Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 369 - gennaio-febbraio 2015
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Indice dei numeri
Numero precedentesuccessivo
organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 – Attentato a Parigi - Non scontro fra razze e religioni ma preparazione della guerra imperialista
– Saluto agli scioperanti in Belgio
– Crolla il petrolio: Il governo venezuelano chiama gli operai a salvare l’economia nazionale
– Il determinismo ambientale borghese non rileva la crisi storica mondiale del capitale
PAGINA 2 Riunione generale del partito a Torino 20 e 21 settembre [RG120] - Fine e conclusione del resoconto: Storia del movimento operaio negli Stati Uniti d’America - La successione dei modi di produzione, Il comunismo primitivo - Il concetto di dittatura rivoluzionaria e sua pratica prima di Marx, Denis Diderot - Storia dei sindacati in Venezuela, Prima parte - Resoconto dell’attività sindacale del partito
– Il compagno Domingo Rivero ci ha lasciato
Per
il sindacato
di classe
Intervento del partito nelle lotte operaie:
- 14 novembre - Sciopero dei Sindacati di base - Battiamoci per un vero sindacato di classe! (Testo completo)
- 14 novembre - Milano-Napoli - Sciopero Fiom-SICobas - Per la ripresa della lotta operaia! (Testo completo)
- 12 dicembre - Sciopero generale - Per l’unione delle lotte della classe lavoratrice
Terni: 35 giorni di sciopero ad oltranza traditi dai sindacati di regime (Testo completo)
PAGINA 5 Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo: 31. La chimera del panarabismo (continua dal numero 368) - 32. Lo scontro per il petrolio algerino (Continua)
 
 
 
  
 
 
 
PAGINA 1
Attentato a Parigi
Non scontro fra razze e religioni ma preparazione della guerra imperiale

L’eccidio di Parigi, per mano, dicono, di “estremisti islamici”, viene descritto da tutti i regimi borghesi e dai media, allineatissimi, come episodio di un inevitabile scontro fra civiltà, religioni e razze, e si ripete che da questa aggressione, da questa guerra, “tutti noi” saremmo costretti a difenderci. Di conseguenza, “contro il terrorismo” sono scesi solennemente in piazza tutti i capi dei borghesi Stati europei, ai quali si sono fatte accodare le masse di un popolo interclassista ad inneggiare ai “nostri valori” occidentali di Libertà e Democrazia.

Insomma, diciamo noi, ancora una volta la lugubre sceneggiata ha funzionato alla perfezione per spingere al patriottismo e alla solitarietà nazionale. Quasi nessuno ha denunciato le evidentissime contraddizioni nel copione e l’accorta regìa dei media, e al vecchio metodo del terrorismo degli Stati il popolo abbocca e si commuove. Come non può non essere in assenza di un partito di opposizione antiborghese, che è solo il comunista rivoluzionario.

Non stiamo qui a ricordare la storia dello “stragismo”, del quale anche in Italia abbiamo avuto una certa esperienza.

Per fare la guerra occorre guadagnarsi la sottomissione, morale e materiale, di quelli che ci andranno a morire. E poiché i veri motivi delle guerre imperialiste non sono confessabili – gli interessi egoistici del grande capitale di tutti i paesi – occorre che si inventi una mitologia adatta ad accecare le menti dei proletari e dei piccolo-borghesi. La Prima Guerra mondiale fu spiegata al popolo, da una parte, come necessaria contro il militarismo tedesco, dall’altra contro un feroce Zar feudale. La Seconda sarebbe stata della democrazia e del socialismo contro il fascismo ed il nazismo. Sotto quelle false bandiere sono stati mandati al macello decine di milioni di proletari, in soprannumero rispetto alle necessità dell’accumulazione del capitale. Solo i comunisti rivoluzionari, in tutti quei tragici precedenti, non si piegarono e denunciarono il mostruoso inganno.

Si iniziò poi la preparazione alla Terza con l’opposizione del liberalismo occidentale allo statalismo russo, spacciato per comunismo. A questo si è oggi aggiunto il fantasma, ancora più inconsistente, del “terrorismo islamico”, che, dall’11 Settembre in poi, “ci” avrebbe dichiarato guerra.

Si, un fantasma. Il “terrorismo”, alla bisogna utilizzato da tutti gli Stati, è uno strumento e non un obbiettivo; e di “islamico” ha poco o nulla, sia in dottrina sia in un programma riferito alla reale situazione sociale e ad un progetto politico-nazionale per i paesi arabi. Perché i “terroristi”, dai cosiddetti cani sciolti ai veri e propri eserciti ben riforniti di tutto, sono solo dei mercenari a ruolo delle grandi potenze capitalistiche.

Le Chiese, tutte, sono docili strumenti degli Stati e forze della controrivoluzione. E in particolare nei paesi arabi e orientali i gli “islamici” reprimono le lotte e le organizzazioni della classe operaia.

Ma è una ben strana guerra, nella quale colpite non sono le forze armate e di polizia del “nemico occidentale” ma la popolazione comune, con attentati nei mercati, sui treni. Sono azioni il cui scopo non è diminuire la forza dell’avversario ma accrescerla, come la dimostrazione di Parigi conferma.

Quindi siamo d’accordo con loro: siamo in guerra! Una guerra contro la classe operaia mondiale, una quotidiana guerra per distogliere i lavoratori dalle loro lotte e dalla necessaria riorganizzazione, una guerra contro tutti i proletari del mondo che ovunque, al Nord come al Sud, in Europa come in Medio oriente, negli Usa come in Russia e in Asia rimangono, per necessità storica, l’unico vero e incontenibile nemico mortale di questa società oramai in putrefazione.

Contro i megafoni di regime, di destra e di sinistra, che pompano la loro apparente contrapposta ideologia, ben oleata a difesa di sua maestà il capitale, rispondiamo che in questo campo di battaglia tra gli imperialismi i proletari rischiano ancora una volta di essere travolti dalle divisioni nazionali, etniche e religiose, per soggiacere alla classe dominante, che sembra solo divisa tra i due campi in lotta ma in realtà è unita nel difendere i suoi interessi e il suo potere.

Dalla parte dell’umanità lavoratrice sta soltanto la forza teorica e la prassi del comunismo. Solo in questa lotta finale sta il futuro, ed è su questo percorso che i proletari del mondo si devono ricollegare: Proletari di tutti i paesi unitevi.

 

 

 

 


Crolla il petrolio: Il governo venezuelano chiama gli operai a salvare l’economia nazionale

L’attuale sovrabbondanza di offerta di petrolio è riflesso della sovrapproduzione di greggio, accompagnata dalla decelerazione dell’economia mondiale. Si stima che alla fine del 2014 l’eccesso di offerta sia stato di tre milioni di barili al giorno. Parte della sovrapproduzione è dovuta alla comparsa sul mercato di quello che viene chiamato petrolio di scisto (shale oil), prodotto e consumato principalmente dagli Stati Uniti e che circola sul mercato a prezzi bassi. Gli USA prevedono di aggiungere circa 700 mila barili di petrolio di scisto nel 2015, a condizione che i prezzi non scendano tanto da portare le imprese del settore al fallimento. Nel corso del primo semestre del 2014 i prezzi si erano stabilizzati al di sopra dei 113$ al barile e, come è normale nella dinamica capitalistica, tutti i produttori hanno aumentato il volume della produzione immessa sul mercato, sia per quanto riguarda il petrolio, i gas e i condensati, approfittando della congiuntura favorevole. Poi, come prevedibile, è venuta la sovrapproduzione ed il calo dei prezzi. La Russia nel 2014 ha raggiunto record nelle medie di produzione, sommando la produzione statale a quella privata. Nel secondo trimestre, però, è arrivato il crollo e si stima che nel 2015 il calo nella produzione di petrolio raggiungerà i 525 milioni di tonnellate.

Arabia Saudita, Iraq, Kuwait e Iran (e altri paesi non-OPEC) continuano ad offrire il greggio a prezzi scontati per difendere le proprie quote di mercato. Questo stimola una guerra dei prezzi che va a favorire i paesi consumatori di petrolio, quelli a maggiore sviluppo capitalista ed industriale. Il ribasso del prezzo del petrolio ha avuto inevitabili conseguenze sull’economia dei paesi produttori. Le previsioni per tutto il 2015 sono che si mantengano i prezzi attuali, che anche in caso di una eventuale ripresa resterebbero al di sotto dei 100$ al barile.

La monarchia dell’Arabia Saudita ha dichiarato che il suo bilancio si basa su di un prezzo di 80$ al barile, pertanto prepara una serie di misure economiche per compensare il deficit. La sua situazione politica interna potrebbe costringerla ad spingere per una riduzione dell’offerta dei paesi dell’OPEC, che finora non si è avuta. Inoltre c’è da attendersi la reazione delle multinazionali del petrolio che vedono i loro profitti minacciati dai prezzi bassi.

Vari paesi produttori di petrolio come il Venezuela sono in recessione. Il greggio venezuelano è stato scambiato nel 2014 ad un valore medio di 88$ al barile, più basso rispetto alla media di 98$ del 2013. Ma ha iniziato il 2015 al di sotto di 40$ al barile, prezzi che non si vedevano dal febbraio del 2009. Le entrate petrolifere finanziano gli investimenti e la spesa corrente del borghese governo del Venezuela, che adesso sente la necessità di adottare le drastiche misure di quello che ha chiamato “Plan de Recuperación Económica” . Il presidente Maduro lo ha definito come: «un piano anticiclico che interrompa la spirale di declino che si è prodotta con la guerra economica alla nostra economia, e adesso con la minacciosa caduta dei prezzi del petrolio».

Il governo borghese venezuelano, mentre si dispone alla collaborazione produttiva con gli imprenditori nazionali e multinazionali, invita la classe operaia e i suoi sindacati ad uno sforzo per aumentare la produzione e l’efficienza delle aziende. Questo è il messaggio di sempre dei governi borghesi in tutta la storia in tutte le diverse circostanze economiche.

Ma l’esperienza insegna che la difesa dell’economia nazionale, la ripresa economica e della produttività delle aziende è possibile solo sulla base di un maggiore sfruttamento dei lavoratori salariati: maggiore produzione con la stessa quantità di forza lavoro, diminuzione dei salari reali, peggioramento delle condizioni e dell’ambiente di lavoro. E questa la strategia della borghesia, che si manterrà anche quando si avesse un rialzo del prezzo del petrolio.

La difesa della patria, della sovranità nazionale, della trascorsa prosperità economica, che la piccola borghesia rimpiange, sono proposte da organizzazioni e movimenti che si presentano come alternativi alle forze politiche che controllano oggi il governo, e tendono alla formazione di alleanze e fronti popolari che includano lavoratori, studenti, classe media, contadini ecc. Ma sappiamo dall’esperienza storica che questi gruppi finiscono per incanalare le lotte della classe operaia verso riforme sociali, programmi immediati e progetti piccolo borghesi di mantenimento del capitalismo.

Il governo chavista e i partiti e i movimenti che lo sostengono, lavoreranno per la pace sociale attraverso i sindacati di regime. I sindacati hanno dimostrato di essere compromessi con i padroni reggendo il gioco della demagogia, del populismo, del clientelismo, del lavoro precario e delle cosiddette “misiones sociales” . I lavoratori, organizzati alla base, devono riprendere la strada della lotta di classe, allontanati dalla loro strada gli attuali sindacati, con scioperi e mobilitazioni per l’aumento dei salari reali e la riduzione dell’orario di lavoro.

Nel “Piano per la crescita e l’espansione economica”, chiamato anche “Offensiva operaia produttiva Ugo Chavez”, presentato dalla Centrale Bolivariana Socialista dei Lavoratori (CBST) al Consiglio Presidenziale della Classe Operaia (cioè la maschera operaista dietro la quale si nasconde il governo), si afferma: «Stiamo parlando di un piano costruito dalla classe operaia: in esso i lavoratori e le lavoratrici assumono un impegno storico per incrementare la produzione e accelerare la costruzione della base economica del nostro modello ecosocialista venezuelano».

Il “modello ecosocialista venezuelano” in realtà non è che puro capitalismo. I lavoratori non sono interessati a salvare il capitalismo dalla sua crisi, come chiede il governo borghese del Venezuela e dalle borghesie di tutto il mondo. Questo non è il suo compito storico, come vorrebbe la CBST nella sua strisciante proposta al governo. Il proletariato in tutto il mondo dovrà marciare per la distruzione del capitalismo, per la presa del potere, e per l’instaurazione della dittatura del proletariato, sotto la direzione del partito comunista internazionale. Non ha senso parlare di “programmi minimi”, senza la dittatura del proletariato. L’attuazione del programma comunista porterà ad una società senza classi, senza mercato, senza merce e senza lo sfruttamento del lavoro salariato.

 

 

 

 


Il determinismo ambientale borghese non rileva la crisi storica mondiale del capitale

In campo borghese sono considerate con una certa attenzione le teorie geopolitiche esposte da due studiosi che danno una spiegazione delle grandi manovre strategiche delle potenze imperialiste del tempo. Uno è l’ufficiale di marina americano Alfred Thayer Mahan (1840-1914), poi insegnante al War College del suo paese, l’altro è il geografo esploratore inglese Halford John Mackinder (1861-1947), insegnante a Oxford e socio fondatore e direttore della prestigiosa London School of Economics and Political Sciences. Quei prestigiosi incarichi furono il riconoscimento della borghesia ai loro migliori teorici.

Qui ne diamo un breve cenno perché danno un contributo a capire i movimenti strategici di oggi.

Mahan, marinaio, sosteneva che le vie marittime erano a quel tempo il mezzo più rapido per i grandi traffici commerciali e per questo studiò attentamente la contrapposizione tra le potenze marittime e quelle continentali, da lui ritenute più deboli e vulnerabili. Sostenne la necessità per le prime di assicurarsi, nei paesi verso i quali sono rivolti i loro traffici, il controllo delle vie marittime attraverso la salda tenuta di punti d’appoggio, basi navali, controllo degli stretti ecc. L’espansione americana nei Caraibi e specialmente nell’oceano Pacifico verso la Cina si allinea con questa teoria. Sosteneva, sulla base dell’esperienza storica, che le potenze marittime tendono a unirsi tra loro, come reciprocamente quelle continentali e, secondo lui, difficilmente una potenza poteva essere egemone contemporaneamente sia in campo terrestre sia navale, come tentò inutilmente la Francia del 1700. Ovviamente negli ultimi anni dell’Ottocento non si parlava ancora del controllo dei cieli e di quelle rotte. Ad oggi solo gli Stati Uniti sono contemporaneamente potenza continentale, navale e aerea.

Una sua affermazione appare premonitrice: «Chiunque controlli l’Oceano indiano, domina l’Asia. Quest’oceano è la chiave dei Sette Mari. Nel XXI secolo il destino del mondo sarà deciso nelle sue acque». La Cina da qualche tempo sembra seguire quel consiglio attuando la politica della “collana di perle”, ovvero una linea di basi e porti commerciali che si sviluppano in tutto l’Oceano Indiano a protezione dei suoi traffici marittimi, a cui l’India cerca di rimediare costituendo una flotta militare di adeguate dimensioni, tra cui una portaerei e un sottomarino nucleari. Gli Usa da tempo si sono insediati in punti strategici e hanno allestito basi militari su quelle rotte in appoggio alle sue potenti flotte aero-navali.

Mackinder invece presentò il suo studio Il perno geografico della storia la sera del 25 gennaio 1904 alla Royal Geographical Society. L’intento era di spronare i comandi britannici ad abbandonare lo “splendido isolamento” e ad acquisire maggior potenza militare sulla terraferma, prima che dall’Europa continentale giungesse una minaccia alla sua supremazia. L’Inghilterra, anche se grande e potente, è sempre un’isola che necessita di adeguati traffici marittimi per il suo esistere ed il mantenimento dell’Impero. Nel 1909 la superficie complessiva delle colonie, dominion e protettorati sottomessi all’Impero britannico era 94 volte maggiore della superficie del Regno Unito, con una popolazione di 7,7 volte. Con il 20% della superficie del pianeta e il 23% della popolazione quello inglese fu l’impero più vasto e popoloso di tutta la storia.

La teoria del Mackinder si basava sulla contrapposizione tra terra e mare e individuava nell’Heartland, o Cuore della Terra, il centro vitale di tutte le sue civiltà, logisticamente inavvicinabile da qualunque potenza navale, o talassocrazia. Questo Heartland corrisponde alla zona centrale dell’Eurasia, delimitato a ovest dal Volga a est dal Fiume Azzurro, a nord dall’Artico e a sud dalle cime occidentali dell’Himalaya, una zona che comprendeva e superava l’intero Impero russo del tempo. Sosteneva anche la necessità di creare e controllare Stati cuscinetto allo scopo di evitare fusioni tra potenze continentali, temendo una imbattibile alleanza tra gli imperi tedesco e russo, in altre parole tra il sistema produttivo industriale più sviluppato tedesco e lo sterminato bacino di risorse minerarie russe.

Questa l’estrema sintesi delle sue idee: «Chi controlla l’Est Europa comanda lo Heartland, chi controlla l’Heartland comanda l’Isola Mondo, chi controlla l’Isola Mondo comanda il Mondo». L’Isola Mondo, o Eurafrasia, comprendeva per Mackinder il vasto territorio compreso tra Lisbona, Vladivostock e Capo di Buona Speranza. Il resto del pianeta era suddiviso in aree di secondaria importanza, Americhe, Australia, Giappone, Isole Britanniche comprese.

Senza cedere a facili semplificazioni, proviamo a trovare qualche analogia tra l’odierna fase politica del capitalismo mondiale e quella del periodo a cavallo tra Otto e Novecento, partendo dalla teoria dello Heartland. All’inizio del nuovo secolo l’Inghilterra, che con le basi di Gibilterra, Malta, Cipro, Alessandria, Suez, Kuwait, Aden, Città del Capo, Mauritius, India, Ceylon, Penang, Singapore, Hong-Kong circondava l’intero continente euroasiatico, si trovò nella necessità di condurre una guerra difensiva per la vita o per la morte contro la fame di plusvalore degli altri zombi capitalisti, che attentavano al suo dominio, ancora incontrastato. L’interrogativo che assillava le menti più accorte della politica inglese si può semplificare così: nell’assalto al potere mondiale era più pericolosa la Weltpolitik del Kaiser Guglielmo II o l’avanzata lenta ma inesorabile della colata lavica russa? Bisognava attuare una strategia di contenimento della Russia o neutralizzare a breve la spinta bellica della Germania?

La Germania guglielmina aveva dato inizio, ad opera dell’ammiraglio von Tirpitz, alla costituzione di una flotta d’alto mare. Questo significava che la nazione che era già la più grande potenza terrestre organizzata e che occupava la posizione strategica centrale in Europa, diventando anche una potenza marittima avrebbe in breve tempo messo in pericolo il dominio inglese. I cantieri navali del Mare del Nord e del Baltico erano la punta dell’industria tedesca che spingeva verso una politica coloniale aggressiva e che portò la Germania tra il 1891 e il 1906 a conquistare nuovi possedimenti in Africa, in Cina e nel Pacifico. Ma l’evento che più spaventò gli inglesi fu il progetto della ferrovia Berlino-Baghdad (al 1898 data la concessione della Turchia alla Germania per la costruzione del ramo Baghdad-Costantinopoli) che avrebbe consentito ai tedeschi di affacciarsi nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano, ossia nei territori di caccia esclusivi della Gran Bretagna.

Quanto alla Russia, il problema al centro di ogni dibattito era sempre lo stesso, ossia che il sea power britannico aveva il suo nemico naturale nel land power russo. Dall’epoca di Pietro il Grande la Moscovia, un tempo solo uno iato tra Europa e Asia, liberandosi del dominio mongolo aveva acquisito un ruolo che si sarebbe rivelato decisivo anche per le sorti europee. Ma come diceva Marx, soltanto la trasformazione di una potenza continentale come la Moscovia in un impero attestato saldamente sui mari avrebbe proiettato la politica russa oltre i suoi limiti tradizionali. Da sempre la diplomazia russa traeva la sua linfa vitale dalla fusione tra la atavica perizia nell’arte dell’intrigo ereditata dagli schiavi dei mongoli e la tendenza dei padroni mongoli alla conquista del mondo. Non c’è da stupirsi se in ogni bisbiglio proveniente da Costantinopoli o in ogni disordine tribale lungo la frontiera indiana gli inglesi vedessero intrighi della Russia.

In realtà, come ben aveva visto Marx e come hanno confermato in seguito le rivelazioni degli archivi diplomatici, fu la patria del libero-scambismo a compromettersi in un’alleanza segreta con gli stessi russi attraverso una ragnatela di patti, intese e accordi il cui scopo era da una parte di contenere l’espansione russa verso il mare, dall’altra mantenere sottomessi i popoli dell’Europa. La connivenza anglo-russa rappresentava per Marx un grave pericolo controrivoluzionario per l’intera Europa, come testimoniano le dure critiche con cui sferzò la maniera troppo blanda con cui le potenze occidentali conducevano la guerra di Crimea.

Il ruolo di baluardo controrivoluzionario a favore della stabilità capitalistica è stato una costante nella storia russa, prima della Russia zarista poi di quella stalinista. Oggi possiamo affermare che il crollo dello zarismo del 1917 e l’implosione dell’Urss del 1990 sono gli avvenimenti che hanno decretato l’inizio della fine dell’egemonia della potenza imperialista americana. Fosse dipeso dalla volontà politica degli Stati, anziché dalla cieca legge dell’accumulazione di plusvalore, la formula del condominio ancora sopravviverebbe quale sistema più idoneo ad assicurare la signoria pressoché illimitata al capitale a base americano.

In questo contesto, con un buon mezzo secolo di ritardo da Marx, viene abbozzata per la prima volta la dottrina di Mackinder. Dando per scontate le prerogative imperialistiche della maggiore potenza dell’epoca, egli superava concettualmente la scelta tra Germania e Russia quali minacce principali al dominio inglese, facendo notare che nel cuore dell’Eurasia vi era un’area strategica che, se controllata da un’unica potenza o da una coalizione, le avrebbe dato vantaggi a lungo termine. Veniva in tal modo delineato il reale obiettivo della futura strategia estera britannica (e oggi americana): impedire che le forze navali e terrestri tedesche e le risorse continentali russe (o cinesi) dessero vita ad una sola potenza politico-militare che controllasse il Cuore della Terra.

Alla base della riflessione di Mackinder vi furono due episodi bellici specifici: la guerra britannica in Sudafrica e quella russa in Manciuria. Fino ad allora era sembrato che qualunque Stato intenzionato ad entrare in competizione imperialistica avrebbe dovuto dotarsi dell’arma sinonimo stesso di potenza: la forza navale. Chi controllava l’Oceano non conosceva rivali potendo contare sulla maggiore velocità di spostamento e sulla capacità di intervenire in qualsiasi conflitto aggirando gli ostacoli terrestri. Ma un nuovo prodotto della grande industria – le ferrovia – era entrato prepotentemente in scena, rendendo oltremodo conveniente il trasferimento di merci e uomini sulle lunghe distanze terrestri. In Sudafrica e in Manciuria si combatterono i primi conflitti di una nuova era: l’epoca colombiana delle grandi navigazioni a vela, che avevano permesso di scoprire l’esistenza di nuovi mondi, poteva dirsi conclusa a favore della mondializzazione del sistema politico frutto dell’avvenuta appropriazione geografica del pianeta.

La cultura occidentale ha ereditato dalla classicità greca il connubio tra potenza marittima e libertà da un lato, e potenza continentale e dispotismo dall’altro, mutuato dall’esperienza del secolare confronto, assurto a modello, tra la piccola Atene e il grande Impero persiano. Il comune denominatore che lega le antiche guerre greco-persiane ai moderni scontri anglo-russo e americano-russo è l’opposizione elementare di terra e di mare, la lotta di potenze marinare contro potenze di terra e viceversa. Questa visione di un mondo da sempre coinvolto nell’antitesi di terra e mare è presente in Mackinder, il quale riesce tuttavia a evitare la trappola di un ferreo determinismo naturale: sono infatti gli uomini e non la natura a dare inizio ai processi storici, anche se la natura in larga misura li condiziona. Insomma, una caratteristica fisica dell’ambiente umano, come ad esempio la divisione del pianeta in terra e mare, pur rappresentando un vincolo non è certo l’unica causa dello sviluppo della civiltà.

Mackinder utilizzò, quale strumento fondamentale per la sua analisi, una carta geografica ideale centrata sulla Siberia, e considerò l’Europa non come il centro del mondo, ma come una delle tante penisole della massa terrestre eurasiatica. L’Isola-Mondo, la World-Island, è tutto quel vasto continente indiviso costituito da Europa, Asia e Africa. Quest’ultimo, base della potenza terrestre e del dispotismo, nel caso riuscisse a divenire una ”isola” e una unità, cioè a conquistare l’oceano con le proprie forze di terra, altererebbe irrimediabilmente i rapporti di forza e l’essenza stessa della politica internazionale.

Scopo non troppo velato di Mackinder era quello di esaminare la storia passata per scoprire in essa le condizioni che avevano reso possibile la vittoria dello Stato insulare inglese, e scrutare nell’avvenire se le circostanze che gli avevano permesso di assurgere a incontrastata potenza mondiale fossero destinate a scomparire. Ma egli non poteva sapere allora che ad un altro imperialismo sarebbe spettato il compito di mantenere e consolidare il dominio anglosassone sui mari, quando l’Inghilterra, da sola, non sarebbe più stata in grado – per forza e dimensioni – di mantenere lo status di potenza globale, quando le coste di quell’isola dalla quale era partito il più potente terremoto economico e tecnico della storia dell’umanità sarebbero diventate troppo anguste per contenere una nuova epoca. Un nuovo Leviatano, gli Stati Uniti d’America, sarebbe presto uscito dalle onde dell’oceano pronto a rivitalizzare i principi fondamentali dell’impero marittimo britannico. Ma fino a quando gli Stati Uniti – per forza e dimensioni – saranno l’ago della bilancia dell’imperialismo mondiale? quando un nuovo mostro Leviatano, di dimensioni qualitativamente maggiori, sta sorgendo in Asia?

Concludiamo con le parole finali dell’intervento di Mackinder del 1904, ancora utili forse a diradare qualche nebbia dalla scena geopolitica odierna. «In conclusione, può essere opportuno mettere in evidenza che l’avvicendamento di qualche nuova autorità nell’area interna a quella della Russia non comprometterebbe l’importante ruolo geografico della posizione-perno. Se fossero ad esempio i cinesi, organizzati dai giapponesi, a rovesciare l’impero russo e a conquistarne il territorio, essi potrebbero costituire il pericolo giallo per la libertà del mondo [id est per l’Inghilterra allora e per gli Usa oggi], proprio perché aggiungerebbero un fronte oceanico alle risorse del grande continente, un vantaggio finora negato agli occupanti russi della regione-perno».

 

 

 

 

PAGINA 2


Riunione generale del partito a Torino
20 e 21 settembre

[RG120]

Corso della crisi economica: la strozzatura del mercato mondiale

Analisi della spesa per armamenti nel mondo
I conflitti in corso nel Medio Oriente ed in Ucraina
La questione militare: la guerra russo-giapponese del 1905

Le società dell’India antica: fino ai sultanati arabo-persiani

Storia del movimento operaio in Usa: verso la prima guerra mondiale
La successione dei modi di produzione: il comunismo primitivo
Resoconto sull’attività sindacale del partito
Storia dei sindacati in Venezuela: prima parte, 1812-1998
Il concetto di Stato e di Dittatura prima di Marx
   

Fine e conclusione del resoconto

Storia del movimento operaio negli Stati Uniti d’America

All’inizio del secolo l’economia statunitense, ormai completamente riavutasi dalla Grande Depressione degli anni ‘90, si avviava verso un lungo periodo d’espansione destinato a concludersi con il boom degli anni della prima Guerra Mondiale. Mentre il grande capitale conduceva questa avanzata epocale, nelle città si ammassava una classe operaia di recente formazione, le cui caratteristiche erano continuamente modificate, e addirittura sconvolte, dalle successive ondate migratorie provenienti dall’Europa. Nel corso di quella che fu chiamata Progressive Era tutte le componenti sociali subirono una rapida evoluzione.

Il grande capitale tendeva ai suoi obiettivi di sempre: stabilità del sistema finanziario, prevedibilità dell’andamento del mercato, eliminazione degli effetti dannosi della concorrenza, eliminazione o riduzione dei conflitti del lavoro. Per questo le maggiori riforme, soprattutto a livello federale, finirono per essere appoggiate e spesso scritte e gestite proprio dagli esponenti politicamente più “illuminati” del grande capitale finanziario ed industriale.

Con l’avvento della presidenza Wilson il processo ebbe un’accelerazione, anche perché ben presto ci si rese conto che gli Stati Uniti avrebbero dovuto prima o poi partecipare alla Grande Guerra, che li avrebbe consacrati potenza economica e militare di prima grandezza. Il potere centrale prese su di sé l’incarico di regolare i rapporti con la classe operaia, sia con quella irreggimentata nei sindacati gialli, fossero o no nell’AFL, sia con quella, più combattiva, che l’AFL non rappresentava né voleva rappresentare, e nella quale l’IWW aveva trovato il terreno più fertile.

Sul versante proletario la novità, molto relativa perché annunciata dagli eventi dei decenni precedenti, fu il completo infeudamento, di fatto, dell’AFL e dei sindacati reazionari e aristocratici nella struttura statale. L’AFL scrisse la piattaforma elettorale del Partito Democratico per la campagna di Wilson, ebbe suoi rappresentanti nominati a cariche importanti nei ministeri, trattò su tutte le leggi degli anni seguenti che riguardavano le condizioni della classe operaia.

Il risultato fu che, in un periodo di crescita e di grandi profitti, la borghesia riuscì a contenere la lotta di classe, facendo concessioni marginali e di facciata, mentre il “tallone di ferro” del padronato non riduceva la sua pressione. L’unico risultato fu il riconoscimento dei sindacati collaborazionisti, cosa che portò vantaggi solo alle cricche dirigenti; l’obiettivo principale era di mantenere uno strato di funzionari ben pagati tra borghesia e classe operaia, funzionari che meglio degli sceriffi riuscivano a dividere la classe e a fiaccarne in mille modi le energie. Nella sostanza, se non nella forma, si prefigurava il corporativismo dei regimi assolutisti che si sarebbero affermati qualche anno dopo la guerra in alcuni paesi europei, e il rapporto Stato/sindacati che si è instaurato in tutti i paesi dopo la Seconda Guerra mondiale.

 

La successione dei modi di produzione: Il comunismo primitivo

I lavori della domenica sono stati aperti dalla relazione sulla Forma di produzione primaria.

È la fanciullezza del genere umano, caratterizzata dall’assenza di antagonismi di classe e di soprastrutture coercitive, di unione immediata di produzione e distribuzione. Per questo la definiamo una Forma organica. Ma i vincoli naturali ancora dominano gli uomini nella produzione e riproduzione; da qui l’aggettivo di primitiva.

Il relatore ha utilizzato il lavoro sulla Teoria della conoscenza apparso sul numero 126 del 1994 di questo giornale, affiancandolo alle corrispondenti definizioni contenute nei “Grundrisse” di Marx, nella “Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” di Engels, in “Russia e rivoluzione nella teoria marxista” in Programma Comunista del 1954, in “Ardua sistemazione del programma comunista rivoluzionario fra i miasmi della putrefazione borghese e la pestilenza opportunista” e “Rivoluzioni storiche della specie che vive, opera e conosce” del 1960.

L’analisi marxista del comunismo inferiore affronta di petto il cosiddetto problema delle origini, il punto in cui la storia dell’umanità diventa un settore particolare della complessiva storia del regno animale e in generale della storia naturale. «Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché produssero i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro effettiva organizzazione. Producendo i loro mezzi di sussistenza gli uomini producono, indirettamente, la loro stessa vita materiale» (Marx-Engels, L’Ideologia Tedesca).

Tralasciata la descrizione puntuale delle prime due età in cui la scienza borghese suole dividere la cosiddetta preistoria, si è passati all’esposizione delle linee fondamentali del neolitico, in cui lo sviluppo dell’agricoltura e l’introduzione di nuove tecniche di manifattura, come la tessitura e la lavorazione della ceramica e del rame, accanto all’intensificazione dell’allevamento, consentono – per la prima volta – l’accantonamento di una eccedenza alimentare. Questo porta con sé l’ingrandirsi delle abitazioni e la loro minore dispersione sul territorio, nonché l’aprirsi di collegamenti tra i villaggi, che però rimangono ancora effimeri.

La teoria marxista suddivide il comunismo primitivo in due grandi epoche, lo stato selvaggio e la barbarie, ulteriormente divise in tre stadi ciascuna. La Forma di produzione primaria cessa con lo stadio medio della barbarie quando, a prezzo di grandi spargimenti di sangue, si afferma lentamente la divisione in classi della società, ovverosia la Forma secondaria.

Per la teoria marxista nel comunismo delle origini è assente la proprietà, che si riduce a possesso da parte della comunità, non del singolo individuo o della famiglia, delle condizioni naturali della propria riproduzione. Il produttore esiste nel duplice modo di membro della comunità originaria ed in rapporto alle condizioni materiali della produzione. La sua esistenza è possibile solo come membro della comunità. Prima del dissolversi della comunità primitiva non ha senso parlare di proprietà in quanto il produttore è tutt’uno con le condizioni oggettive della propria personale esistenza.

La comunità è il presupposto della produzione. Dato il basso livello delle forze produttive, i naturali vincoli di sangue vi sono fattori determinanti; perciò il ruolo della donna non ha ancora subito quel processo di immiserimento che la condurrà fino alle sofferenze borghesi odierne. L’attenzione è così da spostarsi sull’evoluzione della famiglia – rapporto di produzione prima che morale sessuale e sentimentale – da matriarcale a patriarcale, e da matrimonio di gruppo a monogamia; processo che ha avuto un peso fondamentale nel dissolversi della forma primaria. Lo studio materialistico e dialettico dell’evoluzione dei legami di sangue, allora, non può prescindere dal ricercare la relazione tra questi e il meccanismo tramite il quale la comunità originaria riproduce le condizioni della propria esistenza. I primi gruppi, strettamente consanguinei, sono gruppi-famiglia. Sono alla stessa stregua gruppi-lavoro, ossia la loro “economia” è una reazione collettiva all’ambiente fisico; con esso ciascun individuo ha lo stesso rapporto: non vi è proprietà personale, non classi sociali, non potere politico e Stato. La famiglia dev’essere trattata alla stregua di un rapporto di produzione determinato dalla sottostruttura.

Allo stesso tempo l’importanza dei rapporti di produzione non è assoluta perché cambia a seconda dello sviluppo delle forze di produzione: più queste si ingigantiscono più i rapporti direttamente legati al sangue perdono di rango. La fine del matriarcato ha sancito la sottomissione della donna, relegata ora tra le condizioni organiche della produzione al pari degli schiavi. Nasce la prima divisione sociale del lavoro, anche se ciò non significa che non vi fosse nel comunismo nessuna divisione dei compiti e nessuna gerarchia.

Il concetto di modo di produzione sta stretto a delle formazioni sociali prive di antagonismi tra classi; in queste comunità organiche la produzione è inseparabilmente legata alla distribuzione, intese come divisione dei suoi membri tra le branche produttive e come ripartizione dei prodotti; il ciclo complessivo abbraccia la riproduzione della comunità e le forme della distribuzione; sono collettive perché condizionate dalla forza produttiva principale, la comunità; non si ha neppure consumo privato individuale perché il produttore è tale solo in quanto membro della collettività autoriproducentesi e solo in conseguenza di ciò diviene capace di produrre.

Nel comunismo primitivo non esistono soprastrutture di coercizione di classe di tipo politico o giuridico, né tanto meno ideologiche. Le comunità primitive ignorano gli antagonismi e i conflitti di interesse, le ineguaglianze nella posizione sociale, sebbene vi sia la necessità di affidare, talvolta, l’assolvimento di determinati compiti ad appropriati individui o gruppi.

Esse sono però sottomesse all’esterno ad un antagonismo sovente mortale, che scoppia in scontri violenti con le altre unità ogni qualvolta la moltiplicazione degli umani rende angusto il ricambio organico con la natura esterna. Generalmente il trionfo di una comunità significa la distruzione di un’altra. Sebbene le strutture del comunismo primitivo fossero tali che gli sconfitti venissero accolti all’interno della comunità ogni qualvolta le condizioni ambientali permettevano la sopravvivenza di tutti, l’eliminazione dei prigionieri manteneva l’equilibrio tra il numero degli uomini e le condizioni ambientali esistenti.

Sarà proprio la guerra, diventata piaga endemica dell’epoca infantile del genere umano, a distruggere la forma primaria. Nell’epoca di dissoluzione del comunismo inferiore le tribù perdenti saranno sempre più spesso relegate tra le condizioni organiche della riproduzione, come il bestiame.

La fase finale del comunismo naturale vedrà un grandioso aumento delle forze produttive e rivolgimenti sociali di tale portata che imporranno l’ampliamento, poi la distruzione della comunità naturale.

Con l’irrompere di rapporti di proprietà tra i membri della comunità siamo alla fase di dissoluzione violenta del comunismo inferiore, ovvero nello stadio superiore della barbarie. A questo punto mancava «ancora solo una cosa: un’istituzione che non solo assicurasse le ricchezze degli individui recentemente acquistate contro le tradizioni comunistiche dell’ordinamento gentilizio, che non solo consacrasse la proprietà privata, così poco stimata in passato, e dichiarasse questa consacrazione lo scopo più elevato di ogni comunità umana, ma che imprimesse anche il marchio del generale riconoscimento sociale alle nuove forme d’acquisto di proprietà, sviluppantisi l’una accanto all’altra, e quindi all’aumento continuamente accelerato della ricchezza. Mancava una istituzione che rendesse eterni non solo la nascente divisione della società in classi, ma anche il diritto della classe dominante allo sfruttamento della classe non abbiente e il dominio di quella classe su questa. E questa istituzione venne. Fu inventato lo Stato» (Engels, Origine...).

 

Il concetto di dittatura rivoluzionaria e sua pratica prima di Marx - Denis Diderot

Nella rivoluzione francese e nella sua ideologia, Diderot ha un posto di primo piano, anche se i rivoluzionari di allora non potevano rendersene conto. Questo perché alcune delle opere più importanti dell’autore erano stampate a firma di altri allo scopo di evitare la censura, ed altre ancora furono pubblicate decenni dopo. A Diderot venne invece attribuito il “Codice della natura” di Morelly, edito senza firma nel 1755 e chiaramente comunista. Inoltre i giacobini, apertamente rousseauiani, erano diffidenti verso gli enciclopedisti, considerati atei e materialisti, nonché ispiratori delle posizioni politiche più moderate, dai monarchici costituzionali ai girondini.

Oltre al suo materialismo, che possiamo chiamare dialettico, e l’ateismo dichiarati, Diderot non è mai stato sostenitore del dispotismo illuminato, dato che già nel primo volume dell’Enciclopedia, edito nel 1751, c’era una sua voce, “autorità politica”, molto criticata in cui si legge che il potere, pur legittimo, della monarchia deve essere soggetto a limitazioni, chiedendo quindi una costituzione e la fine dell’assolutismo.

Lo ”Esprit des Lois” di Montesquieu del 1748, con la sua concezione di divisione dei poteri, aveva avuto una grande influenza sull’autore come su quasi tutti gli illuministi. Lo vediamo anche nella sua difesa del parlamento parigino, minacciato nelle sue prerogative dalla monarchia. A Diderot non sfuggiva il carattere reazionario di tale parlamento, ma ne difendeva la funzione di corpo intermedio, di bilanciamento dei poteri nei confronti dell’assolutismo.

Nella prefazione alle “Ricerche sull’origine del dispotismo orientale” di Boulanger, del 1761, Diderot, o un suo stretto collaboratore, proponeva che lo Stato togliesse alla Chiesa la funzione di istituzione pubblica e che il governo si alleasse con i philosophes. Va detto che l’acceso anticlericalismo dell’autore non era mai fine a se stesso, ma parte integrante di una concezione di lotta all’assolutismo.

Nel 1770 Diderot scrisse la “Apologia dell’abate Galiani”, abate napoletano sostenitore dell’assolutismo ma vicino alle idee di libertà del mercato proprie dei fisiocratici. Accortosi però che il libero mercato non poteva evitare le carestie e la fame, con i conseguenti rischi per la stabilità sociale, aveva scritto e pubblicato nel 1769 il “Dialogo sul commercio dei grani”, criticando le idee dei fisiocratici. Fu quindi considerato da questi un traditore e attaccato duramente. Diderot pur condividendo le idee dei fisiocratici sul libero mercato, difese ora Galiani che mostrava come la libertà borghese non risolvesse tutti i problemi e non assicurasse quindi la felicità pubblica. Rispondendo all’abate Morellet che attaccava il Galiani anteponendo il sacro diritto della proprietà ai diritti umani, Diderot scriveva: «Questo principio è un principio da tartaro, da cannibale e non da uomo civile. Forse il senso di umanità non è più sacro del diritto di proprietà, il quale viene infranto in pace, in guerra in una infinità di circostanze, e per il quale il signor abate ci predica il rispetto fino ad esporci ad ucciderci, a scannarci, a morir di fame?». È qui evidente la grandezza di Diderot, che accetta e sostiene l’importanza e la necessità dello sviluppo capitalistico ma riesce anche ad intuire i limiti di un sistema economico e sociale ancora ai primi passi.

Nel 1773 Diderot andò a Pietroburgo e vi restò 5 mesi, invitato dalla zarina Caterina II, interessata a modernizzare la Russia, ma non disposta ad accettare i consigli di dare al paese una costituzione, di porre fine alla servitù della gleba e all’assolutismo. Nel 1774 tornando in Francia, fece tappa in Olanda, una repubblica in cui apprezzava la divisione dei poteri, pur non sfuggendogli i limiti dovuti al dominio della borghesia mercantile, come leggiamo nel suo “Viaggio in Olanda”: «Il commerciante è un cattivo patriota, lascerà morire di fame i suoi concittadini per guadagnare un terreno in più». «Non c’è patria per chi non ha nulla, o può portare con sé tutto quello che ha».

Nel 1774 Turgot divenne Controllore Generale, suscitando l’entusiasmo di tutti i philosophes che videro ora possibile una vera riforma dello Stato ispirata ai loro principi. Con le dimissioni dello stesso Turgot nel 1776 subentrò una grande delusione, e Diderot cominciò a considerare la rottura rivoluzionaria come unica soluzione. Altro evento fondamentale è stata la rivoluzione americana, dimostrazione pratica della possibilità di una repubblica democratica anche in uno Stato di grandi dimensioni. Ora anche Montesquieu e Rousseau potevano essere visti in un’ottica diversa, e posti alla base di una concezione rivoluzionaria.

Nel 1782 viene edito il “Saggio sui regni di Claudio e Nerone” in cui leggiamo: «Mi fu chiesto una volta come si possano restituire i costumi a un popolo corrotto. Risposi: nel modo in cui Medea restituì la gioventù al padre, facendolo a pezzi e mettendolo a bollire». Ancora: «Lo schiavo ha il diritto di vita e di morte sul suo padrone? Chi ne può dubitare?». Questa edizione contiene anche una “Apostrofe agli insorti d’America”, da cui leggiamo: «Mille uomini che non temono per la propria vita, sono più temibili di diecimila che temono per la loro fortuna. Ciascuno di essi abbia nella propria casa, in fondo al campo, vicino al telaio, vicino all’aratro, il proprio fucile, la spada e la baionetta. Siano tutti soldati».

Grande importanza ebbe la Storia delle Indie dell’abate Raynal, la cui III edizione del 1781 era in gran parte opera di Diderot. Nello stesso anno il Procuratore Generale Séguier la definì un libro «che aspira a sollevare i popoli». Leggiamo: «È necessario che prima o poi giustizia sia fatta. Se accadesse diversamente mi rivolgerei al volgo e gli direi: popoli, i vostri ruggiti hanno fatto tremare tante volte i vostri padroni, cosa aspettate? Per quale momento riservate le vostre torce e le pietre che lastricano le vostre strade? Afferratele».

Il libro ebbe delle critiche feroci, per difendersi dalle quali Diderot scrisse una Apologia di Raynal in cui leggiamo: «Il libro che amo è il libro che fa nascere i Bruto». Questo scritto fu molto letto e conosciuto dai rivoluzionari dell’89 e del 93. Robespierre disse degli enciclopedisti, nel discorso sull’Essere supremo del 18 floreale dell’anno II: «Questa setta, in politica, restò sempre al di sotto dei diritti del popolo». Non poteva sapere che, attraverso la Histoire di Raynal la parte migliore dell’enciclopedismo, rappresentata da Diderot, fosse entrata a costituire, insieme a Rousseau, il perno della sua ideologia come di quella di gran parte dei rivoluzionari.

 

Storia dei sindacati in Venezuela - Prima parte

La classe lavoratrice del Venezuela coloniale – prima dell’indipendenza nazionale – era formata da operai manifatturieri e salariati agricoli, settore nel quale però era dominante la mano d’opera schiava.

Già in questo periodo possiamo rintracciare segni di combattività operaia. Nel 1813 ci fu un conflitto a Caracas durante i lavori per la ricostruzione della cattedrale, distrutta dal terremoto del 1812. Lo sciopero, contro i bassi salari, si estese a tutti i muratori della città. Non esistevano organizzazioni sindacali ma solo confraternite clandestine di ispirazione cristiana. Queste, affiancate a corporazioni artigiane, non erano costituite su basi di classe ma professionali.

Ottenuta l’indipendenza, dopo una sanguinosa guerra contro la Spagna nel 1824, nacque la Repubblica. Negli anni successivi le corporazioni risorsero, trasformandosi in associazioni dei padroni delle crescenti manifatture, mentre le confraternite assumevano i caratteri di società di mutuo soccorso, costituite essenzialmente da salariati.

La guerra d’indipendenza causò la rovina di molti piccoli produttori, rurali ed artigiani, privandoli dei mezzi di produzione, che si accumularono nelle mani di proprietari terrieri, commercianti e usurai. Questi acquisirono la proprietà anche delle fonti di materie prime e delle imprese manifatturiere, dove finirono a lavorare gli artigiani rovinati, gli operai e gli apprendisti delle antiche botteghe, e i contadini impoveriti.

Dal 1859 al 1863 una guerra civile, detta rivoluzione federale, oppose l’oligarchia ai liberali, con episodi di insurrezioni contadine contro i latifondisti. Il prevalere dei liberali portò alla fine dello schiavismo.

Nel 1885 si organizzarono i ferrovieri e in questa seconda metà del secolo, con lo sviluppo delle esportazioni e delle importazioni, si risvegliarono anche i portuali e si formarono le prime generazioni del proletariato delle miniere con lo sfruttamento dell’oro a El Callao.

Nella seconda metà del secolo 19° cominciarono a penetrare le prime idee socialiste. Sappiamo che, dopo la giornata di lotta del 1° maggio 1886 a Chicago, anche alcune organizzazioni in Venezuela si dettero l’obiettivo delle 8 ore. A metà 1893 si ebbe la cosiddetta “prima riunione dei lavoratori socialisti del Venezuela”: al Caffè Caracas 14 lavoratori di lingua tedesca, rifugiatisi in Venezuela dopo la sconfitta della Comune di Parigi, decisero di fondare la sezione venezuelana della Seconda Internazionale. Nominarono Franz Shleese delegato al III Congresso Internazionale Operaio a Zurigo, che si svolgerà nell’agosto del 1893. Il 28 di ottobre del 1896 si riunì a Caracas un “Congresso Operaio” che dichiarò la necessità della costituzione di un partito operaio.

I governi permisero la creazione formale di sindacati solo a partire dalla morte del generale Juan Vicente Gomez (17 dicembre 1935), ma l’esistenza di organi di lotta economica dei lavoratori data precedentemente: già nella prima decade del secolo 20° i lavoratori venezuelani si erano uniti sotto la copertura di società di beneficenza e di mutuo soccorso, particolarmente nella nascente industria petrolifera.

All’inizio del secolo scorso il Venezuela concentrava la sua economia nella esportazione dei prodotti agricoli. Nel 1907 partì uno sciopero nel porto principale, quello di La Guaira. Nel 1909 fu fondata l’Associazione degli Operai e Artigiani del Distretto Federale, che pubblicava il giornale “Unità Operaia” e in tutto il paese iniziarono a spuntare organismi simili. I tipografi approvarono gli statuti nel 1909. Nel 1911 si ebbe uno sciopero in una fabbrica di sigarette a Valencia; nel 1914 il primo sciopero in un settore strategico ed a carattere nazionale, i telegrafisti. Negli anni 1919 e 1920 a Caracas scioperarono i calzolai, i grafici, i tranvieri, i telefonici e i lavoratori delle miniere di rame di Aroa.

In quegli anni ci fu una certa influenza anarco-sindacalista sostenuta da lavoratori spagnoli, principalmente militanti della Confederazione Generale del Lavoro (in Spagna fondata nel 1910) ed italiani, però questa influenza presto diminuì. Tuttavia, al suo inizio il movimento sindacale venezuelano non ebbe un riferimento ideologico definito, come invece è accaduto in altri paesi della regione, dove era evidente l’influenza socialdemocratica ed anarchica.

La comparsa del petrolio introdusse un cambiamento sostanziale nella realtà del paese. A partire dal 1920 l’economia venezuelana passò dalle esportazioni agricole di caffè e cacao a concentrarsi sulla attività petrolifera e la relativa rendita. L’economia venezuelana ha poi proseguito integrata nel circuito capitalista internazionale dell’Europa, fondamentalmente dell’Inghilterra, connessa pertanto alla divisione generale del lavoro generata dallo sviluppo capitalistico.

L’industria del petrolio richiede una marcata divisione sociale del lavoro e strumenti tecnologici. Dalle file dei contadini iniziò a fluire manodopera per le compagnie petrolifere che nel 1925 conteranno già diecimila lavoratori a ruolo salariale.

In questo contesto, nel 1922 si ebbe il primo sciopero dei lavoratori del petrolio contro le inumane condizioni a cui erano sottoposti, 12 ore al giorno inclusa la domenica, vivendo in baracche recintate e sorvegliate senza alcuna protezione sanitaria. Chiedevano l’aumento del salario da cinque a dieci bolivares al giorno, la giornata lavorativa di otto ore, per tutta la classe operaia, e che la compagnia non potesse licenziare nessuno per 90 giorni successivi alla fine del conflitto. Lo sciopero durò 9 giorni.

I lavoratori, protetti nelle associazioni mutualistiche, nei circoli operai, nei centri culturali, con i quali cercavano di aggirare la persecuzione del governo di Gomez sulle organizzazioni sindacali, si riunivano la notte nelle loro catapecchie per discutere. Per prima cosa lottarono per avere delle case decenti, acqua e servizi sanitari; poi vennero le richieste salariali.

Dal 1936, finita la 27ennale dittatura, fu possibile avanzare rivendicazioni in modo aperto e generalizzato. La giornata lavorativa era di dodici ore giornaliere nella maggioranza delle industrie; in altre fino a quattordici e sedici. Non esistevano leggi per la protezione dei lavoratori, né diritti sindacali, meno che mai di sciopero. In tutto il Venezuela iniziò un lavoro febbrile di organizzazione, che sfociò in poco tempo in una serie di scioperi a carattere economico.

A differenza di Cile, Argentina, e Uruguay, in Venezuela i sindacati iniziano a formarsi all’inizio del secolo scorso senza una aperta subordinazione ai partiti politici. Nel periodo precedente il 1936, complice la clandestinità, permane una certa confusione fra cosa è un partito e cosa un sindacato, ed alcune organizzazioni sindacali arrivarono ad assomigliare a sezioni di partito. A partire dal 1936 i sindacati diventano legali ma, provenendo da decenni di clandestinità o semiclandestinità sotto la dittatura, mantengono quelle esperienze organizzative e con militanti formatisi nelle lotte rivendicative.

L’industrializzazione si compie in Venezuela negli anni 1940-1945, caratterizzato da un utilizzo estensivo di mano d’opera a compensazione della mancanza di tecniche e di strumenti. Nel 1944 il governo concede aiuti finanziari a settori della produzione interna non petrolifera, per favorire la produzione delle materie prime necessarie per l’industria nazionale. Questo va a rafforzare la crescita della classe operaia.

Ma questa è ancora fortemente influenzata dalla piccola borghesia, immaturità politica determinata dal fatto che le masse operaie sono formate da contadini emigrati nelle città e nei centri di produzione, con il loro carico di attaccamento alla proprietà ed all’individualismo. Questo facilita il mantenimento della direzione politica e sindacale della classe operaia sotto la versione “tropicale” della socialdemocrazia, che mobilita i lavoratori con varie manovre fuori e contro i loro interessi ed i loro scopi.

A partire dal 1960, con il ritorno del governo democratico, si sviluppano e consolidano le principali centrali sindacali. Tutte queste garantiscono alla borghesia il controllo sociale dei lavoratori. Gli scontri e le divisioni che si manifestano fra le centrali sindacali in Venezuela sono per lo più solo il riflesso della guerra fredda fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica con la contrapposizione fra “comunisti” (revisionisti e opportunisti in varie correnti staliniste) e anticomunisti (democratici e socialdemocratici influenzati dalla politica nordamericana e delle multinazionali).

Negli scioperi più significativi fra il 1970 e il 1998 sono protagonisti gli operai siderurgici e della Corporazione Venezuelana di Guayana, i tessili e i lavoratori dei tribunali, senza dimenticare le lotte rivendicative dei lavoratori della sanità e dell’istruzione. In questa fase si consolida la smobilitazione dei lavoratori del petrolio, i cui bonzi sindacali minacciano di quando in quando gli scioperi senza mai realizzarli.

Come riflesso della crisi mondiale alla fine degli anni ‘70 e della caduta del prezzo del petrolio degli anni ‘80 e ‘90 inizia a scemare la direzione e il controllo dei partiti di destra (AD e COPEI principalmente) sul movimento sociale e a ridursi la loro influenza politica sulla classe. Ma il malcontento accumulato fra le masse sfruttate non è canalizzato dalle organizzazioni della sinistra riformista.

Nel 1989 si ha il “Caracazo” una rivolta generale spontanea. Nel 1992 due tentativi di colpo di Stato militare da parte del Movimento Bolivariano dell’Esercito non riescono a prendere il potere, indicano però la strada che la borghesia inizia a prendere per il ricambio di personale politico al governo.

Data la estrema frammentazione del movimento sindacale in Venezuela, il rapporto si soffermerà nella descrizione delle principali caratteristiche, caso per caso, delle diverse sigle sindacali. Seguirà un breve cenno sui rapporti di queste con gli organismi che a livello mondiale dovrebbero coordinare la difesa operaia.

In Venezuela il movimento operaio ha compiuto lo stesso percorso storico che ha avuto luogo in Europa nello sviluppo delle organizzazioni della lotta economica, passando attraverso i periodi di divieto, tolleranza e sottomissione. Nel corso del loro sviluppo le organizzazioni sindacali sono arrivate ad essere sottomesse allo Stato borghese, come in tutto il mondo capitalista.

Tutti i partiti che controllano la direzione dei sindacati in Venezuela, dai partiti democratico-borghesi, socialdemocratici e socialcristiani fino alla sinistra riformista, stalinista, trotzkista, maoista e guerrigliera, tutti senza eccezione alzano la bandiera dell’interclassismo. Questa impostazione si risolve nella pratica della collaborazione di classe nella lotta sindacale, incorporando in tutte le centrali sindacali movimenti di non salariati, come i contadini, i padroncini del trasporto, i commercianti abusivi e altre espressioni piccolo-proprietarie, che pur soffrendo l’oppressione del capitale non dovrebbero far parte propria dei sindacati e delle loro federazioni, che devono inquadrare esclusivamente i salariati.

Alla lotta operaia in Venezuela, fin dalle sue lontane origini, è stato imposto un orientamento sia anti-padronale sia anti-imperialista. Questo si è voluto giustificare, da un lato, per la consistente presenza di società multinazionali, dall’altro in opposizione all’aperta sudditanza all’imperialismo dei governi della borghesia nazionale. Era questo l’indirizzo dei partiti democratico borghesi, socialdemocratici e stalinisti che, anche col permesso dei governi militari di turno, hanno introdotto nel movimento sindacale la sottomissione alla difesa della patria e dell’economia nazionale, della pace del lavoro e della collaborazione con i padroni. A partire dagli anni ‘60 il controllo politico della borghesia sui sindacati si è intensificato e i sindacati si sono confermati cinghia di trasmissione dei partiti borghesi e opportunisti, in modo da garantire il controllo sociale della classe operaia.

La pratica delle scissioni e della creazione di sindacati paralleli è pratica costante del sindacalismo venezuelano. All’inizio riflesso della lotta di fazioni politiche per il controllo della massa dei salariati, poi e soprattutto per la spartizione dei contributi e vari vantaggi elargiti dal padronato in massima parte verso le associazioni dei lavoratori del petrolio, della educazione e della salute. Successivamente il padronato ha promosso sindacati scissionisti, principalmente nel settore pubblico, quando si sono verificate difficoltà nella gestione degli accordi e contro lotte rivendicative e conflittuali.

In Venezuela, in molti settori e rami d’industria (petrolio, educazione, salute) i lavoratori si raggruppano in varie centrali, federazioni e sindacati di base. Questi, all’inizio degli anni Ottanta iniziano a perdere adesioni per la riduzione del numero di lavoratori occupati. Ma la causa fondamentale è stata che i sindacati ufficiali tutti sono riusciti a smobilitare il movimento operaio nel mezzo di una situazione di crisi economica nella quale la borghesia applicava la ricetta dei bassi salari e dei licenziamenti. E così, anche se sono nati alcuni nuovi sindacati “alternativi”, le principali centrali sindacali hanno continuato a mantenere la loro apparenza di “rappresentanti” delle masse salariate contro il padronato ed il governo.

Episodi di vera lotta di classe, scioperi senza preavviso e senza servizi minimi, si sono avuti, ma isolati e brevi, quando gruppi di lavoratori sono usciti dal controllo dei sindacati. Il partito non è riuscito ad avere una sua presenza in queste lotte.

 

Resoconto dell’attività sindacale del partito

Alla riunione generale di fine settembre a Torino è stato reso conto, come sempre con metodo facciamo, dell’attività sindacale dei precedenti quattro mesi. I nostri interventi, tutti con appositi volantini, sono stati alla Dielle di Cassina de’ Pecchi (MI), per lo sciopero ad oltranza di sessanta operai organizzati dal SI Cobas (il primo e l’otto giugno); un volantinaggio fra i ferrovieri a seguito dello spostamento da parte della Commissione di Garanza dello sciopero proclamato il 14 giugno da CAT, USB e CUB; il 19 giugno allo sciopero generale del pubblico impiego organizzato dalla Unione Sindacale di Base (USB); il 13 settembre alla manifestazione nazionale del SI Cobas a Piacenza a sostegno della lotta contro i licenziamenti per rappresaglia nel magazzino logistico IKEA della città.

È stata poi esposta l’attività nel SI Cobas torinese e quella dei nostri compagni in Venezuela, all’interno della FLEC (Federacion Labora Eje Costiero), una unione di alcuni sindacati di fabbrica fuori e contro i sindacati di regime di quel paese.

Sono state quindi date disposizioni per il nostro intervento nelle numerose mobilitazioni operaie nelle settimane a venire.

Il nostro piccolo lavoro sindacale procede con metodo e serietà, fatto riconosciuto dai pochi lavoratori che hanno la possibilità di venirne in contatto. Il graduale ma riconoscibile riscaldamento della temperatura sociale, causato dalla crisi, cioè dal capitalismo, con episodiche ma significative lotte operaie, danno conferma della correttezza del nostro indirizzo, che oggi si compendia, in Italia e altri paesi, nella parola d’ordine “Fuori e contro i sindacati di regime, Per la rinascita del sindacato di classe”.

Fine del resoconto della riunione

 

 

 

 


Il compagno Domingo Rivero ci ha lasciato

Lo scorso 4 dicembre si è fermato il cuore del compagno Domingo Rivero, nella città di Guanare, in Venezuela, all’età di 71 anni. All’improvviso. La sua salute non era perfetta però nulla faceva pensare che l’avremmo perso così presto.

Ancora poche ore prima di morire Domingo era impegnato nel suo lavoro di comunista. Nella nostra ultima telefonata, il giorno innanzi, ci diceva del suo lavoro per il partito, che stava rileggendosi il Marx del Capitale ed il 18 Brumaio; ha lodato il primo numero del nostro nuovo periodico in lingua spagnola, le sue rassegne sulle lotte operaie, che, diceva, saranno certo utili per avvicinare i lavoratori; e ci voleva confermare la sua presenza alla nostra prossima riunione di sezione.

Nonostante fosse il militante più anziano della sezione venezuelana era arrivato al partito da poco. Operaio, proveniente dalla Guayana, da molto giovane si dette all’impegno politico, in una delle tante organizzazioni pseudo-rivoluzionarie esistenti in Venezuela e in tutta l’America latina. Il suo forte istinto di classe lo portò però a rompere con quelle posizioni opportuniste e nel 2000 ad aderire al partito. Con perseveranza volle assimilare le posizioni del marxismo rivoluzionario ed integrarsi totalmente nella milizia partecipando attivamente alle riunioni della sezione ed al lavoro di propaganda e di organizzazione.

Nonostante le difficoltà di salute che avevano menomato le sue condizioni fisiche, fino all’ultimo respiro fu un militante combattivo e pronto a dare il suo contributo al nostro lavoro collettivo, anonimo e impersonale, facendo tesoro anche delle esperienze della sua vita e delle trascorse lotte operaie del Venezuela.

Molto ci mancherà, restandoci il suo esempio di mistica comunista, di perseveranza e di fraterna vicinanza ai compagni.

Morendo, Domingo si confonde a quella massa di materia-energia, accumulata da generazioni di militanti proletari, sul filo storico della rivoluzione comunista.

 
 
 
 
 

 

  
 
 

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

  

Intervento del partito nelle lotte operaie

Qui riportiamo stralci dai volantini che abbiamo distribuito alle seguenti mobilitazioni sindacali: alla manifestazione nazionale della Cgil di sabato 25 ottobre, a Roma; alla manifestazione di Milano per lo sciopero generale interregionale della Fiom, venerdì 14 novembre, cui ha partecipato anche il SI Cobas con un robusto spezzone di un migliaio di lavoratori; alle manifestazioni per lo sciopero generale intercategoriale dei sindacati di base, sempre venerdì 14 novembre, a Milano e Firenze; alla manifestazione di Napoli per lo sciopero generale interregionale della Fiom, venerdì 21 novembre; alle manifestazioni per lo sciopero generale della Cgil, venerdì 12 dicembre, a Firenze, Genova, Torino, Pordenone.

Di queste mobilitazioni due aspetti ci sembrano da sottolineare. Il primo riguarda il sindacalismo di base. Da un lato si conferma nella maggioranza di queste organizzazioni: Cub, Usb, Confederazione Cobas, la pratica delle azioni separate che dividono la classe lavoratrice. A Milano, mentre decine di migliaia di operai metalmeccanici aderivano allo sciopero indetto dalla Fiom, questi sindacati hanno preferito far sfilare il loro corteo, con un migliaio di lavoratori, poco distante ma separatamente. Dall’altro trova conferma il positivo atteggiamento tattico opposto da parte del SI Cobas che, in nome della unità di azione della classe operaia, ha fatto sfilare i lavoratori della logistica insieme ai metalmeccanici, cercando di diffondere fra questi parole d’ordine di lotta, contro quelle concertative della Fiom. Questa partecipazione è stata apprezzata da molti lavoratori metalmeccanici ed è anche servita a dare un colpo alla divisione della classe lavoratrice fra salariati italiani ed immigrati.

Il secondo aspetto riguarda le mobilitazioni della Cgil contro la nuova riforma del lavoro, il cosiddetto Jobs Act. Nulla di nuovo rispetto ad analoghe situazioni passate: una falsa mobilitazione, con poche ore di sciopero, organizzate secondo i metodi e i principi del pacifismo e del collaborazionismo fra le classi, perciò del tutto innocue. È interessante una ulteriore conferma: la sinistra Cgil finisce per credere alle messe in scena del sindacalismo di regime, confondendole con una reale mobilitazione della classe lavoratrice. Al solito queste illusioni crollano là dove la sinistra Cgil credeva di vedere l’apogeo di un movimento di lotta che non c’era e che per la Cgil è l’atto finale della sua fasulla mobilitazione. Tale è stato lo sciopero generale del 12 dicembre.

Il 3 dicembre è stato un giorno di festa per il padronato: la riforma del lavoro è stata approvata e lo sciopero a oltranza degli operai di Terni, di cui qui riportiamo una ampia analisi, è stato sconfitto, tradito dai sindacati di regime.

 

 

14 novembre
Sciopero dei Sindacati di base
Battiamoci per un vero sindacato di classe!

(...) Dalla fine degli anni settanta, di fronte alla impossibilità di lottare in difesa delle proprie condizioni restando dentro la Cgil, gruppi di lavoratori di diverse categorie iniziarono ad organizzarsi fuori e contro questo sindacato di regime dando vita dai primi anni ottanta a diversi sindacati di base.

Questa sana, giusta e necessaria reazione non ha avuto, sinora, la forza per organizzare una parte sufficientemente corposa della classe lavoratrice, tale da poter condurre una lotta che davvero ribattesse alle offensive padronali. Ciò a causa della forza del fronte borghese – e dei sindacati confederali che ne fanno parte – ma anche di limiti ed errori delle dirigenze del sindacalismo di base:

- il frazionamento organizzativo: in trent’anni di esistenza i sindacati di base non sono riusciti a superare le loro divisioni; ciò è da imputare principalmente alle lotte fra i loro capi e capetti, che se ne fregano delle gravi conseguenze sull’unità e sulla forza dei lavoratori; solo la base di questi sindacati può battersi per il superamento di queste divisioni;

- le azioni separate: i sindacati di base continuano a promuovere scioperi in date separate da quelle del sindacalismo di regime, e persino degli altri sindacati di base. È una strategia profondamente dannosa e che va contro i basilari principi della lotta di classe. Più uno sciopero è numeroso, più è forte, e i lavoratori sentono, istintivamente prima che razionalmente, di poter abbracciare rivendicazioni più radicali ed abbandonare i compromessi a perdere del sindacalismo concertativo. Lo sciopero è una materiale azione di forza, non una manifestazione d’opinione. In linea generale, quindi, scioperare uniti anche coi lavoratori mobilitati dai sindacati di regime, propagandando le posizione del sindacalismo anticoncertativo, è il miglior modo per combattere il sindacalismo di regime, non per portare acqua al suo mulino. Il sindacalismo di classe deve distinguersi da quello di regime non per scioperare in date diverse ed in concorrenza ma più a lungo e più duramente. Deve approfittare delle mobilitazioni delle masse lavoratrici da parte dei sindacati concertativi per propagandare fra di esse questa necessità. Oggi, a Milano, decine di migliaia di operai metalmeccanici sono in piazza mobilitati dalla Fiom. La scelta dei sindacati di base di scendere in piazza separatamente è grave ed emblematica del loro settarismo. Solo il SI Cobas ha dato il giusto esempio, unendosi agli operai metalmeccanici a prescindere dalla sigla sindacale che li ha mobilitati. Sul piano aziendale anche la Cub della Electrolux di Solaro ha perseguito la unità d’azione dei lavoratori mettendo in difficoltà la Fiom e dimostrando come questa sia la giusta strada da seguire.

- la unione con strati sociali estranei alla classe lavoratrice: di fronte alle difficoltà ed ai fallimenti nella lotta contro i sindacati di regime le dirigenze dei sindacati di base si illudono di rafforzare il movimento della classe lavoratrice ricercando alleanze con strati sociali che raggruppano più classi (inquilini, studenti) o perfino con altre classi. La Cub e la Confederazione Cobas si sono apertamente appellate nell’odierno sciopero alla partecipazione dei lavoratori autonomi. Questa scelta non può che ottenere l’effetto opposto a quello voluto o, quanto meno proclamato, perché un movimento composto da interessi materiali di più classi, e quindi in contrasto, non può che caratterizzarsi per la sua confusione ed inconcludenza. L’unico modo in cui altri strati sociali possono dare la loro solidarietà al movimento della classe operaia è subordinandosi ad esso, alla sua disciplina, alle sue direttive. Se giovani non lavoratori partecipano ai picchetti operai ben vengano, ma non devono aver voce in capitolo nelle delicate decisioni della lotta. La pretesa di sostituire il movimento della classe lavoratrice con un movimento genericamente “sociale” significa in realtà abbandonare il duro lavoro per la ricostruzione del sindacato di classe a tutto vantaggio, ancora una volta, del sindacalismo di regime (...)

Spetta ai lavoratori e ai militanti più combattivi di tutti i sindacati di base battersi per unirli dal basso in un unico forte Sindacato di Classe, sempre più necessario per condurre una vera battaglia generale di tutta la classe lavoratrice. Ciò deve e può avvenire solo sulla base dei fondamentali principi e metodi della lotta di classe:

– difesa intransigente dei lavoratori, senza subordinarla ai bilanci aziendali e al cosiddetto “bene del paese”, dell’economia nazionale, che altro non sono che il bene del capitalismo;

– attività sindacale basata sul lavoro gratuito e volontario dei militanti, riducendo al minimo funzionari stipendiati e rifiutando i distacchi; i soldi delle quote sindacali devono servire principalmente a creare una cassa di resistenza per dare sostegno ai lavoratori in sciopero;

– organizzazione di veri scioperi: ad oltranza, con picchetti per bloccare l’ingresso di merci e crumiri, senza preavviso e che cerchino di estendersi a sempre più lavoratori unendoli al di sopra delle divisioni aziendali e di categoria;

– privilegiare l’organizzazione territoriale del sindacato rispetto a quella aziendale, come nella gloriosa tradizione delle originarie Camere del Lavoro, dove i lavoratori si riuniscono in quanto tali e non come dipendenti di una data azienda, così da stringere legami di fratellanza proletaria e combattere l’aziendalismo, uno dei più duri ostacoli all’unità di classe;

– rifiuto di ogni regolamentazione della vita sindacale (elezione delle rappresentanze sindacali in azienda, rappresentanza sindacale nella categoria) sia pattizia, con le organizzazioni padronali (come fatto ad es. fra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil col Testo Unico sulla Rappresentatività del 10 gennaio scorso), sia legale, cioè attraverso una legge emessa dall’attuale regime politico – che è borghese – come richiesto in modo aberrante da parte del sindacalismo di base, fra cui l’Usb, ma anche – e non a caso! – dalla Fiom. Le regole che il sindacato ed i sindacati si danno per la loro attività devono essere decise in piena autonomia dal padronato e dal suo regime, non in collaborazione con essi!

– rifiuto di subordinare la lotta sindacale all’obiettivo del riconoscimento padronale, finalizzato all’ottenimento dei diritti sindacali sul posto di lavoro, senza i quali si crede, a torto, che sia impossibile svolgere attività sindacale. Il padrone, pubblico o privato, tratta con un sindacato di classe solo se costretto dalla forza, altrimenti lo fa con sindacati complici;

– raccolta diretta delle quote mensili, attraverso i militanti sindacali, come ha sempre fatto il sindacato fino agli anni Settanta, con la propria rete di collettori, rigettando il metodo della delega, che dà in mano all’azienda i soldi del sindacato e la lista dei suoi iscritti, ed è la base materiale fondamentale del collaborazionismo sindacale;

– il Sindacato di Classe non cessa mai di indicare ai lavoratori, in ogni loro lotta contingente, che tende e lavora per la sua massima di mobilitazione: lo sciopero generale ad oltranza, per gli obiettivi di sempre del movimento operaio, i soli che uniscono davvero tutto il moderno proletariato:
- Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario!
- Forti aumenti salariali maggiori per le categorie peggio pagate!
- Salario ai lavoratori licenziati, a carico di industriali e finanza, attraverso il loro Stato!

 

 

14 novembre - Milano-Napoli
Sciopero Fiom-SICobas
Per la ripresa della lotta operaia!

(...) Il disegno di legge per una ennesima “Riforma del Lavoro” (denominato Jobs Act) – con l’attacco all’articolo 18, il demansionamento, le norme sulla videosorveglianza – il cosiddetto Decreto Poletti divenuto legge a maggio, la Riforma della Scuola, la Legge di Stabilità che si profila all’orizzonte sono il nuovo capitolo della offensiva contro la classe lavoratrice che dura da oltre tre decenni, portata avanti dagli industriali e con perfetta continuità dai governi di ogni colore e che, lungi dal mitigarsi o arrestarsi, si fa invece sempre più dura. Da questo attacco che – appare sempre più chiaro – non ha limiti, i lavoratori non sono riusciti fino ad ora a difendersi, perdendo una dopo l’altra, sconfitta dopo sconfitta, le conquiste passate, in un arretramento continuo delle condizioni di vita e di lavoro, in cui si è smarrito il senso di ciò che si era conquistato e che si sta perdendo.

La principale responsabilità di questa drammatica debolezza sta nel definitivo rigetto della lotta di classe da parte della Cgil.

Nessuna vera lotta è stata organizzata contro i sempre più pesanti provvedimenti governativi:

– La abolizione della scala mobile (1992) e la sua sostituzione con la nuova politica dei redditi (1993) hanno determinato la costante perdita del potere d’acquisto dei salari; non furono contrastate ma sostenute e approvate dalla Cgil.

– La riforma delle pensioni del primo governo Berlusconi (1994) fu fermata da potenti scioperi ma il successivo governo “tecnico” Dini (1995) – ben accolto perché “meno di destra” e “sempre meglio di Berlusconi!” – ne fece passare una analoga a cui la Cgil non si oppose, sostenendo che fosse un buon compromesso la carognata della divisione della classe fra lavoratori anziani – che hanno mantenuto il sistema retributivo conquistato nel 1968 – e giovani, col ritorno al sistema contributivo e la garanzia di una vecchiaia da fame.

– Contro la Riforma Fornero del governo Monti (2011) – nuovamente ben accolto dalla sinistra borghese, sia quella “moderata” sia quella “radicale”, perché “sempre meglio di Berlusconi!” – la Cgil ha proclamato 8 ore di sciopero nel pubblico impiego e 3 nel privato! A questa farsa si è ridotta l’opposizione della Cgil ad una fra le peggiori riforme pensionistiche d’Europa;

– L’Accordo Interconfederale sulla Rappresentanza del 10 gennaio scorso – firmato da Cgil, Cisl, Uil e Ugl – è il patto più corporativo del secondo dopoguerra e sancisce la distruzione del Contratto Nazionale di Lavoro, già avallata dai due precedenti Accordi Interconfederali del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013.

A livello aziendale la situazione è ancor peggiore: le migliaia di vertenze sono tenute isolate le une dalle altre e concluse con accordi che non solo sono, nella grandissima maggioranza dei casi, a perdere per gli occupati nella singola impresa, ma che, fatto ancor più grave, approfondiscono la divisione della classe operaia. La farsa della lotta contro i licenziamenti condotta impresa per impresa segue sempre lo stesso copione: l’azienda ne chiede 200 per ottenerne 100; la Cgil presenta come una vittoria l’accordo per 100 licenziamenti, assecondando il falso mercanteggiamento aziendale, e il fatto che siano trasformati in esodi incentivati e volontari. In questo modo asseconda l’interesse individuale di chi accetta l’incentivo a danno dell’interesse collettivo della classe: in primo luogo perché i lavoratori che restano a lavoro sono meno, quindi più deboli e più sfruttati; in secondo luogo perché si aumenta la massa dei disoccupati da un lato e lo sfruttamento dei sempre meno occupati dall’altro. L’ultimo caso è quello alla Titan di Valsamoggia (Bologna), dove la dura lotta operaia in atto dal 16 ottobre sta per essere svenduta da un accordo di questa natura.

I lavoratori invece di essere mobilitati in un movimento unico e potente contro i licenziamenti e per la riduzione dell’orario di lavoro generalizzata e a parità di salario sono condotti a piccoli gruppi di sconfitta in sconfitta, in una lunga agonia che impedisce una reazione ed una risposta all’attacco. La classe lavoratrice è come un esercito guidato da uno Stato Maggiore impegnato a farle perdere la guerra.

Spetta ai lavoratori e ai militanti sindacali battersi per il ritorno ai principi e metodi della lotta di classe: (...)
organizzazione di veri scioperi (...)
difesa intransigente dei lavoratori
– (...) costituzione di comitati di lotta per arrivare ad un fronte unico dei lavoratori:
- cui possano aderire tutti i lavoratori a prescindere dalla tessera sindacale;
- che prendano in mano la direzione della lotta togliendola ai funzionari di Cgil, Cisl e Uil e agli organismi rappresentativi ad essi addomesticati quali le RSU che, con la firma del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio scorso, sono divenuti definitivamente strumenti per ostacolare la lotta, a prescindere dalla buona volontà di singoli delegati;
- che escano dal ghetto aziendale per formare un coordinamento territoriale con cui unificare le lotte in un movimento generale della classe lavoratrice.

La rete di questi organismi di lotta, insieme al miglior sindacalismo di base, quello che sarà in grado di superare il suo settarismo, come il SI Cobas, oggi in piazza a Milano con gli operai metalmeccanici, saranno la base per la rinascita di un vero sindacato di classe fuori e contro i sindacati di regime di cui i lavoratori hanno sempre più bisogno per difendersi.

Lavoratori, compagni!

È sempre più chiaro che questo attacco contro la classe lavoratrice, in Italia e nel mondo, non è di portata contingente ma storica. Così è perché la causa della crisi non è nelle caratteristiche soggettive della cosiddetta classe dirigente di questo o quel paese, nelle sue idee sbagliate, nella sua corruzione, incapacità od egoismo. La causa è nel capitalismo, nelle sue oggettive leggi economiche che impongono, a chiunque stia al governo, questa azione antiproletaria. I governi sono governati dalle leggi economiche del capitale. Ad esse rispondono, non al voto dei cittadini, né a principi etici o morali. I governi e le dirigenze aziendali sono contro i lavoratori perché è il capitalismo ad esserlo, non viceversa.

Non esistono paradisi nazionali in cui i lavoratori possano sentirsi al riparo dai disastri del capitalismo. Negli Stati Uniti il 40% dei lavoratori ha un salario inferiore a quello considerato minimo nel 1968! In Belgio centomila lavoratori sono scesi in sciopero pochi giorni fa contro la riforma della pensioni con scontri durissimi fra operai e polizia. Altro che le passeggiate della Cgil! In Germania si è appena concluso il più lungo sciopero dei ferrovieri dal secondo dopoguerra, durato cinque giorni, contro i bassi salari (più bassi che in Italia).

In Italia, la falsa contrapposizione fra “destra” e “sinistra” – con cui confondere e fregare i lavoratori – per diciassette anni ha vestito i panni della commedia fra berlusconismo e antiberlusconismo, presentati come irriducibilmente ostili. Oggi sono ben combinati nel nuovo governo: hanno dimostrato di essere in concorrenza fra loro ma uniti contro la classe operaia. Questo perché sono burattini comandati dalla stessa mano, quella del Capitale – nazionale ed internazionale – che in tutto il mondo esercita la sua dittatura mascherata dall’inganno della democrazia, coi suoi fasulli cambi di governo, i giochetti parlamentari, le false alternative fra partiti borghesi.

La lotta sindacale è necessaria ai lavoratori per difendersi, tornare ad esser uniti e irrobustirsi come classe ma è pur sempre una battaglia contro gli effetti che resta una fatica di Sisifo se non serve da allenamento per la guerra offensiva contro la loro causa, il capitalismo. Come la lotta economica ha il suo strumento nel sindacato di classe, quella politica lo ha nel partito comunista rivoluzionario.

Tale è oggi il Partito Comunista Internazionale in quanto prosecutore della linea e della tradizione della sinistra comunista italiana, la sola corrente che ha saputo difendere l’autentico marxismo rivoluzionario, lottando contro l’ultima e peggiore delle ondate opportuniste, lo stalinismo, e il suo inganno del Capitalismo di Stato, russo, cinese, vietnamita, cubano, ecc, spacciato per comunismo. Alla milizia nelle nostre file chiamiamo giovani e lavoratori.

 

 

12 dicembre
Sciopero generale
Per l’unione delle lotte della classe lavoratrice

Lavoratori !

La scesa in sciopero della classe lavoratrice è un fatto sempre positivo che va sostenuto e salutato come tale. Ma questo dovere si deve sempre accompagnare a quello di battersi per il giusto indirizzo di lotta e alla denuncia degli errori o, a maggior ragione, dei tradimenti di chi la dirige.

La prima approvazione parlamentare della nuova Riforma del Lavoro – il cosiddetto Jobs Act – è dell’8 ottobre. Il 24 ottobre – 16 giorni dopo! – vi è stato il primo sciopero generale, organizzato da alcuni sindacati di base: Usb, UniCobas e OrSA. A farvi scioperare la Cgil ha atteso – altri 48 giorni! – dopo che il disegno di legge è stato definitivamente approvato il 3 dicembre, votato in Parlamento anche da suoi ex dirigenti di primo piano, da Damiano (ex Fiom) al suo ex segretario generale Epifani.

Queste otto ore di sciopero a legge già approvata sono tutto ciò che ha fatto la Cgil contro il Jobs Act (...)

Alle acciaierie AST-TK di Terni (...) gli operai sono stati in sciopero a oltranza per 35 giorni, fino al 3 dicembre. Si sarebbe potuto far leva su questa grande battaglia operaia per unificare le lotte in un movimento di sciopero contro la Riforma del Lavoro. Invece gli operai di Terni sono stati lasciati soli, non è stato propagandato il carattere a oltranza del loro sciopero, rimasto ignorato dalla maggior parte dei lavoratori, e, infine, questa lotta generosa è stata sperperata con un accordo a perdere. Lo sciopero a oltranza è stato interrotto da tutta la RSU nonostante il parere contrario dell’assemblea operaia e si è finito persino per dividere i dipendenti diretti dagli operai delle ditte esterne, che in tutto lo sciopero avevano partecipato ai picchetti!

Per difendersi dai sempre più duri attacchi padronali è necessario organizzare veri scioperi, a oltranza, che inizino e non si fermino finché non si è raggiunto l’obiettivo, che si rafforzino col loro perdurare, estendendosi e coinvolgendo sempre più lavoratori al di sopra delle aziende e delle categorie, condotti sulla base della forza operaia, con picchetti che blocchino merci e crumiri, e non su quella dei truffaldini stratagemmi antioperai, quali la conta delle opinioni con il voto segreto nel referendum, in cui il voto di un crumiro ha lo stesso peso di quello di chi si sacrifica per la lotta collettiva, o l’unità con i vertici dei sindacati apertamente filopadronali (Cisl, Uil, Ugl).

 

 

 

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Terni
Uno sciopero di 35 giorni tradito dai sindacati di regime

Quando il 17 luglio l’azienda presentò il suo piano industriale, alle Acciaierie di Terni lavoravano in 2.637 fra operai, impiegati e quadri. 2.235 in AST-TK (Acciai Speciali Terni - Thyssen Krupp), i restanti nelle società controllate: 218 nella Società delle Fucine Terni, dove sono prodotti grandi forgiati, 157 nel tubificio, 63 in Aspasiel, che si occupa di informatica. La fabbrica è costituita dalla acciaieria vera e propria – con due forni di fusione elettrici per rottami di ferro, due convertitori, due macchine per la colata continua a bramme –, un laminatoio a caldo, il laminatoio a freddo con sei linee, il centro di finitura.

Nel 2006, dopo una importante lotta l’anno precedente e la conclusione di un accordo definito vittorioso dai sindacati in fabbrica, fu chiuso il magnetico, il reparto dove si produceva un lamierino magnetico. Nel 2012 e nel 2013 i lavoratori sono stati invece tenuti in stato di agitazione dai sindacati a seguito delle vicende proprietarie, che videro dapprima la Thyssen Krupp vendere la fabbrica alla finlandese Outokumpu, per poi riacquistarla a seguito dell’intervento dell’antitrust della Unione Europea.

 

La divisione padronale fra lavoratori diretti e indiretti avallata dai sindacati di regime

Ai dipendenti del Gruppo AST-TK si aggiungevano circa 1.200 lavoratori delle ditte operanti in appalto all’interno dello stabilimento, cosiddette terze, alcune delle quali svolgono attività fondamentali per il funzionamento dell’acciaieria. Una parte consistente delle maestranze, quindi, opera stabilmente all’interno della fabbrica ma ha un diverso trattamento economico e normativo, naturalmente peggiore. L’azienda madre si garantisce così un polmone di operai di cui può più facilmente liberarsi ed utile a dividere i lavoratori. Ciò, come noto, non è una peculiarità delle Acciaierie di Terni, ma un metodo collaudato e comune a moltissime aziende.

A gennaio dell’anno passato, furono licenziati 12 lavoratori di una ditta appaltatrice – la Rigato – che si occupava della pulizia dei forni a caldo, in conseguenza del cambio di appalto che portò all’ingresso di una nuova azienda, la Iosa, che accettava di svolgere le stesse operazioni a un costo inferiore del 30%. Anche questa è una prassi consolidata, usata dalle aziende per rinnovare l’organico, selezionarlo, eliminare gli operai “problematici”, abbassare le condizioni di impiego. Ciò avviene nonostante un articolo del Codice Civile – il 2112 – ed uno del Ccnl metalmeccanico – il 4 – che evidentemente, se non difesi con la lotta, non servono a nulla. A giugno la stessa sorte toccò ad altri 26 operai di Industria e Servizi, anche questa soppiantata dalla Iosa. In un anno e mezzo sarebbero stati licenziati in questo modo circa 250 lavoratori.

Ogni qual volta si sono verificate queste vicende, i sindacati operanti dentro le Acciaierie di Terni le hanno affrontate a sé, come non fossero riguardanti l’intera fabbrica, senza coinvolgere i lavoratori diretti della AST, suggellando così la divisione voluta dal padronato.

I licenziamenti per cambio di appalto sono una delle principali cause di lotta operaia nel settore della logistica, organizzate da quattro anni dal sindacato SI Cobas, che reagisce a queste azioni padronali con scioperi e picchetti che bloccano l’attività produttiva. “Se toccano uno toccano tutti”, questo il motto degli operai della logistica organizzati dal SI Cobas, come fu fino dalle origini del movimento operaio perché esprime la necessità, valida in ogni tempo nel capitalismo, della più vasta unione nella difesa della classe operaia.

Quando una parte di lavoratori è licenziata, un vero Sindacato di Classe deve chiamare a scioperare tutti gli altri a loro difesa. Gli operai in condizioni di maggiore forza devono lottare per quelli più sfruttati e ricattabili; solo così difendono anche se stessi dalla concorrenza al ribasso. Nessun sindacato, in AST, ha fatto questo. Al contrario, come vedremo, gli operai delle ditte terze, che sono stati fra i più combattivi nel lungo sciopero, saranno lasciati soli.

 

La Rsu nel Gruppo AST

A giugno 2014 si sono svolte le elezioni per il rinnovo della Rsu. Nei cinque anni trascorsi dal rinnovo del 2009 la Uilm aveva acquisito quattro delegati – uno dalla Ugl (ex Fim), il coordinatore Rsu dalla Fismic (ex Fiom, ex Uilm, ex Fismic ed infine ex Uilm) e due dalla Fiom – passando così a sei rappresentanti; la Fiom ne aveva persi quattro. Questi passaggi denunciano, quantomeno, come non vi sia sostanziale differenza fra le sigle sindacali.

Nel rinnovo di giugno scorso i delegati da eleggere sono stati tre in meno rispetto a cinque anni prima in conseguenza della diminuzione dell’organico dei lavoratori in fabbrica. La Fim è divenuta il primo sindacato, aumentando voti – 887 – e delegati, dodici. La Fiom è scesa a 723 voti, mantenendo dieci delegati. La Uilm è salita a 462 voti e cinque delegati; la Fismic ha ottenuto 235 voti e quattro delegati; l’Ugl 127 voti e un delegato.

La prima azione della nuova Rsu è stata la proclamazione di uno sciopero di tre ore, il 3 luglio, per chiedere una accelerazione nella presentazione del nuovo piano industriale 2014-2017.

Ciò che un sindacato deve fare di fronte alla presentazione di un nuovo piano industriale non è confidare nella bontà dell’azienda ma preparare e organizzare i lavoratori alla evenienza peggiore perché è dalla loro forza organizzata che dipende la capacità di difendersi. Per altro era noto che il cambiamento al vertice della azienda, con l’arrivo a giugno del nuovo amministratore delegato Lucia Morselli, noto “tagliatore di teste”, aveva lo scopo di adattare la fabbrica alle esigenze imposte dalla crisi economica che naturalmente ha colpito anche il mercato dell’acciaio inox. Era prevedibile un attacco contro i lavoratori e a questo si sarebbe dovuto preparare i lavoratori, sia sul piano della informazione sia su quello pratico, organizzando una apposita cassa di resistenza per un eventuale sciopero. Ma questi elementari compiti non sono stati svolti da nessuno dei sindacati presenti nelle acciaierie ternane.

 

Presentazione del piano industriale e tiepida reazione della Rsu

Il 17 luglio la AST-TK ha soddisfatto la richiesta della Rsu presentando il piano industriale:
- riduzione dell’organico minima di 476 unità - massima di 550 da raggiungere entro settembre 2016, divisa in due fasi: una prima riduzione certa di 220 lavoratori entro fine 2015; a quel punto la valutazione – in base alle condizioni del mercato, dei volumi di vendita e del prezzo medio di vendita – se mantenere i due forni (con riduzione di 476 unità passando a 2.197 lavoratori) o eliminarne uno (con riduzione di 550 unità passando a 2.113 lavoratori);
- riduzione del 10% del costo medio del lavoro attraverso la rinegoziazione della contrattazione integrativa aziendale.

Il piano prevedeva inoltre il passaggio della struttura commerciale in Germania dalla AST alla Thyssen e la fusione delle società controllate con la AST.

Il giorno successivo la Rsu proclama lo sciopero di 24 ore, otto per turno. Si svolge una manifestazione e dal palco parlano i segretari provinciali di Fim, Fiom e Uilm, il responsabile nazionale della Fismic (a novembre passerà alla Ugl), il Coordinatore Nazionale Fiom per la siderurgia e il segretario della Cgil ternana Attilio Romanelli, ex segretario della Fiom provinciale e ancora dipendente della AST in distacco da una decina di anni. Questi papaveri sindacali definiscono il piano industriale inaccettabile, una provocazione. Vuote parole se non si mette in campo la forza per respingerlo.

Il giorno successivo la Rsu annuncia un’ora e mezzo di sciopero da lunedì a giovedì per svolgere le assemblee e dichiara che «con un esubero proclamato di 476 unità non è tecnicamente possibile continuare a produrre con due forni». Vedremo come questa affermazione sarà successivamente smentita per sostenere la “positività” dell’accordo raggiunto.

 

La vigorosa reazione operaia ferma il piano padronale

Concluse le assemblee, venerdì 25 luglio la Rsu proclama quattro ore di sciopero per il lunedì successivo. Lo sciopero è organizzato con una corteo, molto partecipato dagli operai, a testimonianza della forte disponibilità alla lotta, che per un’ora blocca lo svincolo autostradale Terni-Orte. Un nuovo sciopero di sole quattro ore è proclamato dalla Rsu per giovedì 31 luglio, dalle 10 alle 13. Un’altra manifestazione è organizzata presso lo svincolo di Orte, al termine della quale il segretario provinciale Fiom si compiace per la sua “sobrietà” e il suo svolgimento “pacifico”, nonché per la “comprensione” delle forze dell’ordine che avrebbero concesso l’ingresso dei lavoratori in autostrada. Ma non è così che sono andate le cose: polizia e carabinieri avevano predisposto un cordone per impedire il superamento del casello, che gli operai hanno sfondato. Un altro segnale della loro rabbia.

Il pomeriggio, alla notizia della presenza dell’amministratore delegato in una palazzina interna allo stabilimento, dove si stava svolgendo la riunione del consiglio d’amministrazione del gruppo, lo sciopero riprende spontaneamente. Un centinaio di operai si reca alla palazzina, il loro numero cresce con le ore e si fa minaccioso. Solo alle cinque del mattino, l’intervento della polizia – per la prima volta nella storia recente inviata all’interno dell’area siderurgica – permette una fuga precipitosa in auto della Morselli, inseguita di corsa da alcuni lavoratori. Un dirigente della questura è ferito, colpito da un oggetto al volto.

La mattina si svolge un’assemblea con circa duemila lavoratori nella quale sono contestati alcuni sindacalisti – in particolare il segretario provinciale Fismic che biasima quanto accaduto nella notte – e da cui scaturisce la decisione di proseguire con lo sciopero a oltranza fino al 4 agosto, giorno di inizio della fermata estiva.

La mattina stessa la Morselli incontra il ministro dello Sviluppo Economico Guidi. La annunciata procedura di mobilità e la disdetta della contrattazione integrativa sono sospese fino a un successivo incontro previsto per il 4 settembre. Il ministero, in una nota, condanna “in modo netto ogni atto di violenza accaduto nello stabilimento di Terni”. Ma la reazione degli operai ha ottenuto un piccolo risultato e mostra loro quale sia la giusta strada.

La mattina del giorno successivo, sabato 2 agosto, una nuova assemblea decide la fine dello sciopero alle 22,00. Le segreterie territoriali dei sindacati di regime non perdono l’occasione per buttare l’acqua dei loro sermoni pacifisti sul fuoco della lotta operaia e in un comunicato, sottacendo come fosse stata l’azione di forza dei lavoratori a ottenere la sospensione del piano industriale, elogiano la decisione di sospendere lo sciopero frutto “dell’attaccamento dei lavoratori verso la fabbrica e il lavoro”.

 

Il sindacalismo di regime non prepara i lavoratori alla lotta

Il 4 agosto inizia la fermata estiva che durerà fino alle 6 del mattino del 25 agosto. Come detto il piano di ristrutturazione era prevedibile e alla inevitabile lotta era doveroso attrezzarsi per tempo. Dovrebbe essere la principale occupazione di un autentico sindacato dedicare i tempi di tregua non solo al reclutamento e al proprio rafforzamento organizzativo, ma alla preparazione delle lotte avvenire, predisponendo, per esempio, una cassa di resistenza con cui dare sostegno economico ai lavoratori durante lo sciopero. Ma i sindacati di regime non vogliono lo sciopero a oltranza, e quindi si guardano bene dal prepararlo, non lo propagandano e non lo organizzano. I tanti soldi che affluiscono nelle loro casse sono destinati al mantenimento delle loro elefantiache strutture, non a sostenere gli scioperi che, se talvolta proseguono ad oltranza, è solo perché la pressione dei lavoratori è tale che questi falsi sindacati sono costretti, temporaneamente, ad assecondarla.

Anche questa tregua conquistata con la lotta dai lavoratori di Terni, avrebbe potuto essere impiegata per prepararsi allo scontro che, se prima era prevedibile, adesso era certo. Ma come non si era fatto prima, per le stesse ragioni non si è fatto ad agosto e non lo si farà successivamente.

La mancata preparazione dello sciopero a oltranza si colloca coerentemente all’interno della generale concezione della lotta sindacale dei sindacati di regime. Per essi non si tratta di organizzare una prova di forza con cui piegare l’avversario, ma solo di dare testimonianza di un disaccordo. Non vedono la lotta dei lavoratori come un fatto sociale che scaturisce ineluttabilmente dai contrastanti interessi interni all’economia capitalista, dall’insanabile contrasto fra Capitale e Lavoro, ma come un fatto accidentale, conseguenza del comportamento di un singolo imprenditore o di parte della classe padronale, o di un dato governo, per incapacità, corruzione, egoismo, mancanza di una “visione industriale”, ecc. ecc.

Non a caso la Morselli è stata più volte accusata di inadeguatezza da parte dei sindacalisti. Come se, qualora al suo posto ci fossero stati loro, tutto sarebbe filato liscio per gli operai. Come se la Morselli, la “tagliateste”, fosse lì per caso e non per un preciso disegno della proprietà, imposto dalle inesorabili leggi del mercato capitalistico.

La lotta operaia, quindi, non è preparata come una prova di forza ma per far cambiare idea all’azienda, come dirà ripetutamente Landini agli operai in assemblea davanti ai cancelli la sera del 16 ottobre. E visto che si tratta di convincere – non di imporre con la forza i bisogni della classe lavoratrice a una classe che difende i suoi privilegi – ogni santo è buono, ci si rivolge alle istituzioni locali, al governo nazionale, alla Comunità Europea, al mondo della cultura, al Vescovo, al Papa, all’indefinita cittadinanza al di sopra delle sue divisioni in classi, ecc. ecc.

 

La strada della azione sindacale di classe

Il complesso delle azioni messe in campo da questi sindacati non è finalizzato a far crescere la pressione sugli industriali – il che, senza fronzoli, significa colpire i loro profitti – ma a “far salire il livello mediatico della vertenza”! Tutto è impostato su questi binari e a tale scopo sono imbastite un ventaglio di iniziative – anche assai dispendiose per le energie dei lavoratori – escludendo però l’unica basilare azione necessaria per rafforzare la lotta: l’allargamento del fronte di lotta.

I blocchi autostradali e le manifestazioni non sono azioni in sé inutili, possono contribuire a dar forza al movimento, ma diventano solo strumenti per far sfogare la rabbia operaia se non sono di supporto alla azione fondamentale, che deve essere quella di cercare l’unione col resto della classe lavoratrice, a cominciare dalle aziende limitrofe. Oltre che a organizzare lo sciopero all’interno della fabbrica, cosa che evidentemente gli operai sono riusciti a fare molto bene, la parte principale delle tante energie messe a disposizione doveva essere finalizzata a questo scopo. Perché, quanto più sale la posta in gioco, tanto più una lotta, per quanto dura possa essere, se resta chiusa entro i confini della singola azienda, difficilmente può concludersi vittoriosamente.

Invece di andare alla Leopolda, all’ambasciata tedesca, a Bruxelles, invece di presidiare il Comune e la Prefettura, ciò che andava fatto era legarsi coi lavoratori del territorio, prima con quelli già in lotta e poi con quelli che ancora non lo erano. Non è alle istituzioni e agli esponenti politici borghesi che devono rivolgersi i lavoratori ma ai loro fratelli di classe. Perché è vero: i lavoratori sono soli. Possono contare solo sulle loro forze. Le energie andavano usate per volantinare davanti alle altre fabbriche e agli altri posti di lavoro, per organizzare un coordinamento territoriale dei lavoratori, organizzare scioperi nelle altre aziende e sostenervi i picchetti, tutto al fine di dispiegare lo sciopero generale territoriale. Non per un simbolico singolo giorno, come avvenuto il 17 ottobre, ma più a lungo ed estesamente possibile. È tutta la classe operaia, di Terni ed oltre, che bisognava cercare di mobilitare, di cui bisognava cercare la solidarietà. E la solidarietà operaia non è una opinione ma è un fatto ben concreto: è lo sciopero. Bisognava poi appellarsi per una lotta di tutti i siderurgici a livello nazionale, a cominciare dall’Ilva di Genova e Taranto. E a fronte della lotta contro il Jobs Act la battaglia operaia di Terni avrebbe dovuto divenire un esempio per tutti i lavoratori.

Dopo la riapertura della fabbrica il 25 agosto, un altro mese passa in una lunga serie di incontri fra sindacati, azienda e ministero, nei quali i sindacati hanno lasciato che i lavoratori riponessero tutte le loro speranze, senza che nel frattempo si facesse nulla per preparare lo scontro. Il primo incontro il 4 settembre conferma il congelamento delle procedure di mobilità e la disdetta della contrattazione integrativa, e fissa al 4 ottobre il termine ultimo per chiudere la trattativa. Si svolgono così incontri i giorni 8, 11, 12, 19, 23 e 25 settembre, che però non portano a nulla.

Il 1° ottobre l’azienda comunica a mezzo stampa la decisione, unilaterale nonostante i continui incontri, di disporre un incentivo all’uscita, senza mobilità, di 80.000 euro lordi. Nonostante questa sia la mossa più pericolosa e decisiva fatta dall’azienda contro la lotta dei lavoratori – come ben vedremo in avanti – Fim, Fiom, Uilm, Uglm e Fismic non fanno nulla per contrastarla, non mobilitano i lavoratori e come nulla fosse continuano ad “incontrarsi” con l’azienda il 3, 6, 7 e 9 ottobre. Infatti è qui che si giocano le sorti della lotta. Bisognava impedire l’adesione all’esodo incentivato, coi mezzi adeguati allo scopo, scioperando e picchettando fabbrica e uffici. Cosa che i sindacati di regime si sono ben guardati dal fare, in nome del pacifismo e della libertà individuale, che disarmano la classe operaia di fronte a quella padronale, armata fino ai denti della forza che le deriva dalla posizione sociale e politica dominante.

 

La trappola dell’occupazione della fabbrica

Lunedì 6 ottobre Landini torna a scaldare i cuori di chi ancora, e non son pochi, nutre illusioni in lui e nel suo sindacato, dichiarando, in un’intervista rilasciata a “la Repubblica”: «Il Governo deve sapere che noi siamo pronti ad occupare le fabbriche se dovesse passare la linea della riduzione dell’occupazione, dei diritti e del salario dei lavoratori. Una linea che potrebbe trovare una prima applicazione alla Thyssen di Terni». Poche ore dopo gli fa eco il segretario generale della Cgil Umbria Mario Bravi: «Se il governo continuerà ad appiattirsi sulla linea della Thyssen-Krupp (...) siamo pronti ad affiancare i lavoratori di Terni nelle forme di mobilitazione che loro decideranno di mettere in atto, fino all’occupazione della fabbrica».

Ma, ancora una volta, è solo fumo negli occhi. In primo luogo perché l’occupazione della fabbrica non è affatto la massima espressione di lotta della classe operaia, come vuol far credere l’opportunismo. Essa infatti mantiene la lotta entro i confini aziendali. La forma più efficace di lotta della classe lavoratrice è lo sciopero generale, in cui i lavoratori escono dalle aziende e si uniscono nelle piazze come classe. Lo sciopero generale, se è organizzato coi metodi classisti, con picchetti, senza un termine prefissato, rigettando il pacifismo sociale dei sindacati di regime che lo riducono a una passeggiata simbolica ed inoffensiva, assume il carattere di rivolta dell’intera classe operaia, può condurre alla temporanea presa di controllo del territorio ed è una scuola per quella che è la massima mobilitazione politica dei lavoratori, la conquista insurrezionale del potere.

Va poi detto che l’episodio storico in cui l’occupazione delle fabbriche fu messa in atto nel modo più esteso, durante lo sciopero dei metallurgici dell’agosto 1920, si concluse con la sconfitta della classe operaia, non con la vittoria. L’occupazione delle fabbriche fu l’epilogo del famoso biennio rosso e l’inizio della riscossa della classe padronale proprio perché la dirigenza sindacale e politica della classe operaia – la Cgl e il Psi – era anche allora opportunista e si rifiutò di estendere lo sciopero alle altre categorie, andando oltre l’occupazione delle fabbriche. Non c’era ancora il Partito Comunista d’Italia, nato poco dopo, a Livorno nel gennaio 1921, separandosi dal Psi riformista e filo-borghese.

È comprensibile che dei lavoratori vogliano attuare questa forma di lotta. Ma va spiegato loro quali sono i suoi limiti e pericoli e quale la strada della vittoria. L’opportunismo ha invece tutto l’interesse a indicare nell’occupazione delle fabbriche la forma più dura di lotta operaia perché con essa chiude i lavoratori nelle aziende, ostacola la loro unione, ne depotenzia il movimento, l’allontana dall’obiettivo della conquista del potere politico.

Non contraddice questa nostra tesi il fatto che, come avvenuto in questi mesi, i capi del sindacato venduto ai borghesi finché possibile eviteranno di acconsentire anche alla azione di occupazione della fabbrica e si limiteranno ad invocarla. Vi indirizzeranno la classe solo quando questa esprimerà energie tali da minacciare di andare oltre questo obiettivo, al fine di contenerle. Oggi, che le energie di lotta della classe lavoratrice sono ancora deboli, anche questa azione oltrepassa il suo reale stadio di sviluppo del movimento. Mettendola in atto il sindacalismo di regime rischierebbe di radicalizzare i lavoratori. È quindi una carta che giocherà a tempo dovuto, quando spegnere l’incendio della lotta di classe sarà ben più difficile di oggi.

Quindi, come prevedibile, il grido di battaglia di Landini è restato lettera morta.

 

Si rompe la trattativa ma non si organizza la lotta

La notte di mercoledì 8 ottobre, dopo circa dieci incontri, si consuma la rottura. I sindacati, e, pare, anche l’azienda, rifiutano la proposta ministeriale – cui sarà dato il nome di “Lodo Guidi” – che prevede:
- mantenimento delle attuali capacità produttive sulle aree a caldo e a freddo;
- volumi produttivi almeno in linea con quelli degli ultimi tre anni;
- 110 milioni di investimenti più 20/30 milioni per il trasferimento della linea 5 dello stabilimento di Torino;
- eliminazione di ogni parte fissa dalle voci variabili del salario, che saranno legate al raggiungimento effettivo degli obbiettivi, escluso il cosiddetto “premio di produzione 89/93” erogato in forma fissa nella percentuale del 50%.

Dopo la rottura l’azienda pone un ultimatum alle ditte terze entro il quale debbono esprimersi circa la disponibilità a una riduzione del 20% dei costi.

I sindacati motivano il loro rifiuto del Lodo per la clausola che, nel caso in cui non si raggiungano con gli esodi volontari i 290 lavoratori, prevede il licenziamento degli esuberi restanti. Ma come vedremo questa possibilità è molto lontana dal reale stato delle cose.

Qui è importante fare una riflessione “terminologica”: “le parole sono pietre”, come sappiamo bene. I sindacati di regime giocano con le parole “licenziamenti”, “esuberi”, “esodi volontari e incentivati”. Per essi gli esodi incentivati e volontari non sono licenziamenti, quindi una parte degli esuberi la considerano accettabile. Il gioco è presto fatto. L’azienda indica un numero determinato di lavoratori da porre in mobilità. Naturalmente spara alto, come in ogni trattativa commerciale, per ottenere quel che realmente vuole. I bonzi sindacali – che si vantano d’essere grandi professionisti della trattativa – fingono d’ignorare questa banale legge mercantile. Quando l’azienda “accetta” un numero minore di licenziamenti, volontari e incentivati, cantano vittoria, sostengono di aver “difeso l’occupazione” e che, naturalmente, “di meglio non si poteva fare”.

È chiaro che per una azienda di grandi dimensioni gli incentivi dati ai lavoratori che decidono di autolicenziarsi non sono che briciole. Così è andata a Terni e in cento altre vertenze, ad esempio quella Electrolux conclusasi a maggio 2014, che per Landini è stata «un modello da replicare anche in altre realtà aziendali» (“il Messaggero Veneto” del 11 novembre 2014); gli ha fatto eco il governatore regionale leghista Zaia: «La soluzione trovata all’Electrolux di Susegana è un grande modello (...) Serve anche un sindacato capace di accogliere l’innovazione e, all’Electrolux come alla Ducati, le forze sociali dei metalmeccanici hanno dimostrato di essere capaci di raccogliere la sfida. Le dichiarazioni del segretario Landini ne sono la dimostrazione».

Ma vittoria non è affatto. Si tratta di una sconfitta che indebolisce la classe lavoratrice e tradisce i suoi principi: assecondando l’interesse individuale di chi prende i soldi e abbandona la fabbrica viene sacrificato l’interesse collettivo sia dei lavoratori che restano in azienda – meno in numero e quindi più deboli e sfruttati – sia quello generale della classe operaia, in quanto aumentano i disoccupati. Il sindacato così tradisce la sua stessa primaria ragion d’essere – anteporre l’interesse collettivo dei lavoratori a quello individuale per impedire la concorrenza al ribasso fra i salariati – e, quel che è ancora peggio, presenta questa scelta come una vittoria! A comportarsi in tal modo, si badi bene, non sono soltanto i sindacati apertamente gialli o la maggioranza della Cgil, ma anche e soprattutto la Fiom. Un sindacato di classe non agisce con simili ambiguità: lottare contro i licenziamenti significa mantenere inalterato il numero dei lavoratori in azienda.

 

La Rsu torna alla mobilitazione, sotto la spinta operaia

Giovedì 9 ottobre la Rsu organizza un’assemblea dentro la fabbrica per spiegare le ragioni della rottura delle trattative. L’azienda si rifiuta di far entrare gli operai fuori turno e quindi l’assise deve svolgersi in strada. Un fatto positivo perché apre – potenzialmente – l’assemblea a tutti i lavoratori, contribuendo a non far restare la lotta una questione privata dei dipendenti dell’azienda. Viene deciso lo sciopero e la formazione di presidi alle portinerie.

La mobilitazione che inizialmente propone la Rsu è moderata, come già aveva fatto a fine luglio. È indetto uno sciopero fino alle sei del mattino successivo, per poi proseguire con scioperi “a scacchiera” o articolati, ossia divisi per reparto. Anche questa è una forma di lotta cara all’opportunismo – che la presenta come più efficace ed intelligente perché meno dispendiosa in termini di salario perso – al solito sempre pronto a nascondersi dietro le inclinazioni della parte più arretrata dei lavoratori, meno disposta alla lotta e ai suoi necessari sacrifici. Invece, in linea generale, questo tipo di sciopero indebolisce il movimento di lotta che, quando si esprime appieno, lo fa bloccando tutta la fabbrica per unire tutti gli operai e gli impiegati, come era avvenuto a fine luglio, e come avverrà di lì a poco.

Dopo l’assemblea gli operai si recano alla stazione e occupano i binari. È presa la decisione di prolungare lo sciopero fino alle 14 di venerdì, e il giorno dopo di continuare fino a lunedì mattina. Venerdì viene nuovamente occupata la stazione e si svolge il primo di numerosi partecipati cortei notturni. Lo stesso giorno le segreterie provinciali di Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale a Terni per venerdì 17 ottobre. Lunedì mattina termina lo sciopero a oltranza. Nelle intenzioni della Rsu si dovrebbe proseguire in forma articolata fino allo sciopero generale provinciale di venerdì 17.


Vuota il sacco un bonzo in pensione

Lunedì sera, durante un consiglio comunale aperto, il sindaco Di Girolamo e il segretario della Cgil Terni Attilio Romanelli sono duramente contestati da un gruppo di operai. La mattina di martedì – siamo al 14 ottobre – a una portineria dell’acciaieria tiene un comizio Cremaschi, presidente del Comitato Centrale Fiom fino al 2012 e capo della corrente di sinistra nella Cgil “Rete 28 Aprile”. Tenuto conto della partecipazione ai cortei e alle assemblee il comizio è un fallimento perché vi partecipano solo una cinquantina di lavoratori. Ma vi vengono dette cose molto istruttive. Cremaschi incita a contestare i vertici sindacali, con argomentazioni anche in parte condivisibili, e spiega come i lavoratori dell’AST furono fregati dai sindacati nel 2004, nella battaglia per il “magnetico”, il reparto dove si produceva il lamierino magnetico, che a seguito di quell’accordo – naturalmente al tempo presentato come vittorioso – fu poi chiuso. Nessun operaio fu, allora, licenziato ma rapidamente l’organico dell’acciaieria scese di oltre 600 unità. Quell’accordo spiega Cremaschi – ormai fuori dalla struttura Cgil perché in pensione – fu firmato da lui stesso pur sapendo già che sarebbe stato una fregatura, per non andare contro il suo e gli altri sindacati. Una ottima spiegazione di come funzionino realmente le cose nei sindacati di regime, Fiom compresa! Un sassolino che l’ex bonzo si è voluto togliere dalla scarpa – ormai che ben poco ha da perdere, ma anche che già ha fregato i lavoratori – dopo che è rimasto vittima della guerra fra bande interna alla Cgil, cacciato persino a spintoni dal servizio d’ordine della Cgil da un attivo regionale a Milano il febbraio dell’anno scorso. Un operaio che la ricorda bene la firma di Cremaschi – nonostante il mea culpa – non si risparmia dal rinfacciargliela.

Terminato il comizio un altro dei lavoratori presenti spiega come la mattina stessa si fossero presentati 50 lavoratori a dare le dimissioni per incassare l’incentivo e che al termine della vertenza, se le cose andavano avanti così, se ne sarebbero andati in questo modo in quattrocento; ragion per cui, rifiutare la proposta aziendale di 290 esuberi, sarebbe stato non solo inutile, ma perfino dannoso. Esattamente come è andata a finire.


Entrano in lotta i lavoratori delle ditte terze

Mercoledì 15 ottobre è ancora una volta l’iniziativa aziendale a spingere i lavoratori alla lotta. Alla Ilserv, una delle principali ditte terziste, con una maestranza di circa 300 operai, è comunicato il mancato rinnovo del contratto dalle 22,00 del giorno stesso. Gli operai della ditta scendono in sciopero, si riversano in Viale Brin dove si trova, oltre che un ingresso dell’acciaieria, anche la sede dell’Ilserv, la bloccano con alcuni cassonetti poi dati alle fiamme e sono raggiunti col passare delle ore da sempre più operai dell’AST. La vicenda dell’Ilserv riaccende la lotta e da questo momento gli operai di questa e altre ditte terze daranno un contributo costante e fra i più combattivi agli scioperi e ai picchetti.

Nel pomeriggio Bartolini, della segreteria provinciale Fim, cerca di convincere gli operai a rimuovere il blocco e a fare proteste “civili”, ma la sua proposta è respinta dai lavoratori. A sera una nuova trattativa si svolge all’interno degli uffici dell’Ilserv ma non porta a risultati e i rappresentanti sindacali – sia territoriali sia della Rsu – al suo termine dichiarano lo sciopero per tutto lo stabilimento. Il trasporto eccezionale di un grosso pezzo forgiato appena uscito dallo stabilimento è bloccato dagli operai e fatto rientrare in fabbrica. Un nuovo partecipato corteo notturno percorre la città ma questa volta si dirige in periferia fin sotto casa del dirigente responsabile del personale.


Le chiacchiere dei sindacati di regime

La sera del giorno seguente, venerdì 16, all’assemblea in Viale Brin parla Landini, davanti a numerosi lavoratori:
- ribadisce la sua opposizione intransigente ai licenziamenti e alla riduzione del salario: entrambi poi accettati anche dal suo sindacato, nascondendosi per i primi dietro alla foglia di fico della volontarietà;
- spiega come la lotta di Terni abbia un valore non locale ma nazionale: ma nessuno sciopero nazionale sarà organizzato a suo sostegno, né di altre categorie, né dei metalmeccanici e nemmeno dei soli siderurgici;
- ipotizza una manifestazione nazionale – non uno sciopero – dei siderurgici: che non vi è stata;
- sottolinea l’importanza della democrazia sindacale e dell’unità sindacale: in nome della seconda al termine della lotta la Fiom calpesterà la prima;
- spiega come il conflitto sia provocato dai padroni e dal governo e come gli operai non abbiamo bisogno di esso ma di investimenti: a conferma di come la Fiom non predichi né pratichi la lotta di classe ma la concertazione.

Il giorno dopo – venerdì 17 ottobre – un enorme corteo percorre Terni in occasione dello sciopero generale provinciale. Ciò conferma, ma davvero non ce n’era bisogno, la solidarietà di tutti i lavoratori della città verso gli operai dell’acciaieria e come si sarebbe potuto organizzare una mobilitazione più dura ed estesa. Al comizio finale i segretari generali della Cisl e della Cgil sono fischiati da molti lavoratori e il palco, oltre che dal servizio d’ordine sindacale, è difeso anche dalla polizia.

Nel pomeriggio la Rsu sospende lo sciopero dal turno della mattina successiva, in vista di un incontro con l’azienda lunedì. Questa decisione è presa seguendo l’impostazione consueta dei sindacati di regime per cui, come segno di “disponibilità”, “responsabilità” e “distensione”, l’apertura della trattativa implicherebbe l’interruzione dello sciopero. L’esatto opposto di ciò che farebbe un sindacato di classe, che non conta sulla buona o cattiva fede della controparte, ma sulla vittoria in base alla costruzione di rapporti di forza favorevoli, e perciò si presenta alla trattativa con la pressione dello sciopero in corso.


Inizia lo sciopero a oltranza

La “disponibilità” della Rsu è ripagata dall’azienda con la decisione che dà inizio allo sciopero a oltranza vero e proprio: la riduzione dei turni dell’attività fusoria da 21 a 15 e di quelli del treno a caldo da 21 a 18. L’azienda spiega che la riduzione dei turni è necessaria per la diminuzione dei lavoratori dato che sarebbero già in 103 coloro che hanno accettato la proposta di licenziamento incentivato, lanciata dal 1° ottobre. Un incontro per il giorno successivo è rinviato a mercoledì e da questo scaturisce la decisione della Rsu di riprendere lo sciopero.

È mercoledì 22 ottobre. Alla numerosissima assemblea per rendere conto dell’esito dell’incontro con l’azienda parla il coordinatore della Rsu Fiom:
- spiega come, con i 103 fuoriusciti, il piano industriale sia applicato già al 50% e accettare la riduzione dei turni significherebbe avallarlo completamente;
- annuncia che dalle 16,00 viene proclamato lo sciopero a oltranza fino a domenica 26 ottobre e organizzati picchetti delle due portinerie e della palazzina del personale. L’Rsu decide di far picchettare dai lavoratori anche la prefettura ed il comune. È un’azione utile solo a disperdere le energie dei lavoratori, non certo, come si pretende, a “sensibilizzare” le istituzioni, che sono per costituzione “sensibili” solo agli interessi padronali e a cui quelli dei lavoratori possono essere imposti solo con la forza, e non certo con un pacifico “presidio”. Inoltre è condannabile la divisione fra gli impiegati, mandati a presidiare la prefettura, e gli operai suddivisi negli altri picchetti: sarebbe stato meglio stare tutti davanti ai cancelli;
- spiega, giustamente, come il blocco debba essere totale: ma non si affronta il nodo di chi si reca ad accettare l’esodo incentivato, il cancro che consuma silenziosamente la lotta;
- ribadisce l’obiettivo di aumentare “la visibilità mediatica”, che è solo l’apparenza della forza, e a tal scopo organizzare manifestazioni fuori regione e fuori Italia.

Venerdì 24 e domenica 26 sono organizzate due iniziative utili solo a mascherare la mancanza di una visione su quale sia la strada necessaria da percorrere per rafforzare la lotta, ossia estenderla al resto della classe lavoratrice, appellandosi per scioperi di solidarietà ed unendosi alle altre lotte operaie già in corso: venerdì è bloccato per qualche minuto il pullman di una squadra di calcio e la domenica gli operai si recano alla Leopolda per incontrare il presidente del consiglio che, democraticamente, si degna di parlare coi sindacalisti per una decina di minuti, così da poter poi meglio infinocchiare gli operai.

Sabato 25 si svolge a Roma la manifestazione nazionale della Cgil per cambiare il Jobs Act. Dal palco parla anche il coordinatore della Rsu Fiom dell’AST. Un intervento combattivo ma privo della indicazione fondamentale della estensione dello sciopero alle altre categoria, ai metalmeccanici, o almeno ai siderurgici, a supporto di questa lotta che per la sua importanza riguarda tutta la classe lavoratrice.

Lunedì 27 ottobre lo sciopero continua, invece di interrompersi come stabilito dai capi. L’azienda ricatta i lavoratori comunicando che non pagherà lo stipendio di ottobre finché non rientreranno al lavoro. Le segreterie provinciali di Fim, Fiom, Uilm, Fismic e Ugl finalmente comunicano di aver aperto un conto corrente bancario per raccogliere fondi a sostegno della lotta alla AST. Se mai ci fosse da fidarsi della gestione dei soldi a parte di questi sindacati – il segretario generale della Cisl Bonanni si è ritiratosi a settembre con una pensione di 4.800 euro netti – in ogni caso sicuramente si è trattato di una decisione presa davvero tardivamente! Una cassa di resistenza si organizza con mesi di anticipo e non dopo tre mesi e mezzo dall’inizio della mobilitazione, quando il mancato pagamento dello stipendio è messo in atto dall’azienda.


La maschera democratica

Mercoledì 29 i lavoratori si recano su dieci pullman sotto l’ambasciata tedesca a Roma in Piazza Indipendenza. La nuova illusione che si cerca di dar loro – dopo quella che possa servire parlare al capo del governo borghese, come se questi non fosse lì perché difende gli interessi del Capitale contro i lavoratori – è quella che l’ambasciata tedesca possa far pressione sulla Thyssen Krupp per far cambiare politica alla sua dirigenza. Un funzionario dell’ambasciata, anch’esso molto democraticamente, riceve la delegazione sindacale e alla fine del breve incontro rilascia un comunicato in cui, ovvio, non dice nulla. I lavoratori decidono allora di recarsi al Ministero per lo Sviluppo Economico, ma il corteo non è programmato e quando nemmeno è ancora uscito da Piazza Indipendenza si scontra con le forze dell’ordine che manganellano operai e dirigenti sindacali.

La democrazia è una maschera, un guscio, che nasconde la sostanza della dittatura del capitale sulla classe lavoratrice. Se a Terni, il 31 luglio, le forze dell’ordine non avevano reagito, quando gli operai sfondavano il cordone per entrare in autostrada, è perché i lavoratori erano troppo forti, più numerosi e nella loro città, e reagire avrebbe significato per polizia e carabinieri subire un sicuro smacco, cioè prenderne parecchie. A Roma, invece, pur numerosi – circa quattrocento – gli operai erano meno che a Terni, fuori dalla loro città e per di più nella capitale, dove sta la testa del regime politico borghese e quella dei suoi corpi armati. È così bastato che gli operai mettessero un piede fuori dai binari in cui il regime borghese, democraticamente, consente la decantata libertà di opinione – purché non metta in pericolo gli interessi materiali del Capitale – percorrendo duecento metri di corteo non autorizzato, perché si mostrasse il vero volto di questo regime, nonostante a guidare il corteo fossero i suoi servi sciocchi in seno alla classe operaia, ossia quei bonzi sindacali che ingannano i lavoratori sostenendo che la democrazia non maschera ma cambia il capitalismo. L’isterismo del dirigente di polizia che ordina la carica è quello di una classe sociale consapevole che la classe operaia – di cui è terrorizzata da due secoli come da uno spettro – è la sola forza potenzialmente eversiva in grado di abbattere il capitalismo e il suo regime politico, anche se oggi diretta da borghesi travestiti.

Prese le manganellate, Landini si è prodigato col meglio delle sue energie a rincalzare la maschera al regime. In tutti i suoi accalorati interventi – ben ripresi dalle televisioni – ha urlato ossessivamente ai poliziotti che sono lavoratori come gli operai. Sì, il loro lavoro consiste nel consentire ai padroni di continuare a sfruttare i lavoratori. Ma per i celerini contano gli ordini dei superiori non le prediche pretesche di Landini. Questo il segretario della Fiom lo sa bene, ed era infatti agli operai che in realtà si rivolgeva, per frenare la loro rabbia, per tornare a far lor vedere la maschera e non il volto del regime che li opprime.

Ritornata la calma gli operai raggiungono il MiSE e qui incontrano altri due cortei, uno della Jabil di Marcianise (Caserta), i cui lavoratori contestano la delegazione sindacale uscita dall’incontro al ministero, l’altro della TRW di Livorno. Entrambe fabbriche in chiusura. Un episodio davvero istruttivo: le lotte operaie contro i licenziamenti sono così numerose che finiscono per sovrapporsi nonostante l’opera dei sindacati di regime finalizzata a tenerle accortamente separate! Nei pochi minuti in cui questi operai si sono uniti è subito emersa spontaneamente fra loro la solidarietà di classe e la sensazione di disporre di una forza maggiore, la forza dell’unità dei lavoratori che, se fosse organizzata da un vero sindacato di classe, non esiterebbe un minuto a disfarsi di tutte le false argomentazioni aziendaliste con le quali i sindacati di regime illudono i lavoratori di difenderli, a cominciare da quella sulla “qualità” e “strategicità” dell’azienda, come se gli operai delle fabbriche “non strategiche” e non “di qualità” meritassero di essere licenziati! L’unità della classe operaia si costruisce difendendo i bisogni dei lavoratori senza farsi cura della qualità e competitività dell’impresa capitalista, problemi che riguardano gli industriali e che portano i lavoratori a solidarizzare con la propria azienda, contro i lavoratori della aziende concorrenti.


Prosegue lo sciopero

Domenica 2 novembre durante l’assemblea un lavoratore pronuncia per la prima volta la parola “rimodulazione”, ossia propone l’interruzione dello sciopero a oltranza e il passaggio a uno sciopero articolato. Dopo 12 giorni di sciopero l’assemblea rigetta duramente questa proposta e si rifiuta persino di metterla ai voti. I lavoratori reagiscono al ricatto dell’azienda che non vuole pagare lo stipendio di ottobre affermando con maggiore determinazione la volontà di proseguire lo sciopero. L’azienda adduce quale motivazione del mancato pagamento l’impossibilità di preparare le busta paga per mancanza del personale. La Rsu replica che alcuni impiegati, cui ha indicato di entrare per svolgere questo lavoro, sono stati rimandati indietro dall’azienda. Anche i delegati Rsu, per ora, sostengono lo sciopero a oltranza.

Giovedì 6 novembre i lavoratori tornano davanti al MiSE, dove si svolge una trattativa, cui partecipa anche Landini. Uscita la delegazione sindacale dall’incontro, il segretario provinciale della Fim comunica la decisione, in cambio del pagamento dello stipendio entro il lunedì successivo, di sospendere lo sciopero per i lavoratori delle aree Direzione del Personale, Amministrazione di AST, Aspasiel, SdF, Tubificio. La motivazione ufficiale è permettere la preparazione delle buste paga. Ma, evidentemente, non servono tutti gli impiegati per tale compito, men che meno gli operai del Tubificio e della SdF! Un nutrito gruppo di lavoratori contesta duramente la decisione, anche quando a difenderla interviene Landini. La volontà di questi lavoratori a non piegarsi al ricatto dell’azienda è da elogiare. D’altro canto, lunedì gli stipendi saranno pagati e lo sciopero riprenderà anche per queste aree. Ma al di sopra della valutazione sulla correttezza o meno della decisione contingente, ciò che ancora una volta emerge e va sottolineato è da un lato la determinazione a lottare dei lavoratori, dall’altro il fatto – estremamente positivo – che molti di essi non si fidano dei bonzi sindacati di regime, nessuno escluso.

Lunedì 10 novembre la nuova trattativa al MiSE si conclude ancora senza risultati. A Terni gli operai dell’Ilserv si accalcano dinanzi alla Confindustria dove sono riuniti di dirigenti aziendali. Il tentativo di uno di questi di spiegare la situazione ai lavoratori finisce per provocare l’esplosione della loro rabbia. Il dirigente fugge e gli operai hanno un breve confronto con la polizia. La sera, a seguito del tentativo dell’azienda di saldare il cancello della portineria di Viale Brin – dove erano radunati centinaia di lavoratori – per impedirne l’accesso, alcuni operai distruggono le telecamere di sorveglianza della palazzina del personale e danno fuoco all’ingresso. A seguito di questi episodi il giorno successivo il Prefetto riunisce il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. Mercoledì gli operai occupano nuovamente per tre ore l’autostrada.


Fermare lo sciopero: gli appelli padronali

Giovedì 13 la Confindustria ternana lancia un appello, “Tornate al lavoro subito”, in cui, fra l’altro, si legge: «Non è accettabile il ricorso da parte di taluni alla violenza che nulla ha a che vedere con le relazioni sindacali. È urgente interrogarsi seriamente sulle gravissime conseguenze che il protrarsi di posizioni radicali stanno per comportare sul tessuto sociale e produttivo ternano e umbro»; i 23 giorni di sciopero rischiano di «produrre danni incalcolabili non solo per l’acciaieria ma per tutto l’indotto e per la città».

Domenica 16 novembre è l’amministratore delegato a scrivere una lettera aperta agli operai in cui, oltre ad invocare il ritorno al lavoro, naturalmente in armoniosa collaborazione per il comune bene dell’azienda, ribadisce come gli esuberi richiesti siano 290, dai quali vanno dedotti i 165 che hanno già accettato l’esodo incentivato, e come il taglio del contratto integrativo corrisponda a un risparmio aziendale di 14 milioni di euro.

Lunedì la delegazione sindacale si reca a Monaco per un incontro con la dirigenza del gruppo Thyssen e martedì inizia un lungo incontro al MiSE che si conclude, alla presenza dei segretari nazionali dei sindacati di categoria, mercoledì sera. La versione ufficiale dei sindacati è che vi sarebbero dei passi in avanti ma non sufficienti. L’incontro successivo è fissato sei giorni dopo, mercoledì 26.


... e le manovre dei sindacati di regime

Giovedì 20 è la giornata di svolta dello sciopero. I sindacati hanno già deciso che è ora di porvi fine e iniziano a manovrare in tal senso. Nel pomeriggio si svolge una nuova assemblea davanti ai cancelli, ancora partecipatissima, per esporre gli sviluppi della trattativa. Il palco è quello delle grandi occasioni, con il segretario nazionale della Uilm, due membri della segreteria nazionale Fiom, Rappa e Venturi, il secondo responsabile nazionale Fiom per la siderurgia, e, come sempre, i segretari provinciali di Fim e Fiom. Il segretario provinciale Fiom, spiegati quelli che sarebbero gli avanzamenti, si dice favorevole al prosieguo della mobilitazione. Si badi bene, non specifica “dello sciopero a oltranza”! Gli operai però la intendono così e con gli applausi e le grida indicano chiaramente le loro intenzioni. Cui il bonzo Fiom, sapientemente, fa buon viso. Nessun rappresentante della Fim, prudentemente, parla.

Spetta al segretario nazionale della Ugl metalmeccanici e al segretario provinciale della Fismic proporre, per la prima volta apertamente da parte sindacale, la “rimodulazione” dello sciopero. La proposta è respinta dai fischi. Ma questi sindacalisti apertamente filoaziendali ci sono abituati: nella divisione dei ruoli in Rsu e nei sindacati di regime a loro spetta questa parte. Al termine dell’assemblea i sindacati, unitariamente, affermano che lo sciopero prosegue, ma se i lavoratori lo riterranno opportuno si potrebbe pensare ad una rimodulazione delle iniziative. Insomma, i sindacalisti gialli fanno da apripista; gli altri fingono di sottomettersi alla volontà dell’assemblea ma si preparano a spezzare lo sciopero assecondando ogni timido tentativo in tal senso della parte più arretrata dei lavoratori.

Giovedì sera il MiSE commenta la decisione dell’assemblea: «Il governo non può che registrare con preoccupazione il fatto che i sindacati non abbiano ancora scelto forme di lotta più coerenti con lo stadio raggiunto dal negoziato, tali da ridurre finalmente i costi sopportati dai dipendenti e dalle loro famiglie, nonché tali da evitare il rischio grave di compromettere il futuro di Terni sui mercati di riferimento».

Venerdì 21 si svolge a Napoli la manifestazione per il secondo sciopero generale interregionale della Fiom contro il Jobs Act, dopo quello di Milano di una settimana prima. Partecipano anche una quarantina di operai delle acciaierie di Terni iscritti al sindacato metalmeccanico Cgil. Intervistato, un delegato Rsu Fiom, con riferimento all’assemblea del giorno prima, spiega candidamente: «Abbiamo sondato il terreno per verificare la disponibilità dei lavoratori alla rimodulazione dello sciopero. Attualmente la risposta è negativa però vedremo nei prossimi giorni anche in prospettiva dell’incontro di mercoledì 26». Più chiare di così le intenzioni della Fiom – e non solo della Fismic e della Uglm – difficilmente potevano essere spiegate!


L’inganno della difesa del Lavoro

Lo stesso giorno, a Terni, l’ex Coordinatore Rsu Fiom pubblica una lettera aperta per «diffondere il “grido d’aiuto” delle persone che oggi sono ostaggio della vertenza TKAST». E chi sarebbero questi ostaggi? Naturalmente «l’anima responsabile dei lavoratori che sono pronti a riprendere le attività produttive»! Che a farsi promotore di una simile azione per spezzare lo sciopero non sia un qualsiasi lavoratore, nemmeno un semplice iscritto, ma l’ex capo della Rsu della Fiom dice molto sulla natura di questo sindacato, su quali principi in esso si insegnino.

Uno di questi principi l’ex capo Rsu Fiom lo spiega nel prosieguo della lettera: «la mia esperienza sindacale mi ha sempre portato a difendere il Lavoro, ma per farlo le fabbriche devono essere aperte». Sì, le parole sono pietre! Ancora una volta i sindacalisti di regime giocano coi termini per ingannare i lavoratori. Con la formula della “Difesa del Lavoro” non intendono né la difesa di tutti i posti di lavoro né la difesa del salario. Questa formula significa per essi mantenere aperta la fabbrica. Ed infatti a questa indicazione si accompagna sempre quella della “Difesa dell’Azienda”. L’AST non si tocca! Fanno gridare agli operai. Si cambi nome dell’azienda e questo slogan è riprodotto identico in centinaia di vertenze in giro per l’Italia. Tutte vertenze aziendali, le une separate dalle altre, proprio perché impostate su questi binari!

La posizione sindacale di classe chiarisce senza ambiguità che non si difende un vago e indefinito lavoro ma tutti i posti di lavoro ed il salario. Questa però è ancora una impostazione della lotta entro i confini dell’azienda. Per accrescere la loro forza i lavoratori devono unirsi al di sopra delle fabbriche e delle categorie. Il primo passo è unire le lotte contro i licenziamenti con scioperi comuni. E ancora questo è solo un primo passo perché è una unione sulla base di rivendicazioni analoghe, che si affiancano, ma hanno come riferimento sempre la singola azienda, cui si vuole imporre il mantenimento in organico di tutti i lavoratori. Sarebbe certamente un passo in avanti rispetto alla conduzione delle lotte separatamente ma non è ancora una loro fusione in un unico movimento della classe lavoratrice. Per arrivare a questo bisogna partire da una vera lotta contro i licenziamenti, senza mistificazioni operate con le formule degli esuberi incentivati e volontari, unire le vertenze e infine fonderle, elevando il movimento con le parole d’ordine che unificano tutta la classe operaia: Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario e Salario pieno ai lavoratori disoccupati.

Solo questa impostazione sindacale fa uscire i lavoratori dal vicolo cieco di lotte contro i licenziamenti in aziende destinate a chiudere a causa della inevitabile e sempre più profonda crisi del capitalismo. Così impostata, la lotta porta i lavoratori a non rivolgersi più al singolo industriale ma all’intera loro classe, cioè al loro regime politico, dal quale pretendono i provvedimenti necessari a soddisfare i bisogni di vita della classe operaia. Al contrario, se restano chiusi entro i confini aziendali ed al livello primario della lotta contro i licenziamenti, i lavoratori non possono che finire per accettare di abbassare sempre più il proprio salario e la dimensione dell’organico, pur di mantenere in vita l’azienda. Ma questo non significa altro che abbandonarsi completamente alla corrente del mercato capitalista che spinge i lavoratori a farsi concorrenza gli uni contro gli altri a colpi di chi si fa sfruttare di più. Cioè significa abdicare alla funzione del sindacato.

La Difesa del Lavoro è quindi il pilastro dell’azione dei sindacati di regime, non casualmente perché lega i lavoratori all’andamento dell’azienda e in generale del mercato capitalistico, secondo il dogma: o capitalismo o morte. Se muore il Capitale, consumato dal cancro della sua crisi, dovrebbero morire anche i lavoratori, in quanto non vi sarebbe la possibilità storica di una società superiore in cui il Lavoro sia emancipato dal Capitale, dal Profitto. La classe lavoratrice dovrebbe affondare col capitalismo come gli schiavi antichi incatenati alle galere.

La chiave di volta del sindacalismo di classe sono la Difesa del salario e la Riduzione dell’orario. Queste rivendicazioni sono le uniche in grado di generare un autentico movimento unitario della classe lavoratrice che, rivolgendosi direttamente al regime politico borghese, pone già i lavoratori sulla strada del loro unico vero obiettivo politico: la conquista rivoluzionaria del potere. Infatti, per la sua inarrestabile crisi, il capitalismo è sempre meno in grado di sfamare i suoi schiavi salariati. Più essa avanza più le rivendicazioni della riduzione dell’orario e del salario ai lavoratori disoccupati sono intollerabili per la sopravvivenza di questo modo di produzione antistorico e inaccettabili dal suo regime. La lotta per i bisogni dei lavoratori li conduce allo scontro mortale col regime del capitale.


La questione della Nazionalizzazione

Abbiamo spiegato perché la forma di lotta operaia più potente e radicale non è l’occupazione della fabbrica ma lo sciopero generale: la prima chiude i lavoratori dentro l’azienda; la seconda unisce la classe operaia nel territorio e, se lo sciopero generale è condotto con i metodi e i principi della lotta di classe, è una palestra insurrezionale.

Passando dal piano delle forme di lotta a quello delle rivendicazioni si può fare una simile contrapposizione fra gli obiettivi massimi sopra indicati – riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, salario pieno ai lavoratori disoccupati – e quello della nazionalizzazione delle aziende.

I primi sono le rivendicazioni supreme della lotta economica dei lavoratori perché uniscono tutta la classe e sono i più suscettibili a farle compiere il salto dal piano economico a quello politico: dalla lotta per i propri bisogni immediati, economici, a quella per la conquista rivoluzionaria del potere.

Di fronte a crisi aziendali di grandi fabbriche – come nel caso della AST TK – la nazionalizzazione può essere per i lavoratori una soluzione per salvare il posto di lavoro. Ma è una strada che possono percorrere i lavoratori delle aziende maggiori, quelle che l’opportunismo definisce “strategiche” per il paese, cioè per il capitalismo nazionale. Non è una rivendicazione che interessa tutta la classe lavoratrice ma una sua parte minoritaria.

È poi un obiettivo il cui orizzonte è ancora rinchiuso entro la sfera aziendale, al pari della lotta contro i licenziamenti. Tante lotte aziendali contro i licenziamenti possono essere unite in scioperi comuni. Sarebbe un passo in avanti importante nell’unione della classe lavoratrice. Ma si tratterebbe ancora di una sommatoria di lotte aziendali e non di un movimento della classe per un unico comune obiettivo. Analoga situazione sarebbe unire le lotte delle grandi aziende in crisi con l’obiettivo della nazionalizzazione, con la differenza che questo movimento coinvolgerebbe un numero inferiore di lavoratori di quello contro i licenziamenti ed anzi andrebbe ad indebolirlo, dividendo il fronte operaio fra lavoratori delle grandi aziende, che lottano contro il licenziamento chiedendo la nazionalizzazione, e lavoratori delle piccole aziende. Evidentemente, invece, la lotta per il salario pieno ai lavoratori disoccupati e la riduzione dell’orario di lavoro interessa tutti i lavoratori e fa salire di potenza la unione delle lotte contro i licenziamenti fondendole in un movimento per un comune obiettivo.

Ma vi è un’altra ragione ugualmente importante per la quale va rigettata la rivendicazione della nazionalizzazione. L’idea che il padrone statale sia migliore di quello privato è falsa. Lo Stato non è al di sopra delle classi, un arbitro che concilia gli interessi opposti del Lavoro e del Capitale, ma è la più potente macchina della classe dominante per mantenere assoggettate le classi inferiori. Nel capitalismo lo Stato non è, come insegna l’ideologia democratica, dei cittadini ma della borghesia. I lavoratori avranno un loro Stato solo quando conquisteranno il potere politico con la rivoluzione, cioè distruggendo la macchina statale borghese.

Lo Stato che ha difeso gli interessi della proprietà delle acciaierie di Terni, fino a bastonare gli operai, se dovesse prendere in proprietà questa o altre fabbriche, lo farebbe per difendere l’interesse del Capitale nazionale e non più, come ha fatto in questa occasione, quello internazionale. Sfrutterebbe i lavoratori non diversamente da come fa il capitale straniero o privato. Ma il capitalismo è un inestricabile groviglio di interessi mondiali. Non c’è assolutamente una reale contrapposizione fra capitale nazionale ed internazionale. Tutti i capitali, e i capitalisti, sono in concorrenza gli uni con gli altri, e così pure i loro Stati. Ma tutti sono uniti contro il comune nemico: la classe lavoratrice di tutti i paesi.

La nazionalizzazione non è affatto incompatibile col capitalismo. È un provvedimento che nella storia hanno intrapreso governi borghesi d’ogni genere, in tempi di crisi come di crescita: dalla democrazia di Washington durante la Grande Depressione negli anni Trenta del Novecento, ai regimi nazifasciti di Roma e Berlino, alle democrazie europee del secondo dopoguerra. In tutto il mondo è una rivendicazione agitata anche da partiti e movimenti di estrema destra, come Casapound in Italia e Alba Dorata in Grecia.

Che il proprietario sia pubblico o privato, nazionale o straniero, i lavoratori devono difendere i loro bisogni e lo possono far tanto meglio quanto più si uniscono sulla base della loro rivendicazione, senza farsi carico di problemi che non li riguardano, quale ad esempio la forma della proprietà.


Aperto tradimento di tutta la Rsu

La lettera dell’ex coordinatore Rsu Fiom si conclude con una indicazione che sintetizza alla perfezione il compito dei sindacati di regime: «Le organizzazioni sindacali che hanno guidato questa vertenza nell’accenderla ora per responsabilità dovranno farlo per spegnerla». In parole povere: fare i pompieri! L’appello del crumiro – pare sia entrato in fabbrica per tutti i giorni dello sciopero! – non sarà fatto cadere nel vuoto dai suoi ex compagni di sindacato.

Il giorno dopo, sabato 22 novembre, è messa in campo una nuova iniziativa dietro la quale non è difficile vedere l’azienda: un’assemblea dei lavoratori delle ditte terze favorevoli alla ripresa dello sciopero. Peccato che l’iniziativa fallisca completamente per l’esiguità dei partecipanti!

Ma ciò non conta. Un timido tentativo di due sindacalisti giallo-neri della Fismic e dell’Uglm, la lettera di un crumiro e una assemblea anti-sciopero disertata dai lavoratori bastano a tutta la Rsu per riunirsi domenica 23 novembre, calpestare la decisione dell’assemblea di tre giorni prima e decidere la “rimodulazione” dello sciopero! La Fiom, che si riempe la bocca ad ogni passo con la formula mistificatoria della “democrazia sindacale”, non esita a sputarla e calpestarla in nome dell’altra grande formula ingannatrice: l’unità sindacale.

La “rimodulazione” è prevista a partire da mercoledì 26, dopo 35 giorni di sciopero a oltranza. Data l’evidente delicatezza della situazione, lunedì 24 Landini è già a Terni per svolgere un’assemblea degli iscritti Fiom nella quale serrare le file interne al suo sindacato e spiegare bene cosa raccontare agli operai. Per sviare l’attenzione dei lavoratori dal tradimento di tutta la Rsu, gettando un po’ di fumo, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio attacca Landini per aver affermato che mercoledì “non si può fare un accordo a tutti i costi”. Certo, a tutti i costi bisognava solo fermare lo sciopero!


Una amara sconfitta che i sindacati di regime hanno il coraggio di chiamare vittoria

Da mercoledì i lavoratori iniziano a tornare al lavoro e si passa allo sciopero per reparti, che è solo un modo per arrivare gradualmente alla completa smobilitazione, limitando le reazioni da parte dei lavoratori più combattivi. Venerdì 30 è fatto uscire il primo treno carico di acciaio, destinato alla Marcegaglia di Mantova. Mercoledì 3 dicembre, alla presenza dei segretari nazionali di categoria – per la Fiom Landini, Rappa e Venturi – dei segretari provinciali e di tutta la Rsu, è firmato l’accordo.

La fine dello sciopero dà la stura alla corsa per l’incentivo e l’abbandono della fabbrica: il 3 dicembre sono già 296. L’obiettivo che l’azienda aveva indicato il 17 luglio nel suo piano industriale era una riduzione di 220 lavoratori entro fine 2015 e di 476 o 550 entro settembre 2016. Il primo traguardo padronale è quindi raggiunto e superato con dodici mesi di anticipo. Lo stesso vale per il cosiddetto Lodo Guidi dell’8 ottobre che prevedeva 290 esuberi ed era stato rifiutato dai sindacati perché se non fosse stato raggiunto tal numero i lavoratori sarebbero stati licenziati – messi in mobilità – senza il criterio della volontarietà.

Al 13 gennaio gli esodi volontari hanno raggiunto quasi le 400 unità. Anche il segretario generale della Cgil di Terni, Attilio Romanelli, il 3 gennaio dà le dimissioni dall’AST e intasca l’incentivo!

Il 22 ottobre, primo giorno dei 35 giorni di sciopero a oltranza, nell’assemblea per organizzare i picchetti, il Coordinatore Rsu Fiom aveva spiegato come i 103 esodi volontari già incassati allora dall’azienda avevano realizzato oltre il 50% del suo piano industriale. Ora questo numero è quadruplicato.

Non finisce qui. A innescare lo sciopero a oltranza era stata la decisione aziendale di ridurre i turni dell’attività fusoria da 21 a 15 e di quelli del treno a caldo da 21 a 18. L’azienda aveva giustificato questa decisione con la mancanza di personale dopo che i primi 103 lavoratori avevano accettato l’incentivo per abbandonare la fabbrica. Ora che gli esodi sono quattrocento l’AST ovviamente ha mantenuto la riduzione dei turni introdotta il 21 ottobre.

Da questi dati emerge tutta la fallacia della impostazione – prettamente aziendalista – data alla vertenza dai sindacati della Rsu: il complesso delle rivendicazioni, secondo costoro, doveva partire dalla richiesta di un vero piano industriale, da cui sarebbero dipesi un minor numero di esuberi – non hanno mai nemmeno provato a puntare al completo rifiuto di ridurre l’organico – e un minor taglio del salario. Si sta verificando l’esatto contrario: il numero di uscite volontarie è tale da non permettere la produzione di un milione di tonnellate di acciaio colato, obiettivo sbandierato come una vittoria dai sindacati di regime! Fu la stessa Rsu a dirlo, nel suo comunicato del 18 luglio: «Con un esubero proclamato di 476 unità, non è tecnicamente possibile continuare a produrre con due forni contemporaneamente».

Le rivendicazioni dei lavoratori dovevano invece attestarsi sulla opposizione ad ogni licenziamento o esubero, come lo si voglia chiamare, e sulla difesa del salario, senza farsi carico dei problemi aziendali. Di fronte ai successivi tentativi di scaricare sui lavoratori la sovracapacità produttiva, battersi per la riduzione dell’orario di lavoro, su un piano generale di classe, unendo le vertenze, visto che il problema investe l’intera economia capitalista, centinaia di aziende, centinaia di migliaia di lavoratori.

Ma non è solo sul piano della riduzione dell’organico in fabbrica che l’accordo è una sconfitta. I lavoratori delle ditte in appalto, che sono stati una componente fondamentale della lotta con la loro combattiva partecipazione ai picchetti e alle manifestazioni, sono stati abbandonati a se stessi, con la beffa di sentirsi dire che la loro posizione sarebbe garantita dal Ccnl metalmeccanico, quando è dimostrato che esso non li difende in nessun modo dal licenziamento in caso di cambi di appalto! I sindacati di regime hanno tradito questi lavoratori e tutta la classe operaia, approfondendo una volta di più la divisione fra dipendenti diretti e quelli degli appalti. Non a caso, il referendum separato organizzato dai sindacati per i lavoratori delle ditte terziste è stato quasi del tutto disertato. E alcuni lavoratori stanno tentando di darsi una autonoma organizzazione di lotta.

Quanto alla contrattazione integrativa i piccoli miglioramenti rispetto a quanto proposto inizialmente sono briciole e il taglio del salario si aggirerà sui duemila euro annui.

In conclusione, se l’8 ottobre i sindacati avessero accettato il Lodo Guidi chiedendo che al raggiungimento delle 290 unità esodate fosse fermato l’incentivo, il danno subìto sarebbe stato minore e si sarebbe soprattutto evitato quello che in fondo è l’effetto più disastroso per la classe operaia: la convinzione – derivante dalla sconfitta – che scioperare, anche a oltranza per 35 giorni consecutivi, non serva a nulla!

È da evidenziare come l’accordo sia stato presentato dalla Fiom, all’esterno della fabbrica, al resto della classe lavoratrice, come una vittoria. Ciò è importante perché denota il grado di menzogna di questo sindacato. Il manifesto nazionale della Fiom sull’esito della vertenza recita: “La lotta paga! Tutelati il Lavoro, il Salario, i Diritti”. Non è il caso di commentare.

Due aspetti vanno però sottolineati. Il primo è che in fabbrica, nelle assemblee, ben diversamente è stato presentato l’accordo: non come una vittoria ma con il classico “di meglio non si poteva ottenere”. Il secondo è che la valutazione dei sindacati è identica a quella di tutta la vasta gamma di componenti del fronte borghese: dal vescovo, ai capi delle istituzioni locali, ai vertici di Confindustria, al capo del Governo, per finire con la direzione aziendale. Tutti dicono la stessa cosa: l’accordo è un successo per lavoratori e azienda.


L’inganno della democrazia sindacale

Una riflessione va fatta sull’estrema trincea dei sindacati di regime: quella del referendum. La bontà dell’accordo, affermano, è dimostrata dalla approvazione da parte di lavoratori. Un esercizio di democrazia a cui i sindacati non si sottraggono. Ma che scelta avevano i lavoratori dopo che uno sciopero a oltranza di 35 giorni era stato spezzato? Un volta interrotto, lo sciopero non riparte perché esso non è una azione freddamente pianificata a tavolino ma un caldo fenomeno della lotta sociale, della lotta di classe. Lo sciopero è come un incendio e i pompieri dei sindacati di regime, appena possono, lo spengono.

Quella della democrazia sindacale è un vile inganno. Nessuno meglio del segretario nazionale della Uglm poteva, involontariamente, spiegarlo. Al termine dell’assemblea del 20 novembre, fallito per il momento il tentativo di spezzare lo sciopero, intervistata ha spiegato: «Nelle assemblee di questo tipo, fatte in piazza [cioè con sciopero in piedi, ci sembra meglio dire], quello che più si evidenzia è lo spirito di contrasto, di ribellione, di forza. Magari c’è una maggioranza silente che ha altro in testa ma che, per una serie di motivi, non lo viene a dire». Il motivo per cui la parte silente non manifesta la sua volontà è il timore che le induce la parte organizzata e combattiva dei lavoratori. Lo scopo dei sindacati di regime è semplice: far prevalere la parte più arretrata dei lavoratori su quella più avanzata. E a tal fine il referendum, in cui il voto di un crumiro che è andato tutti i giorni a lavorare ha lo stesso peso di chi sciopera da 35 giorni, è lo strumento ideale. La lotta operaia non è una questione di democrazia ma di forza! Gli operai più combattivi devono organizzarsi e solo su questo criterio basare il carattere della propria azione.


Lezione di una sconfitta

Lo sciopero di Terni mostra come i lavoratori non hanno perso la volontà di lottare e che lo sciopero ad oltranza e la lotta di classe non appartengano solo al passato. Al contrario sono la strada per il riscatto futuro dei lavoratori. Ma questa disponibilità alla lotta ha bisogno di un vero sindacato di classe per emergere e per non essere dilapidata.

La chiave del problema è nell’organismo che dirige la lotta dei lavoratori. La lotta degli operai di Terni è stata esemplare: uno sciopero a cui in Italia, per numero di operai coinvolti e durata, non si assisteva dal 1980, dallo sciopero alla Fiat di Torino, anch’esso durato 35 giorni e conclusosi con una sconfitta. Oggi come allora la lotta è stata tradita dai sindacati di regime.

La condotta degli operai più combattivi è stata improntata a controllare l’operato dei sindacati. I sindacalisti, sia i bonzi territoriali e nazionali, nessuno escluso, sia i delegati della Rsu, sono stati oggetto di non poche contestazioni. Ma alla lunga, quando ha iniziato ad emergere la stanchezza, i sindacati hanno spezzato lo sciopero senza che vi sia stata una reazione organizzata da parte degli operai. Vi sarebbe potuta essere solo se si fosse formata una organizzazione di lotta alternativa ai sindacati della Rsu prima o almeno durante lo sciopero che si fosse guadagnata la fiducia di una parte dei lavoratori in modo da poter denunciare il tradimento della Rsu, ma soprattutto organizzare, nonostante esso, la prosecuzione dello sciopero.

La illusione degli operai di poter utilizzare i sindacati di regime, controllandoli e facendo su loro pressione, si è dimostrata ancora una volta fallimentare. La grande battaglia degli operai di Terni conferma la necessità di organizzarsi fuori e contro tutti i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), di togliere la direzione delle lotte nelle aziende alle Rsu che sono, a maggior ragione dopo la firma del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, completamente sottomesse a queste false organizzazioni sindacali. Se vi è qualcosa di onesto alla base di questi sindacati e nelle Rsu esso deve fare i conti con queste atroci sconfitte e questi infami tradimenti, smettere di esserne complice e porsi coi lavoratori più combattivi sulla strada della ricostruzione del sindacato di classe fuori e contro i sindacati di regime.


 
 
 
 
 

 

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

 

31. La chimera del panarabismo

(continua dal numero 368)

Pezzo su pezzo, le potenze occidentali venivano completando un poderoso sbarramento sulle vie di accesso russo al Medio Oriente. La cessione delle armi all’Egitto era il tentativo della Russia di rompere l’accerchiamento e di attestarsi alle spalle del nemico. Di qui il contrattacco anglo-americano in Persia, l’unica potenza confinante con la Russia che ancora si teneva fuori dal patto anglo-turco-iracheno-pakistano.

Mentre in Europa la linea di demarcazione fra i due blocchi era chiaramente tracciata e stabilita non si può dire lo stesso per l’area mediorientale dove gli Stati arabi per la loro posizione strategica e le immense riserve di petrolio costituivano la posta delle rivalità tra i blocchi. Gli Stati Uniti tenteranno, almeno all’inizio, di prevalere con l’aiuto economico e con le alleanze militari indirette, mentre la Russia appoggerà la Siria e l’Egitto soprattutto con la fornitura di armi.

Nel mondo arabo, ad onta dell’unità etnica e linguistica, la centralizzazione del potere politico era tutt’altro che una realtà. Gli arabi erano racchiusi entro Stati prefabbricati, cioè fabbricati dall’imperialismo e dai suoi agenti, divisi da ignobili questioni dinastiche, pidocchiosamente attaccati ai loro interessi particolari, divorati vivi dai manigoldi dei monopoli capitalistici stranieri, invischiati nelle mortifere alleanze militari dell’imperialismo. Gli Stati arabi non solo non incuteranno timore agli imperialisti, ma si faranno pedine dei loro giochi.

L’elevazione della “nazione araba” in uno Stato unitario steso dall’Iraq al Marocco sarebbe stato certamente – nel quadro borghese – una aspirazione rivoluzionaria. Ma l’ideologia e la politica del panarabismo di tipo nasseriano era lungi dal rappresentare un movimento rivoluzionario di massa: non si accompagnò ad alcun rivolgimento sociale, limitandosi ad innestare nella stessa struttura sociale su cui poggiava la monarchia, un regime politico che differiva da quello antico solo negli orientamenti di politica estera, a loro volta resi possibili unicamente dall’urgere di nuovi rapporti di forza tra le grandi potenze mondiali. La pretesa rivoluzione del 1952 neppure sfiorò gli strati profondi della società egiziana, che continuarono a vivere nella gabbia di rapporti produttivi arretratissimi, e non espresse nemmeno la prepotente volontà di ascesa di una borghesia degna di questo nome.

È incontrovertibile che contro la dominazione dell’aristocrazia latifondista, i cui rappresentanti vivevano nel lusso al Cairo e ad Alessandria, il regime non alzò un dito. La redenzione dei fellah nei miserrimi villaggi nilotici, dove trascinavano un’esistenza atroce insidiata dalla fame e dalle malattie, fu affidata ad un problematico piano di colossali opere di irrigazione che avrebbe dovuto aumentare in un incerto avvenire la terra coltivabile. Una rivoluzione borghese “fino in fondo” all’epoca dell’imperialismo è ancora più irrealizzabile che in passato se i nuovi poteri subentrati ai vecchi non nascono sull’onda di grandiosi movimenti di masse sfruttate e non poggiano sulla loro forza armata. In realtà, nei paesi mediorientali molte monarchie feudali si trasformeranno senza grandi scosse in monarchie borghesi continuando a governare sotto nuove spoglie. E anche dove la monarchia è stata sostituita dalla repubblica l’avvenimento è da considerare il frutto di rivolte militari ristrette piuttosto che di movimenti politici di massa.

Seguendo il filo degli avvenimenti degli anni Cinquanta, che videro numerosi scioperi operai in Libano, Iraq, Giordania, il fatto più importante è del luglio 1952, quando in Egitto, dopo diversi mesi di grandi dimostrazioni popolari e importanti scioperi operai culminati nello sciopero generale del gennaio, re Faruk è costretto ad abdicare dalla sollevazione dell’esercito guidato dal gruppo dei “Liberi Ufficiali”. Sempre nel 1952 in Libano va al potere Camille Chamoun, personaggio legato a doppio filo all’occidente e amicissimo del re Abdullah di Giordania, assassinato un anno prima da un arabo palestinese.

Con la salita al potere di Nasser la politica di nazionalizzazione della repubblica egiziana riprende la bandiera del panarabismo, della grande patria araba unita, cerca di ridare vigore alla Lega Araba costituitasi fin dal 1945, fra Egitto, Arabia Saudita, Yemen, Transgiordania, Iraq, Libano e Siria, che aveva mostrato tutta la sua impotenza, la sua inefficacia, i limiti del federalismo nella guerra del 1948 contro Israele.

Il primo colpo al rinato panarabismo lo darà, come abbiamo visto, l’Iraq quando nel 1954 si alleò alla Turchia, entrata due anni prima nella Nato, per poi aderire, nel 1955, al patto di Baghdad. Nel febbraio del ‘54 una rivolta rovescia in Siria la dittatura di Shishakli, aprendo un periodo di instabilità politica. In Giordania nel 1955 vi furono vasti movimenti popolari contro l’adesione al patto di Baghdad e le elezioni del ‘56 diedero origine ad un governo filo-nasseriano.

Non meno spinose controversie dinastiche e territoriali oppongono l’Arabia Saudita alla Giordania, la pupilla degli inglesi, che occupa i territori di Maan e Aqaba, dei quali la prima si considera defraudata. Un cenno a parte merita la questione dell’oasi di Buraimi rivendicata sia dall’Arabia Saudita sia dall’Emirato di Abu Dhabi. Mentre il petrolio dell’Arabia Saudita era nelle mani delle Compagnie americane, gli inglesi avevano sotto la loro protezione l’Emirato. Nel 1952, l’oasi, che si supponeva ricca di petrolio e che vi verrà effettivamente scoperto nel 1958, fu occupata dalle truppe saudite. La Gran Bretagna portò la questione davanti a una corte arbitrale e alla fine dell’anno formazioni militari di Abu Dhabi, guidate da ufficiali inglesi, cacciarono le truppe saudite da Buraimi. L’occupazione militare britannica ottenne il duplice scopo di dare una risposta intimidatoria all’Arabia Saudita, che in quei giorni stipulava il trattato di alleanza con l’Egitto, e di mettere le mani su una zona di interesse petrolifero.

Il 26 luglio 1956 Nasser nazionalizzò il canale di Suez gettando le premesse per la seconda guerra arabo-israeliana. L’Egitto era stretto nella morsa dei grandi imperialismi. L’antefatto fu il rifiuto, il 19 luglio 1956, da parte degli Usa del finanziamento per la costruzione di una grande diga ad Assuan. Il vero motivo era senza dubbio l’arrivo di moderne armi russe e cecoslovacche in Egitto e l’annuncio di una conferenza “neutralista” che riunì nell’isola jugoslava di Brioni (18-20 luglio) Nasser, Tito e Nehru. Il rifiuto americano era un colpo grave al prestigio di Nasser, e in ogni caso il fallimento di un’opera in grado di irrigare un milione di ettari ed accrescere il livello di vita di centinaia di migliaia di famiglie. Così Nasser il 26 luglio nazionalizzò la Compagnia del canale di Suez, proibendo il passaggio alle navi israeliane e a quelle che trasportavano merci verso Israele.

Lo schieramento delle potenze fu immediato. Pressioni per far ritirare la nazionalizzazione vennero subito dai governi francese, cosciente del ruolo di Nasser nella guerra d’Algeria e per il fatto che la Francia deteneva numerose azioni della Compagnia, e britannico, contrariato nel veder prendere questa decisione meno di due mesi dopo la partenza dell’ultimo soldato di Sua Maestà dall’Egitto e per l’importanza del canale per la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti stettero un po’ alla finestra, essendo più interessati al mantenimento di buone relazioni con i paesi arabi produttori di petrolio che al transito per il canale. La Russia al contrario appoggiò subito la nazionalizzazione.

Mentre in campo internazionale fervevano incontri e conferenze per risolvere il problema, alla fine di settembre si verificarono degli incidenti alla frontiera giordano-israeliana. La Giordania, esitante fra Nasser e gli Stati hascemiti, era molto agitata e truppe irachene stazionavano nel Nord del paese, con grande disappunto di Israele. Il 24 ottobre, subito dopo le elezioni, che avevano visto il trionfo degli anti-occidentali, la Giordania firmò un accordo con la Siria e l’Egitto che prevedeva la creazione di un comando militare comune. Ancora più grave era per Israele la presenza sul territorio egiziano del Sinai di depositi di armi di provenienza sovietica. A questo punto, prese corpo la logica della guerra per il petrolio insieme all’estremo tentativo di Francia ed Inghilterra di rientrare dalla finestra nella loro vecchia area storica.

Il 24 ottobre diplomatici ed alti ufficiali britannici e francesi si incontrarono vicino Parigi con esponenti del governo israeliano, di cui facevano parte Ben Gurion, Moshe Dayan e Shimon Peres, per concordare una strategia comune. Nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, forte della sua superiorità militare, il governo di Ben Gurion decise d’invadere il Sinai. La spedizione israeliana rivelò subito l’estrema debolezza militare dell’Egitto. Il 30 ottobre, la Francia e l’Inghilterra, prendendo a pretesto la paralisi del Consiglio di Sicurezza, lanciarono un ultimatum ai due belligeranti di cessare le ostilità e di ritirare le loro truppe a 16 chilometri dal canale. Israele accettò subito l’ultimatum che l’Egitto invece respinse. Francesi e inglesi speravano di forzare la mano a Nasser, contando sull’astensione degli Stati Uniti – che non erano stati consultati – e della Russia, in preda alle serie difficoltà causate dalla rivolta ungherese.

Sul piano militare Israele raggiunse tutti i suoi obiettivi nel Sinai il 5 novembre. Fin dal 1° novembre il Cairo aveva chiesto alla Siria di far saltare gli oleodotti, il che fu immediatamente realizzato. Gli egiziani affondarono numerose navi nel canale, ma dopo una settimana di bombardamenti degli aeroporti egiziani, che non opposero alcuna resistenza (una nave da guerra egiziana si arrese persino, senza combattere, agli israeliani), il 5 novembre i paracadutisti franco-britannici occuparono Porto Said, poi sbarcarono le truppe.

A questo punto il presidente Usa Eisenhower cominciò a suonare la grancassa: l’intervento franco-britannico significava la rottura del fronte atlantico, era “un colpo fatale inferto alle Nazioni Unite”, una slealtà nei confronti di Washington, una manifestazione di colonialismo per i paesi arabi ed asiatici. A sua volta la Russia, dopo aver invano proposto agli Stati Uniti un intervento militare congiunto, il 5 novembre alle ore 23,30 lanciò un ultimatum alla Francia, alla Gran Bretagna e ad Israele. Il maresciallo Bulganin denunciò l’aggressione e ventilò la possibilità di usare le più moderne armi offensive, soprattutto missili, contro i tre paesi. Il 7 novembre l’Assemblea generale dell’Onu votò con 64 voti e 12 astensioni la creazione di una forza internazionale incaricata di sostituire i franco-britannici. Questi ultimi avevano dunque fallito, dimostrando che l’autonomia di intervento delle potenze medie era ormai quasi nulla. L’intervento anglo-francese, invece di assicurare il controllo internazionale del canale, si concluse con la sua temporanea chiusura a causa dell’affondamento di parecchie navi e alla interruzione degli oleodotti. Per la prima volta l’Europa occidentale assaggiò le restrizioni e fu costretta ad importare carburante dal Texas. Il risultato principale della guerra per Suez fu l’eliminazione quasi totale dell’influenza francese e britannica in quella regione-chiave.

All’inizio del 1957 gli Stati Uniti si fanno nuovamente avanti per consolidare la loro influenza sull’area. Il 5 gennaio Eisenhower presenta al Congresso un piano per la politica americana in Medio Oriente che si articolava in 3 punti: intervenire con massicci aiuti in appoggio dei governi amici; fornire, ad arbitrio del presidente stesso, un sostegno militare a Stati o gruppi di Stati che lo richiedessero; approntare forze militari americane per intervenire direttamente al fianco degli Stati mediorientali minacciati dal “comunismo internazionale”.

Questa politica si concretizzerà nei mesi successivi in Giordania e in Libano. In Giordania un colpo di Stato dell’esercito appoggiato dal re liquidò il governo filonasseriano di Nabulsi, mentre la Sesta flotta americana, di stanza nel Mediterraneo, si dichiarava pronta ad intervenire per salvare l’integrità e l’indipendenza della Giordania. Dieci milioni di dollari furono il premio concesso da Washington al sovrano hascemita in cambio della fedeltà all’occidente. In Libano nel maggio del ‘58, come reazione al governo dittatoriale di Chamoun scoppiava uno sciopero generale che si trasformò in una vera e propria insurrezione che incendiò l’intero paese.

In Iraq, all’alba del 14 luglio 1958, due brigate dell’esercito iracheno comandate dal colonnello Abdel el-Kassem, sorrette dall’appoggio popolare e dai partiti clandestini, si impadronirono dei punti strategici della capitale mentre la radio trasmetteva le note della Marsigliese. La famiglia reale fu fucilata e il ministro Nouri al-Said, catturato dalla folla, linciato. La proclamazione della Repubblica metteva fine, insieme alla monarchia, al progetto inglese di una federazione di monarchie arabe. Kassem ritirò l’Iraq dal Patto di Baghdad e denunciò i preesistenti accordi petroliferi, limitando le concessioni alle Compagnie straniere. Inoltre si accostò alla Russia e ai comunisti iracheni.

Per circoscrivere il contagio, le potenze occidentali decisero di procedere ad una operazione militare di vaste proporzioni. Il 15 luglio una flotta di una cinquantina di navi americane, tra cui due portaerei, sbarcano in Libano 10 mila soldati, mentre forti contingenti di paracadutisti inglesi arrivano ad Amman, chiamati da re Hussein di Giordania alle prese con grandi sollevazioni popolari, soprattutto dei profughi palestinesi che costituivano la grande maggioranza della popolazione giordana. Tuttavia inglesi e americani non osarono attaccare direttamente la nuova repubblica irachena temendo una guerra lunga e logorante.

Kassem governerà per cinque anni prendendo qualche provvedimento populista a favore delle classi meno abbienti, ma senza alcun reale mutamento della situazione sociale. Era soprattutto un nazionalista iracheno e perciò la sua politica estera fu ostile all’Egitto, che proprio nel 1958 aveva costituito la Repubblica Araba Unita con la Siria. Anche per Kassem, come per Nasser, valeva il principio della “politique d’abord”, ossia utilizzare la politica estera solo come spettacolo contro l’opposizione interna e per nascondere i fallimenti delle riforme sociali. Ostile ad una unione con la RAU, Kassem combatté il Baath e i nazionalisti filo-egiziani che si organizzavano all’interno. Nel 1959 il presidente riaprì una controversia di frontiera con l’Iran per il controllo del golfo Persico e nel 1961 tentò invano sia di annettere il Kuwait sia di venire a capo dell’insurrezione curda, anticipando quella che sarà la politica di Saddam Hussein negli anni Ottanta. Il colonnello finanziò generosamente l’Fln algerino con i fondi provenienti dall’Iraq Petroleum, di cui nazionalizzò il 90% dei giacimenti che la Compagnia aveva in concessione. Kassem ricevette l’assistenza dei tecnici russi, ma il boicottaggio del petrolio iracheno da parte del fronte unito delle Sette Sorelle fece piombare il paese in una crisi spaventosa. Nel 1963 presero il potere i militari del Baath e fu posto a capo dello Stato Abd al-Salam Arif, un altro protagonista della rivoluzione del 14 luglio, che subentrava a Kassem, ucciso nel corso del putsch.

 

32. Lo scontro per il petrolio algerino

Il nuovo ordine petrolifero post-bellico era incentrato sul Medio Oriente e al suo interno le Compagnie anglo-americane si erano autoinvestiste del compito di soddisfare la crescente richiesta mondiale di petrolio. Già nel 1949 le Sette Sorelle controllavano l’82% della produzione e il 76% della raffinazione di tutto l’emisfero occidentale esclusi gli Stati Uniti. Chi non aveva sangue puritano nelle vene trovava enormi difficoltà a sviluppare un’industria petrolifera minimamente indipendente.

Subito dopo la guerra la Francia del generale De Gaulle aveva creato il “Bureau des recherches pétrolières” (Brp) con l’obiettivo di ricostruire l’industria del petrolio distrutta e soddisfare il fabbisogno nazionale attraverso le ricerche petrolifere all’interno dell’impero coloniale francese in Africa. Non potendo contare sulla storica Compagnie française des pétroles (dal 1985 Total) impegnata allora a difendere le sue posizioni nell’Iraq Petroleum Company e nel Medio Oriente, il governo affidò l’incarico ad altre Compagnie statali, fra cui la Société Nationale des Pétroles d’Aquitaine (Snpa), che dopo qualche anno fecero modesti ritrovamenti di petrolio nel Gabon.

Ma la notizia che infiammò la Francia fu la scoperta, nel 1956, in concomitanza con lo scoppio della ribellione algerina, di un consistente strato di rocce impregnate di petrolio nel Sahara orientale francese, nella zona di Hassi Messaoud. I francesi scorsero la possibilità concreta di emanciparsi dal petrolio mediorientale e dall’influenza anglo-americana. La Francia, nonostante le grandi difficoltà ambientali, aveva iniziato la costruzione di alcuni oleodotti per collegare i pozzi di Hassi Messaoud ai porti algerini e tunisini, da dove il petrolio caricato sulle petroliere potesse raggiungere Marsiglia. Lo sforzo francese per arrivare all’indipendenza energetica fu premiato: nel 1961 il petrolio prodotto in varie parti del mondo dalle Compagnie francesi private o sotto il controllo statale copriva oltre il 90% del fabbisogno nazionale. Nell’idea di De Gaulle il raggiungimento di questo obiettivo era legato a un rilancio della grandeur francese, che si concretizzò in una storica apertura verso la Germania e nella firma di un’intesa fra i due Stati a Rambouillet.

Ma, contrariamente ai desideri francesi, gli algerini consideravano il Sahara parte integrante del loro territorio. La guerra di indipendenza dell’Algeria e gli schieramenti che la finanziavano furono fin dall’inizio intrecciati con gli interessi petroliferi. Le Compagnie americane avevano cominciato a finanziare il Fronte Nazionale di Liberazione subito dopo la scoperta dei nuovi giacimenti: l’allora senatore John Kennedy, importante azionista della Standard Oil, aveva chiesto pubblicamente che gli Stati Uniti andassero incontro “all’ansia di libertà e di indipendenza dei patrioti algerini soffocati dalla Francia colonialista”. De Gaulle dovette minacciare di uscire dalla Nato per far cessare i finanziamenti americani. Ma a rendere incerto il futuro del petrolio sahariano c’erano anche le manovre portate avanti dall’Eni per aprirsi un canale preferenziale verso il gas e il petrolio algerini.

In Italia nel dopoguerra i vincitori avevano incaricato Enrico Mattei, proveniente dalla resistenza cattolica, di smantellare l’Agip, la Compagnia petrolifera nazionale creatura del regime fascista. Nella nuova logica di potere postbellica, le Compagnie anglo-americane si opposero con ogni mezzo perché si sviluppasse in Europa una industria petrolifera autonoma. Un chiaro esempio di questa politica fu proprio l’esclusione dell’Agip dai finanziamenti previsti dal piano Marshall che, non ci dimentichiamo, verrà rimborsato dagli acquisti di petrolio fornito dalle Compagnie americane. In Italia c’era poco petrolio, ma in compenso in val Padana c’era abbondanza di gas e Mattei, sfruttando la rete di vendita messa a sua disposizione dalla BP, diede vita a quella industria estrattiva, moltiplicando le trivellazioni e costruendo gasdotti con l’ausilio delle più moderne tecnologie. In soli due anni l’Italia settentrionale si coprì di una rete di seimila chilometri di gasdotti. Nel 1953 l’Agip si trasformò in una holding, l’Eni (Ente Nazionale Idrocarburi), a cui fecero capo tutte le attività nazionali e internazionali legate al petrolio.

Per alimentare l’enorme complesso petrolifero di cui l’Italia si era dotata Mattei finì per pestare i calli al cartello delle grandi Compagnie. Le prime avvisaglie si ebbero in Iran nel 1954, quando la Exxon rifiutò categoricamente l’entrata dell’Eni nel Consorzio internazionale per lo sfruttamento del petrolio iraniano, nonostante Mattei non avesse fatto nulla che si discostasse dalla linea anglo-americana nei giorni dell’embargo petrolifero nei confronti dell’Iran, non aveva cercato contatti con gli agenti di Mossadeq né preso in considerazione le offerte di petrolio a bassissimo prezzo.

Il veto delle grandi Compagnie all’entrata dello Stato italiano nel Consorzio venne considerato da Mattei un “insultante rifiuto”, che spingerà l’Eni a una politica di punture di spillo contro le multinazionali che governavano il mondo del petrolio. Di questi atteggiamenti si inebriarono i nazional-stalinisti nostrani dell’epoca i quali, poco curandosi che a beneficiare delle attività dell’Eni erano principalmente branche industriali gestite da imprenditori privati, si schierarono contro le Compagnie italo-americane che godevano di concessioni in Italia, tirando fuori le non nuove formule della nazionalizzazione e della lotta “nazionale” contro l’imperialismo! Fumo negli occhi a fini elettoraleschi. Che lo Stato incameri una parte o anche tutti gli utili non autorizza a considerare l’ente di Stato su un piano sociale diverso da quello in cui si muovono le imprese private. I rapporti di produzione entro i quali l’Eni svolgeva la sua attività si concretizzavano nel fatto di gestire le forze produttive secondo leggi economiche prettamente capitalistiche, pagando la manodopera con salario, producendo per il mercato e perseguendo il profitto. Considerati su questo terreno comune la Gulf Oil valeva l’Eni.

Per farsi spazio tra i giganti anglo-americani, il tentativo di concorrenza messo in atto dal capitalismo monopolistico di Stato dell’Eni dovette inventarsi una politica innovativa nei confronti dei paesi esportatori. Nel 1957, approfittando del vuoto di iniziative seguito alla crisi di Suez, Mattei perfezionò con il governo iraniano un accordo basato non più sul fifty-fifty, ma su una formula che prevedeva l’anticipo di tutte le spese per la ricerca a carico dell’Eni e, una volta trovato il giacimento, la possibilità per lo Stato produttore di diventare socio paritario versando metà delle spese. Inoltre, sui profitti divisi a metà, l’Eni avrebbe aggiunto un altro 50% in tasse, arrivando così ad una percentuale complessiva 75-25 a favore dell’Iran. L’accordo fece infuriare americani e inglesi i quali protestarono presso il governo italiano denunciando che la destabilizzazione della formula del fifty-fifty rischiava di mettere in pericolo la stabilità del Medio Oriente e gli stessi rifornimenti all’Europa.

Mattei, o perlomeno certi ambienti a lui vicini, era consapevole che non può esserci indipendenza politica senza indipendenza economica, ma questo significava rompere gli equilibri del mercato petrolifero e svincolarsi dalla divisione internazionale del lavoro stabilita dall’imperialismo americano, che aveva lasciato l’Italia fuori dal gioco. Lo scontro tra l’Eni e le Sette Sorelle proseguì a tutto campo, dal Nord Africa alla Russia. Nel 1960, in piena guerra fredda, Mattei ruppe l’embargo commerciale ed economico nei confronti dei russi, firmando un accordo in base al quale l’Urss offriva all’Eni 12 milioni di tonnellate di greggio in quattro anni ad un prezzo di poco superiore al dollaro per barile. In cambio l’Italia avrebbe esportato in Russia 50 mila tonnellate di gomma sintetica, 240 mila tonnellate di tubi della Finsider e apparecchiature della Nuovo Pignone. Il tipo di contratto, basato sullo scambio di merci, costituiva una novità introdotta da Mattei nel mondo del petrolio. I tubi Finsider e le pompe Pignone dovevano servire alla Russia per la costruzione di un oleodotto verso l’Europa centrale.

Mattei fu accusato di aver gettato l’Italia nelle mani dei comunisti. Cominciarono campagne di stampa e dispute legali messe in piedi dal cartello delle Sette Sorelle in combutta con gli avversari italiani di Mattei, che di nemici se ne era fatti tanti, e che si trovavano sia nel campo della politica sia in quello degli interessi privati industriali e finanziari, impersonati principalmente dalle società Montecatini ed Edison, attive nei settori della chimica, gas ed elettricità.

Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu il “fronte” algerino. A partire dal 1959 Mattei aveva iniziato, nell’ambito della sua strategia di penetrazione in Africa settentrionale, a inviare aiuti, soprattutto in natura, al Fronte Nazionale di Liberazione (en passant, la sede per l’Europa del Fronte stava proprio a Roma in locali messi a disposizione dall’Eni), nonché a facilitare i passaggi diplomatici degli algerini verso l’Europa e formare i loro tecnici petroliferi. Il sostegno più importante fornito da Mattei fu quello di elaborare insieme all’Fln le strategie petrolifere societarie e normative da far valere nei confronti della Francia. La strategia dell’Eni non escludeva pregiudizialmente la presenza francese, ma prospettava una titolarità diretta algerina del sottosuolo e la costituzione di un’azienda di Stato in cui potessero collaborare francesi e italiani.

Questa politica disturbava le Compagnie americane e quella francese, allora alla ricerca di un accordo per lo sfruttamento dell’intero Sahara francese. Per De Gaulle il Sahara algerino era “una finzione giuridica e nazionalistica senza fondamento storico”. Niente di più facile che i servizi segreti americani e francesi sapessero che i dossier algerini erano stati preparati dall’Eni. Resta il fatto che nel giugno del 1961 americani e francesi offrirono all’Eni di entrare a far parte del pool, ma Mattei rifiutò, contando sulla sua posizione di forza presso il Fronte da far pesare alla fine della guerra. Risalgono a questo periodo le minacce di morte ricevute da Mattei da parte dell’OAS francese. Egli si affrettò a rilasciare un’intervista al settimanale Nouvel Observateur significativamente intitolata “Sono io un nemico della Francia?”, nella quale ribadiva di aver rifiutato le offerte delle Compagnie francesi e americane per non compromettere la posizione non colonialista dell’Italia verso i paesi produttori di petrolio.

Dopo che De Gaulle, nel marzo 1962, decise di porre termine al conflitto e ci fu la proclamazione della Repubblica algerina, Mattei aprì le trattative per un accordo petrolifero con il nuovo governo indipendente che comprendeva il solito “pacchetto” (75-25 a favore dell’Algeria) e prevedeva la creazione di una società mista e la costruzione di una raffineria in Algeria. Alle trattative partecipò anche un alto funzionario francese, Claude Cheysson, futuro ministro degli Esteri di Mitterrand. Oltre alla partecipazione a tre nei giacimenti petroliferi e di metano, l’accordo prevedeva di realizzare un gasdotto intercontinentale che dal Sahara, attraverso lo Stretto di Gibilterra e la Spagna, arrivasse fino alla Francia e all’Italia. Un progetto da estendere in seguito ad altri paesi del terzo mondo.

Ma l’accordo, che doveva essere ratificato nell’incontro con Ben Bella del 6 novembre 1962, non sarà mai firmato: Mattei morirà nel suo aereo, precipitato per un attentato nell’ottobre di quell’anno. Nel febbraio 1963 il vicepresidente dell’Eni Eugenio Cefis firmò con l’americana Esso un accordo per l’acquisto del gas dalla Libia e tutto il delicato lavoro di collaborazione intessuto con i francesi e gli algerini andò perduto. I giornali algerini e di tutto il terzo mondo accusarono Cefis di tradimento e di filo-americanismo. Enrico Mattei riporterà una vittoria postuma quindici anni dopo la sua morte quando l’Eni firmerà un accordo con la Compagnia di Stato algerina Sonatrach per l’importazione di gas in Italia.

 

(Continua al prossimo numero)

 

 
 
 
 
Saluto agli scioperanti in Belgio

Si è svolto a Bruxelles, il 6 novembre, il primo di una serie di scioperi provinciali che sfoceranno nello sciopero generale del 15 dicembre. Nel nordico Belgio, come nel sud Europa, il governo ha annunciato che intende innalzare l’età pensionabile, bloccare dei salari e tagliare i servizi pubblici. Lo sciopero ha avuto una forte adesione, con un corteo nella capitale, secondo i sindacati, di 120.000 lavoratori. Gli operai hanno ingaggiato duri scontri con le forze dell’ordine – con lanci di pietre e auto incendiate – a tratti costringendo la polizia a retrocedere. Un clima di vera lotta operaia, ben diverso dalle passeggiate cui i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) hanno abituato i lavoratori in Italia, come da ultima la manifestazione del 25 ottobre scorso a Roma. La classe operaia di questo paese densamente industriale ha saputo conservare la sua dignità, la sua combattività, nonostante anche qui non manchino certo i falsi sindacati a difesa del regime capitalista. Determinazione nella lotta la avevano dimostrato anche i pompieri il 14 dicembre dello scorso anno, in occasione dello sciopero contro i tagli ai salari, anche allora scontrandosi duramente con la polizia.

Questa lotta, come quella dei ferrovieri tedeschi, conferma che il capitale impone le sue leggi, contro la classe proletaria, indipendentemente dal colore del governo, dalla latitudine e dalla cultura del paese. Le condizioni dei lavoratori belgi sono sotto attacco come quelle dei loro fratelli degli altri paesi e solo nella riorganizzazione sindacale di classe si potrà rispondere efficacemente.

 
 
 
 
 
 


Milano, sciopero Fiom - SI-Cobas, venerdì 14 novembre 2014
Per la ripresa della lotta di classe !

Lavoratori metalmeccanici !

Il disegno di legge per una ennesima Riforma del Lavoro denominata Jobs Act – con l’attacco finale all’articolo 18, il demansionamento, le norme sulla videosorveglianza – è il nuovo capitolo della OFFENSIVA CONTRO LA CLASSE LAVORATRICE che dura da oltre trent’anni, portata avanti dagli industriali e con perfetta continuità dai governi di ogni colore e che, lungi dal mitigarsi o arrestarsi, si fa invece sempre più dura.

Da questo attacco che – appare sempre più chiaro – non ha limiti, i lavoratori non sono riusciti fino ad ora a difendersi, perdendo una dopo l’altra, sconfitta dopo sconfitta, le conquiste passate, in un arretramento continuo delle condizioni di vita e di lavoro, in cui si è smarrito il senso di ciò che si era conquistato e che si sta perdendo.

LA PRINCIPALE RESPONSABILITÀ DI QUESTA DRAMMATICA DEBOLEZZA STA NEL DEFINITIVO RIGETTO DELLA LOTTA DI CLASSE DA PARTE DELLA CGIL.

Nessuna vera lotta è stata organizzata contro i sempre più pesanti provvedimenti governativi:

– la abolizione della scala mobile (1992) e la sua sostituzione con la nuova politica dei redditi (1993) hanno determinato la costante perdita del potere d’acquisto dei salari; non furono contrastate ma sostenute e approvate dalla CGIL.

– La riforma delle pensioni del primo governo Berlusconi (1994) fu fermata da potenti scioperi ma il successivo governo "tecnico" Dini (1995) – ben accolto perché “meno di destra” e “sempre meglio di Berlusconi!” – ne fece passare una analoga a cui la CGIL non si oppose, sostenendo che fosse un buon compromesso la carognata della divisione della classe fra lavoratori anziani – che hanno mantenuto il sistema retributivo conquistato nel 1968 – e giovani, col ritorno al sistema contributivo e la garanzia di una vecchiaia da fame.

– Contro la Riforma Fornero del governo Monti (2011) – nuovamente ben accolto dalla sinistra borghese, sia quella "moderata" che quella "radicale", perché “sempre meglio di Berlusconi!” – la CGIL ha proclamato 8 ore di sciopero nel pubblico impiego e 3 ore nel settore privato! A questa farsa si è ridotta l’opposizione della CGIL ad una fra le peggiori riforme pensionistiche d’Europa;

- L’Accordo Interconfederale sulla Rappresentanza del 10 gennaio scorso – firmato da Cgil, Cisl, Uil e Ugl – è il patto più corporativo del secondo dopoguerra e sancisce la distruzione del Contratto Nazionale di Lavoro, già avallata dai due precedenti accordi interconfederali del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013.

A livello aziendale la situazione è ancor peggiore: le migliaia di vertenze sono tenute isolate le une dalle altre e concluse con accordi che non solo sono, nella grandissima maggioranza dei casi, a perdere per gli occupati nella singola impresa ma che, fatto ancor più grave, approfondiscono la divisone della classe operaia. La farsa della lotta contro i licenziamenti condotta impresa per impresa segue sempre lo stesso copione: l’azienda ne chiede 200 per ottenerne 100; la CGIL presenta come una vittoria l’accordo per 100 licenziamenti, assecondando il banale mercanteggiamento aziendale, e il fatto che siano trasformati in esodi incentivati e volontari. In questo modo asseconda l’interesse individuale di chi accetta l’incentivo a danno dell’interesse collettivo della classe: in primo luogo perché i lavoratori che restano a lavoro sono meno, quindi più deboli e più sfruttati; in secondo luogo perché si aumenta la massa dei disoccupati da un lato e lo sfruttamento dei sempre meno occupati dall’altro. L’ultimo caso è quello alla TITAN di Valsamoggia (Bologna), dove la dura lotta operaia in atto dal 16 ottobre sta per essere svenduta da un accordo di questa natura.

I lavoratori invece di essere mobilitati in un movimento unico e potente contro i licenziamenti e per la riduzione dell’orario di lavoro generalizzata e a parità di salario sono condotti a piccoli gruppi di sconfitta in sconfitta, in una lunga agonia che impedisce una reazione ed una risposta all’attacco. La classe lavoratrice è come un esercito guidato da uno Stato Maggiore impegnato a farle perdere la guerra.

SPETTA AI LAVORATORI E AI MILITANTI SINDACALI PIÙ COMBATTIVI BATTERSI PER IL RITORNO AI PRINCIPI E METODI DELLA LOTTA DI CLASSE:

ORGANIZZAZIONE DI VERI SCIOPERI: a oltranza; con picchetti per bloccare l’ingresso di merci e crumiri; senza preavviso; che cerchino, quale principale via per la vittoria, di estendersi a sempre più lavoratori, unendoli al di sopra delle divisioni aziendali e di categoria; che vengano sostenuti da una CASSA DI RESISTENZA adeguatamente preparata precedentemente lo sciopero. Il SI COBAS è riuscito in questi ultimi anni a far alzare in piedi e camminare su questa strada un autentico movimento operaio nel settore della logistica che è di esempio per tutti i lavoratori.

DIFESA INTRANSIGENTE DEI LAVORATORI, senza subordinarla ai bilanci aziendali e soprattutto al cosiddetto “bene del paese”, che altro non è che il bene del capitalismo;

COSTITUZIONE DI COMITATI DI LOTTA per promuovere un FRONTE UNICO DEI LAVORATORI:
- cui possano aderire tutti i lavoratori a prescindere dalla tessera sindacale;
- che prendano in mano la direzione della lotta togliendola ai funzionari di Cgil, Cisl e Uil e agli organismi rappresentativi ad essi addomesticati quali le RSU che, con la firma del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio scorso, sono divenuti definitivamente strumenti per ostacolare la lotta, a prescindere dalla buona volontà di singoli delegati;
- che escano dal ghetto aziendale per formare un coordinamento territoriale con cui unificare le lotte in un movimento generale della classe lavoratrice.

La rete di questi organismi di lotta, insieme al miglior SINDACALISMO DI BASE, quello che sarà in grado di superare il suo settarismo, come il SI COBAS, oggi in piazza a Milano con gli operai metalmeccanici, saranno la base per la RINASCITA DI UN VERO SINDACATO DI CLASSE FUORI E CONTRO I SINDACATI DI REGIME di cui i lavoratori hanno sempre più bisogno per difendersi.

Lavoratori, compagni !

È sempre più chiaro che la natura di questo attacco contro la classe lavoratrice, in Italia e nel mondo, non è di portata contingente ma storica. Così è perché la causa della crisi non è nelle caratteristiche soggettive della cosiddetta classe dirigente di questo o quel paese, nelle sue idee sbagliate, nella sua corruzione, incapacità od egoismo. La causa è nel capitalismo, nelle sue oggettive leggi economiche che impongono, a chiunque stia al governo, questa azione antiproletaria. I GOVERNI SONO GOVERNATI DALLE LEGGI ECONOMICHE DEL CAPITALE. Ad esse rispondono, non al voto dei cittadini, né a principi etici o morali. I governi e le dirigenze aziendali sono contro i lavoratori perché è il capitalismo ad esserlo, non viceversa.

Non esistono paradisi nazionali in cui i lavoratori possano sentirsi al riparo dai disastri del capitalismo. Negli Stati Uniti il 40% dei lavoratori ha un salario inferiore a quello considerato minimo nel 1968! In Belgio centomila lavoratori sono scesi in sciopero pochi giorni fa contro la riforma della pensioni con scontri durissimi fra operai e polizia. Altro che le passeggiate della CGIL! In Germania si è appena concluso il più lungo sciopero dei ferrovieri dal secondo dopoguerra, durato ben cinque giorni, contro i bassi salari (più bassi che in Italia).

In Italia, la falsa contrapposizione fra "destra" e "sinistra" – con cui confondere e fregare i lavoratori – per diciassette anni ha vestito i panni della commedia fra berlusconismo e antiberlusconismo, presentati come irriducibilmente ostili. Oggi sono ben sintetizzati nel nuovo governo: hanno dimostrato di essere in concorrenza fra loro ma uniti contro la classe operaia. Questo perché sono burattini comandati dalla stessa mano, quella del CAPITALE – nazionale ed internazionale – che in tutto il mondo esercita la sua dittatura mascherata dall’inganno della democrazia, coi suoi fasulli cambi di governo, i giochetti parlamentari, le false alternative fra partiti borghesi.

La lotta sindacale è necessaria ai lavoratori per difendersi, tornare ad esser uniti e irrobustirsi come classe ma è pur sempre una battaglia contro gli effetti che resta una fatica di Sisifo se non serve da allenamento per la guerra offensiva contro la loro causa, il capitalismo. Come la lotta economica ha il suo strumento nel SINDACATO DI CLASSE, quella politica lo ha nel PARTITO COMUNISTA RIVOLUZIONARIO.

Tale è oggi il Partito Comunista Internazionale in quanto prosecutore della linea e della tradizione della sinistra comunista italiana, la sola corrente che ha saputo difendere l’autentico marxismo rivoluzionario, lottando contro l’ultima e peggiore delle ondate opportuniste, lo stalinismo, e il suo inganno del capitalismo di stato, russo, cinese, vietnamita, cubano, ecc, spacciato per comunismo. Alla milizia nelle nostre file chiamiamo giovani e lavoratori.

 
 
 
 
 
 

14 novembre - Sciopero dei Sindacati di base
Battiamoci per
un vero Sindacato di Classe !

Lavoratori !

Il disegno di legge per una ennesima “Riforma del Lavoro” (denominato Job Act) – con l’attacco all’articolo 18, il demansionamento, le norme sulla videosorveglianza – il cosiddetto Decreto Poletti divenuto legge a maggio, la Riforma della Scuola, la Legge di Stabilità che si profila all’orizzonte sono il nuovo capitolo della OFFENSIVA CONTRO LA CLASSE LAVORATRICE che dura da oltre tre decenni, portata avanti dagli industriali e con perfetta continuità dai governi di ogni colore e che, lungi dal mitigarsi o arrestarsi, si fa invece sempre più dura.

Da questo attacco che – appare sempre più chiaro – non ha limiti, i lavoratori non sono riusciti fino ad ora a difendersi, perdendo una dopo l’altra, sconfitta dopo sconfitta, le conquiste passate, in un arretramento continuo delle condizioni di vita e di lavoro, in cui si è smarrito il senso di ciò che si era conquistato e che si sta perdendo.

LA PRINCIPALE RESPONSABILITÀ DI QUESTA DEBOLEZZA È DEI SINDACATI DI REGIME (CGIL, CISL, UIL), VERI AGENTI DELLA CLASSE PADRONALE IN SENO ALLA CLASSE LAVORATRICE.

La forza di questi falsi sindacati non deriva dai lavoratori ma dagli industriali, dalla finanza, dai loro governi e dal loro Stato, cioè dal regime capitalista che li tutela e difende perché li riconosce quale miglior strumento contro la lotta di classe.

Dalla fine degli anni Settanta, di fronte alla impossibilità di lottare in difesa delle proprie condizioni restando dentro la CGIL, gruppi di lavoratori di diverse categorie iniziarono ad organizzarsi fuori e contro questo sindacato di regime, dando vita dai primi anni Ottanta a diversi sindacati di base.

Questa sana, giusta e necessaria reazione non ha avuto, sinora, la forza per organizzare una parte sufficientemente corposa della classe lavoratrice, tale da poter condurre una lotta che davvero mettesse ribattesse alle offensive padronali. Ciò a causa della forza del fronte borghese – e dei sindacati confederali che ne fanno parte – ma anche di limiti ed errori delle dirigenze del sindacalismo di base:

- il FRAZIONAMENTO ORGANIZZATIVO: in trent’anni di esistenza i sindacati di base non sono riusciti a superare le loro divisioni; ciò è da imputare principalmente alle lotte fra i loro capi e capetti che se ne fregano delle gravi conseguenze sull’unità e sulla forza dei lavoratori; solo la base di questi sindacati può battersi per il superamento di queste divisioni;

- le AZIONI SEPARATE: i sindacati di base continuano a organizzare scioperi in date separate da quelle del sindacalismo di regime e persino fra le stesse organizzazioni di base. È una strategia profondamente dannosa e che va contro i basilari principi della lotta di classe. Più uno sciopero è unito, più è forte, e i lavoratori sentono, istintivamente prima che razionalmente, di poter abbracciare rivendicazioni più radicali ed abbandonare i compromessi a perdere del sindacalismo concertativo. Lo sciopero è una materiale AZIONE DI FORZA, non una MANIFESTAZIONE D’OPINIONE. In linea generale, quindi, scioperare uniti anche coi lavoratori mobilitati dai sindacati di regime, propagandando le posizione del sindacalismo anticoncertativo, è il miglior modo per combattere il sindacalismo di regime, non per portare acqua al suo mulino. Il sindacalismo di classe deve distinguersi da quello di regime non per scioperare in date diverse ed in concorrenza ma più a lungo e più duramente. Deve approfittare delle mobilitazioni delle masse lavoratrici da parte dei sindacati concertativi per propagandare fra di esse questa necessità. Oggi, a Milano, decine di migliaia di operai metalmeccanici sono in piazza mobilitati dalla FIOM. La scelta dei sindacati di base di scendere in piazza separatamente è grave ed emblematica del loro settarismo antioperaio. Solo il SI COBAS ha dato il giusto esempio, unendosi agli operai metalmeccanici a prescindere dalla sigla sindacale che li ha mobilitati. Sul piano aziendale anche la CUB della Electrolux di Solaro ha perseguito l’UNITÀ D’AZIONE DEI LAVORATORI mettendo in difficoltà la FIOM e dimostrando come questa sia la giusta strada da seguire.

- l’UNIONE CON STRATI SOCIALI ESTRANEI ALLA CLASSE LAVORATRICE: di fronte alle difficoltà ed ai fallimenti nella lotta contro i sindacati di regime le dirigenze dei sindacati di base si illudono di rafforzare il movimento della classe lavoratrice ricercando alleanze con strati sociali che raggruppano più classi (inquilini, studenti) o perfino con altre classi. La CUB e la Confederazione Cobas si sono apertamente appellate nell’odierno sciopero alla partecipazione dei lavoratori autonomi. Questa scelta non può che ottenere l’effetto opposto a quello voluto o, quanto meno, proclamato perché un movimento composto da interessi materiali di più classi, e quindi in contrasto, non può che caratterizzarsi per la sua confusione ed inconcludenza. L’unico modo in cui altri strati sociali possono dare la loro solidarietà al movimento della classe operaia è subordinandosi ad esso, alla sua disciplina, alle sue direttive. Se giovani non lavoratori partecipano ai picchetti operai, ben vengano, ma non devono aver voce in capitolo nelle delicate decisioni della lotta. La pretesa di sostituire il movimento della classe lavoratrice con un movimento genericamente sociale significa in realtà abbandonare il duro lavoro per la ricostruzione del sindacato di classe a tutto vantaggio, ancora una volta, del sindacalismo di regime.

Lavoratori !

Oggi il sindacalismo di base vi chiama allo SCIOPERO GENERALE contro questo nuovo attacco del governo alle vostre condizioni di vita e di lavoro. È un’azione giusta ma che soffre del peso di questi errori. Spetta ai lavoratori e ai militanti più combattivi di tutti questi sindacati battersi per unirli dal basso in un unico forte SINDACATO DI CLASSE, sempre più necessario per condurre una vera battaglia generale di tutta la classe lavoratrice. Ciò deve e può avvenire solo sulla base dei fondamentali principi e metodi della lotta di classe:

difesa intransigente dei lavoratori, senza subordinarla ai bilanci aziendali e al cosiddetto “bene del paese”, dell’economia nazionale, che altro non sono che il bene del capitalismo;

attività sindacale basata sul lavoro gratuito e volontario dei militanti, riducendo al minimo funzionari stipendiati e rifiutando i distacchi sindacali; i soldi delle quote sindacali devono servire principalmente a creare una CASSA DI RESISTENZA per dare un sostegno ai lavoratori in sciopero;

organizzazione di VERI SCIOPERI: ad oltranza, con picchetti per bloccare l’ingresso di merci e crumiri, senza preavviso e che cerchino di estendersi a sempre più lavoratori unendoli al di sopra delle divisioni aziendali e di categoria;

privilegiare l’organizzazione territoriale del sindacato rispetto a quella aziendale, come nella gloriosa tradizione delle originarie Camere del Lavoro, dove i lavoratori si riuniscono in quanto tali e non come dipendenti di una data azienda, così da stringere i legami di fratellanza proletaria e combattere l’aziendalismo, uno dei più duri ostacoli all’unità di classe;

rifiuto di ogni regolamentazione della vita sindacale (elezione delle rappresentanze sindacali in azienda, rappresentanza sindacale nella categoria) sia pattizia, con le organizzazioni padronali (come fatto ad es. fra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil col Testo Unico sulla Rappresentatività del 10 gennaio scorso) sia legale, cioè attraverso una legge emessa dall’attuale regime politico – che è borghese – come richiesto in modo aberrante da parte del sindacalismo di base, fra cui l’USB, ma anche – e non a caso! – dalla FIOM. Le regole che il sindacato ed i sindacati si danno per la loro attività devono essere decise in piena autonomia dal padronato e dal suo regime, non in collaborazione con essi!

rifiuto di subordinare la lotta sindacale all’obiettivo del riconoscimento padronale, finalizzato all’ottenimento dei diritti sindacali sul posto di lavoro, senza i quali si crede, a torto, che sia impossibile svolgere attività sindacale. Il padrone, pubblico o privato, tratta con un sindacato di classe solo se costretto dalla forza, altrimenti lo fa con sindacati complici;

raccolta diretta delle quote mensili sindacali, attraverso i militanti sindacali, come ha sempre fatto il sindacato fino agli anni Settanta con la propria rete di collettori, rigettando il metodo della delega, che dà in mano all’azienda i soldi del sindacato e la lista dei suoi iscritti, ed è la base materiale fondamentale del collaborazionismo sindacale;

– il Sindacato di Classe non deve cessare mai di indicare ai lavoratori, in ogni loro lotta contingente, che ambisce e lavora per la sua massima di mobilitazione: lo SCIOPERO GENERALE AD OLTRANZA per gli obiettivi di sempre del movimento operaio, i soli che uniscono davvero tutto il moderno proletariato:
- Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario !
- Forti aumenti salariali maggiori per le categorie peggio pagate !
- Salario ai lavoratori licenziati, a carico di industriali e finanza, attraverso il loro Stato !

 
 
 
 
 
 
 Sciopero generale del 12 dicembre
PER L’UNIONE DELLE LOTTE DELLA CLASSE LAVORATRICE

LAVORATORI !

La scesa in sciopero della classe lavoratrice è un fatto sempre positivo che va sostenuto e salutato come tale. Ma questo dovere si deve sempre accompagnare a quello di battersi per il giusto indirizzo di lotta e alla denuncia degli errori o, a maggior ragione, dei tradimenti di chi la dirige.

La prima approvazione parlamentare della nuova Riforma del Lavoro – il cosiddetto Jobs Act – è stata del Senato, l’8 ottobre. Il 24 ottobre, sedici giorni dopo, vi è stato il primo sciopero generale, organizzato da alcuni sindacati di base: USB, UNICobas e ORSA. A farvi scioperare la CGIL ha atteso fino ad oggi – altri 48 giorni ! – dopo che il disegno di legge è stato già definitivamente approvato il 3 dicembre, votato in Parlamento anche da suoi ex dirigenti di primo piano, da Damiano (ex FIOM) al suo ex segretario generale Epifani.

Queste otto ore di sciopero a legge già approvata sono tutto ciò che ha fatto la CGIL contro il Jobs Act.

La manifestazione nazionale di sabato 25 ottobre – che non essendo uno sciopero non ha arrecato alcun danno al padronato – le otto ore di sciopero in più della FIOM divise territorialmente (il 14, il 21 e il 25 novembre) e qualche altra mobilitazione a carattere locale, non cambiano la sostanza. In questo modo siete stati accompagnati a una nuova sconfitta.

LAVORATORI !

Il Jobs Act – col quale il padronato si è guadagnato più libertà di spiare, demansionare e licenziare – è un nuovo capitolo della OFFENSIVA CONTRO LA CLASSE LAVORATRICE in atto da anni, portata avanti dagli industriali e dai loro governi di ogni colore, dalla quale i lavoratori non sono riusciti fino ad ora a difendersi perdendo, sconfitta dopo sconfitta, le passate conquiste, in un arretramento continuo delle condizioni di vita e di lavoro, in cui si è persino smarrito il senso di ciò che si era conquistato.

LA PRINCIPALE RESPONSABILITÀ DI QUESTA DRAMMATICA DEBOLEZZA STA NEL DEFINITIVO RIGETTO DELLA LOTTA DI CLASSE DA PARTE DELLA CGIL.

Nessuna vera lotta è stata organizzata contro i sempre più pesanti provvedimenti governativi:
– la ABOLIZIONE DELLA SCALA MOBILE (1992) e la sua sostituzione con la nuova politica dei redditi (1993), che hanno determinato la costante perdita del potere d’acquisto dei salari, non furono contrastate ma sostenute e approvate dalla CGIL;
– la RIFORMA DELLE PENSIONI del primo governo Berlusconi (1994) fu fermata da potenti scioperi ma il successivo governo "tecnico" Dini (1995) – ben accolto perché “meno di destra” e “sempre meglio di Berlusconi!” – ne fece passare una analoga a cui la CGIL non si oppose, sostenendo che fosse un buon compromesso l’infame divisione della classe fra lavoratori anziani – che hanno mantenuto il sistema retributivo conquistato nel 1968 – e giovani, col ritorno al sistema contributivo e la garanzia di una vecchiaia da fame;
– la FLESSIBILITÀ fu introdotta con la Legge Treu dal primo governo Prodi del 1997 e rafforzata da quelli successivi, con la Legge Biagi del secondo governo Berlusconi (2003) e infine, lo scorso marzo, col cosiddetto Decreto Poletti, l’attuale Ministro del lavoro, ex presidente della Lega delle Cooperative “rosse”;
– contro la RIFORMA FORNERO del governo Monti (2011) – nuovamente ben accolto dalla sinistra borghese, sia quella "moderata" sia quella "radicale", perché “sempre meglio di Berlusconi!” – la CGIL ha proclamato 8 ore di sciopero nel pubblico impiego e 3 ore nel settore privato!
– l’ACCORDO INTERCONFEDERALE SULLA RAPPRESENTANZA del 10 gennaio scorso – firmato da Cgil, Cisl, Uil e Ugl – è il patto più corporativo del secondo dopoguerra:
     - sancisce la distruzione del Contratto Nazionale di Lavoro, già avallata dai due precedenti accordi interconfederali del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013;
     - rende definitivamente le RSU strumenti inutilizzabili per la lotta di classe, a prescindere dalla buona volontà di singoli delegati: ormai infatti possono far parte di questi organismi solo i sindacati che hanno firmato l’Accordo sulla Rappresentanza, accettando con esso non solo la distruzione del Contratto Nazionale di Lavoro ma anche le NORME ANTISCIOPERO per cui la minoranza della RSU non può scioperare contro eventuali accordi con l’azienda presi dalla maggioranza, a pena di sanzioni disciplinari ed economiche.

A LIVELLO AZIENDALE LA SITUAZIONE È ANCOR PEGGIORE: le centinaia di vertenze sono tenute isolate le une dalle altre e concluse con accordi che non solo sono, nella maggioranza dei casi, a perdere ma che, fatto ancor più grave, approfondiscono la divisone della classe operaia. La farsa della lotta contro i licenziamenti condotta impresa per impresa segue sempre lo stesso copione: l’azienda ne chiede 200 per ottenerne 100; la CGIL asseconda il banale mercanteggiamento aziendale presentando come una vittoria l’accordo per “soli” 100 licenziamenti ed il fatto che essi siano trasformati in esodi incentivati e volontari. In questo modo asseconda l’interesse individuale di chi accetta l’incentivo a discapito dell’interesse collettivo della classe che è calpestato due volte: perché i lavoratori che restano a lavoro sono meno, più deboli e più sfruttati; perché si aumenta la massa dei disoccupati da un lato e il peso del suo ricatto sui sempre meno occupati dall’altro.

Gli ultimi casi sono stati quelli alla TITAN di Valsamoggia (Bologna) e alle acciaierie AST-TK di Terni. In quest’ultima fabbrica gli operai sono stati in sciopero a oltranza per 44 giorni, fino al 3 dicembre. Si sarebbe potuto far leva su questa grande battaglia operaia per unificare le lotte in un movimento di sciopero contro la Riforma del Lavoro. Invece gli operai di Terni sono stati lasciati soli, non è stato propagandato il carattere a oltranza del loro sciopero, rimasto ignorato dalla maggior parte dei lavoratori, e, infine, questa lotta generosa è stata sperperata con un accordo a perdere.

Lo sciopero a oltranza è stato interrotto da tutta la RSU nonostante il parere contrario dell’assemblea operaia e si è finito persino per dividere i dipendenti diretti dagli operai delle ditte terze che in tutto lo sciopero avevano partecipato ai picchetti!

In questo modo i lavoratori invece di essere mobilitati in un movimento unico e potente che, nato dalle sparse battaglie contro i licenziamenti, cresca e maturi nella lotta per la RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO GENERALIZZATA E A PARITÀ DI SALARIO sono condotti a piccoli gruppi di sconfitta in sconfitta, in una lunga agonia che impedisce una reazione ed una risposta all’attacco. La classe lavoratrice è come un esercito guidato da uno Stato Maggiore impegnato a farle perdere la guerra.

LAVORATORI !

Per difendersi dai sempre più duri attacchi padronali è necessario organizzare VERI SCIOPERI, a oltranza, che inizino e non si fermino finché non si è raggiunto l’obiettivo, che si rafforzino col loro perdurare, estendendosi e coinvolgendo sempre più lavoratori al di sopra delle aziende e delle categorie, condotti sulla base della FORZA OPERAIA, con picchetti che blocchino merci e crumiri, e non su quella dei truffaldini stratagemmi antioperai, quali la conta delle opinioni con il voto segreto nel referendum, in cui il voto di un crumiro ha lo stesso peso di quello di chi si sacrifica per la lotta collettiva, o l’unità con i vertici dei sindacati apertamente filopadronali (CISL, UIL, UGL).

SPETTA AI LAVORATORI E AI MILITANTI SINDACALI PIÙ COMBATTIVI BATTERSI PER IL RITORNO AI PRINCIPI E METODI DELLA LOTTA DI CLASSE ORGANIZZANDOSI NEI LUOGHI DI LAVORO IN COMITATI DI LOTTA:
     - cui possano aderire tutti i lavoratori, a prescindere dalla tessera sindacale, per promuovere il FRONTE UNICO DEI LAVORATORI:
     - per la difesa intransigente dei lavoratori senza farsi carica dei bilanci aziendali e soprattutto del cosidetto “bene del paese”, che altro non è che il bene del capitalismo;
     - che prendano in mano la direzione della lotta togliendola ai funzionari di Cgil, Cisl e Uil e agli organismi rappresentativi ad essi addomesticati quali le RSU;
     - che escano dal ghetto aziendale per formare un COORDINAMENTO TERRITORIALE con cui unificare le lotte in un movimento generale della classe lavoratrice.

La rete di questi organismi di lotta, insieme al miglior SINDACALISMO DI BASE – quello che sarà in grado di superare il suo settarismo perseguendo l’UNITÀ DI AZIONE DELLA CLASSE OPERAIA, come il SI COBAS, in piazza a Milano con gli operai metalmeccanici il 14 novembre scorso ed oggi in sciopero nei magazzini logistici – saranno la base per la RINASCITA DI UN VERO SINDACATO DI CLASSE FUORI E CONTRO I SINDACATI DI REGIME (CGIL, CISL, UIL, UGL) di cui i lavoratori hanno sempre più bisogno per difendersi.