helwan e Tura, a 30.000 operai di una decina di fabbriche tessili del delta del Nilo e di Alessandria, al settore delle costruzioni e dei lavori pubblici, ai campi petroliferi di Suez, ai trasporti, alla metropolitana del Cairo, all’agroalimentare, ai panifici, fino ai servizi sanitari. Scioperi in gran parte fuori dal controllo dell’ETUF e quindi illegali.

I lavoratori di Mahalla, città di circa 400 mila abitanti a 110 chilometri a nord del Cairo, il 6 aprile 2008 sono stati la forza motrice e la guida della rivolta dell’intera città, considerata la prima aperta manifestazione contro Mubarak. Da quella data ha preso il nome un movimento politico, Movimento Giovanile 6 Aprile, per altro estraneo alla classe operaia tanto per gli obiettivi quanto per i componenti. Un militante del movimento, Ayman Abdelmeguid, commentando lo sciopero a oltranza di 4.000 operai delle acciaierie di Suez, durato quasi un mese l’agosto scorso, ha augurato un compromesso fra lo Stato e i lavoratori quale soluzione migliore per l’Egitto – cioè per il capitalismo nazionale – affermando: «Noi qui non stiamo cercando il comunismo ma un capitalismo non predatorio». E l’intervento della polizia contro gli operai delle acciaierie in sciopero, con bastonature e arresto di due organizzatori della lotta, è stato definito da Ayman Abdelmeguid «un errore politico commesso sotto pressione». Dato che ogni qual volta i lavoratori scioperano mettono “sotto pressione” il governo borghese saranno sempre giustificati per simili “errori”!

Il coordinatore generale del Movimento 6 Aprile, Ahmed Maher, 30 anni, ingegnere, ha affermato che «i lavoratori non hanno avuto un ruolo nella rivoluzione, ne erano lontani» (Le Monde Diplomatique, marzo 2011). Sarà invece l’esplosione della lotta proletaria a causare, non la “rivoluzione”, ma l’eliminazione di Mubarak l’11 febbraio 2011.

Nei primi giorni alle oceaniche manifestazioni al Cairo, iniziate il 25 gennaio 2011, i lavoratori partecipano senza un’azione autonoma. Ma già a fine mese uno sciopero ad oltranza inizia alle acciaierie di Suez, si estende agli altri lavoratori della città, poi agli altri centri urbani ed industriali – Mahalla, Port Said, Ismailiyya, Fayyoum, Alessandria, Giza, Helwan, Kafr El-Zaiat, Menoufeia, Ramsis, Opera, Nozha, Maadi, e naturalmente al Cairo – coinvolge ogni categoria e diventa, nei giorni 9, 10 e 11 febbraio, uno sciopero generale spontaneo, che conduce il regime borghese a scaricare Mubarak per evitare danni più gravi.

Messo da parte il Rais le manifestazioni popolari rifluiscono, ma gli scioperi proseguono con intensità anche maggiore. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF), organo dirigente della vera macchina di dominio della borghesia egiziana, l’esercito, che per alcuni mesi ha amministrato direttamente il potere, ha avuto quale prima preoccupazione quella di intimare ai lavoratori di sospendere gli scioperi. Ma gli appelli sono caduti nel vuoto e i mesi di febbraio e marzo hanno registrato il massimo di scioperi fino ad allora raggiunto, coinvolgendo ogni categoria: tessili, metallurgici, navalmeccanici, alimentaristi, chimici, braccianti, minatori, elettromeccanici, insegnanti, ferrovieri, tranvieri, telefonici, aeroportuali, portuali, ospedalieri, bancari, impiegati pubblici.
 

La formazione delle nuove organizzazioni sindacali

Nel fuoco di queste lotte sono state costituiti dai lavoratori centinaia di nuovi organismi sindacali, che si sono definiti “indipendenti”, ossia al di fuori dell’ETUF e del regime borghese di cui è strumento. Questa è stata la più importante conquista dei proletari egiziani: «Il vero risultato delle lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre più» (Manifesto del Partito Comunista, 1848).

Sorti per organizzare gli scioperi, come nella storia del movimento operaio di tutti i paesi, questi organismi si sono poi dati carattere permanente. Hanno una struttura o limitata al singolo stabilimento, oppure a più fabbriche e luoghi di lavoro della stessa azienda o della stessa categoria produttiva; in settori quali le poste, le ferrovie, gli insegnanti, ad esempio, la formazione di una organizzazione nazionale è favorita rispetto alle singole fabbriche. Raggiunta una certa forza i lavoratori travolgono le divisioni fra aziende e categorie, specchio della struttura produttiva capitalista, per organizzarsi in strutture territoriali, come è stato nel caso del Consiglio dei Lavoratori di Sadat City, della Federazione Regionale dei Sindacati di Suez e del Congresso Permanente dei Lavoratori di Alessandria.

Questi organismi sindacali per raccogliere le quote di adesione devono ricorrere al lavoro dei loro militanti, come in Italia si faceva coi cosiddetti “collettori” prima dell’introduzione del deleterio strumento della delega, “diritto” in Egitto riservato alla sola ETUF. La riscossione diretta delle quote mensili è evidentemente meno “automatica”, ma evita di fornire la lista degli iscritti all’azienda, di far passare dalle sue casse i soldi del sindacato, oltre a mantenere un rapporto continuo e diretto fra sindacato e lavoratore. È quindi un metodo obbligato per un combattivo sindacato di classe.

Queste organizzazioni nate nell’ondata di scioperi dal febbraio 2011, erano state precedute, oltre che dalla formazione del comitato di sciopero sopra citato alla Misr di Mahalla, che agiva in forma non ufficiale, dalla costituzione, nel dicembre 2008, della Unione Generale dei Lavoratori dell’Autorità Statale delle Imposte (IGURETA), a seguito di una loro mobilitazione. Questa iniziò nel dicembre 2007 e, culminata, dopo 11 giorni di sciopero, nella occupazione, con circa 8.000 manifestanti, della strada a fronte dell’Ufficio Centrale del Dipartimento al Cairo, si concluse con la concessione di un aumento di ben il 325% degli stipendi. Almeno 30.000 lavoratori aderirono a questo nuovo sindacato, riconosciuto ufficialmente dal ministero del lavoro nell’aprile 2009.

Sul finire del 2010 sono nati altri due organi sindacali fuori dall’ETFU, fra i tecnici ospedalieri e gli insegnanti, che sono riusciti a rafforzarsi e a mobilitare i lavoratori successivamente alla destituzione di Mubarak.

Il 30 gennaio 2011, durante le giornate di mobilitazione delle masse, i dirigenti di questi tre organismi sindacali e quelli della neonata Unione dei Pensionati hanno costituito una nuova struttura confederale, la Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti (EFITU), a cui in seguito hanno aderito parte dei nuovi organismi di lotta nati su base aziendale o territoriale.

A luglio 2011 sono sorti dei contrasti, per ragioni non chiare, all’interno dell’EFITU che hanno condotto il 14 ottobre a una scissione e alla formazione del Congresso del Lavoro Democratico Egiziano (EDLC).

A fine ottobre 2011 l’EFITU dichiarava di organizzare 70 sindacati nei seguenti settori: trasporto, 15, enti locali e servizi sociali, 10, petrolio e gas, 8, manifattura, 7, produzione di alimenti e distribuzione, 8, agricoltura e pesca, 4, turismo, 4, poste e telecomunicazioni, 2, costruzioni, 2, educazione, 2, media, 1, banche, 1, sanità, 1, commercio, 1, elettricità e acqua, 1, pensionati, 1, operai giornalieri, 1. I sindacati federati hanno dimensioni diverse che vanno da qualche centinaio di iscritti a strutture nazionali consolidate come l’IGURETA che dichiara 54.000 membri o il Sindacato Indipendente degli Insegnanti della Scuola con 40.000 iscritti a maggio 2011.
 

Ma gli scioperi continuano

«Il Consiglio Supremo delle Forze Armate non permetterà la continuazione di tali atti illegali [gli scioperi] che costituiscono un pericolo per la nazione e vi si opporrà prendendo misure legali per proteggere la sicurezza della nazione». Né questo ammonimento del 18 febbraio, né altri successivi, né la propaganda martellante imbastita dal regime, dai partiti e dai giornali borghesi per “difendere la rivoluzione”, per “tornare alla normalità” e per la “costruzione del nuovo Egitto”, hanno fermato gli scioperi.

Lo SCAF e i governi che si sono succeduti, prima provvisorio poi dei Fratelli Musulmani, questo consacrato dalla turlupinatura delle elezioni democratiche, hanno tradotto in pratica i minacciati atti repressivi, dimostrando con decine di morti e centinaia di arresti la continuità del regime al di sopra dei suoi contingenti rappresentanti, dietro ai quali si nascondere il reale detentore del potere, la borghesia e la sua macchina di dominio, il suo Stato di classe.

A luglio 2011 lo sciopero a oltranza, durato oltre venti giorni, degli operai delle sette grandi compagnie che operano sotto l’Autorità del Canale di Suez (ACS), si è esteso alle vicine città di Ismailiyya e Port Said. È questa una regione con la maggiore combattività operaia, come indicano la formazione della Federazione Regionale dei Sindacati di Suez, l’alta adesione allo sciopero degli insegnanti (95%) e la rivolta di Port Said dell’anno successivo.

Dopo i picchi di febbraio e marzo, le agitazioni hanno avuto una nuova impennata nell’autunno, con lo sciopero a oltranza nei trasporti pubblici del Cairo, durato oltre due settimane, e quelli coordinati a livello nazionale nei settori della raffinazione dello zucchero, della scuola e delle poste.

Lo sciopero nella scuola, il 17 settembre, il primo nella categoria dal 1951, ha coinvolto almeno 250.000 insegnanti.

Come abbiamo visto, dopo il 2011, che aveva registrato il più alto numero di scioperi nella storia della borghese repubblica egiziana, le lotte sono molto cresciute ancora nel 2012 e nel 2013.

Non le ha fermate la repressione borghese. Ma nemmeno i tentativi volti a distrarre i lavoratori dai loro obiettivi di classe e coinvolgerli nella politica parlamentare: deposizione di Mubarak, cambio di ben cinque governi (Ahmed Shafik, 31 gennaio 2011 - 3 marzo; Essam Sharaf, 3 marzo - 21 novembre; Kamal al-Ganzouri, 7 dicembre - 24 luglio 2012; Hisham Qandil, 2 agosto - 3 luglio 2013; Hazem al-Biblawi, dal 9 luglio), due referendum costituzionali (19 marzo 2011 e 15 dicembre 2012), elezioni parlamentari (novembre-dicembre 2011), con la vittoria dei Fratelli Musulmani, e quelle presidenziali (maggio 2012) vinte da Morsi, infine deposto dal colpo di Stato del 3 luglio scorso.

A Port Said – città strategica, sul canale di Suez e con le più grandi caserme, quartier generali e campi di addestramento dell’esercito – a gennaio-febbraio 2013 è scoppiata una rivolta a seguito della condanna all’impiccagione di 21 tifosi della squadra di calcio cittadina, accusati d’aver preso parte ai disordini durante una partita svoltasi un anno prima e che avevano provocato 74 morti. La rivolta è culminata in diversi giorni di sciopero generale. Negli scontri, in cui oltre 60 sono rimasti uccisi, sono stati dati alle fiamme commissariati ed è stato tentato un assalto alla prigione per liberare i condannati. La polizia ha infine abbandonato la città, lasciandola in mano ai manifestanti, che hanno organizzato delle squadre di sicurezza. L’esercito è però rimasto in città, controllando i manifestanti a distanza e presidiando i punti strategici senza venire allo scontro, per volontà, evidentemente, di entrambe le parti, e aspettando che la rabbia si stemperasse da sola.

Il regime borghese si sforza di conservare la fiducia della popolazione nell’esercito, mostrato come l’unica istituzione dalla parte del popolo. A tal scopo incarica delle azioni repressive soprattutto la polizia. Altro suo strumento sono le milizie dei partiti islamici, come fece la borghesia italiana col fascismo, alimentando la falsa contrapposizione fra democrazia, che sarebbe difesa dall’esercito, e gli islamisti, come in Italia si opposero fascismo e antifascismo, in realtà due facce della stessa medaglia: la Dittatura Borghese.

La fiducia nell’esercito – che ha origine dal colpo di Stato nazionalista, antimonarchico ed antibritannico dei “Liberi Ufficiali” capeggiati da Nasser nel 1952 – è però certamente meno salda nella classe lavoratrice che nelle altre classi e strati della popolazione, perché la forza del movimento è tale da richiedere il suo intervento repressivo, come nello sciopero a oltranza dei tranvieri della Compagnia Autobus del Delta del febbraio 2012, quando l’esercito ha organizzato il crumiraggio coi suoi mezzi e uomini, o nel recente sciopero alla Misr di Mahalla del 26 agosto scorso, con un carro armato entrato nella fabbrica a riportare l’ordine.

È debole l’influenza nella classe operaia dei Fratelli Musulmani, e nulla nella sua avanguardia organizzata sindacalmente. Hanno la loro base sociale in alcune categorie delle libere professioni e nei tanti diseredati che sopravvivono con la pelosa beneficenza degli enti assistenziali islamici, sempre gonfi di denaro, a cui volentieri lo Stato si appoggia, anche quando colpisce il movimento, per non farlo tracimare dalla posizione e dal ruolo che volta volta ritiene utile affidargli. Sono questi diseredati la massa di manovra portata in piazza dai Fratelli Musulmani dopo il colpo di stato del 3 luglio e massacrati dall’esercito.
 

Ostacoli alla formazione di un sindacato di classe

È in questa esplosiva situazione sociale, nella crescita degli scioperi e delle nuove organizzazioni sindacali di classe, che risiedono le cause che hanno spinto la borghesia egiziana – oltre e più che per lo scontro fra le sue fazioni interne – a tanti cambiamenti di governo, da ultimo ritenendo di non potersi più affidare ai Fratelli Musulmani per il controllo dei lavoratori.

La classe operaia organizzata è la sola che può dirigere e disciplinare le immense energie che si sprigionano dal sisma sociale provocato dalle contraddizioni ineliminabili del capitalismo, che affiorano in tutta la loro violenza nelle fasi storiche di crisi generale di sovrapproduzione.

L’organo dirigente della borghesia, il suo Stato, ha la chiara consapevolezza che è il proletariato il suo vero nemico. E agisce di conseguenza. Da un lato col bastone della repressione, dall’altro corrompendo le organizzazioni sindacali dei lavoratori per inglobarle nel suo regime.

L’azione di assoggettamento delle organizzazioni economiche del proletariato è caratteristica dei regimi capitalisti nell’epoca dell’imperialismo. Per i lavoratori si apre una doppia possibilità: o la riconquista dell’organizzazione sindacale di regime, o la ricostruzione del sindacato di classe fuori e contro le strutture sindacali passate in mano alla borghesia. Che prevalga l’una o l’altra dipende da diversi fattori inerenti la storia delle diverse organizzazioni. In Italia, ad esempio, dopo trent’anni di lotta dei nostri compagni all’interno della CGIL ricostituita dall’alto, a fine anni ’70 il nostro partito ha considerata chiusa ogni possibilità di riconquista, indicando da allora la necessità della ricostruzione, fuori e contro i sindacati di regime, del Sindacato di Classe e lavorando a tal scopo nei nuovi organismi sindacali cosiddetti di base.

In Egitto osserviamo che i lavoratori per lottare non hanno potuto utilizzare il sindacato di regime locale, l’EFTU, e si sono organizzati fuori e contro di esso. In Tunisia, invece, almeno per ora, il movimento dei lavoratori, guidato da quello dei disoccupati, ha utilizzato le strutture dell’UGTT.

Ogni organizzazione sindacale, anche quelle rinate fuori dai sindacati di regime, è minacciata dal tentativo di assoggettamento da parte della borghesia. Il percorso della organizzazione sindacale non si svolge nel vuoto, è grandemente influenzato dai partiti che ne detengono la direzione. Difficile alla lunga resistere col solo sano istinto operaio alle forze che gli si contrappongono, per questo il proletariato ha bisogno dell’organo politico della classe lavoratrice, il Partito Rivoluzionario. Ogni sindacato o viene conquistato all’indirizzo del Partito Comunista o, prima o dopo, cadrà nelle mani della classe dominante.

E anche in Egitto si sono già manifestati i pericoli che minacciano la formazione di un autentico sindacato di classe.

Da un lato lo strato di organismi sindacali nato dall’attuale ondata di scioperi è ancora debole perché non è riuscito a darsi una reale struttura nazionale. La maggior parte dei neonati sindacati indipendenti agisce nell’ambito della singola azienda e i tentativi di organizzare scioperi generali da parte dell’EFITU non sono andati a buon fine.

Dall’altro, l’EFITU, per l’assenza del partito di classe, è esposta all’abbraccio mortale del regime borghese attraverso l’azione dell’opportunismo sindacale che opera al suo interno fin dalla sua costituzione.

Per esempio, Kamal Abu ‘Ayta è stato fondatore e capo dell’IGURETA, il sindacato dei funzionari per la riscossione delle imposte, e fra i promotori della fondazione dell’EFITU, di cui l’IGURETA, fra le organizzazioni federate, è una delle più consistenti. A gennaio 2012 Abua ‘Ayta è stato nominato presidente dell’EFITU. Ma è stato anche eletto deputato nelle liste della Karama Party, un partito nasseriano. Dovrebbe far riflettere che l’EFTU, il sindacato di regime fuori e contro il quale è nata l’EFITU, fu una creazione di Nasser. Evidentemente non è questa la contraddizione che preoccupa Abu ‘Ayta: alle elezioni di novembre-dicembre 2011, con le quali si è guadagnato il posto da deputato, il Karama Party ha partecipato alla coalizione denominata Alleanza Democratica capeggiata dai Fratelli Musulmani.

Dopo il colpo di Stato del 3 luglio e le dimostrazioni dei Fratelli Musulmani, l’esercito ha lanciato un appello per una manifestazione il 26 luglio “contro il Terrorismo”, per cercare di coinvolgere la classe lavoratrice nella contrapposizione fra democrazia ed islamisti. Le due confederazioni sindacali nemiche, l’EFTU e l’EFITU, hanno dato entrambe la loro adesione. Il gruppo dirigente dell’EFITU, positivamente, si è diviso, con la maggioranza, guidata da Abu ‘Aita, pronto a combattere i suoi ex-compagni di cartello elettorale, appoggiandosi all’esercito, e una consistente minoranza, attorno a un documento redatto da Fatma Ramadan, che ha rigettato l’appello indicando nello SCAF, al pari dei Fratelli Musulmani, il nemico dei lavoratori.

Questa divisione è stata approfondita dalla decisione di Kamal Abu ‘Ayta di accettare la carica di Ministro del Lavoro offertagli dal nuovo governo provvisorio di Hazem al-Biblawi, insediatosi il 9 luglio. Divenuto ministro Abu ‘Ayta ha dichiarato: «I lavoratori, che sono stati campioni dello sciopero sotto il precedente regime, devono ora diventare i campioni della produzione».

Sia la minoranza dell’EFITU capeggiata da Fatma Ramadan sia il Congresso Permanente dei Lavoratori di Alessandria hanno senza tentennamenti stigmatizzato questa dichiarazione di Abu ‘Aita favorevole ad una tregua negli scioperi.
 
 
 
 
 


Vittorie e sconfitte sulla via del sindacato di classe

Per i comunisti che praticano il materialismo storico i termini, e i contenuti, di sconfitta e di vittoria sono relativi. Su questo si potrebbe discorrere a lungo, e dal punto di vista storico e di quello immediato. Qualunque risultato di un lotta per obiettivi e con metodi di classe è già una vittoria: la lotta, anche al livello più basso del trade-unionismo, è scuola di guerra contro il capitalismo. Il nostro fine “immediato” è l’affasciamento di tutta la classe, possibilmente in un unico organismo di difesa economica, il sindacato di classe. A questo tendiamo con la conquista della sua direzione. Il nostro lavoro di indirizzo pratico, nella opposizione dialettica fra lotta di difesa e lotta per la distruzione dell’ordine borghese, ancora si esprime negli spiragli che la classe riesce ad aprire. La nostra esperienza critica penetra nella consapevolezza delle avanguardie della classe per la forza delle cose: una corretta analisi e bilancio dell’esperienza delle lotte.

Le pratiche sindacaliste, che siano nelle dirigenze del SI.Cobas o di Operai Contro, confermano e avvalorano la urgente necessità di un sindacato di classe e di un partito di classe. Qualsiasi bottega proletaria si accapiglia e si accapiglierà per una manciata di militanti o di iscritti al sindacato. Queste le contraddizioni interne al processo di formazione della classe per sé. La distanza delle punte della forbice si allarga fra i proclamati obbiettivi politici e le esigenze settarie dei gruppi. Anche da questo si rileva il reale livello di maturità della lotta di classe: estrema debolezza ed embrioni di organizzazioni sindacali classiste.

Vittoria o sconfitta; paura della sconfitta e paura della vittoria. Sempre nella vittoria di una lotta appare lo spettro della sconfitta, così come nella sconfitta riluce il senso della riscossa. Ciò che ha importanza è rispondere alla domanda: abbiamo fatto un passo in avanti nell’affasciamento delle forze della classe?. Se sì, abbiamo anche sicuramente affermato e difeso quelli che sono i bisogni elementari, il salario e la libertà di sciopero, per esempio.

È quindi fondamentale rivendicare le vittorie e le sconfitte all’interno di quello che è un processo di lezioni, da prendere per quello che sono, con limiti e debolezze, arretratezze e punti di forza, coi risultati ottenuti, difficili solo da pensare, all’inizio.

Chi pensa che il sindacato è un partito o, peggio, che il partito faccia anche da sindacato, e così agisce, è fuori strada per la Rivoluzione.
 
 
 
 
 
 

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Più ricco il capitale più misera la classe lavoratice, la riprova in Germania e negli Stati Uniti

Tra i capisaldi della nostra scuola c’è una semplice formula che gli economisti borghesi tentano vanamente di eludere: t = p/k. Vuol dire che il saggio di profitto – cioè la redditività dell’investimento – è uguale al rapporto tra il plusvalore, al numeratore, e, al denominatore, la somma del capitale costante (logorio dei macchinari, affitto dello stabile, materie prime) con quello variabile (salari): c+v=k.

Il modo di produzione capitalistico fa sì che, storicamente, il saggio di profitto vada calando. Questo processo è dovuto sostanzialmente alla crescita del capitale costante superiore a quella del capitale variabile: alla sostituzione degli operai con le macchine.

Per certi periodi questo calo può ben essere rallentato o anche invertito da una serie di fattori che Marx chiama “cause antagoniste” alla caduta del saggio del profitto, che elenca e analizza nel quattordicesimo capitolo, terza sezione, del terzo libro del Capitale: I. Aumento del grado di sfruttamento del lavoro; II. Riduzione del salario al di sotto del suo valore; III. Diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante; IV. La sovrappopolazione relativa (cioè l’aumento della disoccupazione); V. Il commercio estero; VI. L’accrescimento del capitale azionario.

Ma la tendenza al calo del saggio del profitto non può essere eliminata e, storicamente, prevale.

Aggravandosi le cause della crisi – la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto – le controtendenze alla caduta che conservano una relativa efficacia sono: l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro (I), cioè l’aumento dei carichi e dei ritmi; la riduzione del salario al di sotto del suo valore (II); la sovrappopolazione relativa, cioè l’aumento della disoccupazione (IV). Tutte quelle che vanno a peggiorare direttamente le condizioni di vita del proletariato.

Rimandando i lettori che volessero approfondire questi temi ai lavori svolti dal Partito sull’argomento facciamo seguito a questo breve cappello citando due articoli apparsi sul Sole 24 Ore tra luglio e agosto che si riferivano ai salari di due tra i più importanti paesi imperialisti: Germania e USA.

Nel primo articolo, datato 7 luglio, è scritto apertamente che uno dei fattori che hanno determinato la crescita tedesca in questi ultimi anni è la messa in pratica delle riforme fatte dal governo Schröder nel 2003. Come in Italia anche in Germania le peggiori bastonate alle condizioni operaie sono state inflitte da governi “amici” di centro sinistra. Il fattore decisivo è stato un ferreo controllo sui salari nominali e l’introduzione di un’armata di cosiddetti mini-jobs, come vengono definiti in Germania i lavori pagati 450 euro al mese per 15 ore settimanali, esenti da imposte. A settembre scorso, 7,4 milioni di lavoratori avevano questo tipo di occupazione, rispetto a meno di 6 milioni nel 2003.

Nell’articolo è esposto anche un grafico, fonte OCSE, che riporta il confronto tra il costo del lavoro unitario tedesco e quello italiano dal 1999 al 2011. La forbice tra i due paesi nel corso degli anni si è allargata a discapito dei lavoratori tedeschi. Saremmo curiosi di sapere come i sinistri italioti, che indicano la Germania come il paese del bengodi per la classe operaia, rispondono a questi dati.

Nell’altro articolo, del 6 agosto, si dava spazio ad un’analisi effettuata dalla statunitense Social Security Administration che metteva in evidenza come il 40,28% dei lavoratori americani guadagni oggi (considerando l’inflazione) meno di quello che nel 1968 era considerato il salario minimo. «Le aziende americane negli ultimi anni hanno aumentato gli utili in gran parte grazie a una politica di riduzione dei costi (cioè dei salari), di fronte a un fatturato sostanzialmente stabile dal 2006 ad oggi». Nei nostri termini: v diminuisce, c aumenta, il capitale, c+v+p, che chiamano fatturato, resta desolatamente, per loro, costante.

I borghesi, volenti o nolenti, sono incatenati a quella formula e attraverso di essa debbono passare per concedere qualche ultimo respiro alla loro agonizzante economia. Al proletariato il compito di riscoprire anch’esso tutte le sue formule, i capisaldi della sua rivoluzionaria teoria, ossigeno vitale per la rinascita del movimento comunista internazionale capace di terminare l’agonia di questo superato sistema di produzione.
 
 
 
 
 


Attività sindacale del partito

Uno sciopero del S.I.Cobas a Torino

Un piccolo esempio di lotta operaia condotta coi metodi classisti – cui hanno dato sostegno alcuni nostri compagni – si è avuto nella cintura di Torino, presso l’azienda Battaglio, importante nella distribuzione di prodotti ortofrutticoli nel sito logistico di Orbassano. Al suo interno un centinaio di operai di magazzino sono stati assunti attraverso una cooperativa esterna, denominata Food Service. Questa, subentrata da quattro mesi alla precedente, ha abbassato gli stipendi degli operai, molti dei quali lavoravano nella ditta da 10 anni, applicando il contratto delle pulizie e, come se non bastasse, al livello di qualifica più basso, comportando una riduzione salariale di circa il 30%. Inoltre il pagamento degli straordinari è stato posticipato di alcuni mesi. A luglio quasi nessuna busta paga superava i 1.000 € a fronte di oltre 200 ore lavorate. La paga oraria è inferiore ai 5 €.

Questa situazione ha esasperato gli operai che hanno deciso di abbandonare in massa la Uil e, dopo aver parlato coi lavoratori di aziende vicine (3M, Caat, SDA), che nei mesi precedenti avevano scioperato organizzati dal SI Cobas, hanno preso contatto con questo sindacato.

Un primo sciopero, il 13 agosto, si è concluso con promesse poi non mantenute. Così il 27 agosto i lavoratori sono tornati alla carica. Alle 4 del mattino, operai ed operaie, immigrati e italiani, si sono ritrovati davanti allo stabilimento per contarsi e decidere il da farsi. È stato così organizzato un picchetto morbido, con l’intenzione di permettere ai camion di entrare ma non di uscire, decisione dovuta al timore di dover affrontare lo scontro con le forze dell’ordine presenti.

L’adesione allo sciopero è stata pressoché totale con 60 lavoratori fuori dai cancelli e 5 entrati a lavorare. Il padrone ha così richiamato una ventina fra ex dipendenti e altri operai attraverso un’agenzia interinale ma le operazioni di carico sono andate significativamente a rilento.

Alle 13, quando i primi autotreni carichi hanno tentato di uscire dallo stabilimento, i lavoratori prima si sono seduti per terra, poi, quando i carabinieri li hanno trascinati via, hanno camminato lentamente davanti ai camion, che infine sono stati fatti rientrare. Verso le 17 era chiaro che per l’azienda la giornata era andata persa con gravissimo danno (pare circa 600.000 €) e lo sciopero era riuscito con successo.

Il padrone di Battaglio imbastiva allora una trattativa coi delegati dei lavoratori e il rappresentante del SI Cobas. Una prima proposta, di 1 € orario di aumento, col passaggio al contratto della logistica e il pagamento degli arretrati, era rigettata dagli operai che chiedevano un aumento di 1,50 €. Lo sciopero andava così avanti fino a una nuova proposta di 1,25 € d’aumento, che infine è stata accettata. Alle 19,00 terminava così lo sciopero.

Per la prima volta i lavoratori sono riusciti a organizzarsi superando le divisioni fra nazionalità – italiani, rumeni, sudamericani, arabi, ecc. – su cui l’azienda fa leva. Lo sciopero inoltre è partito in collegamento coi lavoratori di altre aziende che precedentemente si erano mobilitate, come la TNT-Traco e la SDA, e che hanno sostenuto gli operai della Battaglio nel picchetto.

I lavoratori non devono abbassare la guardia perché sinora hanno ricevuto solo promesse, non è stato firmato ancora alcun accordo ufficiale ed è ben possibile che l’azienda provi a rimangiarsi tutto. Come sempre il risultato più importante di ogni lotta è il rafforzamento organizzativo del proletario.
 

Electrolux comanda, la Fiom obbedisce

Nel pieno di una crisi che ne minaccia il ridimensionamento, la multinazionale Electrolux, in seguito a una improvvisa commessa di frigoriferi ad incasso, ha deciso l’interruzione del ponte di Ferragosto nello stabilimento di Susegana (Treviso). Prontamente i sindacati hanno messo in riga i lavoratori per rispondere sull’“attenti!” all’ordine padronale.

La notizia va collocata nel solco dei mutamenti che da sempre investono l’organizzazione del lavoro capitalistico. I primi sintomi della attuale crisi generale di sovrapproduzione colpirono già a metà degli anni ’60 gli Stati Uniti imponendo un progressivo rivoluzionamento nei metodi di lavoro e nelle tecnologie. L’esempio dell’auto è il più eclatante.

Gli apologeti del capitalismo vi ricamarono sopra il loro bagaglio di sciocchezze, spacciate per novità ma fatte a pezzi dal marxismo da oltre un secolo: la fine del fordismo avrebbe liberato l’operaio dalla catena di montaggio, reso il capitalismo una società di cittadini uguali, esaltato la libertà individuale nel lavoro e nel consumo. La produzione invece si è ancor più standardizzata. Sono eliminate le scorte di magazzino con grande risparmio di capitale fisso. Ma a tirare la produzione resta la necessità di estrarre plusvalore.

La “libertà d’impresa”, che si vorrebbe esaltata dai processi di esternalizzazione, e l’autonomia delle diverse aziende sono miraggi dietro cui si cela l’intreccio strettissimo operato dal capitale finanziario tramite processi di controllo societario sul modello delle scatole cinesi. La produzione è ripartita su di un grande agglomerato di succursali, di cui l’azienda madre ha il controllo, create per scaricare su di esse, sui lavoratori ivi occupati, i costi della crisi.

Quando si parla del Giappone il pensiero corre a un mondo lontano dove i lavoratori sarebbero dei samurai del lavoro. Sono famigerate le condizioni di sfruttamento di questi salariati, tanto che è stata clinicamente provata la morte da superlavoro (karoshi) ed il tasso di suicidi è tra i più alti al mondo. In Italia però c’è già il primo stabilimento dove infortuni e malattie professionali sono schizzate in alto proprio a seguito dell’introduzione dei metodi di lavoro “Toyota” (linee a catena a T, metodo del cartellino, ecc.). È la Fiat di Melfi.

Il toyotismo non è un post-fordismo, è un suo perfezionamento attuato con le innovazioni della tecnica, soprattutto dell’elettronica. Questa organizzazione permette di sfruttare al massimo la forza-lavoro riducendo i tempi morti (la cosiddetta riduzione della “porosità”) e aumentando l’intensità delle lavorazioni. La produzione è resa più flessibile perché avanzando la crisi generale la realizzazione del plusvalore estratto è sempre più difficile e il capitale – avventuriero solo se sa di tornare arricchito – investe solo dove e quando ha remunerazione. Ecco che si creano le altalene delle commesse.

Ovviamente a questa organizzazione del lavoro (conseguenza della crisi di sovrapproduzione, non causa) deve seguire ed è seguita una nuova legislazione del lavoro, con la cosiddetta “precarizzazione” del rapporto lavorativo.

Qui il cerchio si chiude e si torna all’Electrolux che serra i ranghi della truppa proletaria per un giorno, pronta poi il giorno seguente a ricacciarla nel limbo degli ammortizzatori sociali. Coi sindacati di regime a tenere gli operai incatenati all’azienda e al capitalismo che affonda.
 

Ideal Standard: La difficoltà di una lotta in difesa del lavoro

La vicenda della storica fabbrica di sanitari di Orcenico di Zoppola (PN), che occupa circa 500 lavoratori, è comune alle oramai numerose altre che si susseguono quotidianamente nello stillicidio della crisi di sovrapproduzione capitalistica e laddove il sindacato di regime impone il suo controllo.

Il 17 luglio scorso gli operai, saputa la notizia che la proprietà (Bain Capital, un fondo di investimenti statunitense), dopo quattro anni di contratti di solidarietà e cassa integrazione, intendeva procedere alla chiusura dello stabilimento di Orcenico, sono scesi in sciopero fuori dal controllo dei sindacati di regime di categoria (Filctem-Cgil, Femca-Cisl, Uiltec-Uil), bloccando parzialmente il traffico sulla Statale 13 di fronte alla fabbrica e proclamando l’intenzione di proseguire lo sciopero per 8 ore il giorno successivo, con assemblea interna allo stabilimento.

L’indomani allo sciopero hanno aderito tutti i lavoratori, nuovamente scesi in strada a bloccare il traffico. Una tenace minoranza di essi ha insistito sulla necessità di proseguire l’agitazione ad oltranza, ma è stata sopraffatta dal pompieraggio dei bonzi della triplice, che nel frattempo si erano organizzati per riprendere il controllo della situazione. I lavoratori hanno anche deciso di inviare una loro delegazione il giorno successivo a Brescia, presso la sede logistica del gruppo – che conta altri due stabilimenti produttivi in Italia a Trichiana (BL) e Roccasecca (FR), oltre che uno in Bulgaria e uno in Egitto – con l’idea di bloccare le merci, tentativo fallito perché già spedite.

Filctem-Cgil, Femca-Cisl, Uiltec-Uil, dopo aver proclamato lo sciopero già messo in atto dai lavoratori, così da non perdere la faccia, al solito hanno lavorato per spegnere la lotta, incanalandola nell’alveo istituzionale, facendo leva sulle illusioni dei lavoratori più sprovveduti che sperano nella bontà di qualche politicante borghese che si impegni – in cambio di un po’ di voti – a far valere i loro interessi nei confronti del Capitale.

Così il 24 luglio presso la fabbrica si è svolto un incontro con i presidenti della regione e della provincia, sindaco, presidente di Unindustria di Pordenone e pure il vicario del vescovo, i quali si sono riempiti la bocca di false promesse sul loro impegno a risolvere il “caso”, utili solo a sedare la volontà di lotta dei lavoratori, che infatti hanno smesso di fermare la produzione.

Al posto dello sciopero, con l’appoggio della trimurti sindacale, è stato organizzato un presidio dello stabilimento per tutto il mese di agosto, giustificato col timore che la proprietà approfittasse della pausa estiva per spostare macchinari e merci, ma che aveva la funzione di dissimulare l’abbandono della lotta avvenuto con la cessazione dello sciopero e di esaurire in questa azione inoffensiva le energie degli operai più combattivi. Un gazebo è stato installato ai cancelli della fabbrica dove gli operai a turno sostavano in presidio per tutto il giorno.

L’iniziale sostegno dei lavoratori degli altri stabilimenti italiani è svanito col passare dei giorni a favore del mors tua vita mea, tanto caro alla lurida società individualista borghese, che l’azione dei sindacati di regime rafforza. Solidarietà è venuta dai lavoratori della Danieli di Udine, recentemente scesi in lotta contro la proprietà, che hanno issato ai cancelli della fabbrica un loro striscione.

Durante i primi giorni del presidio un delegato Cgil annunciava che un incontro fra sindacati di regime, rappresentanti aziendali e istituzioni borghesi era stabilito presso il ministero a Roma per l’11 settembre. E solo in esso i lavoratori ripongono ogni loro residua speranza, per ora privi di fiducia nelle proprie forze.

I nostri compagni sono stati al fianco di questi operai con una presenza quasi quotidiana al presidio. Hanno indicato loro, scontrandosi coi bonzi sindacali, i chiari criteri con cui va condotta ogni lotta, confidando solo nelle forze dei lavoratori, cercando di coinvolgere gli operai degli altri stabilimenti del gruppo e quelli della fabbriche limitrofe, per superare i confini fra azienda e categoria che servono solo a dividere la classe operaia e tenerla sottomessa. Hanno spiegato che per svolgere questo compito di battaglia occorre organizzarsi in un vero sindacato di classe e che ciò può oggi avvenire solo fuori e contro Cgil, Cisl, Uil e Ugl. Infine non hanno omesso di spiegare agli operai l’interezza e la durezza del problema che li affligge e del compito che la classe lavoratrice internazionale dovrà affrontare, fuori da ogni illusione riformista: quello del superamento rivoluzionario del capitalismo.
 
 
 
 
 
 

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La Germania nel gioco delle forze imperiali

Se dall’aeroporto di Francoforte si procede in direzione sud sull’autostrada A6 si può scorgere il monumento al ponte aereo di Berlino: un aereo passeggeri ed uno militare Dakota, color verde oliva. Per molti anni, questi vecchi bombardieri “Rosinen”, “canditi”, hanno ricordato al popolo tedesco la forza militare americana, creatrice e custode della democrazia in Germania.

Solo l’ombrello militare americano garantiva la sicurezza dalle infiltrazioni spionistiche della Repubblica Democratica Tedesca. Per questo da mezzo secolo la gran parte dei politici e di tutti i partiti sono stati concordi nel concedere il massimo appoggio possibile all’alleato americano, il quale negli anni ’50 arrivò a schierare sul suolo tedesco, al culmine della Guerra Fredda, oltre 400.000 effettivi.

Ma questo è un argomento che non fa presa sulla nuova generazione post Guerra Fredda, tanto che la recente rivelazione che gli attacchi di droni americani sarebbero pilotati dalla Germania e che l’Agenzia di Sicurezza Nazionale americana starebbe spiando su vasta scala i cittadini tedeschi, ha provocato un collettivo turbamento e un avvicinamento tra i politici di stampo liberale e i vacui media che tanta “speranza” avevano riposto nel presidente Obama.

Beninteso, l’affare NSA anche in Germania non ha sollevato questioni di merito – la natura degli Stati capitalisti e la loro necessità di sorvegliarci tutti – ma ha solo fornito lo sfondo ad una pantomima nazionale, un teatrino di accuse e contro-accuse giusto alla vigilia delle elezioni federali del 2013.

Per altro gli Stati Uniti esigono che l’alleato tedesco svolga un ruolo più attivo nel prepararsi ai conflitti futuri, con il pretesto della “lotta al terrorismo”.

Nel corso degli ultimi due decenni, gli Stati Uniti hanno via via ridotto la propria presenza militare sul suolo tedesco. Per tutta la Guerra Fredda e fino all’inizio del 2013 il Quartier Generale delle forze americane ha avuto sede in Heidelberg, da dove si è diramata la costruzione di un enorme complesso di basi in una fascia che comprende la Renania-Palatinato – attorno alle città dell’Assia meridionale, Francoforte e Darmstadt – e la parte settentrionale del Baden-Württemberg e della Baviera (la parte settentrionale della Germania fu invece occupata dall’esercito inglese stazionato sul Reno). Nella maggior parte dei casi non erano semplici baracche, ma piccole città con tutti i servizi, negozi, cinema, chiese e persino una prigione. Al suo apice, Patrick Henry Village – appena fuori Heidelberg – contava 16.000 abitanti.

In seguito al crollo dell’Unione Sovietica, negli anni ’90, ed all’inizio del nuovo millennio, i cosiddetti “dividendi della pace” hanno permesso di spostare gran numero di mezzi e uomini su altri fronti, soprattutto in Medio Oriente e nei Balcani. Recentemente l’attenzione si è spostata verso l’Africa settentrionale ed una forza di risposta rapida di 500 marines è stata dislocata in una base aerea nel sud della Spagna. Entro il 2017 il numero delle truppe di stanza in Germania sarà ulteriormente ridotto a 30.000.

Tuttavia, mentre sul suolo tedesco il numero di soldati è diminuito, la presenza militare americana si è intensificata grazie ad una ridistribuzione ed un riallineamento delle forze. La presenza militare USA in Germania ha oggi due funzioni principali. In primo luogo servire da base avanzata per i possibili teatri di guerra, in special modo in Africa e in Medio Oriente. Inaugurata nel 1952, la base di Ramstein, nei pressi di Kaiserslautern, è la più grande base aerea al di fuori degli Stati Uniti. Vi sono impiegati più di 50.000 tra civili e militari, mentre l’ospedale nella vicina Landstuhl è il più grande ospedale americano fuori degli USA e soccorre soldati provenienti da tutto il mondo.

La Heritage Foundation ha recentemente dichiarato: «Dall’Artico al Levante, dal Magreb al Caucaso, l’Europa è in uno dei più importanti crocevia del mondo. Le basi americane in Europa forniscono ai dirigenti statunitensi flessibilità, capacità di recupero, pluralità di opzioni in un pericoloso mondo multipolare. Le enormi guarnigioni di truppe americane in servizio in Europa non sono più le fortezze della Guerra Fredda, ma le basi operative avanzate del ventunesimo secolo». Insomma, mentre durante la Guerra Fredda gli americani consideravano l’Europa il più probabile teatro di operazioni militari in caso di guerra tra le due superpotenze, oggi vedono il Vecchio Continente come un centro operativo per combattere un conflitto globale, ovunque e in qualunque momento esploda.

In secondo luogo, gran parte dell’attività di spionaggio internazionale americana è concentrata in Germania. Nel 2012 il Quartier Generale delle forze in Europa dell’esercito americano è stato trasferito da Heidelberg a Wiesbaden, dicevano per poter tagliare le tasse al contribuente americano. In realtà, il risparmio è stato solo di 112 milioni di dollari, sui 700 miliardi del bilancio militare. La mossa riflette invece il nuovo ruolo attribuito all’apparato di difesa e sicurezza americano: minor numero di truppe combattenti, aumento di ufficiali superiori, e di civili specialisti nello spionaggio.

I fondi non mancano per pagare questo personale. Secondo il giornale dell’esercito americano: «I progetti comprendono un centro elaborazione dati composto di 200 stazioni di 5.000 metri quadri, il cui completamento è previsto per il prossimo dicembre. Il centro, del costo di 30,4 milioni di dollari, permetterà all’esercito e al 5° Comando Segnalazioni di migliorare la capacità di fornire informazioni tempestive e di unificare la sede delle operazioni. Il Consolidated Intelligence Center, da 91 milioni, sarà l’ultimo dei tre centri operativi previsti». Gli altri servizi in programma per Wiesbaden e dintorni includono impianti di logistica e manutenzione, centri di immagazzinaggio, alloggi e un nuovo impianto PX da 43,8 milioni di dollari con vari punti vendita. Evidentemente i fondi non mancano.

Il quartier generale dell’Intelligence, il cui completamento è in programma per il 2015, sarà la base delle operazioni di spionaggio. I 1.100 “agenti di spionaggio” e gli “agenti di sicurezza speciali” attualmente di stanza al Dagger Complex nei pressi di Darmstadt, saranno trasferiti a Wiesbaden. Qui lavoreranno in collegamento con gli specialisti di intercettazioni dell’NSA di base a Bad Aibling in Baviera, nonostante questa dal 2002 sia formalmente sotto il controllo della Repubblica Federale.

I documenti dimostrano che in Germania si è svolta gran parte della sorveglianza globale della NSA. La quale ogni mese archivia circa mezzo miliardo di comunicazioni provenienti dalla Germania, essendo questa tra i paesi in cima alla lista di priorità dei servizi segreti degli Stati Uniti, i quali, con l’approvazione della Casa Bianca, starebbero spiando dai cittadini tedeschi comuni fino ai più alti livelli del Governo (ma spiati sono anche i funzionari di Washington di stanza nell’Unione Europea).

Secondo un rapporto del Consiglio Atlantico: «I paesi stanno portando avanti uno spionaggio economico e tengono sotto osservazione i ministri. I documenti rivelano la possibilità della sorveglianza totale di cittadini stranieri, senza alcun tipo di controllo o di vigilanza efficace. Tra le agenzie di intelligence del mondo occidentale sembra che vi sia una divisione dei compiti e a volte ampia collaborazione. Il principio per cui le agenzie non possano spiare i cittadini del proprio paese, o lo possano solo sulla base di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, è inapplicabile in un mondo caratterizzato da un sistema di comunicazione e sorveglianza globalizzato. Si è creata una rete di sorveglianza sconfinata in cui i partner si aiutano tra loro una di divisione dei compiti». Le agenzie di tutti gli Stati spiano i cittadini degli altri e condividono poi le informazioni, eludendo in tal modo ogni “controllo costituzionale”.

“Imbarazzo” nazionale

La serie di rivelazioni di Edward Snowden al quotidiano britannico The Guardian ha provocato qualche imbarazzo al politicantume tedesco. L’opinione pubblica era stata portata a credere da decenni di bombardamento ideologico che, a differenza dei regimi nazista e stalinista, la Repubblica Federale avrebbe garantito “a tutti” il rispetto della “riservatezza” ed oggi l’idea di essere sotto costante sorveglianza è difficile da mandar giù, anche in tempi di crisi.

La stampa borghese ha dispiegato tutte le tecniche di manipolazione, ha nascosto gli aspetti centrali della questione per incentrarla su banalità (come la personalità di Snowden), e infine ha rassicurato il pubblico che non ha nulla di cui preoccuparsi. Il cancelliere Angela Merkel (CDU) ha affermato in un’intervista a Die Zeit di aver avuto conoscenza solo dai giornali dell’attività americana di raccolta dati: un’affermazione ridicola, dato che la BND riferisce direttamente alla cancelleria. È stata poi sbeffeggiata per aver fatto l’ingenua: «Internet è una novità per tutti noi». Roland Pofalla, il Capo dell’ufficio di Cancelleria, che è responsabile della supervisione della BND, vagamente ha affermato che «la protezione dei dati è garantita»; ma non ha negato che lo spionaggio di massa dei tedeschi stia ancora andando avanti e che il BND e la NSA (e l’inglese GCHQ) abbiano collaborato nell’operazione, cioè non operando all’insaputa del governo tedesco.

Naturalmente la sinistra tedesca non è più attendibile della coalizione conservatrice. La SPD ha accusato il governo d’essere troppo morbido nei riguardi delle attività della NSA; posizione difficile da sostenere dopo che nel 2002 la coalizione SPD-Verdi ha convenuto di rafforzare il sistema di cooperazione e condivisione dei dati tra la NSA e il BND, ed è stato proprio l’attuale leader della SPD, Frank-Walter Steinmeier, a portare a termine l’operazione. La SPD ha replicato che quell’accordo fu conseguente agli attentanti dell’11 settembre 2001. Insomma, la SPD socchiuse la porta, la CDU l’ha spalancata.

Il tedesco Partito dei Pirati, simile al nostro Cinque Stelle, che dice di voler rinvigorire la “democrazia del ventunesimo secolo”, concentrando la propria battaglia per “la riservatezza nella rete e la trasparenza nel governo”, ha contribuito alla mistificazione. Il suo leader Udo Vettel pontifica: «Non possiamo permettere che un servizio segreto ignori la Costituzione». Però il BND non l’ha fatto: ha solo lasciato che NSA e GCHQ spiassero al posto suo. Come i Verdi negli anni ’80, così i Pirati si atteggiano ad alternativi e fingono di non sporcarsi le mani con gli affari di governo, servendo così da recupero per chi si è reso conto che i grandi partiti democratici hanno fatto il loro tempo e, poveretto, ritiene che siano “una minaccia per la democrazia” in Germania!

Moderni travestimenti del feticcio democratico

In Germania, come ovunque altrove, il Parlamento è solo un’arena nella quale accese discussioni ruotano attorno a lievissimi disaccordi circa la direzione della politica e le priorità dello Stato del capitale. Poiché sono sempre in numero minore quelli che prendono sul serio le pose parlamentari, la borghesia sperimenta approcci “innovativi” per indurre l’opinione pubblica a sottomettersi alla sua politica.

Le voci “progressiste” del campo borghese, in particolare gli interessati al crescente mercato dei computer e dei feticcetti della telefonia, da una parte osservano che la nuova generazione, cresciuta maneggiando i “social media”, pubblica già su Facebook tutte le notizie delle quali lo Stato ha bisogno. Altri invece, più istupiditi, sperano che saranno i “social media” a “salvare la democrazia” tedesca, in un’epoca di declino della partecipazione politica. Vediamo come. In progetto pilota la città di Heidelberg sta utilizzando i dati presenti sui “social media” non solo per spiegare le politiche del Consiglio cittadino, in un periodo di crescente disimpegno politico, ma anche per carpire per tempo il dissenso e garantire che le decisioni impopolari siano fatte passare. Il capo dell’ufficio del Sindaco ha spiegato: «Un’azione di disinformazione può far mancare il sostegno dell’opinione pubblica ad un progetto. Quando le voci si trasformano in leggende metropolitane, l’opinione pubblica resta disorientata. Le autorità locali intendono identificare tali tendenze con la massima tempestività e rassicurare l’opinione pubblica con informazioni corrette».

A chi elogia il ruolo “liberatore” dei “social media” nelle rivolte giovanili in varie parti del mondo, come in Iran e nella cosiddetta “primavera araba”, basta ricordare la prontezza di Facebook e Twitter, nonché del motore di ricerca Google a condividere i propri dati con le autorità statali e la capacità di queste di utilizzarli ai fini della repressione e della conservazione. Fino a quando sarà al potere, la classe borghese controllerà i mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi, dalla posta, la stampa, la radio, la tv e fino ad ogni strumento moderno.

Lotta al terrorismo ?

Quindi in Germania, qualunque sarà l’esito delle elezioni federali, e finché non cambi lo schieramento bellico del suo capitale nazionale, la cooperazione con l’America in materia di intelligence continuerà, semmai con il pretesto della “lotta al terrorismo”, per “difendere la democrazia” e i “valori della civiltà occidentale”, argomento sempre pronto per giustificare l’estendersi dei poteri statali. Anche l’attuale basso livello d’attività terroristica è citato come prova del fatto che l’attività di sorveglianza funziona, e quindi occorre incrementarla.

Ancora nel maggio scorso, in visita a Washington con il ministro della Difesa Thomas de Maizière, il ministro dell’Interno tedesco Hans Peter Friedrich ha sottolineato che la Germania e gli Stati Uniti sono state “intimamente legate” nella lotta al terrorismo e hanno lavorato bene insieme “a tutti i livelli”. Ha anche chiesto una più stretta sorveglianza degli spostamenti all’interno dell’Unione europea, attingendo ai dati del sistema elettronico di autorizzazione dei viaggi degli Stati Uniti (ESTA). Citando l’esempio dell’attentato di Boston, Friedrich ha affermato che i terroristi agiscono sempre più in modo indipendente dalle grandi organizzazioni come Al Qaida, di fatto giustificando che ogni cittadino sia un possibile bersaglio del sistema di sorveglianza statale.

Durante la stessa visita Thomas de Maizière ha rassicurato gli Stati Uniti circa l’appoggio tedesco per le sue missioni imperialiste in tutto il mondo, che ovviamente sono combattute sotto la bandiera dell’anti-terrorismo.

Poco dopo è stato rivelato che il comando degli Stati Uniti per l’Africa, di base a Stoccarda (US Africom), e l’Air Operations Center (AOC), presso la base aerea statunitense di Ramstein, sono direttamente coinvolti nell’attacco dei droni in Somalia. Agli inquirenti il governo tedesco ha risposto in un primo momento negando che gli attacchi fossero diretti dal suolo tedesco, poi ha fatto marcia indietro e ha sostenuto, poco plausibilmente, di non avere “alcuna prova” degli attacchi. Nulla di nuovo.

La Costituzione della Germania, per quel che vale, parla chiaro: «Gli atti tendenti o intrapresi a turbare le relazioni pacifiche tra le nazioni, in particolare per preparare una guerra d’aggressione, sono incostituzionali e configurano un reato penale». Ma il governo tedesco ha già preparato un piano per aggirarla ed eludere la diffusa opposizione nell’opinione pubblica al militarismo. Nel 2003, il governo SDP-Verdi del cancelliere Gerhard Schröder, con ministro degli Esteri Joschka Fischer, ostentò la sua opposizione alla guerra in Iraq. Contemporaneamente, tuttavia, garantiva a Washington il pieno utilizzo delle basi in Germania. Per settimane un’enorme quantità di materiale militare di stanza in Germania fu lì riverniciato per mimetizzarsi nel deserto e da lì trasportato in Iraq mentre, durante la guerra e l’occupazione, la base aerea di Ramstein svolse un ruolo fondamentale come centro di transito tra Stati Uniti, Europa e Medio Oriente.

I comunisti sanno che la borghesia ha la sempre maggiore necessità d’usare la guerra per porre fine alla sua crisi generale. Militarismo e spionaggio di Stato procedono insieme. Si spiano fra di loro. e spiano la classe operaia. Di questa, in caso di guerra, la borghesia deve spegnere la potenziale resistenza il più presto possibile, individuando nel contempo fonti di pseudo-opposizione per cooptarle ai propri fini. Parlare di “ringiovanire la democrazia”, per esempio, tramite una maggiore “trasparenza”, ecc. serve a distogliere l’attenzione dalla questione centrale che riguarda il potere politico, cioè dal programma del partito comunista.

Al di fuori del programma integrale del comunismo e di azioni ben delimitate ed orientate agli interessi di classe e solo intorno ad essi inquadrate, tutto può essere utilizzato ai fini della confusione e della conservazione. Ammesso che sia sincero e che non faccia parte di un piano che va oltre di loro, non saremo noi ad apprezzare il “sacrificio” di individui come Snowden e Manning per aver rivelato lo spionaggio degli Stati e le operazioni militari in tutto il mondo. Sappiamo come in se stesse queste rivelazioni siano impotenti e come la borghesia sia in grado di sfruttare a proprio vantaggio anche simili rivelazioni, diffondendo l’illusione di un possibile controllo sui poteri militari e statali tramite la indistinta opinione pubblica e gli istituti democratici.

Lo Stato borghese, potendo scegliere, per irretire la classe operaia, preferisce fingere di utilizzare i mezzi democratici. Tuttavia saprà sicuramente sbarazzarsene appena gli sarà necessario, e comunque in ogni momento e luogo, come risulta evidente, li ignora bellamente per il perseguimento dei suoi fini.
 
 
 
 
 
 
 

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

(continua dal numero 359)

11. Il posto dell’imperialismo nella storia

Lenin richiama i tratti essenziali del monopolio e dell’imperialismo, mettendo in risalto come questo, pur essendo parassitario e putrescente, attua tuttavia un grado molto elevato di socializzazione della produzione:

     «In primo luogo, il monopolio è sorto dalla concentrazione della produzione, giunta ad un grado assai elevato di sviluppo. Si sono formati gruppi monopolistici di capitalisti: cartelli, sindacati padronali e trust (...) Al principio del XX secolo, hanno acquistato una supremazia assoluta nei paesi progrediti: e se i primi passi sulla via della cartellizzazione furono compiuti da paesi con alti dazi protettivi (Germania, America), poco tempo dopo anche l’Inghilterra, con tutto il suo sistema di libertà del commercio, mostrava lo stesso fenomeno fondamentale, ossia il sorgere dei monopoli dalla concentrazione della produzione.
     «In secondo luogo, i monopoli hanno condotto all’accaparramento intensivo delle principali sorgenti di materie prime, specialmente nell’industria più importante e più cartellizzata della società capitalistica, quella siderurgico-mineraria. Il possesso monopolistico delle più importanti sorgenti di materia prima ha aumentato immensamente la potenza del grande capitale e acuito l’antagonismo tra l’industria cartellizzata e l’industria non cartellizzata.
     «In terzo luogo, i monopoli sono sorti dalle banche. Queste si trasformarono da modeste imprese di mediazione in detentrici monopolistiche del capitale finanziario. Tre o cinque grandi banche, di uno qualunque tra i paesi più evoluti, hanno attuato la ”unione personale” del capitale bancario e del capitale industriale, e hanno concentrato nelle loro mani miliardi e miliardi che costituiscono la maggior parte dei capitali e delle entrate in denaro di tutto il paese. La manifestazione più eclatante di tale monopolio è l’oligarchia finanziaria che stringe, senza eccezione, nella sua fitta rete di rapporti di dipendenza tutte le istituzioni economiche e politiche della moderna società borghese.
     «In quarto luogo, il monopolio è sorto dalla politica coloniale. Ai numerosi “antichi” moventi della politica coloniale, il capitale finanziario ha aggiunto la lotta per le fonti di materie prime, quella per l’esportazione di capitali, quella per le “sfere d’influenza”, cioè per le regioni che offrono vantaggiosi affari, concessioni, profitti monopolistici, ecc., e infine la lotta per il territorio economico in generale. Quando per esempio le potenze europee occupavano con le loro colonie solo una decima parte dell’Africa, come era il caso ancora nel 1876, la politica coloniale poteva allora svolgersi in forma non monopolistica, nella forma, per così dire, di una “libera presa di possesso” di territorio. Ma, accaparrati già nove decimi dell’Africa (verso il 1900) e terminata la divisione del mondo, allora, com’era inevitabile, iniziò l’era del possesso monopolistico delle colonie, e quindi anche di una lotta particolarmente intensa per la partizione e ripartizione del mondo.
     «È noto a tutti quanto il capitale monopolistico abbia acuito tutti gli antagonismi del capitalismo. Basta accennare al rincaro dei prezzi e alla pressione dei cartelli. Questo inasprimento degli antagonismi costituisce la più potente forza motrice del periodo storico di transizione, iniziatosi con la definitiva vittoria del capitale finanziario mondiale. Monopoli, oligarchia, tendenza al dominio anziché alla libertà, sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli per opera di poche nazioni più ricche o potenti: sono le caratteristiche dell’imperialismo, che ne fanno un capitalismo parassitario e putrescente (...)
     «Ma sarebbe un errore credere che tale tendenza alla putrescenza escluda il rapido incremento del capitalismo: tutt’altro. Nell’età dell’imperialismo singole branche d’industria, singoli strati della borghesia o singoli paesi palesano, con forza maggiore o minore, ora l’una ora l’altra di quelle tendenze. In complesso il capitalismo cresce assai più rapidamente di prima, sennonché tale incremento non solo diviene in generale più sperequato, ma tale sperequazione si manifesta particolarmente nell’imputridimento dei paesi capitalisticamente più ricchi di capitale (Inghilterra) (...)
     «Quando una grande azienda assume dimensioni gigantesche e, sulla base di un’esatta valutazione di dati innumerevoli, organizza sistematicamente la fornitura della materia prima di base nella proporzione di due terzi o di tre quarti dell’intero fabbisogno di una popolazione di più decine di milioni; quando è organizzato sistematicamente il trasporto di questa materia prima nei più opportuni centri di produzione, talora separati l’uno dall’altro da centinaia o migliaia di chilometri; quando un unico centro dirige tutti i successivi stadi di elaborazione della materia prima, fino alla produzione dei più svariati prodotti finiti; quando la ripartizione di tali prodotti, tra le centinaia di milioni di consumatori, avviene secondo un preciso piano (per esempio, la vendita del petrolio in America e Germania da parte della Standard Oil), allora diventa chiaro che si è in presenza di una socializzazione della produzione e non già di un semplice “intreccio”; che i rapporti di economia privata e di proprietà privata formano un involucro non più corrispondente al contenuto, involucro che deve andare inevitabilmente in putrefazione qualora ne venga ostacolata artificialmente l’eliminazione [ed è quello che disgraziatamente accade da oltre un secolo!], e in stato di putrefazione potrà magari durare per un tempo relativamente lungo (nella peggiore delle ipotesi, se il bubbone opportunista tarderà a scoppiare), ma infine sarà fatalmente eliminato».
L’imperialismo è legato all’opportunismo perché:
     «Gli elevati profitti che i capitalisti di una certa branca d’industria o di un certo paese traggono dal monopolio dà loro la possibilità economica di corrompere alcuni strati operai (...) conquistati alla causa della borghesia di quella branca o di quel paese considerati, e di contrapporli a tutti gli altri».
La parentesi della Seconda Guerra mondiale rappresenterà per il capitalismo un bagno di giovinezza riportando momentaneamente indietro la composizione organica del capitale. Ma l’accumulazione è poi ripresa infernale fino alla crisi generale di sovrapproduzione del 1973, che non ha ancora trovato il suo scioglimento: in Europa, in America del Nord, in Russia, in Cina la società borghese è oggi un cadavere putrescente.

Con il viatico dello straordinario testo di Lenin, riprendiamo ora la storia del petrolio, o meglio, dei moderni monopoli.
 

12. Lo scontro per il petrolio mediorientale

Giusta Lenin, alla vigilia della Prima Guerra mondiale le grandi potenze emergenti erano Stati Uniti e Germania. In Europa la Germania si trovava soffocata dai vecchi capitalismi inglese e francese, e ciò rendeva prima o poi ineluttabile una guerra per una nuova spartizione del mondo. Vediamo le cose un po’ più da vicino.

All’inizio del secolo lo smercio del petrolio nel mondo e in Europa era in mano ai cartelli della Shell e della Standard Oil. La Gran Bretagna, ancora la prima potenza mondiale, non disponeva, a differenza degli Stati Uniti e della Russia, di riserve di petrolio sul proprio territorio, ed era perciò obbligata a cercarlo nei luoghi più remoti.

Per gli inglesi l’affare del petrolio fu fin dagli inizi strettamente collegato alla politica diplomatica. Nel 1901 l’iniziativa dell’affarista britannico William D’Arcy, che aveva acquistato dallo Scià di Persia una concessione petrolifera sessantennale per la prospezione e lo sfruttamento dei giacimenti in tre quarti del paese, ben rispondeva alle necessità britanniche in funzione anti-russa. In Persia gli inglesi detenevano solide posizioni che i russi cercavano di scalzare. Con il nuovo secolo la Russia aveva aumentato le sua pressione sulla Persia e stabilito una sua forza navale nel Golfo Persico che minacciava l’India e le strade che ad essa conducevano. Proprio per evitare attriti prematuri con la Russia erano stati esclusi dalla concessione di D’Arcy i territori settentrionali al confine con l’impero zarista.

Finalmente, nel 1908, la perseveranza di D’Arcy venne premiata poiché fu trovato il petrolio e scoperto il ricco giacimento di Masjed Suleiman, uno dei più importanti del paese. Si rese necessaria la creazione di una struttura societaria per sfruttare al meglio la concessione: nacque così l’Anglo-Persian Oil Company (Apoc, la futura British Petroleum). Lord Strathcona, proveniente dal Foreign Office, ne venne nominato presidente e D’Arcy direttore generale.

Nel 1912 Churchill, allora Lord dell’Ammiragliato, decise di modernizzare la flotta da guerra e dotare la Royal Navy di caldaie a nafta in sostituzione di quelle a carbone per rendere più agili, rapide e flessibili le navi inglesi rispetto a quelle tedesche e americane. L’incidente di Agadir dell’anno prima, quando una cannoniera tedesca era entrata nel porto marocchino a scopo dimostrativo, era un chiaro messaggio che la Germania perseguiva fini espansionistici e sfidava il dominio inglese sui mari. Inoltre la flotta inglese dipendeva allora dal petrolio americano, e ciò era visto con preoccupazione da un governo geloso dell’indipendenza nazionale e della libertà della sua politica marittima nel mondo. Churchill fu uno dei pochi ad individuare allora la stretta relazione tra controllo statale del petrolio e potenza militare. Puntare su una risorsa che si trovava su territori fuori dell’influenza britannica richiedeva, infatti, un preciso impegno politico e militare del governo.

Così, per proteggere i propri interessi strategici e porre sotto il diretto controllo della marina le ricche riserve mediorientali, il governo britannico aveva proposto la parziale nazionalizzazione della neonata Anglo-Persian, divenendone azionista di maggioranza. La posizione conquistata dalla Compagnia sarà rafforzata dai lavori necessari allo sfruttamento dei giacimenti in cui presto si lanceranno gli inglesi. Per trasportare il petrolio persiano il capitale finanziario che aveva il controllo della società avviò lavori faraonici per la costruzione del porto di Abadan, sul Golfo Persico, oltre che di strade nei territori montagnosi del paese che erano allora infestati dai briganti, e soprattutto di una pipeline lunga diverse centinaia di chilometri per collegare i pozzi di petrolio al porto, sede allora di una delle più grandi raffinerie del mondo. Alla vigilia della guerra i campi petroliferi persiani sfornavano una produzione annua pari a 89 mila tonnellate di greggio.

In Medio Oriente le rivalità tra le potenze erano in atto da molto prima che iniziasse lo sfruttamento intensivo del petrolio. L’Impero Ottomano, esteso in tre continenti, occupava una posizione strategica nelle relazioni internazionali, ed era un alleato indispensabile soprattutto alla Gran Bretagna per il suo accesso all’India.

Alla fine dell’Ottocento il fatto nuovo fu che anche i tedeschi cominciarono ad infiltrarsi nell’area per diverse vie: esplorazioni archeologiche e scientifiche, missioni commerciali, linee di navigazione, ecc. Il petrolio farà il suo ingresso nel 1903, quando il Kaiser ottenne dal sultano l’autorizzazione per la costruzione della ferrovia Berlino-Baghdad. Il gran visir promise alla Deutsche Bank il diritto di sfruttare le risorse petrolifere situate lungo la linea per una fascia di venti chilometri ai lati della strada ferrata.

Le rivalità nel Medio Oriente sono il prolungamento di una generale concorrenza navale e commerciale sempre più aspra tra le potenze europee, soprattutto dopo l’Entente cordiale (1904) con la quale inglesi e francesi si erano spartiti spudoratamente l’egemonia sul Mediterraneo. Nel 1908-1909 la rivoluzione dei Giovani Turchi modificherà ulteriormente la situazione: la notizia della caduta del sultano Abdul Hamid fu accolta con soddisfazione a Londra e a Parigi perché sembrava preludere alla completa defenestrazione della Germania dalla regione.

Gli inglesi non avevano mai nascosto la volontà di fare di Costantinopoli un centro d’influenza finanziaria esclusivamente britannico. L’occasione favorevole si presentò nel 1910 quando, con l’aiuto di Calouste Gulbenkian, consigliere economico e finanziario delle ambasciate turche a Parigi e a Londra, fu fondata la National Bank of Turkey con capitale interamente inglese. Nel gennaio del 1911 lo stesso Gulbenkian, divenuto nel frattempo direttore della banca a Londra, spinse i fondatori a lanciarsi nell’affare petrolifero ottomano con la fondazione della Turkish Petroleum Company Ltd., a cui parteciparono Sir Ernest Cassel, ambasciatore della Gran Bretagna a Costantinopoli (40% del capitale), Gulbenkian (40%) e la National Bank of Turkey (20%). In quell’epoca, Gulbenkian, armeno di nazionalità ottomana, non era uno sconosciuto nel mondo del petrolio. Figlio e nipote di grossi importatori di petrolio russo, aveva compiuto gli studi a Londra, al King’s College, da dove era uscito con la laurea in ingegneria. Il padre lo aveva mandato allora a farsi le ossa nell’industria petrolifera di Baku, dove aveva avviato importanti rapporti commerciali e stretto proficui legami con il ministro del governo ottomano per il petrolio e con i rappresentanti locali dei Rothschild e della Shell.

Ma sfortunatamente erano ancora i tedeschi a detenere le concessioni minerarie in Mesopotamia, e ciò impose agli inglesi, volens nolens, un riavvicinamento tattico con i tedeschi, tanto più che anche gli americani cercavano di entrare nel gioco, approfittando della rivoluzione dei Giovani Turchi. Per un fenomeno solo apparentemente anomalo gli Stati Uniti, pur essendo assurti a massimi produttori di petrolio e pur regolando di fatto il mercato petrolifero mondiale in quanto possedevano un’organizzazione molto avanzata per tutti gli stadi della produzione e della vendita dei prodotti petroliferi, erano stati finora tagliati fuori dai giochi mediorientali.

In realtà, la politica degli Usa non è quella di puntare al controllo diretto delle colonie: avendo a disposizione un immenso territorio ricco di materie prime e uno sterminato mercato interno, hanno bisogno piuttosto di nuovi mercati di sbocco per le merci e i capitali. La politica imperialista americana punta su pressioni economiche e su interventi militari ad hoc per creare un’area favorevole al dollaro. Quando gli americani fanno mostra di voler difendere l’integrità territoriale di alcuni paesi appellandosi alla politica della “porta aperta” (agli interessi statunitensi!), lo fanno per tenere fuori i concorrenti.

All’inizio del 1910 gli Stati Uniti avevano inviato il contrammiraglio Chester ad offrire ai turchi un vasto programma di lavori pubblici e di sviluppo economico proponendo, tra gli altri progetti, la costruzione di tre ferrovie a patto di ottenere le stesse condizioni dei tedeschi. Nel marzo, uomini d’affari americani avevano creato l’Ottoman American Developpement Co., depositando presso la Banca di Turchia la somma di 88 mila sterline. I negoziati furono caldeggiati ufficialmente dal sottosegretario di stato Wilson, recatosi a Costantinopoli in occasione dell’incoronazione del nuovo sultano Maometto V.

Ma la controffensiva diplomatica tedesca e inglese contro la penetrazione americana convincerà gli ottomani a lasciar cadere le trattative in corso. Tedeschi e inglesi avevano buone carte da giocare presso il nuovo governo, in quanto godevano di forti disponibilità di capitali e di una consolidata egemonia commerciale e politica nell’area. Dopo due anni di estenuanti trattative, il 19 marzo 1914, venne creato, sotto l’egida dei governi britannico e tedesco, un Consorzio denominato Turkish Petroleum Company (TPC), il cui capitale era posseduto per una metà dall’Anglo-Persian (controllata dal governo britannico) e per l’altra metà dalla Deutsche Bank (in rappresentanza del governo tedesco) e dalla Royale Dutch Shell.

Stretto nella morsa di interessi più grandi di lui, Gulbenkian si vedrà riconosciuto a malapena il 5% di partecipazione agli utili senza diritto di voto; l’interesse del 5% gli viene versato per metà dal gruppo D’Arcy e per metà dalla società di Deterding, detratto dalle rispettive quote. Nelle sue memorie Gulbenkian non nasconderà il suo rancore: «L’ingiustizia di questo accordo è un esempio di ciò che possono fare i gruppi petroliferi per influenzare gli ambienti governativi grazie alle leve di cui dispongono».

Stavano maturando le condizioni favorevoli per quella guerra contro il concorrente tedesco che i governi inglese e francese aspettavano da decenni e che i marxisti avevano predetto fin dalla disfatta francese del 1871. L’epoca dello sviluppo imperialistico (1875-1914) è caratterizzata all’inizio dall’esistenza di un gran numero di nuovi campi di investimento per i capitali, poi dalla contesa per questi investimenti da parte delle varie potenze. Nella fase monopolistica del capitalismo le economie nazionali sono strettamente legate alle frazioni nazionali del capitale finanziario e si trovano in competizione fra loro sia per difendersi dalla reciproca concorrenza sia per contendersi il mercato mondiale. Ad un certo momento, la lotta fra i capitali monopolistici diventa guerra imperialistica fra gli Stati a cui i capitali fanno riferimento.

Le due fasi sono evidenti negli avvenimenti che precedettero la Prima Guerra mondiale. Dopo una prima fase di espansione relativamente pacifica del capitalismo europeo (pacifica nelle relazioni tra potenze, omicida nelle relazioni con i paesi colonizzati) sancita dalla Conferenza internazionale di Berlino del 1885 che aveva regolamentato la spartizione dell’Africa centrale, in particolare il ricchissimo di materie prime bacino del Congo, si arrivò inevitabilmente allo scontro fra le potenze, in un crescendo impressionante: 1898, conflitto sfiorato tra Gran Bretagna e Francia in Sudan e in Niger e guerra ispano-americana; 1899-1902, guerra anglo-boera e politica della “porta aperta” in Cina; 1904-05, guerra russo-giapponese; 1905 e 1911, crisi marocchina; 1908, contrasti tra Russia e Gran Bretagna per l’Afghanistan, e fra Russia e Austria per i Balcani; 1912-13, guerre balcaniche.

In questa divisione del mondo la Gran Bretagna fa la parte del leone grazie alla sua, ancora per poco, indiscussa superiorità industriale e finanziaria: domina l’India, la Malesia, la Birmania, una serie di capisaldi sulla via verso l’India da Porto Said a Città del Capo, estende il suo impero su metà delle isole del Pacifico e conserva le sue colonie in America, in Australia e in Nuova Zelanda. La Francia si appropria di territori in Africa del Nord e in Africa occidentale ed equatoriale, oltre che del Madagascar, del Vietnam e di alcune isole del Pacifico. Il piccolo Belgio acquista l’immenso impero del Congo. L’Olanda consolida la sua dominazione sull’Indonesia e sulle Indie occidentali. La Germania si accaparra preziose colonie nell’Africa occidentale e orientale, in Asia e in Oceania. La Russia si espande verso est, in Siberia, e verso sud. Il Giappone occupa Formosa e posizioni sul continente asiatico (Port-Arthur, Corea). L’Italia ottiene alcune colonie in Africa. Anche gli Usa prendono parte alla spartizione del mondo: essi puntano la loro attenzione sul controllo degli oceani strappando agli spagnoli bocconi del loro antico impero, Cuba, Portorico, Guam, le Hawaii e le Filippine, importanti per la proiezione verso la Cina.

L’entrata in guerra dell’impero Ottomano a fianco della Germania e il suo definitivo smembramento dopo la sconfitta faranno diventare le risorse petrolifere della pianura del Tigri e dell’Eufrate il pomo della discordia tra i grandi imperialismi. Le rivalità derivanti dagli enormi interessi economici e finanziari delle Compagnie private, che spesso detteranno l’agenda dei governi, faranno da moltiplicatore per gli antagonismi politici. Gli scontri fra il capitale tedesco, che cercava di creare un mercato unificato nei Balcani e nell’area dell’impero Ottomano (ferrovia Berlino-Baghdad), e il capitale francese e inglese che si opponevano a questo progetto, saranno il preludio alla prima carneficina imperialista del 1914.

La guerra sancirà di fatto la vittoria definitiva del petrolio sul carbone. Nel 1914 gli eserciti che si affrontavano erano ancora quelli del XIX secolo, ma ben presto la meccanizzazione e il largo impiego del motore a scoppio modificheranno l’apparato bellico e la conduzione stessa della guerra, sia sul mare con l’introduzione delle navi con motore a nafta, sia in terra e in cielo con le automobili, i carri armati, gli esplosivi e infine gli aerei. Il generale francese Gallieni requisì tutti i taxi di Parigi per trasportare nel giro di 48 ore settemila uomini e le relative munizioni sul fronte della Marna, bloccando l’avanzata tedesca. Durante la battaglia di Verdun la “strada sacra” che vi porta era un unico serpentone di camion carichi di uomini e di munizioni. L’approvvigionamento di petrolio diventerà il nodo cruciale della guerra. Le riserve inglesi venivano alimentate dall’Anglo-Persian mentre la Germania aveva investito masse enormi di capitali per lo sfruttamento dei giacimenti della Romania. Quanto alla Francia, per soddisfare la sua sete di petrolio fu costretta a rivolgersi al presidente americano Wilson e quindi al monopolio Standard Oil.

L’aiuto finanziario e materiale della potenza americana (capitali, energia, materie prime, prodotti alimentari e industriali, come i camion della Ford, ecc.) sarà decisivo per la vittoria degli alleati. Ma quando la guerra sottomarina tedesca metterà a rischio i rifornimenti europei di petrolio, in certi ambienti si farà strada l’idea che non si può parlare di indipendenza politica senza il controllo dell’approvvigionamento delle fonti di energia. Come farà notare nel 1917 il senatore Henry Berenger, presidente del neo-costituito “Comité Général du Pétrol”, «la questione del petrolio si avvia a divenire una questione di politica internazionale». Mentre l’ex rivoluzionario ed ora vampiro Clemenceau dirà nel 1918 che «una goccia di petrolio vale una goccia di sangue».

Gli americani scalpitavano per mettere le mani sulla torta petrolifera mediorientale. L’occasione per entrare in guerra dalla porta principale fu loro data proprio dalla guerra sottomarina intrapresa dalla Germania contro le “neutrali” navi statunitensi, oltre che dai tentativi messi in atto sempre dai tedeschi per arruolare il Messico in funzione anti-americana con la promessa della restituzione del Texas. Così, nell’aprile 1917 più di quattro milioni di soldati americani, con i fiori (democratici) nelle bocche dei fucili, furono spediti sui campi di battaglia per difendere il capitale americano in Europa e nel Medio Oriente.

Qui intanto inglesi, francesi e russi, fedeli alla regola di vendere la pelle dell’orso prima di averlo scuoiato, già intessevano febbrili negoziati per spartirsi le spoglie dell’impero Ottomano, e ciascuno cercava di acquisire posizioni e alleanze vantaggiose da far pesare al tavolo delle future trattative. Nel 1916 l’amministrazione britannica, per indebolire la Turchia, aveva spinto Hussein, lo sceriffo hascemita della Mecca, a guidare la rivolta araba contro il sultano, promettendo a lui e alla sua famiglia l’egemonia sulle varie componenti arabe presenti nell’Impero, e pose al suo fianco vari “collaboratori” inglesi, il più celebre dei quali passerà alla storia come Lawrence d’Arabia. Sempre nel 1916 fu siglato l’accordo segreto anglo-francese di Sykes-Picot che delimitava le rispettive zone di influenza da far valere alla fine della guerra.

Venuto a conoscenza di questi accordi, che lasciavano gli Stati Uniti fuori dall’area, Rockefeller era stato tentato di chiudere il rubinetto del petrolio. Ma alla fine prevalse la saggezza dell’antico proverbio: meglio un uovo oggi che una gallina domani. Così continuò a vendere il petrolio ad entrambe le parti belligeranti senza battere ciglio, anche dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco degli Alleati. Dopotutto, gli affari sono affari! Peraltro, la Standard Oil non fu la sola Compagnia a collaborare con le autorità tedesche durante la guerra; così si comportò l’omologa anglo-olandese, la Renania, che altri non era che la filiale tedesca della Shell olandese; anche se i Paesi Bassi rimasero neutrali fino alla fine della guerra. La sedicente “immoralità” dei monopoli, è pane per denti piccolo-borghesi. Noi sappiamo con Lenin che gli interessi dei monopoli tedeschi e americani erano strettamente intrecciati già prima di questa guerra e, aggiungiamo noi, continueranno ad esserlo anche durante la Seconda.
 

(continua)