Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 370 - marzo-aprile 2015
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Indice dei numeri
Numero precedentesuccessivo
organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1
Conferenza pubblica a Genova: Necessità della guerra per il capitale - Necessità della rivoluzione per il proletariato
Le lotte dei minatori indiani di fronte alle privatizzazioni
– Fra la trappola della liquidità e quella della miseria che cresce
– Anticipazione inglese del mercimonio elettorale
PAGINA 2 I lavori alla riunione generale del partito, Firenze, 24 e 25 gennaio [RG121]: La successione dei modi di produzione, La variante asiatica - Storia del movimento operaio e comunista in Irlanda - Il concetto di Dittatura prima di Marx, La Rivoluzione francese (fine al prossimo numero)
– Riunione del partito in Venezuela
Per il sindacato
di classe
La Fiom alla riprova degli scioperi alla Fiat contro lo straordinario nei sabati e domeniche: Bravo Marchionne - Combattere lo sciopero: Melfi
Terni: Uno sciopero di 35 giorni tradito dai sindacati di regime
PAGINA 5 Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (Continua dal numero scorso): 33. Sovrapproduzione e nascita dell’Opec - 34. La guerra dei Sei Giorni - 35. La spallata di Gheddafi
Una nostra nuova traduzione: Factors of Race and Nation in Marxist Theory




 
  
 
PAGINA 1

CONFERENZA PUBBLICA A GENOVA

Necessità della guerra per il capitale
Necessità della rivoluzione per il proletariato

Nel capitalismo le imprese devono produrre sempre più merci e a costi sempre inferiori per battere la concorrenza. Questa necessità di crescere senza mai fermarsi è al tempo stesso la forza e la condanna del Capitale. Crescendo esso genera la condizione per il potenziale benessere di tutta l’umanità: una forza produttiva del lavoro che in epoca precapitalista, solo 150 anni fa, sarebbe stata considerata una utopia. Ma compiendo questo processo il capitalismo genera anche le cause del suo declino. Aumentando l’uso delle macchine, per accrescere produzione e produttività, restringe l’impiego del lavoro salariato, che è la fonte del plusvalore, e diminuisce di conseguenza il saggio del profitto: investire diviene sempre meno redditizio. Inoltre, il volume crescente della produzione va incontro a una sempre più grave sovrapproduzione: le merci restano invendute. La crescita capitalistica genera la crisi capitalistica.

Con l’inesorabile avanzamento della crisi i lavoratori di tutti i paesi sono ridotti alla povertà non per scarsità di mezzi adeguati a soddisfare i loro bisogni, come sempre è stato prima del capitalismo, bensì nel mezzo di una potenziale ricchezza mai storicamente realizzatasi: impianti industriali dalla enorme capacità produttiva fermi, magazzini colmi di merci invendute, stomaci proletari vuoti. Basterebbe far funzionare quelle fabbriche per soddisfare i bisogni dell’umanità. Ma ciò non è possibile perché non serve a realizzare profitto. Il capitalismo, da sempre inumano ma un tempo progressivo, si dimostra così anche reazionario.

In ogni azienda come in ogni paese la borghesia chiama i “propri” lavoratori a sacrificarsi per vincere la sua battaglia, rendendo più competitiva l’economia aziendale e nazionale, e cerca di convincerli che padroni e lavoratori “sono tutti sulla stessa barca”. Al contrario in questa guerra lo sconfitto è sempre il proletariato. I lavoratori, quando accettano di legare le proprie sorti a quelle dell’azienda o della patria, sono spinti in guerra fra di loro, oggi a colpi di salari più bassi e ritmi di lavoro più alti, domani a colpi di fucile e di cannone.

Il capitalismo è una lotta permanente fra Stati, gruppi industriali e finanziari, ciascuno in difesa dei propri profitti. La guerra è la prosecuzione di questa lotta coi mezzi idonei dettati dalla crisi.

E della crisi è la sola soluzione che conservi il capitalismo: distrugge le merci in eccesso, fra cui la forza lavoro; azzera i debiti dei paesi vincitori; sottomette la classe lavoratrice al massimo sfruttamento; conducendo i lavoratori al massacro fratricida sui fronti impedisce che la lotta sindacale per il soddisfacimento dei loro bisogni divenga lotta politica, ossia rivoluzione.

In tal modo la guerra consente l’avvio di un nuovo ciclo di accumulazione del capitale. Questo è il prezzo da pagare per il “ritorno alla crescita”, obiettivo che accomuna tutti i partiti votati alla conservazione di questo modo di produzione antistorico, che si dicono riformisti e sono invece tutti reazionari.

L’organizzazione dell’enorme capacità produttiva creata dal capitalismo al fine del soddisfacimento dei bisogni e non del profitto è presentata da questi partiti come una utopia. Essa invece, come spiegato su basi scientifiche dal marxismo rivoluzionario, è una possibilità materiale all’ordine del giorno della storia, come lo fu un secolo e mezzo fa lo sviluppo del capitalismo. I regimi nazionali capitalisti, pur di impedire questo progresso storico e conservare alla borghesia il potere politico e i suoi privilegi, hanno già dimostrato di essere pronti a condurre l’umanità intera nella più grande barbarie della storia.

Con queste cause e con questi effetti si sono combattute due guerre mondiali e si va preparando la terza. Il ciclo di forte espansione degli anni ’50 e ’60, figlio dei 70 milioni di morti – quasi tutti proletari e contadini – della seconda guerra mondiale, si è esaurito nel 1973-’74, con la prima manifestazione della crisi attuale, da allora frenata col ricorso al debito, l’allargamento del mercato mondiale e l’aumento dello sfruttamento della classe lavoratrice, ma che, inesorabilmente, segue ad aggravarsi.

Per la preparazione della guerra, oltre alla produzione di materiale bellico, è indispensabile per la borghesia predisporre una propaganda ideologica per convincere gli sfruttati al fratricidio. La Prima guerra mondiale fu spiegata, da una parte come necessaria contro il militarismo tedesco, dall’altra contro un feroce Zar feudale. La Seconda sarebbe stata della democrazia e del socialismo contro il fascismo e il nazismo. Oggi si fa leva sullo “scontro di civiltà” e sul “terrorismo islamico”, ben pilotato dall’esterno, per dar fuoco alle polveri in Libia e Medio Oriente.

Ma il comune bersaglio dei passati e futuri fronti contrapposti è, in ultima istanza, il proletariato perché esso è la sola forza che può dare alla crisi una soluzione progressiva e non reazionaria, abbattendo con la rivoluzione il capitalismo e i suoi regimi politici. Solo la rivoluzione può impedire la guerra ed eliminare la sua causa materiale – il capitalismo – aprendo la via a una società in cui il lavoro sia finalmente emancipato dalle leggi del profitto, col superamento dell’ultima forma di schiavitù, quella del lavoro salariato.

A questo fine la classe lavoratrice deve dotarsi delle sue fondamentali armi di battaglia: il Sindacato di Classe e il Partito Rivoluzionario.

 

 

 


Le lotte dei minatori indiani di fronte alle privatizzazioni

L’economia indiana cresce, ma, a seguito della crisi internazionale, non quanto vorrebbe. La classe dominante ha deciso di passare dai governi di “sinistra” spaccianti nazional-popolarismo a quelli di “destra”, nazional-populisti, e ha fatto eleggere a capo del governo il classico “uomo forte”, Narendra Modi, leader del Bharatiya Janata Party, il partito nazionalista, indù che ha conquistato la Camera bassa del Parlamento grazie ad una sostenuta campagna elettorale fatta di sontuose promesse.

Il programma economico del governo è incentrato sulle privatizzazioni di diversi settori industriali con lo scopo, vorrebbero far credere, di dare lavoro ai milioni di indiani disoccupati e riportare i tassi di crescita ai livelli pre-crisi.

L’India è il secondo Paese al mondo, dopo la Cina, per quantità di carbone bruciato a scopo energetico. È stato stimato che per il 2019 la produzione di carbone in India raddoppi arrivando quindi al miliardo di tonnellate, indicazione di quanto sia strategico per questo paese il carbone visto che non possiede né gas né petrolio mentre il suo sottosuolo è ricco di questo minerale di cui detiene un quinto delle riserve mondiali. Il carbone indiano però è di bassa qualità e presenta un elevato contenuto di ceneri, caratteristica che lo rende due volte più inquinante del carbone importato. In India, al contrario della Cina, il 90% giacimenti sono a cielo aperto con un impatto pesante per l’ambiente. Questo strategico settore è stato nazionalizzato nel 1972: da allora il gruppo pubblico Coal India è titolare del monopolio dello sfruttamento dei giacimenti e della vendita del carbone.

È in questo contesto che lo scorso 5 gennaio i minatori indiani sono entrati in sciopero contro un piano del governo che prevede la concessione ad aziende private di estrarre e vendere carbone. I lavoratori erano sostenuti dalle cinque grandi sigle sindacali che rappresentano la quasi totalità dei 500 mila lavoratori della società statale Coal India Ldt (CIL). Lo sciopero è cessato dopo due giorni quando i dirigenti sindacali hanno ricevuto assicurazioni dal governo che non avrebbe proceduto a denazionalizzare la CIL. Inoltre il governo avrebbe istituito una commissione (bontà loro!) per prendere in considerazione altre richieste tra cui la sicurezza e le condizioni di lavoro, e l’assicurato che la direzione non avrebbe effettuato azioni di rappresaglia contro i lavoratori che hanno scioperato.

Rajendra Prasad Singha, membro del Comitato Esecutivo di Industri-All e vice-presidente del sindacato HMS ha dichiarato: «Questo sciopero ha dimostrato la straordinaria unità della classe operaia e ha minato l’arroganza del governo». Che lo sciopero abbia dimostrato una sincera unità – di un parte numerosa ma minoritaria rispetto alla globalità della classe operaia indiana – è vero, ma che abbia minato l’arroganza e i piani del governo sicuramente no. Lo sciopero è terminato ancor prima di iniziare veramente, sarebbe dovuto durare almeno cinque giorni invece già dopo il primo si parlava di un accordo già scritto.

Le informazioni che ci arrivano dal questa enorme nazione sono poche e approssimative e non ci permettono una valutazione approfondita delle scelte sindacali. Se il governo è stato costretto dallo sciopero a sospendere la privatizzazione – va ricordata la centralità e l’importanza del carbone che è fonte del 60% dell’energia elettrica in India – non si fermerà nel suo attacco alla forza della classe operaia, asserragliata in quella grande categoria ed azienda, e che cercherà di smantellare o smembrare la società. Questo è il solo o il principale vero scopo delle “privatizzazioni”: abbattere le fragili difese di presunti “fortilizi” della classe operaia. L’esperienza dei minatori inglesi insegni.

In questa manovra il capitale sarà aiutato dal gioco, che ben conosciamo, dei sindacati di regime. Non muoverà, se le condizioni economiche gli consentono la gradualità, verso uno scontro frontale con i lavoratori, ma aprirà le porte della fonte energetica più inquinante al mondo ai capitali privati un passo alla volta, una crepa alla volta, e questo potrà farlo se le serpi in seno alla classe operaia, i sindacati complici, avranno modo di agire. Pochi mesi fa, infatti, l’esecutivo Modi ha attuato un piano di “riforme” del lavoro senza il contrasto delle principali centrali sindacali.

La classe operaia indiana dovrà presto apprendere che ogni “intervento” dello Stato nell’economia è sempre a vantaggio della borghesia, della classe che la sfrutta, interventi che, nel mondo, non hanno mai impedito né la crisi del capitale né il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tutta la classe operaia.

La contrapposizione tra la proprietà privata, che per i “sinistri” indiani è vista come il demonio, e quella dello Stato, che è comunque “privata” alla classe operaia, che tanti sedicenti partiti comunisti del subcontinente descrivono come primo passo verso il socialismo, è assolutamente falsa. Il capitale ha sempre assunto, e potrà in futuro assumere, a seconda delle esigenze, la titolarità giuridica dello Stato o di privati capitalisti o di società anonime non cambiando affatto la sostanza, ovvero le sue inviolabili leggi di funzionamento, alle quale si deve sottomettere qualsiasi macchina statale, per quanto potente che sia.

 

 

 

 


Fra la trappola della liquidità e quella della miseria che cresce

L’attuale governo Renzi, espressione degli interessi della borghesia italiana, come pure tutti quelli che l’hanno preceduto, è tutto impegnato a uscire dalla crisi economica iniziata a cavallo del 2007 e del 2008. Poiché gli “addetti ai lavori” continuano a sostenere che si tratta solo di una crisi di “sottoconsumo”, pianificano strategie economiche secondo quella convinzione.

È certo vero che centinaia di migliaia di disoccupati, cassaintegrati, sottoccupati, pensionati al minimo con le loro famiglie spendono di meno. La declamata soluzione anticrisi del loquace Matteo è stata quindi distribuire in busta paga ai lavoratori gli 80 euro mensili, spendendo i quali si sarebbero rivitalizzati i consumi interni e la produzione e infine creati nuovi posti di lavoro.

Se bastassero quelle poche decine di euro a rimettere in moto l’economia italiana significherebbe che la crisi non è poi così grave. La realtà dimostra ben altro. Inoltre, questi 80 euro vengono fuori da una riduzione della tassazione sul lavoro, ma buona parte di essi va a coprire l’aumento di tasse, imposte e tariffe, e quindi alla fine si tratta di una semplice partita di giro tra i diversi soggetti dell’amministrazione nazionale, regionale e comunale e ben poco rimarrà ai lavoratori.

Sicuro di aver trovato la formula vincente, il nostro gagliardo premier continua proponendo che ai lavoratori vada mensilmente in busta paga la quota del TFR, cioè la liquidazione. Non è ancora riuscito a superare la brillantissima proposta fatta una decina d’anni fa dall’allora ministro Tremonti quando invitò gli italiani ad aprire un’ipoteca sulla propria abitazione per destinare quei soldi ai consumi e così rivitalizzare l’economia! È chiaro che si tratta solo di palliativi, che al più ritarderebbero il precipizio della crisi.

A riprova della gravità della situazione ritornano con una certa frequenza negli articoli economici i riferimenti a due nozioni della loro economia: la “trappola della povertà” e la “trappola della liquidità”

Nei loro manuali la trappola della povertà è così descritta: «Situazione riscontrabile quando non vi è alcun incentivo per le persone con redditi bassi o nulli a cercare un lavoro, in quanto ogni reddito addizionale sarebbe compensato da perdite di benefici sociali e aumenti delle imposte». Eliminando ogni residua forma di assistenza pubblica si costringerebbero gli strati più bassi della classe operaia a cercarsi un lavoro qualsiasi, con generale riduzione dei salari. Il paradiso dei padroni.

La trappola della liquidità, cosa di maggiore sostanza, è invece così descritta: «È una situazione economica in cui gli operatori economici trattengono ogni liquidità aggiuntiva di moneta, e la politica monetaria non produce più effetti reali sull’economia e non è più in grado di influenzare la domanda aggregata. Il termine liquidity trap (trappola della liquidità) venne coniato dall’economista inglese John Maynard Keynes negli anni ‘30. Nella trappola della liquidità gli operatori economici hanno un’aspettativa negativa del futuro e, piuttosto che investire o spendere, tendono a trasformare qualsiasi aggiuntiva offerta di moneta (politica monetaria espansiva) in risparmio e in tesaurizzazione, anziché per finanziare degli investimenti produttivi».

«Questo comportamento degli imprenditori è definito da Keynes come “animal spirit” ed è perfettamente razionale dal punto di vista individuale ma irrazionale e dannoso dal punto di vista sociale. La trappola della liquidità scatta a livelli molto bassi del tasso d’interesse. In questa particolare situazione (tasso d’interesse al minimo) nessun operatore si attende un ulteriore ribasso del tasso di interesse. Quando il tasso d’interesse è già molto basso, qualsiasi ulteriore politica espansiva dell’offerta monetaria non contribuisce a ridurre il tasso d’interesse e, quindi, non genera effetti reali sulla produzione e sull’occupazione. Il mercato si dimostra poco reattivo alle variazioni del tasso d’interesse. In estrema sintesi, se in economia viene meno la fiducia, nemmeno un tasso d’interesse pari a zero può convincere le imprese a investire, le banche a finanziare e i consumatori a spendere».

Lo stesso Keynes era fortemente critico sulle politiche economiche espansive e di ribasso dei tassi d’interesse mentre sosteneva il rilancio della produzione attraverso un aumento della spesa pubblica. La costruzione del ponte sullo stretto di Messina, la barriera del Mose a Venezia, l’Alta velocità Torino-Lione, ecc. si riferiscono a politiche economiche di stampo keynesiano; quelle del continuo abbassamento del tasso di interesse delle banche centrali come la Fed negli Usa e quelle recenti di Draghi alla Bce, vanno nella direzione opposta, accentuando gli effetti negativi della trappola della liquidità.

Ma il nocciolo del problema non è lì e si confonde la causa con l’effetto. Per il marxismo l’origine di questa grande e lunga crisi è la sovrapproduzione di merci e di capitali. Le prime intasano i magazzini e i mercati, i secondi non trovano da investirsi ad accettabili tassi di profitto, ormai prossimi allo zero; ad una gigantesca estensione della massa dei capitali mondiali corrispondono profitti relativi sempre più bassi. Ma questo i borghesi non lo possono ammettere, perché dovrebbero riconoscervi il fallimento dell’intera economia capitalista.

Sappiamo come alla fine il Capitale, nazionale e mondiale, risolve la sua crisi, con una guerra generalizzata per distruggere capitali merci e capitali uomini, per poi riprendere un ulteriore ciclo di ricostruzione.

Le proposte di Renzi rivelano l’incapacità anche della borghesia italiana di approntare un qualsiasi piano economico, perché nel suo complesso la classe dominante non ha più risorse ed energie, situazione che sarebbe favorevole per il proletariato per scalzarla e abbatterne il potere!

 

 

 


Anticipazione inglese del mercimonio elettorale

Jean-Paul Marat, seguace di Rousseau, esponente di primo piano della rivoluzione francese, dal 1765 al 1776 si trasferisce a Londra dove esercita la professione di medico, con scarsa fortuna. Vivendo egli stesso nei quartieri poveri ne dà una descrizione che ci fa pensare a Dickens e ad Engels. Nel 1774 scrive “Le catene della schiavitù”, dove fa a pezzi il mito della democrazia inglese, allora in auge presso Voltaire e molti altri illuministi.

Leggiamo alcune righe.

     «Solo il denaro apre le porte del Senato, in cui una massa di imbecilli e di furfanti entra e non lascia più posto agli uomini di merito: scandalo orribile, ma così diffuso che non si prendono neanche la briga di nasconderlo».
     «Le elezioni inglesi non hanno finito di offrire orrende scene di crapula e di venalità. Invece di vedervi gli elettori smaniosi di dichiararsi per il merito di modesti candidati, vi si vedono torme numerose di votanti rimpinzarsi senza pudore a tavole prostituite e un branco strisciante di aspiranti prodigare bassezze su bassezze a degli uomini che non guarderanno nemmeno un istante dopo averne estorto il suffragio».

Il mondo è cambiato molto in 250 anni, ma evidentemente vi sono delle costanti, oltre che nella struttura economica e sociale, anche nella democrazia e nel parlamentarismo borghesi.

 

 

 

 

PAGINA 2


I lavori alla riunione generale del partito
Firenze, 24 e 25 gennaio 2015
[RG121]

Corso della crisi economica
Le società dell’India antica

La successione dei modi di produzione, La variante asiatica

Storia del movimento operaio e comunista in Irlanda
Il concetto di Dittatura prima di Marx, La Rivoluzione francese
La crisi della finanza

La questione militare - Verso la Prima Guerra mondiale

Attività sindacale
Storia dei sindacati in Venezuela
Origine del partito comunista in Italia
   

Per il perdurare del ciclo storico controrivoluzionario, apertosi con la sconfitta della rivoluzione in Europa, in Russia e in Cina alla fine del primo quarto del secolo scorso, nelle intercambiabili forme in Occidente dello stalinismo, del fascismo e della democrazia, qui ribadito poi da molti decenni di non guerra, di una effimera ma virulenta euforia produttiva seguita da un lento declino senza fine, al nostro piccolo partito queste condizioni esterne ad esso sfavorevoli hanno dato la possibilità di una continuità di posizioni, di vita e di lavoro per un arco temporale che è difficile trovare uguale nella storia dei partiti rivoluzionari.

Questo duro impegno di più generazioni di comunisti, in attesa della ripresa rivoluzionaria internazionale, per la preparazione dell’embrione del partito destinato a dirigerla, ha attinto alle lezioni della trascorsa sconfitta e ha proceduto ad un lavoro di restauro dell’incorrotto marxismo, di ricapitolazione, e di inquadramento nella invariante dottrina dei grandi fatti nuovi che nell’arco del secolo scorso sono venuti via via a sconvolgere il sempre inquieto complesso del capitalismo mondiale, incatenato alle sue invariabili leggi.

I risultati di questo importante compito si sono accumulati, nei decenni, sulle colonne dei nostri organi a stampa e costituiscono ormai un patrimonio, ben organicamente connesso benché sparso in tante annate ingiallite, in diversi studi e in lingue diverse, che è il partito, e che senza il quale il partito non è.

Per questo il movimento non trascura di mantenere il legame fra il lavoro di oggi con quello di ieri, di porlo sul piedistallo, di appoggiarlo, di innalzarsi, su quello di ieri. Si sa che noi ci teniamo a dialogare con i compagni morti. E per questo il partito tempestivamente si costruì degli strumenti, gli “Indici del Lavoro del Partito”, allora distribuiti ciclostilati a tutte le sezioni, per potersi addentrare in tale grande mole di materiale, solo apparentemente disordinata ed eterogenea, funzione basilare alla quale il movimento continua a dedicare la necessaria attenzione.

Le riunioni generali servono anche a questo, a ricordarci fra di noi quello che è stato già fatto, per raccordare il presente al nostro passato. E questo abbiamo cercato di fare anche all’ultima nostra riunione, tenuta a Firenze il 24 e 25 gennaio scorsi, con la presenza di una rappresentanza di quasi tutti i nostri gruppi. Venerdì pomeriggio e sabato mattina la riunione organizzativa dei lavori, sabato pomeriggio e domenica mattina abbiamo ascoltato l’esposizione delle numerose relazioni, tutte di estremo interesse ed importanza, perché, in realtà, non costituiscono che attacchi da diverse direzioni in un unico piano di assalto alla fortezza del capitale.

Al solito ne diamo qui subito un primo significativo riassunto.

 

La successione dei modi di produzione - La variante asiatica

Lo studio delle forme di produzione è giunto ad analizzare quel primo modo di produzione caratterizzato dalla divisione in classi antagoniste. La pratica dell’agricoltura e l’addomesticamento e l’allevamento degli animali, la rivoluzione urbana con la formazione delle prime città-stato, ecc., permettono un impetuoso progredire delle forze di produzione. Contemporaneamente distruggono i rapporti entro cui si erano pacificamente accresciute. Così disgregano l’antica unione tra forze e rapporti produttivi, inaugurando il feticismo nel quale i rapporti sociali si nascondono dietro le cose. Dell’infanzia dell’umanità resta il ricordo nel mito di una passata età dell’oro, oltre a sopravvivenze marginali nei rapporti sociali.

Ogni società di una certa consistenza spaziale e demografica deve aver attraversato una fase asiatica: i legami comunitari e di consanguineità, la proprietà collettiva dei mezzi di produzione – primo fra tutti la terra – gli istituti decisionali assembleari, ecc. non sono scomparsi all’improvviso; il germe dell’antagonismo di classe ha corroso la comunità naturale fino all’affermarsi del dominio della proprietà privata, a contrapporre la sfera politica alla società, ecc.; questo progresso sociale – accompagnato nei millenni da una scia di sangue che ancora il comunismo non ha lavato – ha riguardato certamente tutte le formazioni sociali uscite dalla forma primaria. In alcune di esse – soprattutto nell’area del Mediterraneo orientale – la proprietà privata presto ha sostituito i legami comunitari e la classe di proprietari si è costruita un potere politico, uno Stato, e qui la fase asiatica è scomparsa rapidamente quasi senza lasciare tracce. Altrove, in Asia e in America, al contrario la variante asiatica è sopravvissuta per millenni ed è crollata solo sotto i colpi del colonialismo europeo.

L’allevamento e l’agricoltura, dapprima collettive, generano progressivamente e si fondano sulla proprietà degli armenti e delle terre. La società perde la possibilità di svilupparsi armonicamente per assumere i connotati di una guerra di difesa dei privilegi particolari delle classi in cui si divide. Contemporaneamente nasce la contrapposizione tipica delle società classiste, quella tra città e campagna.

Il disfacimento del possesso collettivo dei mezzi di produzione, e del principale all’epoca, la terra, procedette lentamente nella variante asiatica per la staticità dei rapporti sociali che la contraddistinguono, così facendola sopravvivere a lungo alle proprie contraddizioni.

In generale, l’amministrazione cosiddetta templare-palaziale – specie nella Mezzaluna Fertile – aveva formalmente al suo vertice la divinità cittadina, proprietaria nominale dei terreni statali e trasfigurazione mitologica degli antichi legami comunitari. Il tempio-palazzo era presieduto da funzionari, dai quali dipendeva una schiera di inferiori in grado con compiti amministrativi o culturali (scribi, astronomi, geografi, ecc.). Dall’autorità centrale, dal tempio, costituitosi come grande proprietario terriero, dipendevano anche artigiani e manovali, impiegati in edilizia e nei lavori agricoli sui suoi terreni (a riprova dell’antica origine del “moderno” capitalismo di Stato).

Il sovrapprodotto, accresciutosi essenzialmente per le migliorate tecniche agricole, rese possibili per il concentrarsi e l’ordinamento di così estese forze produttive, consente l’ulteriore progredire della divisione del lavoro e ad una parte della società di dedicarsi ad attività non immediatamente legate alla produzione materiale. Se da un lato questo processo rappresenta un grande progresso, dall’altro diventa la base economica di un dominio e di una sottomissione di classe, distruggendo quell’antica armonia umana che si rigenererà soltanto nel comunismo superiore.

La mercatura nasce dall’esigenza di scambio interno ad una struttura produttiva differenziatasi in branche autonome e per permettere a queste di espandersi. I mercanti nascono non come ceto autonomo, ma dipendenti dal potere palaziale-templare. Col progredire della separazione fra i diversi campi produttivi la pura qualità, il valore di uso, si trasforma in pura (non ancora purissima) quantità, in valore di scambio. Si arriva ad una produzione finalizzata allo scambio e ad una sempre più completa specializzazione e divisione del lavoro.

Lo sviluppo del settore mercantile richiese l’invenzione del denaro, e, in successione, del suo prestito ed usura, fino, inevitabilmente, alla coniazione di monete false.

Ciò che connota questa variante della forma di produzione secondaria è la presenza, da una parte, di una forte autorità centrale, che sovraintende ai lavori pubblici in generale (opere idrauliche, di difesa, riscossione dei tributi, ecc.) e, dall’altra, di piccole comuni rurali, autosufficienti.

Lo Stato, per assicurare ai coltivatori la continuità del processo di lavoro, oltre alle funzioni di coordinatore dei lavori pubblici indispensabili all’agricoltura, deve assumere funzioni militari: difesa delle colture dalle invasioni dei popoli nomadi, che tendono a ritrasformare in pascoli i terreni agricoli.

Nelle comuni, l’individuo è vitalmente legato alla collettività: la sua attività di produttore ha come presupposto il lavoro collettivo e l’esercizio comune del possesso del suolo. Una parte del suo lavoro appartiene, come eccedenza, alla comunità, una parte all’autorità centrale. La comune, a sua volta, poggia come unità economica su quella combinazione fra agricoltura e industria domestica che le assicura l’autosufficienza, e l’individuo può o lavorare in forma autonoma sulla particella di terreno assegnatagli periodicamente dalla comune, o agire come parte di un’organizzazione collettiva per la coltivazione del suolo.

Con il progredire delle società in direzione della produzione mercantile i rapporti tra centro e periferia si fonderanno sempre più su intermediazioni in moneta e sempre meno sull’amministrazione diretta di terre e greggi o sul controllo diretto del lavoro; l’amministrazione centrale si limiterà a controllare che dazi ed imposte corrispondano a quanto atteso; i servizi di corvèe saranno allora conseguentemente convertiti in tributi al sovrano.

La variante asiatica è immobile e “senza storia” perché più tenace contro i cambiamenti; non contiene elementi che riescono a disgregarla; essendo la più vicina al comunismo primitivo ne conserva maggiormente i caratteri di organicità. La produzione vi si svolge in cerchie che abbracciano l’intero villaggio-comunità, ma chiuse verso l’esterno. L’immobilismo asiatico non implica l’assenza di rapporti vivi e vitali all’interno della formazione sociale, il punto è che la contrapposizione tra forme di appropriazione collettive e private – motore del cambiamento e motivo della maggiore vitalità della variante antico-classica e germanica – non è così esacerbata come in queste ultime, anzi è di scarso peso.

L’evoluzione delle società si riflette su quella dei rapporti di tipo familiare. A misura che i rapporti di proprietà privata di terre e greggi soppiantano i primitivi legami di sangue, il proprietario dei mezzi di lavoro lo diventa anche dei produttori. Così, dissolti i rapporti sociali del comunismo primitivo, il patriarcato arriverà allo schiavismo per i produttori, e dalla famiglia primitiva, funzionalmente fondata sul matriarcato, si determina una sottomissione dei membri della comunità familiare proprietaria, i cui membri divengono schiavi domestici. La condizione della donna diventa lo specchio della condizione dei produttori.

 

Storia del movimento operaio e comunista in Irlanda

In questa riunione un altro compagno ci ha illustrato un ulteriore capitolo della studio di approfondimento della storia del movimento operaio in Irlanda, giunta al primo sorgere nell’Isola dei sindacati e di un indipendente partito dei lavoratori.

Nel 1871 a Dublino e a Cork si erano costituite sezioni della Prima Internazionale. Il Manifesto della Sezione Irlandese dell’Associazione Internazionale sanciva: «L’antagonismo nazionale fra operai inglesi ed irlandesi in Inghilterra è stato fino ad oggi uno dei principali ostacoli sulla strada di qualsiasi tentativo di movimento per l’emancipazione della classe operaia, e quindi uno dei principali puntelli della classe dominante così in Inghilterra come in Irlanda. Il diffondersi dell’Internazionale in Irlanda e la formazione di sezioni irlandesi in Inghilterra minaccia di metter fine a questo stato di cose».

L’Internazionale avrebbe presto attratto numerose adesioni, e partecipato alle lotte operaie, guadagnandosi la condanna della Chiesa cattolica.

Dopo il declino dell’Internazionale, alla metà degli anni Settanta, a Dublino un piccolo gruppo di socialisti cercò di tener vivo il pensiero marxista in un Club Socialista.

Questo gruppo avrebbe anche attivamente ispirato l’organizzazione dei lavoratori non specializzati e il loro reclutamento nella Gasworkers’ Union, il cui vittorioso sciopero del 1889 in Inghilterra aveva dato alla categoria grande slancio. Nel febbraio del 1891 Engels aveva motivi di ritenere che quella Union sarebbe riuscita a dare stimolo al movimento dei lavoratori in Irlanda: essa organizzava anche i lavoratori agricoli, era la più forte in Irlanda e già proponeva i suoi candidati alle imminenti elezioni. Il Secondo Congresso di quella che ora era divenuta la National Union of Gasworkers and General Labourers of Great Britain and Ireland, si sarebbe tenuto a Dublino in maggio. Vi parteciparono Eleonora Marx ed Edoardo Aveling. Il Congresso adottò la decisione di far partecipare il sindacato al successivo Congresso Internazionale Socialista a Bruxelles, al quale furono delegati Eleonora e Guglielmo Thorne.

Nel suo intervento a Bruxelles Eleonora avrebbe fatto specifico riferimento ai 25.000 iscritti del sindacato in Irlanda, e vi riferì che «le parole più applaudite alla grande dimostrazione al Parco Phoenix sono state “Che l’Irlanda sia libera, ma che sia un’Irlanda di liberi lavoratori; ha poca importanza agli uomini e alle donne di Irlanda se sono i nazionalisti o gli orangisti a sfruttarli; i lavoratori agricoli vedono il loro nemico nel proprietario fondiario, come gli operai industriali lo vedono nel capitalista”». Eleonora Marx affermò infine che il movimento degli operai meno qualificati indicava che si scorgeva finalmente di nuovo un genuino movimento operaio, che faceva sperare il formarsi di un vero partito della classe operaia, distinto dagli altri partiti.

Dopo il primo Congresso dei sindacati di Irlanda, nel 1894, quando fu evidente che gli interessi della classe operaia erano costantemente traditi dalla coalizione cosiddetta “Lib-Lab”, notevoli sezioni si formarono a Belfast e a Dublino dello Indipendent Labour Party. Ma il partito divenne presto e sempre più imbevuto di fabianesimo, tanto che la sezione di Dublino, i cui membri erano stati molto attivi durante il formarsi della Gasworkers’ Union, se ne sarebbe andata via con l’intenzione di darsi una maggiore chiarezza teorica.

Fu questo gruppo che “ingaggiò” James Connolly, uno scozzese di discendenza irlandese che viveva ad Edimburgo, come “organizzatore socialista” e lo invitò a Dublino nella primavera del 1896. Su suggerimento di Connolly si sarebbe formato un nuovo partito di classe, lo Irish Socialist Republican Party.

Nella sua prima presa di posizione in nome del nuovo partito Connolly affermò: «La lotta per la libertà irlandese ha due aspetti: è nazionale ed è sociale. Il suo ideale nazionale non si potrà mai realizzare se non quando l’Irlanda si presenti davanti al mondo come una nazione libera ed indipendente. È sociale ed economica perché, qualunque sia la forma del suo governo, fintanto una classe detiene in sua proprietà privata la terra e gli strumenti di lavoro, dai quali l’umanità trae la sua sussistenza, quella classe avrà sempre il potere di saccheggiare e di schiavizzare il resto delle creature umane».

Fu adottato un programma, modellato su quello della Social Democratic Federation, che si dava il fine ultimo di costituire una “Repubblica Socialista Irlandese”.

In sua attesa, poiché «la lotta deve precedere il nostro ideale», un numero di richieste palliative si sarebbere «rese utili per necessità politiche». «Il nostro ideale è la proprietà pubblica del popolo irlandese delle terra e degli strumenti di produzione, distribuzione e scambio», ma il programma del partito dichiarava che nel periodo precedente realizzazione, si sarebbe anche impegnato per l’ottenimento di riforme.

Nel 1899 Connolly chiarì che, per il nuovo partito, le rivendicazioni della proprietà e del controllo statale delle imprese non significavano automaticamente il socialismo, ma «socialismo sarebbe il la proprietà dello Stato di tutta la terra e dei materiali per il lavoro combinata con il controllo cooperativo degli operai su tali terra e materiali (...) Al grido dei riformatori borghesi, “Facciamo di questo o di quello proprietà del governo”, noi rispondiamo, “Si, nella misura in cui i lavoratori saranno pronti a fare del governo la loro proprietà».

Nello stesso anno il partito lanciò una campagna contro la guerra ai boeri, lo scopo della quale Connolly avrebbe identificato nel “dare la possibilità ad una banda di capitalisti senza scrupoli di arraffare l’immensa ricchezza dei campi diamantiferi».

La maggiore apertura risultante dalla legge del 1899 sull’Irish Local Government vide crescere la partecipazione alle elezioni anche degli operai, ed associazioni elettorali di lavoratori sorsero per proporre loro candidati. Connolly sarebbe inorridito per la velocità con la quale questi candidati, una volta eletti, soccombevano alla corruzione e mancavano di appoggiare le pur minime richieste operaie. Alle successive elezioni le associazioni elettorali dei lavoratori subirono una totale disfatta, e in quel vuoto penetrarono i fabiani, che cercarono di riportare la classe operaia alla partecipazione elettorale sotto la bandiere del “socialismo municipale”.

Sul piano internazionale la scissione fra gli elementi riformisti, come i fabiani, ed i rivoluzionari intransigenti sarebbe culminata al Congresso dell’Internazionale Socialista del 1900. Qui si imponeva all’ordine del giorno la questione del deputato socialista francese Millerand, che era entrato a far parte di un governo che comprendeva il generale Galliffet, il “macellaio della Comune”. Due delegati del I.S.R.P. erano presenti a quel congresso, e solo essi e i delegati bulgari avrebbero votato risolutamente contro la equivoca risoluzione proposta da Kautsky, concepita per svilire il dibattito sulla importante questione di principio al fatto formale che Millerand non aveva precedentemente chiesto il permesso al partito.

Ma i delegati dell’I.S.R.P. avrebbero tracciato una distinzione fra loro e le posizioni difese da Rosa Luxemburg, che affermavano che si dovesse accettare l’annessione e la spartizione della Polonia in nome della solidarietà internazionale dei lavoratori e della lotta per il comunismo, atteggiamento che sarebbe stato altrettanto errato applicare all’Irlanda.

Il relatore a questo punto ha riassunto le posizioni del marxismo sulla lotta di indipendenza irlandese, già più approfonditamente espresse dal rapporto tenuto da altro compagno alla riunione a Genova nel maggio dello scorso anno, sulla scorta di citazioni chiave di Marx e di Engels.

Il rapporto si è concluso con uno sguardo al divenire della legislazione inglese nei confronti dei sindacati allo svolto del secolo: il caso Quinn contro Leatham in Irlanda e la sentenza Taff Vale in Inghilterra, che favorirono la formazione di partiti indipendenti della classe operaia su entrambe le rive del Mare d’Irlanda. Dopo cinque anni di lotte si ottenne il Trade Disputes Act nel 1906, che restituì ai sindacati alcuni diritti e poteri dei quali erano stati privati.

Il capitolo successivo del lavoro descriverà la nuova ondata di agitazioni fra gli operai non specializzati in Irlanda, che conquistarono nuovi diritti, in particolare organizzati nella Irish Transport Workers’ Union, nata come alternativa di classe ai sindacati “ufficiali”, che erano già divenuti parte dell’apparato del sistema capitalista di controllo della classe operaia.

 

Il concetto di Dittatura prima di Marx - La Rivoluzione francese

Tra i primi a parlare della necessità di una dittatura rivoluzionaria fu sicuramente Marat. Tale concezione è invece assente tra gli “arrabbiati” e tra gli “esagerati” o hébertisti. Negli “arrabbiati” troviamo un innegabile istinto di classe per cui è difficile definirli giacobini, pur frequentando il Club, non condividendone la concezione, maturata con gli eventi, di una alleanza tra la piccola e media borghesia, da cui i giacobini in gran parte provenivano, e i sanculotti, vale a dire le plebi urbane composte da artigiani anche con dipendenti, e in misura minore ma importante da operai salariati in gran parte di quelle stesse botteghe artigiane.

Gli “arrabbiati” condividevano con i giacobini la base ideologica rousseauiana, per cui non volevano affatto eliminare la proprietà privata, ma arrivare ad una società di piccoli contadini e di artigiani indipendenti sul modello dell’antica Sparta e della Roma repubblicana. Essi sostenevano che all’antica aristocrazia nobiliare si era sostituita la nuova aristocrazia della ricchezza, contribuendo quindi alla nascita della Repubblica dell’anno II e chiedendo, come Hébert, la requisizione di tutto ciò che serve a sfamare il popolo e la ghigliottina per tutti gli speculatori ed accaparratori. Senza aver alcuna simpatia per il passato monarchico essi, come tutti i sanculotti, vedevano nell’antica regolamentazione, nell’organizzazione corporativa e nei diritti comuni, l’unica salvaguardia per l’esistenza della gran parte della popolazione.

Furono attaccati duramente da Marat e da Hébert che, pur condividendone molte posizioni, li consideravano un pericolo per l’unità dei rivoluzionari. Per Hébert, che ad un certo punto si trovò a dirigere il Comune rivoluzionario di Parigi, diventarono di conseguenza anche un pericolo per la propria autorità. Dalle dichiarazioni e dagli scritti di costoro emerge la consapevolezza della necessità di misure straordinarie, ma non si capisce chi dovrebbe prenderle se non il popolo, e accusano di mire dittatoriali il Comitato di Salute Pubblica e coloro che ne sostengono la necessità.

Jacques Roux, prete parigino, scrive: «Volete dunque metter fine ai tradimenti, all’anarchia, al terrore, ristabilire le finanze, lo spirito pubblico, restituire l’anima e la vita al corpo civile? Imitate l’esempio datovi dal Senato romano, sospendete le leggi nei riguardi di chiunque si sia dichiarato contrario alla causa del popolo». «La libertà non è che un vano fantasma, quando una classe di uomini può impunemente affamare l’altra, quando il ricco, per mezzo del monopolio, esercita il diritto di vita e di morte sul suo simile. La Repubblica non è che un vano fantasma quando la controrivoluzione si realizza, giorno per giorno, tramite i prezzi degli alimenti a cui i tre quarti della popolazione non possono far fronte senza versare lacrime».

Marat, nato in Svizzera da un emigrato sardo, a Parigi viene a contatto con l’ambiente degli enciclopedisti e, al momento della rottura tra questi e Rousseau, prende le parti di quest’ultimo. Resterà sempre un rousseauiano. Emigra a Londra dal 1765 al 1776. Le condizioni di vita che vede nei quartieri poveri lo portano a rigettare il mito della democrazia inglese, in auge presso Voltaire e molti altri illuministi.

In una sua nota al termine Popolo leggiamo: «Per me il termine popolo è quasi sempre sinonimo di quello di nazione. Quando lo distinguo, come in questo caso, esso designa la nazione ad esclusione dei suoi numerosi nemici».

Il 16 settembre 1789 fonda il giornale “L’Ami du peuple”, dove troviamo un’altra nota allo stesso termine: «È la sola parte sana della nazione, la sola che ama la libertà, la sola che vuole il bene pubblico; in tutte le altre classi la massa è corrotta e vi sono soltanto delle onorevoli eccezioni». Da un’altra nota: «È questo un motivo potente per indurre tutti i cittadini a protestare a favore dei diritti del popolo. Se per disgrazia sopraggiungesse di nuovo un periodo di crisi, invece di venirci in aiuto, egli avrebbe ragione di tapparsi le orecchie, di restare immobile e di lasciare che ci sgozzino».

Nel suo giornale del 30 luglio 1790 è un articolo titolato “Necessità di un dittatore”: «(Il popolo chiede) l’istituzione di una carica di dittatore, eletto dal popolo nei periodi di crisi, il cui potere durasse soltanto tre giorni e il cui compito sarebbe di punire senza eccezioni i cattivi cittadini che avessero messo in pericolo la salute pubblica».

Naturalmente il dittatore ha i tratti del Cincinnato romano, che restò in carica meno di 24 ore per poi tornare al proprio aratro. Marat comunque, e per primo, si era posto il problema. In un suo pamphlet del 26 agosto 1792 scrive: «Ve la dirò, miei cari amici, forse sarete costretti alla fine, per salvare il popolo, a nominare un triumvirato con gli uomini più illuminati, più integri e più intrepidi che concerteranno tutte le loro risoluzioni in un consiglio composto dai patrioti più intelligenti e più puri. Non vi spaventate delle parole, soltanto con la forza riusciremo a far trionfare la libertà e a garantire la salute pubblica».

Marat, essenzialmente un isolato anche tra i giacobini, fu probabilmente l’unico, già nel 1790, a parlare di repubblica e della necessità di una dittatura rivoluzionaria.

Il 25 settembre 1792 i girondini accusano i deputati di Parigi di aspirare alla dittatura. Danton e Robespierre si difendono prendendo le distanze da Marat, che rispose: «Credo di essere il primo scrittore politico e forse il solo in Francia dopo la Rivoluzione che abbia proposto un tribuno militare, un dittatore, dei triumviri, unico mezzo atto ad annientare i traditori e i cospiratori».

(Fine del resoconto al prossimo numero)


 

 


Riunione del partito in Venezuela

La prevista riunione regionale del nostro partito in Venezuela si è tenuta nei giorni di sabato 13 e di domenica 14 novembre scorso alla presenza della gran parte dei compagni della sezione.

Prima di tutto abbiamo condiviso il dolore per l’assenza di Domingo, morto il giorno 4 precedente, compagno apprezzato da tutti noi. Chi ha assistito al funerale ha riferito delle parole che abbiamo scambiato con i figli, ai quali abbiamo espresso le nostre condoglianze e solidarietà.

Abbiamo poi dato informazioni sui compagni che motivi di salute tengono lontani dalle riunioni e dall’attività del partito, con i quali manteniamo i contatti e cerchiamo di aiutarne le famiglie.

Nonostante questo lutto e queste difficoltà la riunione ha dimostrato il solito nostro entusiasmo, disponibilità e combattività. Come sempre, e come impone il metodo di partito, i lavori si sono svolti senza alcun ricorso alle pratiche democratiche, tipiche degli opportunisti e dei falsi rivoluzionari. Con le nostre predeterminate teoria, strategia e tattica, non abbiamo bisogno di alzare la mano per intraprendere strade in direzione di nuovi, o vecchi, falsi socialismi, né per decidere alleanze con la borghesia o fronti popolari nei quali il proletariato in ginocchio, privo di una vera direzione rivoluzionaria, si sottomette ai piani di conservazione dello sfruttamento capitalista.

Il nostro partito non prende la strada facile di compiacere le aspettative degli attivisti, dei volontaristi, degli spontaneisti, dei cultori della democrazia e di chi non comprende che l’unica forma di organizzazione dei comunisti è il partito e il suo unico metodo il centralismo organico, che non ammette lotta politica interna né la libertà di critica dei riformisti e dei revisionisti.

In questa riunione di lavoro collettivo ci siamo concentrati nella rilettura delle “Tesi e valutazioni classiche del partito di fronte alle guerre imperialiste”, redatte nel 1989 e pubblicate per la prima volta nel febbraio 1990 sul nostro organo in italiano “Il Partito Comunista” e successivamente in spagnolo su “La Izquierda Comunista” del novembre 1999.

Tramite questa lettura abbiamo potuto confermare la distinzione fra i tipi di guerra previsti dal partito: guerre progressive, guerre imperialiste, guerre rivoluzionarie.

Le guerre imperialiste sono inevitabili. «La guerra non è una politica di un certo strato o partito borghese, è una necessità economica». Solo la classe proletaria guidata dal suo partito può, ha possibilità di impedire la guerra imperialista. «Solo se verrà rasa al suolo la struttura mondiale del potere capitalistico potranno essere risparmiati all’umanità i suoi orrori, primo fra tutti la guerra». «La guerra generale è storicamente evitabile, ma alla sola condizione che le si opponga un movimento della pura classe salariata e che questo l’attenda non per surrogarla con la pace, ma per abbattere, con essa neonata possibilmente, il vecchio infame capitalismo».

«La tattica del partito di fronte alla guerra imperialista poggia sulla dottrina del disfattismo rivoluzionario di Lenin, del sabotaggio senza riserve della guerra, anche unilaterale, per tramutarla in guerra civile, contro il proprio governo, per la presa del potere e l’instaurazione della dittatura proletaria».

Alla riunione infine abbiamo ascoltato il resoconto finanziario, abbiamo deciso il programma di nuove riunioni e si sono presi accordi per preparare il secondo numero del periodico in lingua spagnola.

 
 
 
 
 

 

  
 
 

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

 

La Fiom alla riprova degli scioperi alla Fiat contro lo straordinario nei sabati e domeniche
 

Bravo Marchionne

Il 12 gennaio Marchionne annunciava da Detroit l’assunzione di mille lavoratori alla Fiat Sata di Melfi. Intervistato da Repubblica il 14 gennaio, Landini dichiarava: «È un’ottima notizia. Diciamo bravissimo a Marchionne. È la dimostrazione che con gli investimenti e i nuovi prodotti arriva l’occupazione». Potremmo definire quella di Landini demagogia sindacale: un pensiero che apparentemente aderisce alla realtà ma solo perché ne rimane alla superficie rifiutandosi di andarvi in profondità. Che ingenti investimenti comportino acquisto di materie prime e macchinari da un lato (il capitale costante) e forza lavoro dall’altro (il capitale variabile) è scoprire l’uovo di Colombo! Mezzo metro più in profondità della demagogia sindacale di Landini vi è la constatazione che gli investimenti possono anche significare ammodernamento della fabbrica, sostituzione dei lavoratori con le macchine e quindi generare l’effetto opposto: diminuire gli occupati. Produrre di più con meno operai, cioè aumentare la produttività per diminuire il costo per unità di prodotto, ossia abbassare il valore della singola merce e quindi il suo prezzo, allo scopo di battere la concorrenza.

Ma si può – e si deve – andare ancora più in profondità. Il Capitale è investito se genera profitto. Uno dei fattori fondamentali della crisi del capitalismo è la sovrapproduzione. Se il mercato è saturo le aziende non investono perché non riescono a vendere le merci. Per questo le fabbriche si fermano. Questa è stata la situazione del comparto produttivo automobilistico, come di tanti altri, con la nuova accelerazione della crisi nel 2007/08. Landini aveva un bel invocare investimenti in questa situazione.

Ora, dopo anni di drastici cali delle vendite, si assiste a una parziale ripresa – buona nell’area nordamericana (Stati Uniti, Canada, Messico), debole in Europa – e alcuni stabilimenti del gruppo in Italia riprendono a produrre. Le vendite negli Stati Uniti sono favorite dal deprezzamento dell’Euro rispetto al Dollaro e in generale nel mondo dal calo del prezzo del petrolio e quindi dei carburanti. Tutti fattori dell’economica capitalista di cui una azienda tiene ovviamente conto. Nulla ha fatto di strano o straordinario la Fiat ed il suo amministratore delegato, né prima né ora, se non battersi per la affermazione di questa azienda nel mercato mondiale.

“Bravo Marchionne”, certo, è ciò che penseranno gli azionisti Fiat. Ma è interesse della classe operaia la affermazione della Fiat sul mercato mondiale? Se in questa competizione la Fiat vince non sarà a discapito di altri gruppi, o viceversa? E che sarà dei lavoratori delle aziende sconfitte nella competizione capitalista? Le sorti dei lavoratori dipendono dalle fortune della azienda in cui lavorano? Vi saranno lavoratori che vincono insieme alle aziende per cui lavorano e altri che perdono, o piuttosto tutti saranno sconfitti se sottometteranno i loro interessi a quelli aziendali?

Per queste elementari considerazioni classiste il movimento operaio nella sua grande tradizione ha sempre rifiutato di legare la lotta alla disoccupazione alle sorti della azienda, come fa invece Landini sostenendo che gli investimenti portano l’occupazione; si è invece sempre battuto per una soluzione che tanto va contro gli interessi di tutte le aziende quanto è favorevole a quelli di tutti i lavoratori: la riduzione dell’orario di lavoro.

 

Svilire lo sciopero: Pomigliano

A seguito della ripresa produttiva, da gennaio, in alcuni stabilimenti la Fiat comanda sabati e domeniche di straordinario. Dopo anni di cassa integrazione, a fronte del ritorno degli ordini l’azienda pretende di produrre ai massimi ritmi. Si arriverà così più in fretta a una nuova saturazione del mercato, a nuova cassa integrazione, a nuovi licenziamenti. Ma il profitto sarà massimo e maggiori le possibilità di non soccombere nella competizione capitalista. Altre strade, nel capitalismo, non vi sono né si sono mai viste. Il massimo per il capitale è disporre dei lavoratori come esso meglio vuole: massima “flessibilità”.

Contro questa pretesa la Fiom proclama lo sciopero dello straordinario il sabato e la domenica. Si tratta più di una azione simbolica, di non piegarsi completamente alla volontà aziendale, che di una lotta per conquistare un determinato obiettivo: si sa infatti che lo sciopero sarà difficile per dei lavoratori che vengono da mesi di cassa integrazione. A Pomigliano metà della forza lavoro è ancora in questa condizione. Lo sciopero quindi avrebbe un valore, perché indica la strada della distribuzione del lavoro fra tutti gli oltre 4000 operai. Ma questo obiettivo è evocato dalla Fiom come un generale principio di giustizia e non vi è alcuna intenzione di imbastire una lotta adeguata a raggiungerlo effettivamente.

Va ricordato cosa accadde nel 2013. La Fiom e lo Slai Cobas proclamarono anche allora, per sabato 15 giugno, sciopero dello straordinario. Un ingente schieramento poliziesco spezzò i picchetti. Il sabato successivo si mosse la Fiom nazionale: fu organizzata nella notte del venerdì una sorta di festa, alla presenza di Landini, con delegati da varie parti d’Italia e anche qualche parlamentare. Ma il picchetto, questa volta, non provò nemmeno a opporre resistenza all’intervento poliziesco: appena le forze dell’ordine si fecero avanti Landini ne ordinò lo scioglimento.

Era perciò certa la difficoltà del nuovo sciopero contro lo straordinario. Cosa ha fatto la Fiom per cercare di portare successo alla nuova mobilitazione o quanto meno di evitare un suo completo fallimento? Nulla. Nemmeno un finto picchetto come nel 2013. E nemmeno dei semplici volantinaggi nelle giornate precedenti per informare i lavoratori dello sciopero. Ci si è limitati ad appendere in bacheca un volantino. Sabato 14 febbraio allo sciopero hanno aderito cinque lavoratori su 1.478 comandati allo straordinario.

La stampa borghese giustamente non si è fatta scappare l’occasione ed ha esaltato la sconfitta. Landini, intervistato dal Mattino di Napoli, non se ne è mostrato preoccupato: «Lo sapevamo che sarebbe andata così, eravamo consapevoli di ciò che sarebbe successo». Perché non far nulla per evitare la disfatta di uno sciopero, per di più in quella fabbrica simbolica dove iniziò, nel giugno 2010, da un lato, con Marchionne alla testa, il nuovo più duro attacco padronale, dall’altro la nomea della Fiom quale unico sindacato che voleva e poteva opporsi ad esso? Riportiamo i fatti per poi dare la nostra spiegazione.

A seguito del suo fallimento la Fiom sospende lo sciopero a Pomigliano e annuncia che per il sabato successivo, il 21 febbraio, «i delegati e gli iscritti della Fiom devolveranno le maggiorazioni dello straordinario a un fondo di solidarietà gestito da Don Peppino Gambardella e dall’Associazione Libera. Si invitano tutti i lavoratori a contribuire a tale fondo che verrà utilizzato per aiutare i colleghi in difficoltà». Dunque, non sciopero per imporre ai padroni di aprire le tasche a sostegno dei lavoratori ma ulteriore sacrifico degli operai stessi, lasciando indisturbati gli industriali. Coerentemente, questa iniziativa dal sapore di penitenza pasquale è data in gestione ai preti.

 

Combattere lo sciopero: Melfi

Alla Fiat Sata di Melfi l’adesione agli scioperi, pur sempre minoritaria, è più robusta: fra i 300 e i 400 scioperanti su circa 2.000 operai chiamati al lavoro il sabato e la domenica. Ciononostante venerdì 20 febbraio, in una riunione fra direzione nazionale, regionale ed RSA di stabilimento, la Fiom decide anche in questo stabilimento di sospendere lo sciopero. Una minoranza di delegati però – cinque su sedici – non rispetta la decisione e prosegue a organizzare gli scioperi.

La rinuncia allo sciopero da parte della Fiom avviene durante la cruciale trattativa sul passaggio da 18 a 20 turni. In tal modo Melfi diviene la prima fabbrica automobilistica a ciclo continuo, sottoponendo gli operai a uno sfruttamento ancora più spietato per giungere a produrre 1.100 auto al giorno e correre più rapidamente verso nuova sovrapproduzione, cassa integrazione, nuovi licenziamenti, massimizzando però nel periodo di ripresa degli ordini il saggio del profitto. L’accordo è siglato da Fim-Uilm-Fismic-Ugl-Aqcf la sera di giovedì 26 febbraio. Nelle assemblee i giorni successivi vi sono contestazioni di un certo peso ma l’unica cosa che fa la Fiom è... chiedere di cambiare l’accordo! Nel frattempo lo sciopero organizzato dai cinque delegati seguita a non essere sostenuto.

Mercoledì 25 febbraio, a Pomigliano, nella Sala dell’Orologio, Landini tiene una conferenza nella quale annuncia il suo progetto di “Coalizione Sociale” e spiega come «va bene tornare in piazza ma bisogna anche trovare nuove forme di protesta». La vera “vecchia forma di protesta” da mettere in disparte non è un generico “scendere in piazza” ma precisamente lo sciopero.

Il 9 marzo la corrente di minoranza “Il sindacato è un’altra cosa” lancia una manifestazione nazionale davanti ai cancelli della Sata di Melfi per sabato 24 marzo a sostegno dello sciopero, appellandosi per la partecipazione anche al sindacalismo di base. La risposta della dirigenza è pronta. Due giorni dopo a Potenza si svolge l’attivo dei delegati della Fiom provinciale allargato ai direttivi della Sata nel quale Landini ribadisce la fermata degli scioperi contro gli straordinari comandati in Fiat e ammonisce al rispetto della disciplina da parte dei delegati. Lo stesso giorno Landini, insieme al segretario provinciale Cgil, al segretario regionale Fiom, al deputato di Sel ex operaio alla Fiat Sata Barozzino, al Coordinatore Nazionale Fiom per il Gruppo Fca, si presenta davanti ai cancelli della fabbrica a volantinare. Gli operai più ingenui dentro la fabbrica, e soprattutto quelli fuori, sono ingannati vedendo il segretario del sindacato fare volantinaggio in mezzo agli operai e non impegnarsi a fermare gli scioperi nelle riunioni interne.

Alla manifestazione di sabato 14 aderiscono diversi sindacati di base: SI Cobas, Usb, Cub e il Comitato Cassaintegrati di Pomigliano. Le adesioni allo sciopero restano sostanzialmente in linea con i sabati e le domeniche precedenti. I delegati ribelli della Fiom aggirano l’accusa, nemmeno tanto velata, di indisciplina proclamando l’astensione dal lavoro non contro lo straordinario ma per la sicurezza sul lavoro, a seguito di un incendio sviluppatosi la notte del 4 marzo all’interno del capannone plastiche. L’incidente, effettivamente grave, non aveva visto alcuna reazione né da parte dei sindacati firmatari dell’accordo del 26 febbraio né da parte della Fiom.

Bene han fatto i delegati Fiom a dare anche questa motivazione allo sciopero, ma va d’altronde detto che, da un lato avrebbero potuto farlo il sabato e la domenica precedenti, dall’altro che nulla vietava di aggiungere questa rivendicazione a quella del rifiuto dello straordinario e dell’accordo per la maggiorazione dei turni, invece che sostituirla ad esse. Si è trattato quindi, almeno in parte, di uno stratagemma per evitare le reazione da parte della dirigenza Fiom. Un comportamento comprensibile che non risolve ma solo rimanda il problema di fondo e che dimostra come, per organizzare una coerente azione di lotta, restando dentro la Fiom si debba finire per trasgredire alla disciplina interna, cosa che, alla lunga, come spiegato dallo stesso Landini, significa porsi fuori dal sindacato.

 

Tre assemblee in CGIL

Parallelamente all’arretramento nel campo di un sindacalismo sempre più apertamente anticlassista sul piano aziendale – in questo caso nella Fiat – lo stesso processo segue a compiersi sul piano generale.

Facendo un passo indietro, il 18 febbraio si svolge il Direttivo Nazionale della Cgil. Il Documento Conclusivo, approvatocon soli due voti contrari, afferma di voler proseguire la mobilitazione contro il Jobs Act. La minoranza di sinistra vede e denuncia nelle decisioni del Direttivo una smobilitazione, in quanto si rinuncia all’azione di sciopero. In effetti farsa è stata fino allo sciopero generale del 12 dicembre, farsa continua ad essere dopo. L’organo dirigente Cgil da un lato conferma ciò che aveva già stabilito al precedente direttivo del 17 dicembre, ossia di opporsi agli al Jobs Act sul piano aziendale. È questo uno stratagemma consueto in Cgil: passato il provvedimento contro cui non si è imbastita reale azione di lotta, si dissimula la sconfitta e si finge di non abbandonare la battaglia – mai combattuta – chiamando alla guerriglia azienda per azienda. Lo fece anche la Fiom con il contratto nazionale separato di Fim e Uilm. Quando alla lotta si chiama l’intera classe lavoratrice, o una sua intera categoria come i metalmeccanici, i rapporti di forza sono enormemente più favorevoli per i lavoratori rispetto a un confronto chiuso nella singola impresa. Ciò che non si è difeso sul piano generale di classe e che si è appena perduto non può essere riconquistato sul piano aziendale. Infatti si hanno solo sporadiche affermazioni in singole aziende – sempre meno a causa della crisi – in cui i rapporti di forza sono particolarmente favorevoli. Episodi propagandati a gran voce dalla Cgil ma che inevitabilmente finiscono per soccombere sotto la enorme marea delle sconfitte nella generalità delle altre aziende. Insomma, è solo una ulteriore turlupinatura.

Dall’altro lato, la novità annunciata dal direttivo è la stesura di un “nuovo statuto dei lavoratori” che diverrà una proposta di legge da sostituire al Jobs Act e al veccho statuto appena demolito dalla nuova riforma. Pur non dubitando dello spirito anticlassista del contenuto di tale nuovo statuto, come si può far credere di poter conquistare ciò che si è appena perso, senza aver nemmeno combattuto? Infine, il direttivo lascia aperta la possibilità di ricorrere a un referendum abrogativo contro il Jobs Act.

Sei giorni dopo – il 24 febbraio – si svolge a Roma l’Assemblea Nazionale della corrente di minoranza della Cgil “Il sindacato è un’altra cosa”. L’ordine del giorno conclusivo evidenzia una serie di errori, alcuni dei quali dovuti alla necessità di giustificare una lotta interna alla Cgil per un suo cambiamento in senso classista, che appare in maniera sempre più evidente impossibile, come noi denunciamo dal finire degli anni Settanta. Lo sciopero generale del 12 dicembre è definito “la fine della parabola di conflitto della Cgil”. Ma l’azione della Cgil non è stata un conflitto bensì una mobilitazione farsesca con lo scopo di dissimulare la volontà di evitarlo, il conflitto. La minoranza di sinistra confonde questa farsa con una reale lotta perché deve continuare a illudersi e a illudere su una natura della Cgil meno profondamente antioperaia di quel che realmente è. Ciò è confermato dalla successiva affermazione che la Cgil “non ha avuto il coraggio di fare sul serio”! Anche qui si vuol far passare la inveterata e irreversibile politica di questo sindacato come un errore della sua maggioranza, una sua debolezza. Si prosegue sostenendo che “la CGIL esce sconfitta”, mostrando di non comprendere che la forza del sindacalismo di regime riposa sulla debolezza e sulle sconfitte della classe operaia.

Oltre alle questioni che vertono sulla natura della Cgil, un altro grave errore denuncia la mancanza di una impostazione sindacale classista in questa corrente: viene dato sostegno infatti alla proposta di avviare una campagna per un referendum abrogativo del Jobs Act. Il referendum è già una truffa, una trappola padronale, quando serve ad approvare accordi aziendali. In esso il voto del crumiro ha lo stesso peso di quello del lavoratore che sacrifica tempo della sua vita per la difesa degli interessi collettivi, rischiando la repressione aziendale. Nel voto segreto e individuale prende forza il ricatto aziendale, che invece è indebolito nelle assise pubbliche dei lavoratori, generalmente disertate dai crumiri e dagli individualisti. Queste considerazioni – cui ne andrebbero aggiunte altre importanti che non riportiamo per mancanza di spazio – si aggravano in un referendum a carattere popolare, interclassista, in cui per questioni che riguardano i lavoratori sono chiamati a decidere i membri di tutte le classi, anche di quelle che sullo sfruttamento dei lavoratori campano. Se già il referendum in azienda o categoria è un valido strumento per far prevalere la parte più arretrata della classe su quella più combattiva, che può affermarsi solo con la lotta, il referendum popolare conferisce al padronato ancor maggiori garanzie di successo, come si è visto nei casi passati.

Infine, qui giustamente, l’ordine del giorno denuncia la decisione della Fiom di fermare gli scioperi alla Fiat e quindi di non sostenere i delegati che li stavano proseguendo alla Sata di Melfi.

Tre giorni dopo – il 27 e il 28 febbraio – si riunisce a Cervia l’Assemblea Nazionale dei delegati Fiom. Il documento della maggioranza (Landini) è approvato con 484 voti a favore; quello della minoranza di sinistra respinto con 38 voti a favore. Numeri che rendono conto dei rapporti di forza fra le due correnti. Il Documento di maggioranza sostiene la proposta del Direttivo Cgil di un “progetto di legge di iniziativa popolare” per un nuovo statuto dei lavoratori così come l’avvio di una campagna per un referendum aborgativo del Jobs Act.

La novità riguarda il rinnovo del Ccnl metalmeccanico, quello separato del dicembre 2012, in scadenza a fine 2015. La Fiom conferma e rafforza uno dei principi fondamentali della sua linea: l’unità sindacale con Fim e Uilm. Usualmente però i delegati Fiom discutevano una loro piattaforma, con la quale poi la dirigenza andava a incontrarsi con Fim e Uilm, per mediare una piattaforma unitaria. Questo passaggio, evidentemente più che altro formale, viene eliminato e si stabilisce che la dirigenza Fiom discuterà con gli altri sindacati senza prima essersi confrontata con un certo grado di approfondimento coi propri delegati sul rinnovo del contratto.

Gli ultimi due rinnovi del contratto metalmeccanico sono stati separati, ossia non firmati dalla Fiom, la quale, per riconquistare un contratto unitario, che a suo dire difenderebbe meglio i lavoratori, ha di volta in volta ceduto sempre più alle posizioni apertamente filopadronali di Fim e Uilm. L’assemblea dei delegati di febbraio compie un ulteriore piccolo passo in questa direzione, allontanandosi ancora di più dalla rottura con Cisl e Uil sostenuta dalla sua minoranza.

Anche ciò conferma il nostro bilancio sulla azione della sinistra Cgil che in un arco di oltre 35 anni non solo non è riuscita a conquistare la Cgil, non solo è sempre più lontana da questo obiettivo, ma nemmeno è riuscita a fermare questo continuo spostarsi su posizioni sempre più apertamente corporative.

 

 

 

 

 


Terni
Uno sciopero di 35 giorni tradito dai sindacati di regime

( È qui )


 
 
 
 
 

 

PAGINA 5


Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

(Continua dal numero scorso)

 

33. Sovrapproduzione e nascita dell’Opec

Alla fine degli anni Cinquanta la sovrapproduzione petrolifera apparve come un fatto strutturale. In tutto il mondo si praticavano riduzioni nei prezzi mentre la Russia inondava i mercati a buon mercato. Coi russi in Italia Mattei aveva appena concluso un accordo per l’acquisto di greggio a sessanta centesimi meno del prezzo praticato in Medio Oriente; in Giappone il petrolio veniva svenduto. Peggio ancora, il petrolio russo stava invadendo l’India, come era accaduto nella guerra dei prezzi scatenata da Deterding negli anni Venti: quando il governo indiano annunciò alle raffinerie di tre delle Sette Sorelle che gli era stato offerto greggio russo più a buon mercato queste furono obbligate ad abbassare i prezzi. Alla situazione di sovrapproduzione mondiale di greggio concorse la scoperta di nuovi grandi giacimenti in Libia, la cui produzione passò da 180 mila b/g del 1962 a 3,3 milioni del 1970, facendo del paese il terzo produttore Opec.

Per tutti gli anni Sessanta i prezzi di listino rimasero pressoché fermi, mentre i prezzi effettivi ai quali il greggio veniva venduto alle industrie di raffinazione tendeva ad abbassarsi. La Exxon e le altre Sorelle si trovarono in mezzo al guado: da una parte erano costrette a praticare sul mercato prezzi competitivi, dall’altra essendo legate al posted price, che costituiva la base di calcolo per le tasse, finivano per pagare ai paesi produttori più del fifty-fifty concordato. Grazie ai bassi prezzi, nel ventennio 1950-1970 la domanda globale quintuplicò e il petrolio diventò la prima fonte energetica consumata a livello mondiale.

Nel 1959 Eisenhower decise di imporre un programma di limitazione alle importazioni di petrolio mediorientale, cedendo alle pressioni delle piccole e medie Compagnie statunitensi che dipendevano dalla più costosa produzione nazionale e che rischiavano di essere messe fuori mercato. Esse fecero balenare il pericolo che una ridotta autonomia produttiva avrebbe esposto gli Usa al ricatto di paesi lontani e instabili. A questo punto le grandi Compagnie, vistosi chiudere il più grande mercato di consumo in un mondo in cui c’era già un eccesso di offerta, risposero con l’abbassamento di 18 centesimi del prezzo del barile per poter pagare meno tasse ai paesi produttori. Ciò significava però tagliare le rendite a Stati che dipendevano mediamente per l’80% dagli introiti petroliferi.

Ciò che non poté la politica, poté il petrolio: tra i produttori la riduzione dei prezzi generò un sussulto di solidarietà fra regni feudali, paesi antimonarchici e Stati estranei al mondo arabo. Nel 1960 i rappresentanti di Arabia Saudita, Iraq, Iran, Venezuela e Kuwait si incontrarono a Baghdad in un’atmosfera di rinnovata fiducia dando vita all’Opec (Organizzazione dei paesi produttori ed esportatori di petrolio), ossia ad un nuovo cartello per contrastare quello delle Sette Sorelle. La decisione unilaterale della potente Exxon (che era socia contemporaneamente dell’Aramco, del Consorzio iraniano ed anche dell’Iraq Petroleum) aveva spinto i paesi del petrolio a rispondere allo stesso modo: probabilmente l’Opec non sarebbe mai nata senza il cartello delle Sette Sorelle.

La prima risoluzione votata individuava il principale nemico nelle Compagnie e stabiliva che i membri non potevano restare indifferenti alla politica dei prezzi adottata dalle società petrolifere e che tutti dovevano attivarsi per riportare i prezzi ai livelli precedenti. L’Opec raggiunse subito l’obiettivo di prevenire altre riduzioni dei prezzi ufficiali, ma non riuscirà mai a ripristinare i prezzi originari; non solo, i suoi membri non possedevano gli strumenti per fissare i prezzi o per diminuire la produzione, che erano nelle mani di chi controllava il mercato. Di fatto, la ritrovata unità dei paesi produttori annegò ben presto nell’abbondanza di petrolio russo e del nuovo petrolio nigeriano e libico che impedirono ogni sostegno artificioso dei prezzi, mentre le Compagnie continuavano a trattare separatamente con ciascun governo per tentare di metterli l’uno contro l’altro. Paradossalmente, a fronte delle Compagnie che cercavano di frenare la produzione per impedire il crollo dei prezzi, ciascun paese Opec aspirava ad aumentare la propria produzione per assicurarsi maggiori introiti.

Lo Scià era il più intollerante ad ogni restrizione, impegnato nel suo ambizioso quarto piano quinquennale e nelle crescenti spese militari. Era convinto che l’accordo del Consorzio iraniano era più restrittivo di quello dell’Aramco e minacciò le Compagnie di ritiro delle concessioni. In effetti, le clausole segrete intervenute tra le Sette Sorelle prevedevano per l’Iran, in caso di eccedenza produttiva, penalità maggiori di quelle per l’Arabia Saudita. Per altro, il meccanismo per cui ogni società non poteva ritirare proporzionalmente più della propria quota senza pagare una penale, rendeva insoddisfatte anche società come la Mobil o la Cfp che avevano una compartecipazione più bassa rispetto ad Exxon, Socal o Texaco. Alla lunga questi accordi restrittivi si ritorceranno contro i paesi produttori, la crescita economica dei quali doveva essere oggetto di trattativa nei corridoi delle Compagnie private.

 

34. La guerra dei Sei Giorni

In quello stesso tempo la crescente tensione tra lo Stato di Israele e gli Stati arabi minacciava di far da detonatore allo scoppio di tutta l’area. La seconda guerra arabo-israeliana del 1956 aveva mantenuto le linee di confine stabilite alla fine della prima guerra del 1948. La sorveglianza delle frontiere era stata affidata alle truppe Onu. Nessuna soluzione era mai stata apportata al problema dei profughi che avevano abbandonato la Palestina ebraica nel 1948 e vivevano da allora soprattutto in Giordania e in Egitto in campi di raccolta in condizioni di vita miserabili. Il canale di Suez restava chiuso ad Israele che però poteva comunicare con il Mar Rosso attraverso il porto di Eliat situato in fondo al golfo di Aqaba: l’ingresso del golfo era controllato dall’Egitto, ma i caschi blu dell’Onu assicuravano il passaggio delle navi israeliane.

Una iniziativa di Nasser, probabilmente su pressione della Russia, pose fine a questa situazione, mettendo in pericolo l’economia di Israele: il 18 maggio 1967, su richiesta di Nasser, il segretario dell’Onu U-Thant ritirò i caschi blu, permettendogli di sbarrare l’accesso nel golfo di Aqaba non solo alle navi israeliane ma anche a quelle che trasportavano prodotti strategici per Israele, compreso il petrolio.

Il 5 giugno 1967 Israele invase l’Egitto dando inizio alla guerra detta dei Sei Giorni. Il suo esercito (Tsahal) attaccò il grosso dell’esercito egiziano concentrato a nord del Sinai, mentre l’aviazione distruggeva a terra gran parte dell’aviazione egiziana di fabbricazione sovietica. La sorpresa fu totale: il 6 giugno lo stato maggiore israeliano annunciò la conquista di Gaza; il 7 di Sharm el Sheik, che controllava l’ingresso del golfo di Aqaba all’estremità meridionale del Sinai. Inoltre gli israeliani occuparono la penisola desertica del Sinai, ciò che permise loro di impadronirsi di tutta la riva orientale del canale di Suez, molto oltre le linee del 1956. L’esercito israeliano occupò la città vecchia di Gerusalemme, che apparteneva alla Giordania, e proseguì l’offensiva occupando tutta la riva occidentale del Giordano. Infine le forze israeliane si impadronirono di importanti posizioni strategiche siriane dalle quali venivano frequentemente bombardati i kibbutz israeliani. In sei giorni quella che avrebbe dovuto essere la riscossa degli Stati arabi si era trasformata nella loro totale disfatta: la Siria aveva perso le alture del Golan, oltre a gran parte della sua aviazione; la Giordania aveva dovuto rinunciare a tutta la Cisgiordania, alla sua aviazione e a gran parte del suo equipaggiamento militare. Chi aveva subito però il colpo letale era stato l’Egitto: il suo esercito aveva subito quasi 15 mila caduti, enormi perdite di armi e munizioni, la sua aviazione era stata quasi totalmente distrutta e soprattutto Israele gli aveva strappato l’intero Sinai. Nasser, travolto dalla disfatta, rassegnò le dimissioni la sera del 9 giugno.

Da tempo i paesi arabi minacciavano di usare l’arma del petrolio contro l’Occidente e l’occasione fu loro fornita proprio dalla guerra. Il 6 giugno, il giorno successivo all’attacco israeliano, l’Opec decise di attuare l’embargo petrolifero verso i paesi che appoggiavano Israele, andando ad aggravare la crisi provocata dalla chiusura del canale di Suez e degli oleodotti. Il blocco colpì soprattutto l’Europa che dal Medio Oriente e dal Nord Africa dipendeva per i tre quarti delle sue importazioni. Verso la fine di giugno anche la Nigeria, alle prese all’epoca con la rivolta del Biafra, cessò le sue esportazioni, sottraendo ad un mercato già in condizioni critiche altri 500 mila barili al giorno. Ma il boicottaggio si dimostrò un fuoco di paglia, dato che l’Iran e la Libia continuarono tranquillamente a vendere il loro petrolio non solo ai paesi occidentali ma anche ad Israele, mentre il Venezuela aumentò addirittura la produzione. Re Feisal, che si trovava di fronte ad una imminente crisi finanziaria, su consiglio del ministro del petrolio Yamani limitò l’embargo a Stati Uniti e Inghilterra, considerati paesi aggressori (peraltro nessuna delle due potenze ritirava allora molto petrolio dall’Arabia Saudita). Di fatto, per l’assenza di un fronte comune dei paesi arabi produttori, l’embargo non ottenne gli effetti voluti. Già dopo un mese, i paesi che lo avevano decretato cominciarono a dare segni di irrequietezza per la diminuzione delle entrate, Arabia Saudita ed Egitto in testa. Ai primi di settembre l’embargo venne annullato, a scorno completo del mondo arabo, che all’umiliazione militare aggiungeva l’impotenza politica.

 

35. La spallata di Gheddafi

Ma la situazione era destinata a cambiare all’inizio degli anni Settanta quando gli avvenimenti libici fornirono l’occasione per dare slancio all’ascesa dell’Opec (che ora comprendeva dodici paesi membri: ai cinque originari si erano aggiunti Qatar, Libia, Indonesia, Emirati Arabi, Algeria, Nigeria, Gabon) e dettare alle Compagnie nuove condizioni contrattuali.

Nel 1955 un petrolio di alta qualità – il cosiddetto light – era zampillato in Libia. Per la verità, già negli anni Venti il geologo francese Conrad Kilian aveva scoperto il petrolio nella regione del Fezzan, nel sud della Libia, nella totale indifferenza da parte della Francia, ma non dei servizi segreti britannici e del generale gollista Leclerc. Quest’ultimo nel 1942, abbandonando la Libia, aveva lasciato una guarnigione a difesa dei giacimenti cartografati da Kilian, nella prospettiva di annettere il Fezzan al Sahara francese. Nel novembre del 1947, mentre Leclerc stava ispezionando i confini libici, l’aereo sul quale viaggiava precipitò (come accadrà a Mattei) in circostanze rimaste misteriose. Nel 1951, le mire francesi vennero definitivamente frustrate dalla decisione dell’Onu, su pressione degli inglesi, di decretare l’indipendenza della Libia mettendo sul trono Idris al Senussi, il cui primo provvedimento fu la concessione agli Usa di una base militare e il rilascio alle Compagnie anglo-americane dei permessi per effettuare ricerche petrolifere sul territorio libico. Sei delle Sette Sorelle e altre otto Compagnie indipendenti si accaparrarono le concessioni, e finalmente nel 1955 il nuovo petrolio libico iniziò a veleggiare verso gli USA sulle petroliere Exxon. Graziosamente, le Compagnie americane lasciarono alcune briciole all’italiana Eni e alla francese Cfp.

Finché restò al potere il corrotto regime di re Idris le Compagnie petrolifere non furono seriamente minacciate. Il re si lamentava del basso prezzo del petrolio, ma a tenerlo buono bastava l’esempio di Mossadeq. Tutto cambiò nel momento in cui, il 1° settembre 1969, Idris venne deposto da un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito guidati dal colonnello Muhammar Gheddafi. Il gruppo, deciso ad usare il petrolio come arma contro Israele e l’Occidente, entrerà inevitabilmente in rotta di collisione con l’imperialismo americano e le Sette Sorelle. Il primo provvedimento messo in atto dai giovani colonnelli fu di ordinare agli americani di evacuare la loro più grande base militare del Nord Africa e di lasciare il paese.

All’inizio, il nuovo governo più che verso la nazionalizzazione delle Compagnie si orientò verso un aumento del prezzo del barile: il 20 gennaio 1970 Gheddafi diede il via ai negoziati con ciascuna delle ventuno società operanti in Libia, annunciando che se non avessero accettato di aumentare i prezzi di 40 centesimi di dollaro al barile avrebbe agito unilateralmente. Affermò con boria che «il popolo libico aveva vissuto senza petrolio per cinquemila anni e poteva continuare a farne a meno ancora per qualche anno pur di vedere riconosciuti i propri diritti». In fondo la richiesta era ragionevole, in considerazione dell’alta qualità del greggio (a bassa gradazione di zolfo e quindi particolarmente adatto alla trasformazione in carburante per auto e aerei) e della vicinanza della Libia ai mercati europei.

Questo fatto diventerà ancora più importante dopo il maggio 1970, quando un sabotaggio interromperà in Siria la tap-line proveniente dall’Arabia Saudita. I governanti libici ricevettero un aiuto inatteso dall’esperto di petrolio del Dipartimento di Stato James Akins il quale, preoccupato dalle prospettive di una crisi energetica, sollecitò le Compagnie a scendere a patti con Gheddafi. La richiesta fu respinta al mittente dalle grandi società, con alla testa la Exxon, ma in Libia l’anello debole della catena era costituito dalle Compagnie indipendenti che non potevano permettersi di perdere le loro concessioni come minacciato da Gheddafi in caso di mancato accordo. La prima a cedere fu la Occidental Petroleum del miliardario statunitense Hammer, in quel momento sotto i riflettori perché accusato di aver corrotto alcuni funzionari del vecchio regime libico. Negoziando separatamente anche la Continental aveva rotto il fronte degli operatori. Le Sette Sorelle, dopo aver chiesto invano l’intervento del Dipartimento di Stato e del Foreign Office, capitolarono in ottobre, accettando le condizioni imposte alla Occidental.

Ben presto le richieste di aumento di prezzo si diffusero oltre i confini della Libia: l’Iraq, l’Algeria, il Kuwait, l’Iran chiesero tutti un aumento dell’aliquota fiscale dal 50 al 55%. Nella conferenza di Caracas del 12 dicembre 1970 l’Opec sancì il principio che i 30 centesimi di aumento ottenuti dalla Libia divenivano il prezzo ufficiale di riferimento per tutti i paesi membri. All’inizio del 1971 la Libia di Gheddafi si trovava in una posizione di assoluto vantaggio nei confronti delle Compagnie che di fatto avevano perso il controllo sui volumi di produzione ed erano soggette al gioco al rialzo dei prezzi ed esposte alla minaccia di nazionalizzazioni. Le Major sotto la guida della BP formarono un fronte comune di “difesa”: i rappresentanti di ventitré Compagnie sottoscrissero a New York, nel quartiere generale della Mobil, una lettera all’Opec nella quale si sollecitava un accordo generale tra le Compagnie e l’insieme degli Stati, allo scopo di evitare negoziati separati. Niente male, se si pensa che soltanto dieci anni prima le Compagnie si rifiutavano di riconoscere l’esistenza stessa dell’Opec. Inoltre, fu siglato un documento, rimasto segreto per tre anni, con cui ciascun firmatario prometteva di non concludere alcun accordo con il governo libico senza il consenso di tutti gli altri e si impegnava ad uno scambio di aiuto reciproco.

Per l’occasione il Dipartimento di Giustizia, preposto all’anti-trust, girò la testa dall’altra parte.

In risposta alla lettera delle Compagnie, lo Scià convocò una conferenza dell’Opec a Teheran al termine della quale, nel giorno di San Valentino, il 14 febbraio 1971, fu firmato un accordo che riconosceva un extra di 30 centesimi sul prezzo ufficiale del barile, da elevare a 50 a partire dal 1975. Ma solo gli Stati del Golfo furono totalmente favorevoli: l’accordo escludeva specificamente ogni impegno per i prezzi del petrolio nel Mediterraneo. La Libia, il Venezuela e altri Stati “radicali” si dichiararono contrari perché ritenevano che l’accordo limitasse il margine di azione dei singoli Stati membri nei confronti delle Compagnie.

A soli quattro giorni dalla riunione di Teheran il governo di Tripoli, con l’appoggio dell’Algeria, dell’Iraq e dell’Arabia Saudita, iniziò nuove trattative separate con le Compagnie presenti nel paese e riuscì a strappare un aumento di 76 centesimi portando il prezzo base a 3,30 dollari al barile, oltre al rincaro delle imposte governative al 60%. L’accordo di Tripoli scavò un fossato tra la Libia e gli Stati del Golfo favorevoli a Teheran.

(Continua al prossimo numero)

 

 

 

 


Una nostra nuova traduzione
Factors of Race and Nation in Marxist Theory

Siamo felici di annunciare la pubblicazione per la prima volta in lingua inglese dei Fattori di razza e nazione nella teoria marxista, tradotto dall’originale italiano del 1953.

I Fattori si rifanno agli scritti di Marx, di Engels e di Lenin, e ai fondamentali testi della opposizione della Sinistra all’interno della Terza Internazionale negli anni dal 1920 al 1926, per riassumere la rilevanza delle razze e delle nazioni nella concezione materialistica della storia, dimostrando come questa differisce dall’idealismo borghese che pretende che il pieno svolgimento degli Stati nazionali metta termine alla lotta sociale – un idealismo entusiasticamente abbracciato dalla controrivoluzione staliniana.

In particolare il testo illustra come, nel corso della storia, la lingua, la cultura e la propagazione della specie siano state condizionate dalle relazioni sociali e continuino ad essere usate come strumento di dominio di classe.

Le classi sociali non sono eterne. La divisione della società in classi è apparsa solo dopo che la società tribale e di clan ha raggiunto un certo grado di organizzazione, ed un giorno queste divisioni si estingueranno una volta per sempre. È quindi una pura stupidaggine dire che, poiché il marxismo è la teoria della moderna lotta di classe fra capitalisti ed operai, e il comunismo è il movimento che dirige la lotta del proletariato, noi neghiamo che sia la forza sociale di altre classi (i contadini, per esempio), sia la pressione di opposizioni razziali e nazionali abbiano il loro impatto storico, e quindi noi non consideriamo alcuno di questi fattori nel definire la nostra azione.

Ciò non toglie che la nostra azione deve sempre corrispondere ai fini del proletariato in una data epoca storica, in un dato paese o regione.

I Fattori furono scritti all’indomani del nuovo tracciamento dei confini nazionali e del conseguente spostamento di popolazioni risultante dalla Seconda Guerra mondiale, e nel contesto della battaglia ideologica della nostra corrente contro lo stalinismo, che stava stravolgendo l’approccio materialista alle nazionalità e al linguaggio per motivi opportunisti, in particolare nella contemporanea disputa fra Belgrado e Roma sul possesso di Trieste: «i più sguaiati a fare uso di sofismi etnici linguistici e storici non sono i borghesi autentici, ma i “marxisti” Tito e Togliatti».

Factors of Race & Nation in Marxist Theory è già disponibile sul sito del partito ed abbiamo in programma di pubblicarlo in futuro come e-book ed in stampa.