Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 357 - gennaio-febbraio 2013 [.pdf]
PAGINA 1 La Libia prova l’inattuabile assetto imperiale del mondo
– Esiti della crisi sulla miseria della classe operaia in Spagna
Sciopero Fiom 5-6 dicembre: La classe operaia può difendersi solo se in lotta contro il Capitale
PAGINA 2 – Torino 22 e 23 settembre 2012, Riunione generale del partito [RG114]: Guerra civile in Siria - Imperialismo e petrolio - Imperialismo e petrolio
Fabrizio Bertini
PAGINA 3 Per il sindacato di classe: Teoria - Il Partito - La Storia - Tre fasi Divieto, Tolleranza, Assoggettamento - Nel 2° dopoguerra
PAGINA 4 Battaglie sindacali nel mondo: Nella grande Cina - Negli Stati Uniti - Scioperi in Tunisia - In Palestina - In Libano
– La lotta dei lavoratori dell’assistenza a Catania
PAGINA 5 – Marx e gli economisti classici, Investire è proporre le medesime cause che hanno prodotto la crisi: Teoria del plusvalore cuore della dottrina marxista - La crisi da sovrapproduzione
Inghilterra: Altri attacchi alle pensioni - I prossimi attacchi ai pensionati
PAGINA 6 Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (I): 1. Corsa all’oro nero e monopoli - 2. Il petrolio in Russia

 

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La Libia prova l’inattuabile assetto imperiale del mondo

Diamo seguito, alla luce degli ultimi accadimenti in Libia, a quanto scrivemmo su “Grandi manovre sul petrolio libico e l’embargo iraniano” sul n.354 di questo giornale.

Da quando la Nato dichiarò conclusa, dopo sette mesi di operazioni, la missione del 2011 per la difesa della “libertà” e della popolazione, la Libia è precipitata nel caos generalizzato e sfugge ad un qualsiasi controllo territoriale e politico: diversi sono i soggetti che lo pretendono, ma nessuno può affermare di averlo ottenuto.

All’interno la struttura centrale della nuova Assemblea Costituente Nazionale (ACN), sotto influenza americana, avanza tra oggettive difficoltà e contraddizioni sulla spartizione del potere come prova il recente attentato al suo presidente Megarif. L’ACN è in forte contrapposizione alle comunità tribali che rivendicano il controllo sulla spartizione delle aree di estrazione petrolifera: precedentemente una sorta di confederazione delle tribù era mantenuta fedele a quell’autorità centrale che, grazie alla considerevole rendita petrolifera, garantiva il più alto tenore di vita dell’Africa.

Nel nuovo contesto l’ACN aveva deciso di attribuire alle province orientali, dove si trovano i giacimenti più importanti, soltanto 60 dei 200 seggi disponibili mentre l’area dello Zintan, Misurata e le province occidentali e centrali detengono le posizioni chiave nell’esecutivo e nella capitale.

Ma “distaccamenti rivoluzionari” controllano zone della capitale e limitrofe. Si sono riaperte antiche controversie sui terreni, quelle tra berberi e arabi, faide familiari e rivalità tra le diverse milizie tribali, stimate forti di 100 mila armati. «La tradizionale disputa tra clan sul controllo delle frontiere nella parte occidentale della Libia ha avuto una escalation con un conflitto armato di tre giorni, tra la città di Zuwara da un lato e quelle di al-Jumail e Raghdalin dall’altro, con circa 50 uccisi. Dieci persone sono morte quando arabi e tuareg si sono scontrati a Ghadames, e circa 1.600 tuareg in seguito sono stati costretti a fuggire nella vicina Derg. A giugno le tribù Zintan e Mashashia si sono scontrate sulle montagne Nafusa, lasciando oltre 70 morti e circa 150 feriti. Le forze governative sono state schierate tra Zintan e Shagiga per tenere separate le due comunità in lotta per la terra» (Mezjaev, Fondazione per la Cultura Strategica).

Anche i ripetuti duri attacchi a Bani Walid, la ex roccaforte fedele a Gheddafi, centro della tribù dei Warfalla, rientrano in questo contesto ed è solo un pretesto voler consegnare al CNT i responsabili dell’uccisione di Omran Shaaban, un ribelle coinvolto nella cattura e nell’uccisione di Gheddafi.

Ultimo soggetto interno di cui da poco e con molta incertezza si parla è la Resistenza Verde, formata da fedeli di Gheddafi e oppositori vari al regime, sostenuto dalla Cia e dalla Nato, che sarebbe responsabile di varie operazioni militari tra cui l’assalto alla palazzina americana di Bengasi. L’organizzazione della Resistenza Verde, benché sempre negata dal governo, pare particolarmente attiva sul piano militare come testimoniano documenti e video “indipendenti”. Nulla sappiamo al momento della loro struttura, entità, comando e programma politico.

I soggetti esterni vedono sempre la Francia all’attacco. Nonostante i 50 milioni di euro con cui Gheddafi avrebbe finanziato la campagna elettorale di Sarkozy del 2007, la Francia, in ricompensa per il suo sostegno militare – così afferma una lettera di un membro del CNT all’emiro del Qatar – otterrà il 35% del greggio libico. In maniera meno vistosa ma non meno decisa si muove la Gran Bretagna in difesa degli interessi della British Petroleum, la quale il 1° novembre scorso ha ottenuto la concessione per la perforazione di 17 nuovi pozzi petroliferi, di cui 5 in mare. Turchia, Italia, Cina e tutti quanti rivendicano pretese.

L’Italia oltre al supporto navale dal 28 aprile ha effettuato ben 1.900 sortite, con 456 bombardamenti, per un totale di 7.300 ore di volo. Il Generale Giuseppe Bernardis, Capo di stato maggiore dell’Aeronautica, nel suo libro “Missione Libia 2011 – Il contributo dell’Aeronautica Militare”, li ripartisce in 310 “attacchi al suolo contro obiettivi predeterminati” e 146 di “neutralizzazione delle difese aeree nemiche”, più non ben quantificati attacchi a non meglio precisati “obiettivi di opportunità”. Tutti tenuti nascosti all’opinione pubblica italiana per “opportunità politica”.

L’italiana ENI il 26 settembre riavviò la produzione del vasto campo petrolifero di Abu Attifel, il 3 dicembre annunciò l’inizio di altre perforazioni sia in terra sia in mare e il 16 dello stesso mese i due governi stipulano importanti accordi petroliferi con investimenti italiani per 6 miliardi di euro.

I militanti di al-Qaida operanti in Libia sarebbero mercenari provenienti dal Qatar o in qualche modo legati al suo governo che teme minacciati i suoi interessi dalle manovre francesi nell’Africa sub sahariana non francofona, Sudan in particolare, dove la francese Total è diventata la prima nell’estrazione petrolifera, che verrà a breve triplicata. Il Qatar è interessato al gas libico per il suo piano di produzione di gas liquefatto destinato al mercato europeo.

La Cina al momento mette in secondo piano la Libia perché impegnata nell’importante progetto, del costo di circa 1,5 miliardi di dollari, comprendente un gasdotto nel Sudan settentrionale ed una raffineria di petrolio in Kenya.

Gli Stati Uniti meritano attenzione. Il 18 settembre alla 67.a Assemblea Generale dell’Onu il presidente americano Obama è stato molto chiaro: «Siamo intervenuti in Libia a fianco di un’ampia coalizione, e con il mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, perché abbiamo avuto la possibilità di fermare il massacro di innocenti, e perché abbiamo creduto che le aspirazioni del popolo erano più potenti di un tiranno. Ora ci incontriamo qui, ancora una volta, per dichiarare che il regime di Bashar al-Assad deve giungere ad una fine, così che la sofferenza del popolo siriano possa finire, e una nuova alba possa iniziare».

Capolavoro di ipocrisia sulla Libia con solenne impegno di ripeterlo in Siria! Ovviamente la Libia fu attaccata militarmente non per liberarla dal tiranno ma per spartirsi il suo petrolio e per creare una solida base nel Nordafrica per l’esercito americano!

Quanto alla forma, non vi fu nessun mandato del Consiglio di Sicurezza e la risoluzione n° 1973 del 2011 sulla “no-fly zone”, che non faceva parola riguardo un eventuale intervento, fu di approvazione tanto travagliata da parte delle forze che si opponevano, Russia e Cina in testa, da aprire ad ogni flessibilità di applicazione.

Uno degli elementi dell’operazione della Nato era il controllo assoluto dell’informazione con la diffusione programmata di notizie per confondere e sconcertare l’opinione pubblica mondiale. Nel piccolo italico il gen. Bernardis ricorda il caso del maggiore Scolari che al ritorno della prima missione raccontò ai giornalisti di aver pattugliato la sua zona senza aver avuto bisogno di usare i missili contro i radar libici. Il ministro della Difesa del tempo, Ignazio La Russa dispose l’immediato ritorno dell’ufficiale al suo stormo di Piacenza.

Dopo la morte di Gheddafi calò il silenzio sui fatti libici, la censura dell’imperialismo proteggeva la spartizione delle risorse del paese e il destino delle sue popolazioni; il riassetto sociale doveva apparire cosa fatta, con solo sporadici contrasti, fisiologici dopo quanto passato.

Questo fino allo scorso 11 settembre – data casuale o voluta? – quando ci fu l’attacco ad una residenza protetta americana di Bengasi dove operava il console Steven che vi morì con suoi tre collaboratori. Vi fu impegnata una formazione di ben 125 uomini armati con mitragliatrici, granate, razzi RPG e armi antiaeree. Le fonti ufficiali attribuirono questo riuscito attacco prima ad una manifestazione di protesta, degenerata, contro un nuovo film americano offensivo per i musulmani, poi a non meglio precisati “oppositori stranieri”, forse siriani, o forse iraniani, o al-Qaida, salafiti, wahhabiti, ecc., mai menzionando la Resistenza Verde.

Tutti gli osservatori ritengono possibile una deriva del paese verso la situazione della Somalia dove le formazioni tribali si contendono con le armi il controllo del paese. In questo caso le attività petrolifere sarebbero fortemente compromesse, azzerando quindi i risultati ottenuti con la guerra, fatto che imporrebbe un ulteriore impegno militare ed economico.

Non è da vederci una ulteriore conferma che gli americani non sarebbero più in grado di vincere una guerra. Le fanno, come ci ricorda Lenin ne “L’imperialismo”, «per spartirsi il mondo, non per una loro speciale malvagità, ma perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via se vogliono ottenere dei profitti; la spartizione si compie “proporzionalmente al capitale”, “in proporzione alla forza”, poiché in regime di produzione mercantile e di capitalismo non è possibile alcun tipo di spartizione».

E le vincono non tanto per le doti strategiche dei generali ma per l’enorme massa di mezzi che la loro macchina produttiva bellica è in grado rovesciare al fronte, e anche su più di uno contemporaneamente. Che chiedano aiuto ad altri “alleati” è dovuto in parte alla crisi economica e alla necessità di ripartire le spese, ma soprattutto per coinvolgere un fronte di complici nella rapina contro il fronte avverso: anche Alì Babà aveva bisogno di 40 ladroni!

È cambiato il quadro strategico internazionale dalle lezioni della Corea e del Vietnam e ne hanno appreso di insegnamenti. La guerra imperialista, anche quando combattuta nelle periferie, è fra i colossi. Al di fuori dei grandi conflitti generali una vittoria definitiva e stabile è impossibile. Resta spazio solo per guerre locali permanenti come l’Afghanistan, l’Iraq, la Somalia, con le sue instabilità e la frammentazione degli obiettivi. Ma, evidentemente, l’imperialismo non troverà mai una sua sistemazione definitiva, tantomeno “equa” o “giusta”, qualunque significato la piccola-borghesia si sforzi di dare a queste vuote parole.

Se, per una serie di motivi, non è ora all’ordine del giorno una estesa guerra mondiale, vitale bagno di giovinezza per il capitalismo, un numero di conflitti locali in aeree geopolitiche non contigue permette di tenere attiva quella consistente parte del capitale interessato alla produzione bellica. Tante relativamente piccole commesse fanno un quantitativo ben apprezzabile. Tanto le spese le pagano gli sconfitti, o almeno ci sperano!
 
 
 
 
 


Esiti della crisi sulla miseria della classe operaia in Spagna

La situazione in Spagna è ben peggiore di quanto scrivono i media borghesi. In ottobre l’Istituto Nazionale di Statistica ha annunciato che la disoccupazione ha superato il 25%, in continuo aumento, portando il numero dei disoccupati a 5.778.000, la cifra più alta dal 1976.

Queste cifre nascondono drammi reali. Nel corso del 2012 le banche hanno cacciato dalle loro case una media di 500 famiglie al giorno; dal 2008 gli sfratti sono stati più di 400.000. In Spagna la legge sull’ipoteca, sempre la stessa dal 1909, e se ne guardano bene dal cambiarla, prevede che nel momento in cui non si riesca a far fronte alle rate del mutuo, oltre ad essere sfrattati, si continua ad essere debitori verso la banca che ha concesso l’ipoteca. Questo sprofonda nella povertà estrema chi perde il lavoro e il salario e non riesce a pagare il mutuo. In questa situazione si contano già 1.800.000 famiglie. Girando per le strade capita sempre più spesso di vedere proletari ridotti a cercare nella spazzatura qualcosa da poter vendere o semplicemente da mangiare.

La tragica condizione generata dalla crisi tocca ovviamente anche i bambini; l’Unicef sostiene che la crisi economica in atto ha gettato negli ultimi anni altri 80.000 minori sotto la soglia della povertà. In totale adesso sono 2.260.000 i bambini – equivalenti al 27,2% della popolazione – che vivono in miseria. Nell’Unione europea, soltanto in Bulgaria e Romania le condizioni dei bambini sono peggiori che in Spagna. Anche chi un lavoro lo ha spesso non riesce a far quadrare i conti e sono molti i figli di lavoratori che vanno a scuola senza aver fatto colazione.

Sono nate numerose associazioni di beneficenza le quali però non sono in grado di soddisfare l’aumento delle richieste alimentari. Lo scorso 9 ottobre c’è stato l’ annuale appuntamento, organizzato dalla Croce Rossa, del “Dia de la banderita”, Il giorno della bandierina, nel quale la gente dona qualcosa a chi ne ha bisogno in qualsiasi parte del mondo. Per la prima volta nei suoi 100 anni di storia le donazioni della Croce Rossa saranno invece devolute agli spagnoli più indigenti.

E pensare che fino a pochi anni fa il famoso “dinamismo” spagnolo era invidiato dalle borghesie europee, compresa quella italiota, blaterando che bisognava guardare al di là dei Pirenei dove l’economia viaggiava con crescite medie annue del 3-4%. Illusioni borghesi!

Purtroppo a questa illusione ha ceduto anche la gran parte dei lavoratori spagnoli e solo l’attuale precipizio li riporta alla realtà; e la condizione dei proletari in Spagna, come in Grecia, è solo l’anticipazione di quello che sarà negli altri paesi.

I proletari devono tornare ad agire come classe dotandosi dei propri strumenti di difesa perché la borghesia, in tutti i paesi, spinta dalla crisi, si organizza per aumentare lo sfruttamento. Anche in Spagna un decreto del 11 febbraio 2012 ha sancito che un’azienda dopo tre trimestri consecutivi di perdite, vere o dichiarate, potrà più facilmente licenziare i dipendenti. Il lavoratore licenziato avrà un indennizzo pari a 20 giorni di lavoro per ogni anno di impiego ma per un massimo di 12 mesi di paga. Prima di questa “riforma” un’azienda doveva riconoscere al lavoratore 45 giorni di paga per ogni anno di lavoro e senza limitazioni. Se invece è un’azienda non in crisi a licenziare con la nuova riforma dovrà corrispondere al lavoratore solo 33 giorni per anno lavorato e per un totale massimo di 24 mesi.

Sempre per ragioni economiche le imprese potranno derogare dagli accordi nazionali di categoria e modificare tempi di lavoro, mansioni e retribuzioni. Gli accordi tra azienda e dipendenti prevarranno su quelli collettivi nazionali o regionali. Ecco dove ha studiato il ministro Fornero!

Inoltre, e fra l’altro, sono state bloccate le tredicesime nel settore pubblico e diminuito il sussidio di disoccupazione in termini in valore e durata; hanno tagliato il bilancio della sanità e dell’istruzione; ridotti i contributi per gli anziani e gli invalidi; si è avuto l’aumento delle aliquote iva dall’8% al 10% e del 18% al 21%; al costo dei farmaci bisogna aggiungere un contributo per ogni ricetta, etc, etc.

Nel frattempo si aiutano enormemente le banche e alle imprese si concedono privilegi giuridici ed esenzioni fiscali per continuare a far profitti.

I sindacati, screditati ma pressati dalla situazione sociale, provano a rifarsi un’immagine convocando di tanto in tanto uno sciopero generale. Tuttavia non si sono trattenuti dal firmare per l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, dal sacrificare i salari dei lavoratori e dal continuare a sostenere l’ordine costituito. In un numero crescente di luoghi di lavoro si avvertono segni di insoddisfazione nei confronti dei sindacati e si comincia a sentir dire “non ci rappresentano”. Questi sindacati infatti, che hanno paura che la situazione sociale esplosiva tanto quanto la borghesia, non offrono alcun rimedio se non dare di tanto in tanto una impressione di combattività. Ma anche all’ultimo sciopero generale nella sola Madrid c’era circa in un milione di lavoratori.

Numerosi organismi e sindacati emergono, o riemergono, con diverse influenze ideologiche, in particolare cristiane. Nelle grandi aziende e soprattutto nell’istruzione e nella sanità i lavoratori si stanno organizzando al di fuori dei sindacati di regime. All’università di Madrid i lavoratori si sono dati una “Piattaforma” alla quale si stanno a poco a poco avvicinando lavoratori che abbandonano i sindacati; questi, sentendosi messi in discussione, considerano la Piattaforma il loro primo nemico. Sono passi importanti per i lavoratori verso una organizzazione che dovrà essere territoriale, al di sopra delle categorie e delle aziende.

Nel frattempo lo Stato, cosciente che la situazione è critica e che nel futuro sarà anche peggio, per proteggersi sta cambiando, in sordina ma rapido e sistematico, le leggi, incrementa le sanzioni in caso di “disordine pubblico”, monta la repressione violenta alle manifestazioni e aumentano le provocazioni e il controllo. A questo attacco i lavoratori devono rispondere con quella determinazione che potrà esserci solo con una organizzazione difensiva unitaria di classe.

Le iniziative del movimento degli “indignati”, che è ancora vivo nei quartieri e mantiene un atteggiamento critico nei confronti dei sindacati di regime e dei partiti principali, richiamano ancora dei giovani, anche combattivi, di provenienza dalle comunità di base cristiane e dai partiti democratici e riformisti. Le loro rivendicazioni quindi non vanno oltre la richiesta di una riforma fiscale che faccia pagare di più chi più ha, l’imposta patrimoniale, l’abrogazione del Concordato con il Vaticano, la riduzione drastica dell’appannaggio alla real casa, l’opposizione alla creazione delle “bad bank” con lo Stato che ne paga i debiti, il blocco degli sfratti, contro la riduzione del debito pubblico, l’abrogazione della riforma del lavoro. Ovviamente mettono in discussione solo alcuni aspetti del capitalismo e del suo superamento nemmeno se ne parla.

Invece è proprio da qui che bisogna partire. Il capitale porta a queste condizioni di miseria non per una sua cattiva gestione, ma per le sue leggi intrinseche. Oggi Spagna, Grecia, Portogallo, domani Francia, Germania, Usa, Giappone, Italia, nessun paese è immune da quelle leggi. La crisi spinge le borghesie nazionali a spremere sempre più i lavoratori, ma questo non basterà a risolvere la sovrapproduzione e la caduta del saggio di profitto. Sarà necessaria una nuova guerra che metterà gli uni contro gli altri i proletari dei vari Stati. Contro di questo è sempre più attuale la nostra parola di sempre: Proletari di tutto il mondo unitevi!
 
 
 
 


Sciopero Fiom 5-6 dicembre
La classe operaia può difendersi solo se in lotta contro il Capitale

La crisi economica continua inesorabile. Licenziamenti per ristrutturazioni o fallimenti e cassa integrazione colpiscono sempre più i lavoratori. Cresce l’esercito dei disoccupati e il ricatto sugli occupati. Le aziende, per sopravvivere nella competizione capitalistica sempre più aspra, cercano di imporre salari più bassi, massima flessibilità d’orario e mansioni, ritmi più intensi.

Industriali e sindacati di regime, con l’appoggio del Governo, firmano accordi e contratti per distruggere il Contratto nazionale di lavoro e accrescere così la competizione al ribasso fra i lavoratori. A questo servono gli accordi del 28 giugno 2011, quello sulla produttività del 19 novembre scorso e il rinnovo del contratto che Federmeccanica si accinge a firmare con FIM e UILM.

Il riformismo politico e sindacale, cioè la sinistra borghese, ha illuso i lavoratori prospettando un capitalismo con benessere e progresso sempre in crescita. Oggi è platealmente sbugiardato. Nel capitalismo i lavoratori sono proletari, senza alcun potere politico e senza nulla da perdere se non le proprie catene.

Come sempre, a maggior ragione di fronte alla crisi, i lavoratori possono difendersi solo se lottano sempre più uniti, superando le divisioni fra aziende, categorie, nazionalità e agendo come classe.

L’unità della classe lavoratrice può essere raggiunta solo coi metodi che appartengono solo ad essa ed alla sua tradizione di lotte gloriose, con scioperi a oltranza, senza preavviso e che cerchino di estendersi al di sopra delle aziende e delle categorie: ciò che più teme il padronato non è il danno economico di una lotta, anche forte, ma chiusa entro l’azienda, quanto la possibilità che essa si contagi agli altri lavoratori, con danno economico generale per tutta la borghesia.

L’unificazione di vere lotte, non scioperi solo rituali, è possibile attraverso un quotidiano lavoro sindacale che non si limiti alle rivendicazioni più particolari per indicare la necessità di perseguire gli obiettivi generali che li uniscono veramente:
Difesa intransigente del salario, aumenti maggiori per le categorie peggio pagate;
Riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario e da elevare a livello europeo;
Salario pieno ai lavoratori licenziati, a carico di industriali e banchieri mediante il loro Stato.

La CGIL ha definitivamente rigettato questi metodi ed indicazioni ed è un sindacato non riconquistabile dai lavoratori, come CISL, UIL e UGL. La classe lavoratrice oggi è debole perché non è organizzata per lottare. Peggio: è debole perché controllata da false organizzazioni sindacali che impediscono una sua lotta generale.

Per tornare a lottare veramente i lavoratori devono unirsi e organizzarsi alla loro base, al di fuori di questi sindacati di regime, dentro le aziende ma soprattutto fuori, in organismi territoriali che li uniscano al di sopra di aziende e categorie. Questo è il primo passo per la rinascita di un vero e forte sindacato di classe, cioè di quella organizzazione indispensabile per condurre lotte generali della classe lavoratrice.

Operai, lavoratori, compagni !

Questa crisi non è un fenomeno passeggero e contingente: è la crisi storica e generale del capitalismo. Questo significa che essa continuerà e in modo sempre più grave. Il capitalismo non ha soluzioni sul piano della politica economica. La crisi precedente, analoga a questa, quella del 1929, insegna a chi non vuole tapparsi gli occhi: la strada che ha il capitalismo per restare in piedi è la guerra. Solo la Seconda Guerra Mondiale permise al capitalismo il “ritorno alla crescita”, che non è altro che la “crescita del Capitale”.

È il capitalismo stesso la causa della crisi. Non può esistere un capitalismo senza crisi e guerre catastrofiche. La sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto ne sono le cause: il capitalismo immiserisce gran la parte dell’umanità non per penuria di beni ma perché ne ha prodotti troppi!

Lo sviluppo della capacità produttiva, che dovrebbe portare benessere e riduzione dell’orario di lavoro, nel capitalismo diventa la fonte delle più disastrose barbarie. Le fasi di crescita economica sono solo il preambolo di quelle di recessione. Invocare la crescita per uscire dalla crisi è privo di senso. Il capitalismo, per tornare a crescere, deve distruggere le troppe merci prodotte, prima fra tutte la merce forza lavoro! La lotta economica fra gli Stati borghesi conduce inevitabilmente alla lotta militare: la guerra.

Per i lavoratori porsi sul piano della concorrenza capitalistica, facendosi carico dell’efficienza dell’economia nazionale, abbracciando un nazionalismo economico che è solo il preambolo di quello politico e militare, significa solo sacrificarsi per gli interessi del Capitale, della borghesia.

Alla via della guerra, a questa soluzione borghese della crisi capitalistica, la classe lavoratrice può e deve contrapporre la sua strada: la Rivoluzione contro il capitalismo.

Solo la Rivoluzione potrà fermare la guerra. Solo con la Rivoluzione i lavoratori possono prendere il potere politico e imporre le riforme dell’originale programma comunista rivoluzionario necessarie a emancipare l’umanità dal capitalismo:
abolizione del lavoro salariato, con la conseguente estinzione del suo opposto, il Capitale, e quindi del denaro, e la distribuzione gratuita dei beni e dei servizi;
obbligo sociale al lavoro, con la scomparsa della disoccupazione;
drastica riduzione del lavoro a poche ore giornaliere;
regolazione della produzione secondo i bisogni umani e non più secondo gli assurdi calcoli mercantili e aziendali e soppressione di interi settori di attività prettamente capitalistiche e parassitarie: da quelle legate alla contabilità monetaria e alla finanza, a quelle, ad es., pubblicitarie, con la conseguente liberazione di enormi energie per scopi realmente utili.

Lottando intransigentemente a difesa delle proprie condizioni di vita senza farsi carico delle sorti della economia nazionale, che altro non è che l’economia capitalistica, per i lavoratori significa porsi già oggi sulla strada che li condurrà alla costruzione della società senza Capitale e le sue leggi economiche disumane e antistoriche.

A questo scopo la lotta sindacale, il Sindacato di Classe, sono necessari ma non sono sufficienti. Il proletariato ha bisogno del suo Partito.

Il Partito Comunista Internazionale è il solo che ha difeso e saputo mantenere l’originale programma comunista rivoluzionario contro l’ultima e peggiore delle sconfitte rivoluzionarie: quella culminata con lo stalinismo e la menzogna del falso socialismo russo, cinese, ecc. È il solo che da quella sconfitta ha potuto trarre le lezioni necessarie alla riscossa proletaria futura e che possa condurre vittoriosamente i lavoratori al superamento rivoluzionario del capitalismo.
 
 
 
 
 
 
 

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Torino 22 e 23 settembre 2012
Riunione generale del partito
[RG114]
 
Corso dell’economia
Prezzo e produzione dell’oro
Questione militare: la spedizione dei Mille [ rapporto esteso ]
Teoria economica marxista
Attività sindacale [rapporto esteso]
Movimento operaio negli Usa [rapporto esteso]
Guerra civile in Siria
Imperialismo e petrolio
Questione della democrazia in Italia  [rapporto esteso]

[Prima parte]

Proseguono qui dal numero scorso i resoconti brevi dei rapporti alla riunione.
 

GUERRA CIVILE IN SIRIA

Il breve rapporto tenuto dal compagno, dopo averci riassunto la valutazione del partito così come riportata nei numeri 351 e 352 del nostro giornale, ci ha fornito una sintetica rassegna degli avvenimenti siriani intercorsi dalla precedente riunione generale.

Da una parte si è descritto l’inasprirsi della guerra, anche grazie al salto di qualità delle armi in possesso ai ribelli, dall’altra si è evidenziato la fase di stallo della crisi, dove nessuna delle forze in campo è riuscita ad ottenere significative e definitive vittorie, anche considerata la supremazia militare delle forze del regime.

Il perpetuarsi del conflitto, presente in tutta la regione, si è in particolar modo concentrato ed intensificato nelle grandi città tra cui Damasco ed Aleppo, diventate fulcri della guerra con vere e proprie battaglie, le più violente dalle manifestazioni dello scorso marzo, con i carri armati di Assad che hanno cercato di controllarle concentrandosi nelle aree più “calde”.

I morti, in questi mesi, sono stati migliaia, spesso civili colpiti dalle artiglierie governative.

Nella capitale l’esercito ha rastrellato per settimane i quartieri periferici in cerca di ribelli ed armi. Qui il regime è più forte e radicato rispetto all’altra grande piazza del conflitto, Aleppo, dove, in questi mesi, i ribelli hanno spesso avuto il controllo in diverse zone della città.

Centinaia di migliaia i civili in fuga, profughi in particolar modo verso Turchia, ma anche Giordania, Libano e Iraq.

Da segnalare gli scontri tra gruppi armati a Tripoli, nel nord del Libano: ad affrontarsi miliziani alawiti e sunniti di quartieri storicamente rivali.

L’imperialismo americano ha spesso ribadito la sua posizione contro il governo Assad. La Russia, con la Cina, ha minacciato gli Stati Uniti dichiarando inaccettabile una azione unilaterale dell’Occidente.

La diplomazia borghese, dietro alle assemblee, ai voti e ai veti democratici, fa in modo che la guerra continui lungo quella linea di frizione fra i blocchi.
 

PETROLIO E IMPERIALISMO

Il rapporto – il cui testo esteso inizia ad apparite già in questo numero del giornale – ha preso in esame la storia del petrolio fin dalla sua scoperta il 1859, quando zampillò l’oro nero sulle rive dell’Oil Creek in Pennsylvania, fino ad oggi.

È una storia di guerre, commerciali, finanziarie, diplomatiche e, quasi sempre, con le armi. Una incessante e complessa dinamica che vede opporsi costantemente concorrenza a monopoli, protezionismo a liberismo, nazionalismo a internazionalismo del capitale.

All’inizio la concentrazione fu così travolgente da provocare la reazione governativa a difesa della concorrenza. Ma la conseguenza fu, al contrario, un rafforzamento dei grandi trust. Bastarono due mesi a Rockefeller e soci per parare il colpo. L’impero fu solo apparentemente frammentato in più società, gestite da prestanome.

La relazione ha commentato qui ampie citazioni da l’Imperialismo di Lenin che già descrive quel fenomeno come ineluttabile nella fase del tardo capitalismo. La libera concorrenza genera inevitabilmente il monopolio e tanto più quanto più è libera. Altri fenomeni sono l’esportazione di capitali al posto della esportazione delle merci e il determinarsi di una unione del capitale bancario col capitale industriale nella forma finanziaria del capitalismo.

Lo sviluppo del mercato prese ulteriore slancio quando dal mercato dell’illuminazione, soddisfatto dall’elettricità, si passò a quello della benzina.

Oltre oceano, in Russia, la raffinazione del petrolio era iniziata fin dal 1820 a Baku, nell’Azerbaigian russo, dove l’esistenza di pozzi di petrolio era nota almeno dal XVII secolo. I Nobel, svedesi emigrati a San Pietroburgo, possedevano immense concessioni e numerose raffinerie collegate alla ferrovia mediante oleodotti. A Baku operavano anche i fratelli Rothschild, banchieri francesi grandi esportatori di capitali in Russia.

Nel 1891 i Rothschild si associarono a mercanti inglesi per esportare in Asia con una flotta di nove petroliere della stazza adatta per il transito dal canale di Suez, con grande vantaggio sulla Standard. In estremo oriente l’Indonesia divenne presto importante per la produzione e la commercializzazione del petrolio. Nel Borneo la inglese Shell, la olandese Royal Dutch e l’americana Standard Oil si contendevano la costruzione di oleodotti e raffinerie per smerciare sui mercati asiatici.

Se al volgere del secolo la maggior parte della produzione petrolifera proveniva da Stati Uniti, Russia ed Indonesia, poi si aggiungerà la regione tormentata del Medio Oriente ed alcuni paesi dell’America del Sud. Con lo sviluppo mondiale del capitalismo la corsa alla nuova fonte di energia, che si rivelerà più economica del carbone e meglio rispondente alle esigenze dell’industria, si trasformerà ben presto in una sfida senza quartiere tra i maggiori imperialismi.

La guerra commerciale divampava senza esclusione di colpi. La dimensione del capitalismo imperialista è il mondo intero. La potenza economica delle Compagnie è tale che possono mantenere dei rapporti alla pari con gli apparati degli Stati, che in misura notevole riescono ad influenzare secondo i loro interessi. Si stabiliscono dei rapporti di interessi e di forze colossali sia nei confronti degli Stati di riferimento delle Compagnie, sia, a maggior ragione, dei governi dei piccoli e spesso arretrati paesi dove sono investiti i capitali e da cui sono tratte le materie prime.

La relazione passava poi a rileggere i maggiori avvenimenti della storia del Novecento secondo questa illuminante chiave di lettura: lo scontro infinito in Medio Oriente, in Persia, in Iraq, a seguito della Rivoluzione comunista in Russia, il declino delle vecchie potenze imperiali a vantaggio degli Usa, la depressione del 1929 e la crisi economica in Germania, il soffocamento energetico del Giappone, il grande affare per i rifornimenti durante la Seconda Guerra, il nuovo ordine mondiale fondato su Usa-Urss con l’assestarsi del potere delle Sette Sorelle e i tentativi di emancipazione di Italia e Francia, in particolare in Libia e in Algeria, i tentativi falliti del panarabismo, la nascita dell’Opec e le guerre arabo-israeliane.
 

LA QUESTIONE DELLA DEMOCRAZIA ALLE ORIGINI DEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA

Gli echi della Comune di Parigi avevano determinato in Italia una grande effervescenza all’interno del variegato movimento rivoluzionario. Ma questo presto dimostrò di non avere solide basi, cosa che portò ad una rottura delle sezioni italiane con il Consiglio Generale di Londra. Di fatto tutto il movimento internazionalista italiano aderì, con inaspettata rapidità, alle posizioni scissioniste di Bakunin.

Il 4 agosto 1872, a Rimini, al primo Congresso internazionalista italiano i delegati si schierarono compatti a favore di Bakunin contro il Consiglio Generale, accusato di aver tentato di imporre «a tutta l’Associazione internazionale dei lavoratori una dottrina speciale, autoritaria che è precisamente quella del partito comunista tedesco». Questa dottrina secondo i congressisti non era che «la negazione del sentimento rivoluzionario del proletariato italiano». Quindi dichiararono di rompere ogni rapporto con il Consiglio Generale rifiutandosi di partecipare al Congresso dell’Internazionale, indetto per il settembre all’Aia.

Il movimento italiano si riconosceva nelle teorie anarchiche per l’arretratezza dell’ambiente sociale. Tant’è che non sarebbe fuori luogo affermare che era stato l’ambiente italiano ad influenzare in modo determinante tutta l’impostazione teorica di Bakunin e non viceversa.

La sanguinosa sconfitta della Comune determinò per il proletariato internazionale una crisi non meno grave di quella dovuta alla sconfitta del 1848. Fu questa situazione che determinò il radicalizzarsi di quelle divergenze già presenti in seno all’Internazionale, fino a portare alla definitiva rottura tra le due scuole divenute ormai inconciliabili: la marxista e l’anarchica.

L’anarchismo, questa forma arretrata di socialismo rispetto alla posizione dialettica marxista, al momento della formazione dell’Internazionale era stato ammesso nell’organizzazione attendendosi la maturazione del movimento al socialismo scientifico. Quando Bakunin ne assunse la direzione, dandogli una struttura organizzata di frazione ed un programma pregiudiziale contro il marxismo e contro l’Internazionale nel suo insieme, divenne un pericolo mortale.

Alla sconfitta della Comune sarebbe seguito un lungo periodo di ristagno. Bisognava evitare che l’Internazionale si riducesse ad una rete di cenacoli rissosi e sbandati. Occorreva invece proseguire il lavoro di scolpimento teorico, contro le deformazioni opportunistiche e piccolo borghesi di cui l’anarchismo fu una delle prime manifestazioni. Allora come oggi si trattava di conservare e tramandare intatto il patrimonio dottrinario del partito per le future rivoluzioni, senza rincorrere inutili, e dannosi, successi momentanei.

A questo riguardo, durante l’esposizione del rapporto, sono stati diffusamente citati importanti passaggi di Engels nei quali veniva affermata la necessità di sacrificare il successo momentaneo a cose più importanti, ossia la salvaguardia della dottrina e del programma rivoluzionario così come il bilancio della Comune parigina aveva imposto, anche a costo di provocare scissioni. Engels rispondeva a tutti coloro che ancor oggi predicano l’unità e che, nei fatti, ora come nel passato, si comportano da veri settari e scissionisti.

Quasi in contemporanea con il congresso internazionale dell’Aia, il 15 settembre gli anarchici si riunivano in congresso separato a Saint-Imier rifiutando esplicitamente di riconoscere l’autorità del Consiglio Generale, che, dal canto suo, li espulse.

Da quel momento si ebbero due Internazionali, quella influenzata da Marx e quella di indirizzo “antiautoritario”, la quale, anche se in forma mutata, altro non era se non la prosecuzione dell’Alleanza della Democrazia Socialista fondata anni prima da Bakunin, e che questi aveva simulato di sciogliere per poter entrare a far parte dell’Internazionale.

Il congresso anarchico di Saint-Imier negò il diritto deliberativo dei congressi e quindi respinse tutte le risoluzioni del Congresso dell’Aia e disconobbe i poteri del Consiglio Generale di Londra; fu affermata l’autonomia delle Federazioni e delle Sezioni; venne proclamato che “la distruzione di ogni specie di potere politico è il primo compito del proletariato”.

Anche su questo congresso il rapporto si è abbastanza soffermato trattando quelle deliberazioni che racchiudevano tutta quanta la teoria del movimento scissionista.

L’anarchismo rappresentò una delle prime forme di opportunismo, e tutte quante le successive degenerazioni nasceranno dalle medesime rivendicazioni, di “libertà” e di “autonomie” di vario genere, mentre i marxisti ortodossi si sono sempre attenuti al più stretto centralismo. L’autonomismo è la negazione del partito. Anche l’opportunismo è invariante nelle sue posizioni.

Da parte sua il Consiglio Generale, che con gli Indirizzi alla Comune di Parigi aveva già dimostrato l’importanza primaria di un centro unico della strategia rivoluzionaria mondiale, respinse le pretese degli autonomisti e rivendicò il concetto irrevocabile del centralismo di organizzazione, punto cardine del nostro programma rivoluzionario.

Successivamente al congresso di Saint Imer gli internazionalisti italiani, a metà marzo, tennero a Bologna il congresso nazionale per fissare le direttive del movimento, riconfermando una linea di stretta intransigenza anarchica e la totale rottura con il Consiglio Generale di Londra. Venne stabilito che ogni federazione, sezione, gruppo, od anche singolo individuo, avesse la più completa libertà di iniziativa politica e di formulazione di un proprio particolare programma. In poche parole, ognuno avrebbe potuto farsi la “sua” rivoluzione e, se tale era il programma politico del movimento anarchico, dobbiamo riconoscere che riuscì perfettamente a produrre i suoi effetti: ossia la più completa anarchia.

Il 1873 fu in Italia un anno di carestia e di forte crisi economica. Sotto la spinta della fame si verificarono numerosi scioperi e anche frequenti tumulti popolari. Tutto questo rappresentò un terreno assai fertile per la propaganda rivoluzionaria. La polizia, dal canto suo, scatenava la persecuzione antiproletaria procedendo su vastissima scala ad arresti indiscriminati, a scioglimento di sezioni sovversive, o ritenute tali, al divieto ed all’impedimento coatto delle riunioni. Ma le persecuzioni non riuscirono certo a frenare l’attività del movimento anarchico diretto da tre infaticabili e giovani militanti: Carlo Cafiero, Andrea Costa ed Enrico Malatesta. I congressi seguivano ai congressi e di federazioni provinciali ne nascevano una dietro l’altra. Non solo la polizia risultava impotente ad estirpare la “mala pianta” dell’internazionalismo, ma non riusciva nemmeno a limitarne o circoscriverne la riproduzione.

Nello stesso periodo iniziava l’attività cospirativa anarchica in quello che avrebbe dovuto essere il centro di irradiazione internazionale della rivoluzione libertaria: la famosa villa di Bakunin in Svizzera.

Per quanto riguarda invece l’attività cospirativa svolta in Italia, ci sembra il caso di ricordare che fin dal Congresso Generale dell’Internazionale antiautoritaria, tenutosi a Ginevra dal 1° al 6 settembre, Andrea Costa aveva dichiarato che «gli operai italiani si preoccupano molto poco di teorie: ciò che desiderano è la lotta». Ed il 1874, nella mente degli agitatori italiani, sarebbe stato l’anno della grande rivoluzione anarchica che, scoppiata in Italia, avrebbe poi incendiato l’Europa intera.

Gli internazionalisti italiani assicuravano Bakunin che già da parecchi mesi 10 federazioni erano organizzate e non aspettavano altro che il momento di passare all’azione. Venivano elencate quelle di Piemonte, Lombardia, Veneto, Romagna, Liguria, Toscana, Marche ed Umbria, Napoli, Sicilia, Sardegna. Gli anarchici ritenevano che fosse ormai tempo di passare dalle parole ai fatti: la teorizzata “propaganda del fatto”.

Questo slogan risulta più che sufficiente per differenziare il marxismo dall’anarchismo e da tutte le future forme di revisionismo succedute: Non è la teoria (ossia il partito) che deve guidare l’azione pratica, ma, al contrario, sarebbe l’azione, “il fatto”. La teoria verrebbe dopo, con nascita spontanea determinata dai “fatti”; quindi la inutilità, o addirittura la nocività, del partito.

Conseguentemente a questa impostazione la Federazione italiana cessò quasi del tutto dagli atti pubblici, né con giornali né con manifesti o in altro modo, per dedicare tutte le sue energie all’attività cospirativa.

Nella primavera del ’74 la situazione economica si era ancor più aggravata e tumulti per la fame si succedevano in tutta Italia. Si ritenne che il momento fosse maturo per l’insurrezione rivoluzionaria. Andrea Costa dalla Svizzera tornò clandestinamente in Romagna per sincronizzare l’attività e la preparazione insurrezionale dei vari gruppi rivoluzionari della regione. Da parte sua Malatesta si attivò nel Sud della penisola, la sua azione organizzativa si svolse in tre diverse direzioni: Puglia, Calabria e Sicilia.

L’azione rivoluzionaria avrebbe dovuto prendere le mosse da Bologna; e per l’insurrezione era stata fissata la data dell’8 agosto. Bakunin volle essere personalmente presente al trionfo della “sua” rivoluzione e, sotto falso nome, arrivò a Bologna dove la sera stessa, per mettere a punto gli ultimi dettagli, s’incontrò con Costa, che tornava da un lungo giro organizzativo.

Malgrado che tutta l’attività anarchica si basasse sulla cospirazione e sul massimo segreto, la polizia era al corrente, nei minimi dettagli, di tutto ciò che si preparava; e anche di ciò che non si preparava.

Quella che doveva essere la grande rivoluzione italiana fallì nel modo più miserevole. In breve: la notte tra il 7 e l’8 un centinaio di cospiratori, la maggior parte dei quali disarmati, partì da Imola alla volta di Bologna. La spedizione venne intercettata e si concluse con 43 arresti subito ed altri nei giorni successivi. Questo a Bologna; nelle altre parti d’Italia non successe assolutamente niente. Il giorno 12 un pretone, rasato di fresco e con occhiali verdi, claudicante. entrava in stazione appoggiandosi ad un canna, mentre nell’altra mano reggeva un piccolo paniere con delle uova: era Bakunin che scappava da Bologna.

Finiva così nel nulla il primo sogno rivoluzionario degli anarchici.
 
 
 
 


Fabrizio Bertini

Questa l’orazione funebre per il nostro Fabrizio che abbiano tenuto, il 24 novembre, davanti ai compagni del partito, ai parenti, a numerosi compagni di lavoro e ai molti suoi amici.

* * *

Fabrizio non era possibile non volerti bene. Questo l’ha sentito chiunque l’abbia conosciuto, che ha provato la sua generosità, in ogni occasione, la disponibilità sempre offerta, con fare semplice, diretto e affettuoso.

Perché Fabrizio riusciva a dare tutto di sé in tanti contesti, tutti come sue “famiglie”: la sua di origine, i genitori, la sorella; la sua compagna; il partito dove ha militato per tutta la vita e al quale ha dato un contributo importante e di gran valore; i compagni di lavoro in un rapporto sempre di collaborazione e di solidarietà; la milizia nelle lotte e nel sindacato con il suo metodico impegno e i suoi preziosi consigli. A tutte queste diverse responsabilità Fabrizio si è dato sempre per intero.

Fabrizio non aveva nemici. Benché impegnato sempre e per tutta la vita in una aspra quotidiana battaglia, politica e sindacale, senza cedere mai ad un compromesso, senza mai fare un passo indietro o rinunciare nella polemica e nelle discussione ai nostri e suoi principi; benché martellasse con ostinazione e con tutti le nostre idee di comunisti e il nostro indirizzo sindacale, benché mai abbia cambiato bandiera, tuttavia non ha mai ritenuto di avere dei nemici. Mai si è espresso in termini dispregiativi, di rancore con nessuno. Ripensandoci ancora oggi, non ricordiamo che Fabrizio abbia mai pronunciato una parola volgare. Non per opportunismo ma per “materialismo”, diciamo noi, per la sua forza, non per debolezza.

Certo che vedeva quando altri sbagliavano, e lo diceva forte, anche troppo quando necessario, nel sindacato e fuori, quando si prendevano strade che sapeva che non portavano a niente. Ma con la sua acuta intelligenza e sensibilità in tutti riusciva a vedere l’uomo, il lavoratore, oltre le misere incrostazioni della presente società borghese. In questo uomo prigioniero di oggi Fabrizio sapeva vedere e vedeva l’uomo “reale”, di domani, il compagno, l’uomo del comunismo che è, stravolto, capovolto, già dentro il proletario che vive in questa società egoista e morente. Un uomo questo del futuro, che non sarà certo senza debolezze e difetti, ma un tipo di uomo del quale Fabrizio aveva bisogno di sentirsi circondato, che senza posa cercava, e che trovava.

Con morte prematura Fabrizio, della nostra leva di compagni di partito, è il primo che viene a lasciarci, noi nati negli anni del dopoguerra, giovani nel cosiddetto Sessantotto, di slanci talvolta generosi ma con grande confusione in testa e quasi mai orientati nel senso giusto e perseverante. Questa nostra generazione, non ha conosciuto le tempeste della storia, la guerra, la miseria, il freddo, la fame. Ma nel lento riflusso della palude che ci ha circondato, fatta solo di falsa pace e di falso benessere, Fabrizio, con noi, ha voluto e saputo rintracciare le sotterranee limpide correnti delle lotta fra le classi, che vengono da lontano e ci riportano antiche battaglie e la speranza e certezza di un futuro diverso e migliore. Da qui la sua forza e la sua serenità, che con lo sguardo il sorriso e la parola distribuiva a tutti.

Fabrizio aveva la mamma originaria del Mugello, e qui aveva voluto tornare a vivere. Della gente della valle, fra la ricca storia di Firenze e la dura vita su queste montagne, aveva l’arguzia e la spregiudicatezza. Come il suo partito, Fabrizio viveva sentiva e soffriva con gli altri, ma era capace di pensare da solo, insofferente alla banalità della cosiddetta opinione comune, che è sempre manovrata e falsa.

Aveva in famiglia un padre che orgogliosamente si definiva comunista. E Fabrizio è voluto essere un comunista. Si è messo a studiare con metodo e costanza non comuni e ventenne ha aderito al partito che non ha più lasciato. Anno dopo anno per 40 anni l’abbiamo avuto come un fratello al nostro fianco. Ha silenziosamente letto praticamente tutti i volumi del marxismo, che è la nostra teoria, e della nostra storia. E, con la sua vivace intelligenza e davvero formidabile memoria tutto comprendeva e tutto ricordava, nomi, date, avvenimenti. Ed ha continuato a studiare, a collaborare alle nostre attività e a tenersi informato di tutto: morente, appena entrati in camera ci ha sventolando davanti il quotidiano che stava leggendo e sul comodino aveva un volumone di un professore americano. Muore in piedi chi ha vissuto in piedi.

Fabrizio era orgoglioso di fare il telefonista, il lavoro del padre, che svolgeva con serietà e con passione divenendo il tecnico di valore che tutti stimavano. Come comunista non chiudeva i suoi orizzonti nella particolarità di una categoria, ma era cosciente del carattere oggettivamente rivoluzionario di un complesso di impianti, conoscenze ed abilità per far parlare gli uomini in una dimensione internazionale, un’opera oggi raffrenata dalle leggi del profitto e del mercato, ma che è già un apparato pronto per il domani.

Questo qui costernati dobbiamo dire, di un uomo a cui, come sappiamo tutti, non era possibile non volere bene.
 
 
 
 
 

PAGINA 3

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

TEORIA

La lotta economica del proletariato è la lotta dei lavoratori per i loro interessi immediati: salario, intensità, durata ed organizzazione del lavoro, ecc. Essa è il primo gradino della lotta di classe che è veramente tale quando diviene lotta politica, il cui apice è la Rivoluzione contro la borghesia per la conquista e l’esercizio del potere.

La lotta economica è una scalinata che conduce alla lotta politica. Ogni gradino è superiore al precedente perché corrispondente a una lotta più estesa e profonda, che coinvolge e unisce un numero maggiore di lavoratori. Compiendo questo percorso i lavoratori si uniscono superando i confini che li dividono: il primo è sempre quello individuale, cui seguono quello di reparto, di stabilimento, d’azienda, di categoria e, infine, il più duro, quello nazionale. I piani più alti della lotta economica – quando è l’intera classe lavoratrice a mobilitarsi per obiettivi comuni – tendono a coincidere coi primi gradini della lotta politica perché agire come classe è il primo passo per sentirsi e comprendere di essere una classe.

L’alimentarsi della lotta economica è incessante perché le condizioni materiali che la generano sono ineliminabili. Queste risiedono nel rapporto di produzione che distingue il capitalismo dai modi di produzione precedenti: la relazione fra Capitale e Lavoro. I due poli di questo rapporto – che determinano le due classi principali del capitalismo, borghesia e proletariato – sono in insanabile contrasto. In termini generali, cioè tendenziali ma pienamente corretti:
- Il Capitale o cresce o muore. Un’azienda che non accresce il suo capitale è destinata a breve o medio termine a fallire. La somma dei capitali delle singole aziende – piccole medie e grandi – è il Capitale complessivo della società. Più ingigantisce, maggiori difficoltà ha a crescere ulteriormente. Per farlo è costretto ad incrementare lo sfruttamento, cioè a comprimere i salari e ad aumentare la durata e l’intensità del lavoro.
- Il Salario – quale forma, l’ultima, che ha assunto il Lavoro – è il solo mezzo di sussistenza del proletariato, del lavoratore nel capitalismo, privo di ogni strumento di produzione se non la propria forza lavoro che deve vendere per poter mangiare. Per la propria sopravvivenza il lavoratore necessariamente si trova in contrasto con le necessità del Capitale.

Il contrasto fra Capitale e Lavoro salariato dunque è insanabile perché non è frutto della volontà degli individui che compongono le due principali classi sociali del capitalismo – dei lavoratori o dei capitalisti – bensì delle leggi regolanti questo modo di produzione, che determinano i bisogni e quindi le azioni degli individui, a seconda della loro collocazione sociale. La lotta di classe non è il parto di una ideologia ma è un fatto che la teoria comunista, proprio perché scientifica e non ideologica, riconosce e pone quale suo cardine. Ideologie sono la pace sociale, la concertazione, l’idea di conciliare le necessità dei lavoratori con quelle del Capitale, in una parola il riformismo.

Fra lotta economica e lotta politica del proletariato non vi è opposizione. La lotta economica colpisce solo gli effetti del capitalismo: difende i lavoratori dalla necessità del Capitale di contrastare la caduta del saggio del profitto. La lotta di classe politica mira alla causa del problema: il rapporto di produzione Capitale-Lavoro. Ogni vittoria dei lavoratori nel campo della lotta economica è effimera. Lo mostra la storia del capitalismo e lo confermano questi ultimi anni in cui le conquiste operaie passate, frutto di dure lotte, sono una ad una distrutte dal padronato e dai suoi governi. Il solo modo che ha la classe lavoratrice per superare la sua condizione di sfruttamento e precarietà è passare dalla lotta contro gli effetti del capitalismo alla lotta contro il capitalismo stesso. La lotta politica è il coerente completamento della lotta economica. I comunisti quindi non strumentalizzano la lotta economica dei lavoratori per fini politici a loro estranei. «I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato (...) Si distinguono (...) solo per il fatto che (...) fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell’intero proletariato (...) Per il fatto che sostengono costantemente l’interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia» (Manifesto del Partito Comunista, Marx-Engels, 1848).
 

IL PARTITO

È evidente l’importanza cruciale della lotta economica. Senza di essa non vi sarebbe possibilità di vittoria sul capitalismo: una classe incapace di difendersi sul piano economico non può attaccare sul piano politico. «Il movimento politico della classe operaia ha naturalmente come scopo ultimo la conquista del potere politico per la classe operaia stessa, e a questo fine è naturalmente necessaria una previa organizzazione della classe operaia, sviluppata fino a un certo punto e sorta dalle sue stesse lotte economiche» (Lettera di Marx a Bolte del 29 novembre 1871).

Questa importanza è accentuata dal fatto che, negli archi storici controrivoluzionari, la lotta economica è l’unico campo d’azione del Partito, intendendo con essa non la mera attività di propaganda e proselitismo ma l’intervento teso a influenzare, organizzare e dirigere le lotte dei lavoratori. La gelosa tutela di questa possibilità d’azione è uno dei pilastri della difesa della natura e dell’efficienza del Partito stesso.

«8. (...) è chiaro che il piccolo partito di oggi ha un carattere preminente di restaurazione dei principi di valore dottrinale (...) Tuttavia, non per questo possiamo calare una barriera fra teoria e azione pratica; poiché oltre un certo limite distruggeremmo noi stessi e tutte le nostre basi di principio. Rivendichiamo dunque tutte le forme di attività proprie dei momenti favorevoli nella misura in cui i rapporti reali di forze lo consentono» (Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, 1965).
«9. (...) Il partito riconobbe ben presto che, anche in una situazione estremamente sfavorevole ed anche nei luoghi in cui la sterilità di questa è massima, va scongiurato il pericolo di concepire il movimento come una mera attività di stampa propagandistica e di proselitismo politico. La vita del partito si deve integrare ovunque e sempre e senza eccezioni in uno sforzo incessante di inserirsi nella vita delle masse ed anche nelle sue manifestazioni influenzate dalle direttive contrastanti con le nostre (...) È importante stabilire che, anche dove questo lavoro [l’attività sindacale] non ha ancora raggiunto un apprezzabile avvio, va respinta la posizione per cui il piccolo partito si riduca a circoli chiusi senza collegamento coll’esterno, o limitati a cercare adesioni nel solo mondo delle opinioni» (Tesi “di Napoli”, 1965).
Il Partito dunque presta la massima cura nella definizione della sua azione nel campo della lotta economica proletaria. Obiettivo generale di questa azione è far salire ai lavoratori ciascuno di quei gradini che dalla lotta economica li condurranno a quella politica rivoluzionaria. Il duro lavoro è quello di raccordare ogni battaglia – fin dalla più minuta e particolare, limitata nel perimetro degli obiettivi e dell’estensione – col percorso complessivo di lotta che la classe dovrà compiere per raggiungere le sue finalità massime, attraverso la scelta degli obiettivi, dei mezzi e dei metodi di lotta.

Questo lavoro è condizionato da due fondamentali fattori: il ruolo delle organizzazioni economiche proletarie e l’opposizione della classe dominante.
 

LA STORIA

Fin dalle origini del movimento operaio lotta proletaria ha significato organizzazione dei lavoratori. Dotarsi di un’organizzazione per i lavoratori è una necessità. «I conflitti fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere di scontro di due classi. Gli operai cominciano col formare coalizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino ASSOCIAZIONI PERMANENTI per approvvigionarsi in vista di dei previsti sollevamenti» (Manifesto del Partito Comunista).

Da strutture temporanee che nascevano e si scioglievano con la singola battaglia, si è passati ad organizzazioni permanenti, che permettono di non disperdere energie ed esperienze, di stabilizzare il raggiunto grado di unità di classe. Mentre – inevitabilmente – la combattività dei lavoratori subisce alti e bassi, l’organizzazione svolge la funzione di volano, accumulando l’energia espressa nel fervore della lotta, conservandola quando la massa dei lavoratori smette di scioperare, trasmettendola alla lotta successiva.

Lo sviluppo delle organizzazioni proletarie è andato nella direzione del superamento, oltre che dei limiti temporali, anche di quelli legati alla struttura produttiva del capitalismo, cioè aziendali e di categoria. Tipico sviluppo dell’organizzazione è quello che la vede nascere nell’azienda e poi espandersi alle imprese simili per produzione, così da impedire che i lavoratori delle une e delle altre siano messi in concorrenza. In tal modo si giunge all’organizzazione dell’intera categoria su base nazionale. Passo successivo è l’unione dei sindacati dei vari mestieri in un’unica organizzazione.

Altra via per la quale si sono formati sindacati che inquadrano l’intera classe lavoratrice è stata quella della formazione di organismi territoriali locali che coordinavano le lotte dei lavoratori unendoli al di sopra delle aziende e delle categorie. Tipico esempio furono le Camere del lavoro in Italia.

I comunisti hanno sempre salutato con fervore la formazione delle organizzazioni di lotta proletarie, anche se queste si costituiscono fuori dall=a loro influenza, perché ciò che rafforza la classe rafforza anche il comunismo rivoluzionario. Il Partito non organizza sindacati di partito: organizzazione economica ed organizzazione politica devono essere distinte. Questa condotta non risponde a un precetto morale. I comunisti sanno di essere i più vicini ai lavoratori e di rappresentare il loro partito. Mai fingono apoliticità nei loro confronti, comportamento che invece contraddistingue tutti gli opportunisti. Per principio: «I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni» (Manifesto del Partito Comunista). Il Partito incoraggia la costruzione di organizzazioni di lotta dei lavoratori, ove vi siano effettive energie proletarie disponibili in tal senso. Ma sostiene la formazione di organizzazioni aperte a tutti i lavoratori al di sopra delle loro divisioni, comprese quelle politiche.

Il Partito non sostiene la creazione di sindacati di soli comunisti perché questi sarebbero inevitabilmente minoritari. Il Partito Comunista, infatti, in quanto rivoluzionario, inquadra necessariamente una minoranza della classe lavoratrice perché «l’ideologia dominante è sempre quella della classe dominante» (Marx). Organizzare sindacati “di partito” porterebbe solo al risultato di abbandonare la maggioranza dei lavoratori all’influenza che i partiti borghesi esercitano attraverso i loro agenti nelle organizzazioni sindacali maggioritarie. Per questa ragione vanno rigettate le forme ibride fra Partito e Sindacato.

In quanto rivoluzionario, e perciò minoritario, il Partito Comunista non ha le forze per creare un rapporto diretto con l’insieme della classe. Le organizzazioni di lotta proletarie sono organismi intermedi che Lenin definì efficacemente cinghia di trasmissione fra il Partito e la Classe. Solo attraverso l’azione dei comunisti all’interno di queste organizzazioni la voce e la forza del partito possono essere moltiplicate.

Il miglior sviluppo della lotta di classe si ha con una classe lavoratrice largamente inquadrata entro una o più organizzazioni economiche proletarie e con un Partito, definito nei suoi caratteri teorici e programmatici rivoluzionari, che abbia potuto svolgere all’interno di queste organizzazioni un’intensa attività, tale da essere ben riconoscibile dai suoi membri.
 

TRE FASI

La storia di due secoli di lotta proletaria mostra come il processo di formazione delle organizzazioni sindacali non sia compiuto una volta per tutte ma possa ripetersi, per una parte o per l’insieme della classe, a seconda delle vicende di ciascun paese, per effetto dell’azione avversa della borghesia.

Pur avendo il movimento operaio e sindacale caratteri peculiari in ogni paese, risultato delle differenti storie nazionali, i suoi tratti fondamentali sono comuni, delineati dal comunismo rivoluzionario fin dalle sue origini col Manifesto del 1848, che si conclude con la parola d’ordine: proletari di tutti i paesi unitevi! È possibile e necessario delineare un percorso generale compiuto dalle organizzazioni proletarie e dall’azione delle borghesie nazionali nei loro confronti.

La condotta della classe dominante è mutata nel corso della storia del capitalismo e vi si possono distinguere tre fasi successive: divieto, tolleranza, assoggettamento.

Divieto

L’atteggiamento della borghesia agli esordi del movimento operaio fu di intransigente divieto e repressione. Tipico esempio furono la legge Le Chapelier in Francia del giugno 1791 e quella del parlamento inglese del luglio 1799. La conquista del potere da parte della borghesia rivoluzionaria, a spese dell’aristocrazia, ebbe quale veste ideologica la cosiddetta dottrina liberale secondo cui, nel nuovo ordine instaurato, la società civile, in virtù della raggiunta eguaglianza giuridica dei cittadini, si sarebbe autoregolata, senza che al suo interno si generassero forze sociali distruttrici, come era invece accaduto per l’ancien regime feudale, crollato sotto i colpi delle rivoluzioni borghesi. Per la borghesia, naturalmente, il suo regime doveva – e deve – essere l’ultimo ed eterno. La formazione di corpi sociali distinti all’interno della società, come le organizzazioni operaie, era perciò repressa, considerata un residuo del passato, associata alle corporazioni medioevali.

Tolleranza

La dottrina liberale mostrò presto il suo carattere ideologico, cioè falso: a fronte dello sviluppo impetuoso del giovanile capitalismo nell’Europa Occidentale, e quindi alla rapida crescita del proletariato, la condotta repressiva si rivelò pericolosa. Se gli operai, ogni qual volta che scioperavano, dovevano affrontare il piombo dello Stato borghese, potevano essere indotti molto rapidamente a passare dalla lotta economica a quella rivoluzionaria. Le lotte economiche tendevano a divenire subitaneamente lotte politiche. Per questa ragione in quell’epoca organizzazione economica ed organizzazione politica della classe proletaria spesso coincisero, come nel caso della gloriosa Prima Internazionale (1864-1876).

La borghesia – ascesa al potere in Inghilterra con la rivoluzione del 1649-58, in Francia con la Grande Rivoluzione del 1789-’93, nel resto dell’Europa occidentale dopo le rivoluzioni del 1848-’49 – mutò atteggiamento, accettando l’associazionismo proletario. Il regime zarista russo, ancora feudale, non poté fare altrettanto, e anche per questo crollò sotto i colpi della Rivoluzione proletaria nell’ottobre rosso del 1917.

Sul sangue della Comune di Parigi del 1871 si aprì così nell’Europa Occidentale la fase della tolleranza che vide parallelamente lo sviluppo impetuoso del capitalismo da un lato e dei sindacati dall’altro. Tipico esempio furono i sindacati tedeschi e le Trade Unions inglesi.

Lo Stato borghese ammise in tal modo che la società capitalista non era un insieme omogeneo di cittadiniliberi, uguali, fraterni – ma era divisa in classi. Finché poté, cercò – in ossequio alla dottrina liberale – di lasciare autonomia sia alle organizzazioni padronali sia a quelle proletarie nella lotta fra Capitale e Lavoro, intervenendo quando lo scontro diveniva un problema d’ordine pubblico. Ma il corso del capitalismo doveva inevitabilmente spingere in direzione opposta, verso un sempre maggiore interventismo statale.

La lunga e forte crescita economica degli ultimi trent’anni del diciannovesimo secolo e dei primi anni del Novecento – simile a quella successiva alla Seconda Guerra mondiale – fu la base materiale che sviluppò nel seno del movimento operaio e socialista una corrente riformista e la spinse alla direzione delle organizzazioni sindacali. Il nuovo atteggiamento di tolleranza sembrò dunque vincente per gli interessi borghesi: la lotta economica non spingeva i lavoratori verso la rivoluzione ma verso il riformismo.

Assoggettamento

Il riformismo negava lo sbocco rivoluzionario della lotta di classe ma condivideva col marxismo rivoluzionario l’obiettivo della società senza classi, senza Capitale, senza la schiavitù del lavoro salariato. Esisteva un riformismo proletario, o marxismo riformista, che il marxismo rivoluzionario combatteva – denunciandone l’inevitabile fallimento – ma con cui, finché la storia non lo avesse dimostrato, condivideva l’organizzazione politica, come nel caso tipico della Seconda Internazionale, fondata nel 1889.

I sindacati, pur se dirette da riformisti, erano autonome teoricamente e materialmente dalla borghesia e dal suo Stato, sia per il carattere del riformismo proletario sia per quello della cosiddetta borghesia liberale. Entrambi questi atteggiamenti non erano libere scelte dei loro attori ma frutto dell’epoca giovanile del capitalismo, fase che, col potente sviluppo di fine ‘800, si avviava a passi veloci verso il tramonto.

L’esaurirsi del ciclo di crescita e l’aprirsi della crisi economica generale intorno al 1905, che sboccò nella Prima Guerra mondiale, l’ondata rivoluzionaria proletaria dal 1917 al 1923, mutarono radicalmente la situazione, nel senso previsto dal comunismo rivoluzionario.

Si dimostrò che le correnti marxiste rivoluzionarie erano in grado di svolgere all’interno delle organizzazioni sindacali una efficacie attività, mettendo a rischio il loro assoggettamento al riformismo, e che per la borghesia era necessario un più stretto controllo su di esse.

La Prima Guerra mondiale accelerò il passaggio del capitalismo dalla sua fase giovanile a quella matura – l’imperialismo – i cui caratteri centrali sul piano economico erano quelli contemporanei della concentrazione e centralizzazione dei capitali, strettamente legata alla fusione del capitale bancario con quello industriale. Questi caratteri della struttura economica ebbero, quale riflesso sulla sovrastruttura politica, il potenziamento della macchina statale capitalista, che, gettato via il vestito logoro dell’ideologia liberale, tese da allora a intervenire, controllare e disciplinare sia il movimento operaio sia la borghesia stessa, a tutela degli interessi complessivi del Capitale nazionale ed internazionale.

La Prima Guerra mondiale sancì il fallimento del riformismo che in tutti i paesi aveva appoggiato la propria borghesia spingendo i proletari al massacro fratricida ai fronti, dimostrando di rifiutare la violenza rivoluzionaria ma accettare quella della guerra capitalista. Il riformismo proletario morì e da allora il suo cadavere cammina solo perché si è gettato in braccio allo Stato borghese, che lo sostiene perché fondamentale strumento contro la Rivoluzione. Da allora esiste solo un riformismo borghese.

La sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni 1917-1923 aiutò la borghesia nel tentativo di assoggettare le organizzazioni economiche dei lavoratori.

Nei paesi in cui più forte era il legame fra i lavoratori e il comunismo rivoluzionario la classe dominante ricorse all’azione armata del fascismo, distrusse le organizzazioni sindacali di classe, creò al loro posto sindacati di Stato e teorizzò – limpidamente – l’inquadramento delle forze sociali, Capitale e Lavoro, in Corporazioni disciplinate nello Stato per il bene superiore della Patria.

Ma il contenuto materiale dell’ideologia fascista – oltre all’azione militare antiproletaria – non fu che l’azione concreta di tutti gli Stati borghesi, democratici e fascisti, da allora in poi. Basti sostituire “Corporazioni” con “Parti sociali” e “Patria” con “Democrazia” o “Paese”.

Nei paesi dove il comunismo rivoluzionario era più debole questo risultato fu ottenuto dalla borghesia affidandosi ancora al riformismo che, ora suo servo fedele, abbandonò i precedenti obiettivi per i nuovi borghesi: la società senza classi, senza Capitale, senza lavoro salariato fu prima identificata e poi sostituita con la Democrazia, assurta a bene supremo cui subordinare la lotta operaia, in quanto regime politico in grado di garantire un capitalismo equo, in permanente sviluppo, con benessere e progresso sempre crescenti. Tutto falso, perché nessun regime politico può modificare le leggi economiche del capitalismo.

La vittoria della controrivoluzione fu la riscossa del riformismo che, scampato il pericolo rivoluzionario 1917-1923, penetrò, con la veste ideologica dello stalinismo, nei partiti comunisti, distruggendoli. Questa nuova sconfitta della rivoluzione e del movimento comunista condusse alla Seconda Guerra mondiale. Ancora una volta fu negata ai proletari di tutti i paesi la consegna del Manifesto: unitevi! Il riformismo mandò nuovamente i lavoratori al macello sui fronti di guerra. La controrivoluzione trionfò, non poté essere spezzata e doveva consumarsi fino in fondo.

La chiusura, nel 1974, del nuovo ciclo di accumulazione capitalistica reso possibile dalla Seconda Guerra mondiale, il crollo del falso comunismo russo nel 1989, l’esplosione della crisi economica generale nel 2008, segnano l’esaurimento delle basi materiali di questo lungo arco controrivoluzionario.
 

NEL 2° DOPOGUERRA

All’indomani della Seconda Guerra mondiale il Partito riconobbe il nuovo atteggiamento della classe dominate teso ad assoggettare le organizzazioni della classe lavoratrice. L’arco storico che comprende le due guerre mondiali aveva visto la resa delle tradizionali organizzazioni sindacali di classe, seriamente compromesse nella loro autonomia e trasformate in sindacati di regime, legati cioè al regime politico, economico e sociale capitalista. Il lungo arco controrivoluzionario non poteva che favorire questo processo.

Di fronte a ciò il Partito mantenne la tradizionale consegna di lavorare all’interno di queste organizzazioni sindacali allo scopo di conquistarle, riportandole ad essere organizzazioni di classe. Ma aggiunse che, quanto più avanzava il loro inquadramento nel regime, tanto più si sarebbe aperta la possibilità che i lavoratori si riorganizzassero per lottare fuori e contro di esse.

Il lavoro all’interno di questi sindacati era perciò vincolato al progredire del processo del loro assoggettamento, più precisamente, alla possibilità per i militanti del Partito di poter svolgere attività sindacale comunista al loro interno e battersi per affermarvi l’indirizzo sindacale comunista: «11. (...) Il partito, mentre riconosce che oggi può fare solo in modo sporadico opera di lavoro sindacale, mai vi rinuncia e, dal momento che il concreto rapporto numerico tra i suoi membri, i simpatizzanti e gli organizzati in un dato corpo sindacale risulti apprezzabile e tale organismo sia tale da non avere esclusa l’ultima possibilità virtuale e statutaria di attività autonoma classista, il partito esplicherà la penetrazione e tenterà la conquista della direzione di esso» (Tesi caratteristiche del partito, 1951).

Il Partito non ha “fretta” di sciogliere questa duplice possibilità – riconquista o ricostruzione fuori e contro – ma quando ritiene di avere elementi sufficienti per poterlo fare deve indicare alla classe lavoratrice la via da percorrere perché è sua funzione favorire, influenzare, dirigere col proprio indirizzo la lotta economica proletaria. «7. (...) Compito del partito nei periodi sfavorevoli e di passività della classe proletaria è di prevedere le forme e incoraggiare la apparizione delle organizzazioni a fine economico per la lotta immediata». Come per ogni altro ramo di attività, l’abdicare a una sua funzione nuoce al complesso del suo organismo, della sua vita interna, del suo lavoro.

La valutazione della natura definitivamente di regime di un’organizzazione sindacale, ossia della sua inconquistabilità da parte dei comunisti, riposa, oltre che sui caratteri del suo indirizzo, sui seguenti fattori:
- tentativi non sporadici di gruppi di lavoratori di organizzarsi fuori e contro di essa;
- pratico impedimento all’attività dei militanti del Partito al suo interno.

Dopo la Seconda Guerra mondiale solo in Italia il Partito ha potuto svolgere una significativa attività sindacale. In questo paese si è battuto all’interno del maggiore sindacato – la CGIL – dalla sua ricostituzione “dall’alto” col “Patto di Roma” nel 1944, già su basi di regime, per un arco temporale di oltre trent’anni.

Solo alla fine degli anni ‘70 giunse alla conclusione che non era più possibile svolgere lavoro sindacale comunista al suo interno, non era più possibile la sua riconquista, nemmeno, come si disse, “a legnate”, cioè non per via congressuale ma sull’onda di potenti lotte e in modo violento. Questa valutazione riposò, oltre che sull’attività sindacale interna alla CGIL, anche su importanti episodi di lotta in cui i lavoratori si organizzarono fuori e contro di essa.

Entrambi i fattori sopra indicati erano ben presenti. Infatti, negli anni successivi, l’indirizzo del Partito – che da allora per l’Italia è “fuori e contro i sindacati di regime per la rinascita del sindacato di classe” – è stato confermato dalla nascita di nuove organizzazioni sindacali, cosiddette “di base”. Il fatto che, nell’ulteriore arco temporale di 35 anni, da fine anni ‘70 ad oggi, queste nuove organizzazioni non abbiamo condotto alla formazione del Sindacato di Classe, che evidenzino tare alcune anche gravi, e perfino che alcune tendano a ripetere il percorso involutivo già compiuto dalla CGIL, non contraddice l’impostazione del problema sindacale del Partito ma ne è una conferma. Nell’epoca dell’imperialismo, infatti, ogni organizzazione sindacale che non sia conquistata dal Partito Comunista rivoluzionario, è destinata ad essere, a breve o lungo termine, assoggettata al regime borghese.

Dopo aver sciolto per l’Italia l’alternativa “riconquista o rinascita fuori e contro”, il Partito nel trentennio successivo ha svolto attività sindacale entro le nuove organizzazioni sindacali di base col metodo e gli obiettivi di sempre, come aveva fatto entro la CGIL di regime dell’epoca imperialista, e come precedentemente nella CGL rossa del primo quarto del Novecento. Ciò che distingue quest’ultimo arco temporale dai precedenti è l’assenza di importanti lotte proletarie, tali da mettere seriamente alla prova le piccole organizzazioni sindacali di base.

Il senso del lavoro sindacale del Partito, la sua coerenza e continuità, al di sopra delle vicende che inevitabilmente – trattandosi di lotta e non di attività accademica – lo hanno condizionato, riducendolo o anche interrompendolo, sono rintracciabili utilizzando quello che è lo strumento principale del lavoro comunista, ossia il giornale quale “organizzatore collettivo”, attraverso le sue organi sindacali: “Il Sindacato Rosso” (1921-1925), “Spartaco” (1962-1968), “Il Sindacato Rosso” (1968-1973), “Per il Sindacato Rosso” (1974-1987). Questa pagina sindacale intende proseguire lo stesso lavoro e sulla quella medesima strada tracciata.
 
 
 
 
 
 

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Battaglie sindacali nel mondo

NELLA GRANDE CINA

La crisi internazionale del capitale si fa sentire anche nel giovane capitalismo cinese, per ora solo rallentandone i ritmi di crescita. Varie aziende hanno riorganizzato la produzione, alcune si sono trasferite dove il costo del lavoro è più basso, altre hanno revocato gli ordinativi. In molte aree industriali del paese, in particolar modo nel Guangdong, da settembre si sono verificati diversi scioperi. Qui riportiamo i principali.

Foxconn - A fine settembre migliaia di operai della Foxconn di Taiyuan hanno dato vita a scontri sfociati in uno sciopero di 24 ore. La Foxconn, un milione di dipendenti in tutto il mondo, ha in Cina 13 impianti in nove città. Produce componenti per la Apple e per altre importanti aziende di elettronica. La fabbrica più grande si trova a Longhua, Shenzhen dove centinaia di migliaia di lavoratori sono rinchiusi nel “Longhua Science & Technology Park” un campus di circa 3 chilometri quadrati con 15 officine e diversi dormitori. È qui che durante le prime ore della notte sarebbero iniziati gli scontri. La polizia cinese è intervenuta prontamente arrestando un numero non precisato di operai. Le cause della sommossa non sono chiare. Pare che la rabbia operaia sia esplosa dopo che un addetto alla sicurezza ha malmenato un operaio poco incline a fornire ore di lavoro straordinario. Rientrati i disordini, poco prima dell’alba, gli operai sono entrati in sciopero per 24 ore.

Nei primi giorni di ottobre gli operai hanno scioperato in un’altra fabbrica della Foxconn, a Zhengzhou, bloccando la produzione degli iPhone, a seguito della richiesta dell’azienda di lavorare durante la settimana di vacanza legata alla festa della Repubblica del primo ottobre.

Novembre - Alla Electronics Jingmo, che impiega tremila operai, la direzione ha deciso di imporre lo straordinario, portando di fatto la giornata lavorativa a 18 ore. Gli operai sono entrati immediatamente in sciopero. Nel Sud hanno scioperato un migliaio di operai delle ditte in subappalto di Ibm e Apple contro gli straordinari forzati, incidenti sul lavoro e licenziamenti. Centinaia di operai hanno incrociato le braccia in una fabbrica elettronica a Taicang, Jiangsu.

Dicembre - Dai primi di dicembre, gli autisti di autobus nelle province di Guangxi e di Hainan hanno ripetutamente scioperato e manifestato contro i bassi salari.

A Shanghai uno sciopero è in corso alla Hi-P International, azienda elettronica che lavora in subappalto per Apple e Hewlett Packard, dopo che la società ha annunciato di voler spostarsi di sede.

NEGLI STATI UNITI

Wallmart

La Wallmart è tra le più grandi multinazionali al mondo nel settore della distribuzione, con oltre 10 mila negozi in 30 paesi, di cui 4 mila negli Stati Uniti, e più di due milioni di dipendenti, di cui più della metà in America.

Per la prima volta nella storia di questa azienda i lavoratori dei punti vendita e gli addetti dei magazzini, in maggioranza ispanici e afroamericani, sono entrati in sciopero e per di più lo hanno fatto nel cosiddetto black Friday, il venerdì dei grandi sconti, successivo al giorno del ringraziamento, che usualmente coincide con i maggiori incassi per i grandi centri commerciali.

Lo sciopero organizzato da diverse piccole sigle, in particolare la “OURWallmart”, ha coinvolto migliaia di lavoratori in circa 50 città americane, non molti rispetto il numero complessivo dei dipendenti. La scintilla è avvenuta qualche mese prima alla Wallmart di Pico Rivera, un quartiere di Los Angeles: poche decine di lavoratori sono entrati spontaneamente in sciopero contro gli orari di lavoro insostenibili, il salario da fame, l’assenza di ogni minima assistenza sociale, sanitaria e pensionistica, il divieto di organizzarsi sindacalmente. Da quel giorno in diversi magazzini e punti vendita sono iniziati scioperi e picchetti, sfociati in scontri e arresti, fino al tentativo di sciopero generale per il black Friday.

Nessun sindacato ufficiale ha sostenuto lo sciopero che perciò, secondo la legislazione americana, era illegale perché privo di copertura sindacale. La Wallmart si è sempre distinta per opporsi alla sindacalizzazione. Il referendum richiesto dalla legge per garantire la copertura sindacale deve ottenere il consenso dei due terzi dei lavoratori del luogo dove è stato indetto, la Wallmart ha invece sempre imposto di calcolare questi due terzi su tutti i suoi due milioni di dipendenti. Una legge che, anni or sono, il presidente Obama, appena rieletto, si era solennemente impegnato a modificare, una delle tante promesse dei rappresentanti della classe borghese.

Tra le varie azioni di lotta quella più importante è stato lo sciopero a settembre presso l’enorme magazzino di Elwood, nell’Illinois, snodo centrale nella rete di distribuzione di Wallmart, all’interno del quale arriva il 70% delle merci di importazione. I lavoratori hanno vinto ottenendo la riassunzione di tutti i licenziati o sospesi per l’attività sindacale e il pagamento degli interi arretrati per tutti quelli che avevano partecipato alle tre settimane di sciopero.

Tutti i lavoratori coinvolti in questa lotta non appartengono ad organizzazioni sindacali riconosciute. Nel corso degli anni nulla aveva scalfito l’arroganza dei padroni di Wallmart, né le innocue raccolte di firme, né le inutili campagne organizzate da attivisti di sinistra, tantomeno i documentari sulle condizioni di sfruttamento nei magazzini. Ci ha pensato la lotta di classe, sincera contro tutto e tutti, avversa alla morale borghese, ad aumentare dignità, sicurezza e salario a questa porzione di classe proletaria americana e che ha colpito una roccaforte della classe dominante, affrontando la fondamentale questione dell’organizzazione e perpetrando l’alleanza fra i lavoratori della distribuzione e quelli della vendita al dettaglio. È solo un inizio, ma è la strada che molti lavoratori americani dovranno percorrere e percorreranno.

Sciopero dei lavoratori dei fast food a New York

I lavoratori newyorkesi delle grandi catene di fast food tra cui McDonald’s, Burger King, Wendy’s, KFC, Taco Bell, Pizza Hut e Domino’s e altri hanno scioperato insieme giovedì 29 novembre. Le richieste sono state: il riconoscimento dell’organizzazione sindacale e un salario di 15 dollari l’ora, circa il doppio della paga attuale. I quotidiani newyorkesi dichiarano che questo sciopero sia nato sull’onda delle azioni di lotta dei lavoratori Wallmart.

Negli Stati uniti, circa 4 milioni di lavoratori, di cui 50 mila nella grande mela, sono impiegati nei fast food e nei diners (luoghi di ristoro), alcuni di loro sono tra quei 46 milioni (15% della popolazione) che vive sotto la soglia di povertà. Dietro l’immagine superficiale e patinata di queste catene una profonda realtà di povertà.

Sciopero degli insegnanti a Chicago

È durato nove giorni il generoso sciopero dei quasi 30 mila insegnanti della città di Chicago, indetto ma allo stesso tempo ostacolato dal sindacato CTU che, dopo aver tentano di affievolire la lotta, ha firmato un accordo al ribasso che soddisfa molte delle richieste dell’amministrazione comunale, tutto questo senza il consenso della stragrande maggioranza dei suoi delegati. Per i lavoratori della scuola lo sciopero è stato motivato dalla profonda ostilità verso l’odierna agenda del capitale, spacciata come salvifica misura per un miglioramento dell’istruzione, che prevede: facilità di licenziamento, chiusura della scuole a basso “successo”, svendita di alcuni istituti a enti privati, congelamento e riduzione del salario dei lavoratori.

In prima linea contro lo sciopero il sindaco della città, ex capo di gabinetto del presidente Obama, Rahm Emanuel, difensore di questa “riforma” del sistema educativo basata principalmente sulla chiusura di un elevato numero di scuole pubbliche e sulla promozione delle cosiddette “charter schools”, istituti privati sovvenzionati con fondi pubblici con insegnanti flessibili e a basso costo. A Chicago gli scopi e la natura dei due principali partiti del capitale statunitense sono venuti allo scoperto. I repubblicani, nonostante il grande circo elettorale alle porte, hanno manifestato tutta la loro solidarietà al sindaco democratico. Paul Ryan, repubblicano candidato alla vice-presidenza, ha dichiarato che “la riforma scolastica è una questione bipartisan”.

La determinazione degli insegnanti si è scontrata con l’organizzazione sindacale Chicago Teachers Union, che fa parte dell’American Federation of Teachers, affiliata all’AFL-CIO, la storica confederazione sindacale degli Stati Uniti, strettamente legata al partito democratico. Organizzazione che si è preoccupata da subito di contenere la rabbia dei lavoratori.

SCIOPERI IN TUNISIA

La Tunisia è nuovamente scossa da scioperi e violente manifestazioni delle masse proletarie. L’idillio del nuovo governo islamista, ampiamente propagandato dai megafoni di regime, sembra già al tramonto. Come abbiamo scritto, in Tunisia, come in tutto il Nord Africa, non v’è stata alcuna rivoluzione, bensì forti movimenti delle masse, in gran parte proletari, indeboliti dall’interclassismo e fermati, momentaneamente, con la trappola democratica.

Tunisi, 10 novembre - Uno sciopero senza preavviso dei tranvieri ha paralizzato la capitale. Violenti scontri si sono verificati sia in centro che nella periferia della città.

Silana, 28 novembre - Centinaia di lavoratori sono rimasti feriti negli scontri con la polizia a Silana, 127 chilometri a sud di Tunisi. La manifestazione era stata convocata da alcuni sindacati contro il “degrado del lavoro” paralizzando completamente la città. I manifestanti hanno inoltre chiesto le dimissioni del governatore provinciale Mahyub, membro del partito islamista al governo, Ennahda.

Tunisi, 5 dicembre - La sede centrale del sindacato Ugtt è stata attaccata da sostenitori del governo aderenti alla sedicente “Lega per la protezione della rivoluzione”. In centinaia hanno assediato e poi assaltato, con tanto di ariete, la sede del più grande sindacato tunisino, piegando la difesa dei suoi militanti.

A Tataouine lo stesso gruppo filogovernativo ha assaltato la sede dell’Unione regionale degli agricoltori e pescatori, provocando la morte di un sindacalista.

L’UGTT, anche a seguito di questi fatti, aveva deciso di convocare per giovedì 13 dicembre uno sciopero generale ma, a conferma della sua natura sindacato di regime, lo ha revocato all’ultimo momento in cambio di alcuni generici impegni da parte del governo sulle libertà sindacali! Hamadi Jebali, capo del governo, ha definito quest’accordo come «una vittoria negli interessi del paese», cioè del Capitale, e ha ribadito l’importanza del «rispetto della legge»... dei padroni. Molti delegati e militanti di base sono rimasti delusi dall’accordo e hanno minacciato le dimissioni.

Il 6 dicembre l’UGTT aveva indetto uno sciopero in diverse città tra cui Sfax, El Kef, Kasserine, Jendouba, Gabès, Sidi Bouzid.

IN PALESTINA

A settembre, prima dei bombardamenti israeliani, i palestinesi di Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono scesi in strada contro il rincaro dei prezzi – in particolare di acqua, gas, elettricità – e il mancato pagamento degli stipendi pubblici nei mesi di luglio e agosto. Manifestazioni determinate e molto partecipate tanto che i media borghesi iniziavano a paragonarle alle “primavere” arabe.

Il Primo Ministro dell’ANP Salam Fayyad ha dichiarato: «Non riproporremo alcuna Primavera Araba qui, perché non siamo uno Stato». Il vice Presidente dell’Ufficio Politico di Hamas Abu Marzouq a ‘Ma’an’ gli ha fatto eco ribattendo: «Il principale problema del popolo palestinese non è economico». Dichiarazioni che ben mostrano come la costituzione dello Stato palestinese sia un obiettivo borghese falso ma già utile contro la lotta del proletariato.

Contro i ritardi nei pagamenti dei salari, il 19 dicembre 50 mila lavoratori del settore statale della Cisgiordania sono nuovamente scesi in sciopero per due giorni.

IN LIBANO

Il 27 e 28 novembre gli statali libanesi hanno scioperato contro i ritardi del governo di Beirut nell’approvazione di una legge che aumenti i salari. Allo sciopero si sono uniti anche molti insegnanti di istituti privati nonostante le minacce di licenziamento.
 
 
 
 


La lotta dei lavoratori dell’assistenza a Catania

Il 10 ottobre scorso è stato approvato un decreto in materia di finanza e funzionamento degli Enti territoriali dello Stato. Trenta pagine fitte di commi e articoli che possiamo riassumere in: “nuovi tagli ai comuni e, indirettamente, alla classe lavoratrice”. L’intento è far quadrare i conti di questa società borghese che fa acqua da tutte le parti.

Tra i vari punti è presente quello inerente al fondo di rotazione, che dovrebbe essere in grado di assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali ed erogare risorse per il risanamento finanziario dell’ente. A questo decreto il Comune di Catania si è appellato facendo sì che la Corte dei Conti sospendesse la procedura di dissesto, tenuto conto del progetto di risanamento – cioè tagli e balzelli – redatto dalla giunta comunale.

Insomma il Comune di Catania non ha soldi! Questo lo sanno bene i lavoratori del settore socio-assistenziale che vantano con l’Amministrazione comunale un credito di 7 mensilità, e, nonostante questo, ogni giorno sono costretti ad andare a lavorare altrimenti rischierebbero di essere licenziati.

I lavoratori coinvolti nella crisi del settore socio-assistenziale, gestito da una serie di cooperative, sono circa 800. Mentre scriviamo sono passati più di 70 giorni da quando un gruppo di lavoratori del settore, organizzati dall’Usb, è in presidio permanente in Piazza Università: hanno piantato tende e striscioni e non si sono più mossi, giorno e notte.

A questi lavoratori, in tenace e coraggiosa azione di lotta, dobbiamo indicare che senza la solidarietà dei loro fratelli di classe queste azioni possono rimanere dei gesti simbolici destinati alla sconfitta. I lavoratori spendano le loro energie non alla ricerca di visibilità e solidarietà dalle altre classi, ma dalla classe proletaria. La richiesta del salario quando non viene pagato, il salario integrale per i disoccupati, la diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario, sono solo le rivendicazioni che riguardano l’intera classe operaia.

Nel territorio etneo, infatti, ci sono varie vertenze, come ad esempio Ex Cesame, i lavoratori addetti alla pulizia delle scuole e la St Microelectronics, la Circumetnea, Aligrup, solo per citarne alcune. Tutti questi lavoratori esprimono le stesse rivendicazioni dei lavoratori del settore socio-assistenziale, ed è con loro che occorre cercare l’unione al fine di estenderla territorialmente alla più ampia fetta di lavoratori, al di sopra delle categorie, per arrivare a costruire un fronte unico proletario che possa rispondere all’attacco padronale.Il feticismo della “crescita”
 
 
 
 
 

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Marx e gli economisti classici
Investire è proporre le medesime cause che hanno prodotto la crisi

Ci risiamo. Puntuale come il Big Ben, allo scoccare delle ore più convulse di una crisi generale, qualche dotto economista borghese continua l’opera dei più illustri predecessori, nel vano tentativo di rendere innocuo Il Capitale di Marx. Un consiglio a tutti quanti siano animati dall’intenzione di rendere Marx digeribile alla borghesia: gettate senz’altro Il Capitale nel cestino perché non troverete mai una riga di quell’arma proletaria che non suoni campana a morto per il modo di produzione capitalistico.

Teoria del plusvalore cuore della dottrina marxista

Da oltre un secolo il bersaglio di ogni ideologo di regime che voglia conquistarsi la pagnotta è la base vitale della dottrina marxista: la teoria del valore. Le questioni in merito aprirebbero scenari sterminati che richiederebbero una trattazione approfondita; qui ci limitiamo a qualche richiamo.

Marx attacca frontalmente le teorie degli economisti classici sul plusvalore senza lasciare spazio al dubbio: «Tutti gli economisti commettono l’errore di considerare il plusvalore non semplicemente in quanto tale, ma nelle forme particolari di profitto e di rendita» (Teorie sul Plusvalore, Vol. I). Questo importantissimo concetto, che apre quello che avrebbe dovuto diventare il IV Libro del Capitale dedicato alla Storia delle dottrine economiche e che è classificato dall’autore come “Osservazione generale”, è l’errore principale che non permette di comprendere l’arcano della fattura del plusvalore. In altre parole quella grandezza non è trattata per quello che realmente è – una maggiorazione nel valore derivante dalla produzione immediata – ma per il tramite di forme specifiche che quel plusvalore assume alla superficie dell’economia; perciò lo si fa derivare di volta in volta o dal capitale complessivo (o come si dice oggi dall’insieme dei “fattori produttivi”) anticipato dal capitalista (il profitto), o da proprietà naturali della terra (la rendita).

Anche gli economisti classici non si sottraggono a questo abbaglio, come rileva Marx nei capitoli che dedica alle teorie sul plusvalore e sul profitto di Smith e Ricardo. Un abisso separa la scienza marxista dai protagonisti del pensiero classico.

Marx e ad Engels non attribuirono a quei grandi economisti del passato gli strafalcioni dei loro epigoni contemporanei. Peggio ancora stati sono i successivi, che hanno mischiato i principi dell’economia classica con le assurdità prese a prestito dai “professori” dell’economia marginalista o degli “istinti animali” di keynesiana scoperta.

Niente di simile agli strali contro la misurabilità e prevedibilità delle leggi di sviluppo del modo di produzione capitalistico sarebbe potuto uscire dalla mente di un Ricardo, il quale, anzi, venne ripetutamente accusato di non interessarsi – nei suoi studi – al comportamento degli “uomini” ma solamente allo sviluppo delle forze produttive. Oggi si sente dire che l’economia sarebbe una scienza sociale e pertanto anti-deterministica per eccellenza. È vero il contrario! Le leggi che determinano il collasso del sistema borghese di produzione sono rintracciabili proprio nel suo peculiare meccanismo di funzionamento; non agiscono come cause esterne, ma come contraddizioni immanenti, e pertanto non sanabili sulla base delle norme capitalistiche.

Orrore della scienza borghese è sempre stato la impersonale legge della caduta tendenziale del tasso di profitto medio, formula che condanna il modo di produzione più mostruoso che la storia abbia mai conosciuto ad essere semplicemente transitorio. È secondo Marx stesso la legge più importante del capitalismo.

Un modo di produzione che si qualifica per quello che è, ovvero non l’unico mezzo storico per produrre ricchezza. Ecco un altro chiodo che la teoria marxista delle crisi viene a ribadire: fatta passare, come niente fosse, l’identità tra la dottrina marxista e le teorie dell’economia classica sul plusvalore, è giocoforza trasformare il capitalismo nella “produzione in generale” (Marx, Introduzione del ’57 a Per la critica dell’economia politica). E per incanto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo si tramuta nella crescita della società; la valorizzazione del capitale diventa sinonimo di società dinamica in grado di migliorare se stessa, ed altri simili giochi di specchi borghesi.

Ben altrimenti il marxismo tratta la dottrina dei modi di produzione:

«Quando si parla di produzione, si parla sempre – ad un livello determinato di sviluppo sociale – della produzione di individui sociali. Dunque appare che, in generale, per parlare della produzione, o dobbiamo seguire il processo storico di sviluppo nelle sue diverse fasi, oppure dobbiamo chiarire subito che ci limitiamo ad una determinata epoca storica, ad es. quella della moderna produzione borghese.
«La produzione in generale è sì un’astrazione, ma un’astrazione sensata, nella misura in cui mette effettivamente in evidenza ciò che è comune. Poiché questo generale, comune, è esso stesso variamente articolato e si snoda in diverse determinazioni, ne consegue che alcune appartengono a tutte le epoche, altre sono comuni solo ad alcune, altre ancora appartengono sia all’epoca più moderna sia alla più antica. La differenza da quel generale, comune, da quelle determinazioni, che valgono per la produzione in generale, deve essere individuata, in modo che, per l’unità – che deriva dal fatto che il soggetto, cioè l’umanità, e l’oggetto, cioè la natura, restano gli stessi – non venga dimenticata l’essenziale diversità».
Ed ecco la sentenza che sbattiamo volentieri sul grugno dei rifondatori: «In tale dimenticanza consiste l’intera saggezza dei moderni economisti, che vogliono dimostrare l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti» (Introduzione del ’57).

La crisi da sovrapproduzione

Un modo di produzione storico è destinato a scomparire quando si profilano nuovi più elevati rapporti sociali di produzione; è questa la condanna più dura per l’economia volgare! Per esorcizzare la paura, gli ideologi dell’imperialismo raffigurano il capitalismo come un sistema attraversato sì da periodici squilibri di funzionamento, ma in grado di ritrovare l’equilibrio per il tramite o della “mano invisibile” o dell’intervento dello Stato.

Alla seconda schiera appartengono in genere coloro i quali credono che il marxismo sia soltanto una versione antiquata del pensiero di Keynes. Chissà cosa direbbe il Lord inglese a proposito, sostenitore convinto che socialismo e sindacati fossero il «microbo patogeno della civiltà». Engels a ragione sosteneva di preferire gli aperti nemici ai falsi amici!

Oggi che la crisi generale da sovrapproduzione fa sentire i suoi effetti tornano in auge le teorie più disparate. C’è chi sostiene che la colpa – cristianamente – sia della “cattiva finanza”, chi dei mercati emergenti privi delle “tutele sociali” proprie dei paesi sviluppati, dimenticando dell’identico percorso seguito da questi nel passato...

Il marxismo solo ha saputo trovare la risposta completa per i fenomeni che ciclicamente sconvolgono la società intera e tornano a gettare nella miseria i proletari, ricordando la loro natura di semplici venditori di forza-lavoro nullatenenti.

Marx nella Sezione III del Terzo Libro del Capitale affronta proprio la legge della caduta tendenziale del tasso di profitto, connessa al determinarsi delle crisi; dimostra che tale saggio decresce storicamente in rapporto all’aumento della composizione organica del capitale: il rapporto tra la parte costante del capitale e quella variabile:

«Ciò significa che lo stesso numero di operai e la stessa quantità di forza-lavoro, corrispondenti a una data quantità di capitale variabile, in conseguenza dei metodi particolari di produzione che si sviluppano nella produzione capitalistica, mettono in movimento, impiegano, consumano produttivamente durante il medesimo periodo di tempo una massa sempre crescente di mezzi di lavoro, di macchinario e capitale fisso di ogni genere, di materie prime e ausiliarie e, per conseguenza, un capitale costante di sempre maggiore valore. Questa progressiva diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante, e per conseguenza al capitale complessivo, è identica al progressivo elevarsi della composizione organica del capitale complessivo considerato nella sua media. Del pari, essa non è altro che una nuova espressione del progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro, che si dimostra per l’appunto nel fatto che, per mezzo dell’impiego crescente di macchinario e di capitale fisso in generale, una maggiore quantità di materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotto da un eguale numero di operai nello stesso tempo, cioè con un lavoro minore».
Il capitale cresce più velocemente della classe operaia, la sola che, vendendo la sua forza lavoro, produce plusvalore. Il capitale progressivamente contrae la fonte stessa della sua esistenza. L’effetto ultimo di questa contraddizione è che al culmine di un periodo di prosperità il meccanismo dell’accumulazione s’inceppa e la macchina produttiva, turgida di merci, s’ingolfa e fatica a ripartire. È la sovrapproduzione generale, il fenomeno che attanaglia il presente capitalistico.

Qual è la ricetta dei cosiddetti “keynesiani di sinistra” per salvare il capitalismo dalla morsa della sovrapproduzione? L’intervento statale nella economia, volto a far “ripartire la domanda interna” per mezzo di grandi investimenti in opere pubbliche. Secondo questa visione tale meccanismo (il New Deal di Roosevelt) avrebbe risvegliato il gigante americano dalla crisi generale del ’29; in realtà l’accumulazione poté ripartire solo a causa del macello imperialista della Seconda Guerra mondiale in cui venne distrutta la quantità di capitale in eccesso, milioni di esseri umani compresi, solo capitale variabile per la borghesia.

Che significa investire per il capitalismo? Niente altro che un ulteriore aumento della composizione organica, un nuovo accumulo di lavoro morto pronto – alla bisogna – a sottomettere il lavoro vivo, la classe operaia mondiale. Investire è riproporre le medesime cause che hanno originato la crisi.

Al contrario, per i moderni sostenitori della “green economy” il problema sarebbe solo del capitale “senile”, per la sua “pigrizia” l’accumulazione si sarebbe bloccata con la fine del “capitalismo innovatore”. Scopo del capitalismo è la valorizzazione del capitale, la sua misura è il saggio del profitto. Quale migliore occasione se non i settori a bassa intensità di capitale, dove, proprio per tale ragione il tasso di profitto è più elevato? La crisi attuale sarebbe dovuta al “declinare di un paradigma senza che se ne sia affacciato un altro”.

In realtà il capitalismo è tale e quale a se stesso dal suo sorgere al tramonto, è un meccanismo di pompaggio del plusvalore, medesimo sotto tutti i cieli, tanto nei paesi a capitalismo ultramaturo quanto in quelli più giovani.

Altri, i più, snocciolano il rosario della crisi partita dal mondo della finanza per poi trasmettersi all’economia “reale”. Con tale espressione fumosa si commettono due colossali errori: 1) Si cercano le cause prime delle crisi nel circuito della circolazione del valore, superficie che nasconde quanto si verifica nelle profondità del meccanismo della produzione; 2) Si ritiene la speculazione un fenomeno immaginario, irreale, contrapposto al buon profitto dell’imprenditore, mentre l’insegnamento marxista è ben altro e ammonisce sulla complementarietà d’interessi tra capitalisti produttivi e rentier, entrambi “reali”.

Nulla potrà risollevare le sorti di questo mondo infame dalla sua orribile infinita agonia se non il risveglio rivoluzionario della classe operaia mondiale.
 
 
 
 


Inghilterra - Altri attacchi alle pensioni

La tanto dibattuta, e temuta, recessione a forma di “doppio V” è già arrivata in Gran Bretagna, col rischio di passare da doppia a tripla. Le misure proposte da economisti “esperti” consistono nel far dimagrire il settore pubblico per “liberare” l’economia nel settore privato: per avere crescita nel settore privato occorrerebbe ridurre il peso del settore pubblico. Ma questi “esperti” non riescono a vedere che il settore privato ingrassa solo quando è sostenuto, imboccato, dallo Stato e che appena la spesa dello Stato si contrae le imprese private languono e vanno in crisi. Tutti affermano che la spesa pubblica, scuole ospedali eccetera, è troppo grande per l’economia capitalista, ma nessuno sospetta che forse è l’economia capitalista ad essere troppo piccola per soddisfare le elementari necessità sociali.

È infatti la spesa assistenziale presa soprattutto di mira. Con l’Employment & Support Allowance, legge recente ma ideata e proposta dall’ultimo governo laburista, si arriva a costringere i malati e i disabili a fornire “un po’ di lavoro” rendendo disponibili per il capitale i proletari che prima rientrano nell’assistenza sociale. Questa loro magica trasformazione in atti al lavoro non si cura del fatto che siano o no di fatto impiegabili dal punto di vista padronale. Ma il provvedimento fa parte di una manovra tendente a far entrare quanti più proletari nel mercato del lavoro, con la speranza di un abbassamento dei salari. Di sicuro molti capitalisti lo sperano, utilizzando, con il contributo dell’assistenza statale, questi lavoratori part-time.

I sussidi per la casa, forniti di solito dai Comuni per integrare i costi dell’affitto, sono già stati tagliati drasticamente, e proporzionati agli affitti delle sistemazioni meno costose, le peggiori possibile. I giovani fino ai 35 anni di età riceveranno sussidi solo per abitazioni condivise. Ulteriori tagli sono previsti per chi vive in abitazioni “sotto-occupate”, la cosiddetta “tassa sulla camera”, esempio una persona che vive in un appartamento di 2 stanze: perdere un familiare significherà pagarsi da sé un appartamento “troppo grande”, oppure cambiar casa. Queste misure sulla casa abbasseranno il costo di mantenimento dell’esercito di riserva del lavoro, chiuso in tristi abitacoli, ma colpiranno anche i lavoratori ai livelli più bassi di salario, oggi con diritto a sussidio per l’abitazione.

Questi attacchi generalizzati ai sussidi dei disoccupati e dei lavoratori con bassi salari avranno la conseguenza inevitabile di aumentare la concorrenza tra i lavoratori, terrorizzati dalla minaccia di diventare essi stessi disoccupati (prospettiva ovviamente già spaventevole adesso), e quindi di costringerli ad accettare drastici tagli salariali e peggioramento delle condizioni di lavoro.

I prossimi attacchi ai pensionati

Non molto tempo fa il governo, per i crescenti timori di tagli ai sussidi, intese rassicurare i pensionati, soprattutto quelli che percepiscono il minimo statale. Ma si trattava solo di chiacchiere.

Nei confronti delle pensioni abbiamo già denunciato come larghi strati di lavoratori dovranno aumentare i contributi per poi ricevere pensioni più basse e dopo aver lavorando più a lungo. Questo attacco frontale dello Stato capitalista, che si è aggiunto ad altri diretti ai salari, al sistema assistenziale, alla sicurezza del posto di lavoro, alle condizioni di vita e di lavoro, ha ovviamente scatenato la rabbia tra i proletari. Ma, ovviamente, nel “dibattito” sulle pensioni, ancora una volta ha prevalso sugli interessi dei lavoratori la necessità di mantenere in vita il capitalismo.

Molte preoccupazioni sono venute da chi è al lavoro, ma ormai anche dai pensionati, anch’essi divenuti bersaglio degli attacchi. Lord Bichard, già a capo dell’Agenzia per i Sussidi, ha fatto conoscere la sua nuova idea di «incoraggiare gli anziani a non continuare ad essere semplicemente un peso negativo per lo Stato, e a divenire una parte positiva della società». La proposta è che gli anziani svolgano lavori socialmente utili in cambio della pensione, e che in caso contrario ne debbano essere privati di una parte. Così Sua Lordezza pontifica sulla misera plebaglia, idee geniali che a lui ovviamente non comportano alcun disturbo!

L’attacco – ancora in fase di messa a punto – è un ulteriore esempio del modo in cui la classe dominante considera la classe dei lavoratori. Il proletariato è la classe dalla quale i capitalisti dipendono per la loro esistenza parassitaria, quindi intendono prolungare il prelievo di plusvalore dagli operai fino al momento in cui, letteralmente, crepano. Adesso Lord Bichard vorrebbe costringere anziani pensionati a prendersi cura di pensionati ancora più anziani, per abbassare i costi dell’assistenza e ridurre la relativa spesa governativa, ma facendo mancare alle famiglie proletarie l’aiuto spesso prezioso fornito dai suoi vecchi. Lord Bichard sproloquia sulla necessità di costringere i pensionati a lavorare – come se una vita da schiavi salariati non fosse sufficiente – perché non sa che molti di essi già lo fanno per contribuire al mantenimento di figli e nipoti.

La crisi economica è tale da spingere la classe dominante ad osare proposte così sfacciate e spietate. Purtroppo oggi a queste provocazioni non riesce a rispondere la debolezza, come forza sociale, della pur ampia categoria dei pensionati, parte della debolezza dell’intero movimento operaio. È questo un’ulteriore riprova della necessità, che noi perseguiamo, di una vera organizzazione di massa della classe operaia, che coinvolga lavoratori di tutti i settori, e che includa i disoccupati e i pensionati. I proletari in pensione potranno dimostrare la loro forza, se in gran numero a pieno titolo inquadrati nel movimento proletario, quando, nelle lotte e in azione coordinata con i fratelli di classe al lavoro, rifiuteranno di prestare il loro lavoro non pagato...
 
 
 
 

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

Oggi come ieri, un fattore non secondario nella contesa fra le potenze imperialiste è costituito dal controllo delle materie prime e delle fonti di energia indispensabili per il funzionamento della macchina produttiva capitalista. In particolare, la storia del petrolio è piena di insegnamenti sui conflitti per la spartizione dei profitti e delle rendite, e del potere, fra i monopoli e fra gli Stati.

Si può dividere questa storia in due grandi tappe separate dallo spartiacque della Seconda Guerra mondiale. Nella prima fase assistiamo alla formazione dei grandi monopoli petroliferi, alle lotte senza quartiere per il controllo dei mercati internazionali, alle guerre di spartizione coloniale, alla ricerca di nuovi giacimenti – dal Venezuela al Messico e dall’antica Persia all’Indonesia.

Dopo la Seconda Guerra mondiale, la storia del petrolio s’intreccia con la presenza dell’imperialismo occidentale nel Medio Oriente. Quest’area, con il suo petrolio a buon mercato e le aspettative di immensi profitti, diventerà preda di tutti gli imperialismi: qui le grandi industrie petrolifere internazionali (soprattutto a base Usa), a rimorchio degli interventi militari delle potenze cui fanno capo, si impadroniranno delle ricchezze dei paesi produttori.

Le rivolte sociali che nel corso del 2011 hanno sconvolto l’Egitto, la Tunisia, la Libia ed altri paesi soggetti alle potenze imperialiste, determinate dalla crisi economica generale che attanaglia il capitalismo, hanno trovato nell’area mediorientale un terreno fertile: è qui che si annodano gli interessi politici, economici e strategici del capitale finanziario mondiale. Se gli scossoni hanno per ora risparmiato paesi quali l’Algeria e il Marocco ciò è dovuto al fatto che le borghesie locali hanno utilizzato la manna petrolifera o hanno fatto ricorso ad un massiccio indebitamento per soddisfare i bisogni di una parte della loro classe media, comprandosi la pace sociale sull’esempio delle borghesie dei paesi occidentali, dove l’opportunismo ha da un secolo e mezzo messo le sue salde radici.

Tralasciando qui gli aspetti di natura politica conseguenti la penetrazione economica, questa lotta per la conquista dei mercati è divenuta accanita in seguito ai mutamenti nel mercato mondiale a partire dall’inizio del Novecento e caratterizzati dalla importanza acquisita dall’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci, dal predominio del capitale finanziario in campo internazionale e dalla periodica ripartizione del mondo tra i grandi Stati. Dietro a questi importantissimi mutamenti rispetto all’epoca del capitalismo concorrenziale, e che Lenin definirà come imperialismo, non bisogna vedere una particolare politica economica di aggressione, ma un vero proprio stadio o fase del capitalismo tout court in cui prevale una struttura monopolistica della società.

Il modo di produzione capitalista, nato nel XVI secolo, alla fine del feudalesimo, con la creazione del mercato mondiale, si caratterizza per una legge intangibile: produrre per produrre. La necessità dell’accumulazione spinge il capitale ad abbassare i costi di produzione e aumentare la produttività del lavoro. All’iniziale divisione tecnica del lavoro basata sulla cooperazione e la manifattura, farà seguito lo sviluppo del macchinismo e un conseguente mutamento delle fonti di energia utilizzate nella produzione: fino ad allora erano ancora quelle del Medioevo: acqua, legna, vento, forza animale.

La prima rivoluzione tecnica si ebbe a mezzo del XVIII secolo, in Inghilterra, con il passaggio al carbone e l’invenzione della macchina a vapore che permise al capitalismo di avviare il processo mondiale di industrializzazione e di sviluppare una tecnica adeguata al suo specifico modo di produzione. Come scrive Marx nel Capitale, il genio di Watt si rivela nel fatto che presenta la sua macchina a vapore non come una invenzione a scopi particolari, ma come agente generale della grande industria.

Alla fine dell’Ottocento altre due grandi innovazioni tecniche, l’elettricità, un’energia facilmente trasportabile, e il motore a combustione interna, metteranno le ali alla produzione e ai trasporti. Il motore a scoppio e il motore elettrico determinano l’abbandono dei motori azionati dal vapore.

Prima della diffusione di massa dell’automobile e dei consumi domestici e produttivi dell’elettricità, il petrolio è solo la materia prima da cui si ricava il cherosene da illuminazione e da riscaldamento dei quali copre non più del 4% del fabbisogno mondiale. Solo con la Prima Guerra mondiale sarà avvertita la sua importanza strategica come fonte di carburante per i motori terrestri, navali ed aerei. Oggi, con una quota dieci volte più grande, il petrolio è la prima fonte mondiale di energia.
 

1. Corsa all’oro nero e monopoli

La storia del petrolio dell’era capitalista comincia nel 1859 sulle rive dell’Oil Creek nei pressi della cittadina di Titusville in Pennsylvania, nel Nord-Est degli Stati Uniti, quando il petrolio zampillò da un pozzo scavato dal leggendario colonnello Edwin L. Drake con una nuova tecnica di perforazione. La notizia si sparse in un baleno e fece accorrere migliaia di cercatori che nell’oro nero vedevano un’alternativa all’olio di balena o al gas naturale diventati troppo costosi per l’illuminazione. Peraltro i nativi e i primi coloni già lo adoperavano a questo scopo.

Noto fin dall’antichità (Assiri, Bisanzio, ecc.), ma utilizzato come pece e bitume, ora il greggio fu per la prima volta distillato. Uno studio del professor Silliman, chimico dell’Università di Yale, accertò che il petrolio poteva essere portato a vari gradi di ebollizione distillando in maniera frazionata quei vari composti di carbonio ed idrogeno: la prima frazione, la benzina, sarà a lungo considerata un sottoprodotto; la seconda frazione chiamata cherosene troverà immediato impiego nell’illuminazione.

Ci fu la corsa all’accaparramento dei terreni da trivellare. In men che non si dica, sorsero città, ferrovie, raffinerie, oleodotti. La Guerra di Secessione che allora insanguinava gli Stati Uniti non solo non fu un ostacolo alla frenesia generale per il petrolio, anzi rappresentò uno stimolo per lo sviluppo degli affari. Ma la nuova industria era soggetta, assai più che quella del carbone, alle eccedenze di produzione e quindi ad improvvisi crolli dei mercati: la curva del prezzo era inversa a quella del numero dei pozzi trivellati e le ambizioni dei primi spregiudicati affaristi del settore furono rivolte non tanto al controllo diretto dei giacimenti quanto a quello delle reti di trasporto (soprattutto ferroviario) e di vendita.

Un uomo, il cui nome è diventato il simbolo dell’animal spirit del capitalismo americano, l’industriale di origine francese John D. Rockefeller (il suo vero nome era Roquefeuille, e suo padre, fervente calvinista, era già un filibustiere del commercio), fu coinvolto nel boom del nascente mercato del petrolio di cui intuì subito le enormi potenzialità economiche. Come molti imprenditori dell’epoca, Rockefeller, poco più che ventenne, aveva fondato insieme al socio Maurice Clark una società in cui si commerciava di tutto, purché avesse un prezzo di vendita, che operava nel territorio di Cleveland soprattutto nei mercati della carne e del frumento. Si lanciarono nel campo dei lumi a petrolio e avviarono alcune piccole industrie di raffinazione e di distribuzione di nafta e cherosene lungo la ferrovia di Cleveland. Il trasporto su rotaia era l’unico modo per trasportare il greggio dai luoghi di estrazione ai grandi mercati dell’Est e la città di Cleveland si trovava in una favorevole posizione geografica, oltre ad essere una città molto attiva che aveva tratto grandi vantaggi dalla guerra ed ora si apprestava a sfruttare il boom petrolifero.

I profitti elevati provenienti dalla raffinazione convinsero Rockefeller a dedicarsi esclusivamente al petrolio. In breve liquidò il socio e si dette ad una politica commerciale ambiziosa e aggressiva. Nella raffinazione operavano diverse società in concorrenza tra loro e Rockefeller ambiva al controllo monopolistico dell’intero mercato. Definì il contesto come “il grande gioco”: le aziende erano guidate da uomini che si sfidavano in affari come in aspre guerre personali senza esclusioni di colpi.

Ma l’entusiasmo nella corsa al petrolio si risolse rapidamente in una situazione di sovrapproduzione e tra il 1865 e il 1870 il prezzo si dimezzò causando perdite economiche sia ai produttori-estrattori sia alle aziende di raffinazione. Il tipico panico che segue una fase di grande entusiasmo portò molti investitori a svendere le proprie industrie. Rockefeller comprese l’importanza del momento, un’occasione unica per acquistare le industrie di raffinazione concorrenti. Nel 1870, usando metodi di guerra commerciale poco ortodossi, assai lontani dalla morale “puritana” che ostentava di seguire, unificò le migliaia di piccole Compagnie della Pennsylvania fondando la società per azioni Standard Oil Company del New Jersey. Con la vendita delle azioni, Rockefeller riuscì ad ottenere nuova liquidità e poté acquistare le aziende concorrenti in svendita. All’inizio del 1872, nel pieno della depressione, Rockefeller ebbe il coraggio di andare controtendenza realizzando una serie di grandi fusioni industriali allo scopo di raggiungere il predominio nella raffinazione del petrolio. Costituì allo scopo un Consorzio che prese il nome di South Improvement Company.

Fu la vicinanza alla ferrovia a dare a Rockefeller la grande occasione: la società si accordò segretamente con le Compagnie ferroviarie, già organizzate in monopolio, per ottenere ribassi nei noli per i grandi quantitativi di petrolio da spedire. La Standard Oil divenne in breve tempo l’industria di raffinazione più forte del mercato americano, arrivando a controllare, alla fine degli anni Settanta, il 90% della capacità di raffinazione degli Stati Uniti. A quell’epoca pressoché tutto il petrolio consumato nel mondo era americano, e delle 36 milioni di tonnellate di petrolio prodotte nelle raffinerie americane ben 33 provenivano dagli impianti della Standard Oil. Per attraversare i mari il petrolio viaggiava allora sui velieri, all’inizio dentro i fusti poi in cisterne. La Standard aveva la propria rete di rappresentanti che battevano in lungo e in largo l’Europa e l’Asia, e un proprio servizio di informazioni e di spionaggio per scoprire in anticipo le iniziative delle società concorrenti e dei governi. All’occorrenza i mercati, come quello cinese, furono inondati di lampade a prezzi stracciati o addirittura gratuite per indurre la popolazione ad acquistare l’olio illuminante. In questo modo la Compagnia strangolava i concorrenti.

All’inizio degli anni Ottanta Rockefeller aveva il controllo di quaranta diverse società che gestiva attraverso la Standard Oil Trust: gli azionisti delle varie società si limitavano ad accordare la loro “fiducia” (trust) a un direttorio di nove membri che di fatto gestiva la holding. In altre parole, si trattava di un sistema per cui una società “madre” capogruppo controllava un certo numero di società “figlie” mediante il possesso di partecipazioni azionarie. La Standard teneva in amministrazione fiduciaria i titoli per conto dei piccoli azionisti delle varie società, che si limitavano a riscuotere i dividendi. In questo modo aggirava le leggi che disciplinavano la libera concorrenza e nessuno poteva accusare legalmente la Standard di possedere e controllare direttamente altre società.

In questo periodo quasi tutti gli Stati ricorsero al protezionismo, espressione della concorrenza internazionale fra i capitali e della lotta per il controllo del mercato mondiale. La politica del libero scambio fu messa da parte per i prodotti agricoli quando ne apparvero più a buon mercato dall’oltremare, poi, a poco a poco, il protezionismo si estese anche all’industria. Il capitalismo dei monopoli doveva difendere il mercato interno contro l’invasione delle merci estere per proteggere la base dei suoi sovraprofitti monopolistici. Al protezionismo ricorsero la Germania (1879), la Russia (1881), l’Italia (1887), gli Usa (1890), la Francia (1892). Solo l’Inghilterra, ormai esportatrice più di capitali che di merci, restava fedele al liberismo.

Parallelamente gli imperialismi emergenti si atteggiavano ad una politica “antimonopolistica” al fine non di bloccare il processo di centralizzazione avviato dai monopoli nazionali all’interno dei singoli Stati, ma per opporsi alla penetrazione dei capitali stranieri. Un esempio è fornito dal cosiddetto “Sherman Act” statunitense, una legge federale del 1890 per contrastare la formazione di cartelli, trust e monopoli che le imprese costituivano per evitare la concorrenza e la caduta dei prezzi di vendita. La legge dichiarò “illegali” i trust e gli accordi tendenti a frenare il commercio e la produzione, considerati un “attentato alla libertà del commercio”! Era il trionfo dell’ipocrisia: il puritanesimo americano non poteva ammettere che la libera concorrenza è in realtà soltanto una tappa nello sviluppo del capitalismo, un mezzo in mano ai più forti per eliminare i più deboli! Non poteva confessare che sotto il capitalismo il monopolio è ineluttabile! Di fatto la legge non pose alcuna limitazione alle società di possedere azioni in altre aziende, e questo consentì un’ondata di fusioni e un aumento delle concentrazioni. La conseguenza sarà quella di far ricadere i costi di questa politica neo-mercantilista sui lavoratori, che non potranno usufruire di eventuali abbassamenti dei prezzi.

Quando all’inizio del Novecento il petrolio in Pennsylvania si esaurì, gettando la regione nella crisi, i pionieri sciamarono a decine di migliaia verso gli Stati del Sud, che in breve si ricoprirono di torri di trivellazione. Importanti ritrovamenti vi furono nel Kansas, nel Texas, in Luisiana ma soprattutto in California. Questo Stato, con 73 milioni di barili (il 22% della produzione mondiale), diverrà il maggiore produttore statunitense. Con la scoperta dei nuovi giacimenti nacquero nuove Compagnie: in California la principale era l’Unocal, l’unica grande Compagnia che era riuscita a sottrarsi all’abbraccio mortale della Standard Oil; nel Texas nel 1901 fu costituita la Gulf Oil e nel 1902 la Texas Company (la futura Texaco), la quale, grazie all’appoggio di uomini politici texani, acquisì molte concessioni e assumerà un ruolo di primo piano nel campo della ricerca e della produzione.

Nel 1910 la Standard Oil della famiglia Rockefeller regnava su un impero sconfinato: commercializzava l’84% del greggio Usa e raffinava 35 mila barili di petrolio al giorno; distribuiva l’80% della produzione di cherosene domestico; aveva il monopolio delle forniture dell’olio lubrificante alle ferrovie; era proprietaria di oltre la metà dei vagoni cisterna che viaggiavano in America; disponeva di una flotta di cento navi, quasi tutte a vapore; era padrona di svariate banche e di 150 mila chilometri di oleodotti.

La stampa cominciò a battere la grancassa di lesa “libera concorrenza” accusando addirittura i monopoli di controllare il governo attraverso corruzioni e scambi di favori. Furono rispolverate le leggi anti-trust con la creazione di una Sezione speciale di controllo, che nel 1906 imbastì un nutrito numero di processi contro la Standard sulla base della legge Sherman. Nel 1911, dopo sette anni di indagini, di ricorsi in appello e di rinvii, la Corte Suprema di giustizia decretò che entro sei mesi la Standard era obbligata a dividersi dalle altre società da essa controllate. Sull’onda emotiva della sentenza il Congresso varò una nuova legge antimonopolistica.

Ma anche questa volta la conseguenza fu un rafforzamento delle imprese monopolistiche. Bastarono due mesi a Rockefeller e soci per parare il colpo. L’impero fu frammentato in più società gestite da prestanome: la prima e più importante, con quasi metà degli asset complessivi, fu la ex Standard Oil del New Jersey che si chiamò Exxon, destinata a diventare l’emblema stesso della potenza petrolifera americana; la seconda, con il 10% del valore patrimoniale totale, fu la Standard Oil di New York (la futura Mobil). A queste si affiancarono la Standard Oil della California (la futura Socal), la Standard Oil dell’Indiana (che assumerà il nome di Amoco), la Continental Oil (che si chiamerà Conoco), la Standard Oil dell’Ohio, ecc. Alla resa dei conti, le nuove aziende, pur avendo consigli di amministrazione autonomi, mantennero i rispettivi mercati e marchi di fabbrica; anzi, la frammentazione della vecchia holding spinse le singole società a svecchiare il gruppo dirigente e a diventare più aggressive sui mercati. Rockefeller incentivò la sua politica di espansione mondiale e puntò innanzitutto verso l’America del Sud (Messico, Venezuela) utilizzando tutti i mezzi leciti e illeciti nei confronti di proprietari privati e di governi per mettere le mani sulle terre in odore di petrolio.

John D. Rockefeller vivrà felicemente fino all’età di 98 anni, padrone di un impero ramificato in tutti i settori, dalle banche alla politica, orgoglioso simbolo della fortuna costruita da un oscuro contabile, e di cui l’imponente Rockefeller Center di Manhattan a New York rappresenta la potenza visibile e il vivo insegnamento di come la libera concorrenza porta al... monopolio!

Lo sviluppo dell’elettricità assestò un colpo fatale al mercato del petrolio da illuminazione. Ma se un mercato si chiudeva, un altro si apriva. Nel 1907 l’impero di Rockefeller era stato salvato da quello nascente dell’industriale Henry Ford, dai cui stabilimenti cominciavano ad uscire le prime automobili in serie: la Standard Oil si convertì alla benzina. Le prime macchine erano destinate non alla città ma alla grande produzione agricola in sostituzione della trazione animale (le macchine agricole erano ancora azionate da tiri di 40-50 cavalli!). I solchi dei campi furono aperti dai primi trattori a benzina con il marchio Ford. Come l’elettricità si rivelerà perfetta per l’illuminazione, così il petrolio troverà il suo sbocco naturale nel settore automobilistico, il cui boom fu fenomenale: negli Usa le immatricolazioni passarono da 8 mila nel 1900 a 900 mila nel 1910. Lo stesso sviluppo si ebbe nei paesi più avanzati d’Europa: nel 1914 in Francia circoleranno 700 mila veicoli a motore. L’avvento del motore a combustione interna farà della benzina il prodotto principale della produzione delle raffinerie, insieme al gasolio, che cominciava a trovare utilizzo nelle caldaie, nei camion, nei treni e nelle navi.

All’alba del XX secolo, con lo sviluppo mondiale dell’industria e del capitalismo, la corsa alla nuova fonte di energia, che si rivelerà non soltanto molto più economica del carbone ma anche più efficiente e meglio rispondente alle esigenze dell’industria moderna, si trasformerà ben presto in una sfida senza quartiere tra i maggiori imperialismi.
 

2. Il petrolio in Russia

In Russia la raffinazione del petrolio era iniziata fin dal 1820 a Baku, nell’Azerbaigian russo, dove l’esistenza di pozzi di petrolio era nota a partire almeno dal XVII secolo, ma l’industria era primitiva, i pozzi scavati a mano e la produzione scarsa. Lo sfruttamento intensivo dei giacimenti non cominciò che negli anni Settanta dell’Ottocento, quando il governo russo aprì le porte all’iniziativa privata. Le concessioni messe all’asta dallo zar finirono all’inizio nelle mani di ricchi affaristi tartari e armeni, che si arricchirono rapidamente e dilapidarono i loro profitti in palazzi e banchetti. Le condizioni di lavoro degli operai tartari e georgiani, servi o lavoratori liberi che fossero (uno zio di Stalin era tra essi), erano spaventose: trattati come bestie, preda dell’alcol, venivano selvaggiamente repressi dai cosacchi ogni volta che tentavano di ribellarsi alle loro miserabili condizioni.

A partire dal 1873 a dare il primo impulso all’industria petrolifera russa furono i Nobel, svedesi emigrati a San Pietroburgo e che vantavano legami con lo zarismo. Possedevano immense concessioni e numerose raffinerie collegate alla ferrovia mediante oleodotti: il petrolio era trasportato attraverso la Russia fino a Riga, sul Baltico, e da qui in Svezia. A Baku operavano anche i fratelli Rothschild, banchieri francesi grandi esportatori di capitali in Russia. Nel 1886 avevano acquistato dei giacimenti di petrolio e fondato la “Compagnia petrolifera del mar Caspio e del mar Nero” per la distribuzione del kerosene russo. Nel 1893 i loro capitali servirono a finanziare la costruzione di una ferrovia che collegava Baku al porto di Batum sul mar Nero. Batum era allora uno dei porti più importanti del mondo (qui si sarebbero fatte le ossa il giovane Stalin e altri capi bolscevichi). Il greggio a mezzo di navi petroliere veniva trasportato da Batum fino al porto di Trieste, dove i Rothschild possedevano una raffineria. Anche i Nobel si associarono all’operazione in cambio di azioni della loro Compagnia cedute ai Rothschild.

Nel 1888 le società dei Nobel e dei Rothschild, che costituivano un vero e proprio fronte russo del petrolio, avevano una produzione pari all’80% di quella del gigante americano Standard Oil. Presto la Russia comincerà ad esportare il suo petrolio in Europa mettendo a rischio la leadership americana.

(Continua al prossimo numero)