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"Il Partito Comunista"   n° 359 - maggio-giugno 2013 [.pdf]
PAGINA 1 Primo maggio 2013: Il capitalismo è ormai un nauseante cadavere, nella sua economia, nelle istituzioni politiche, nelle superstizioni sociali e solo attende di essere seppellito dai suoi becchini. VIVA IL COMUNISMO! - Il capitalismo è guerra permanente - Le vere cause della crisi economica - Dalla crisi economica alla guerra - Che fare?
Crisi di Cipro un altro passo verso la instabilità e il crollo di tutto il Capitale mondiale
Incidente al porto di Genova: La criminale insipienza del profitto abusa della terra e del mare
Dietro il gracidio dei ranocchi la continuità della dittatura delle leggi economiche e delle istituzioni borghesi
PAGINA 2 – Rifulge il programma del comunismo su una società che muore, Riunione del partito a Genova, 19-20-gennaio [RG115] - Seconda parte del resoconto: Corso dell’economia - Economia marxista - Storia dell’Egitto.
Imperialismo cinese in Africa
Per
il sindacato
di classe
Fuori e contro i sindacati di regime: Per il ritorno ai principi del sindacalismo di classe
Coraggiose lotte organizzate nel comparto della logistica - Piacenza, 6 aprile, Sciopero del SICobas: Per il Sindacato di Classe - Pour le Syndicat de Classe
Lotta economica e lotta politica
– Un nostro volantino: Anche in Inghilterra i sindacati scambiano sacrifici reali contro promesse di “lavoro”
Difesa della fabbrica uguale difesa del Capitale: Nella politica della Fiom - Prigionieri della Fincantieri: L’accordo di Castellammare di Stabia - L’accordo a Sestri Ponente
PAGINA 5 Torna la crisi in Argentina, con gli interessi: La crisi e il fallimento - La ripresa - Verso nuove crisi
PAGINA 6 – Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (3 - continua dal numero scorso): 7. Il capitale finanziario - 8. Esportazione di capitale - 9. La spartizione del mondo tra i grandi trust - 10. La contesa tra le potenze imperiali.
Sul cosiddetto matrimonio fra omosessuali

 
 
 
 
 

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Primo maggio 2013
Il capitalismo è ormai un nauseante cadavere, nella sua economia, nelle sue istituzioni politiche, nelle superstizioni sociali e solo attende di essere seppellito dai suoi becchini

VIVA IL COMUNISMO !

Il Primo Maggio è il giorno in cui i lavoratori di tutto il mondo, al di sopra dei confini di nazione, razza, religione, ribadiscono di appartenere ad una stessa classe, di essere legati dagli stessi interessi, di condurre la stessa battaglia per l’emancipazione dallo sfruttamento e dalla miseria.

Questo primo maggio 2013 trova i lavoratori, in tutti i paesi del mondo, in una situazione che ormai da molti mesi, invece di migliorare, si è ulteriormente aggravata a causa della crisi che ha colpito l’economia dell’intero pianeta.

Il capitalismo è guerra permanente

Nei paesi a più vecchio capitalismo, l’Europa, il Nord America, il Giappone, la cui economia è in piena recessione, la classe lavoratrice è colpita dalla riduzione dei salari, dai tagli allo Stato sociale, dalla disoccupazione di massa. Le conseguenze della crisi cominciano però a farsi sentire anche nei Paesi di più giovane industrializzazione, dalla Cina all’India, dalla Corea del Sud al Viet-Nam e all’Indonesia, nonostante i bassi salari e le durissime condizioni di lavoro. In America Latina l’Argentina è di nuovo in piena crisi, ma in tutti i paesi, dal Brasile socialdemocratico al Venezuela “chavista”, al Cile liberista, i vari regimi, nonostante che la crisi non li abbia ancora investiti con forza, fanno la stessa politica e cercano di aumentare lo sfruttamento del lavoro salariato.

Nell’Africa del Nord la lotta del proletariato per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro, libertà politiche e sindacali, è stata deviata verso il falso obbiettivo di cambiamenti di governo che non hanno minimamente intaccato i meccanismi dello sfruttamento e dell’oppressione capitalistica. In Sud Africa le possenti lotte organizzate negli ultimi mesi dai lavoratori delle miniere dimostrano come lo sfruttamento sia terribile anche nei paesi a capitalismo più giovane e vitale.

Per il momento la borghesia con l’aiuto dei partiti falsamente “operai”, dei sindacati legati a doppio filo col regime, della polizia e, quando occorre, dell’esercito, riesce a contenere la pressione della rivolta proletaria, ma il fuoco continua a scaldarla e non è lontano il momento dello scoppio.

Le vere cause della crisi economica

La vera causa di questa crisi economica, prevista dall’analisi economica marxista, risiede nella sovrapproduzione di merci causata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, un fenomeno ineliminabile e inarrestabile dell’economia capitalistica perché implicito nel meccanismo infernale che la guida, la ricerca incessante del profitto tramite lo sfruttamento del lavoro salariato.

Il capitalismo non può che affondare nella crisi ogni giorno di più. I proclami dei governi borghesi d’ogni colore, di destra come di sinistra, che vagheggiano di superare la crisi cambiando politica economica, imponendo delle “regole” ai mercati, ecc., sono mera propaganda per convincere i lavoratori ad accettare i sacrifici secondo la formuletta “stare peggio oggi per stare meglio domani”, mentre i tagli alla spesa sociale, ai sussidi di disoccupazione, alle pensioni, sono misure crudeli e inutili imposte dalla borghesia per ribadire il suo dominio sul proletariato e sulle mezze classi.

Dalla crisi economica alla guerra

Il capitalismo è una lotta permanente fra Stati, gruppi industriali e finanziari, banche e imprese, ciascuno in difesa degli interessi del proprio Capitale, del proprio profitto.

In ogni Paese la borghesia chiama i “propri” lavoratori a sacrificarsi per vincere la sua battaglia rendendo più competitiva l’economia nazionale e cerca di convincerli che “sono tutti sulla stessa barca”. Al contrario in questa guerra lo sconfitto è sempre il proletariato. I lavoratori, quando accettano di legare le proprie sorti a quelle dell’azienda, del Paese o della Patria, si arruolano nell’esercito borghese, sono spinti in guerra fra di loro, oggi a colpi di salari più bassi e ritmi di lavoro più alti, domani a colpi di fucile e di cannone.

L’ineluttabile avanzare della crisi economica renderà sempre più insopportabili le condizioni di vita del proletariato di tutti i paesi e più dura la competizione economica, commerciale militare tra i vari Stati borghesi fino a che si porrà all’ordine del giorno l’alternativa o guerra mondiale imperialista o rivoluzione comunista internazionale. Il proletariato dovrà allora ricollegarsi alla tradizione rivoluzionaria tracciata dalla vittoriosa rivoluzione in Russia dell’ottobre 1917 e opporsi con tutte le sue forze alla prospettiva di un nuovo macello mondiale, che oggi sarebbe certamente ancora più terribile e sanguinoso delle due guerre imperialiste che hanno permesso di sopravvivere ancora un secolo a questo regime infame.

Che fare ?

I lavoratori salariati devono in primo luogo organizzarsi per difendere ogni giorno le loro condizioni di vita e di lavoro; devono unirsi tra loro superando le artificiali divisioni nazionali, di religione, di categoria e lottare per difendere il loro salario, per ridurre l’orario di lavoro, per opporsi ai licenziamenti rivendicando uguale salario per meno lavoro.

In ogni Paese dovranno rinascere, sotto la spinta delle lotte rivendicative, dei sindacati di classe pronti alla difesa intransigente delle condizioni di vita dei lavoratori, decisi nel rifiutare ogni responsabilità verso l’economia aziendale e nazionale, cioè capitalistica, perché consapevoli che se questa affonda la classe lavoratrice non morirà con essa, ma coglierà l’opportunità storica di abbattere il regime statale borghese e instaurare la dittatura proletaria, liberando le forze produttive dalle leggi economiche del Capitale e dal lavoro salariato.

È in questa fase storica di ripresa internazionale della lotta di classe che il Partito Comunista Internazionale, erede del programma storico del comunismo rivoluzionario di Marx e Engels, di Lenin e della Sinistra italiana, raccogliendo le avanguardie più combattive e decise della classe lavoratrice, potrà sferrare la battaglia per impedire un nuovo macello mondiale e seppellire con la rivoluzione il capitalismo col suo dissennato sfruttamento del lavoro umano, le sue guerre permanenti e la sua miseria crescente per milioni e milioni di proletari.

I proletari non hanno da perdere che le loro catene e un mondo intero da conquistare.
 
 
 
 
 
 
 
 


Crisi di Cipro un altro passo verso la instabilità e il crollo di tutto il Capitale mondiale

Dopo i paradisi fiscali di Islanda e Irlanda, anche Cipro si è stata investita dalla crisi finanziaria. Come in Islanda e in Irlanda, l’attivo netto delle banche di Cipro è smisurato: 8 volte il prodotto interno lordo. Si trovano in fallimento le due principali banche, alle quali sono affidati più della metà dei depositi nelle banche cipriote, 69 miliardi di euro in tutto.

Nemmeno lo Stato, è indebitato per l’85% del Pil, trova da finanziarsi sul mercato delle obbligazioni ed è costretto a chiedere aiuto dell’Eurogruppo. Gli occorrerebbero per i prossimi tre anni almeno 10 miliardi di euro. Il che porta il tasso di indebitamento dell’isola, con un Pil di 17,5 miliardi di euro, al 142%!

A questo bisognerebbe aggiungere un apporto minimo di 7 miliardi per rimettere a galla le due banche in fallimento, che per altro sono già indebitate presso la BCE. Se lo Stato cipriota dovesse prendere in carico il debito delle due banche, il tasso di indebitamento arriverebbe a ben il 182%, un livello del tutto insostenibile. Per fare un confronto, quando la Grecia fu dichiarata in fallimento, il suo tasso di indebitamento pubblico era del 129%.

Di fatto il rimborso del debito implicherebbe delle misure draconiane ben peggiori di quelle prese in Grecia e in Spagna! Insomma, lo Stato cipriota è in fallimento.

Ci si può domandare perché l’Europa non dà il denaro a Cipro, cosa sono infatti 17 miliardi rispetto al Pil europeo? L’Eurogruppo non è un’opera di carità. E in fin dei conti sono i singoli Stati che debbono tirar fuori i soldi; e questo mentre i governi stanno raschiando il fondo e tagliano tutte le spese per far scendere il deficit: dalla diminuzione delle pensioni fino alla contrazione delle spese militari.

Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, che ha comportato un aumento colossale del debito pubblico, più nessuno Stato è in grado di prendersi in carico il debito delle banche. Come ha detto molto chiaramente il presidente dell’Eurogruppo, d’ora innanzi in caso di fallimento bancario – e con l’approfondirsi della crisi di sovrapproduzione se ne avranno sempre di più – gli azionisti, i detentori di obbligazioni della banca, i creditori e i correntisti i cui averi ammontano a più di 100.000 euro dovranno rimetterci del loro. Questo corrisponde ad un aggravarsi della crisi, che prosegue, passo dopo passo, il suo cammino.

È per questo che, al primo colloquio, il FMI e la Germania avevano consigliato il presidente cipriota di trasferire tutti i depositi inferiori a 100.000 euro in una banca sana e di mettere in liquidazione le due banche in fallimento. Al rifiuto del governo cipriota, che voleva a tutti i costi mantenere la funzione di paradiso fiscale dell’isola, hanno proposto, per salvare il sistema finanziario, un prelievo del 15,6% su tutti i depositi bancari superiori a 100.000 euro. Davanti all’ostinata indisponibilità del rappresentante cipriota e alle sue richieste hanno suggerito una tassa del 9,9% sui depositi superiori a 100.000 euro e del 6,75% sugli altri.

Infine, dopo una settimana tragicomica di estenuanti trattative, si è tornati al punto di partenza: trasferiti alla Banca di Cipro tutti i depositi della Banca Laiki inferiori a 100.000 euro, più i 9 miliardi che deve alla BCE, e tutto il resto è messo in liquidazione in una “bad bank”. Inoltre per la ristrutturazione della Banca di Cipro sarà prelevato il 60% dei depositi superiori a 100.000 euro, per portare il tasso di copertura al 9%.

Quanto al governo russo, guardiano degli interessi della sua borghesia, ha protestato, minacciato, ma non ha dato un sol rublo ai suoi “amici” ciprioti.

Intense trattative si sono rinnovate fra il rappresentante di Nicosia, quello dell’Europa, Manuel Barroso, e il Cremlino. La notte del 24 marzo, nel pieno dei negoziati, si consentiva la fuga di una parte dei capitali russi:

«Il piano attuato d’urgenza dalla Troika sembra esser stato concepito per permettere al denaro sporco di sfuggire dalla rete. Banchieri e consiglieri fiscali hanno alla svelta organizzato la fuga dei capitali mentre la Troika discuteva a Bruxelles. Malgrado la chiusura ufficiale delle banche, alcuni clienti vip delle banche locali avrebbero beneficiato di un trattamento di favore. La Banca di Cipro a Londra e la sua filiale in Russia, la Uniastrum Bank, non hanno bloccato i trasferimenti di capitali il che ha consentito una fuga in massa verso la Lettonia. Il presidente della Banca di Cipro non ha dato le dimissioni dopo questo colossale trasferimento» (Le Monde Economique, 15 marzo).
Dopo di che il portavoce di Putin poteva affermare: «Tenuto conto delle decisioni prese dall’Eurogruppo, Putin ritiene possibile sostenere gli sforzi del presidente di Cipro e della Commissione europea per risolvere la crisi». Ha inoltre incaricato il governo e il ministro delle finanze di «elaborare con i nostri partners le condizioni di una ristrutturazione del credito già accodata a Cipro». Nella frase la parola partners si riferisce all’Eurogruppo.

I borghesi sono trafficanti e sempre pronti a mercanteggiare: tutto ha un prezzo. Come dicono, bisogna essere realisti.

Questa fuga di capitali ha necessariamente un costo per l’economia cipriota: quello che non si potrà prelevare dai capitali russi lo si dovrà prendere da qualche altra parte, una potatura molto maggiore per i capitali restanti, il 60% invece che il 30-40% inizialmente previsto. Questo comporterà un maggiore rischio di fallimento per le imprese cipriote che hanno depositi in quelle banche, una recessione più profonda ed una disoccupazione accresciuta. È difficile credere al responsabile della banca centrale cipriota quando afferma che il carico va essenzialmente sul fondi stranieri, russi, libanesi, ecc.

Il FMI prevede una caduta del Pil dell’isola dell’8,7% quest’anno e del 3,9% l’anno prossimo. Le previsioni degli economisti borghesi sono sempre al di sotto della realtà, ma devono riconoscere che l’isola si avvia ad un decennio di austerità.

Secondo i media questo modo di procedere nei confronti delle banche sarebbe una novità; e di fatto lo è.

La svalutazione del 14% che ha subito la Sterlina a seguito dell’iniezione massiccia di liquidità da parte della banca centrale per salvare le banche inglesi, si è tradotta in una corrispondente svalutazione dei risparmi della piccola borghesia inglese. L’inflazione ha la stessa funzione di una tassa sul piccolo risparmio.

Invece, stavolta, sono i grossi depositanti, i creditori, i detentori di obbligazioni e gli azionisti della due banche ad essere spennati. Questo indica un aggravarsi della crisi: le borghesie e i loro Stati non hanno più i mezzi per intervenire e salvare le banche; gli Stati sono oggi troppo indebitati per garantire i prestiti necessari alla ricapitalizzazione delle banche in fallimento.

Con trepidazione numerosi economisti e giornalisti si sono domandati se questo potrà avvenire di nuovo, o, peggio, diventare la regola. Al tempo della ristrutturazione del debito greco, la Troika aveva giurato che sarebbe rimasto una eccezione. Ma la crisi è sempre là e la tendenza è ad aggravarsi.

Già si parla della Slovenia come prossimo candidato, un altro piccolo Stato. In piena recessione, accusa una crisi immobiliare simile per ampiezza, tenendo conto delle proporzioni, a quella della Spagna: i crediti in sofferenza, con alto rischio di insolvenza, ammontano a 7 miliardi di euro, cioè il 20% del Pil. L’Eurogruppo anche lì dovrà intervenire a far da pompiere.

Un altro Stato, e non dei minori, in lista è l’Olanda, che segna una forte recessione e dove una euforica speculazione immobiliare in questi ultimi anni ha portato i crediti immobiliari al 128% del Pil. Se la recessione si aggraverà, come probabile, tutta una parte di questi crediti non potrà più essere pagata, come all’epoca della crisi dei subprimes, o come la Spagna di oggi!

Cipro non è il solo paradiso fiscale in Europa, dove la dimensione degli attivi delle banche è smisurata rispetto al Pil. Anche a Malta, un altro paradiso fiscale, le banche accentrano un valore di 8 volte il Pil. Ma il Lussemburgo, nel cuore dell’Europa, batte tutti i record con un attivo che va, secondo le fonti, da 19 a 24 volte il Pil del paese. In media l’attivo delle banche in Europa corrisponde da 3 a 3,5 volte il Pil, come è il caso della Germania e della Francia. Ma il caso dell’Inghilterra è unico e si avvicina a quello di un paradiso fiscale con un attivo bancario equivalente a più di 5 volte il Pil!

Quando il sistema bancario del Lussemburgo o quello della City si trovassero in fallimento tutto il capitalismo mondiale precipiterebbe nell’abisso. Questa crisi finanziaria potrebbe essere innescata da una crisi di sovrapproduzione del tipo di quella del 1929. Ed è proprio quello che si sta preparando, e non solo in Europa ma anche, agli antipodi, in Cina. Una crisi che potremmo predire, al più tardi, per il 2018-2019.

Questa crisi spingerà ad un titanico scontro fra borghesia e proletariato, riportato alle sue tradizioni di classe e sul cammino della Rivoluzione.

C’è anche da dire che Cipro non è solo un paradiso fiscale ma una testa di ponte fra l’Europa e il Medio oriente. Ha una grande importanza strategica, tanto da ospitare storicamente due grandi basi militari inglesi.

Mentre la tensione era al massimo fra i l’Eurogruppo e il governo cipriota su come risolvere la crisi finanziaria che scoteva l’isola, si sono diffuse delle voci di trattative segrete fra la Russia e Cipro per ottenere un accesso ai suoi porti per le navi da guerra russe. Non è da dubitare che se i russi potessero inghiottire il boccone lo farebbero. Ma il problema è che dovrebbero farlo con la forza, il che presupporrebbe una Terza Guerra mondiale, che non è ancora affatto matura, malgrado i numerosi conflitti.

Noi prevediamo che avremo una crisi mondiale del tipo di quella del 1929, poi una ripresa dell’accumulazione; allora si porrà l’alternativa fra Guerra mondiale o Rivoluzione comunista mondiale.

La Russia si è trovata molto indebolita a seguito della sua grave crisi di sovrapproduzione degli anni ’90 e dello smembramento dell’Urss che ne è seguito. Ha perduto allora molto terreno, che oggi cerca di recuperare almeno in parte. Mosca è tornata recentemente ad inviare una flotta nel Mediterraneo, e questo si comprende dopo lo smacco in Libia e il rischio di collasso del regime siriano. Ma con 6 fregate è lontana dall’epoca dell’Urss, quanto poteva allineare da 30 a 50 navi nelle medesime acque.

La Russia è assai indietro rispetto alla potenza industriale che aveva l’Urss. Con gli indici della produzione industriale è risalita solo al 74% del livello del 1989, dell’insieme del blocco sovietico. Di acciaio la Russia oggi produce 68 milioni di tonnellate mentre l’Urss, prima del crollo, 160. Per l’elettricità si hanno rispettivamente 1.104 tera wattora contro 1.712. Sulla base della produzione di elettricità, la misura fisica più affidabile, e tenendo conto della crisi mondiale dell’acciaio, la potenza industriale della Russia attuale corrisponde al 64% della sua precedente. La Russia non può più dirsi oggi una superpotenza, soprattutto rispetto agli Stati Uniti, che mantengono sotto stretto controllo l’Europa occidentale.

La vecchia talpa, come Marx aveva previsto, continua il suo lavoro e ben altre crisi finanziarie sono in preparazione. Come è stata risolta la crisi cipriota servirà da modello per la liquidazione delle banche in fallimento. E questo fino a che il proletariato internazionale non metterà a morte quel mostro incontrollabile che è il Capitale.
 
 
 
 
 
 


Incidente al porto di Genova
La criminale insipienza del profitto abusa della terra e del mare

Pare che a causare l’urto della poppa della Jolly Nero contro la torre piloti, la notte di martedì 7 maggio, causandone il crollo insieme alla palazzina sottostante, possa essere stata un’avaria dei motori o una interruzione della comunicazione fra la plancia di comando e la sala macchine. L’armatore si difende accusando d’imperizia i rimorchiatori, che non avrebbero mantenuto in posizione la nave.

Nel crollo sono rimasti uccisi 9 lavoratori e molti altri feriti.

La Jolly Nero è una portacontainer di media stazza, circa 45 mila tonnellate. Nel porto di Genova transitano navi di dimensioni ben maggiori, come quelle da crociera, che vanno oltre le 110 mila tonnellate e compiono la stessa manovra che ha condotto la Jolly Nero a urtare il molo Giano, ossia eseguono una retromarcia che porta la poppa a poca distanza da dov’era la torre piloti, per poi poter uscire di prua dal porto.

Nel febbraio del 2006, non molto lontano da dove è avvenuto l’odierno incidente, presso calata Gadda, una nave ne urtò un’altra ormeggiata; il portellone posteriore di questa, abbassato, agì come una benna sradicando una palazzina.

L’evidente pericolosità delle manovre interne agli specchi d’acqua del porto non ha suggerito di costruire la nuova torre piloti, inaugurata nel 1996, non a filo del mare ed aggettante all’interno del bacino di evoluzione delle navi, ma ad ovvia distanza di sicurezza. Inoltre la palazzina, di due corpi di fabbrica affiancati a forma di L in pianta, e l’alta torre ad essi solidale, non poggiavano direttamente sul fondale ma su di un solettone sostenuto da una palificata. È evidente che il complesso non poteva resistere ad un urto laterale. La vecchia torre piloti, infatti, arretrata 25 metri dal bacino, non ha subito alcun danno.

Quel che non può emergere dalle indagini della magistratura, né dai dibattiti sulla stampa borghese, sono le vere cause di questo incidente. Da un lato, poiché, nel capitalismo, il mare, a differenza del suolo, “non costa nulla”, gli si ruba spazio edificabile con notevole “risparmio”. Dall’altro c’è l’urgenza di affrettare le rotazioni del capitale, fretta nelle manovre e nella navigazione. C’è poi la scarsa manutenzione che conduce a prevedibilissime avarie, la riduzione all’estremo del personale, l’incremento delle dimensioni delle navi per diminuire il costo per unità di prodotto trasportato. Il tutto necessario al capitale per contrastare la diminuzione del tasso del profitto: i profitti aumentano enormemente, ma in rapporto col capitale investito diminuiscono, questa legge la condanna a morte del capitalismo.

In modo nefasto il capitalismo agisce anche sull’ingegneria delle costruzioni, orientata alla riduzione dei costi attraverso il tipo di struttura e la qualità dei materiali impiegati, miserie coperte dalle vuote mode architettoniche. Ne risultano manufatti mal progettati e mal costruiti, inidonei al loro scopo, pericolosi e destinati a deteriorarsi anzitempo.

Gli unici a denunciare l’incidente non come una fatalità, ma prodotto della rincorsa alla produttività, sono stati i lavoratori del porto. Radunatisi in circa duecento a palazzo S. Giorgio, sede dell’autorità portuale, la mattina successiva all’incidente, hanno imposto ai bonzi della Cgil di allungare lo sciopero oltre mezzogiorno, per altre ventiquattro ore. Lo sciopero, per altro, ha riguardato solo i lavori inerenti le navi mercantili, ma non quelle passeggeri, nemmeno in uscita. Così, mentre i sommozzatori erano impegnati nella ricerca delle vittime, una nave da crociera scorreva davanti al luogo della tragedia, con i turisti che dal ponte fotografavano le rovine, e le eliche della nave che agitavano le acque melmose del porto, rischiando di rendere ancora più difficoltose le già ardue opere di soccorso, tant’è che cinque giorni dopo ancora non è stato recuperato l’ultimo corpo.

Due giorni dopo l’incidente, tutti i rappresentanti del regime borghese, che consentono e s’impegnano affinché quotidianamente in quella grande fabbrica che è il porto tutto continui a procedere secondo le condizioni che garantiscono il massimo profitto, sul sudore e sul sangue dei lavoratori, si sono riuniti per versare le loro ipocrite lacrime di coccodrillo. Quando è toccato parlare al cappellano del porto il suo intervento è stato interrotto da un gruppo di lavoratori che sono infine riusciti a leggere un breve comunicato in cui si denunciava l’aumento della produttività quale causa delle morti sul lavoro e il ruolo dei sindacati i regime a difesa degli interessi aziendali. Cgil, Cisl, Uil, hanno subito risposto con un comunicato per denunciare i “disturbatori” ed esprimere “solidarietà e ringraziamento“ a Monsignore.
 
 
 
 
 
 


Dietro il gracidio dei ranocchi
la continuità della dittatura delle leggi economiche e delle istituzioni borghesi

L’assordante strepitio delle rane attorno alla palude parlamentare non è poi così vuoto come si vuole far apparire: tutti quei gracidii servono a nascondere il nero serpente che sotto si aggira silenzioso e imperturbato: il rafforzamento e l’accentramento delle istituzioni borghesi. È una tendenza ineluttabile del sistema capitalistico e del suo Stato, che viene, va e vede ben più lontano delle rane, e che presto se le potrà anche mangiare, tutte insieme, in un solo boccone.

Nemmeno la classe lavoratrice, oggi, sa riconoscere questo processo, ottenebrata da decenni di politiche di connivenza.

I nuovi parvenu della politica urlano e strepitano da palchi improvvisati, inneggiano alla vera democrazia, in toni e prospettive piccolo borghesi, ma spinti dalle cose ad invocare il contrario della democrazia. Ormai anche i più democratici sono, seppure lo negherebbero, anti-democratici. Un democratico referendum popolare sancirebbe a grande maggioranza la morte della democrazia, formale e sostanziale.

È di nessun peso che i vecchi marpioni, usciti ammaccati dal giochino delle urne, si dividano nei mille rivoli degli interessi e delle arroganze personali, delle opposte chiese, laiche o meno. Ma, dalla loro apparente debolezza, i tre grandi perdenti alzano il grido fare presto, presto, si intende, a comprimere ancora le condizioni di vita e di lavoro dei proletari.

La presunta incapacità della politica favorisce così l’inedito reinsediamento del Presidente ottantottenne che, in una sorta di monarchia costituzionale, conduce per mano ad un nuovo assetto presidenzialista. Certo non saremo noi a denunciare e condannare golpettini, ma è innegabile che il bradisismo democratico conferma il costante slittamento verso quelle forme irreggimentate tipiche della fase di preparazione allo scontro sociale che si approssima.

Della democrazia resta il rito elettorale, che svolge la funzione di persuasione sulla classe lavoratrice, che si vorrebbe sempre convinta della libertà racchiusa in quella liturgia. Questo mentre programmi e dottrine delle forze in campo vanno uniformandosi, senza oramai più nessuna necessità di distinguo etici o pragmatici; impossibile ormai nascondere che ognuno di loro esiste solo per la difesa dell’interesse del capitale.

La democrazia resta solo la maschera ideologica sulla dittatura borghese: difende il capitalismo illudendo i lavoratori che esistano mezzi per salvarsi che non siano la loro forza organizzata. Perché il capitalismo è una società divisa in classi in cui il proletariato non ha e non potrà mai avere alcun potere.
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2


Rifulge il programma del comunismo su una società che muore
Riunione del partito a Genova - 19-20-gennaio 2013
[RG115]
La questione militare,  La guerra austro-prussiana
Storia del movimento in Usa:  Imperialismo e sindacati
La guerra in Siria
Attività sindacale [rapporto esteso]
Corso della crisi economica
Economia marxista - I piani di Marx per Il Capitale [rapporto esteso]
La crisi finanziaria mondiale
Storia dell’Egitto moderno
Origine del movimento in Italia [ rapporto esteso ]

Seconda parte del resoconto
[prima parte]

Corso dell’economia

Gli ultimi dati ricavati dai servizi di statistica ufficiali, Onu, Ocde, Omc, ecc., hanno confermato il rallentamento a scala mondiale della ripresa industriale seguita alla brutale recessione del 2008-2009.

In Europa la produzione industriale presenta una ricaduta, e si può prevedere che per alcuni paesi europei, Italia e Francia, nel 2013 sarà anche inferiore a quella del 2009. Grecia, Spagna e Portogallo vedono invece la recessione aggravarsi di anno in anno. In Gran Bretagna la caduta della produzione industriale nel 2012 è stata tale che si trova già al di sotto del livello del 2009 (-15,8% contro -15,1%).

Anche in Asia il rallentamento è marcato in Corea, in Cina, in India e in Giappone. Per rilanciare la macchina produttiva lo Stato cinese interviene nuovamente con grandi lavori in infrastrutture, benché intenda evitare di ripetere il precedente che ha aperto una voragine di debiti e aggravato considerevolmente la speculazione immobiliare e sulle materie prime, provocando una forte inflazione.

In America Latina il Brasile, dopo aver recuperato la caduta della produzione del 2009, si trova di nuovo in recessione. Anche in Messico il rallentamento è marcato, ma approfitta del fatto che ospita numerose sottoforniture per gli Stati Uniti.

Ci si deve quindi attendere una nuova recessione nel 2013 per i principali paesi imperialisti.

Questo rallentamento generale della produzione industriale è confermato da quello del commercio mondiale che vede, per i maggiori imperialismi, gli incrementi mensili delle esportazioni tendere a zero e divenire nettamente negativi quelli delle importazioni.

I grafici e le tabelle esposte alla riunione hanno confermato ciò che prevedevamo alle precedenti, cioè che il capitalismo mondiale non è in condizioni di uscire dalla recessione 2008-2009. Siamo al quinto anno di recessione e il 2013 sarà il sesto. È la più lunga e la più grave recessione di questo dopoguerra e di molto. La sola che la supera per durata ed intensità è quella successiva al massimo del 1929.

Si potrà avere una ripresa nel 2014-2017, come sperano la borghesia mondiale ed i suoi apologeti? Se ci sarà, non potrà essere che di corta durata e di debole intensità. Tutte le condizioni ci sono per una vasta crisi di sovrapproduzione e deflazione.

La Cina è sull’orlo di una crisi di sovrapproduzione; continua ad andare avanti a colpi di centinaia di miliardi di dollari di investimenti in grandi lavori, che, come si sa, non possono durare in eterno. E non è manipolando le statistiche che si può cambiare la realtà.

La durata dei cicli fra due massimi successivi va da 7 a 10 anni, il che ci porta al 2014-2017. Ci si può quindi attendere una nuova crisi di interguerra, che il nostro glorioso partito ha da lungo tempo previsto, al più tardi fra 4-5 anni.

Sola eccezione a questo quadro gli USA, che hanno quasi ritrovato il massimo del 2007: indice 2328 contro 2372, come dire -1,8%. Hanno beneficiato di tre fattori: una moneta svalutata di circa il 30% nei confronti dell’euro; un basso costo dell’ora di lavoro; energia a buon mercato con l’estrazione a grande scala di gas e petrolio dagli scisti. Il che favorisce le esportazioni e permette loro di recuperare il secondo posto, superando di un poco la Germania.

Tuttavia, come la Cina, il capitalismo Usa è sostentato artificialmente. La Fed ha rilanciato la politica di “quantitative easing”, cioè di stampa di moneta, e continuerà con l’operazione “twist”, che consiste nel fare incetta di obbligazioni legate all’immobiliare mantenendo, un tasso di interesse base fra lo 0 e lo 0,25%.

Malgrado questo il rallentamento è netto, tanto negli incrementi annuali: +5,9% nel 2010, +4,4% nel 2011, +3,7% nel 2012, quanto di quelli mensili: da giugno a novembre, +4,9%, +4,4%, +3,4%, +3,3%, +1,7%, +2,5%. Il che ha spinto la Fed in settembre a rilanciare la stampa di moneta.

Gli Stati Uniti recupereranno nel 2013 il loro massimo del 2007, mentre tutti gli altri vanno verso una nuova recessione? Lo si può dubitare: la recessione europea, giapponese e probabilmente coreana e dei principali paesi dell’America Latina avrà ripercussioni sull’economia statunitense.

Il capitalismo tedesco, il campione dell’industrialismo europeo, che nel 2011 aveva quasi recuperato il suo massimo del 2008, vede la produzione industriale cadere di nuovo da marzo 2012, dopo un forte rallentamento della crescita da metà del 2011. Questa la serie mensile da marzo 2012: -0,9%; -0,9%; -6,7%; 3,6%; 1,9%; -1,5%; -7,9%; -3,6%. Per tutto il 2012 si può pronosticare un -1,5% di incremento, cioè una caduta della produzione.
 

Economia marxista

Viene ad affiancarsi allo studio sul Terzo Libro del Capitale una ricapitolazione sul lavoro di Marx sull’economia, tendente ad arrivare ad una presentazione della nostra “teoria della crisi economica”, in opposizione alle spiegazioni che ne danno le diverse scuole borghesi, classiche e volgari.

Si è intanto esposta la serie successiva dei piani che Marx prevedeva di dare alla sua esposizione, insomma la genesi della più potente arma teorica del proletariato. Il Capitale è impresa titanica dell’uomo Carlo Marx, ma, materialisticamente, prodotto del partito comunista dell’epoca.

Si compone, nella edizione curata da Marx stesso e continuata dal compagno Engels e dall’allora marxista ortodosso Kautsky, di quattro Libri. Il Primo ha per argomento il processo di produzione del capitale; il Secondo il processo di circolazione del capitale; il Terzo affronta il processo complessivo della produzione capitalistica; il Quarto riguarda la storia delle dottrine economiche.

Questa partizione finale dell’opera complessiva è il risultato di diverse modifiche nel tempo, alcune di notevole importanza e che ne hanno ridisegnato l’impianto generale. Non sono da considerare come revisioni ripensamenti o correzioni del pensiero e dei precedenti assunti, ma come necessaria delimitazione del campo di esposizione ai fenomeni fondamentali del meccanismo capitalistico, attingendo allo sconfinato e multiforme materiale frutto della indagine di Marx sull’avvicendarsi storico delle formazioni socio-economiche, culminanti in quella borghese e nella sua necessaria negazione comunistica. Questo percorso del parto teorico più importante della classe operaia mondiale ci insegna il metodo della scienza comunista e non viene fatto per esercizio accademico.

Il primo piano del Capitale risale al 1857 e sue tracce si trovano sparse nella parte del Manoscritto pubblicata con il nome di Grundrisse. L’opera avrebbe dovuto essere preceduta da un’introduzione (Einleitung) dove analizzare «le determinazioni generali astratte che sono più o meno proprie di ogni società». Questa suddivisione originaria prevedeva una ripartizione della materia in sei sezioni; le prime tre avrebbero dovuto andare a formare la sezione sul capitale, le successive rispettivamente quelle sullo Stato, il commercio estero ed infine il mercato mondiale e le crisi, fornendo queste ultime solo i rispettivi “tratti fondamentali” della materia.

Già nella lettera di Marx a Ludwig Kugelmann del 28 dicembre 1862 tuttavia si fa cenno ad una prima restrizione. Marx aggiorna il compagno sull’avanzamento del lavoro: «È una continuazione della Parte I (Per la critica dell’economia politica), ma apparirà per conto proprio con il titolo di Il Capitale, ed il sottotitolo di Per la critica dell’economia politica. Infatti, tutto ciò che comprende è il materiale che avrebbe formato il terzo capitolo della prima parte, chiamato “capitale in generale”. Quindi non comprende né la concorrenza tra capitali, né il sistema creditizio». E aggiunge: «È contenuto in questo volume ciò che gli inglesi chiamano “I principi dell’economia politica”. È la quintessenza (insieme alla prima parte)».

Pertanto, già a questo punto del lavoro Marx aveva deciso di consegnare alle stampe la parte già pronta, escludendo le ultime tre sezioni, perché pressato dalla necessità di dotare il partito comunista di una robusta dottrina in vista delle future imminenti battaglie; ciò a riprova del carattere non scolastico dei nostri sforzi teoretici. Infine, con il materialistico senso di impersonalità che diamo al nostro lavoro, consegnò ad altri il compito di completare le sezioni mancanti, sulla solida base delle tre sezioni da lui direttamente curate.

Di poco successiva è la ulteriore restrizione del piano, che eliminerà le sezioni II (proprietà fondiaria) e III (lavoro salariato): delle sei sezioni previste nel 1857 ne resta solo una, sul capitale; la quale però avrebbe dovuto tornare a comprendere parte della materia esclusa (riguardante in massima parte le ultime due sezioni) in quanto «vero e proprio sviluppo dell’economia».

Nel 1863 Marx decise che i problemi della concorrenza, del credito e del capitale azionario sarebbero andati ad integrare il Libro Terzo della edizione definitiva del Capitale come la conosciamo con i suoi quattro Libri. Scrive a Ludwig Kugelmann il 13 ottobre 1866: «La mia situazione mi obbliga a pubblicare il Volume I per primo, non entrambi i Volumi assieme, come avevo inizialmente previsto».

Rispetto alla Bozza del 1861-1863 nel Libro I viene aggiunta la trattazione della divisione del lavoro, dell’accumulazione originaria e tutto ciò che riguarda il salario (le sue forme, la giornata lavorativa, la legislazione sul lavoro e le lotte, ecc.). Nel Libro II, che Marx non vide pubblicato, appaiono in più le analisi sui cicli delle tre forme metamorfiche del capitale (produttivo, denaro e merci), l’indagine sulla circolazione del capitale totale (questione che il nostro partito ha già avuto modo di affrontare in diverse occasioni); nel Libro III è risultata ampliata la sottosezione sulle questioni riguardanti il capitale commerciale ed il credito, il primo presupponendo i molti capitali che si fronteggiano, il secondo il capitale come elemento generale dinanzi ai capitali concreti.

Nel gennaio del 1863 Marx darà le «disposizioni per la pubblicazione delle parti».

Notare come ancora nel 1863 Marx abbia il proposito di fornire una Storia delle dottrine economiche intorno al tema in questione dopo di aver esposto la propria; ancora quindi intende usare appieno il metodo sperimentato nei Grundrisse.

Al punto “5” si trova un tema che occuperà gran parte del Capitolo VI Inedito del Libro I, la differenza tra sussunzione formale e reale del lavoro al capitale. Con il primo concetto s’intende quella lotta che caratterizza ogni alba di un nuovo modo di produzione (che pertanto si ripeterà anche nel passaggio dal capitalismo al comunismo) tra i nuovi rapporti di produzione che a fatica s’impongono sugli antichi e l’ambiente circostante, ancora permeato dalle vecchie forme di produzione. La sottomissione reale invece sancisce la vittoria del modo di produzione specificamente capitalistico; i nuovi rapporti di produzione non si limitano a sfruttare il processo di lavoro così come lo hanno trovato elaborato dalle forme precedenti, lo rivoluzionano da cima a fondo creandone uno adeguato alle esigenze della valorizzazione del capitale.

Al punto “6” cosa intende Marx per “change nel modo di manifestarsi della law of appropriation”?. Qui Marx tratta lo stesso tema che poi svilupperà nel capitolo XXII del Libro I del Capitale, dove descrive la riproduzione progressiva quale tendenza immanente al rapporto di capitale stesso; questo allargamento della scala produttiva rovescia le leggi della proprietà della produzione mercantile semplice in leggi dell’appropriazione capitalistica. L’inversione permette quella grande socializzazione del processo di lavoro che solo il modo di produzione borghese è stato in grado d’attuare, trasformando la vecchia appropriazione privata individuale in proprietà di classe e preparando il terreno all’abolizione della proprietà stessa (problema affrontato dal Partito in Proprietà e Capitale).

Nell’ultimo punto delle “disposizioni” abbiamo un esempio perfetto dell’applicazione del metodo dialettico. Qual è la differenza tra lavoro produttivo e improduttivo? Non è possibile definire la produttività del lavoro “in generale”, vecchio tarlo degli economisti classici.

Nel punto “9” viene distrutta la cosiddetta “formula trinitaria” dell’economia politica, per cui il reddito percepito dalle tre classi fondamentali (capitalisti, proprietari fondiari e salariati) deriverebbe dalle tre parti costitutive del valore dei prodotti, rispettivamente il profitto, la rendita fondiaria ed il lavoro. Marx mostra che quelle tre fonti non sono niente altro che parti aliquote del plusvalore prodotto dal lavoro proletario che si scinde andando a sfamare capitalisti e fondiari. Ancora una volta assistiamo ad un riflesso ideologico dell’antagonismo dei rapporti sociali.

Dalle “disposizioni” sul capitolo riguardante la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto medio, traiamo infine nuova conferma del metodo scientifico marxista. In opposizione al vuoto individualismo borghese (egoismo già soppresso dalla stessa impetuosa socializzazione delle forze produttive messa in moto dal capitalismo stesso) i capitali individuali devono essere considerati come particelle di un tutto più ampio (il modo di produzione) e pertanto le loro metamorfosi non sono niente altro che un ciclo da inserire nel processo di riproduzione del capitale sociale totale ed è questo circolo che determina i rapporti tra i singoli capitali, giammai viceversa.
 

Storia dell’Egitto

Gli esaltanti e al contempo tragici avvenimenti che hanno scosso l’Egitto negli ultimi due anni ci hanno spinto a riprendere l’analisi su questo paese, che è certamente il più importante del nord Africa, non solo per la sua posizione a guardia del canale di Suez ma per il peso demografico dato che la sua popolazione è prossima ormai a toccare i 90 milioni.

Il nostro studio si è avvalso di un ottimo precedente lavoro di partito, “Base produttiva e lotte di classe in Egitto”, pubblicato sul nostro giornale nei numeri di agosto, settembre, dicembre 1977 e gennaio, febbraio, marzo e aprile 1978 e adesso disponibile anche sul nostro sito.

Questo lavoro ripercorreva lo sviluppo in senso capitalistico dell’economia egiziana, sia in campo industriale sia agricolo; metteva in evidenza la natura borghese del colpo di Stato dei Giovani Ufficiali capitanati da Nasser e l’essenza antiproletaria del nuovo regime; descriveva i limiti della riforma agraria promulgata nel 1958 e il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, delle città e delle campagne, avvenuto negli anni Settanta e seguenti sotto la pressione della crisi del Capitale. Lo studio si concludeva esaminando alcuni notevoli episodi di lotta del proletariato egiziano e ne preconizzava la riorganizzazione.

Il lavoro di oggi aggiorna e approfondisce lo studio sull’economia e sulla società dell’Egitto negli ultimi trenta anni, con particolare attenzione a quanto accaduto negli ultimi due, che hanno visto crescere gli scioperi per aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro insieme a decise manifestazioni di piazza antiregime.

La nascita di numerosi e combattivi sindacati indipendenti, la caduta del “faraone” Mubarak, la presa del potere da parte dell’esercito, la vittoria elettorale del Partito dei Fratelli Mussulmani, che attualmente governa il paese, e la rapida caduta della sua credibilità, sono i fatti che hanno contraddistinto gli ultimi mesi.

La situazione resta critica anche perché le finanze del Paese sono allo stremo. Il Fondo Monetario Internazionale per erogare nuovi prestiti chiede riforme e garanzie, che in questa situazione sociale sono impossibili perché non farebbero che aumentare la tensione sociale che è già molto alta. La finanza “islamica”, sulla quale l’attuale governo ripone le sue speranze, non sembra molto disponibile ad investire nel Paese.

La questione sembra senza via d’uscita per la borghesia, che però sa di poter contare sull’esercito per difendere il suo potere. Il proletariato deve quindi continuare la lotta per salvaguardare ed estendere la sua organizzazione sul piano sindacale, prendendo consapevolezza che, per liberarsi dalla oppressione borghese dovrà ricollegarsi al programma invariante del comunismo rivoluzionario internazionale.

(Fine della relazione al prossimo numero)

 
 
 
 
 


Imperialismo cinese in Africa

Una notizia ormai non più recente descrive come a Collum, nello Zambia, in una miniera di carbone, i minatori, scesi in sciopero per cercare di ottenere aumenti ai loro bassi salari, in uno scontro con rappresentanti della direzione mineraria abbiano scaraventato un carrello da trasporto materiale contro il direttore cinese dell’impianto, uccidendolo. Qualche anno prima, sempre a Collum, guardiani cinesi erano ricorsi alle armi aprendo il fuoco contro gli scioperanti ferendone alcuni.

Le borghesie occidentali, nostalgiche della loro supremazia economica in terra d’Africa, vedono con preoccupazione il contrapporsi, l’insinuarsi e l’affermarsi dell’imperialismo cinese (spacciato da tutti i pennivendoli e buffoni di corte come comunista) nel ricco di materie prime continente africano. Si scalzano i concorrenti e ci si sostituisce ad essi utilizzando tutti i mezzi, dalla pirateria ai ricatti economici ed alle guerre; ed è facile ai vecchi imperialismi presentare il concorrente come usurpatore e anti-democratico. Niente di nuovo.

Oggi nella fase imperialistica, ancor più di prima, gli Stati, Cina compresa, sono costretti, per dar sfogo ai capitali accumulati e assetati di profitti, ad invadere e cercare di sottrarre aree ai concorrenti; strappare ai rivali zone ricche di materie prime per soddisfare le industrie metropolitane o per accaparrarsi importanti punti strategici.

Si addita Pechino che, mentre accusa di colonialismo i vecchi capitalismi, ne prende il posto nello sfruttamento delle risorse e della manodopera africana; così facendo, non rispettoso delle regole democratiche, sarebbe responsabile dell’inasprirsi dei conflitti sociali. Infatti il governo cinese aveva sì promesso a quello zambiano di rispettare gli accordi sui diritti umani, i principi democratici e lo sviluppo sostenibile, oltre agli investimenti economici. Ma gli affari sono affari, e purtroppo non sempre il business si coniuga con i diritti e la sostenibilità.

Lo Zambia è uno Stato grande due volte l’Italia con 15 milioni di abitanti. Indipendente, si fa per dire, dal 1964. Prima si chiamava Rhodesia del Nord ed era una colonia del capitalismo inglese. Ricco di minerali e primo produttore di rame nel mondo, lo Zambia, da un po’ di anni, è entrato nelle mire del capitale cinese.

Quindi non c’è da stupirsi che la lotta operaia nel terzo millennio si scagli anche contro i padroni cinesi, niente affatto diversi da quelli occidentali. I nuovi padroni sono ottimi allievi delle grandi borghesie, democratiche, del passato e del presente, che prima hanno fatto a gara nell’asservire le civiltà pre-capitalistiche col piombo e col fuoco, poi hanno risposto allo stesso modo quando si sono trovate di fronte ai movimenti di liberazione nazionali indigeni reclamanti indipendenza, libertà e autonomia.

L’ipocrisia del cronista ammette che i fatti di Collum potevano accadere solamente nell’Ottocento europeo durante la rivoluzione industriale, ma non di certo oggi. La storia ha smentito questa tesi e la smentirà in futuro anche nel “ricco” Occidente.

Noi attendiamo il momento in cui i proletari africani e di tutti i continenti si uniscano per lanciare i carrelli contro i padroni di tutti i colori e paesi.
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 3

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

Fuori e contro i sindacati di regime
Per il ritorno ai principi del sindacalismo di classe

Oltre 70 lavoratori dei servizi di pulizia in appalto all’ospedale di Cisanello a Pisa hanno deciso di abbandonare la Cgil e la Cisl dandosi una nuova organizzazione denominata “Associazione Lavoro e dignità”. La decisione è stata resa pubblica il 6 marzo scorso con un presidio e volantinaggio all’interno dell’ospedale e con la diffusione di un comunicato che ne spiega le ragioni:

«Dal 26 ottobre abbiamo condotto una vera e propria battaglia contro i licenziamenti... Dai primi giorni della lotta, i funzionari della CGIL hanno lavorato per dividere i delegati sindacali ed il fronte dei lavoratori, con intimidazioni e pressioni di ogni tipo. Per loro “non dovevamo iniziare a lottare da subito... dovevamo aspettare”... In tantissime altre situazioni dove le aziende vogliono licenziare i lavoratori e il sindacato “cerca” una mediazione senza lottare, si risolvono con la disgrazia dei lavoratori... Abbiamo sempre cercato di coinvolgere nel presidio e nelle iniziative il Sindacato. In risposta abbiamo ricevuto solo offese, accuse di “strumentalizzazioni”, ipocrisia... La verità è che il sindacato... era disposto fin da subito a cedere alle pressioni dell’Azienda Ospedaliera, accettando un compromesso al ribasso. Quando abbiamo costruito con assemblee, incontri, raccolta firme, volantinaggi la nostra lotta, quando abbiamo deciso di scioperare insieme a migliaia di persone, quando non abbiamo abbassato la testa di fronte a ricatti e intimidazioni che provenivano dai vertici aziendali, il ruolo e l’atteggiamento della dirigenza della Cgil è stato quello di venirci contro, tentando in ogni modo di metterci in difficoltà, di emarginare i lavoratori più attivi, di spaventare anziché di dare forza... Non vogliamo più delegare a nessuno di questi Sindacalisti di professione le nostre vite, per questo abbiamo deciso di costruire una nuova Associazione Lavoro e Dignità».
Dalla fine degli anni ’70 l’indirizzo ai lavoratori nel campo sindacale del nostro partito è Fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) per la rinascita del sindacato di classe.

Questo indirizzo non è stato frutto di una elucubrazione né di un infantile rifiuto a sporcarsi le mani nel lavoro sindacale, in cui inevitabilmente i comunisti vengono a scontrarsi con l’opportunismo, cioè con l’influenza della classe dominante sulla classe sfruttata.

Per un arco di oltre 30 anni, dalla ricostituzione dall’alto nel 1944 della nuova Cgil già su basi di regime, il partito aveva dato una duplice prospettiva: o riconquista della nuova Cgil tricolore, prevista possibile solo “a legnate”, cioè non per via democratica congressuale ma sull’onda di potenti lotte operaie, riconducendola sulla strada della originaria CGL rossa, o rinascita del sindacato di classe fuori e contro di essa.

La nuova Cgil nacque già di regime ma al suo interno inquadrava la parte più combattiva della classe operaia che conservava viva la tradizione delle grandi battaglie di classe di un passato allora non lontano. La storia del movimento sindacale nel secondo dopoguerra è riducibile alla lotta della dirigenza opportunista della Cgil e degli altri sindacati di regime per sradicare dal sindacato e da tutti i lavoratori i sentimenti, i principi, i metodi della lotta di classe.

Per la gravità dell’ultima sconfitta della rivoluzione, di cui lo stalinismo fu il becchino, per il conseguente ristabilirsi del capitalismo e il riavvio della sua crescita economica, resa possibile dalle distruzioni della Seconda Guerra mondiale, che sola risolse la crisi mondiale di allora, identica a quella di oggi, la lotta fra la tradizione classista entro la Cgil e l’opportunismo doveva volgere a favore del secondo. In sostanza si trattava di pagare fino in fondo il prezzo della sconfitta della rivoluzione internazionale proletaria nel periodo 1917-23.

La possibilità che ebbero gli operai nei primi tre decenni del secondo dopoguerra di utilizzare per le loro lotte la Cgil andò restringendosi col progredire dell’opera dell’opportunismo fino a che sempre più spesso i lavoratori si trovarono nella necessità di organizzarsi fuori e contro di essa. Esattamente quanto avviene oggi a Pisa.

A fine anni settanta, anche sulla base di oltre trent’anni di battaglia dei nostri militanti operai dentro la Cgil, il partito considerò caduta la doppia possibilità per la rinascita del sindacato di classe e diede l’indirizzo odierno.

Nel trentennio successivo la tendenza a darsi un’organizzazione fuori e contro i sindacati di regime non si è generalizzata. Si è assistito alla nascita di varie sigle del sindacalismo di base che però non hanno condotto alla formazione di un sindacato di classe.

L’avanzare della crisi economica spingerà il capitalismo, per sopravvivere, a peggiorare sempre più le condizioni di vita dei lavoratori riaccendendo suo malgrado la lotta di classe. Si vedrà allora come la indicazione del partito, sinora anticipata solo da alcuni reparti della classe lavoratrice, sia quella davvero rispondente e necessaria al movimento.

Il partito ricorda, sulla base di tutta la storia della lotta della classe proletaria internazionale, quello che caratterizza di un vero sindacato di classe:
     - unire nell’organizzazione i lavoratori al di sopra delle divisioni, utili solo alla borghesia, fra fabbrica, azienda, categoria, sesso, razza, religione e, infine, nazione;
     - favorire questa unione mostrando sempre in ogni lotta, per quanto contingente e parziale essa sia, la condizione generale della classe lavoratrice nel capitalismo
     - indirizzare l’energia dei lavoratori verso la mobilitazione per obiettivi generali che unificano davvero la classe: riduzione dell’orario a parità di salario; forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate; salario pieno ai lavoratori licenziati a carico della borghesia e del suo Stato;
     - privilegiare l’organizzazione territoriale del sindacato rispetto a quella aziendale, come nella tradizione delle originarie Camere del Lavoro, dove i lavoratori si riuniscono in quanto membri di una classe, non come dipendenti di un’azienda, gli uni con problemi estranei agli altri;
     - il sindacato di classe si fonda sul sacrificio e l’attività volontaria dei suoi militanti; rifiuta l’utilizzo dei distacchi dal lavoro; i funzionari stipendiati sono ridotti al minimo necessario;
     - il sindacato di classe considera il metodo di iscrizione per delega, introdotto in Italia sul finire degli anni ‘60, del tutto funzionale e rispondente al metodo concertativo, perché consegna al padrone i nomi degli iscritti al sindacato e le sue risorse finanziarie. Utilizza per la riscossione delle quote i suoi militanti, che svolgendo questo compito mantengono anche un contatto costante con gli iscritti;
     - confida di arrivare a costringere i padroni alla trattativa con la mobilitazione e gli scioperi e non in forza di un riconoscimento giuridico da parte loro o del loro Stato, ottenuto in cambio di cedimenti nelle rivendicazioni o dopo accettati pretesi principi comuni.
 
 
 
 
 


Coraggiose lotte organizzate nel comparto della logistica

Continua l’organizzazione e la conduzione delle lotte degli operai del settore logistico da parte del S.I. Cobas. Dopo quattro anni di dure battaglie in singoli magazzini, avendo tessuto una reale solidarietà ed unione fra i lavoratori al di sopra dei confini fra aziende e stabilimenti, con gli operai che si davano man forte nei picchetti di loro compagni in sciopero in altre aziende, il 22 marzo questo piccolo sindacato, cresciuto grazie al prestigio e al rispetto conquistato nella lotta, ha tentato il salto verso la mobilitazione generale della categoria. Lo sciopero è andato bene, pur organizzando il S.I. Cobas una minoranza dei lavoratori del settore.

Pochi giorni prima la prefettura di Piacenza ha recapitato un “foglio di via” al coordinatore nazionale del sindacato. Contro questo provvedimento il S.I. Cobas ha organizzato, a Piacenza, una manifestazione il 6 aprile, anche questa riuscita con successo. Oltre a ciò sono proseguite diverse lotte in singoli stabilimenti come alla Coop Centrale Adriatica e alla Granarolo di Bologna e altri ancora. Uno sforzo organizzativo non da poco. Ora il S.I. Cobas si prepara a una seconda giornata di sciopero generale indetta per mercoledì 15 maggio per la cui preparazione ha, fra l’altro, tenuto diverse assemblee il primo maggio.

Di seguito pubblichiamo il volantino del partito distribuito alla manifestazione di Piacenza, anche in lingua francese per i numerosi proletari magrebini presenti.
 

Piacenza, 6 aprile - Manifestazione del SICobas
Per il Sindacato di Classe

Il capitalismo è una società divisa in classi con interessi contrapposti e inconciliabili. La classe dei lavoratori è sfruttata sul piano economico e priva del potere politico, tutto in mano alla sola borghesia che lo esercita attraverso il suo Stato.

Questa verità è nascosta dalla democrazia che, con la farsa delle elezioni e i cosiddetti “diritti”, fa credere ai proletari di poter influenzare il potere politico e di essere cittadini al pari dei borghesi.

I lavoratori hanno un solo mezzo per difendersi: organizzare veri scioperi, a oltranza, senza preavviso, che cerchino di estendersi al di sopra delle aziende e delle categorie.

Questa è la strada della lotta di classe. Quando i lavoratori la intraprendono il regime borghese cala la maschera democratica e mostra il suo vero volto: quello della dittatura del Capitale.

La repressione dello Stato borghese – col foglio di via ai dirigenti e militanti del SI Cobas, i processi, le cariche della polizia contro gli operai in sciopero – mostrano la vera natura del regime del Capitale e indicano che la classe dominante riconosce in questo sindacato un suo nemico, un organismo che difende davvero i lavoratori, che cammina sulla strada per la ricostruzione di un vero Sindacato di Classe.

Questa piccola organizzazione in pochi anni è cresciuta conquistandosi la fiducia di sempre più lavoratori, stabilimento dopo stabilimento, fino a tentare, il 22 marzo scorso, lo sciopero generale degli operai della logistica. Ancora oggi vi sono ritardi nella consegna delle merci, a testimonianza della riuscita dello sciopero e di come una organizzazione sindacale, pur piccola ma guidata coi metodi della lotta di classe, può mettere alle corde il padronato.

Le lotte degli operai organizzati dal SI Cobas sono un esempio per i lavoratori di tutte le categorie che necessariamente dovranno dotarsi di organizzazioni analoghe che infine confluiscano in un unico grande sindacato di tutta la classe lavoratrice.

La battaglia per la ricostruzione del Sindacato di Classe non sarà certo facile:
- dovrà vincere innanzitutto i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) che la borghesia tutela quali migliori strumenti per impedire il ritorno alla lotta di classe;
- dovrà essere combattuta anche contro le dirigenze dei principali sindacati di base, opportuniste e riformiste come quelle dei sindacati di regime, che non hanno compiuto un gesto di reale solidarietà, non a parole ma nei fatti, verso il SI Cobas;
- dovrà resistere alla repressione della classe dominante, sia quella legale dello Stato capitalista sia quella illegale degli scagnozzi padronali, e non potrà farlo che sul terreno della forza, estendendo l’unità dei lavoratori, non cadendo negli inganni borghesi della legalità e della democrazia.

Per quanto dura questa battaglia, a condurre i lavoratori a combatterla sarà il capitalismo stesso, perché la sua crisi economica mondiale è irrisolvibile e continuerà a peggiorare le loro condizioni di vita.

Il Sindacato di Classe è un organismo indispensabile per la difesa sul piano economico. Ma ogni vittoria non è mai definitiva nel capitalismo. Non esistono “diritti” ma solo posizioni conquistate, roccaforti dalle quali condurre con maggior forza la lotta di classe.

La soluzione alla loro miseria e alle sofferenze dei lavoratori è nel superamento del capitalismo, nel Comunismo.

Per questo è necessario il Partito della classe proletaria, cioè quell’organismo che incarna l’originale programma comunista rivoluzionario, determinato alla conquista del potere politico con la Rivoluzione.

Il Partito Comunista Internazionale è il solo che ha difeso e mantenuto l’originale programma comunista contro l’ultima e peggiore delle sconfitte: quella culminata con lo stalinismo e la menzogna del falso socialismo russo, cinese, ecc. È il solo che da quella sconfitta ha potuto trarre le lezioni per la riscossa proletaria futura.
 

Pour le Syndicat de Classe

Le capitalisme est une société divisée en classes avec des intérêts opposés et inconciliables. La classe des travailleurs est exploitée sur le plan économique, privée de pouvoir politique, totalement dans les mains de la bourgeoisie qui l’exerce à travers son État.

Cette vérité est cachée par la démocratie qui, avec la farce des élections et les soi-disant «droits», fait croire aux prolétaires qu’ils peuvent influencer le pouvoir politique et être des citoyens au même niveau que les bourgeois.

Les travailleurs ont un seul moyen pour se défendre: organiser de véritables grèves, à outrance, sans préavis, qui cherchent à s’étendre au delà des entreprises et des catégories.

Voici la route de la lutte de classe. Quand les travailleurs la prennent, le régime bourgeois jette le masque démocratique et montre son vrai visage : celui de la dictature du Capital.

La répression de l’État bourgeois – avec la "feuille de route" aux dirigeants et militants du SI Cobas, les procès, les charges policières contre les ouvriers en grève – révèlent la nature réelle du régime du Capital et indiquent que la classe dominante reconnaît en ce syndicat son ennemi, un organisme qui défend véritablement les travailleurs, qui prend la route de la reconstruction d’un vrai Syndicat de Classe.

Cette petite organisation a augmenté en quelques années conquérant la confiance de plus en plus de travailleurs, établissement après établissement, afin de tenter, le 22 mars dernier, la grève générale des ouvriers de la logistique. Aujourd’hui encore, il y a des retards dans la livraison des marchandises, témoignant de la réussite de la grève et de comment une organisation syndicale, même petite mais guidée par des méthodes de lutte de classe, peut mettre en difficulté le patronat.

Les luttes des ouvriers organisés par le SI Cobas sont un exemple pour les travailleurs de toutes les autres catégories qui devront nécessairement se munir d’organisations analogues qui conflueront finalement dans un unique grand syndicat de toute la classe travailleuse.

La bataille pour la reconstruction du Syndicat de Classe ne sera certainement pas facile :
   - elle devra vaincre avant tout les syndicats de régime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) que la bourgeoisies soutient comme les meilleurs instruments pour empêcher le retour à la lutte de classe des travailleurs;
   - elle sera combattue également par les directions des principaux syndicats de base, opportunistes et réformistes comme celles des syndicats de régime, qui n’ont pas développé une attitude de solidarité réelle, non pas en paroles mais en faits, envers le SI Cobas;
   - elle devra résister à la répression de la classe dominante, celle légale de l’ État, comme celle illégale des hommes de main patronaux, et elle ne pourra le faire que sur le terrain de la force, en étendant l’unité des travailleurs, et en ne tombant pas dans les pièges bourgeois de la légalité et de la démocratie.

Pendant que dure cette bataille, menée par les travailleurs, le capitalisme la combattra, parce sa crise économique mondiale est insoluble et continuera à aggraver les conditions de vie du prolétariat.

Le Syndicat de classe est un organisme indispensable pour la défense sur le terrain économique. Mais chaque victoire n’est jamais définitive sous le capitalisme. Il n’existe pas des «droits» mais seulement des positions conquises, place-fortes d’où conduire avec une plus grande force la lutte de classe.

La solution définitive à leur misère et aux souffrance des travailleurs se trouve dans le dépassement du capitalisme, dans le Communisme.

Dans cette lutte, le Parti de la classe prolétarienne, c’est-à-dire cet organisme qui incarne l’authentique programme communiste révolutionnaire, déterminé à conquérir le pouvoir politique par la Révolution, est une nécessité.

Le Parti Communiste International est le seul qui a défendu et su maintenir l’authentique programme communiste contre l’ultime et pire des défaites: celle accomplie par le stalinisme et le mensonge du faux socialisme russe, chinois, etc. Il est le seul qui de cette défaite a pu tirer les leçons nécessaires à la future reprise prolétarienne.
 
 
 
 
 
 
 


Lotta economica e lotta politica

La repressione delle recenti lotte nella logistica, culminata nel foglio di via al coordinatore nazionale del SI Cobas e ad altri due militanti, era iniziata, prima e dopo le lotte, con gli attacchi degli organi dello Stato borghese, dei Sindacati di regime e dei padroni, con diversi atti di intimidazione, le multe per i picchetti, i licenziamenti e gli spostamenti punitivi, i ricatti personali, fino all’aggressione fisica con le cariche della polizia. La reazione organizzata contro l’allontanamento forzato dei dirigenti del movimento ha un grande valore perché dimostra la capacità del sindacato di rispondere ai colpi subiti non con mere denunce ma mobilitando gli operai, cioè con l’unico mezzo che può difenderli dalle ritorsioni borghesi.

Le coraggiose lotte di questi ultimi anni nel settore della logistica, in gran parte combattute da lavoratori immigrati, e che sono davvero di esempio per tutti i proletari, hanno avuto a loro sostegno, organizzativo ed anche fisico nei picchetti e negli scioperi, elementi appartenenti ai centri sociali, a composizione ed ideologia interclassista, ed altri, che hanno partecipato a titolo più o meno individuale. Questo va certo a loro merito, ma dimostra l’isolamento della categoria e la debolezza oggi della classe operaia nel suo insieme.

Questa solidarietà proveniente dall’esterno della classe non va certo rifiutata, ma nemmeno presa come prova di maggiore forza del movimento proletario. Ravvisare inoltre, in questa confluenza di organi sindacali, sociali e politici, un salto di qualità, non si sa di chi o di cosa, una cosiddetta crescita politica, costituisce un grave errore di prospettiva e di indirizzo pratico.

Noi comunisti siamo i primi a sostenere che l’ambito delle lotte difensive operaie, in senso stretto, non solo non può contenere il dispiegarsi di forze ed esperienze necessarie per il rivoluzionario superamento del sistema salariale, ma nemmeno, in tempi di crisi, la difesa delle condizioni immediate. La lotta operaia tende inevitabilmente ed è costretta a portarsi sul terreno della politica, cioè a porsi la questione del potere.

Continuiamo però a ritenere che, sul piano della coscienza, la crescita politica, storicamente, è già avvenuta, e compiuta almeno da un secolo, ed è oggi rappresentata dalla tradizione del comunismo di sinistra. La crescita politica fra i ranghi operai viene a coincidere, e quantitativamente si misura, nell’adesione di una loro avanguardia al partito comunista. La massa dei lavoratori, ed anche degli aderenti ai sindacati, continuerà a sentirsi democratica, pacifista e a credere ad altre simili superstizioni anche mentre, con risoluta azione anti-democratica ed anti-pacifista, si darà a liquidare i controrivoluzionari borghesi, ed ancora per lungo tempo dopo.

Vi sarà ripresa rivoluzionaria di classe solo con un partito ancorato ad un sindacato, a sua volta ancorato alle necessità della quotidiana battaglia proletaria.

Ogni diversa impostazione, che esclude o ridimensiona o ritarda l’intervento del partito comunista dall’esterno nelle lotte operaie, in pratica non può che scadere nel culturalismo e nel gradualismo, ovvero in un velleitario movimento ad oltranza.

Un nuovo movimento emancipatore della classe operaia non richiede di forzare, deviare, l’organizzazione sindacale oltre i limiti delle rivendicazioni economiche, su un terreno ambiguamente politico, facendone un sindacato rivoluzionario, o composto di rivoluzionari. Ed è volontarismo credere di poter così accelerare i tempi per la ripresa generale della lotta di classe.

I delicati processi della riorganizzazione operaia invece si rallentano o addirittura si bloccano se si procede a colpi di ideologizzazione sul proletariato e di manovre politiche fra partiti. Ciò che pur si ammette essere una necessità, l’allargamento del fronte di lotta, la sua estensione, il passaggio dell’esempio ad altre categorie, viene frastornato alla ricerca di nuovi percorsi, di nuove composizioni e forme, che dovrebbero garantire la maturazione rivoluzionaria delle coscienze.

Occorre invece cogliere ogni occasione per propagandare l’unità del proletariato sopra delle categorie, dimostrarne nei fatti l’identità di interessi, smascherare il ruolo del sindacalismo di regime che ancora imbriglia la stragrande maggioranza dei lavoratori con i mezzi caratteristici della borghesia, il bastone e la carota, che indice scioperi perdenti e reprime quelli che non lo sono.

Occorre dare vigore e lucidità alle forze proletarie ancora chiuse nella prigione del sindacalismo di regime per chiamarle a seguire l’esempio di quei lavoratori che negli anni hanno dimostrato di potersi organizzare fuori e contro di essi.

La formazione di un grande Sindacato di classe, sulle spalle di esperienze che si pongono sulla sua strada – quale il Si Cobas – estese alle altre categorie, permetterà la preparazione e il dispiegamento di questo movimento generale del proletariato, non sopportabile dal regime capitalista, in particolare quando stritolato dall’avanzante crisi economica. Non potrà che incontrare la feroce e disperata reazione della borghesia, che già schiera i poliziotti ed emana fogli di via. Così impostato, il movimento sindacale spontaneamente si approssima al campo della rivoluzione.

Il salto dal movimento di lotta economico al politico non sarà il prodotto di un’azione culturale all’interno del sindacato, che dovrebbe addivenire alla creazione di un organismo ibrido sindacato-partito, ma del ritrovare la classe proletaria, nella sua mobilitazione comune per obiettivi generali difensivi immediati, l’indirizzo di azione e il cosciente programma storico incarnati nel partito comunista, nel quale sarà venuta a militare la sua parte migliore.

Quel partito comunista la cui presenza potrebbe di molto facilitare la solida formazione del Sindacato di classe, combattendo al suo interno l’influenza dell’opportunismo, e la cui direzione effettiva del sindacato sarà necessaria affinché il movimento economico del proletariato giunga a scontrarsi frontalmente col regime borghese e punti deciso alla conquista del potere e all’esercizio della dittatura.
 
 
 
 
 
 
 


Un nostro volantino
Anche in Inghilterra i sindacati scambiano sacrifici reali contro promesse di “lavoro”

Qui di seguito alcuni stralci dal volantino distribuito dai nostri compagni in Inghilterra. Il testo completo, in lingua inglese, è sul sito del partito.

La crisi del capitalismo costringe la borghesia a difendere i profitti peggiorando la condizione della classe lavoratrice. I salari e i sussidi sono aumentati non più dell’1% mentre l’inflazione, ufficiale, è del 3%. Riduzione delle ore e tagli significativi del salario sono giustificati come “l’unico modo per mantenere il posto di lavoro”.

Anche chi percepisce un sussidio, compresi ammalati di lunga durata e disabili, sono ora costretti a dimostrare di aver cercato un lavoro e ad accettare qualsiasi lavoro propostogli, anche se sottopagato e disagiato. Quelli che finiscono gli studi sono poi abbandonati a loro stessi e costretti a iscriversi alle liste di disoccupazione.

Delle riforme del welfare quella cosiddetta “Bedroom tax” è particolarmente odiosa: chi, fra i proprietari della propria abitazione, dispone di una camera in più rispetto alle strette esigenze familiari, si vedrà decurtare del 14% i sussidi che lo Stato fornisce come aiuto alle famiglie bisognose, del 25% se le stanze “non necessarie” sono due! La prospettiva è di dire addio alla propria casa.

Tutti i lavoratori, occupati e disoccupati, sono ora di fronte agli stessi attacchi delle classe dominante, e si possono difendere solo combattendo insieme come una classe.
 
 
 
 
 
 

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Difesa della fabbrica uguale difesa del Capitale

Nella politica della Fiom

Negli ultimi mesi sono stati firmati da Fiom, Fim, Uilm, e in alcuni casi dall’Uglm, diversi accordi aziendali peggiorativi per i lavoratori presso Fincantieri, Zanussi, ILVA, Xerox, VM, Almaviva, KME.

La Fiom ha difeso questi accordi, definendoli positivi, perché, a fronte dei peggioramenti, è stato difeso “il lavoro”. La sua minoranza interna “di sinistra” li ha descritti come una capitolazione della Fiom sul piano aziendale rispetto a quanto proclamato in passato da questo sindacato sul piano generale.

A noi preme evidenziare come entrambe queste fazioni abbiano torto e come la strada della difesa dei lavoratori passi per la ricostruzione del Sindacato di Classe fuori e contro Cgil, Cisl e Uil.

Non è difficile spiegare come tali accordi immiseriscano e dividano i lavoratori, rendendo più vulnerabile la classe salariata ai certi e sempre più duri attacchi futuri del padronato. Meno semplice – ma più importante ancora – è mostrare come essi siano il risultato inevitabile della politica sindacale della Fiom, opportunista fin dalla sua ricostituzione dall’alto, nel 1944, all’interno della nuova Cgil tricolore, quale strumento della borghesia per sradicare dalla classe lavoratrice la tradizione di classe della originaria CGL rossa.

Quest’opera di distruzione di ogni sentimento, principio e metodo della lotta di classe dal seno della Cgil è stata portata a compimento sul finire degli anni settanta. Da allora la Cgil, nata di regime, lo è diventata in modo irreversibile. Da allora la battaglia interna per condurla a diventare un sindacato di classe non è più possibile.

Sul finire degli anni settanta, perciò, il nostro partito formulò l’indirizzo tattico nel campo sindacale: “fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) per la rinascita ex-novo del sindacato di classe”.

La minoranza “di sinistra” della Cgil in 35 anni, dal finire degli anni ’70, non è riuscita a cambiare in senso classista questo sindacato né a frenarne lo spostamento verso il sempre più spudorato corporativismo. Ha invece sottratto preziose energie all’opera di ricostruzione del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime.

Questa minoranza Cgil – divisa in diverse correnti, di cui quella più a sinistra è la Rete 28 Aprile – detiene direzione e maggioranza nella Fiom. La Rete 28 Aprile, dopo aver fatto blocco comune con le altre componenti di sinistra all’ultimo Congresso della Cgil (il XVI, a maggio 2010) nella Area congressuale “La Cgil che vogliamo”, ne è poi uscita a luglio 2012 ricostituendosi come autonoma Area programmatica denominata “Rete 28 aprile - Opposizione Cgil”. Dentro la Fiom faceva parte della segreteria nazionale con un componente (Sergio Bellavita) su quattro, eliminato a settembre-ottobre 2012.

La Rete 28 Aprile, che ha sostenuto l’illusione di una Fiom di lotta, alternativa alla Cgil concertativa, ne paga ora le spese ma, cosa ben più grave, così come ha fatto la sinistra Cgil in tutti questi 35 anni, ha contribuito ad alimentare le illusioni dei lavoratori e a puntellare il sindacalismo di regime.

La Fiom, invece, non si è mai discostata dai caratteri fondamentali della politica sindacale della Cgil, rappresentando nulla più che l’ala sinistra del sindacato concertativo, giammai una alternativa di classe. Per convincersene basta leggere i Ccnl nazionali ed aziendali unitari da essa firmati, in cui obiettivo proclamato è quello di relazioni sindacali che riducano al minimo la conflittualità, ossia la lotta di classe, in cui è condiviso l’obiettivo aziendale di aumentare la produttività, la competitività, legando le sorti dei lavoratori a quelli dell’azienda.

A ridare un’aurea di verginità alla Fiom non è stata un’azione di lotta ma la più agguerrita offensiva del padronato – prima della FIAT poi di Federmeccanica – determinata dall’avanzare della crisi. Non era la Fiom ad essersi attestata sulle posizioni della lotta di classe ma il padronato ad essere passato all’offensiva disfacendosi del metodo concertativo. La Fiom ha solo difeso la concertazione. Non potendo cedere su tutta la linea, inseguendo Fim e Uilm, la Fiom è rimasta a metà strada, per poi gradualmente confluire lungo la via segnata dalla Cgil, che le apriva la pista nella riconciliazione con Cisl e Uil, eliminando gli illusi – veri o presunti – alla sua sinistra.

La Rete 28 Aprile vede una svolta della Fiom, una sua capitolazione, perché non comprende come i fondamenti della sua politica sindacale, quelli dell’opportunismo, non potevano che condurla a questo esito. E non lo comprende perché quei fondamenti sono anche suoi.

Tutta la Fiom – maggioranza e minoranza – ha infatti sempre mescolato, ad arte, nei suoi proclamati obiettivi, gli interessi dei lavoratori – salario, orario, ritmi, contratto nazionale – con quelli del Capitale – competitività, produttività, investimenti, piani industriali, difesa dell’azienda e dell’industria nazionale – perché ha sempre sostenuto che gli uni e gli altri sono conciliabili a vantaggio di entrambi, con un buon governo delle aziende e dell’economia capitalistica, che ne renderebbe possibile il buon funzionamentoconsentendo, infine, il miglioramento delle condizioni di vita anche alla classe lavoratrice.

Per l’opportunismo – ossia il riformismo di sinistra, in veste di “difensore dei lavoratori” – il compito della classe operaia, delle sue organizzazioni sindacali e politiche, si riduce a far pressione, o proporsi, per la buona gestione del capitalismo, che chiama economia nazionale, e convincere i lavoratori che si tratti di un “bene comune” da cui dipende la loro sopravvivenza e non, invece, di un sistema sociale e politico mondiale, il capitalismo, che è la causa della loro miseria e del privilegio della borghesia.

Questa è la fradicia ideologia del riformismo, il cui fallimento storico è stato sancito da due guerre mondiali, grazie alle quali soltanto il capitalismo riuscì a conservarsi, ad un tempo uscendo dalla crisi economica mondiale di allora e sconfiggendo la Rivoluzione proletaria internazionale, la sola che poteva e potrà permettere all’umanità di non subire più sfruttamento, crisi e guerre, cioè i caratteri normali del capitalismo.

La storia di oltre due secoli di capitalismo dimostra che la sua economia non si governa, ma è essa a imporre governi, politiche e guerre. L’opportunismo non ha principi né memoria. Ma i fatti hanno la testa dura!

Se è solo dal buon andamento del capitalismo che i lavoratori possono attendersi una vita migliore, va da sé che non debbono danneggiare la sua economia, specie quando, come oggi, è fragile a causa della crisi. Non può che risultarne la subordinazione dei bisogni dei lavoratori a quelli dell’azienda e dell’economia capitalistica.

La Fiom e tutto l’opportunismo politico e sindacale spende fiumi di parole e inchiostro cianciando di nuovi modelli di sviluppo “declinati” – come piace dir loro – secondo la moda politica del momento (oggi è in voga la green economy) ma tutti ortodossi rispettosi del capitalismo, del suo nucleo vitale: il lavoro salariato.

Tranne, quando viene comodo, ripescare dal cappello senza vergogna la menzogna di un socialismo che sarebbe – come nell’URSS da Stalin in poi – la proprietà statale dei mezzi di produzione conservando il lavoro salariato e quindi l’accumulazione del capitale: cioè il capitalismo di Stato.

Ma quando si tratta di scegliere – terra terra – fra difesa o riduzione del salario, fra riduzione dell’orario di lavoro o incentivo al suo aumento con la detassazione dello straordinario, fra difesa dallo sfruttamento o aumento della produttività, allora i modelli di sviluppo restano nel “regno della teoria” – che per l’opportunismo è sempre un “regno dei cieli” separato dalla pratica utile solo a coprirne, come foglia di fico, le vergogne – e fra bisogni dei lavoratori e quelli del capitale sono inesorabilmente i primi ad essere sacrificati.

Come recita un recente comunicato ufficiale sull’accordo alla KME: «la Fiom non si nasconde mai rispetto alla realtà della condizione data». La condizione data, per l’opportunismo, è sempre la conservazione del capitalismo.

Prigionieri della Fincantieri

Con gli ultimi accordi ai cantieri navali di Castellammare di Stabia e di Sestri Ponente si chiude il cerchio dell’offensiva aziendale iniziata a maggio 2011 con la presentazione del piano industriale: l’azienda annunciava 1.500 esuberi e la chiusura di due degli otto cantieri, appunto Castellammare e Sestri Ponente.

La Fiom da un lato proclamava di voler condurre una trattativa unica per i lavoratori del gruppo, dall’altro lasciava a ciascun cantiere decidere come, quando e quanto scioperare. In questo modo disarticolava e indeboliva lo sciopero, preparando le condizioni per l’apertura di trattative separate.

Gli operai dei cantieri da chiudere si impegnavano in molte ore di sciopero, ma restavano isolati rispetto ai cantieri più produttivi (Marghera e Monfalcone) dove si facevano scioperi simbolici di poche ore e dove più efficace sarebbe stato lo sciopero per il maggiore danno all’azienda.

In questo modo i delegati Fiom facevano bella figura là dove gli operai lottavano di fronte alla minaccia del licenziamento, mentre laddove il cantiere risultava “sicuro” assecondavano l’interesse egoistico e miope dei lavoratori meno coscienti a non perdere salario scioperando.

Il nostro volantino agli operai del cantiere di Sestri Ponente in sciopero spiegava: «Lavoratori! Ogni lotta non è mai una questione “privata” dei dipendenti di un singolo stabilimento, azienda o categoria, perché il livello delle condizioni di vita e di lavoro di una parte della classe lavoratrice influenza sempre, in meglio o in peggio, le condizioni di tutti i proletari... La vostra lotta potrà vincere solo se riuscirete ad allargare il fronte dello sciopero al di fuori del cantiere, con una mobilitazione il più generale possibile, che colpisca non solo i profitti di Fincantieri ma anche quelli del resto del padronato. La vostra parola d’ordine deve essere: sciopero a oltranza in tutti i cantieri d’Italia, sciopero generale nazionale dei metalmeccanici, e in città sciopero generale di tutte le categorie!... Impostare tutta la lotta contro la “chiusura del cantiere” significa imboccare la strada del “ciascuno per sé”: gli operai di Castellammare lottano contro la chiusura del “loro” cantiere, quelli di Sestri Ponente per il “loro”. In questo modo si va dritti in bocca all’azienda che mette in concorrenza gli operai dei diversi cantieri per sconfiggerli uno ad uno. Una volta per tutte: o si vince tutti o si perde tutti! La vostra lotta deve intanto essere contro la chiusura di tutti i cantieri, contro ogni licenziamento e per la distribuzione del lavoro fra tutti gli operai».

Nonostante la direzione della Fiom avesse disarticolato e indebolito la lotta, il 3 giugno 2011 Fincantieri ritirava il piano industriale. La Fiom usava toni trionfalistici, ma i lavoratori andavano invece messi in allerta a non cadere in facili illusioni. Il nostro volantino di commento al ritiro del piano era titolato “Operai Fincantieri! La vostra vittoria insegni e prepari voi e tutti i lavoratori alle sempre più dure battaglie del prossimo futuro: solo la lotta paga, solo sulla vostra forza dovete contare!”. In esso dicevamo: «Nove giorni di scioperi quasi quotidiani nei cantieri di Sestri Ponente, Riva Trigoso e Castellammare di Stabia hanno piegato la Fincantieri... Ma questa vittoria è solo una tregua d’armi... Presto Fincantieri tornerà all’attacco e probabilmente, fallito il tentativo di chiudere parte dei cantieri, chiederà invece più lavoro per meno salario. Il ricatto sarà quello di sempre: se volete tenere aperta la fabbrica, se davvero volete difendere il cantiere, allora dovete aumentare la produttività, far diventare l’azienda più competitiva, accettare di aumentare il vostro sfruttamento. Esattamente come a Pomigliano e Mirafiori... Se oggi la lotta “in difesa del cantiere” ha fermato i licenziamenti, domani con questa parola d’ordine sarete deboli di fronte alla richiesta di peggiorare ancora le vostre condizioni».

Quattro mesi dopo, a settembre, a Monfalcone, Fim, Uilm, la Fiom provinciale e i suoi delegati RSU siglavano un accordo per 300 esuberi e maggior produttività. In questo modo usciva dalla lotta il cantiere più importante del gruppo, il punto di maggior forza degli operai, e si apriva la strada alla corsa ad accordi per stabilimento.

La Fiom nazionale sottolineava come «accordi di questo tipo consentono alla direzione del Gruppo di attuare, cantiere per cantiere, il piano di tagli e chiusure respinto attraverso la mobilitazione congiunta di tutti i lavoratori del Gruppo e ritirato dall’Azienda il 3 giugno 2011». Ma quella mobilitazione solo apparentemente era stata congiunta. Né le critiche della Fiom nazionale all’accordo di Monfalcone avrebbero condotto ad alcuna decisione pratica conseguente.

A ottobre era siglato l’accordo per i cantieri del Muggiano (La Spezia) e di Riva Trigoso (Sestri Levante, Genova), senza la firma della Fiom, la cui RSU però si spaccava a Riva Trigoso, con le dimissioni di tre suoi componenti.

Il 21 dicembre 2011 l’azienda riprendeva l’iniziativa e firmava un accordo separato con Fim, Uilm e Failms che prevedeva 1.243 esuberi, esclusi i cantieri di Castellammare e Sestri Ponente sul cui destino l’accordo non diceva nulla, se non che per tutti gli operai era richiesta la CIGS per riorganizzazione aziendale.

Ripartivano gli scioperi, meno uniti di quelli del maggio visti gli accordi a Monfalcone, Riva Trigoso e Muggiano. Come se non bastasse la Fiom siglava accordi unitari ai cantieri di Palermo e Ancona (12 gennaio 2012) dimostrando di che pasta erano fatte le critiche all’operato della RSU Fiom di Monfalcone e la proclamata intenzione di condurre una trattativa unica per tutto il gruppo. Giustamente, se non vi è lotta unita non può esservi trattativa unita!

Restavano i due cantieri di Sestri Ponente e Castellammare: guarda caso i due per i quali l’azienda aveva annunciato la volontà di chiusura. A Genova, dopo circa dieci giornate di sciopero ed episodi di tensione coi capi Fim e Uilm, la Fiom annunciava il 25 gennaio una tregua di tre settimane che in realtà era solo un modo per mascherare l’intenzione di non portare oltre la lotta.

Certo, gli operai del cantiere di Sestri Ponente erano ormai isolati, in compagnia solo con quelli di Castellammare, ma la Fiom locale non aveva fatto nulla per rompere questo isolamento, non rivolgendo alcuna critica od appello alla Fiom nazionale, né mobilitando gli altri operai metalmeccanici della provincia, se si escludono ben... due ore di sciopero!

Un sindacato di lotta non fa scioperi di due ore. Le condizioni per uno sciopero generale metalmeccanico in città erano presenti, perché la lotta Fincantieri era sentita fra i lavoratori di tutte le categorie. Un sindacato di classe non avrebbe perso l’occasione di raccogliere questo clima per chiamare allo sciopero di solidarietà gli altri operai metalmeccanici e, se possibile, anche i lavoratori delle altre categorie, affermando che lo stesso si sarebbe potuto fare ogni qual volta altre fabbriche o aziende avessero minacciato chiusura e licenziamenti.

Inoltre, il principale delegato Fiom della Fincantieri di Sestri Ponente appartiene allo stesso gruppo politico dell’allora segretario provinciale della Fiom, che controlla anche la Cooperativa dei lavoratori portuali (la CULMV). Quindi, se non fosse per l’opportunismo di questo gruppo, che cerca di scalare le gerarchie della Cgil a colpi di... ossequio alla politica del sindacalismo di regime, vi sarebbe stata la possibilità di allargare lo sciopero anche oltre la categoria.

Invece il 15 febbraio era siglato anche per Sestri Ponente un accordo unitario:
     - la RSU si dichiarava disponibile ad «assicurare il massimo impegno nella direzione del coinvolgimento delle risorse [cioè dei lavoratori], per favorirne una prestazione migliorata in termini di partecipazione, durata, esecuzione e continuità... anche attraverso una migliore organizzazione del lavoro». Questo impegno è stato subito reso operativo da parte della Fiom di fabbrica non facendo alcuna opposizione al lavoro su tre turni, al massimo ricorso agli straordinari e all’impiego degli operai per più mansioni oltre a quella per cui erano stati sino ad allora assegnati per recuperare il tempo “perduto” con i precedenti scioperi;
     - erano confermati i 330 esuberi «sulla base del criterio della non opposizione», cioè “volontari”, fatto questo, con cui la Fiom li giustifica. Ciò comporterà il maggior sfruttamento degli operai che restano e con la loro maggior debolezza in ragione della diminuzione del loro numero, e a discapito anche dei lavoratori disoccupati.
     - infine era confermata la CIGS come stabilita dall’accordo separato del 21 dicembre 2011.

Questa dunque la strategia della Fiom, partita col proclamare l’unità... della trattativa, e arrivata a difendere gli accordi cantiere per cantiere.

Va inoltre sottolineato il completo abbandono dei lavoratori delle ditte in appalto, il maggior numero delle maestranze in buona parte del processo produttivo. Questa è la più grave divisione assecondata dall’azione sindacale della Fiom.

L’accordo di Castellammare di Stabia

Restava solo Castellammare di Stabia, dove gli operai, messi tutti in CIGS, un anno dopo erano posti di fronte al solito ricatto: o la chiusura della fabbrica o lavorare di più, in meno operai e per meno salario.

E la Fiom ha accettato. Il 1° febbraio 2013 è stato firmato l’accordo alla Fincantieri di Castellammare di Stabia. L’11 febbraio un referendum lo ha approvato col 66,3% di voti favorevoli. Al referendum alla FIAT di Pomigliano (il 22 giugno 2010) i “sì” erano stati il 62,2%, pochi meno. Allora la Fiom definì quel referendum un ricatto perché l’azienda aveva minacciato la chiusura dello stabilimento in caso di rifiuto dell’accordo. Identico ricatto vi era a Castellammare, ma qui il padrone è lo Stato capitalista – tante volte invocato dall’opportunismo quale padrone migliore del privato – e l’accordo è stato approvato da tutti i delegati Fiom, compreso quello appartenente alla Rete 28 Aprile.

Ne riportiamo i contenuti principali:
     - Per ciò che riguarda i carichi e i ritmi di lavoro: «integrazione, accorpamento ed esternalizzazione di attività (...) Massima mobilità all’interno dei Centri e delle Officine oggetto della riorganizzazione (...) Recupero del rapporto fra orario offerto e orario lavorato (...) Regolazione più puntuale della pausa mensa (...) Impegno a favorire la necessaria flessibilità nell’utilizzo della prestazione (...) Adeguamento delle professionalità alle esigenze di polivalenza o multi-job richieste dal modello produttivo». Lo stesso lavoro sarà fatto con meno operai che saranno formati per svolgere anche più mansioni (polivalenza) in modo da saturare i tempi riducendo al minimo le pause. Per i lavoratori più sfruttamento da un lato, più disoccupazione dall’altro. Per il Capitale migliora il saggio del profitto.
     - Per quanto riguarda l’orario sarà applicato il cosiddetto plurisettimanale: già introdotto dal Ccnl metalmeccanico del 2008 (l’ultimo unitario Fim, Fiom, Uilm) il quale prevede che le 40 ore settimanali (8 ore al giorno) siano calcolate su una media di 12 mesi, in modo che si possa variare da un minimo di 32 a un massimo di 48 ore settimanali, senza che le 8 ore in più siano pagate come straordinario. Più profitto per il Capitale, meno salario per i lavoratori. L’orario plurisettimanale è stato confermato identico nei Ccnl separati metalmeccanici dell’ottobre 2009 e del dicembre 2012, attualmente in vigore. Ma l’accordo di Castellammare li supera perché prevede che la media sia fatta non su 12 ma su 24 mesi!
     - Ancora con riguardo all’orario l’accordo prevede la possibilità di lavorare 6 ore per sei giorni con pausa a fine turno. Per “difendere il cantiere” passa in cavalleria l’ovvietà che dopo 4 ore di lavoro sia necessario riposarsi.
     - Infine, «Tali modalità organizzative consentono l’effettiva riduzione del numero di eccedenze portandole da 290 a 270 unità». Bella menzogna. Gli esuberi sono facilitati e non ridotti dall’aumento della produttività, dell’efficienza, dello sfruttamento. 20 licenziamenti in meno, portando il numero delle maestranze da 608 a 338, sono la misera moneta di scambio per quanto ottenuto dall’azienda, la foglia di fico della Fiom.

La Fiom nazionale, come fece per quello a Monfalcone del settembre 2011, ha criticato questo accordo, ma non perché divide e immiserisce i lavoratori aumentando la disoccupazione, lo sfruttamento, la concorrenza al ribasso fra i cantieri, demolendo il contratto nazionale, bensì solo perché è previsto un ruolo solo consultivo della RSU! In pratica per la Fiom tutto può essere concesso all’azienda, purché sia deciso di concerto con essa!

L’accordo a Sestri Ponente

Due mesi dopo, il 5 aprile 2013, l’accordo di Castellammare è stato siglato quasi identico da Fim, Fiom e Uilm a Sestri Ponente, definendo 180 esuberi, rispetto ai 330 dell’accordo del 15 febbraio 2012 (non sappiamo quanti hanno accettato l’esodo in questi 14 mesi).

Ci pare esaustivo il commento del bonzo della Fim: «È il secondo accordo su due tentativi che viene chiuso unitariamente a livello locale, aggiungendo flessibilità alle quantità previste dal CCNL firmato da FIM e UILM. Come dire che, differentemente da quanto dichiara la FIOM nazionale, il nostro contratto unisce, e la carta rivendicativa FIOM è sempre più carta straccia, stracciata dalla stessa FIOM a livello locale»!

Dopo la produzione, iniziata a ottobre 2012, di una chiatta di circa 10.000 tonnellate di stazza (in media una nave da crociera è di 100.000 t), che ha occupato circa metà della forza lavoro del cantiere, vi è la promessa di una commessa per una nave da 45 mila tonnellate.

La Fiom canta vittoria perché tante ore di sciopero hanno ottenuto una nuova commessa, come se per l’azienda costruire una nave fosse un sacrificio e non una fonte di profitto, ancor maggiore ora grazie al più intenso sfruttamento degli operai garantito dal nuovo accordo.

Per “difendere il cantiere” la Fiom ha fatto scioperare molte ore gli operai. Nemmeno un’ora di sciopero è stata fatta per strappare un accordo meno schifoso di quello appena siglato. La “difesa del cantiere” ha portato più profitto all’azienda, meno salario, più sfruttamento e disoccupazione agli operai.

La Fiom naturalmente sostiene che di meglio non si poteva ottenere, che l’alternativa era la chiusura. In sostanza si fa forte del ricatto aziendale: o così o la disoccupazione. Quanto sopra descritto mostra chiaramente come la Fiom non lavora per spezzare questo ricatto, unendo i lavoratori nella lotta al di sopra dei confini, utili solo al padrone, dello stabilimento, dell’azienda e della categoria, ma avalli, aggravi e puntelli con la sua azione queste divisioni.

I lavoratori per ricostruire la loro unità d’azione dovranno rompere la cappa di piombo del sindacalismo di regime, compreso quello verniciato di rosso.
 
 
 
 
 
 

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Torna la crisi in Argentina, con gli interessi

Le brevi e scarse notizie che di tanto in tanto circolano sulla crisi economica argentina hanno sempre un’impostazione sensazionalistica e altalenante: si va dal grande boom economico in corso alle grandi manifestazioni di piazza contro il caro vita e il mal governo, dagli indici economici alla “cinese”, ma non riconosciuti dalle organizzazioni statistiche internazionali perché ritenuti “taroccati” dal governo, alla ventilata minaccia di riaprire l’annosa questione delle Malvinas-Falkland ecc.

Quello che ha fatto indignare di più l’internazionale popolo dei “tagliatori di cedole”, quello italiano particolarmente interessato vista la massa dei “tango bond” detenuti e non ancora esigibili, è stato il suggerimento della presidente “peronista” argentina Cristina Kirchner ai governanti greci in merito al loro debito pubblico: fate come noi, non pagatelo e uscite dall’euro!

Una furiosa videoconferenza con la neo eletta presidente del FMI, la francese Christine Lagarde, sull’argomento del rimborso dei titoli argentini congelati o rifinanziati, ha momentaneamente infiammato i media, per presto scomparire.

In un “tweet”, cioè in una dichiarazione sul suo sito internet, del 3 febbraio la Kirchner fa ancora demagogia populista, che colà si chiama peronismo, bolivarismo, ecc.: «Preferisco avere un’inflazione altissima e spropositata se so che la disoccupazione dal 34% è scesa al 3,5%; che la povertà è diminuita del 55%; che il Pil viaggia di un +8% annuo; che la produttività industriale è aumentata del 300%; che c’è lavoro in Argentina, c’è mercato per tutti, e il mio popolo è molto ma molto più felice di prima, piuttosto che avere un’inflazione del 3% come in Italia, dove c’è depressione, disperazione, avvilimento e l’esistenza delle persone non conta più. E questa è un’affermazione politica. Di principio e sostanziale. Non lo ha ancora capito?». Questi dati statistici però, dobbiamo aggiungere noi, provengono del “suo” istituto di statistica nazionale, l’INDEC, il cui presidente è il ministro dell’economia del suo governo!

La crisi e il fallimento

Il nostro precedente studio economico su quel paese, “Crisi sociale e patacones governativi” nei numeri 287-289 (2002) di questo giornale, descriveva le sue crisi storiche partendo dal periodo dello sfruttamento coloniale spagnolo fino a quella che si stava consumando in quei turbolenti anni.

In estrema sintesi: il lungo periodo delle dittature militari che hanno governato e insanguinato l’Argentina per decenni, ha fine dopo la dissennata invasione delle Malvine-Falkland nel 1982, lontano arcipelago nell’Atlantico australe sotto il domino inglese dal 1833 ma rivendicato dall’Argentina, e la dura sconfitta militare inflittale dal Regno Unito. Fu chiaro a tutti che tale impresa, che puntava su un esasperato nazionalismo, veniva usata come diversivo per nascondere la grave crisi del regime, costretto poi a cedere il passo. Il regime nuovo democratico, iniziato con libere elezioni nel 1983, adottò indirizzi economici basati su diversi compromessi tra politiche neoliberiste e mantenimento di uno stato sociale di stampo peronista, iniziando però a privatizzare le più importanti imprese pubbliche, tra cui gas e petrolio, concesse a prezzi irrisori ad affaristi di ogni dove, tenendo conto che la casta militare deteneva ancora un sensibile seguito politico e potere anche in campo economico.

Il risultato di quella politica economica e monetaria fu un vero disastro, accentuato dal crollo dei prezzi delle materie prime esportate, dalle quali si ricavavano le maggiori entrate, che non compensavano più le massicce importazioni di beni di consumo e mezzi di produzione che la produzione locale non era in grado di fornire. Ciò avveniva sullo sfondo internazionale delle crisi valutarie del 1992 in Europa e in Giappone, del crollo del Messico del 1994 – la sua ricaduta su altre economie sudamericane fu chiamata “effetto Tequila” – nel crollo della Russia del 1997 e nella profonda crisi delle Tigri asiatiche del 1997/98.

Il debito estero argentino dal 1983 in un decennio quadruplicò; il Paese divenne insolvente nei confronti dei creditori internazionali; le riserve auree della banca centrale si svuotarono; i risparmiatori acquistarono dollari, scambiati con un’artificiosa e irreale parità di cambio col peso, vuotando le riserve in dollari del Banco Central; si intensificarono i massicci trasferimenti di denaro privato verso la Spagna e la Svizzera.

La parità col dollaro era stata introdotta, sull’esempio del Brasile, nonostante i modesti scambi commerciali tra i due paesi, allo scopo di frenare la svalutazione interna, ma bloccava le sue esportazioni. Si invertì il flusso degli investimenti esteri nel paese; infine le banche bloccarono i depositi dei clienti, che potevano ritirare solo 250 pesos la settimana.

La corruzione dilagava. Ogni giorno fallivano grandi e piccole imprese; la disoccupazione cresceva di conseguenza: in pochi anni il 60% degli argentini precipitò sotto la soglia della povertà e il 20% si trovò nella miseria più assoluta.

Tutti gli interventi economici ottenuti dal FMI furono, come al solito, vincolati a forti riduzioni della spesa pubblica in ambito di sostegno alla fasce più deboli e alla drastica riduzione, praticamente l’eliminazione, di quel che rimaneva dello Stato sociale. Si imposero anche ulteriori privatizzazioni come garanzia dei grandi investitori stranieri, tra cui importanti banche italiane che hanno rivenduto le obbligazioni dello Stato argentino ai loro clienti.

Tra brevi e fiacche riprese e crisi sempre più profonde si giunge al 2001 quando il presidente De la Rua è costretto a fuggire in elicottero dalla Casa Rosada sotto la pressione popolare; nell’arco di meno di un mese gli succedono ben cinque presidenti.

Il nuovo esecutivo varò un pacchetto di misure per il “deficit zero”: il pareggio tra gli incassi e le spese dello Stato comportò tagli a stipendi e pensioni. Nonostante questi provvedimenti e data l’insostenibile situazione economica, il governo nei primi giorni del 2002 fu costretto a sganciare il cambio del peso dal dollaro, dopo 10 anni di parità, e a svalutare il peso con una perdita immediata del 70% rispetto al dollaro. I conti nominati in dollari depositati nelle sue banche furono convertiti in pesos svalutati: ci furono mostrate le code dei risparmiatori davanti alle banche per cercare di ritirare i depositi. Lo Stato dichiarò di non essere in grado di rimborsare i prestiti internazionali, equivalenti a 94,3 miliardi di dollari.

Il fallimento, il “default”, dell’Argentina era una realtà. Fu “presa in carico” dalla finanza internazionale allo scopo di salvare il salvabile dei suoi investimenti, e al tempo stesso di permettere allo Stato debitore di riprendere a produrre per pagare quei debiti.

Ovviamente sulle spalle dei lavoratori argentini, che saranno sottoposti ad ulteriore sfruttamento: non sono gli spericolati artifici della “finanza creativa” a far nascere ricchezza, solo il lavoro genera nuovo valore. La parte di lavoro non pagato agli operai, il plusvalore, trattenuto dai capitalisti è servito, in questo caso, a ripianare i conti in rosso: più sfruttiamo, prima ne usciamo! I salari, infatti, rimasero bloccati a prima della svalutazione.

Nello stesso anno la crisi si espande anche al vicino Uruguay.

Fu ritenuta la più grande operazione di ristrutturazione di un debito della storia: interessava il 53% del debito del Paese con titoli collocati in 152 emissioni, effettuate in 7 valute diverse e detenuta da 700mila soggetti diversi. Vista la sua complessità intervennero 7 gruppi bancari stranieri e 3 locali per mediare coi diversi detentori dei titoli e come garanzia furono bloccati tutti i loro depositi e crediti esteri.

Il 22 settembre 2003 il governo argentino comunicò il piano di ristrutturazione del debito, in conformità a quanto discusso alla riunione del FMI tenuta a Dubai due settimane prima: ai detentori dei titoli del debito era offerto il rimborso, tramite nuove emissioni, di solo il 25% dei titoli in default e la cancellazione degli interessi su quei titoli dal gennaio 2012, equivalenti a ben 11 miliardi di dollari. Ai creditori fu offerto un piano peggiore rispetto a quello per il fallimento della Russia del 1998, che rimborsò il 35% del debito, o dell’Ecuador nel 2000 che ne rimborsò il 40%.

Ovviamente quest’offerta fu rifiutata dai detentori dei titoli sottoposti a sospensione di pagamento, che per loro significava, in effetti, un mancato rimborso del 90% del valore totale comprensivo di interessi e quota capitale; inizia così un lungo contenzioso sulle rettifiche al piano, nonché azioni giudiziarie di varie associazioni di creditori, specialmente in America, che non si sono ancora concluse.

La ripresa

La ripresa dell’economia argentina si ha per una serie di congiunture favorevoli. Per primo, non pagando più i debiti internazionali, le deboli risorse rimaste poterono essere impiegate nel risanamento economico e produttivo; secondo, la forte svalutazione del peso favorì l’esportazione delle materie prime, cereali, lana, carne, petrolio, fortemente richieste dalla dirompente economia cinese e indiana, che divennero i primi compratori della “super-soia” transgenica argentina e dei suoi derivati.

Nel 2010 la produzione di soia argentina, primo produttore mondiale, è stata di 24.952 milioni di tonnellate, seguono il Messico con 13.668 e gli Stati Uniti con 8.355. In pochi anni il prezzo, più che triplicato, generò grande afflusso di valuta estera, specialmente dollari ed euro, mentre il peso andava lentamente rivalutandosi sul dollaro, segno del miglioramento economico.

Presto ci sarà il problema dell’esaurimento del suolo legato alla monocoltura intensiva, ma al capitalismo interessa solo il profitto “tutto e subito” e del domani niente importa. Solo il comunismo pianificherà le produzioni necessarie al sostentamento secondo un attento piano di specie.

Il grande avanzo commerciale ha permesso nuovo sostegno allo Stato sociale e incentivi alla reindustrializzazione, con ripresa delle importazioni e il ritorno degli investimenti esteri, affidando a maggiori “controlli” il compito di evitare o contenere le “speculazioni”.

Le riserve del Banco Central nel 2005 raggiunsero i 28 miliardi di dollari, permettendo di rimborsare nel gennaio del 2006 una prima parte del suo vecchio debito “scontato”. Sempre in quell’anno il governo argentino dichiarò all’improvviso di poter pagare, tramite le sue riserve di valuta, l’intero debito verso il FMI di 9,8 miliardi di dollari, per evitare rinegoziazioni e aver maggiore indipendenza da esso.

Secondo le statistiche ufficiali argentine (INDEC) leggiamo la tabella di marcia di questa ripresa attraverso l’andamento del Pil, che sarebbe aumentato dell’8,8% nel 2003, del 9,0% nel 2004, del 9,2% nel 2005, dell’8,5% nel 2006 e dell’8,7% nel 2007.

I salari aumentarono a una media del 17% annuo, ma con un’inflazione media del 14% ben poco rimaneva ai lavoratori.

La distribuzione della ricchezza vedeva il 10% più ricco della popolazione avere un reddito 31 volte maggiore del 10% più povero. Tutto regolare nel capitalismo, anche se d’ispirazione peronista!

Sempre dai loro dati statistici, riportati da uno studio dell’ambasciata italiana nel paese – prima che l’Economist nel 2012 dichiarasse di non pubblicare più le statistiche ufficiali argentine perché in netto contrasto con analoghe di istituti indipendenti e sospettate di essere volutamente e fortemente corrette al meglio – proseguiamo con i numeri.

Nel 2009 il Pil sarebbe stato di 307 miliardi di dollari, che cresce a 368 nel 2010, cresce ancora a 401 nel 2011, mentre per il 2012 era prevista la cifra di 420 miliardi di dollari. Di conseguenza anche il Pil pro-capite salirebbe: 7.643 dollari, poi 9.092, poi 9.900 e stimato a 10.200 nel 2012.

La crescita del Pil reale, sull’anno precedente, parte dal +0,90% nel 2009, +9,2% nel 2010, inizia a scendere a +8,8% nel 2011 ed è previsto +4,6% nel 2012, segno dell’inizio del rallentamento. Infatti, la bilancia commerciale ha quest’andamento: nel 2009 segna 16.886 miliardi di dollari di attivo, che scendono a 11.630 nel 2008, poi ancora 10.347 l’anno dopo ed è stimata a 7.000 nel 2012.

La crisi mondiale, con il forte rallentamento dei capitalismi più forti, determina la netta caduta di richiesta di materie prime e il crollo delle esportazioni dall’Argentina, sua vera unica forza economica.

L’andamento dei consumi privati ne ha risentito in questa misura: +0,8% nel 2009 rispetto l’anno precedente; +9,1% nel 2010; +9,5% nel 2011 e previsto +5,0% nel 2012. Il debito pubblico sale considerevolmente con quest’andamento: 147,1 miliardi di dollari nel 2009; 164,3 l’anno successivo; sale ancora a 175,3 nel 2011 ed è stato stimato in 180 per il 2012.

Gli investimenti diretti stranieri parlano di 12.063 miliardi di dollari nel 2009 e di 13.392 l’anno dopo, poi non ci sono più dati certi, soprattutto dopo la nascita della nuova compagnia petrolifera YPF (Yacimentos Petroliferos Fiscales) sorta dopo la nazionalizzazione unilaterale della spagnola Repsol, definita però da tutti “espropriazione illegittima” che ha messo in serio allarme gli investitori stranieri. Non fu una brillante operazione finanziaria perché per sostenere gli alti costi di esercizio il governo dovette attingere ai fondi pensione dei contribuenti.

Verso nuove crisi

Questi sono evidenti segni che è prevista un’altra grande crisi che, se solo accennata nelle statistiche, è invece ben presente nelle cronache che ci mostrano le piazze di Buenos Aires nuovamente piene di manifestanti che protestano per le loro infelici condizioni, nonostante i pomposi e arroganti “tweets” e statistiche della Kirchner, che non fanno altro che confermare i sospetti dell’Economist! Come dobbiamo considerare quelle statistiche che ci parlano di un tasso di disoccupazione che scende dal 25% del 2002 all’attuale 7,1% e il reddito medio pro-capite salito dai 2.670 dollari del 2001 agli attuali 7.400 se una folla di 200 mila inferociti il 13 settembre scorso ha affrontato i manganelli, i lacrimogeni e gli assalti della polizia in Plaza de Mayo?

Al momento la crisi reale è affrontata con la solita ricetta del nazionalismo, rispolverando la questione delle Malvinas-Falkland, un po’ di populismo peronista, con la ripresa del completo controllo del Banco Central, che quindi trasferisce i debiti al governo o stampa denaro secondo le volontà del governo stesso, e qualche nazionalizzazione qua e là cercando di non colpire troppo a fondo gli espropriati i quali non possono far altro che aspettare una futura resa dei conti.

Ma le cose si complicano anche sul piano internazionale perché i grandi investitori stranieri non si sono scordati dei loro crediti e dopo la temporanea moratoria, sono tornati con forza all’attacco per ottenere altri rimborsi. Questo nonostante che il FMI avesse mantenuto da anni un atteggiamento favorevole verso l’Argentina, com’è emerso da un’inchiesta indipendente, richiesta dallo stesso FMI, chiamata a valutare l’operato del consiglio direttivo del FMI, segno che ci sono forti contrasti in merito alla gestione della vicenda.

La nuova presiedente del FMI, Lagarde, ha cambiato completamente l’atteggiamento del Fondo verso l’Argentina, emettendo una “dichiarazione di censura” verso quel paese, intimando di correggere ”le inesattezze sugli indici di inflazioni ufficiali” entro il 29 settembre 2013, dopo di che ha minacciato la possibile espulsione dal FMI, con la perdita degli “aiuti”, che sono la loro unica fonte di credito internazionale.

Inoltre, secondo la Commissione europea, la finanziaria Clearstream, che gestisce quasi in regime di monopolio il mercato di quei fondi in Europa, avrebbe operato come “camera di compensazione” nella gestione dei titoli che finanziavano il debito pubblico e privato argentino attraverso un sistema illegale di conti segreti, molti dei quali riconducibili all’americana Citybank che possedeva una larga parte del debito privato argentino. Da lì l’ipotesi di evasione fiscale a livello globale e riciclaggio di denaro.

La Elliot Capital Management, una finanziaria con sede legale nel paradiso fiscale delle Isole Cayman specializzata nel mercato dei “fondi avvoltoio”, cioè l’acquisto a prezzi stracciati di titoli praticamente non esigibili come quelli argentini, sia nel 2002 sia nel 2010 ne aveva rifiutato la “ristrutturazione”, cioè il rimborso parziale, accettato dal 92% dei creditori, procedendo indipendentemente per vie legali. Ha richiesto il pagamento per intero dei suoi crediti e ha perseguito il suo scopo in diversi tribunali del mondo riuscendo ad ottenere pochi mesi fa da un tribunale del Ghana il sequestro di una nave militare argentina agli ormeggi nel porto di Accra. Successivamente un giudice del tribunale di New York ha condannato il governo argentino a pagare 1,3 miliardi di dollari alla Elliot C.M., corrispondenti al valore per intero dei titoli più gli interessi maturati dal 2001. La sentenza, che favorisce la Elliot C.M. rispetto gli altri creditori nell’agenda dei rimborsi, è stata subito impugnata sia dall’Argentina sia dagli altri creditori. Se passasse quella motivazione anche nel recente caso della ristrutturazione del debito greco si potrebbero invocare due pesi e due misure.

Lasciando da parte le manovre degli avvoltoi della finanza, i pochi ma significativi dati prima presentati rivelano che il tanto declamato boom argentino è terminato, la precedente crisi non si è pienamente conclusa e si sta per ripresentare con gli interessi maturati e, sull’onda della generale crisi economica mondiale, non è da escludere che precipiti il paese in una crisi ancora peggiore della precedente trascinando nel crollo, con effetto domino, anche parte dei suoi creditori.

Il proletariato argentino per spezzare le catene che lo opprime, tanto economiche quanto ideologiche, nazionalismo e peronismo compresi, dovrà collegarsi al suo partito di classe rivoluzionario e unire la sua lotta con quella del proletariato di tutta la terra, per abbattere il capitalismo e le classi che lo sostengono.
 
 
 
 
 
 
 

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

(Continua dal numero scorso, e completa il Capitolo: La nuova funzione delle banche)

Prosegue Lenin:

     «Ma precisamente nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Quando la banca sconta le cambiali di un dato industriale, gli apre un conto corrente, ecc., queste operazioni, considerate isolatamente, non diminuiscono di uno iota l’indipendenza di quell’industriale, e la banca resta nei modesti limiti di un’agenzia di mediazione. Ma non appena tali operazioni diventano frequenti e si consolidano, non appena la banca “riunisce” nelle sue mani capitali enormi, non appena la tenuta del conto corrente di un dato imprenditore mette la banca in grado di conoscere, sempre più esattamente e completamente, la situazione economica del suo cliente – e questo appunto si va verificando – allora ne risulta una sempre più completa dipendenza del capitalista-industriale dalla banca.
     «Nello stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori delle banche nei Consigli di amministrazione delle imprese industriali e commerciali, e viceversa».


7. Il capitale finanziario

C’è un nesso evidente tra il processo di concentrazione e di centralizzazione dei capitali, ossia della formazione dei monopoli, e la loro crescente dipendenza dal mondo della finanza. Le risorse finanziarie eccedenti quelle aziendalmente disponibili per l’accumulazione vengono fornite dal mercato internazionale dei capitali a condizione che dalle politiche industriali derivino profitti adeguati al capitale investito. È facile capire come, in questo modo, il controllo dei progetti e delle strategie d’impresa passi dai decisori aziendali ai famosi “mercati”. Lenin afferma che l’imperialismo è il dominio del capitale finanziario su tutte le altre forme di capitale:

     «In generale il capitalismo ha la proprietà di separare il possesso del capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di separare il capitale-denaro dal capitale industriale o produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del reddito tratto dal capitale-denaro, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire il dominio del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi. La supremazia del capitale finanziario su tutte le rimanenti forme del capitale significa l’egemonia del rentier e dell’oligarchia finanziaria, significa una situazione privilegiata per un piccolo numero di Stati finanziariamente più “solidi” degli altri.
     «In quali proporzioni si verifichi tale processo ci è dimostrato dalla statistica delle emissioni di titoli di ogni specie (...) Ci si accorge subito da questi dati quanto sia netto il distacco tra i quattro paesi capitalistici più ricchi, che posseggono titoli per un importo di circa 100-150 miliardi di franchi ciascuno, e gli altri paesi. Tra quelli, due sono i paesi capitalistici più ricchi di colonie, cioè l’Inghilterra e la Francia; gli altri due sono i paesi capitalistici più progrediti in rapporto alla rapidità di sviluppo e all’ampiezza di diffusione del monopolio capitalistico nella produzione, cioè gli Stati Uniti e la Germania. Questi quattro paesi insieme posseggono 479 miliardi di franchi, vale a dire circa l’80% del capitale finanziario internazionale. Quasi tutto il resto del mondo, in questa o quella forma, fa la parte del debitore o del tributario di questi Stati, che fungono da banchieri internazionali di queste quattro “colonne” del capitale finanziario mondiale».


8. Esportazione di capitale

Lenin spiega come all’inizio del XX secolo l’esportazione dei capitali abbia raggiunto punte spettacolari soprattutto nei tre principali paesi: l’Inghilterra (che nel 1910 destinava i suoi capitali per una metà alle imprese industriali americane e per l’altra metà alle sue colonie d’oltremare), la Francia (i cui prestiti statali erano diretti soprattutto alla Russia: tipico caso di capitalismo usuraio) e la Germania (che, essendo povera di colonie, divideva equamente i suoi capitali tra l’America e l’Europa).

Nella precedente epoca del capitalismo concorrenziale ogni impresa era spinta a produrre al più basso costo possibile e a vendere la massima quantità di merci, cioè ad estendere il mercato perché l’esportazione di merci ha l’assoluta preminenza economica; data la bassa composizione organica del capitale, i saggi di profitto non presentano grandissime differenze.

Ma la concorrenza porta all’aumento della composizione organica, alla diminuzione del saggio di profitto e all’aumento del divario tra i profitti nei diversi paesi, cioè tra i paesi avanzati capitalisticamente e quelli arretrati. Nei primi, ad un certo momento, il saggio di profitto diminuisce al punto da far diminuire gli investimenti e provocare la stagnazione. La lotta per la concorrenza si acuisce e per ciascun capitale diventa questione di vita o di morte allargare i mercati a scapito degli altri, sia come sbocco della produzione sia come fonte di materie prime.

La borghesia monopolistica, avendo a disposizione una pletora di capitali che cercano nuovi campi di investimento, non è più affamata di nuovi capitali, è affamata di sovraprofitti. Non dispone più del monopolio della produttività che le assicuri la conquista “pacifica” dei mercati mondiali, ma deve fare i conti con concorrenti che producono in condizioni di produttività identiche se non superiori: inizia la lotta per il dominio del mondo da parte dei paesi capitalistici maggiori. Ma dominare significa investire capitali, impossessarsi delle miniere e sfruttarle, creare banche, stimolare la nascita di nuove industrie. A questo si è spinti sia per la differenza del saggio di profitto, più alto nei paesi arretrati, i quali hanno bassi salari e bassa composizione organica, sia per ragioni di dominio. L’esportazione di capitali acquista un ruolo centrale e si verifica in varie forme: prestiti fatti da privati o da enti pubblici, apporto diretto di beni strumentali con pagamento dilazionato, trasporto di intere imprese o di parti di esse con concessione di brevetti, partecipazione in imprese locali, eccetera.

La necessità dell’esportazione di capitali è determinata dal fatto che in alcuni paesi a capitalismo più che maturo la valorizzazione incontra sempre maggiori difficoltà. Il capitale privo d’investimento si procura così una serie di canali di deflusso: all’estero con l’esportazione di capitale, all’interno con la speculazione di borsa. I flussi finanziari internazionali diventano un multiplo sempre più grande dei flussi commerciali: nel 1998 le transazioni finanziarie giornaliere si aggiravano intorno ai duemila miliardi di dollari, di cui solo un centesimo si riferivano a scambi di merci.

Torniamo a Lenin:

     «Per il vecchio capitalismo, sotto il regno della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci; per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale (...) Alla soglia del XX secolo troviamo la formazione di nuovi tipi di monopolio: in primo luogo associazioni monopolistiche dei capitalisti in tutti i paesi a capitalismo progredito; in secondo luogo la posizione monopolistica dei pochi paesi più ricchi, nei quali l’accumulazione di capitale ha raggiunto dimensioni gigantesche. Si determinò nei paesi più progrediti un’enorme “eccedenza di capitali” (...)
     «Finché il capitalismo resta tale, l’eccedenza di capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse in un dato paese, perché ciò comporterebbe una diminuzione dei profitti per i capitalisti, ma ad elevare tali profitti mediante l’esportazione dei capitali all’estero, nei paesi meno sviluppati. In questi ultimi i profitti ordinariamente sono assai alti, perché vi è scarsità di capitali, la terra è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo. La possibilità dell’esportazione di capitali è assicurata dal fatto che una serie di paesi arretrati è già attratta nell’orbita del capitalismo mondiale, che in essi sono già state costruite o sono in via di costruzione delle reti ferroviarie, che sono assicurate le condizioni elementari per lo sviluppo dell’industria, ecc. La necessità dell’esportazione di capitale è dovuta alla “maturità eccessiva” del capitalismo in alcuni paesi e al fatto che al capitale (data l’arretratezza dell’agricoltura e la povertà delle masse) fanno difetto gli investimenti “redditizi”».
Evidentemente queste esportazioni di capitale all’estero avvengono sempre a vantaggio del prestatore:
     «In questi affari internazionali tocca sempre qualche cosa ai creditori, o un vantaggio di politica commerciale, o un giacimento di carbone, o la costruzione di un porto, o una pingue concessione, o una commissione di cannoni (...) La cosa più frequente nella concessione di crediti è quella di mettere come condizione che una parte del denaro prestato debba venire impiegato nell’acquisto di prodotti del paese che concede il prestito, specialmente di materiale da guerra, navi, ecc.»
     «La tedesca Deutsche Bank, in contropartita dei prestiti concessi alla Turchia, ottenne l’esclusiva per la costruzione della linea ferroviaria Berlino-Baghdad, oltre ad importanti concessioni petrolifere. E Lenin conclude: «I paesi esportatori di capitali si sono spartiti il mondo sulla carta, ma il capitale finanziario ha condotto anche a una spartizione del mondo vera e propria».
9. La spartizione del mondo tra i grandi trust

La spartizione del mondo ad opera di pochi grandi trust ebbe il suo prototipo, all’inizio del XX secolo, nell’industria elettrica, nella quale il processo di concentrazione fu talmente rapido che portò in breve alla formazione di due enormi consorzi, uno americano e l’altro tedesco. Scrive Lenin:

     «L’industria elettrica è quella che meglio di ogni altra rappresenta gli ultimi progressi compiuti dalla tecnica e dal capitalismo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX. Essa si è sviluppata soprattutto nei due nuovi paesi capitalistici più avanzati, gli Stati Uniti e la Germania. In Germania specialmente la crisi del 1900 esercitò una grande influenza sull’incremento della concentrazione in questo campo. Le banche, già abbastanza fuse con l’industria, durante questa crisi accelerarono e approfondirono in altissimo grado la rovina delle imprese relativamente piccole e il loro assorbimento nelle grandi aziende. “Le banche – scrive Jeidels – toglievano i loro aiuti appunto alle imprese più bisognose di capitale, promuovendo così prima uno sviluppo prodigioso, e poi un fallimento disperato delle società non legate ad esse strettamente e durevolmente” (...) Ma naturalmente la divisione del mondo tra due potenti trust non esclude che possa avvenire una nuova spartizione, non appena venga a mutare il rapporto delle forze in conseguenza dell’ineguaglianza nello sviluppo, per effetto di guerre, di crack, ecc.
     «Un esempio istruttivo di simile nuova spartizione e delle lotte che essa provoca è offerto dall’industria del petrolio. “Il mercato mondiale del petrolio – scriveva Jeidels nel 1905 – è oggi sostanzialmente ripartito tra due grandi gruppi finanziari: la Standard Oil Co. di Rockefeller, e i padroni del petrolio russo di Baku, Rothschild e Nobel. Questi due gruppi sono strettamente legati, ma da alcuni anni sono minacciati nelle loro posizioni di monopolio da cinque avversari”: 1) l’esaurimento delle fonti petrolifere americane; 2) la concorrenza della ditta Mantascev e Co. di Baku [rappresentante del grande capitale armeno, che ebbe praticamente il monopolio del petrolio di Baku dal 1850 al 1872]; 3) le risorse di petrolio in Austria e 4) in Romania; 5) le fonti petrolifere transoceaniche, specialmente nelle colonie olandesi (le ricchissime ditte Samuel e Shell, legate anche al capitale inglese). Questi tre ultimi gruppi di imprese sono legati alle grandi banche tedesche con alla testa la più grande, la Deutsche Bank. Queste banche hanno promosso in modo sistematico e indipendente l’industria del petrolio, per esempio in Romania, allo scopo di avere i loro “propri” punti di appoggio. Nel 1907 si calcolava a 185 milioni di franchi il capitale straniero impiegato nell’industria petrolifera romena, e di essi 74 milioni erano di provenienza tedesca.
     «Iniziò allora una lotta che, nella letteratura economica, verrà definita lotta per la “spartizione del mondo”. Da un lato, il trust petrolifero di Rockefeller, che aspirava ad impadronirsi di tutto, fondò nella stessa Olanda una “società figlia”, allo scopo di accaparrarsi le risorse di petrolio delle Indie olandesi e colpire così a morte il suo principale avversario, il trust anglo-olandese Shell. Dall’altro lato, la Deutsche Bank e le altre grandi banche di Berlino cercarono di “salvaguardare” la Romania e associarla alla Russia contro Rockefeller. Quest’ultimo disponeva di capitali infinitamente superiori e di una eccellente organizzazione di trasporto e di distribuzione. La lotta quindi doveva terminare e terminò, nel 1907, con la completa sconfitta della Deutsche Bank alla quale non rimase altra scelta che o liquidare i suoi “interessi petroliferi” perdendo milioni o sottomettersi. La Deutsche Bank scelse quest’ultima alternativa e concluse con la Standard Oil un accordo assai svantaggioso, con il quale s’impegnava a “non intraprendere nulla a danno degli interessi americani”, con la clausola tuttavia che il trattato avrebbe perduto il suo valore nel caso che la Germania avesse introdotto, per via legislativa, il monopolio di Stato sul petrolio.
     «E allora incominciò la “commedia del petrolio”. Uno dei re della finanza germanica, von Gwinner, direttore della Deutsche Bank, a mezzo del suo segretario privato Stauss iniziò un’agitazione a favore del monopolio statale del petrolio. L’intero gigantesco apparato della massima banca di Berlino, tutte le sue infinite “relazioni” furono messe in moto; la stampa, piena d’indignazione “patriottica”, gonfiò le gote contro il “giogo” del trust americano, e il 15 marzo 1911 il Reichstag, quasi all’unanimità, approvò una mozione che invitava il governo a preparare un disegno di legge sul monopolio del petrolio. Il governo afferrò al volo questa idea diventata ormai “popolare” e sembrò che il gioco della Deutsche Bank, che voleva imbrogliare i suoi contraenti americani e migliorare i propri affari con l’aiuto del monopolio di Stato, fosse riuscito. Ai magnati tedeschi del petrolio veniva l’acquolina in bocca nel pregustare i giganteschi profitti che non avrebbero avuto nulla da invidiare a quelli degli industriali russi dello zucchero (...) Ma, sul più bello, le grandi banche tedesche si azzuffarono per la spartizione del bottino e la Disconto-Gesellschaft svelò gli egoistici interessi della Deutsche Bank. A questo punto, il governo non se la sentì di iniziare una lotta contro Rockefeller, perché appariva molto dubbio che, senza di lui, la Germania potesse riuscire a procurarsi il petrolio (la produzione della Romania era modesta). E quando, nel 1913, fu approvato lo stanziamento di un miliardo destinato agli armamenti, il progetto di monopolio venne abbandonato. La Standard Oil di Rockefeller uscì, per allora, vincitrice dalla lotta.
     «A questo proposito la rivista berlinese Die Bank scriveva che la Germania avrebbe potuto combattere la Standard Oil soltanto mediante il monopolio della corrente elettrica e la trasformazione della forza idraulica in elettricità a buon mercato. “Ma – aggiungeva l’autore dell’articolo – il monopolio dell’elettricità si avrà nel momento in cui i produttori ne avranno bisogno, cioè allorché sarà imminente un nuovo grande crack dell’industria elettrica, allorquando le grandiose e costose stazioni elettriche, che ora i consorzi privati dell’industria elettrica vanno fondando dappertutto, e a favore delle quali ottengono monopoli parziali dalle città, dagli Stati, ecc., non saranno più in grado di lavorare con profitto. Allora ci si dovrà rivolgere alle forze idrauliche; ma queste non potranno venir trasformate in elettricità a buon mercato direttamente dallo Stato, bensì occorrerà di bel nuovo concederle a un ‘monopolio privato controllato dallo Stato’, perché l’industria privata ha già concluso una serie di affari e si è riservata, contrattualmente, forti indennizzi (...) Così è avvenuto per il monopolio della potassa, così per il monopolio del petrolio, e così avverrà anche per il monopolio dell’elettricità. I nostri socialisti di Stato, che si lasciano accecare dalle belle teorie, dovrebbero finalmente accorgersi che in Germania i monopoli non hanno mai avuto né lo scopo né il risultato di giovare ai consumatori e neppure quello di assicurare allo Stato una parte dei guadagni d’impresa, ma hanno sempre servito soltanto a risanare, a spese dello Stato, le industrie private sull’orlo del fallimento”.
     «A quali preziose confessioni si vedono mai costretti gli economisti borghesi della Germania! Da esse emerge nettamente come, nell’età del capitale finanziario, i monopoli statali e privati si compenetrino gli uni con gli altri, e come tanto gli uni quanto gli altri siano semplicemente singoli anelli della catena della lotta imperialistica per la spartizione del mondo (...) L’epoca del capitalismo moderno ci dimostra come tra i gruppi capitalistici si stabiliscano determinati rapporti basati sulla spartizione economica del mondo, e come, di pari passo con tale fenomeno e in connessione con esso, si stabiliscano anche tra i raggruppamenti politici, cioè gli Stati, determinati rapporti basati sulla spartizione territoriale del mondo, sulla lotta per le colonie, sulla “lotta per i territori economici”».


10. La contesa tra le potenze imperiali

Ma la spartizione del mondo tra i monopoli capitalisti, in primo luogo i monopoli finanziari, è strettamente legata agli antagonismi tra le potenze. Il motivo centrale della politica estera dei paesi capitalisti a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento consiste nella conquista dei territori stranieri, chiudendoli alla concorrenza estera, come mercati di prodotti finiti, fonti di materie prime e di manodopera a buon mercato o campi di investimento di capitali da esportare. Lenin prosegue:

     «Per l’Inghilterra il periodo delle più grandi conquiste coloniali cade tra il 1860 e il 1880, ed esse sono ancora cospicue negli ultimi vent’anni del secolo XIX. Per la Francia e la Germania sono importanti specialmente questi ultimi venti anni. Abbiamo già veduto che il periodo di massimo sviluppo del capitalismo pre-monopolistico, col predominio della libera concorrenza, cade tra il sesto e il settimo decennio. Ora vediamo che specialmente dopo tale periodo s’inizia un prodigioso “sviluppo” delle conquiste coloniali e si acuisce all’estremo la lotta per la ripartizione territoriale del mondo. È quindi fuori discussione il fatto che il passaggio del capitalismo alla sua fase monopolistica, al capitale finanziario, è collegato con un inasprimento della lotta per la spartizione del mondo (...)
     «Alla soglia del XX secolo la spartizione del mondo era ormai “terminata”. I possedimenti coloniali crebbero a dismisura dopo il 1876, passando da 40 a 65 milioni di chilometri quadrati per le sei maggiori potenze. L’aumento di 25 milioni di chilometri quadrati corrisponde a una volta e mezzo la superficie della madrepatria (16 milioni e mezzo). Nel 1876 tre potenze non avevano alcuna colonia, e una quarta, la Francia, quasi nessuna. Nel 1914 questi quattro paesi possedevano colonie per 14,1 milioni di chilometri quadrati, cioè circa una volta e mezzo la superficie dell’Europa, con una popolazione di circa 100 milioni (...)
     «Ciò che caratterizza fondamentalmente il modernissimo capitalismo è il dominio dei gruppi monopolistici costituiti dai maggiori imprenditori. Tali monopoli sono soprattutto solidi quando tutte le sorgenti di materie prime vengono concentrate nelle loro mani. Abbiamo visto l’ardore con cui i gruppi capitalistici internazionali si sforzano, con qualsiasi mezzo, di strappare agli avversari ogni possibilità di concorrenza, di accaparrarsi le miniere di ferro e i giacimenti di petrolio, ecc. Soltanto il possesso delle colonie assicura al monopolio complete garanzie di successo contro i rischi della lotta con i rivali, anche nel caso che questi ultimi decidano di trincerarsi dietro qualche legge di monopolio statale. Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle fonti di materie prime, tanto più feroce è la lotta per la conquista delle colonie (...)
     «Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacché ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi e terreni oggi inutilizzabili possono domani esser messi in valore, appena siano stati trovati nuovi metodi (e a tal fine la grande banca può allestire speciali spedizioni di ingegneri, agronomi, ecc.) e non appena siano stati impiegati più forti capitali. Lo stesso si può dire delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzo di questa o quella materia prima, ecc. Da ciò nasce inevitabilmente la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale.
     «Nello stesso modo in cui i trust capitalizzano la loro proprietà valutandola due o tre volte al disopra del suo valore, giacché fanno assegnamento sui profitti “possibili” futuri (e non su quelli attuali) e sugli ulteriori risultati del monopolio, così il capitale finanziario, in generale, si sforza di arraffare quanto più territorio è possibile, comunque e dovunque, in cerca soltanto di possibili sorgenti di materie prime, temendo di rimanere indietro nella lotta forsennata per l’ultimo lembo di sfera terrestre non ancora diviso, o per una nuova spartizione dei territori già divisi».
 
(Continua)

 
 
 
 
 


Sul cosiddetto matrimonio fra omosessuali

In Francia, ma è una tendenza generale, lo Stato ha concesso alle coppie omosessuali il riconoscimento del matrimonio e il diritto di adottare figli minorenni.

Per affrontare la questione evidentemente non possiamo servirci dei concetti astratti di natura, uomo, normalità, morale, cultura, libertà, giustizia, civiltà, parole che per noi hanno significato solo relativo.

Spostandoci sulle cose però, mater precede e nomina il matrimonio.

Ci limitiamo ad osservare che rivendicare quei diritti significa elevare la coppia eterosessuale e monogamica, come si è storicamente venuta a conformare, a modello ed obiettivo, implicitamente riconosciuta come perfetta rispetto ad altre forme di convivenza e di affetti umani.

Si pretende resuscitare quella famiglia borghese, fondata sulla proprietà privata, con tutte le sue angustie e miserie, e che la borghesia ha già praticamente scardinato, svuotato di ragion d’essere, e di fatto socialmente superata. Tanto che la sua funzione elementare, la riproduzione, già avviene in gran parte fuori del matrimonio.

Rivendicare il diritto alle adozioni si inscrive in queste lusinghe proprietarie: non un rapporto diretto fra adulti e bambini e ragazzi, ma mediato da una forma giuridica, “mio figlio”, del quale, per legge, faccio quello che voglio.

Nuovi rapporto, liberi e pieni, anche fra le generazioni si avranno, nel comunismo, non certo dando la proprietà dei figli anche alle coppie omosessuali, ma sollevandone le genitrici coppie etero.