Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 358 - marzo-aprile 2013 [.pdf]
PAGINA 1 Mali e Costa d’Avorio, Campo di battaglia economica e militare fra gli imperialismi: L’Africa francofona - Brame imperiali sul Mali - L’intervento francese - In Costa d’Avorio.
Contro l’inganno elettorale: Per la lotta di classe - Dalle elezioni, qualunque ne sia il risultato, il proletariato esce sempre sconfitto - Col voto i lavoratori possono solo scegliere quali fra i figuranti della borghesia saranno messi a far finta di governare.
Il gran rifiuto
PAGINA 2 – Rifulge il programma del comunismo su una società che muore, Riunione del partito a Genova, 19-20-gennaio [RG115]: La questione militare,  La guerra austro-prussiana - Storia del movimento in Usa:  Imperialismo e sindacati - La guerra in Siria.
Per
il Sindacato
di Classe
– La questione della partecipazione agli scioperi e l’attacco al contratto nazionale, Rapporto alla riunione di partito a Genova: Lo sciopero “europeo” - Padroni, governi e sindacati contro il contratto nazionale - Il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici.
Abbandonati i proletari sardi in una lotta solitaria e coraggiosa
Electrolux: Unica difesa è la lotta di tutta la classe operaia
Da “Il Sindacato Rosso” del 1921: 29 aprile 1922, Ricostruzione o distruzione del capitalismo ?
PAGINA 5 – Venezuela, Con o senza Chávez non cessa la dittatura borghese: Il dominio dell’oligarchia fondiaria - Lo sfruttamento del petrolio - Pieno sviluppo capitalistico - Il "bolivarismo".
PAGINA 6 Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo(2 - continua dal numero scorso): 3. Il gioco si allarga all’Asia - 4. Concentrazione e monopoli - 5. La nostra bussola: Lenin - 6. La nuova funzione delle banche.

 
 
 

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Mali e Costa d’Avorio - Campo di battaglia economica e militare fra gli imperialismi

Le truppe della coalizione internazionale entrarono a Pechino il 14 agosto del 1900; foto degli sguarniti battaglioni, messi a dura prova dai Boxer nei mesi precedenti, furono pubblicate sui quotidiani inglesi come prova dell’entusiasta accoglienza della popolazione. La realtà era ben diversa, focolai di guerriglia resistevano in tutta la città ed il popolo se ne stava ben lontano dalla Città Proibita, sede allora del governo cinese. Alcuni poveracci, pagati con nulla, facevano da comparse ai generali e colonnelli di Inghilterra e Germania.

La misera, ipocrita e falsa borghesia imperialista di quel tempo la ritroviamo oggi in terra d’Africa. Il “socialista Holland” visita Timbuctu e riceve una calorosa accoglienza dalla popolazione, scrivono i pennivendoli della patria francese. Ma i fotografi non hanno di meglio da spedire che poche immagini del presidente all’aeroporto della capitale maliana attorniato da generali del corrotto governo locale con sullo sfondo due bandiere tricolore rette da uno sparuto gruppetto di pelle nera.

L’attuale crisi economica generale del capitalismo è il potente innesco e acceleratore dello scoppio di tutte le questioni e i nodi insoluti che la spartizione imperialista del globo ha generato sia all’interno dei paesi sottomessi sia come rapporto di forza tra le potenze che cercano costantemente di approfittare dell’altrui difficoltà.

Per riassumere la storia del piano di spartizione delle risorse e delle terre africane fra le maggiori potenze europee, all’inizio Inghilterra e Francia, secondo le loro voraci necessità, dobbiamo risalire al 1884/85 quando il cancelliere tedesco Bismarck organizzò la Conferenza di Berlino per il Congo. Lo scopo era evitare scontri militari diretti tra le potenze europee, facendo disegnare i confini delle colonie africane a tavolino, nelle capitali europee, con l’ausilio delle varie “Società Geografiche”. Si stabilì che un territorio africano per essere riconosciuto come colonia doveva essere stabilmente occupato militarmente, e civilmente con imprese e coloni europei. A questa spartizione e mercanteggio dell’Africa parteciparono tutti i più importanti Stati e per ultima si accodò anche l’Italia, occupando l’Eritrea, parte della Somalia, poi la Libia nel 1912, approfittando della crisi dell’Impero Ottomano e della rivolta dei Giovani Turchi guidati da Kemal Ataturk.

Successivi accordi, bi- o trilaterali, risolvevano questioni limitate o l’attribuzione delle colonie delle potenze minori le quali, sovente, non erano in grado di controllarle: oltre allo sfruttamento delle risorse e della forza lavoro africana gli Stati imperialisti ne dovevano garantire la sottomissione.

Le due guerre mondiali hanno passato le colonie africane dalle potenze perdenti alle vincitrici, e fino all’epoca delle rivoluzioni anticoloniali degli anni ’60 e ’70 quando il controllo militare delle colonie fu sostituito da quello economico e finanziario, cambiando tutto per non cambiare niente.
 

L’Africa francofona

Oggi l’imperialismo francese, che continua a scrivere sulle sue bandiere “liberté, egalité, fraternité”, si è sentito in dovere di rispondere prontamente alla richiesta del debole “potere legale” del Mali, parte del suo grande ex domino coloniale africano, minacciato e in parte occupato da “terroristi islamici”. Aiuto evidentemente non disinteressato, appoggiato dalla banda di imperialisti che è il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e marginalmente anche dall’Italia.

La storia dell’ormai vecchio imperialismo francese è lunga in terra d’Africa, soprattutto in tutta la fascia che, a sud del Sahara, inizia in occidente dal Senegal fino all’interno nel Ciad. Nell’ultimo decennio tutti i paesi definiti come Africa francofona, la Franciafrica, hanno subìto la penetrazione economica della Cina, che ha approfittato del relativo ritiro del capitale francese, che ha preferito andare ad investirsi in aree a più alto margine di profitto, come l’Asia. La concorrenza cinese si è fatta sempre più pressante con investimenti di ingenti capitali, esportazione di merci a bassissimo costo e di squadre specializzate a comandare i cantieri delle ditte cinesi. Strade e ponti, ferrovie ed infrastrutture varie hanno aperto la strada del “neo” imperialismo cinese in quelle terre che per secoli sono state esclusivo appannaggio delle potenze occidentali ed in molti casi in modo esclusivo della Francia.

È inevitabile per il capitale finanziario tendere ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale. La crisi mondiale che dal 2008 tartassa gli imperialismi occidentali non ha risparmiato i suoi colpi sulla neonata cinese, alla ribalta della “mondializzazione”, ma è l’unica che ancora può parlare di garanzie di finanziamento. La Cina “comunista”, entrata a far parte a pieno titolo dei predoni imperialisti, per la sua penetrazione si ammanta dello stile “cooperativo” e cerca di dissimulare la sua vampiresca aggressività con accordi e trattati economici che comprendono iniziali regalie e fanno prospettare ai poteri locali maggiore indipendenza di quella offerta dai vecchi titolari degli imperi.
 

Brame imperiali sul Mali

Le artificiali frontiere del post-colonialismo hanno ritagliato per il Mali, uno dei paesi più poveri al mondo, uno strano territorio a forma di clessidra, con un Nord desertico e popolato prevalentemente da popolazioni nomadi di varie etnie ed un Sud più fertile, bagnato dal grande fiume Niger.

Con il governo del Mali la Cina ha firmato, questo accadeva nel primo semestre del 2012, tre diversi accordi per circa 740 miliardi di yuan (circa 65 miliardi di euro). Il primo accordo sono circa 70 miliardi di yuan “in regalo”; il secondo 5 miliardi in prestito “per migliorare le condizioni della popolazione”, il governo locale dovrà individuare come e quando. Il terzo accordo prevede un finanziamento per circa 620 miliardi di yuan, il grosso dell’operazione, che permetteranno alla Cina di partecipare, insieme ad altri partner (leggi Francia, ecc.) alla costruzione del bacino idroelettrico di Taoussa, sul Niger, vicino a Gao, nella parte settentrionale del paese.

Intanto il governo maliano già dal 2009 aveva dato in concessione per 50 anni la zona chiamata Office du Mali in grandi appezzamenti “free of charge”, e a costi stracciati per l’acqua del Niger ed esproprio per tutti quei contadini che lì lavorano e campano (ci sono state rivolte con arresti di uomini e donne). Tutti i predoni delle nazioni imperialiste si sono appropriati dello sfruttamento intensivo di più di 500.000 ettari di fertili terre in concessione gratuita. In primis la Cina, con la partecipazione diretta di una sua multinazionale governativa, prendendo in affitto anche terre in concessione ad una società libica ed accaparrandosi così più di un quarto delle terre. Poche zolle son rimaste per le società maliane e i vicini poveri come il Burkina.

Anche Francia, Canada, Usa, Inghilterra, Paesi Arabi, Sud Africa partecipano all’affare. La zona produce attualmente più della metà del fabbisogno nazionale e con la modernizzazione dell’agricoltura, come diceva il presidente Traoré, potremo sfamare tutti. L’inganno democratico dello sviluppo progressivo dell’economia non risparmia nessuno, se non le masse affamate nel loro gesto di ribellione ad una politica di promesse non mantenute e ad una realtà sempre più brutale.

Il progetto dell’Office du Mali è una tragedia per la regione da tutti i punti di vista, idrogeologico, economico, sociale. Produzione di bio-gas, ricerca del petrolio, colture di riso intensive ad alta produttività, il tutto destinato all’esportazione.

Ma, nonostante il drastico ridimensionamento della presenza imperiale francese in Africa negli ultimi venti anni, la Francia mantiene ancora nelle sue ex colonie alcune importanti basi militari a protezione dei suoi ancora grandi interessi finanziari nei vari settori del turismo, della produzione agricola e della manifattura, ma soprattutto nel campo della “cooperazione militare”, cioè vendita di armamenti e formazione degli eserciti.

Più importanti in assoluto sono le miniere di uranio ad Airlit in Niger, non molto distanti dal confine col Mali, dal quale si temeva uno sconfinamento dei “terroristi”, con la perdita del controllo di quella fonte necessaria alla potenza nucleare francese. Il nuovo colosso multinazionale Areva, fondato nel 2001 con 61 mila dipendenti e controllato al 90% da capitali francesi, ha ereditato da precedenti società francesi la concessione, vecchia di oltre 40 anni, di quelle ricche miniere a cielo aperto, con bassi costi di estrazione. La rendita pagata al Niger è proporzionata ai vecchi rapporti di sfruttamento coloniale: a fronte di un fatturato nel 2006 di 10,86 miliardi di euro, la Areva paga di rendita annua solo 100 milioni. La crisi del Mali ha quindi dato l’occasione al presidente nigerino M. Issoufou di ridiscutere con la Francia gli accordi minerari.
 

L’intervento francese

L’imperialismo francese, che vorrebbe considerare ancora l’Africa “già-francofona” il “cortile di casa”, ha attuato con l’Operazione Serval nel Mali un intervento preventivo, che doveva essere immediato e risolutivo, come in prima battuta sembrava essere. Ora i maliani possono continuare a crepare di fame protetti dalle armi francesi, ma dove sono finiti i “terroristi”, quanti sono e in quali organizzazioni sono inquadrati? In realtà, con il “trionfale” arrivo a Timbuctu lo scorso 2 febbraio del presidente Hollande per confermare e celebrare la vittoria sui “ribelli e i terroristi”, sconfitti e ricacciati oltre i confini del deserto a nord, è terminata solo la prima fase di questo ennesimo fronte di guerre locali che divampano con maggior frequenza un po’ ovunque sul pianeta. La prima fase della Operazione è stata dichiarata chiusa con troppa fretta, solo una settimana dopo i gruppi islamisti hanno ripreso il controllo di alcuni centri abitati nel Nord, il che impegnerà il contingente francese e suoi collaboratori ad una permanenza prolungata.

Quello che potrebbe essere in connessione con la più ampia e importante crisi nel Nord Africa, esaltata dai fatti libici appena accaduti, e col coinvolgimento di altre potenze imperialiste, si è per il momento apparentemente ridimensionato ad una intensa operazione militare solo francese contro gruppi armati locali.

Il desertico Nord del Mali approssimativamente dal 2007 è diventato una indisturbata base dell’Aqmi, Al-Qaida nel Magreb islamico, che dove è forte instaura un regime fondamentalista islamico molto radicale. Si autofinanzia anche con il sequestro di persone, più di 80 in Mauritania, tra incauti turisti, cooperanti, ecc.

Sembra sia intervenuto l’emiro del Qatar che tanto fece in Libia contro Gheddafi per le sue mire sul gas libico. Raccontano che «alcuni mesi fa convogli umanitari, tra cui quello del Qatar, ufficialmente destinati alla popolazione civile, in realtà trasportavano armi e munizioni e finivano nelle mani del Mujao e di Ansar Dine». I gruppi islamici avrebbero ricevuto finanziamenti oltre che dal Qatar anche dall’Arabia Saudita.

Con la caduta del regime libico, dove avevano sostenuto Gheddafi, anche guerrieri tuareg sono rientrati nel Nord del Mali portando con loro una maggiore esperienza militare e una buona scorta di armi moderne prese dai depositi libici. Parte di questi hanno fondato un secondo gruppo militare “estremista”, il Mnla, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Alzawad, l’area desertica del Nord del Mali con lo scopo di ottenere manu militari una maggiore autonomia della regione.

Il governo maliano ha cercato di opporsi a questo movimento inviando alcuni reparti dell’esercito, male armati e poco motivati, che hanno subìto una serie di sconfitte. Questo ha provocato una rivolta da parte degli stessi militari che con un colpo di Stato nell’aprile 2012 hanno deposto il loro presidente ed insediata un’altra giunta militare. Da parte sua il 6 aprile il Mnla ha dichiarato l’indipendenza dell’Azawad.

Nel Nord intanto si è insediato anche un terzo gruppo, formato anche questo da tuareg, lo Ansar Dine (Difesa dell’Islam), ed è iniziata la lotta per il controllo del territorio fra i gruppi ribelli. Lo Ansar Dine, probabilmente sostenuto dall’Aqmi, dopo uno scontro con il Mnla ha assunto il controllo dell’Alzawad e ha imposto la Sharia, un regime basato sull’applicazione integrale della legge coranica. I soliti intellettuali si sono indignati per la distruzione dei mausolei sufi di Timbuctu e dei pochi ma rari manoscritti colà custoditi.

Questi gruppi, imbaldanziti dalle vittorie, il 10 gennaio hanno passato il confine a sud e occupato Konna, una cittadina importante sulla strada per la capitale Bamako. Il giorno seguente è partita la richiesta di aiuto del debole governo maliano alla Francia. Parigi, col pretesto di difendere la democrazia nel Mali, è intervenuta immediatamente con decisione, riprendendo il controllo su tutto il paese in quattro settimane.

Ancora una volta è mancata l’azione dell’Europa, che non ha una politica di aggressione imperialista comune: è toccato alla Francia e al suo governo “socialista” di mostrare i muscoli e accollarsi onori ed oneri dell’intervento.

A supporto alle truppe francesi sono arrivate quelle dell’Ecowas, Comunità economica fra Stati dell’Africa occidentale, e altri africani, più per un controllo del territorio che per interventi militari diretti, poche centinaia di militari del Ciad e della Nigeria, rispetto ai promessi 5.000. Gli eserciti degli altri Stati controllano le frontiere. Si può presumere che anche le truppe francesi di stanza in Costa d’Avorio non si siano potute allontanare più di tanto.

La Francia ha affidato il compito di inseguire gli “estremisti islamici” in fuga agli “irregolari” del Mnla, i quali hanno accettato chiedendo in cambio di negoziare con Bamako uno statuto giuridico per l’Azawad. Aerei del Qatar sarebbero atterrati nel Nord per salvare i capi dei gruppi islamisti; il Qatar non ha smentito né commentato la notizia.

Le perdite inflitte ai “terroristi” sono indicate in modo vago, non conoscendo nemmeno la reale consistenza di quei gruppi, forse forti di 4 mila armati. Si sono ora dispersi nelle immense distese del Sahara, che ben conoscono, probabilmente in una fase di riorganizzazione, magari con altre formazioni, aspettando un altro momento propizio, com’è stata tutta la storia delle guerre coloniali contro i gruppi che non si sono sottomessi o integrati sotto il potere coloniale. In questo caso però dobbiamo considerare che questi gruppi di armati non rivendicano un loro spazio, un territorio dove impiantarsi. Come in Libia ed in Siria anche nel Mali la improbabile sigla di Al Qaida, questa pretesa onnipresente organizzazione internazionale dell’islamismo radicale, come viene presentata dalla propaganda dell’imperialismo, nasconde lo scontro sempre più aspro tra gli Stati per il controllo di territori e risorse, per non lasciare nessun vuoto nel loro controllo delle varie regioni del globo.
 

In Costa d’Avorio

È il caso anche della Costa d’Avorio. La data ufficiale dell’indipendenza coloniale dalla Francia è del 1960, ma è rimasta sottoposta alla piena dominazione francese fino al colpo di Stato del 1999 quando Gbagbo, il primo ministro del governo ivoriano insediatosi al potere, dichiarò: «Non siamo più una colonia francese e chiediamo alla Francia di porre fine alle sue aspirazioni imperialiste nei confronti della Costa d’Avorio».

La Costa d’Avorio è ricca di risorse naturali come il greggio, il gas naturale, diamanti, oro, bauxite, rame, e di risorse agricole, caffè, cocco, riso, banane, cotone, ecc., oltre ad essere il primo produttore mondiale di cacao. Inoltre Abidjan, capitale di fatto del paese, possiede uno dei più grandi porti africani della costa occidentale e che negli ultimi anni ha aumentato di circa il 9% il traffico merci in generale e più del 50% quello verso il Mali, il Burkina Faso e il Niger.

Il presidente Laurent Gbagbo, dopo la vittoria elettorale, ha inaugurato con l’anno 2000 una nuova politica della nazione, la réfoundation, che dovrebbe andare nella direzione dell’apertura del ricco mercato ivoriana a nuovi e più vantaggiosi partner economici, le multinazionali cinesi, giapponesi e americane, limitando l’intervento francese.

Nel 2002 scoppia una rivolta, all’inizio per iniziativa del generale Guéi, nella competizione elettorale avversario sconfitto di Gbagbo e Ouattara; poi, vista la estrema debolezza della sedizione, tutto passa nelle mani dell’esercito francese per tramite anche di truppe mercenarie arrivate dal Burkina, dalla Liberia e dalla Sierra Leone, attrezzate ed armate dall’esercito francese. Da una parte e dall’altra vengono commesse atrocità ai danni della popolazione, soprattutto in quei villaggi dove era stata espropriata la terra per consentire all’imperialismo il suo libero e dissennato sfruttamento.

È Alassane Ouattara ad insediarsi al governo nazionale dopo l’estromissione volontaria di Gbagbo, che proprio in questi giorni viene giudicato al tribunale dell’Aia per crimini contro la popolazione. Ma i crimini contro la popolazione non sono certo cessati, anzi infuria quotidianamente l’accanimento ed il furto delle terre, e gli scontri fra bande rivali. Solo un paio di anni fa sono stati i caschi blu dell’Onu, insieme all’esercito francese, a difendere le esportazioni di cacao dall’assalto di gruppi anti-Ouattara.

Ouattara vola adesso in Israele a batter cassa, visto che l’amata Francia, che comunque ha garantito a lui ed ai suoi l’impunità, non ha fondi da elargire.

I due leader ivoriani amici-nemici, nella migliore tradizione della borghesia mondiale, rappresentano di volta in volta il futuro ed il presente della sottomissione imperialistica borghese del proletariato e del contadiname locale. Gbagbo, socialista, sindacalista, alleato di Ouattara fino al ‘99, e Ouattara, repubblicano di scuola europea. Cosicché l’opposizione dei gruppi ribelli che si rifanno a Gbagbo si colorano delle illusioni democratiche di lesa democrazia ed inneggiano ad un fronte popolare anti francese; gli altri, quelli attualmente al potere, difendono la démocratie; adesso con il “socialista” Holland, tutto è più semplice e più complicato.

Le giustificazioni sovrastrutturali, nelle metropoli come nelle colonie, dell’imperialismo e dell’antimperialismo democratico sono sempre più delle armi spuntate in mano a dei loschi figuri senza più alcuna vitalità storica né alcun seguito nelle classi oppresse.
 
 
 
 
 
 
 


Contro l’inganno elettorale
Per la lotta di classe - Dalle elezioni, qualunque ne sia il risultato, il proletariato esce sempre sconfitto - Col voto i lavoratori possono solo scegliere quali fra i figuranti della borghesia saranno messi a far finta di governare

Il potere politico non è del “governo”, tantomeno dalla sua “maggioranza parlamentare”, ma del grande Capitale nazionale ed internazionale, cioè della borghesia industriale e finanziaria. In tutti i paesi la macchina di potere del Capitale è il suo Stato. La cosiddetta “casta politica” è al servizio del grande Capitale, che la mantiene finché il teatrino elettorale e parlamentare è utile a nascondere la vera natura del suo potere, dittatoriale e di classe, deviando contro i suoi spregevoli “politici” la rabbia dei lavoratori.

Negli ultimi vent’anni la classe dominante si è servita della falsa contrapposizione fra berlusconismo e antiberlusconismo. Al momento opportuno Berlusconi è stato messo da parte e un governo, sostenuto da entrambe le fazioni, ha colpito i lavoratori più duramente dei precedenti, di destra e di “sinistra”.

Oggi, il regime del Capitale si accinge a darsi una nuova veste democratica con le elezioni, rinnovando il vergognoso teatrino parlamentare e i suoi falsi schieramenti.

Domani, potrà anche chiudere la sua corte di rumorosi pagliacci, il parlamento, come nel ventennio fascista, e mostrare il vero volto della sua dittatura. Per poi, quando tornerà utile, licenziare il nuovo Mussolini, come già fatto nel 1943, e tornare a vestire i panni democratici.

La democrazia è una ideologia che maschera la dittatura borghese: difende il capitalismo contro i lavoratori, illudendoli che esistano altri mezzi per difendere se stessi che non siano la loro forza organizzata. Lottare per la “vera democrazia” serve solo a perpetuare questo inganno e a rafforzare questo regime. Il capitalismo è una società divisa in classi in cui il proletariato non ha e non potrà mai avere alcun potere.

I lavoratori possono difenderi solo con LA FORZA della LOTTA DI CLASSE:
 - con veri scioperi: a oltranza, senza preavviso, con picchettaggi, che si estendano al di sopra delle aziende e delle categorie
 - per gli obiettivi che uniscono tutti i proletari: forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate; riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario; salario ai lavoratori licenziati.

Per far questo è necessario ricostruire un vero SINDACATO DI CLASSE fuori e contro i sindacati di regime (CGIL, CISL, UIL, UGL) la cui funzione principale è impedire la lotta di classe.

Questo non basta. Ogni vittoria sindacale non è mai definitiva finché resta in piedi il capitalismo. Lo dimostrano questi ultimi anni in cui tutte le conquiste delle dure lotte operaie passate sono state una ad una distrutte.

La classe lavoratrice si libererà definitivamente dalla condizione di miseria, precarietà e sfruttamento solo conquistando il potere con la Rivoluzione, abbattendo la dittatura borghese e imponendo con la dittatura proletaria le riforme dell’originale programma comunista rivoluzionario necessarie a emancipare l’umanità dal capitalismo: abolizione del lavoro salariato, con estinzione del Capitale e distribuzione gratuita di beni e servizi; obbligo sociale al lavoro, con la scomparsa della disoccupazione; drastica riduzione del lavoro a poche ore giornaliere; regolazione della produzione secondo i bisogni umani e non del profitto.

Il Partito Comunista Internazionale è il solo che ha difeso e saputo mantenere l’originale programma comunista rivoluzionario contro l’ultima e peggiore delle sconfitte: quella culminata con lo stalinismo e la menzogna del falso socialismo russo, cinese, ecc. È il solo che da quella sconfitta ha potuto trarre le lezioni necessarie alla riscossa proletaria futura. Non al voto vi chiama ma alla milizia nelle proprie file per questo grandioso quanto vitale compito.
 
 
 
 
 


Il gran rifiuto

Scalpore hanno suscitato le dimissioni di papa Benedetto. Ma subito, anche grazie ai babbei “di sinistra”, il gesto di Benedetto é stato presentato come un atto coraggioso, riformatore, e ammodernatore. Il papa avrebbe avuto la forza di mettersi in disparte per il superiore bene della Santa Chiesa, altro che diserzione; e al popolo credente questo dovrebbe bastare.

Inevitabile il parallelo con l’antico predecessore Celestino, «colui che fece per viltade il gran rifiuto», e, per questo, prima incarcerato e fisicamente soppresso, poi fatto santo. Tempi di crisi e di rivoluzione, anche quelli, quando i borghigiani riscoprivano dogmi e lezioni antiche. Da poco i siciliani nei Vespri si erano per le spicce liberati dei francesi, «se la mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar Mora! Mora!». Dante spera allora in una Chiesa che si metta dalla sua parte, come farà altrove in Europa.

Nella storia dei papi altri abdicarono, altri vennero fatti abdicare, ad altri ancora fu impedito di abdicare. La leggenda riferisce che già il primo papa, Pietro, ad un certo punto scappasse da Roma e Gesù Cristo in persona avesse dovuto scomodarsi per farcelo tornare. Gesù stesso aveva tentato di battere in ritirata dall’orto degli ulivi, ma il Padre non gli evitò l’inevitabile, quanto sapientemente predisposto fin dall’inizio dei secoli. Oggi nessun Dio dei borghesi, volto lo sguardo altrove, ha creduto utile, o possibile, impedire il misfatto.

L’accostamento Celestino-Benedetto infatti finisce qui. Celestino, cui perfino avevano rubato i sigilli, le password insomma, fu stritolato nella contesa fra angioini e aragonesi e nella lotta politica che divideva la Curia romana e la Chiesa nella gran parte della sua universalità. La stessa cosa non si potrà dire di Benedetto, che ha solo dimostrato di non essere un eroe.

Perché la Chiesa di oggi è tutta e solo reazione e nulla ha ormai nemmeno dei suoi accenti pre- e anti-borghesi. In lotta al suo interno non sono più opposte visioni del mondo ma vili interessi commerciali. La Chiesa di Roma, come tutte le altre, ormai ha stretto un irreversibile sodalizio di ferro con gli interessi e gli Stati del capitalismo mondiale: è innanzi tutto una banca fra le banche, un istituto finanziario internazionale, un grande investitore di capitali. E la crisi del capitale è la sua crisi.

A Benedetto mancavano le forze, oppure gliene restavano quanto basta per partecipare ai traffici della Curia vaticana?

Molte cose dal Vaticano filtrano attraverso i colonnati del Bernini, ma la maggior parte resta sigillata all’interno delle sue spesse mura. Se la Chiesa negli ultimi anni è stata sconvolta da scandali a sfondo sessuale ben altri e gravi hanno investito il Vaticano, con operazioni finanziarie fallimentari che continuano ad essere gestite da personaggi del tipo di Calvi e Sindona, entrambi “suicidi”; le guardie svizzere si ammazzano fra loro, documenti riservatissimi sono sottratti a quintali e il papa è affidato alle cure di un maggiordomo che ha il compito di spiarlo, etc., etc.

Tutti i segnali fanno credere che in Vaticano si siano rotti ormai certi equilibri interni tra le varie consorterie e i referenti delle opposte potenze imperialiste. Non c’è niente da scandalizzarsi, il Vaticano è lo specchio di questa società, a cui è legato allo stesso destino. Ed un papa democratico chiede il benservito, così come i banchieri, ma con più stile, si buttano dalla finestra.
 
 
 
 
 
 

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Rifulge il programma del comunismo su una società che muore
Riunione del partito a Genova - 19-20-gennaio 2013
[RG115]
La questione militare,  La guerra austro-prussiana
Storia del movimento in Usa:  Imperialismo e sindacati [rapporto esteso]
La guerra in Siria
Attività sindacale [rapporto esteso]
Corso della crisi economica
Economia marxista
La crisi finanziaria mondiale
Storia dell’Egitto moderno
Origine del movimento in Italia [ rapporto esteso ]

Premurosamente organizzata dai nostri efficientissimi compagni, con la cura anche dei minimi dettagli per una perfetta accoglienza, abbiamo tenuto a Genova la periodica riunione di lavoro del partito che, nella numerazione dal 1974, risulta la 115.

Da fuori erano presenti compagni di Torino, Cortona, Parma, Firenze, il Friuli, la Gran Bretagna.

All’apertura dei lavori il centro del partito ha ripresentato la rete di tutti i diversi impegni e attività, la responsabilità di ciascuno dei quali è affidata ad uno o più compagni, e ne ha riferito del progredire e dei risultati. Le considerazioni su queste funzioni, cercare di risolvere eventuali difficoltà di interpretazione o di ricerca delle fonti e stabilire le modalità e il piano per la loro prosecuzione, ci ha impegnato, come di consueto, per tutta la mattina.

Al pomeriggio, con seguito l’indomani, abbiamo ascoltato numerosi rapporti, predisposti da compagni giovani e meno giovani, di età e di milizia, tutti perfettamente intonati con la nostra ormai sessantennale continuità di partito e con la secolare tradizione della Sinistra comunista. Qui di seguito, e nel prossimo numero, il riassunto schematico di quanto esposto.

Tutta la riunione si è svolta nell’atmosfera la più ordinata nel consueto nostro impegno e rigore e con la piena sodddisfazione di tutti i presenti.
 

La questione militare:  La guerra austro-prussiana

Il processo di unificazione italiana procede più per gli interventi della diplomazia straniera, quella francese in testa, che per le risicate vittorie militari, quando non cocenti sconfitte. Anche questa terza guerra, che possiamo considerare come fronte meridionale della più importante guerra austro-prussiana, è un esempio di assoluta incapacità dei vertici politici e militari ad organizzare e gestire una guerra.

Dal Congresso di Vienna era nata la Confederazione Germanica, con gli stessi confini del Sacro Romano Impero del 1648, volta a mantenere la sicurezza dei 39 Stati e Staterelli che la componevano. Fra i due più importanti, l’Impero austriaco e la Prussia, iniziò il processo di unificazione con una unione doganale: per favorirne l’economia e l’industrializzazione furono soppressi i dazi sulle importazioni di materie prime, attrezzature e macchine dall’Inghilterra. Ciò produsse una forte spinta nell’industria e nell’agricoltura e la Prussia emerse come Stato guida nel processo di unificazione. Dalle industrie uscirono i primi cannoni a canna rigata in fusione di acciaio e i primi fucili a retrocarica prodotti in grande scala; l’esercito prussiano fu riorganizzato con la leva aumentata in qualità e quantità. Sono state lette più citazioni di Engels che descrivono quell’evoluzione.

Il primo ministro prussiano Bismarck strinse alleanze su più fronti per evitare di doversi difendere contemporaneamente da russi e francesi. Si alleò nel 1864 con l’Austria per risolvere la questione delle strategiche province dell’Holstein e dello Schleswig, occupate dalla Danimarca dal 1848 ma abitate da popolazioni tedesche. La guerra fu breve, la Danimarca per evitare l’invasione cedette le due province, che furono annesse, rispettivamente, la più settentrionale Schleswig, con l’importante porto di Kiel, alla Prussia, la meridionale Holstein all’Austria.

In Italia nemmeno si sapeva chi effettivamente fosse al comando dell’esercito: il capo di stato maggiore era il generale La Marmora, al tempo anche primo ministro; re Vittorio, seppure incapace a gestire eserciti di quelle dimensioni e complessità, si era riservato la facoltà di emanare ordini autonomamente; il generale Cialdini riteneva di non essere da meno per esperienza e vittorie.

Il nuovo esercito italiano era nato nel 1861 dalla fusione dei vari eserciti regionali. Si trattava di integrare l’ex esercito borbonico, che lo fu solo in minima parte, i volontari garibaldini, che ne furono di fatto esclusi, ritenuti non sicuri per le idee repubblicane nonostante la preparazione acquisita sui campi di battaglia, e quelli minori. Si giunse infine alla formazione di una lista nazionale di leva, affidata ai sindaci tramite gli archivi dei battesimi delle parrocchie, che assicurava annualmente da 40 a 50 mila nuove reclute. Si uniformò l’armamento per tutte le formazioni con l’ultimo modello di fucile ad avancarica.

Ma non si giunse ad integrare le varie marinerie permanendo rivalità fra la piemontese e la napoletana; il naviglio e l’armamento era molto diverso e comprendeva nuove navi da battaglia in acciaio, altre di legno rivestito in acciaio e navi a vela. Al suo comando fu posto l’anziano e non stimato ammiraglio Persano.

L’Austria, considerando inevitabile una guerra con la Prussia, tramite Napoleone III, molto attivo in campo diplomatico, segretamente offrì il Veneto in cambio della neutralità italiana. La Prussia offrì collaborazione militare e strategica all’Italia, ma entrambe le offerte furono respinte con supponenza. Si concluse, sempre tramite la Francia, una strana alleanza militare della durata di tre mesi che doveva garantire l’annessione del Veneto, del Trentino, l’Alto Adige, Gorizia fino a Trieste.

Lo schieramento degli eserciti era di 500 mila prussiani, appoggiati da 13 staterelli alleati, molto bene armati e diretti dall’ottimo generale Moltke. Citazioni di Engels spiegano l’impostazione strategica delle sue operazioni: fece convergere, secondo gli schemi napoleonici, le tre armate sulla linea di collegamento Vienna-Berlino, ben fornita di strade e ferrovie, costringendo l’esercito austriaco a retrocedere sull’Elba. Le forze austriache, e di altri 13 alleati minori, erano di 600 mila effettivi, di cui però un terzo destinato al fronte meridionale nel Veneto, e aveva artiglieria di minor potenza.

Quello italiano era di 270 mila unità, discretamente armato. Il piano strategico prevedeva un’azione diversiva di La Marmora e il re, ai quali furono affidati i 2/3 delle forze, penetrare all’interno del sistema delle fortezze del Quadrilatero per attirarvi il grosso dell’esercito austriaco, mentre Cialdini col restante terzo avrebbe dovuto attaccare a fondo passando il Po a sud da Ferrara per puntare su Venezia, Udine e Trieste. Garibaldi con suoi volontari più truppe regolari avrebbe dovuto passare a nord e liberare Trento.

Il rapporto ha sottolineato come quegli eventi militari si intrecciassero al lavorio delle diplomazie in un unico processo.

Il 16 giugno la Prussia invade lo Holstein.

Il contrasto tra La Marmora e Cialdini è tale che incontratisi a Bologna non riescono a trovare alcun accordo nemmeno sulla priorità delle operazioni: di fatto si ebbero, con quello del re, tre eserciti indipendenti privi di coordinamento.

Il 23 giugno le truppe di La Marmora attraversano il Mincio senza sapere dove si trovano gli austriaci: interrotte le linee telegrafiche e cambiati i piani all’ultimo momento nessuno sa dove si trovi il comando generale.

Il giorno seguente l’avanzata di La Marmora è inaspettatamente ostacolata dagli austriaci su entrambi i lati e non si riesce a organizzare una valida controffensiva. La Marmora perde il controllo della situazione, nei suoi dispacci esaspera la gravità della situazione per cui Cialdini si ritira su Mantova. Segue una ritirata disordinata dietro il Mincio nonostante la forte superiorità numerica italiana. Più che una sconfitta campale fu un disastro organizzativo: 720 morti e 2.600 feriti le perdite italiane su un totale di 120 mila combattenti, contro 1.200 morti e 4 mila feriti austriaci.

Si persero giorni per cercare di appianare la crisi di comando e si programmò una seconda offensiva per il 5 luglio. Che non fu fatta perché il 3 di luglio a Sadowa i prussiani avevano sconfitto pesantemente gli austriaci. Gli austriaci dovettero riparare oltre l’Elba lasciando sul terreno circa 14 mila uomini tra morti e feriti e 120 cannoni.

Il giorno seguente, tramite Napoleone III, l’Austria chiese un armistizio generale proponendo di cedere, in Italia, le fortezze del Quadrilatero e il Veneto. In Italia parve che ricevere il Veneto senza che nessun soldato vi fosse penetrato era disonorevole: fu richiesto a Garibaldi di liberare il Trentino, a Cialdini di puntare velocemente su Venezia e l’Isonzo, all’ammiraglio Persano di neutralizzare la flotta austriaca e occupare l’isola di Lissa, nell’Adriatico. Garibaldi conseguì una modesta vittoria a Bezzecca, ma con fortissime perdite e oltre 1.000 prigionieri, il generale Medici, vincitore presso il Passo del Tonale, poi giunse fin sotto le mura di Trento.

La flotta di Persano aveva 30 navi da guerra, tra cui una moderna unità, l’Ariete, mai provata. Mancava personale e l’addestramento complessivo era scadente. La flotta austriaca era di poco inferiore per unità e armamento ma era ben guidata dall’ammiraglio Tegetoff con equipaggi ben addestrati.

Dopo due giorni di inutili bombardamenti sulle difese di Lissa il 20 iniziò lo sbarco. Quando sopraggiunse la flotta austriaca in formazione la flotta italiana si dispose malamente per contrastare l’attacco. L’attacco austriaco fu imponente come volume di fuoco e speronamenti; la battaglia durò esattamente un’ora, una parte delle navi italiane nemmeno intervenne, una fu affondata, un’altra esplose con 650 marinai annegati, altre furono seriamente danneggiate. Quella austriaca, pur danneggiata, senza aver perso nessuna nave, riparò, non inseguita, a Pola. Fu l’ultima battaglia navale con deliberate manovre di speronamento e la prima tra navi corazzate in acciaio.

Le richieste italiane per un armistizio furono respinte dall’Austria che, facendo convergere verso l’Italia truppe dalla Boemia non più impegnate contro la Prussia, intimò all’Italia di liberare tutte le zone occupate. La Marmora, conscio della difficile situazione militare italiana e delle manovre diplomatiche francesi che escludevano l’Italia, decise di accettare gli accordi franco-austriaci. L’Austria, non sentendosi sconfitta dall’Italia cedette alla Francia, come nel ’59, il Veneto, buona parte del Friuli e Mantova, che li tramise all’Italia.

Al plebiscito di ratifica partecipò solo il 25% degli aventi diritto. Ai veneti fu accollato tutto il debito pubblico austriaco e le spese per le infrastrutture fatte in quei territori dagli austriaci attraverso nuove tasse, compresa quella sul macinato. Cessarono le commesse alle industrie tessili e ai cantieri navali e non furono erogati prestiti e aiuti a quelle popolazioni che precipitarono in una crisi profonda. Riesplose cruenta una epidemia di colera, partita dal porto di Ancona al rientro delle truppe dalla Crimea, e iniziò per i veneti “liberati” l’emigrazione permanente, specialmente verso l’America del Sud.
 

Storia del movimento in Usa:  Imperialismo e sindacati

Nonostante la depressione, negli anni ’90 gli Stati Uniti erano emersi come la prima potenza industriale. Già nel 1890 erano i primi produttori di ferro e acciaio; nel 1899 lo divennero per il carbone. Contemporaneamente crebbe anche l’esportazione di capitali. Le piccole aziende venivano spazzate via da sempre più grandi e meno numerose “corporations”. Erano una potenza mondiale anche dal punto di vista militare: negli ultimi anni del secolo si erano costruiti un impero, grazie alla guerra con la Spagna, in America Centrale e nel Pacifico, oltre a controllare politicamente e economicamente molti paesi dell’America Latina.

Per la classe operaia invece non c’era molta ragione di essere contenti. La crisi aveva avuto un impatto durissimo sulle condizioni di vita del proletariato, e non erano molti i frutti della “prosperità senza precedenti” di cui potessero godere. Ancora nel 1900 i salari erano del 10% al di sotto di quelli precedenti alla crisi del ’93.

Nessuna sorpresa quindi se negli stessi anni il movimento operaio, misurato sulla partecipazione ai sindacati, mostrò una ripresa vigorosa: da meno di mezzo milione di iscritti nel 1897, i sindacati nel 1904 ne contavano oltre due milioni; e naturalmente la gran parte andava all’A.F.L., che ne raccoglieva l’80%. In quel periodo raddoppiò anche il numero degli scioperi, e nella maggioranza dei casi avevano successo.

Nel corso degli anni ’90, e soprattutto verso la fine del decennio, si diffuse in certi settori padronali la disponibilità a raggiungere accordi collettivi con i sindacati su questioni chiave come salari e orari. In parte questa disponibilità da parte del padronato fu dovuta al desiderio di evitare conflitti durante la guerra ispano-americana (1898-1900), un periodo in cui non si dovevano mettere a repentaglio le lucrose commesse statali.

Ma c’era un’altra ragione per questo atteggiamento del padronato. Era il periodo di grande sviluppo del capitale monopolistico; nel solo 1898 la capitalizzazione delle concentrazioni industriali raddoppiò rispetto all’anno precedente. I monopoli in formazione avevano bisogno di controllare la produzione e i prezzi, e in questo soffrivano della concorrenza degli imprenditori non raggiunti dal monopolio; quindi era vitale che queste aziende si associassero al monopolio, e se questo non era possibile dovevano essere schiacciate e tolte di mezzo. Qui entrava in gioco il sindacato, che poteva essere lo strumento per raggiungere il risultato.

Per questo i padroni verso la fine del secolo iniziarono a riconoscere il closed shop: in base a un contratto tra associazione di imprenditori e sindacato, i primi si impegnavano a assumere solo iscritti al sindacato; in cambio il sindacato garantiva che nessuno dei suoi iscritti avrebbe lavorato per le aziende fuori dall’associazione padronale. In alcuni casi i sindacati arrivarono al punto di far scioperare gli operai di quelle aziende.

Ma a parte il fatto che i vantaggi per gli operai riguardavano quasi esclusivamente quelli che erano già ben posizionati nella produzione, gli specializzati, nessuno parlava del continuo aumento del costo della vita, che quasi annullava gli aumenti salariali. Né si ricordava che in molte produzioni di massa già monopolistiche questo tipo di idillio non esisteva.

Beati nella loro rosea visione del mondo imprenditoriale i capi dell’A.F.L. non vedevano, o non volevano vedere, il lato oscuro della condizione operaia, che riguardava non solo gli strati più bassi della classe. Parlavano di “Era dei Buoni Sentimenti” tra capitale e lavoro, e prevedevano solo rapporti idilliaci tra due componenti che materialisticamente non possono che essere violentemente contrapposte.

Anche se alcuni settori della borghesia si mostravano interessati ad aperture verso il movimento sindacale, il padronato nella sua grande maggioranza non dimenticava quale era il suo obbiettivo più importante, distruggere il movimento sindacale, o fisicamente o rendendolo inoffensivo. La ripresa dell’offensiva fu favorita dalla crisi del 1893; in seguito la crescita del sindacato non fu che ulteriore incentivo a mobilitarsi per la crociata contro il sindacalismo. La parola d’ordine era l’open shop, cioè, in teoria, la negazione del closed shop: i dipendenti non dovevano essere costretti ad iscriversi ad un sindacato; questo in ossequio al tanto sbandierato mito americano della libertà individuale, per cui sia operai sia padroni contano per uno; regola che, oltre che senza alcun valore reale, non era mai rispettata in primis dai padroni, che, come in questo caso, non esitavano a mettersi d’accordo per combattere i lavoratori.

Ma, mentre da un lato la borghesia metteva in funzione il bastone, non si negava nemmeno l’uso della carota, cioè la corruzione degli strati più privilegiati della classe, la cosiddetta aristocrazia operaia, facendo partecipare i suoi rappresentanti a organismi interclassisti, che avrebbero dovuto eliminare i contrasti tra capitale e lavoro. Il più importante di questi fu la National Civic Federation, che il rapporto ha descritto nel suo funzionamento, e nella sua opera di sostanziale boicottaggio delle lotte operaie, in collaborazione con i dirigenti della A.F.L. che volentieri si erano lasciati irretire dalla sottile corruzione della borghesia. Una corruzione che funzionava a tutti i livelli dell’organizzazione, che il rapporto descrive in dettaglio.

Nell’Ovest vi fu una reazione organizzata al modo di funzionare dell’A.F.L., che, federazione di sindacati dell’aristocrazia operaia, trascurava i proletari delle miniere e di altri mestieri negli Stati più occidentali. Abbiamo in precedenza visto la nascita della Western Federation of Miners su corrette basi di classe; questo sindacato favorì la formazione di due federazioni di sindacati, in successione, la Western Labor Union e la American Labor Union, che scrissero pagine di lotte militant condotte contro il duplice nemico, i capitalisti e il bonzume della American Federation of Labor. Il loro declino fu solo una premessa alla nascita, nel 1905, degli Industrial Workers of the World.
 

La guerra in Siria

Nel nostro primo rapporto sulla questione siriana, seguito da un articolo apparso nei numeri 351 e 352, abbiamo delineato, dopo un breve resoconto storico, la natura delle manifestazioni di protesta iniziate nel marzo 2011, le peculiarità degli attori interni ed esterni, il peso della classe operaia e quello della borghesia, e ribadito l’inesistenza, in questa fase imperialista del capitalismo, di quella che l’opportunismo chiama “borghesia progressiva”, camuffata da anti-imperialista. Non esiste oggi una classe o sotto-classe borghese rivoluzionaria che il proletariato debba appoggiare.

Abbattere l’imperialismo senza eliminarne la causa, il capitalismo, è impossibile, è una illusione. Solo l’anticapitalismo è l’unica vera lotta all’imperialismo. Le fazioni borghesi rivali che oggi si contendono il potere in Siria, quella guidata da Assad e le opposizioni gestite e manovrate prevalentemente dall’esterno, sono indiscutibilmente nemiche del proletariato siriano, mediorientale ed internazionale.

Delineavamo quindi il complesso quadro siriano fra cause interne, alla cui radice va ricercata la crisi internazionale del capitale, ed esterne, tra cui le necessità che hanno mosso il colonialismo del recente passato e scuotono l’attuale imperialismo.

Il secondo rapporto, presentato alla scorsa riunione generale di Torino e brevemente riassunto sull’ultimo numero del giornale – il 357 – descriveva il sostanziale mutamento delle dinamiche della crisi siriana, raccontando la fine delle manifestazioni antigovernative, represse dal regime, e l’inizio della guerra che tutt’ora vede protagonisti l’esercito di Assad e gli eterogenei gruppi dell’opposizione.

In questi ultimi mesi, grazie anche all’incremento qualitativo e quantitativo delle armi ricevute dai ribelli, il conflitto si è inasprito. Damasco ed Aleppo sono teatro di quotidiani sanguinosi scontri, come altre roccaforti antigovernative assediate dalle forze fedeli al regime. Il presidente Bashar al-Assad ha respinto la proposta avanzata dal premier britannico di un salvacondotto per lasciare il paese, forte dell’appoggio di Teheran, Mosca e Pechino. Si dichiara l’ultimo bastione laico della regione e non esita a lanciare accuse contro le potenze occidentali: «Il problema non è tra me e il popolo, la questione è che ho contro gli Stati Uniti, l’Occidente, molti paesi arabi e anche la Turchia».

Il conflitto sta mettendo in ginocchio il sistema produttivo del paese, bloccato da quasi due anni, a scapito di gran parte della popolazione, anche per l’inflazione alle stelle. L’effetto dell’embargo imposto da USA e Unione europea sui prodotti petroliferi ha dato i primi risultati: mezzi di trasporto fermi e penuria di gasolio da riscaldamento in alcune città. Molte fabbriche sono ferme, gli operai non ricevono salario da mesi, inizia a scarseggiare anche il cibo.

Ad Aleppo, seconda città siriana, si combatte da oltre tre mesi, strada per strada; alcuni quartieri sono in mano all’esercito altri ai ribelli; chi può scappa, ingrossando il numero degli sfollati. Anche a Damasco il conflitto si è intensificato, le forze antigovernative hanno invano provato a conquistare la città. L’aviazione colpisce frequentemente i quartieri meridionali della città, in parte controllati dai ribelli.

Nei sobborghi della capitale l’esercito siriano ha bombardato un campo profughi che ospita la maggior parte degli oltre 500 mila palestinesi presenti nel paese. Nel campo vi erano stati dieci intensi giorni di combattimenti tra fedeli del presidente e coloro che vorrebbero rovesciarlo: i ribelli hanno costretto alla fuga il comandante del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, alleato del regime.

Il numero dei morti continua a crescere, si stimano circa 60 mila vittime in 21 mesi di conflitto, mentre i profughi all’estero sono mezzo milione nelle strutture preparate in Turchia, Iraq, Giordania e Libano che sono ormai al collasso. Un numero ancor più elevato è rappresentato dai rifugiati interni, individui e famiglie che hanno perso casa e lavoro.

Tra le milizie lealiste, tutt’ora ben equipaggiate, non si sono registrate defezioni significative, pertanto Assad può respingere più o meno agevolmente ogni attacco. Ma, evidentemente, fin dall’inizio si è impedita la soluzione militare e la situazione viene mantenuta in stallo: alla variegata opposizione è fornito dall’estero il giusto dosaggio di armi e milizie, molte delle quali legate a gruppi di integralisti islamici.

In Turchia si è eletto un comando unificato, da cui è stato escluso il colonnello Riad al-Asaad, capo dell’Esercito Siriano Libero; Fratelli Musulmani e salafiti ne rappresentano circa i due terzi. In questi mesi si sono formate decine di brigate, organizzate su base locale e piuttosto indipendenti tra loro. Compiono incursioni e si ritirano. Anche le armi in uso dimostrano un salto qualitativo: diversi velivoli di Assad sono stati abbattuti negli ultimi mesi.

A dicembre Obama ha formalmente riconosciuto come interlocutore l’opposizione siriana, definita voce della resistenza. Ma i combattenti del Fronte Al Nusra, considerato vicino al braccio iracheno di Al Quaeda, restano nella lista nera degli Usa. Un gruppo della CIA nel Sud della Turchia decide a quale delle numerose fazioni dei ribelli spettino, volta per volta, i fucili automatici, i lanciagranate e i cannoni anticarro.

Nei primi giorni di dicembre la portaerei americana Eisenhower, con a bordo 8 mila militari e numerosi cacciabombardieri, è giunta dinanzi alle coste siriane. Ma il piano di attacco congiunto, che avrebbe dovuto coinvolgere anche Gran Bretagna, Francia, Turchia, Israele, forse la Giordania e qualche altro paese arabo, è temporaneamente stato sospeso.

La Russia ha ribadito l’appoggio al presidente siriano, dichiarazione prontamente sostenuta da tutti i BRICS: Russia, Cina, India, Brasile e Sud Africa.

Sebbene le petromonarchie del Golfo premano per una soluzione radicale della crisi siriana, forse la Casa Bianca potrebbe prender tempo e valutare altri scenari. Per la sua alleanza con Teheran il regime di Damasco appare oggi un rivale strategico. La lezione dell’intervento in Libia forse fa presente agli Stati Uniti che non sono ancora riusciti a trovare o a costruire una opposizione politica in grado di sostituire il regime.

A gennaio la Nato ha approvato il dispiego di missili Patriot lungo la frontiera con la Turchia e di nuovo personale americano.
 

(Seguito dei resoconti nel prossimo numero)

 
 
 
 
 

PAGINA 3

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

La questione della partecipazione agli scioperi e l’attacco al contratto nazionale
Rapporto alla riunione di partito a Genova

Il rapporto sindacale esposto a Torino esaminava il periodo intercorso fra lo sciopero generale dei sindacati di base del 22 giugno contro la “Riforma del lavoro”, cosiddetta “Riforma Fornero”, e i risultati del Comitato centrale della Fiom del 5 e 6 settembre, segnato da un nuovo cedimento nella vertenza per il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici.

Il periodo successivo, da settembre a gennaio, al quale abbiamo fatto riferimento a Genova, ha avuto quali episodi più significativi lo sciopero “europeo” del 14 novembre, la firma del “Patto sulla Produttività”, l’epilogo della vertenza contrattuale dei metalmeccanici il 5 dicembre.
 

Lo sciopero “europeo”

Dopo la controriforma delle pensioni e del mercato del lavoro – approvate rispettivamente a dicembre 2011 e a giugno 2012 – e la legge di “revisione della spesa pubblica” (la cosiddetta “spending review”) non vi sono stati ulteriori significativi provvedimenti governativi contro la classe lavoratrice. Evidentemente i successi riportati dal regime borghese sui lavoratori sono stati di tale portata da permettere una pausa.

In questa momentanea tregua è giunto dall’alto, cioè dalla Confederazione Europea dei Sindacati, l’indizione di una giornata europea di mobilitazione contro la cosiddetta austerità per il 14 novembre. La Ces non è altro che un ufficio di rappresentanza dei principali sindacati di regime europei, un organismo senza alcun contatto con la classe lavoratrice. In Italia vi aderiscono Cgil, Cisl e Uil. I contenuti della piattaforma con cui questo organismo chiamava alla mobilitazione erano quelli del sindacalismo di regime: regole imposte al capitalismo, impossibili da applicare o inutili ai fini della difesa dei lavoratori, da ottenere con un “patto sociale”, cioè con la pace sociale e la trattativa, senza la lotta.

La mobilitazione in diversi paesi si è ridotta a piccoli presidi, ma in Grecia, Spagna e Portogallo molti sindacati annunciavano di aderirvi indicendo scioperi generali. Sicché, al di sopra dell’ideologia borghese della Ces, la giornata vedeva scendere in sciopero contemporaneamente i lavoratori di alcuni paesi europei, in un accenno di unione internazionale della classe lavoratrice.

In Italia aderiva alla mobilitazione per prima la Confederazione Cobas, proclamando lo sciopero generale per l’intera giornata, e successivamente la Cgil, con sole 4 ore di sciopero. Gli altri sindacati di base, Usb e Cub, tradivano ancora una volta il principio dell’unità d’azione dei lavoratori, con la giustificazione che la piattaforma dello sciopero era contro i veri interessi dei lavoratori. Non comprendono, o fingono di non comprendere, che nello sciopero più i lavoratori si sentono forti più sono portati a superare i falsi obiettivi del sindacalismo di regime e i suoi metodi e ad abbracciare le parole d’ordine che li chiamano alla lotta e le rivendicazioni fedeli ai loro veri interessi. È per questa ragione che la Cgil non si limita a rarefare gli scioperi ma, quando li organizza, si sforza di dar loro un carattere inoffensivo. Usb e Cub – ma anche i Cobas che il 14 novembre hanno organizzato cortei separati – dividono gli scioperi indebolendoli, privano i cortei organizzati dalla Cgil dei lavoratori più combattivi aderenti al sindacalismo di base e contribuiscono così a renderli più blandi e controllabili favorendo in tal modo proprio il sindacalismo di regime.

A queste accuse l’obiezione principale mossa dai sostenitori delle azioni separate è che, partecipando agli scioperi ed ai cortei confederali, i lavoratori mobilitati dai sindacati di base sarebbero assimilati da giornali e televisioni a quelli mobilitati dalla Cgil ed alle sue rivendicazioni, portando così acqua al mulino del sindacalismo di regime. Questa obiezione mostra quanto lontane dal vero sindacalismo di classe siano le dirigenze dei sindacati di base: un organismo sindacale fedele agli interessi dei lavoratori non può che trovare dei nemici negli organi di informazione che sono in mano alla classe dominante e che si faranno sempre veicolo di propaganda del falso sindacalismo. È rapportandosi direttamente coi lavoratori, sul posto di lavoro, negli scioperi, nelle piazze, che il sindacato di classe porta loro le proprie posizioni, e non può farlo che coi propri mezzi, coi propri organi di stampa e propaganda, non certo con gli strumenti della classe nemica. Le dirigenze dei sindacati di base sono riformiste e infatti credono alla favola borghese dell’informazione pubblica, cioè di uno strumento neutro nella lotta di classe, che non starebbe né coi lavoratori né con la borghesia.

La scelta di Usb e Cub di non aderire allo sciopero ha trovato una maggiore opposizione al loro interno rispetto al passato. Nella Cub, per quanto ne sappiamo, la federazione di Vicenza e quella fiorentina hanno aderito allo sciopero, e così pure la Cub SUR (Scuola Università Ricerca).

Nella Usb i militanti del nostro partito iscritti a questo sindacato hanno redatto e diffuso un “Appello agli organi dirigenti Usb per l’adesione allo sciopero generale europeo”, analogamente a quanto fatto nell’ultimo anno e mezzo in altri tre scioperi generali, non rivolgendosi alla dirigenza ma ai lavoratori, agli iscritti e ai militanti sindacali, diffondendo il corretto indirizzo sindacale classista.
 

Padroni, governi e sindacati contro il contratto nazionale

L’obiettivo borghese della distruzione del contratto nazionale è noto. Il padronato vuole definire salari e condizioni di lavoro aziendalmente per meglio dividere i lavoratori, metterli in concorrenza, abbassare i salari e frenare la caduta del saggio del profitto che avanza inarrestabile.

I sindacati di regime, coerenti a se stessi, non hanno organizzato la lotta contro questo cruciale attacco ma si sono proposti di cogestirlo per renderlo graduale e tutelare la loro funzione di intermediari fra classe lavoratrice e padronato, garantita dagli industriali, quale mezzo utile ad impedire le lotte.

Le manovre contro il contratto nazionale sono state inaugurate da Cgil, Cisl e Uil a maggio 2008 con la sigla di una piattaforma comune titolata Linee di riforma della struttura della contrattazione il cui obiettivo era il miglioramento della competitività e produttività delle imprese che, per il sindacalismo di regime come per il padronato, è la condizione necessaria per migliorare i salari. A tal scopo il documento si proponeva di:
 - «migliorare gli spazi di manovra salariale e normativa della contrattazione aziendale o territoriale»;
 - legare gli aumenti salariali nella contrattazione aziendale a «parametri di produttività, qualità, redditività, efficienza, efficacia», quindi non sicuri e finalizzati ad aumentare lo sfruttamento,
 - «superare il biennio economico e fissare la triennalità», che danneggia economicamente i lavoratori;
 - rafforzare gli enti bilaterali «anche sui temi del welfare contrattuale», utile a demolire il sistema previdenziale e di assistenza statale;

Inoltre la piattaforma proponeva:
 - la certificazione da parte dello Stato del numero degli iscritti alle organizzazioni sindacali per stabilire quelle legittimate a partecipare alle trattative, questo per erigere un nuovo muro a difesa dei sindacati di regime contro le organizzazioni sindacali di base e il futuro sindacato di classe, analogamente a quanto già fatto nel Pubblico Impiego;
 - il rafforzamento dell’unità fra Cgil, Cisl e Uil stabilendo che nei rinnovi contrattuali le piattaforme sindacali sarebbero state «proposte unitariamente», quale garanzia reciproca fra i tre sindacati di regime.

A gennaio 2009, associazioni padronali, Cisl, Uil e Ugl firmavano un Accordo quadro per la riforma degli assetti contrattuali che accoglieva i punti del documento del maggio 2008, tranne per la parte riguardante la certificazione della rappresentatività e l’unità sindacale, e introduceva per il calcolo del “tasso di inflazione programmata”, previsto con l’Accordo del luglio 1993, un nuovo indice, l’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i paesi dell’Unione Europea, che non tiene conto dei prezzi dei beni energetici importati.

Per il Ministro del Lavoro in carica del governo Berlusconi Maurizio Sacconi (ex membro del Psi) l’accordo promuoveva «lo spostamento del cuore della contrattazione dal livello nazionale alla dimensione aziendale e territoriale».

La Cgil non firmava adducendo quale motivazioni che, da un lato, col nuovo indice Ipca non sarebbe stato recuperato dai salari il potere d’acquisto perso con l’inflazione, il che era vero, ma valeva già col tasso d’inflazione programmato dell’accordo del luglio ‘93, firmato anche dalla Cgil; dall’altro, l’accordo «non attuava davvero un allargamento del secondo livello contrattuale»! La mancata firma quindi non era a difesa del contratto nazionale e alzava la questione della difesa dei salari solo come pretesto.

Dopo l’accordo del gennaio 2009 l’iniziativa dell’attacco al contratto nazionale passava dalle Confederazioni sindacali di regime alle loro Federazioni di categoria, con la disdetta da parte di Fim e Uilm del contratto unitario dei metalmeccanici del gennaio 2008 e la sigla con Federmeccanica di un contratto separato, a ottobre 2009, che accoglieva i contenuti dell’accordo confederale separato di gennaio.

L’anno successivo, il 2010, scende in campo la Fiat con l’Accordo di Pomigliano (giungo 2010), poi esteso a Mirafiori (gennaio 2011), alla ex Bertone (maggio), e, con l’uscita dell’azienda da Confindustria e la disdetta degli accordi sindacali in essere (novembre), a tutti gli stabilimenti, e sigla con Fim, Uilm, Fismic e Uglm un contratto collettivo per il Gruppo diverso dal contratto dei metalmeccanici.

A fronte dell’affondo di Fiat e Federmeccanica, la Fiom si limita a pochi scioperi simbolici, all’azione legale e agli appelli contro le intese definite “illegittime”. Non può e non vuole imbastire una vera lotta. Non può, perché in tutti i decenni precedenti non ha lavorato per costruirne le premesse necessarie, non ha preparato i lavoratori allo scontro ma li ha sempre illusi di potersi difendere appellandosi al rispetto delle regole, dei cosiddetti “diritti”, della democrazia. Non vuole farlo, perché accettare lo scontro sul piano della forza, impegnarsi in questa prospettiva, significa negare nella pratica il ruolo delle “regole”, l’idea della conciliabilità degli interessi della classe lavoratrice da una lato e del Capitale dall’altro. Significherebbe negare la natura della Fiom, della Cgil, che si fonda sulla collaborazione fra Lavoro e Capitale, in difesa della democrazia, che altro non è che il capitalismo.

Fedele a se stessa, non per scelta ma per forza, la Fiom subisce continue sconfitte, e, peggio, le subiscono i lavoratori. Ancora una volta si sono infrante le illusioni della sua sinistra interna che, a fronte della grande manifestazione del 16 ottobre 2010, quattro mesi dopo il referendum di Pomigliano, con decine di migliaia di operai in piazza, credeva possibile che la Fiom guidasse allo scontro quella grande forza che era stata in grado di mobilitare.

Illusioni sgretolatesi nel rifiuto di condurre una lotta generale della categoria, negli accordi aziendali firmati dalla stessa Fiom alla ex Bertone (maggio 2011), alla Lear di Caivano (settembre) – che accolgono i contenuti dell’Accordo di Pomigliano – alla Fincantieri di Monfalcone (settembre), fino al misero epilogo del nuovo Ccnl separato dei metalmeccanici il 5 dicembre 2012 e ai recenti accordi aziendali unitari alla Fincantieri di Castellammare di Stabia e alla VM Motori di Ferrara (febbraio 2013).

La Cgil ha favorito l’inerzia della Fiom non organizzando alcuna lotta a supporto né dei metalmeccanici né degli operai Fiat e siglando il 28 giugno 2011 con Cisl, Uil e Confindustria un nuovo Accordo Interconfederale che, in cambio di un’intesa sulla certificazione degli iscritti e sulla unità dei tre sindacati confederali come voleva la piattaforma unitaria del maggio 2008, si spostava, nel rafforzamento della contrattazione aziendale a discapito di quella nazionale, oltre quanto aveva fatto l’Accordo separato del gennaio 2009, agevolando le deroghe al contratto nazionale nei contratti aziendali e territoriali in materia di “prestazione lavorativa, orari e organizzazione del lavoro”, rendendole efficaci per tutti i lavoratori dentro l’azienda e vincolanti per i sindacati firmatari, dimostrando così la vera ragione per la quale la Cgil non aveva firmato l’accordo del gennaio 2009.

Con l’Accordo del 28 giugno ciò che la Cgil ha difeso è il suo posto ad ogni livello di trattativa, il suo ruolo di sindacato di regime cercando di garantirlo con la certificazione, operata attraverso lo Stato (con l’Inps e il Cnel) ma senza un intervento legislativo, così da poter nascondere la sua natura di sindacato parastatale dietro l’apparenza di sindacato libero. Questo obiettivo lo ha barattato oggi con il contratto nazionale, come d’altronde ha fatto, fin dalla sua ricostituzione, dall’alto e già su basi di regime, nel 1944, con tutte le altre sconfitte subite dalla classe lavoratrice.

A ulteriore dimostrazione della vera ragione per cui la Cgil non aveva aderito all’accordo sulla riforma della contrattazione del gennaio 2009, nel nuovo accordo del giugno 2011 non si faceva menzione dell’indice Ipca, che era l’unica fra le motivazioni con cui la Cgil aveva rifiutato la firma dell’accordo di gennaio 2009, che interessasse ai lavoratori, affermando che con esso «il livello nazionale non recupererà mai l’inflazione reale», e che ora, sotto silenzio, veniva accettato. Di fatto restava tutelato dal contratto nazionale solo il minimo salariale.

La solita ragione con cui la Cgil giustificava l’Accordo del 28 giugno – quella di fare un patto col padronato, cedendo un poco in cambio di pretesi vantaggi, per non perder di più e per costruire una trincea contro ulteriori peggioramenti – dimostrerà la sua inconsistenza e il suo effetto fallimentare ai fini della difesa degli interessi della classe lavoratrice.

Solo tre mesi dopo, un ulteriore colpo al contratto nazionale arrivava dal governo, con la cosiddetta Manovra di Ferragosto, il cui art. 8, titolato “Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”, si dava la possibilità ai contratti aziendali e territoriali di derogare alla legge sostanzialmente in tutte le materie riguardanti il lavoro, esclusi i minimi salariali, col solo limite del rispetto delle leggi costituzionali e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie.

A novembre 2011 cadeva il governo Berlusconi e si insediava quello Monti, sostenuto da PD e PDL. Berlusconismo e antiberlusconismo governano insieme dimostrando la falsità della contrapposizione fra i due schieramenti con cui da 18 anni in Italia si abbindolano i lavoratori. Il nuovo governo – espressione della dittatura del Capitale quanto i precedenti, dall’unità nazionale ad oggi – non elimina l’art. 8 anzi ne consolida gli obiettivi, con la riforma del mercato del lavoro del ministro Fornero che renderà più facili i licenziamenti individuali modificando l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300 del 1970).

A fine 2011 Fim, Uilm, Fismic, Uglm e Federmeccanica firmano, senza la Fiom, un “Protocollo d’intesa sulla disciplina specifica per il comparto auto” che applica sia l’Accordo del 28 giugno, in quanto deroga al Ccnl metalmeccanico (quello separato dell’ottobre 2009), sia l’art.8. Si dimostra come l’Accordo del 28 giugno da un lato funzioni nella parte utile a demolire il contratto nazionale, dall’altro non impedisca l’utilizzo dell’art.8.

Nemmeno ne viene applicata la parte relativa alla rappresentatività e all’unità sindacale dei confederali. Questo aspetto interessa ai lavoratori non perché comporti un danno ai loro interessi ma in quanto aiuta a comprendere come uno dei pilastri del sindacalismo di regime – l’unità sindacale fra Cgil, Cisl e Uil – sia solo un inganno contro la classe lavoratrice. L’unità che interessa ai lavoratori è quella nello sciopero e potrà essere realizzata solo sul cadavere dei sindacati di regime.

L’accordo del 28 giugno non è servito a evitare la firme separate del nuovo Contratto collettivo Specifico di 1° livello per i lavoratori del gruppo Fiat (dicembre 2011), né quella del Protocollo d’intesa per le deroghe nel comparto auto (dicembre 2012), né, come vedremo, quella del nuovo contratto dei metalmeccanici, il 5 dicembre scorso.

Le deroghe “alla prestazione lavorativa, agli orari e all’organizzazione del lavoro” previste dall’accordo del giugno 2011, sono state accolte nei rinnovi contrattuali unitari dei lavoratori delle cooperative di distribuzione (febbraio 2012), dei chimici (settembre), degli alimentaristi (ottobre), del settore energia e petrolio (gennaio 2013), delle telecomunicazioni e degli elettrici (febbraio).

Di meglio sono riusciti a fare la Cgil Funzione Pubblica e le federazioni di Cisl e Uil nel rinnovo contrattuale per i lavoratori delle Cooperative Sociali (dicembre 2011), in cui si è aperto alla deroga nell’applicazione degli incrementi salariali – miserrimi – alle imprese in difficoltà.

Infine, l’intesa unitaria del giugno non ha impedito un nuovo accordo confederale separato sulla contrattazione, nel novembre scorso, fra Cisl, Uil, Ugl e padronato – il terzo in quattro anni – titolato “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, che marca un nuovo avanzamento nell’offensiva al contratto nazionale, stabilendo che:
- gli aumenti dei contratti aziendali e territoriali legati alla produttività (i cosiddetti “Premi di produzione” o “di rendimento”) non vadano ad aggiungersi a quelli del Ccnl (fissati con l’indice Ipca) ma li comprendano in essi. In questo modo si è aperta la via per differenziare i minimi salariali azienda per azienda, fatto che dovrebbe rendere più attraente per le imprese dotarsi di un contratto integrativo, che ad oggi riguarda solo il 30% di esse;
- la contrattazione nazionale regoli aspetti del lavoro oggi definiti in modo prevalente o esclusivo dalla legge. Questo è possibile solo in virtù dell’art.8, in quanto altrimenti un contratto non potrebbe derogare alla legge. Fra le materie indicate dall’accordo a tal proposito le più rilevanti sono la “equivalenza delle mansioni” e la “integrazione delle competenze”, che significa aprire la strada al “demansionamento”.

La Cgil non ha firmato l’Accordo, denunciando questi peggioramenti ed altri. Ma si tratta del solito gioco delle parti fra i tre confederali usato fin dai primi anni del dopoguerra per confondere i lavoratori col falso obiettivo dell’unità sindacale.

Venti giorni dopo la firma dell’Accordo, il 10 e l’11 dicembre, si è svolto a Milano un seminario con tutti i vertici della Cgil, i segretari generali delle federazioni di categoria e delle strutture regionali. Una segretaria confederale, intervistata, ha spiegato l’obiettivo della Cgil: «modificare in profondità il sistema di contrattazione. Senza però abbandonare le linee guida che abbiamo già stabilito con l’accordo interconfederale del 2011, [affidando] al secondo livello di contrattazione materie come la gestione degli orari, la classificazione, l’organizzazione del lavoro, la gestione delle flessibilità».

Certo, parole vaghe, che aggiungono poco a quanto già di fatto compiuto coi precedenti accordi a danno del contratto nazionale, ma che esprimono un concetto semplice: quanto è stato fatto non basta e lo svuotamento della contrattazione nazionale deve andare oltre. E non vi è altra direzione che quella già imboccata dall’Accordo sulla Produttività del 21 novembre scorso, che, fra l’altro, si richiama esplicitamente proprio all’Accordo del 28 giugno 2011.

L’ultimo colpo al contratto nazionale, in ordine di tempo, è stato portato a segno dal padronato il 5 dicembre col rinnovo del Ccnl separato dei metalmeccanici, firmato da Fim, Uilm e Uglm.
 

Il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici

Della lotta intorno al Ccnl dei metalmeccanici abbiamo ampiamente riferito nel precedente rapporto pubblicato sul n. 356 del nostro giornale, giungendo fino al C.C. della Fiom del 5 settembre scorso.

In estrema sintesi, l’ultimo contratto unitario di Fim, Fiom e Uilm con le associazioni padronali era stato quello del 20 gennaio 2008, scaduto a fine 2011. Però, a ottobre 2009, dopo aver disdetto quel contratto unitario, Fim e Uilm ne hanno firmato uno separato con Federmeccanica, di durata triennale, scaduto quindi a fine 2012.

In vista della scadenza del contratto unitario, a fine 2011, la Fiom aveva redatto una sua piattaforma per il rinnovo, approvata dall’Assemblea nazionale dei delegati a settembre 2011, il cui cardine era la ricerca di un contratto unitario. Per ottenerlo non esisteva che una strategia: cedere alle posizioni di Fim e Uilm. Per questo la piattaforma era stata rigettata in alcune fabbriche tradizionalmente più combattive: alla Piaggio di Pontedera (60% No), alla Same di Treviglio (68% No), alla Magna di Livorno (71% No).

Dal canto loro Federmeccanica, Fim e Uilm tiravano dritto, forti della debolezza dei lavoratori, colpiti da disoccupazione e cassa integrazione, e fiduciose che la Fiom non avrebbe tentato di organizzare una vera lotta. Il 23 luglio Federmeccanica avviava le trattative per il rinnovo del Ccnl separato dell’ottobre 2009. La Fiom, esclusa, perché non riconosceva quel contratto, fingeva di reagire a muso duro, indicendo per il giorno stesso uno sciopero di 4 ore in difesa della piattaforma. Ma al Comitato Centrale del 5 e 6 settembre ne decideva l’abbandono e la sua sostituzione con una proposta d’accordo a Fim e Uilm ancora più cedevole.

Nemmeno questo nuovo cedimento è servito. A sostegno della nuova proposta la Fiom ha organizzato due scioperi generali: uno il 16 novembre, poi confluito nello sciopero generale europeo del 14 novembre, l’altro il 5 dicembre. Significativamente, mentre Landini parlava dal palco di Milano all’ultimo sciopero, Fim, Uilm e Uglm firmavano il Ccnl con nuovi peggioramenti:
 - la possibilità per le aziende di posticipare la seconda e la terza rata dell’aumento fino a 12 mesi o di assegnarla ai contratti aziendali, legandola alla produttività. Si introduce quindi una prima deroga ai minimi contrattuali.
 - l’introduzione della possibilità per le imprese di disporre di ferie e permessi dei lavoratori anche in modo collettivo per diminuire temporaneamente l’orario di lavoro in caso di minor lavoro.
 - media annuale dell’orario: le 8 ore giornaliere devono risultare come media dell’anno. Da un lato si sforano le 8 ore giornaliere, dall’altro meno ore aggiuntive saranno conteggiate come straordinario.
 - il premio di produzione è legato allo svolgimento di ore di straordinario.

Il nuovo Ccnl dei metalmeccanici marca una vittoria decisiva del padronato nella sua battaglia contro il contratto nazionale.

La risposta della Fiom è stata emblematica: a fronte dell’obiettivo del Capitale di dividere la classe proletaria con tanti contratti aziendali la Fiom ha lanciato la parola d’ordine di lottare... divisi, fabbrica per fabbrica, contro l’applicazione del nuovo contratto. Il che significa opporsi al padronato facendo propri i suoi obiettivi!
 
 
 
 
 
 
 

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Abbandonati i proletari sardi in una lotta solitaria e coraggiosa

A tutte le latitudini, con la crisi economica mondiale, la classe borghese sta sferrando continui attacchi contro la classe operaia, che a sua volta tenta di opporsi a difesa della propria condizione di misera esistenza. Anche in Sardegna non mancano episodi di questa dura lotta contro i licenziamenti seguiti alla fuga dei capitali verso altri lidi più rimunerativi. Alcoa, Euroallumina, Vinilis, Rockwool, etc. sono le fabbriche più colpite in una regione sempre ad economia debole, spesso sostenuta da finanziamenti pubblici statali o regionali, che ultimamente sono venuti a mancare.

La Sardegna si colloca tra le regioni più povere, dopo la Campania, la Basilicata e la Calabria. Gli occupati sardi sono 603 mila: 35 mila lavorano nell’agricoltura, 105 mila nell’industria, 461 mila nei servizi. I salariati sono 438 mila.

Secondo i dati dell’ultimo trimestre 2012, la disoccupazione è salita al 14,6% (Italia 11,2%) dall’11,1% dell’anno precedente. I disoccupati ammontano in numero assoluto a 386.585. In cerca di prima occupazione sono 103 mila (erano 78 mila un anno fa). Per i giovani da 15 al 24 anni la percentuale dei disoccupati è il 42% (Italia 36,5%) mentre nella fascia dai 25 ai 34 anni il 19% (Italia 15%)

Immancabile la reazione di rabbia degli operai a difesa della propria esistenza. Il 13 novembre i “professori” allora al governo si presentarono a Carbonia con l’intento di frenare il malcontento, illustrando un progetto di risanamento con promesse di ingenti investimenti (circa 400 milioni). Ma gli operai non si sono fatti imbonire: a fine mattinata i ministri Passera e Barca si salvano solo scappando in elicottero, rimangono feriti 20 agenti e 2 operai e centinaia di “autorità” bloccate nell’area della ex miniera per non subire la sassaiola.

La maschera dell’opportunismo rotola nella polvere della miniera. Cherchi, ex PCI, ex sindaco di Carbonia, ex parlamentare, ma sempre in carica come traditore sbotta: «Suscita amarezza che un accordo utile e positivo per il Sulcis si sia concluso negli scontri. Enti locali e sindacati hanno invitato il governo nel Sulcis: legittimo non essere d’accordo ma l’ospite [o l’ordine?] è sacro!» (“Unione Sarda” del 14 novembre). Il sindacato di polizia incalza: «inaudita l’azione distruttiva dei lavoratori del Sulcis nei confronti delle forze dell’ordine, lamentiamo la latitanza delle istituzioni. L’attacco contro i poliziotti con sassi e vernice rievoca i momenti bui della nostra repubblica. Non vorremmo che questi atti sfocino oltremodo in azioni ancora più gravi per fare da cassa di risonanza e portare in prima pagina l’esasperazione occupazionale». Un delegato Cisl degli appalti Alcoa: «Siamo i primi a condannare la violenza. Non saremmo mai voluti arrivare a questo tipo di scontro, la situazione è sfuggita di mano. Sappiamo che da questo protocollo di intesa nascerà una nuova possibilità per il Sulcis e questo ci rende felici» (sic!).

Intanto, nei giorni successivi, mentre il governo prepara i piani di intervento, gli stabilimenti sardi dell’Alcoa vengono chiusi, rimangono a casa 500 operai assieme ad altrettanti delle ditte appaltatrici. Questi ultimi, il 7 gennaio occupano la stessa miniera di Serbariu, teatro degli scontri, per rivendicare i 46 milioni promessi come ammortizzatori sociali.

In questa società, basata sul rapporto oppressivo tra Capitale e Lavoro, la lotta rimane una necessità quotidiana come scontro inevitabile tra due classi antagoniste con interessi opposti. È in questa lotta che la classe operaia sperimenta la sue reale condizione subalterna al capitale e ravvisa i suoi nemici: l’opportunismo dei partiti politici sedicenti operai, lo Stato capitalista che si erge con tutta la sua forza contro il proletariato in lotta, i sindacati di regime sostenitori della pace sociale.

Finché perdura e s’impone questa politica opportunista e traditrice la lotta giusta e legittima viene affossata e dispersa in mille rivoli settoriali e aziendali, senza un minimo di collegamento e organizzazione territoriale. Con i moti di Buggerru del 1904 venne proclamato il primo sciopero generale nazionale, quando il sindacato marciava in sintonia con la classe operaia e ne prendeva la direzione mentre oggi si trascina in coda con l’intento di spegnere l’incendio della lotta.

A questa classe operaia il Partito Comunista Internazionale indica la via della lotta di classe, fuori e contro gli attuali sindacati di regime, l’unità di tutte le lotte nel richiedere il lavoro obbligatorio per tutti o il salario pieno ai disoccupati. Questa è la linea che solo un partito rivoluzionario, formatosi e arricchitosi con le lotte operaie di tutti i paesi, sa dare anche proletariato di singole regioni per la difesa di sue particolari condizioni di lavoro, per la sua stessa vita e per la liberazione dal suo stato di schiavitù.
 
 
 
 
 
 


Electrolux - Unica difesa è la lotta di tutta la classe operaia

Questo il volantino distribuito dai nostri compagni agli operai dell’Electrolux a Porcia, in Friuli.

Electrolux ha stabilimenti in tutto il mondo: Europa occidentale e orientale, Nord Africa, Medio Oriente, USA, Messico, Brasile, Sud est asiatico e Cina. Dal 2004 ha chiuso 19 fabbriche e ne ha aperte 9: il 35% della produzione in quelle che il rapporto annuale dell’azienda chiama “Aree ad alto costo” (del lavoro) è stato o sospeso o spostato nelle “Aree a basso costo”, dove oggi si realizza già il 60% della produzione del politicagruppo e l’obiettivo dichiarato è portare questa quota al 70%. In questo modo, Electrolux, è riuscita per ora a difendere il proprio saggio del profitto dall’avanzare della crisi capitalistica.

Ma il processo della crisi non è destinato a interrompersi. La sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto sono malattie congenite del capitalismo. La cura non c’è ma solo palliativi per rimandare il precipitare della crisi: aumentare la redditività del lavoro. Questo significa diminuire i salari e aumentare i ritmi. In sintesi: aumentare lo sfruttamento.

Questo attacco agli operai Electrolux non è il primo e non sarà certo l’ultimo. In questa prospettiva i lavoratori devono prepararsi ad affrontare battaglie sempre più dure. Ed hanno un solo modo per farlo: unirsi sempre di più. Questa unione non è un concetto nebuloso: significa unire le lotte al di sopra dei confini di stabilimenti, d’azienda, di categoria, di nazionalità. La stella polare della classe lavoratrice è sempre una: proletari di tutti i paesi unitevi!

* * *

La crisi del capitalismo mondiale continua inesorabile: licenziamenti, cassa integrazione, contratti di “solidarietà” colpiscono sempre di più la classe lavoratrice. Il padronato per sopravvivere nella competizione capitalistica sempre più aspra impone: salari più bassi, massima flessibilità d’orario, ritmi di lavoro sempre più intensi.

Nei 4 stabilimenti italiani del gruppo (Porcia, Susegana, Solaro e Forlì) Electrolux ha annunciato oltre 1.100 “esuberi”. Per il padronato la questione andrebbe risolta con 1 anno di contratti di solidarietà.

La risposta dei sindacati di regime (CGIL, CISL, UIL, UGL) è quella di attenuare l’urto sociale con promesse e l’utilizzo degli “ammortizzatori sociali”: invece di 1 anno, 2 anni di contratti di solidarietà.

Queste non sono soluzioni al problema del lavoro, che è strutturale nella società capitalistica afflitta dal cancro della crisi di sovrapproduzione.

I lavoratori della Electrolux hanno gli stessi problemi e bisogni di tutti i lavoratori: l’occupazione, il salario, le condizioni di lavoro.

Il sindacalismo di regime fa di ogni crisi e vertenza aziendale una questione a sé, da affrontare e risolvere singolarmente. In questo modo divide la classe lavoratrice e la conduce in ordine sparso al disastro.

I lavoratori invece devono unire le centinaia di vertenze aziendali in un movimento di lotta sempre più unito ed esteso, anche a livello internazionale, per imporre i propri comuni interessi:
 - forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate;
 - riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;
 - salario pieno ai lavoratori licenziati a carico di industriali e finanza.

Questo è possibile solo coi metodi della lotta di classe, cioè con scioperi a oltranza, senza preavviso, con picchetti che impediscano l’ingresso di merci e crumiri, che minaccino di estendersi al di sopra delle aziende e delle categorie: ciò che più teme il padronato non è il danno economico di una lotta, anche forte, chiusa entro l’azienda, ma la possibilità che essa scateni una lotta generale dei lavoratori con un danno economico per tutta la borghesia.

Per condurre questa lotta i lavoratori hanno bisogno di un vero Sindacato di Classe la cui rinascita è possibile solo FUORI E CONTRO i sindacati di regime (CGIL, CISL, UIL, UGL), che debbono la loro forza non alle energie dei lavoratori ma ad uno stuolo di funzionari tutelato dalla borghesia, la quale confida in essi quale strumento più importante per impedire la lotta di classe.

Il credo di questi falsi sindacati e del riformismo politico che li guida è “o capitalismo o morte”: i lavoratori possono vivere e lavorare solo grazie al Capitale e perciò, per tenerlo in vita, debbono essere disposti a ogni sacrificio. Questa concezione conduce ad accettare ogni peggioramento salariale e normativo.

I lavoratori possono ritrovare la forza per difendersi solo tornando a considerarsi quel che sono: una classe sfruttata e oppressa, il proletariato.

La classe lavoratrice non deve farsi alcun carico della crisi del capitalismo che – come ha sempre affermato il marxismo rivoluzionario fin da metà ‘800 col “Manifesto” e il “Capitale” – è inevitabile e risolvibile o col sangue dei lavoratori, cioè con la guerra, o con la morte del capitalismo, cioè con la Rivoluzione.

La lotta sindacale è necessaria ma non è sufficiente perché ogni vittoria non è mai definitiva nel capitalismo: non esistono diritti acquisiti per sempre, ma posizioni conquistate da cui condurre con forza maggiore una lotta senza tregua. Lo dimostrano questi ultimi anni in cui ogni conquista, frutto delle dure battaglie passate, costata anche la vita a molti operai, è stata posta sotto attacco e distrutta. Il sindacalismo di regime, compresa la sua sinistra, non ha organizzato alcuna vera lotta ma facendo appello ai pretesi “diritti” ha condotto i lavoratori di sconfitta in sconfitta.

La lotta sindacale, cioè la lotta economica di classe, ha una prospettiva solo se è considerata una palestra per la lotta politica di classe: per la Rivoluzione, la conquista del potere politico, il superamento del capitalismo.
 
 
 
 
 
 
 
 


Da “Il Sindacato Rosso” del 1921

Stritolata dai debiti di guerra, l’Europa, al termine del primo grande conflitto imperialistico versava in condizioni disastrose. Le borghesie tornavano ad esigere dal proletariato la sottomissione per la ricostruzione delle economie nazionali, da quella classe che avevano macellato nelle trincee e sui campi di battaglia con più di 20 milioni di morti.

L’appello fu prontamente accolto dai grandi sindacati diretti dai riformisti ed affiliati alla Federazione sindacale internazionale borghese di Amsterdam.

Il legame fra i partiti socialdemocratici e il movimento comunista era stato definitivamente reciso dalla lotta rivoluzionaria di classe, che aveva fatto sorgere in Russia il primo Stato proletario e che scuoteva il Vecchio Continente. I comunisti chiedevano l’uscita dei sindacati da Amsterdam.

Come ieri, oggi la borghesia chiede al proletariato collaborazione e i sacrifici, per tentare di porre rimedio alla catastrofe di cui essa è la sola responsabile. Da rilevare come i sindacati diretti dai riformisti, che già avevano collaborato con molti degli Stati nella mobilitazione bellica, dopo si dichiarassero disponibili a sottomettere il proletariato alle necessità della crisi capitalista.

È utile ripubblicare questo articolo di Losovsky, segretario dell’Internazionale Sindacale Rossa, che mette in luce l’atteggiamento invariante della borghesia nei confronti del proletariato e sottolinea quale sia il compito dei comunisti. Ancora oggi non quello di far sopravvivere il capitalismo, come sola condizione per migliori condizioni di vita operaia domani: compito nostro è la distruzione del capitalismo.
 

29 aprile 1922
Ricostruzione o distruzione del capitalismo ?

(...) Quale è l’attitudine delle organizzazioni sindacali? Che devono pensare della ricostruzione dell’Europa e dei progetti giornalmente elaborati in vista di questa ricostruzione nelle cancellerie e nei ministeri?

La Federazione Sindacale di Amsterdam si è già parecchie volte occupata della questione. Alla Conferenza di Londra, nel novembre 1920, ha adottate alcune risoluzioni preconizzanti la stabilizzazione dei cambi e l’annullamento dei debiti di guerra. Quanto ai debiti contratti prima della guerra non ha il coraggio di pronunciarsi. Essa domanda anche la ripartizione delle materie prime per mezzo dell’Ufficio Internazionale del Lavoro presso la Società delle Nazioni.

In una parola i dirigenti di Amsterdam si interessano, con gli economisti ed i riformatori della borghesia, all’opera di ricostruzione (...)

I sindacati riformisti studiano i mezzi di rimediare alla crisi, di ristabilire gli scambi commerciali, e con essi le condizioni normali di sfruttamento e di equilibrio economico, condizione prima, nella loro ideologia, di tutto il miglioramento della situazione della classe operaia.

Così, in un periodo di manifesta decadenza del capitalismo, Amsterdam invita le organizzazioni operaie, non ad affrettare la disfatta della vecchia società in decomposizione, ma a ricercare dei palliativi per attenuare il suo male e dei rimedi per salvarla.

Le risoluzioni di Londra e l’attività della C.G.T. Francese (Consiglio economico del Lavoro, ecc.), i progetti dei sindacati tedeschi e del Consiglio Generale delle Trades-Unions inglesi sono intonati allo stesso spirito. Decisioni prese sulle questioni economiche dalle organizzazioni centrali sindacali e da singoli sindacati di Polonia, di Ceco-Slovacchia, d’Austria e d’altri paesi, rivelano che questa tendenza è generale e che i riformisti limitano tutte le loro speranze al ristabilimento dell’ordine capitalistico.

Rileviamo che il Consiglio Generale delle Trades-Unions inglesi ha fatto propri certi progetti della borghesia progressista del loro paese. La stessa collaborazione si osserva anche altrove. Noi vediamo qui i sindacati riformisti, rappresentanti non la classe operaia nemica della classe capitalista ma la borghesia avanzata, sforzarsi di attenuare i conflitti sociali e di ritardare l’inevitabile sconfitta della società borghese.

Tali sono le conseguenze necessarie della teoria della pratica del sindacalismo riformista. Esso non sarebbe quello che effettivamente è se non tendesse a conciliare gli opposti interessi di classe sulla base del capitalismo; e l’Internazionale di Amsterdam tradirebbe la propria funzione se non desse alle sue aspirazioni la stessa forma e la stessa espressione degli elementi radicali della borghesia inglese, americana e tedesca.

Queste non sono delle fortuite coincidenze. Durante la guerra, questi sindacati non erano che la sinistra della borghesia. Oggi il vincolo fra le organizzazioni operaie riformiste e l’Europa imperialista è particolarmente visibile nelle questioni economiche. Tutte le iniziative di un centro sindacale rivelano una stretta connessione con la borghesia. Come per i dirigenti di quest’ultima, la ricostruzione dell’Europa, cioè a dire del capitalismo europeo, è per il sindacalismo della pace sociale il compito dell’oggi, lo scopo supremo.

Così il capitale non si difende più unicamente con gli organi dello Stato e con le organizzazioni padronali: i sindacati operai riformisti, divenuti durante e dopo la guerra organi dello Stato borghese, lavorano con lui.

Ma per il maggior bene della classe operaia, il vincolo fra le organizzazioni sindacali e gli Stati capitalisti si allenta nell’ora attuale. Se i dirigenti del movimento sindacale si sono completamente affidati alla borghesia, la massa operaia sulla quale si fonda il loro apparecchio burocratico sfugge sempre più all’influenza dell’ideologia capitalista.

Alla teoria della ricostruzione dell’Europa capitalista, un’altra si sostituisce negli animi, rivoluzionaria questa: Non bisogna ricostruire l’ordine capitalistico ma distruggerlo.

Noi lo dobbiamo dire con tutta la chiarezza necessaria. Noi non abbiamo la minima speranza di ricostruzione dell’Europa capitalistica, di ristabilire l’equilibrio economico, e noi continuiamo a contare sulla rovina continua delle grandi e piccole potenze.

I sindacati rivoluzionari pongono la questione in un modo opposto a quello degli uomini di Amsterdam. La classe operaia non ha alcun interesse alla ricostruzione dell’Europa capitalista. Al contrario. Non può essere questione per essa che della ricostruzione di un’Europa proletaria. Alla ricostruzione della vecchia Europa noi opponiamo la costituzione in Europa del potere proletario.

Da ciò non se ne deve dedurre che noi ci disinteressiamo dei progetti, delle conferenze economiche, della questione dei cambi, delle imposte, della relazioni economiche, delle tariffe doganali.

Il sindacato rivoluzionario deve seguire con profonda attenzione l’evoluzione dei problemi economici attualmente impostati. Ma noi ci interessiamo di queste questioni per ragioni ben diverse da quelle dei nostri avversari riformisti. La nostra tattica tende a precipitare il crollo dell’Europa borghese, ad aumentare le sue incertezze, ad accentuare le sue contraddizioni interne, ad indicare alle masse i suoi punti deboli, ad organizzare la nostra classe per abbattere quella nemica.

Perciò noi dobbiamo conoscere, e conoscere bene, i problemi economici. Per meglio agire. Per meglio contribuire alla demolizione dell’Europa capitalistica. I sindacati riformisti vogliono, contemporaneamente, guarire il capitalismo moribondo e combattere in seguito per il socialismo.

Noi vogliamo abbreviare l’agonia del moribondo per arrivare più prontamente al socialismo.

Così su nessun punto, sindacati riformisti e rivoluzionari hanno comunanza di opinioni o di tattica. Ed è un grande vantaggio della classe operaia che le grandi massi organizzate si emancipino sempre più dalla tutela del riformismo.

L’unità del fronte si realizza fra le grandi masse nell’azione pratica. Questa azione allargandosi renderà sempre più problematico il ristabilimento dell’Europa capitalista. Ciò non vuol dire che questa affogherà oggi piuttosto che domani. Un sistema sociale non si sprofonda come un castello di carta. Lunghi anni possono ancora trascorrere prima che l’ordine capitalista abbia terminata la propria decomposizione. Ma la durata di questo processo non è in questione. Non più che la possibilità di miglioramento momentaneo. Il conflitto delle forze sociali che sono di fronte nel mondo e le contraddizioni interne inerenti alla società capitalista, fortemente aggravate dalla guerra, ci autorizzano ad affermare che il declinare del capitalismo è un fatto e che esso precipita.

Fra l’I.S.R. ed Amsterdam tutta la differenza è che i nostri avversari si ingegnano ad infondere un nuovo vigore alla vecchia società di sfruttamento fondata sul salariato mentre che noi ci sforziamo di distruggere le ultime vitali energie del capitalismo. Alla classe operaia di giudicare quale delle due internazionali è sulla buona strada.
 
 
 
 
 
 
 

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Venezuela
Con o senza Chavez non cessa la dittatura borghese

Era il 1999 quando scrivemmo che «l’elezione del demagogo Hugo Chávez a presidente del Venezuela è l’ennesima mossa della borghesia per cercare di contrastare gli smisurati effetti della crisi capitalista. Combinando abilmente il discorso antimperialista, come il suo compare Fidel Castro, con la logorroica demagogia, Chávez così riassume il suo timore: “o facciamo la rivoluzione democratica o la rivoluzione ci travolge”».

Oggi che l’ennesima “personalità” offerta al culto delle smarrite masse operaie viene a mancare, torniamo qui a collocare il “bolivarismo” all’interno della continuità borghese e capitalista della storia moderna del Venezuela.
 

Il dominio dell’oligarchia fondiaria

Successivamente all’indipendenza dalla corona spagnola, il movimento indipendentista condotto da Bolivar, alfiere della liberazione e integrazione dell’America latina, fu sconfitto dalle oligarchie dei proprietari terrieri, che presero il controllo politico della nuova repubblica venezuelana.

In quella nuova fase, nel 1829 divenne governatore il generale José Antonio Páez, un chiaro rappresentante dell’oligarchia fondiaria. Páez dal 1822 aveva esercitato la funzione di capo civile e militare del dipartimento del Venezuela, che comprendeva i territori di Caracas, Carabobo, Barquisimeto, Barinas e Apure, incarico che gli fu confermato dalla Municipalidad de Valencia il 30 dicembre 1826 e lo stesso anno ratificato da Simón Bolívar.

Ma contro questo presto Páez si sollevava, il 27 dicembre del 1829 instaurava un governo provvisorio indicendo le elezioni per la nomina dei deputati per un Congresso Costituente, che si riunì il 30 aprile del 1830 e ratificò il potere di Páez. Da questa data la rivoluzione nazionale rappresentata da Bolivar rallentò per il passaggio del potere ai proprietari terrieri.

Con il loro controllo politico dello Stato, lo sviluppo capitalista in Venezuela avanzò lentamente. L’abolizione della schiavitù avvenne solo nel 1854, aprendo così il mercato della forza lavoro. L’economia della nuova repubblica continuò a girare soprattutto attorno alla produzione e all’esportazione del cacao e del caffè, mantenendo l’impiego di manodopera schiava.

A questa si aggiunse una massa di soldati che, tornati dalla guerra nella condizione di uomini “liberi”, ma senza terra, si offrivano come lavoratori ai proprietari terrieri: la promessa di terra fatta ai soldati che avevano preso parte alla guerra d’indipendenza non fu infatti mantenuta.

Uno dei principali limiti allo sviluppo del mercato interno del Paese era la carenza di vie di comunicazione. Questo portava ad una vita chiusa all’interno dei fondi: era comune che molti proprietari emettessero una propria valuta, valida soltanto nelle loro terre, con la quale pagavano i lavoratori e i peones che, a loro volta, la spendevano nelle botteghe, di proprietà del latifondista. Inoltre la legislazione impediva che questi lavoratori si potessero spostare da una regione all’altra senza un lasciapassare firmato dal proprietario terriero.

Dopo l’abolizione della schiavitù, forma di produzione non più profittevole, si consolidò il sistema delle piantagioni sulla base del binomio “plantación-conuco”, che consisteva nel dare in uso ad alcuni lavoratori una piccola porzione di terreno, il che permetteva al proprietario terriero di mantenere una quantità minima di manodopera fissa.

In questo periodo in Venezuela i diversi gruppi di caudillos (per lo più latifondisti) si contendevano il controllo del governo. Si formarono i fronti politici dei liberali e dei conservatori e, nelle campagne, prese forza la lotta per la terra e per l’abolizione della schiavitù.

A partire dalla seconda decade del XX secolo un insieme di eventi internazionali vennero ad influenzare lo sviluppo del capitalismo in Venezuela.

La caduta del prezzo del cacao e del caffè portò alla crisi delle piantagioni; nel 1929 l’economia agraria, legata fondamentalmente all’esportazione del caffè, precipitò in una crisi dalla quale non riuscirà più a sollevarsi, col Venezuela che perse posizioni nel mercato mondiale a vantaggio dei concorrenti.
 

Lo sfruttamento del petrolio

Benché già nel 1878 si avesse una modesta produzione di petrolio, è a partire dal 1904, con l’introduzione della Legge sulle Miniere, con la quale si stabilì che lo Stato era proprietario del sottosuolo, che si darà impulso al settore con la concessione dello sfruttamento dei giacimenti ad aziende private. Il petrolio si comincia ad estrarre e commercializzare per soddisfare la domanda nel frattempo accresciuta per la Prima Guerra mondiale; la produzione cresce gradualmente e nella terza decade del XX secolo diventa la principale fonte di rendita per l’economia venezuelana. Questa rendita, fin dall’inizio, fu accentrata nelle casse dello Stato.

Nel 1899 prende il potere Cipriano Castro, detto “El Cabito”, caudillo dalla retorica nazionalista. Nel 1908 gli successe il vice presidente, suo luogotenente e compare, Juan Vicente Gomez, con il quale si instaurò una dittatura fino al 1935, anno della sua morte. Il periodo di governo di Gomez sarà fondamentale per il consolidamento dello Stato borghese, nei suoi aspetti repressivo e amministrativo, per soffocare i moti di ribellione dei piccoli caudillos e i conflitti sociali latenti. In questo periodo furono potenziate le vie di comunicazione, necessarie all’integrazione territoriale e allo sviluppo del mercato interno.

Alla fine degli anni Cinquanta, dopo vari governi dittatoriali (dichiarati o celati dietro elezioni), il Venezuela era un paese la cui economia si fondava sull’attività petrolifera. L’agricoltura decadeva nonostante la popolazione fosse in maggioranza rurale. Le aziende dedicate alla coltivazione del cacao e del caffè fecero posto a coltivazioni a ciclo breve, prevalentemente mais, sotto varie forme di conduzione, la mezzadria ma anche l’articolazione proprietario–capitalista-operaio agricolo. La produzione di bestiame resistette di più allo sviluppo capitalista, mantenendo metodi antichi di allevamento, come gli “hato llanero”, allevamenti di pianura.

Nella prima metà del secolo XX una notevole parte della terra si concentrava ancora nelle proprietà dello Stato, della Chiesa e dei latifondisti, molti dei quali discendenti dei combattenti della guerra di indipendenza.

La trasformazione verso una economia fondata sulla rendita petrolifera e la conseguente decrescita dell’agricoltura portò alcune zone alla perdita dell’autosufficienza, ad una riduzione del coltivato e all’aumento delle terre improduttive.
 

Pieno sviluppo capitalistico

Nella seconda metà del XX secolo il Venezuela non ha conosciuto aperte dittature ed ha consolidato, almeno fino ad oggi, un regime parlamentare con governo “eletto dal popolo”.

In Venezuela si dà impulso all’industria e all’agroindustriale, mentre lo Stato sviluppa il servizio sanitario, l’educazione, etc. ect.

Il governo in questo periodo proclama la riforma agraria e dichiara battaglia al latifondismo: infatti i proprietari terrieri non hanno più il controllo dello Stato, la cui politica è ora influenzata dai borghesi, dalle imprese petrolifere (transnazionali), dai banchieri, i commercianti e dal nascente settore industriale. La riforma agraria non ha eliminato il latifondo: lo Stato ha solo consentito ad alcuni proprietari terrieri di liberarsi delle terre improduttive. I “campesinos” (indipendenti o associati in cooperative) che avevano ricevuto la terra con la Riforma Agraria, finiranno per abbandonarla o rivenderla per migrare nelle città alla ricerca di un salario nell’industria petrolifera, nella crescente burocrazia statale o in altre attività economiche. Gli “Asientamentos Campesinos”, gli insediamenti contadini concepiti dalla Riforma Agraria nella decade degli anni Sessanta, si sono ridotti a normali centri abitati volti prevalentemente alla distribuzione, commercializzazione e consumo delle merci al dettaglio.

In questo periodo si consolida l’agricoltura secondo i dettami capitalistici. La produzione delle principali derrate agricole dipende sempre più dal credito bancario e si connette ed integra con l’agroindustria, impiegando sempre meno forza lavoro. Nella produzione di bestiame si è avuto un forte sviluppo capitalistico, in special modo nei settori avicoli e suini, mentre in quello bovino si è mantenuta una attardata produzione tradizionale.

Si dispone abbondantemente di energia idroelettrica che potrebbe incrementare la produzione di beni di largo consumo. Le grandi riserve di gas di cui dispone il Venezuela non vengono utilizzate per la trasformazione petrolchimica. L’industria è fondamentalmente di assemblaggio o dipendente dagli investimenti esteri e da tecnologia importata. Tuttavia esiste una rete di imprese di base nel settore metallurgico. Ma, in questo periodo, tutto ciò non ha avuto grande sviluppo e il Venezuela è rimasto principalmente un produttore di materie prime, petrolio e derivati, ma anche ferro, gas naturale, elettricità e oro. Il ferro è trasformato in acciaio.

Intanto la popolazione è diventata per lo più urbana e quella rurale una minoranza.

Negli anni Ottanta i governi borghesi hanno dato inizio ad una serie di privatizzazioni e di “aggiustamenti macroeconomici”, che hanno portato al “Caracazo” del 27 febbraio del 1989 (ne scrivemmo nel numero 173 di quell’anno), quando le masse scesero in strada e saccheggiarono i negozi a Caracas, La Guaira, Guatire, Guarenas, Los Teques e Valencia obbligando il governo alla repressione per mano dell’esercito causando più di 3.000 morti e imponendo il coprifuoco.

La borghesia non era riuscita a trovare forze politiche con “facce nuove” per irretire il malcontento popolare. I due principali partiti, Azione Democratica e Copei, cristiano sociali, erano del tutto screditati. Per continuare la politica anticrisi nel clima di “pace sociale” occorreva quindi una “nuova” forza politica al governo, che godesse del consenso popolare, o la via del colpo di Stato e del governo dittatoriale.
 

Il bolivarismo

Infatti dopo il “Caracazo” è venuto il colpo di Stato militare del 4 febbraio 1992, intentato da Hugo Chávez e il movimento militare bolivariano. Il golpe fallì, ma non interruppe il processo di decomposizione dei partiti borghesi tradizionali. Le successive elezioni portarono alla vittoria Rafael Caldera, un vecchio politico borghese che approfittò della crisi politica aperta il 4 febbraio per arrivare al governo con un fronte elettorale, chiamato “Convergenza”, che raggruppava tanto politicanti parlamentari di destra quanto di sinistra. Era la prima volta che andava al governo un partito diverso da AD e COPEI. In un certo modo è stato un governo di transizione al periodo seguente, quando irruppe, stavolta elettoralmente, il movimento bolivariano, che capitalizzò tutta l’insoddisfazione delle masse verso i partiti che avevano controllato il Parlamento negli ultimi quaranta anni.

I bolivariani arrivarono al governo nel 1999 con una vasta maggioranza elettorale e ben accetti dalla borghesia, che stabilì relazioni con il nuovo movimento attraverso un gruppo di personalità in vista. Solo un settore minoritario della borghesia ruppe con i bolivariani facendosi rappresentare dal Fronte dei partiti oppositori.

Il secolo XXI inizia con questo ricambio politico. Il movimento bolivariano diventa la forza politica dominante e tiene il governo dal 1999 fino ad oggi, controllando la presidenza, la maggioranza dei governi regionali e molti dei poteri pubblici. Dal punto di vista politico il movimento bolivariano è riuscito a risolvere ai borghesi alcuni dei loro problemi della fine degli anni Ottanta, ha garantito la pace sociale nello sviluppo capitalista, ha protetto gli interessi di banche, industria e commercio.

Ma ha potuto farlo solo per la favorevole congiuntura dovuta all’incremento del prezzo del petrolio. Le maggiori entrate statali hanno permesso al regime di attuare diverse misure populiste e di stringere alleanze in America Centrale e del Sud, con paesi africani e, non ultimo, con Russia e Cina.

I partiti politici che hanno dominato la scena politica negli ultimi quarant’anni del XX secolo ora formano un fronte di opposizione elettorale nel classico schema della democrazia borghese.

Il movimento bolivariano, o “chavista”, come è conosciuto per il suo vistoso rappresentante, Hugo Chávez, ha seguito una politica di pseudo-sinistra che ha chiamato “il socialismo del XXI secolo”, che altro non è che un modo opportunista per attuare il programma del capitalismo in forme democratico-populiste. E il confronto politico interno per il controllo del governo si è incentrato sulla lotta elettorale, parlamentare e mediatica, tra il partito al governo, con i suoi alleati, e il fronte delle opposizioni.

Tuttavia non sono mancati scontri violenti tra queste bande borghesi che tutte si arricchiscono tenendo inchiodate le masse dei lavoratori. Da ricordare lo scontro che si ebbe nell’aprile del 2002, quando vaste mobilitazioni di oppositori provocarono una serie di morti. Queste, attribuite dapprima alle forze governative, si dimostrarono poi orditi proprio dalle opposizioni, che contemporaneamente tentavano un colpo di Stato e catturavano lo stesso Chávez, sostituito al potere con uno dei loro. Ma i bolivariani tornarono al governo immediatamente, soprattutto per la divisione e le contraddizioni all’interno del fronte delle opposizioni.

Negli anni seguenti è continuato il “confronto” tipico di tutte le democrazie parlamentari, necessario alla borghesia per far credere alla classe operaia che esista sempre un’alternativa nella quale possa riporre le sue illusioni quando il governo del momento diventa troppo odioso.

Il governo bolivariano, basandosi sui proventi del petrolio, ha promosso un maggiore sviluppo capitalista. Nel settore agricolo ha dato impulso alla espropriazione e alla distribuzione della terra e allo sviluppo di imprese agroindustriali, sviluppo però raffrenato per il ritardo del settore dell’allevamento.

Il governo ha attuato una politica populista appoggiando alcune attività economiche, come la costruzione di alloggi e la commercializzazione di prodotti alimentari comprati da grandi imprese nazionali o internazionali. Inoltre ha stretto alcune alleanze internazionali, principalmente con la Cina, per il finanziamento di progetti riguardanti il petrolio e alcuni settori produttivi, come la tecnologia satellitare, l’informatica, l’auto e l’agroindustria. Inoltre il governo ha acquisito imprese fallite o in crisi e con problemi finanziari per salvarle e riattivarle. La demagogia del governo ha cercato di spacciare questi provvedimenti come “controllo operaio”, ma si è invece trattato di un processo di consolidamento di un capitalismo di Stato, fondato sulla rendita petrolifera e sul saldo favorevole della bilancia commerciale, che consente l’importazione di merci e tecnologia dall’estero.

Al di là delle fanfaronate tanto dei bolivariani quanto dei loro oppositori, prima di Chávez, con Chávez o dopo Chávez, il Venezuela era e resta un normale paese capitalista, come Cuba e la Cina, nel quale il proletariato deve lottare per le sue rivendicazioni e per il vero socialismo.
 
 
 
 
 
 
 

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

(Continua dal numero scorso)
 

3. Il gioco si allarga all’Asia

La crescente produzione mondiale richiederà sempre nuovi mercati di sbocco, e costringerà i nuovi giganti del petrolio ad una guerra economica permanente. E l’Europa diventerà assai presto un terreno di caccia troppo ristretto. Nel 1891 i Rothschild, per aggirare lo strapotere di Rockefeller, si associarono ai mercanti inglesi Sam e Marcus Samuel i quali praticavano l’import-export in Asia ed erano specializzati nel commercio di prodotti esotici e di conchiglie (Shell) che servivano per ricoprire piccole scatole, allora molto di moda nell’Inghilterra vittoriana. In Asia i due fratelli Samuel possedevano depositi nei punti strategici e una collaudata rete commerciale.

Divenuto agente generale della Bnito, il Consorzio petrolifero dei Rothschild in Russia, Marcus cominciò a trasportare con i suoi cargo il petrolio russo destinato all’Asia. Con una politica commerciale molto aggressiva, i Samuel misero segretamente in cantiere la costruzione di una flotta di nove petroliere con i requisiti richiesti dai responsabili inglesi del canale di Suez: nel 1892 la prima petroliera dal nome di una conchiglia, la Murex, attraversò il canale con destinazione estremo Oriente. La nuova rotta abbreviava enormemente il percorso e aumentava il vantaggio competitivo sulla Standard.

La riuscita del progetto mise a nudo il ritardo della Standard nel sistema del trasporto verso l’Asia, col petrolio che viaggiava ancora nei barili. Ma la guerra dei prezzi scatenata da Rockefeller in tutto il mondo, se causò il fallimento di centinaia di piccoli produttori, non riuscì a scalfire il controllo sul petrolio russo dei Samuel, forte delle petroliere e di una collaudata rete di capisaldi commerciali. Anzi, allargarono il loro impero: nel 1897, dopo aver ottenuto una concessione nel Borneo, fondarono la “Shell Transport and Trading Company”. All’inizio del Novecento, dopo che a Londra si era saputo del nuovo giacimento texano di Spindletop, Marcus sbarcò addirittura in America. La Shell, da una parte voleva svincolarsi dalla dipendenza dal petrolio russo, dall’altra mettere le mani sul greggio texano che, pur scadente per l’illuminazione, era adatto per produrre nafta per le navi. Samuel firmò un contratto con la Gulf con il quale si impegnava, per la durata di venti anni, a ritirare ad un prezzo fissato 100 mila tonnellate di petrolio all’anno, la metà dell’intera produzione.

Marcus Samuel non era il primo ad aver messo gli occhi sull’Indonesia. Un’altra società più piccola, fondata a Rotterdam nel 1885 da August Kessler, la “Royal Dutch”, aveva scoperto giacimenti petroliferi nell’isola di Sumatra, nell’Indonesia olandese, e vi aveva costruito una pipeline e una raffineria per smerciare sui mercati asiatici il petrolio con marchio Crow Oil. La Compagnia era sotto l’ala protettrice del re d’Olanda in persona, Guglielmo III, che aveva concesso l’uso del titolo “Royal” nella ragione sociale e vietava l’attracco delle navi dei Samuel nei porti delle Indie olandesi.

Questa società, che controllava il terzo polo petrolifero mondiale, attirò l’interesse della Standard Oil, che aveva assoluto bisogno di una fonte di petrolio più vicina al mercato asiatico. Ma la proposta americana di quadruplicare il capitale della Royal Dutch, a patto di detenerne le azioni supplementari e quindi il controllo, non venne accettata dai dirigenti olandesi, evidentemente non all’oscuro dei metodi subdoli usati da Rockefeller per impadronirsi delle aziende concorrenti. A questo punto, gli uomini di Rockefeller, sempre più decisi a neutralizzare il fastidioso intruso, tentarono un accordo con Marcus Samuel. Ma quest’ultimo preferì accordarsi con la Royal Dutch, anche per mettere fine alla sua rovinosa guerra commerciale con questa società in atto sui mercati asiatici.

Ma aveva sbagliato i conti, perché il gioco alla fine fu condotto alle condizioni di Henry Deterding, un giovane e brillante contabile di Singapore scelto da Kessler come esperto del mondo del petrolio e che nel 1900, a soli ventinove anni, era stato nominato direttore della Compagnia olandese, e che doveva passare alla storia come “l’architetto della rovina della Shell”. Deterding aveva la spregiudicatezza e la decisione che mancavano ormai a Sir Marcus Samuel il quale, diventato baronetto del petrolio e sindaco di Londra, era ormai al culmine della carriera, distratto dagli affari per gli impegni mondani e la vita di gentiluomo di campagna. Deterding invece, che controllava riserve di enorme valore nelle Indie orientali, era in grado di pagare dividendi del 50% contro appena il 5% pagato dalla Shell. Inoltre era riuscito a consorziare gli altri principali produttori in una nuova concentrazione guidata dalla sua Compagnia, fedele al motto di Kessler “la collaborazione fa la forza”.

Per di più, il giacimento di Spindletop si prosciugò e la Gulf non poté onorare il contratto, cosicché sir Marcus si trovò di fronte ad una pericolosa carenza di rifornimento di petrolio e dovette convertire le petroliere Shell in navi da carico di bestiame. Quando nel 1907 le due società si fusero dando vita alla holding “Royal Dutch-Shell”, con Deterding divenuto direttore generale, le azioni delle consociate andarono per il 60% alla Royal Dutch e per il 40% alla vecchia Shell di Marcus. L’operazione farà della Shell la principale concorrente dell’americana Standard Oil e, per un quarto di secolo, di Deterding il più potente petroliere del mondo che dal suo ufficio nella City di Londra esercitava la sua indiscussa autorità su tutti gli affari della Compagnia.

Nel 1911, per rispondere alla Standard che aveva creato una propria consociata in Olanda allo scopo di ottenere concessioni a Sumatra, la Royal Dutch-Shell portò la guerra nel cuore stesso dell’America. L’obiettivo era di scalzare il vantaggio competitivo di cui godevano gli americani, i quali, grazie agli alti prezzi (e alti profitti) praticati negli Stati Uniti, si potevano permettere di vendere a prezzi ribassati in Europa, attuando quella forma di protezionismo attivo meglio nota come dumping. La Compagnia anglo-olandese sbarcò dapprima sulla costa occidentale inserendosi nella produzione della California, poi si spostò all’interno del continente per sfruttare il boom petrolifero in Oklaoma. Le insegne della Shell – il “pericolo giallo”, come venivano chiamate – cominciarono ad invadere le strade dell’America.

D’altronde la Shell era sempre stata costretta a cercare il petrolio all’estero: possedeva campi petroliferi in Egitto, nella zona degli Urali, in Messico, in Venezuela. La Shell diventerà il primo produttore dell’industria petrolifera in Romania grazie ai giacimenti scoperti nei Carpazi, soppiantando l’imperialismo germanico della Deutsche Bank. Il progetto di Deterding di formare la prima multinazionale del petrolio insieme alla Deutsche Bank e alla famiglia Rothschild fu silurato da Rockefeller attraverso una feroce campagna di stampa e la solita guerra dei prezzi. Alla luce degli avvenimenti successivi, la scelta di Deterding di non voler dipendere troppo dal petrolio russo si rivelerà lungimirante, non soltanto perché l’industria petrolifera di Baku continuerà a declinare fino alla prima guerra mondiale (anche a seguito della rivoluzione del 1905, che aveva messo fuori uso quasi due terzi delle installazioni petrolifere), ma soprattutto perché la nazionalizzazione degli impianti disposta dai bolscevichi nel 1918 farà perdere alla Shell una grossa fetta dei suoi rifornimenti.

Al volgere del secolo, la maggior parte della produzione petrolifera proveniva da tre regioni: gli Stati Uniti, la Russia e l’Indonesia. Stranamente il Medio Oriente, dove pure la nafta era conosciuta fin dalla più remota antichità, arriverà al petrolio solo molto tardi, parecchio tempo dopo gli Stati Uniti e la Russia, ma anche dopo la Romania e il Messico. In compenso, l’area diventerà il campo prediletto di scontro degli imperialismi. Dopo la scoperta dei grandi giacimenti iracheni negli anni Venti e di quelli sauditi e kuwaitiani negli anni Trenta, la storia del petrolio e delle lotte tra petrolieri non si distinguerà più da quella globale per il dominio del mondo.
 

4. Concentrazione e monopoli

Nel 1916, tenendo conto della censura zarista, Lenin scrisse il fondamentale saggio L’imperialismo, stadio supremo del capitalismo. Questo libro, faro di continuo riferimento, ci indica come scansare i pericolosi scogli del kautskysmo e del democratismo come del pacifismo piccolo-borghese che, oggi come allora, tentano di nascondere la profondità delle contraddizioni dell’imperialismo e l’inevitabilità della crisi rivoluzionaria che da essa deriva.

Il capitale monopolistico non elimina la lotta di concorrenza tra le grandi potenze, che si svolge in un lavoro di Sisifo fatto di manovre diplomatiche, di ricatti economici e finanziari, e infine di guerre locali e mondiali. Afferma Marx: «Concettualmente la concorrenza non è altro che la natura interna del capitale, la sua determinazione essenziale che si presenta e si realizza come interazione reciproca dei molti capitali, la tendenza interna come necessità esterna (...) Un capitale universale che non abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare (...) è quindi un assurdo» (“Lineamenti fondamentali...”).

Se non si chiariscono le radici economiche del fenomeno “imperialismo”, se non se ne valuta l’importanza politica e sociale non è possibile comprendere né la crisi odierna né le cause della guerra e la futura rivoluzione sociale.

Lenin descrive il processo che dalla libera concorrenza evolve ineluttabilmente verso il monopolio. Spiega come proprio quella libera concorrenza, che oggi tanto a sproposito viene invocata da riformisti e piccolo-borghesi di ogni sponda contro la potenza “criminale” dei monopoli, rappresenti la strada maestra che porta al monopolio e sia lo strumento più idoneo per il rafforzamento dei monopoli già esistenti. Il processo di concentrazione e di centralizzazione della produzione e del capitale non è una patologia ma una necessità immanente al modo di produzione capitalistico, e trova la sua ragion d’essere nel suo normale funzionamento, che richiede economie di scala e un incremento delle dimensioni minime d’investimento.

Già Marx aveva osservato nel Capitale che «contemporaneamente alla caduta del saggio di profitto aumenta il minimo di capitale necessario al capitalista individuale per l’utilizzo produttivo del lavoro (...) e nello stesso tempo si accelera la concentrazione perché, oltre certi limiti, un grande capitale con un basso saggio di profitto accumula più rapidamente di un capitale piccolo con un elevato saggio del profitto».

Dialetticamente, il monopolio crea le basi della società comunista perché rappresenta enormi progressi nella socializzazione della produzione e dell’innovazione tecnica. Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale è il compito storico del capitale, che appunto mediante tale sviluppo crea, inconsapevolmente, le condizioni materiali di una più elevata forma di produzione. Ma, in regime capitalistico, alla produzione sempre più sociale si contrappone l’appropriazione privata basata sul capitale, sul lavoro salariato e sul valore di scambio. Questi rapporti di proprietà sono disperatamente difesi da schiere di parassiti, per mantenere l’umanità lavoratrice sotto il loro intollerabile giogo. La distruzione di questi rapporti è la missione storica del proletariato.
 

5. La nostra bussola: Lenin

Scrive Lenin ne “L’Imperialismo”: «Uno dei tratti più caratteristici del capitalismo è costituito dall’immenso incremento dell’industria e dal rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più grandi (...)

«I raggruppamenti di monopoli capitalistici – cartelli, sindacati, trust – si dividono innanzitutto il mercato interno impadronendosi, più o meno completamente, della produzione del paese. Ma, in regime capitalistico, il mercato interno è necessariamente legato al mercato estero. Il mercato mondiale è ormai una creazione consolidata del capitalismo. E, man mano che cresce l’esportazione di capitali, man mano che si estendono in tutte le forme le relazioni con i paesi esteri e con le colonie, man mano che si consolidano le “zone d’influenza” dei grandi gruppi monopolistici, le cose “del tutto naturalmente” procedono verso una loro intesa generale e verso la creazione di cartelli internazionali (...)

«Le tappe principali della storia dei monopoli possono così riassumersi: 1) 1860-1870: apogeo della libera concorrenza. I monopoli sono soltanto in embrione. 2) Dopo la crisi del 1873, ampio sviluppo dei cartelli, che rappresentano però ancora l’eccezione e mancano di stabilità; sono ancora un fenomeno di transizione. 3) Ascesa degli affari alla fine del secolo XIX e crisi del 1900-1903: i cartelli diventano una delle basi di tutta la vita economica. Il capitalismo si è trasformato in imperialismo (...) I cartelli si mettono d’accordo sulle condizioni di vendita, sui termini di pagamento, ecc. Essi si ripartiscono i mercati, stabiliscono la quantità delle merci da produrre, fissano i prezzi, ripartiscono i profitti tra le singole imprese, ecc.

«In Germania il numero dei cartelli ammontava a circa 250 nel 1896 e a 385 nel 1905, e vi partecipavano circa 12.000 aziende. Ma è generalmente ammesso che queste cifre restano al di sotto del vero. Dai dati della statistica industriale tedesca per il 1907 risulta che 12.000 grandi aziende disponevano sicuramente di oltre la metà dell’intera forza-vapore e dell’energia elettrica del paese. Negli Stati Uniti d’America il numero dei trust era stimato in 185 nel 1900 e in 250 nel 1907. La statistica americana suddivide tutte le imprese industriali secondo che esse appartengono a singoli, a società o a corporazioni. A queste ultime apparteneva nel 1904 il 23,6% e nel 1909 il 25,9% (vale a dire un quarto) del numero totale delle imprese. Queste aziende occupavano nel 1904 il 70,6% e nel 1909 il 75,6% (vale a dire i tre quarti) del numero totale degli operai, e la loro produzione ascendeva rispettivamente a 10 miliardi e 900 milioni di dollari e a 16 miliardi e 300 milioni, vale a dire al 73,7% e 79% del valore totale della produzione degli Stati Uniti.

«Nei cartelli e nei trust si concentrano talora i sette o gli otto decimi dell’intera produzione di un determinato ramo industriale. Nel 1893, anno della sua fondazione, il sindacato carbonifero della Renania-Westfalia forniva l’86,7% e nel 1910 già il 95,4% dell’intera produzione di carbone della regione. Il monopolio in tal guisa creatosi assicura profitti giganteschi e conduce alla formazione di unità tecniche di produzione di enormi dimensioni.

«Il famoso trust del petrolio degli Stati Uniti (Standard Oil Company) fu fondato nel 1900. Il suo capitale dichiarato ammontava a 150 milioni di dollari. Furono emessi 100 milioni di dollari di azioni ordinarie e 106 milioni di dollari di azioni privilegiate. A queste sono stati pagati, tra il 1900 e il 1907, i dividendi del 48, 48, 45, 44, 36, 40, 40, 40 per cento, per un totale di 367 milioni di dollari. Tra il 1882 e la fine del 1906 sugli 889 milioni di dollari di utile netto conseguiti, furono distribuiti 606 milioni di dividendi e il resto assegnato alle riserve. Nel 1907, nel complesso delle imprese del trust dell’acciaio (United States Steel Corporation) erano occupati non meno di 210.180 operai e impiegati (...)

«La concorrenza si trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. In particolare si socializza il processo dei miglioramenti e delle invenzioni tecniche. Ciò è già qualche cosa di ben diverso dalla vecchia libera concorrenza tra imprenditori dispersi e sconosciuti l’uno l’altro, che producevano per lo smercio su mercati ignoti. La concentrazione ha fatto progressi tali che ormai si può fare un inventario approssimativo di quasi tutte le fonti di materie prime (per esempio i minerali di ferro) di un dato paese, anzi, come vedremo, di una serie di paesi e perfino di tutto il mondo. E non solo si procede a un tale inventario, ma quelle fonti vengono accaparrate da colossali consorzi monopolistici. Si calcola approssimativamente la capacità di assorbimento dei mercati che questi consorzi “si ripartiscono” in base ad accordi. Si monopolizza la mano d’opera qualificata, si accaparrano i migliori tecnici, si mettono le mani sui mezzi di comunicazione e di trasporto: le ferrovie in America, le società di navigazione in America e in Europa. Il capitalismo nel suo stadio imperialista arriva alla soglia della socializzazione integrale della produzione; esso trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro volontà e senza che essi ne abbiano coscienza, verso un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla completa libertà di concorrenza alla socializzazione universale.

«Viene socializzata la produzione, ma l’appropriazione resta privata. I mezzi sociali di produzione restano proprietà privata di un ristretto numero di individui. Rimane intatto il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta, ma l’oppressione che i pochi monopolisti esercitano sul resto della popolazione viene resa cento volte peggiore, più gravosa, più insopportabile (...)

«È sommamente istruttivo dare almeno uno sguardo all’elenco dei mezzi dell’odierna, moderna e civile “lotta per l’organizzazione” a cui ricorrono i consorzi monopolistici: 1) privazione delle materie prime (...”uno dei più importanti metodi coercitivi per imporre l’adesione ai cartelli”); 2) privazione della manodopera mediante “alleanze” (cioè accordi tra i capitalisti e i sindacati operai per cui questi ultimi si obbligano a lavorare soltanto per le imprese cartellizzate); 3) privazione dei mezzi di trasporto; 4) chiusura degli sbocchi; 5) accaparramento dei clienti mediante clausole di esclusività; 6) sistematico abbassamento dei prezzi allo scopo di rovinare gli “outsiders”, ossia le aziende indipendenti che non vogliono sottomettersi ai monopoli; si gettano via dei milioni vendendo per qualche tempo al disotto del prezzo di costo (nell’industria della benzina si sono dati casi di riduzione da 40 a 22 marchi, cioè quasi della metà); 7) privazione dei crediti; 8) boicottaggio. Questa non è più la lotta di concorrenza tra aziende piccole e grandi, tra aziende tecnicamente arretrate e aziende progredite, ma lo iugulamento, per opera dei monopoli, di chiunque tenti di sottrarsi al monopolio, alla sua oppressione, al suo arbitrio».
 

6. La nuova funzione delle banche

Lenin affronta poi il nuovo ruolo assunto dalle banche dopo i grandi processi di concentrazione, nonché l’importanza che il reperimento di capitali riveste per i monopoli industriali. Alla base del processo produttivo c’è la necessità di un capitale iniziale e diventa una necessità economica impadronirsi di un grande capitale. Uno strumento essenziale in tale campo sono le società per azioni. Ma la fame di capitale ai fini dell’accumulazione non può essere soddisfatta dal ricorso a questo solo strumento: occorre avere il dominio delle masse dei capitali fluttuanti non stabilmente investiti nonché dei risparmi che si formano tra i consumatori. Di qui la necessità di quei particolari istituti chiamati banche. La banca deve concentrare la ricchezza monetaria sul mercato e ritrasformare in capitale il plusvalore che circola nella forma di denaro. La centralizzazione del capitale monetario è strettamente legata al processo di concentrazione del capitale industriale.

Nella fase imperialistica, più ancora che nella fase concorrenziale, il capitale diviene indifferente a quel che si produce. Lo scopo di chi detiene il “pacchetto di controllo” è ottenere il massimo profitto, non investendo necessariamente nell’impresa produttiva principale, se può ottenere un profitto maggiore spostando gli investimenti in altri settori. La banca cessa di essere un semplice intermediario del credito, un apparato di intermediazione nella circolazione delle merci, per diventare creatrice di credito e di moneta, domina la vita produttiva e lo stesso mondo industriale. Le banche diventano i centri operativi in cui si effettuano gli investimenti più rilevanti e le speculazioni più spregiudicate, rivolte alla circolazione del capitale e alla sua accumulazione basata sull’accrescimento della produzione agricola e industriale in tutto il mondo.

Si è imposta la fusione di capitale produttivo e capitale bancario, cioè ha prevalso quel tipo particolare di capitale che viene detto finanziario, superamento dell’antitesi fra le due frazioni del capitale in una unità superiore. Non soltanto per il fatto che ogni banca è strettamente collegata a determinati settori monopolistici, non soltanto perché il dominio delle imprese viene esercitato attraverso istituti finanziari (Investiment Trust, Holding, ecc.), ma per il fatto che esso determina uno specifico indirizzo in tutti i campi della produzione e della società.

Nei primi anni del Novecento trionfava, soprattutto in Germania, il modello della cosiddetta “banca mista” che, oltre alle funzioni di raccogliere il risparmio ed esercitare il credito commerciale a breve termine, svolgeva la funzione di credito a lungo termine alle industrie e fungeva da banca d’investimento assumendo partecipazioni azionarie nelle imprese. In tal modo le banche non si limitavano a finanziare le aziende, ma sedevano nei consigli di amministrazione e ne orientavano la gestione. Anche negli Stati Uniti il risultato fu essenzialmente il medesimo: i banchieri ebbero la parte principale nell’acquisto delle azioni e per tal via conseguirono una posizione predominante nella struttura delle società. Per rendere l’idea basta pensare che la banca Morgan controllava un terzo delle ferrovie americane, in un’epoca in cui le ferrovie detenevano il 60% di tutte le azioni della Borsa di New York, il 70% del settore dell’acciaio e le tre principali compagnie assicurative. Nel 1907, quando la Federal Reserve ancora non esisteva, la Morgan salvò Wall Street dal crollo svolgendo funzioni di banca centrale.

Il modello della banca mista resisterà fino alla crisi del 1929 e al conseguente Steagall-Glass Act del 1933, una legge che separerà le banche commerciali da quelle d’investimento industriale; ma tornerà a dominare alla fine del secolo scorso, quando cadranno i vincoli normativi eretti contro la banca mista: nel 1999 lo Steagall-Glass Act viene ufficialmente abrogato.

Lasciamo parlare Lenin: «La concentrazione dei capitali e l’aumentato giro d’affari hanno modificato radicalmente il ruolo delle banche. In luogo dei capitalisti separati sorge un unico capitalista collettivo. La banca, tenendo il conto corrente di parecchi capitalisti, compie apparentemente una funzione puramente tecnica, esclusivamente ausiliaria. Ma non appena queste operazioni assumono dimensioni gigantesche ne risulta che un pugno di monopolisti si assoggettano le operazioni industriali e commerciali dell’intera società capitalista, giacché, mediante i loro rapporti bancari, conti correnti e altre operazioni finanziarie, conseguono la possibilità anzitutto di essere esattamente informati sull’andamento degli affari dei singoli capitalisti, quindi di controllarli, di influire su di loro, allargando o restringendo il credito, facilitandolo od ostacolandolo e infine di deciderne completamente la sorte, di fissare la loro redditività, di sottrarre loro il capitale o di dar loro la possibilità di aumentarlo rapidamente e in enormi proporzioni, e così via (...)

«Naturalmente, tra le poche banche che, grazie al processo di concentrazione, si mantengono alla testa della economia capitalistica diventa sempre più forte la tendenza ad entrare in reciproci accordi monopolistici, a formare un trust delle banche. In America non già nove banche ma due delle maggiori, quelle dei miliardari Rockefeller e Morgan, dominano un capitale di 11 miliardi di marchi».
 

(Continua al prossimo numero)