Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 371 - maggio-giugno 2015
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Indice dei numeri
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1
Primo Maggio 2015 - Il capitalismo porta il proletariato alla miseria e prepara una nuova guerra mondiale. I lavoratori devono difendere oggi le proprie condizioni di esistenza per poter domani distruggere il potere mondiale del capitale!
– Guerra civile nei ghetti negri degli Stati Uniti
Syriza o il nazionalismo declinato a “sinistra”
PAGINA 2 I lavori alla riunione generale del partito - Firenze, 24 e 25 gennaio 2015 [RG121] (segue dal numero scorso): Lontane origini del capitalismo indiano - La questione militare, La vigilia della Prima Guerra mondiale, la guerra italo-turca e le prime due guerre dei Balcani  - Lotte operaie ed attività sindacale del partito - Storia dei sindacati in Venezuela, seconda parte: Ricambio borghese, ricambio sindacale - Origini del movimento operaio in Italia, Genova 1892
Per
il sindacato
di classe
– Il coraggioso sciopero dei braccianti messicani
Primo congresso del SI Cobas - L’intervento del nostro compagno: Il SI Cobas e il sindacalismo di classe - O sindacato o partito - Movimento operaio e movimenti sociali - Il movimento per la casa
Ai netturbini genovesi, lunedì 20 aprile: Per la lotta intransigente contro ogni peggioramento delle condizioni di lavoro! - Per l’unione delle lotte della classe lavoratrice! - Per la rinascita del sindacato di classe!
Mobilità alla Franger con il consenso dei sindacati
PAGINA 6
Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo (Continua dal numero scorso): 36. Crisi economica mondiale ed intensificazione dei conflitti inter-imperialisti: Il primo shock petrolifero del 1973 - Il secondo del 1979 - 37. La corsa infernale alle risorse energetiche e ai profitti: In Africa - Nell’ex impero russo
 
 

 

 
 
 
 
PAGINA 1
I proletari non hanno da perdere che le loro catene e un mondo intero da conquistare
Primo Maggio 2015
Il capitalismo porta il proletariato alla miseria e prepara una nuova guerra mondiale
I lavoratori devono difendere oggi le proprie condizioni di esistenza per poter domani distruggere il potere mondiale del capitale!

Il Primo Maggio è il giorno in cui i lavoratori di tutto il mondo, al di sopra dei confini di nazione, razza, religione, ribadiscono di appartenere ad una stessa classe, di essere legati dagli stessi interessi, di condurre la stessa battaglia per l’emancipazione dallo sfruttamento e dalla miseria.

Questo primo maggio 2015 trova i proletari, in tutti i paesi, in una situazione che da molti anni peggiora a causa della crisi che ha colpito il capitalismo mondiale.

I piccoli segnali di ripresa della produzione industriale che provengono dagli Stati Uniti d’America sono amplificati dalla propaganda borghese per annunciare la fine della crisi; al contrario essa è solo al suo inizio, già si sta estendendo ed approfondendo e colpisce adesso anche la Cina, mentre le manovre finanziarie attuate dagli Stati Uniti, dal Giappone, dalla Cina stessa e infine anche dall’Europa per “rilanciare“ la produzione serviranno solo a far scoppiare tra pochi mesi una nuova bolla finanziaria, molto più grave di quella che nel 2008 rese evidente lo stato comatoso dell’economia capitalistica in piena crisi di sovrapproduzione.

Questa crisi, prevista e attesa dal marxismo rivoluzionario perché derivante dalle contraddizioni interne del sistema produttivo capitalistico, già sta producendo decine di milioni di disoccupati in tutto il mondo e in tutti i paesi spinge all’abbassamento dei salari e allo smantellamento della cosiddetta “sicurezza sociale”. E la concorrenza tra i lavoratori continuerà ad esasperarsi se il proletariato non si mostrerà capace di fermarla con la sua mobilitazione, con la sua riorganizzazione e lotta di classe.

La crisi economica inoltre acuisce lo scontro tra gli Stati imperialisti, grandi e piccoli, per acquisire nuovi mercati di smercio della loro sovrapproduzione, per il controllo delle zone dove si trovano le materie prime necessarie per la riproduzione dei capitali e per acquisire posizioni di forza in vista del terzo conflitto mondiale cui il capitalismo condurrà gli Stati. La guerra per il petrolio, che i “terroristi” combattono finanziati dalle opposte centrali dell’imperialismo, ha devastato l’intero Medio Oriente e in particolare l’Iraq, la Siria e la Libia, costringendo decine di migliaia di profughi ad abbandonare le loro case in fuga dalla morte. La contesa fra i vecchi e i nuovi imperialismi si estende anche all’Africa.

L’Europa, dopo la bestiale spartizione della Iugoslavia col pretesto di divisioni religiose e nazionali, ha visto tornare la guerra ai suoi confini orientali, dove la fragilità dello Stato ucraino ha permesso agli Stati Uniti di interporsi tra Germania e Russia, provocando scontri sanguinosi che ancora una volta vorrebbero dividere il proletariato e aggiogarlo agli interessi dei diversi Stati borghesi.

In Estremo Oriente la corsa al riarmo della Cina, borghese, capitalista, ben decisa a conquistare uno spazio adeguato alla sua potenza economica spezzando gli equilibri stabiliti alla fine della Seconda Guerra imperialista, entra in urto con gli Stati confinanti, da Taiwan, al Giappone, alle Filippine, alla Corea del Sud, al Viet Nam, in spregio agli Stati Uniti che dominano quei mari con le loro flotte atomiche.

I miti borghesi del progressivo disarmo degli arsenali e della coesistenza pacifica fra gli Stati, sopravvissuti a due micidiali guerre mondiali, sono sbugiardati dal crescere continuo degli armamenti, compreso quello atomico, e da questi scontri sempre più aspri fra i giganti imperialisti, anche se condotti per ora da interposte forze mercenarie irregolari, come sono le milizie dello Stato Islamico.

I piccoli Stati sono i primi a fare le spese di questa politica di forza ma il proletariato, di questi paesi e internazionale, non deve lasciarsi coinvolgere nella difesa di alcun interesse nazionale, come sta invece cercando di fare il governo “di sinistra” in Grecia, soffiando sul patriottismo e sulla resistenza all’aggressione economica della Germania, o quello del Venezuela chavista contro l’imperialismo degli Stati Uniti d’America, né, la dove già vi è la guerra, deve schierarsi su uno dei due opposti fronti borghesi, come ad esempio accade in Palestina, dove la sola prospettiva rivoluzionaria è quella di un solo Stato della classe operaia, contro la borghesia israeliana e quelle arabe che da decenni si combattono usando come carne da macello i proletari, in primis quelli palestinesi.

Solo con un proprio partito, fondato su di una sua solida teoria, una sua integrale visione del mondo, che chiamiamo marxismo, la classe operaia può effettivamente respingere queste influenze opportuniste e la corruzione delle ideologie delle classi nemiche, può cioè essere classe che lotta per i propri interessi. Questo partito è il partito comunista, rivoluzionario, internazionalista, che fin dal suo nascere ha negato ogni falso principio borghese, primo fra tutti quello democratico, interpretando il motore della storia non nelle opinioni ma nella forza delle classi in lotta.

La borghesia non rinuncerà mai ai suoi meschini privilegi senza esserne costretta dalla forza. Preferirà la guerra. Al proletariato mondiale accettare la sfida: guerra economica in difesa del salario, organizzato in veri sindacati di classe, contro la guerra economica per i suoi profitti della classe borghese – guerra rivoluzionaria di classe contro la guerra fra gli Stati nazionali borghesi, inquadrato e diretto da un suo unitario e disciplinato partito comunista internazionale.

Noi non sappiamo quanto si potrà prolungare ancora l’agonia della bestia capitalista ma abbiamo appreso, anche dalle lezioni del secolo appena trascorso, che gli organi della rivoluzione, Partito seppure minoritario, e Sindacato, debbono prepararsi per tempo, ben prima del precipitare della crisi rivoluzionaria, per essere riconosciuti ed utilizzati dalla classe. Lavorare oggi, in piena perdurante controrivoluzione, alla formazione degli organi politico e difensivo della classe operaia è già Comunismo, è già Rivoluzione.

L’embrione di questo partito esiste, ed è il Partito Comunista Internazionale.

 

 

 

 


Guerra civile nei ghetti negri degli Stati Uniti

È riesplosa la rivolta nei quartieri negri negli Stati Uniti, ultimi a Ferguson e a Baltimora, stavolta innescata da sbrigativi omicidi della polizia.

Sollevazioni ricorrenti da sempre, che il partito ha ogni volta salutato sane manifestazioni di classe ed interpretato, dal punto di vista del comunismo, come la sempre eroica, quanto naturale e spontanea ribellione degli oppressi. Si debbono rileggere le nostre cronache e importanti valutazioni, che qui non possiamo nemmeno riassumere, opposte a quelle di tutti i democratici: 1964, “Crollano i miti della democrazia americana”; 1965, “La collera nera ha fatto tremare i fradici pilastri della civiltà borghese e democratica “; 1967, “Gloria ai proletari negri in rivolta” e “Necessità della teoria rivoluzionaria e del partito di classe in America”; 1968, “La vera via per il proletariato negro”; 1971, “Il movimento delle pantere nere”; 1980, “La rivolta dei proletari neri in Florida”; 1992, “Rivolta della disperazione nella tragica assenza della classe operaia organizzata”.

Noi, osservatori qui da lontano, abbiamo riconosciuto in quell’odio e in quella spontanea e collettiva manifestazione di violenza i sentimenti propri e sinceri della classe proletaria, della nostra classe e, inconsciamente, del prepotente bisogno di distruzione del presente ordine sociale, economico e politico.

Gli afro-americani costituiscono “un proletariato nel proletariato”, quel grande serbatoio dell’esercito industriale di riserva che deve esistere ed esiste in ogni società capitalistica e che è fatto coincidere spesso con gruppi riconoscibili per razza o per cultura: gli stranieri ovunque, i cattolici nell’Ulster, i coreani in Giappone, i caucasici in Russia, in un elenco infinito.

È oggi “politicamente corretto” dire che le razze non esistono. Esistono eccome, ma sono, per gli uomini, più dei cromosomi, un prodotto storico. I “negri” sono coloro che – per altri motivi oggi prevalentemente di pelle scura – in un certo momento e luogo occupano una determinata posizione nella società. Il razzismo è quindi un problema di classe e non di razza. Abbiamo citato: «il negro non è povero perché è negro, ma è negro perché è povero». I “negri” sono quelli che abitano in un certo quartiere. Se un negro fa i soldi diventa molto più bianco; se un operaio bianco è licenziato diventa, subito e col tempo, sempre più nero.

Questa implacabile soggezione castale non è quindi un residuo di società pre-borghesi, o del doloroso retaggio di particolari avvenimenti del passato, come la tratta degli schiavi dall’Africa, né sorge da pregiudizi o da differenze culturali, ma è uno dei prodotti del moderno, grandeggiante, civile, democratico e liberale capitalismo.

È la parità civile fra i cittadini di uno stesso Stato, la loro uguaglianza giuridica e la loro piena libertà individuale che li trasforma in una merce. Ogni merce ha il suo valore e il suo prezzo sul mercato. E il prezzo del lavoro di chi è svantaggiato, si esprime in una lingua rudimentale, non ha potuto studiare in scuole di prestigio, è nato in un quartiere povero, ha la pelle del colore sbagliato, proviene da una famiglia di un’altra religione eccetera, sarà inevitabilmente inferiore.

Il razzismo è quindi inseparabile dal capitalismo e con esso si va diffondendo e incarognendo. Inoltre è alimentato dalla classe dominante per dividere il fronte degli sfruttati, e fa presa anche fra gli operai bianchi (che in America non a caso chiamano “classe media”) i quali danno ai loro compagni più indifesi la colpa di esistere, di far concorrenza sul mercato del lavoro e di spingere i salari al ribasso.

La concessione dei borghesi “diritti civili” quindi non potrà mai risolvere la sottomissione della classe operaia, e in particolare dei peggio pagati e trattati. Uguaglianza per legge di tutti i lavoratori che è certo da rivendicare quando manca, e che la borghesia non concede spontaneamente: lo fece con i negri americani solo quando vi fu costretta dalle lotte di strada, né oggi, per esempio in Europa, la ammette per i lavoratori immigrati, vessati in mille modi e mantenuti in uno stato di inferiorità e di ricatto continui.

Gli Stati Uniti sono un paese con un florido e pienamente affermato capitalismo e che con la sua potenza economica e militare da un secolo domina sul mondo intero. È potuto diventare ricco e potente proprio perché le condizioni della sua classe operaia sono pessime: bassi salari, orari di lavoro annuali fra i maggiori al mondo, quasi totale mancanza di provvidenze collettive, sanità, scuole, pensioni, invalidità. La insicurezza permanente e assoluta è elevata a ideale e a modello sociale.

Da questi livelli di precarietà diffusa e generale della classe operaia basta scendere appena di un gradino per trovarsi nelle condizioni di assoluta indigenza e di abbandono degli strati inferiori del proletariato. Attualmente si contano in California 114.000 senzatetto, la maggioranza dei quali ex operai, a New York 80.000, in Florida 41.000, in Texas 28.000, nel Massachusetts 21.000. Il 23% di questi sono bambini e giovani sotto i 18 anni. In molti Stati il “vagabondaggio”, o dormire in auto, è reato e punito con la prigione. A Baltimora nel quartiere denominato “Little Italy”, la mortalità infantile è la peggiore di tutto il mondo occidentale, l’aspettativa di vita è inferiore all’età per la pensione e si muore 19 anni prima che nei quartieri ricchi della stessa città; il 41% degli abitanti è definito indigente.

In queste condizioni l’unica possibilità di sopravvivenza per molti giovani è la piccola criminalità, per lo più lo spaccio e furtarelli. Un negro su 3 sarà nella sua vita almeno una volta rinchiuso in prigione, un latino-americano su 10, un bianco su 17. Oltre 2 milioni sono i reclusi: nessun’altra società nella storia umana ha imprigionato così tanti suoi cittadini, un milione e mezzo più della Cina, che ha una popolazione cinque volte superiore (California Prison Focus). Davvero un metodo poco dispendioso per alloggiare e controllare i disoccupati.

In numero crescente i carcerati sono costretti a lavorare quasi per niente nelle fabbriche trasferite nelle prigioni: Ibm, Boeing, Motorola, Microsoft, Texas Instrument, Dell, Compaq. Le entrate solo di due grandi aziende carcerarie, private, ammontano a 3 miliardi di dollari l’anno. La legislazione è stata modificata per consentire di incarcerare a lungo per reati anche minimi e poliziotti e giudici si adoprano ad arrestare e a condannare indiscriminatamente. Si capisce perché un negro fermato dalla polizia cerchi, a rischio della vita, di fuggire.

Il capitalismo non riuscirà mai ad emanciparsi dal suo contrario: lo schiavismo.

Quando non in prigione i negri poveri sono mantenuti chiusi nei ghetti dalla pressione continua della polizia, che ha piena libertà di pestare, arrestare, uccidere.

Le rivolte dei quartieri neri noi quindi le vediamo come episodi della guerra civile permanente fra la borghesia dominante e la classe operaia e sono prova della impotenza del modo di produzione capitalistico sia a mantenere i suoi schiavi sia ad ottenerne la pacifica sottomissione.

Ma questi che coraggiosamente si scontrano con le forze borghesi in armi sono solo piccoli e periferici reparti della classe, una sua minoranza isolata e prigioniera dei ghetti. L’altra è altrettanto prigioniera, materialmente e spiritualmente, nei ghetti per i proletari bianchi. E lo Stato borghese, contro pochi giovani armati solo di pietre e bottiglie, può concentrare le sue forze, da migliaia di uomini dalla Guardia Nazionale fino all’esercito, impone il coprifuoco e minaccia la legge marziale. L’orizzonte di chi si batte rimane il quartiere, se non la singola strada, manca una organizzazione che li unifichi e una speranza in un mondo diverso; tanto che il rancore si scarica sui singoli poliziotti, dei quali si chiede la punizione ai tribunali dello Stato che li arma.

Come la classe dominante si predispone a questa guerra generale, della incombente minaccia della quale ha piena coscienza, e rafforza sempre più i suoi reparti armati, dotati recentemente anche di mitragliatrici e blindati, così la classe operaia deve, oggi ripartendo quasi da zero, ricostruire il suo tessuto organizzativo di classe, fatto prima di tutto di sindacati volti alla difesa delle sue condizioni immediate di vita, sindacati che uniscano nell’organizzazione, nelle rivendicazioni e negli scioperi lavoratori di tutte le razze. Questi sindacati si faranno carico anche delle necessità e delle richieste dei compagni disoccupati.

Inoltre oggi, negli Usa, gli unici dirigenti morali e riconosciuti rappresentanti delle “comunità” sono i pastori delle infinite chiese, tutte certamente controllate dallo Stato, che per principio rifiutano la violenza “da entrambe le parti”, e quindi vengono a confermare lo stato delle cose presente. Manca un altro ideale, una superiore coscienza di classe che unifichi i lavoratori di America e del mondo: questa prospettiva, che la storia impone, può essere solo quella del comunismo e del partito comunista, espressione cosciente dell’odio di classe e dimostrazione scientifica della sua forza e dei suoi destini.

E questo in America e in tutto il mondo.

 

 

 

 


Syriza o il nazionalismo declinato a “sinistra”

Dopo una serie di successi elettorali, iniziati già una decina di anni prima, il 25 gennaio 2015 la Coalizione della Sinistra Radicale (Syriza), guidata dal giovane Alexis Tsipras, è risultata il primo partito alle elezioni parlamentari in Grecia aggiudicandosi il 36,3% dei consensi. Poiché dal 2012 la Coalizione si era formalmente costituita in partito unico, ha potuto ottenere il premio di 50 deputati riservato dalla legge elettorale greca al primo partito ed ha così potuto ottenere 149 dei 300 seggi del Parlamento. Per poter formare una maggioranza di governo Syriza si è alleata col piccolo Partito dei Greci Indipendenti; questo è una formazione politica di estrema destra, uscita da pochi mesi dal maggior partito di centro-destra, Nuova Democrazia, perché insofferente verso la politica di Samaras ritenuta troppo prona verso la cosiddetta Troica. Al capo di questo partitino, Kammenos, è stato affidato l’importante dicastero della Difesa.

Il successo della Coalizione della Sinistra in Grecia ha suscitato un gran dibattito e molta invidia nella “sinistra radicale” in Italia, che da molti anni cerca di unirsi in un fronte per poter partecipare alle elezioni parlamentari con una qualche speranza di superare le “antidemocratiche” soglie di sbarramento previste dalle vecchie e nuove leggi elettorali.

In effetti la Coalizione attualmente guidata da Tsipras è nata nel 2004 dalla aggregazione attorno ad una piattaforma comune di una serie di gruppi, dai trotzkisti ai socialisti agli ecologisti, a “cittadini attivi”, e da allora ha continuato a fagocitare altri gruppi, partiti e movimenti, anche grazie alla crisi che negli ultimi anni ha colpito sia il PASOK, il Partito Socialista Panellenico, il partito tradizionale di centro sinistra, sia il partito di centro destra Nuova Democrazia.

Poiché demagogia e populismo nel regime democratico portano voti, Syriza, con la sua ideologia che mischia socialismo, nazionalismo, antifascismo, antimperialismo, con un linguaggio sciovinista e patriottico, che, come scrive Le Monde Diplomatique, «cerca di riabilitare termini ormai desueti nella vita democratica, “sovranità”, “dignità”, “fierezza”, “speranza”», è riuscita ad accaparrarsi il consenso, anche di una parte dei lavoratori, ma soprattutto della piccola e media borghesia e di quei settori del padronato oggi insofferenti ai governi giudicati “venduti” alla Germania e “traditori” dei “veri interessi” della Grecia.

I guai per Syriza cominciano adesso, dopo tre mesi in cui le numerose promesse elettorali sono state mantenute solo in minima parte e soprattutto nelle forme esteriori di comportamento di questa nuova (almeno in parte) generazione politica, senza che sia stato possibile affrontare nessuno dei problemi fondamentali del proletariato: la disoccupazione, i bassi salari, l’assistenza sanitaria, le pensioni da fame.

Le “frenetiche” trattative tra il nuovo governo e le istituzioni europee e internazionali vanno avanti da tre mesi con riunioni che vengono sempre annunciate come di fondamentale importanza e poi ogni volta si risolvono in nulla, tra accuse reciproche di incompetenza, inesperienza, arroganza ecc.

La richiesta iniziale di Syriza di una ristrutturazione del debito del Paese che ne prevedesse un sostanziale taglio, nella consapevolezza di tutti che il debito non potrà mai essere pagato nella sua interezza, si è nel frattempo stemperata verso il solito compromesso già altre volte raggiunto dai precedenti governi, di allungare ancora i tempi della sua restituzione.

La nuova politica estera aperta alla Russia di Putin, ribadita dal viaggio di Tsipras a Mosca, non differisce da quanto ha fatto il nostro capo del governo Matteo Renzi e continua la politica su due tavoli della Grecia ortodossa che non ha mai nascosto, fin dal conflitto nella ex Jugoslavia, i suoi stretti legami con la Grande Madre Russia. D’altronde nessuno mette in dubbio l’appartenenza alla Nato e all’Europa, appartenenza che è stata ribadita dalla decisione del Ministro della Difesa di spendere ben 500 milioni di dollari per revisionare alcuni vecchi aerei militari della Lockeed da utilizzare per il pattugliamento dell’Egeo, naturalmente in funzione anti Turchia.

Per adesso questo governo è riuscito solo a spezzare quel ciclo di mobilitazioni e scioperi che, pur condotto da sindacati di regime, aveva portato a decine di scioperi generali, manifestazioni di piazza, mobilitazioni e rischiava, in una situazione economica che continua a peggiorare, di diventare incontrollabile da parte dei partiti borghesi e di falsa sinistra.

La funzione controrivoluzionaria di Syriza però non è solo questa ma anche e soprattutto quella che si manifesta nella continua propaganda per deviare la lotta del proletariato contro la borghesia e il capitale nella lotta dell’intero “popolo greco” (esclusi i “traditori”, i “grandi” evasori, i “venduti” alla Troica) contro la Germania e i paesi del Nord e dell’Est dell’Europa, accusati di voler imporre la loro politica allo Stato greco, soffiando sul fuoco del nazionalismo, così come sta facendo, in maniera più aperta, il movimento neo-nazista di Alba Dorata, che trova la sua base elettorale non solo nel sottoproletariato delle sterminate periferie di Atene ma anche in una parte di lavoratori convinti che siano gli immigrati a “rubare” il lavoro.

I comunisti rivoluzionari stanno da tutt’altra parte. Noi sappiamo che il sistema capitalistico è irriformabile, che le misure che sta prendendo l’Europa e che vengono salutate come salvifiche sono già state adottate da tempo negli Stati Uniti e in Giappone come in Cina, con risultati modesti, ma con la prospettiva di approfondire ulteriormente quelle stesse condizioni che hanno scatenato la crisi e dunque aprendo la strada ad una prossima crisi che sarà ancora più distruttiva e catastrofica.

Noi sappiamo che per i lavoratori non si tratta di scegliere tra restare o uscire dall’Europa o dall’Euro, come non si tratta di aderire a questo o quello schieramento di Stati per migliorare la loro situazione economica. Essi non troveranno salvezza, come la storia recente dell’Europa ampiamente dimostra, nello schierarsi a difesa dell’economia nazionale e degli interessi della borghesia del proprio paese.

Il proletariato internazionale, dopo le lezioni della seconda guerra mondiale, della controrivoluzione staliniana, dei fronti reazionari antifascisti, delle democrazie post belliche, deve poter seguire un’altra strada, quella della sua opposizione al sistema capitalistico nel suo insieme, della rivoluzione internazionale comunista per la conquista del potere politico e la distruzione del sistema del lavoro salariato. Fuori da questa prospettiva non c’è che la perpetuazione dell’attuale barbarie.

 

 

 

 

PAGINA 2


I lavori alla riunione generale del partito
Firenze, 24 e 25 gennaio 2015
[RG121]

Corso della crisi economica
Lontane origini del capitalismo indiano
La successione dei modi di produzione, La variante asiatica
Storia del movimento operaio e comunista in Irlanda
Il concetto di Dittatura prima di Marx, La Rivoluzione francese
La crisi della finanza

La questione militare - Verso la Prima Guerra mondiale

Attività sindacale
Storia dei sindacati in Venezuela
Origine del partito comunista in Italia - Genova 1892
   

Segue e completiamo qui la pubblicazione del riassunto dei rapporti.

 

Lontane origini del capitalismo indiano

Il compagno iniziava il terzo capitolo del rapporto sulla storia dell’India descrivendo nel dettaglio il periodo sultaniale, mostrando ai compagni presenti diverse cartine per meglio comprendere la suddivisione dei vari sultanati sia geograficamente sia temporalmente.

In particolare si è concentrato sul Sultanato di Delhi, Stato esistito dal 1206 al 1555 nel territorio corrispondente ad una estesa porzione della parte settentrionale del subcontinente, governato da una serie di dinastie turche e pashtun, prima di esser conquistato dai moghul. Nei suoi primi quarant’anni il sultanato di Delhi, in modo del tutto analogo a quanto avveniva nel contemporaneo sultanato d’Egitto, fu una monarchia retta da un’oligarchia militare di origine servile. Si trovò ad affrontare diverse e cruciali insidie. La prima venne da una parte dei principi Rajput che continuarono una tenace resistenza antiturca. Ancora più pericolosa fu quella interna al sistema perpetrata da vari intermediari, quasi tutti indù, tra la classe dirigente turca e quella dei contadini. Al di sopra delle differenze etniche e religiose emergeva una nuova aristocrazia che aveva la tendenza a sottrarsi al controllo dei sultani.

I conquistatori turchi, dato il loro esiguo numero, si erano concentrati nei centri urbani, riscuotendo le imposte attraverso questi gruppi di intermediari che spesso erano i rappresentanti della vecchia classe dominante preislamica, o a volte alcuni dei membri della classe contadina che avevano acquisito un significativo potere nel villaggio.

Un problema maggiore per la sopravvivenza del sultanato venne dalle popolazioni mongole da quando Gengis Khan, nel 1221, aveva compiuto una rapida incursione nel Punjab. Tale minaccia indusse a rinunciare, seppur momentaneamente, ad una espansione verso il Sud dell’India e ad una rigorosa politica centralizzatrice volta a mobilitare e mantenere permanentemente in armi un grande esercito.

L’invasione mongola non si ebbe solo in India ma coinvolse, devastandolo, gran parte del mondo civilizzato di allora, dalla Cina all’Europa orientale, dalla Persia alla Mesopotamia. Anche dopo la morte di Gengis Khan i mongoli continuarono nel tredicesimo secolo ad estendere il proprio dominio, attaccando con successo l’Europa Orientale, conquistando interamente la Cina, aggredendo Vietnam e Giappone e, infine, annettendo Persia e Mesopotamia. Quando, nel 1241, i mongoli attaccarono l’Europa distruggendo qualsiasi esercito con cui vennero a contatto, il comandante supremo della forza d’invasione, Subotai, coordinò senza difficoltà due armate operanti in Polonia e in Ungheria, una a Nord e l’altra a Sud dei Carpazi: un sistema strategico che i generali europei furono in grado di uguagliare solo nel XIX secolo.

Gli sforzi dei sultani atti a costruire una possente macchina da guerra, non furono vani. Dopo decenni di battaglie dagli esiti alterni, nel 1292 i mongoli attaccarono ma furono duramente sconfitti a Sunan dal sultano Firuz, fondatore della dinastia dei Khalji. L’impresa contro questo popolo all’apice della sua terrificante potenza militare assicurò la sopravvivenza del sultanato e fu decisiva per avviare un insieme di significative trasformazioni del sistema politico ed alcuni adattamenti sul piano economico.

Se in un primo momento l’unico appoggio della classe dominante offerto ai coltivatori era stato la protezione da razziatori e conquistatori esterni, i sultani iniziarono ad investire nella costruzione di pozzi incrementando di fatto la produzione agricola. Allo stesso tempo la classe dominante del sultanato si appropriò di una consistente quota delle eccedenze prodotte dal settore rurale, trasferendole ed impiegandole in quello urbano. Seguendo una consuetudine tipicamente turca i sultani, oltre a tenere una porzione di terre per sé, ne distribuivano gran parte ai propri capi militari i quali, a loro volta, le suddividevano tra le loro prime linee. In realtà non si possedeva il territorio ma il diritto di imposta su quella terra, chiamata iqta, e in questo modo si legava quella parte dell’esercito al potere centralizzato del sultano. L’iqta non era un privilegio ereditario e neppure permanente, anzi spesso si trasferiva da una persona a un’altra, meccanismo finalizzato ad impedire la formazione di basi di potere autonomo fra i membri dell’aristocrazia sultaniale. Aspetto questo fondamentale nel modo di produzione asiatico.

Dopo la fulminea conquista di gran parte del Nord dell’India, i sultani furono tentati più volte dall’idea di varcare i monti Vindhya, catena montuosa che separa la pianura gangetica a nord e l’altopiano del Deccan a sud, spingendo i propri vittoriosi eserciti in direzione del meridione indiano. Se la conquista di quei territori avrebbe potuto essere relativamente facile, non lo sarebbe stato il loro mantenimento che avrebbe necessariamente comportato la creazione di nuove province nonché lo stanziamento e finanziamento di nuove truppe che, data la notevole distanza da Delhi, non avrebbero tardato a mettere in discussione l’autorità del sultano o, addirittura, a ribellarsi apertamente. Con il passare del tempo, tuttavia, la ricchezza di questi territori e la debolezza degli eserciti degli Stati che li reggevano si rivelò una tentazione irresistibile per questa classe dominante, la cui autorità iniziava a vacillare. A più riprese le truppe di Delhi penetrarono via via in profondità, fino a raggiungere Capo Comorin, l’estrema punta meridionale della penisola indiana. Le lunghe scorribande erano tese non tanto alla conquista, bensì al saccheggio e, laddove possibile, all’imposizione di un rapporto tributario. In quest’epoca gran parte dell’India si ritrovò così sotto il controllo diretto o sotto l’alta sovranità dei signori di Delhi.

In questo scenario si aprirono le porte dell’India alla marcia devastatrice di un nuovo grande condottiero turco proveniente dal centro dell’Asia: Timur lo zoppo, conosciuto dagli europei come Tamerlano che, dopo esser asceso al trono di Samarcanda nel 1369, si lanciò in una serie di grandi incursioni destinate a devastare Persia, Anatolia, Afghanistan, Mesopotamia e Russia meridionale. Nel 1397 le avanguardie di questa forza d’invasione penetrarono in profondità nel Punjab, e nell’aprile del 1398, Tamerlano stesso assunse il comando delle operazioni in India. Il 17 dicembre dello stesso anno, davanti a Delhi, circa 90.000 cavalieri si scontrarono con l’esercito del sultano composto da 10.000 cavalieri, 40.000 fanti e 120 elefanti corazzati. La battaglia si risolse in una completa disfatta per le forze del sultanato, mentre Delhi fu occupata e distrutta. Alcuni mesi dopo, quando Timur abbandonò per sempre il subcontinente, il Nord dell’India era sprofondato nel caos.

Ci troviamo di fronte alla fase conclusiva del medioevo, non solo di quello indiano ma di gran parte del mondo civilizzato, caratterizzato dall’insorgere di una forte depressione demografica ed economica, causata da una pandemia di peste e da una consistente recessione agricola. Nel 1330 la peste dilagò oltre la provincia cinese dello Hubei e si espanse in gran parte del mondo, nei successivi venticinque anni, trasportata dalle vie marittime e terrestri praticate dai mercanti e dagli eserciti. In Europa la peste si manifestò a partire dal 1346 e la sconvolse fino al 1353, nello stesso anno in cui completò la devastazione della Cina. Il crollo demografico causato dalla peste comportò un generale declino di tutte le attività economiche e dei traffici commerciali a lunga distanza, che subirono un’ulteriore contrazione in quanto venne a mancare quell’egemonia mongola sull’Asia che, dopo le devastazioni iniziali, aveva creato una sorta di enorme, unico impero, attraverso il quale era relativamente facile spostarsi e muovere merci dal mediterraneo alla Cina, sia via terra sia seguendo le rotte marittime che andavano dalle coste della Cina al Golfo Persico passando dall’India.

Inoltre già prima della diffusione del morbo si erano manifestati i sintomi di una grave crisi agraria di lungo periodo. La causa non va ricercata in mutamenti climatici, com’era già capitato in precedenza, ma nel crescente sfruttamento dei territori coltivati e nel conseguente depauperamento dei loro elementi nutritivi. Le aree più colpite erano quelle in cui l’agricoltura era stata praticata più a lungo ed intensamente. Questo spiega la diminuzione della ricchezza verificatasi fra la metà del Trecento e l’inizio del Cinquecento in alcune aree chiave come la valle del Nilo e il bacino del Tigri e dell’Eufrate, zona quest’ultima che non fu colpita gravemente dalla peste. Anche la recessione verificatasi nella pianura gangetica è probabilmente riconducibile alla medesima crisi agricola. L’unica soluzione, dati i limiti tecnologici dell’epoca, era la messa a coltivazione di terre vergini: questo fu possibile in Europa, dove la catastrofe demografica delle popolazioni nomadi flagellate dalla peste liberò vaste estensioni di terra coltivabile, di cui un lampante esempio sono le distese ucraine.

L’inizio del sedicesimo secolo vide un nuovo attore partecipare agli affari della penisola del Deccan: il Portogallo. Nel maggio del 1498 una consistente flotta guidata da Vasco da Gama attraccò nel porto di Calicut, capitale del piccolo stato del Malabar. Per alcuni decenni, pur trovando diverse resistenze, i portoghesi furono superiori ad ogni avversario navale, controllando di fatto molte delle rotte oceaniche. Con l’obiettivo di procurare basi sicure alle loro flotte conquistarono la città di Goa che divenne il loro campo base militare nel 1510. I portoghesi s’interessarono quasi esclusivamente del commercio di spezie e dei cavalli da guerra, mentre per le altre merci chiedevano il versamento di una tassa del 5% ai mercanti asiatici. Ben presto il tentativo di monopolizzare questi traffici fallì, in particolare per le limitate risorse militari.

Contro le pretese anticentraliste dell’aristocrazia Alam Khan, governatore di Lahore, chiamò in aiuto il principe di Kabul, detto Babur (Tigre). Costui, discendente di Tamerlano, rivendicò il sultanato di Delhi come sua legittima eredità. Nonostante la superiorità numerica dell’esercito sultaniale, questo fu completamente annientato. L’anno successivo Babur sconfisse un altro poderoso esercito messo in campo dall’alleanza di tutti i principali clan dei Rajput. La battaglia di Panipat è considerata la data di fondazione dell’impero mogol o moghul, così chiamato perché Babur vantava anche una pretesa parentela con Gengis Khan.

 

La questione militare - La vigilia della Prima Guerra mondiale, la guerra italo-turca e le prime due guerre dei Balcani

Lenin ne “L’imperialismo” spiega il dominio del capitale finanziario su quello industriale. Nel Regno Unito, il capitalismo più sviluppato in Europa, tra il 1900 e il 1905 furono investiti nell’economia nazionale annualmente in media 72 milioni di sterline, mentre le esportazioni di capitali furono di 64 milioni di sterline. Nel successivo periodo tra il 1906 e il 1912 la media degli investimenti interni scende a 39 milioni, mentre sale a 152 milioni di sterline la media delle esportazioni di capitali. Nel 1913 gli investimenti inglesi all’estero, prevalentemente nei paesi dell’impero britannico, raggiunsero i 4 miliardi di sterline. Mentre le esportazioni di prodotti industriali inglesi all’estero scendevano vistosamente. In compenso, i redditi degli investimenti all’estero fruttavano dai 90 ai 100 milioni di sterline all’anno superando di ben cinque volte le entrate del commercio estero. Il centro finanziario londinese della City era il più importante al mondo.

Nello stesso periodo la Germania assumeva il primato della produzione industriale in Europa, mentre l’industria americana nel mondo.

Nella vecchia Europa furono anni di relativa calma tra gli Stati, senza guerre importanti, di grande sviluppo industriale e di euforia per le classi dominanti che vivevano “La Belle Èpoque”, ma di grande sfruttamento per il proletariato, costretto a milioni a emigrare in terre lontane.

Per comprendere la nostra lettura del complesso intreccio di accordi diplomatici fra le grandi potenze per spartirsi i territori coloniali e i mercati, dobbiamo, da una parte, considerare che, come Marx avverte, i capitalisti, “falsi fratelli”, sono in continua feroce concorrenza tra loro, ma sempre in accordo e sostegno reciproco per combattere le lotte e le organizzazioni proletarie. Dall’altra, come scrive Lenin al cap. IX de “L’Imperialismo...”, «nella realtà capitalista (...) le alleanze “inter-imperialiste” o “ultra-imperialiste” non sono altro che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, sull’unico e identico terreno dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta».

Il relatore ha qui elencato gli accordi diplomatici pubblici e segreti di quegli anni: 1882: Triplice Alleanza tra Germania, Austria, già legate nella Duplice Alleanza, e l’Italia. È un patto militare, rinnovabile, con modifiche e accordi bilaterali, ogni 5 anni, con cui si cerca di arginare l’espansione della Francia in Europa e in Africa; 1884/85: Conferenza per l’Africa, o del Congo, con cui le potenze europee pianificano la spartizione dell’Africa e delle sue ricchezze per evitare guerre tra di loro che possano espandersi in Europa.

Seguono anni di guerre in Africa in cui l’Inghilterra vi estende il suo dominio mentre Francia e Germania tentano di ostacolare il progetto inglese di un lungo e continuo corridoio di colonie da Città del Capo al Cairo occupando i territori sub sahariani ed equatoriali; anche l’Italia, ora sostenuta dall’Inghilterra in funzione antifrancese e antitedesca, con le infelici imprese in Eritrea negli anni a finire del secolo, si dà ad imprese coloniali.

Di quel periodo sono le teorie geopolitiche dell’americano Mahan e dell’inglese Mackinder sul confronto tra potenze marittime, ritenute le più importanti, e quelle continentali, sul ruolo strategico di particolari vie marittime, dei punti chiave di basi, stretti e rotte intorno al mondo per assicurare il controllo di vaste aree del pianeta.

Nel 1904, mentre è in corso il conflitto tra Russia e Giappone per il controllo della Manciuria, Inghilterra e Francia stipulano un accordo militare per contrastare lo sviluppo della Germania. La Francia ottiene importanti concessioni dall’Inghilterra per la sua espansione in Africa specialmente in Marocco e Senegal. Il sultano del Marocco aveva chiesto un grosso prestito internazionale per modernizzare il suo paese, da rimborsare tramite un generale aumento delle tasse: la Francia si mostra disponibile ma con le clausole di garanzia di poter controllare direttamente le dogane, i porti e le strutture amministrative del Marocco. Così Lenin parla di quel prestito: «Il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usurario minuto, termina la sua evoluzione mettendo capo a un capitale usurario gigantesco».

Francia e Inghilterra avviano una collaborazione militare, fino allora ritenuta impossibile tra i due nemici storici: “l’entente cordiale”.

1905: prima crisi del Marocco: il capitalismo tedesco, a difesa dei suoi investimenti nel settore minerario nel paese, con un discorso dell’imperatore Guglielmo II provoca un grave incidente diplomatico. Lo scopo è anche di valutare la tenuta dell’”entente cordiale” mentre la Francia non può contare sull’aiuto della Russia, sua alleata, al tempo in guerra col Giappone.

1906: mentre la flotta russa dal Baltico sta procedendo verso il Giappone l’imperatore tedesco riesce a far firmare allo zar di Russia un trattato di alleanza militare nel caso di un attacco di altre potenze, sottintendendo la Francia; ciò avviene all’insaputa del governo russo che, preoccupato degli ingenti investimenti francesi, ne teme il rientro, il che provocherebbe un tracollo. Il trattato è in seguito modificato con l’esclusione di un eventuale conflitto tra Germania e Francia e poi lasciato decadere.

1906: conferenza di Algeciras. Dopo mesi di trattative tra le grandi potenze, inclusi gli Usa e l’Italia, si giunge ad un accordo in cui si riconosce la penetrazione francese nel Marocco, ma vi si garantisce l’ingresso dei capitali degli altri paesi europei, tra cui quelli tedeschi, interessati allo sfruttamento minerario per le loro industrie. È un successo diplomatico dell’asse Francia-Inghilterra. Il passo indietro della Germania è dovuto all’inferiorità militare tedesca non ancora in grado di contrastare il dominio sui mari delle flotte inglesi. In quegli anni i cantieri inglesi stanno varando nuove navi corazzate di grande velocità, autonomia e potenza di fuoco che aumentano il già forte vantaggio inglese sui mari; anche la Germania si dà a costruire quel tipo di nuove corazzate, ma non ancora in numero sufficiente per vincere gli inglesi.

1907: Gran Bretagna e Russia firmano un accordo riguardante la spartizione della Persia in tre zone di influenza: il Nord alla Russia, il Sud alla Gran Bretagna, il centro neutrale, disponibile agli interessi di entrambi. Si forma così la Triplice Intesa tra Gran Bretagna, Francia e Russia, contrapposta alla Triplice Alleanza tra Germania, Austria-Ungheria e Italia: l’Europa è divisa in due blocchi militari contrapposti.

Importanti sono gli accordi bilaterali segreti tra Austria-Ungheria e Italia che riguardano l’eventuale rottura degli equilibri nei Balcani: l’Austria tenta di acquisire dei territori, già sotto sua amministrazione, ma facenti parte del traballante impero Ottomano; nel caso di nuove acquisizioni territoriali di una parte l’altra avrebbe ottenuto delle compensazioni. L’Austria pensa alla Bosnia e all’Erzegovina concedendo all’Italia dei vantaggi in Albania; Roma pensa invece ai territori italiani ancora sotto il dominio austriaco.

1908: crisi per l’annessione della Bosnia Erzegovina. La situazione internazionale cambia radicalmente con la Rivoluzione dei Giovani Turchi, che in quell’anno hanno ottenuto importanti concessioni democratiche e costituzionali. L’Austria, temendo lo scoppio di moti indipendentisti nell’area balcanica, occupa militarmente le due provincie. Il ministro degli esteri russo offre il suo consenso in cambio dell’appoggio dell’Austria alla richiesta del ristabilimento del diritto di passaggio delle navi militari russe nei Dardanelli, vietato dopo la guerra di Crimea. Anche i piccoli Stati balcanici pretendono delle compensazioni per questa annessione, prevalentemente a danno dell’Impero ottomano. La Bulgaria, appoggiata dall’Austria, proclama l’indipendenza dall’Impero ottomano e il giorno seguente l’Austria dichiara di estendere il suo dominio sulla Bosnia e l’Erzegovina. Le proteste più forti sono quelle della Serbia, che ritiene quelle province parte di un improbabile Stato che riunisse tutti i serbi, fortemente ostacolato dall’Austria. La Serbia si muove per ottenere uno sbocco nel Mediterraneo per l’unica via possibile verso il porto di Salonicco, ancora sotto dominio ottomano. L’Italia sostiene la manovra austriaca contando su adeguate compensazioni.

1909: l’Austria raggiunge un accordo con l’Impero ottomano, con un indennizzo di 2,5 milioni di lire turche, per l’annessione delle due province, riconosciuta da tutte le potenze eccetto la Serbia, che mobilita le truppe mentre scoppiano tumulti nelle aree abitate dai serbi nell’impero austro-ungarico. La Serbia conta sull’alleanza della Russia, che però è costretta dalle potenze europee a frenare le proteste serbe anche perché Vienna ha mobilitato per l’invasione anche della Serbia e la Russia in questo momento di sua crisi non è in grado di sostenere da sola una guerra contro l’Austria-Ungheria. I suoi alleati, Francia e Inghilterra, non vogliono una guerra nel cuore dell’Europa.

L’Austria, secondo una sua interpretazione dell’accordo con l’Italia sulla questione dei Balcani, ritiene di non dovere alcuna compensazione all’Italia perché quelle due province erano già da lei occupate al momento della firma. Le proteste italiane sono deboli, anche perché cerca l’appoggio dell’Austria per l’occupazione militare, e da tempo organizzata, della Tripolitania, ancora sotto l’Impero ottomano.

1909: accordo segreto di Racconigi tra Italia e Russia per di frenare l’avanzata austriaca nei Balcani, in particolare in Albania e Montenegro, ora importanti anche per l’Italia. L’Italia gioca su più tavoli e si allontana sempre più dall’alleanza con l’Austria.

1911: seconda crisi marocchina. Per mantenere il protettorato sul Marocco la Francia occupa militarmente Fez. L’imperialismo tedesco, mai rassegnato a rinunciare alle pretese sul Marocco, reagisce inviando una cannoniera nel porto di Agadir. L’Inghilterra fa da intermediaria e la crisi si risolve per vie diplomatiche mediante compensazioni territoriali alla Germania nel Congo e nel Camerun e con la rinuncia definitiva al Marocco.

  

Lotte operaie e attività sindacale del partito

Con lo sciopero generale del 12 dicembre, durante il quale abbiamo distribuito il volantino “Per l’unione delle lotte della classe lavoratrice”, si chiudeva la mobilitazione della Cgil in opposizione alla nuova riforma del lavoro, il cosiddetto Jobs Act, che aveva avuto quale unico ulteriore atto nazionale la manifestazione a Roma di sabato 25 ottobre che, non essendo uno sciopero, non aveva arrecato alcun danno al padronato. A ciò si erano aggiunti pochi scioperi a carattere locale.

Come sottolineato nel nostro volantino distribuito ai lavoratori, “Al capitalismo che sfrutta, licenzia e affama è indispensabile opporre l’unione delle lotte dei lavoratori”, lo sciopero giungeva due mesi dopo la prima approvazione parlamentare del provvedimento governativo (8 ottobre), 45 giorni dopo il primo sciopero di alcuni sindacati di base (il 24 ottobre), un mese dopo il secondo sciopero generale di tutto il sindacalismo di base (14 novembre) e nove giorni dopo la definitiva approvazione del disegno di legge delega. La Fiom ha preteso di distinguersi dalla vacuità di questa mobilitazione con otto ore di sciopero generale in più, divise territorialmente, il 14, 21 e 27 novembre.

Ciò a fronte di un attacco, secondo le stesse Fiom e Cgil, di portata storica. L’inadeguatezza di questa azione a fronte della potenza e dell’entità dell’attacco padronale è di tali proporzioni da non poter definire questa mobilitazione che una farsa. A termine di paragone, contro la riforma delle pensioni del 1995, lo sciopero dei lavoratori francesi durò tre settimane. Nulla di simile è vagamente auspicato od evocato dalla Cgil né dalla Fiom.

La partecipazione allo sciopero del 12 dicembre non è stata ragguardevole, come sostenuto sia dalla maggioranza sia dalla minoranza della Cgil. Ciò è emerso dal numero di lavoratori in piazza e dal clima dei cortei, non diversi da analoghe fiacche mobilitazioni passate. Da notare come la corrente di opposizione in seno alla Cgil, “Il sindacato è un’altra cosa”, abbia sostenuto sia l’esistenza di un movimento di lotta della classe operaia contro il Jobs Act sia il successo di questa mobilitazione. La Cgil deve necessariamente imbastire questa fasulla azione di lotta per non perdere ogni fiducia dei lavoratori e fare che confondano la farsa con la realtà.

Non vi è stata spinta operaia per una lotta più dura contro la riforma del lavoro ma un semplice accodarsi a queste iniziative sindacali, che i lavoratori ben sanno essere inutili. Lo conferma l’assenza di contestazioni ai sindacati in piazza, sia il 25 ottobre sia il 12 dicembre. Men che meno lo sciopero generale è stato l’apice di un movimento di lotta, bloccato dalla Cgil, bensì l’epilogo della sua fasulla mobilitazione, come già avvenuto in tante analoghe situazioni in passato.

Il 24 dicembre il consiglio dei ministri varava i primi due decreti attuativi del Jobs Act. Il 20 febbraio il Governo – in quanto i decreti attuativi di una legge delega non necessitano di approvazione del parlamento ma solo di un suo parere – li approvava in via definitiva e ne presentava altri due, approvati il 7 marzo.

Riguardo agli scioperi indetti dai sindacati di base ci siamo così espressi: il 24 ottobre allo sciopero Usb-Orsa-Unicobas, “Al capitalismo, protetto dai sindacati di regime, è indispensabile opporre l’unione delle lotte dei lavoratori”; il 14 novembre allo sciopero dei Sindacati di base, “Battiamoci per un vero Sindacato di Classe”; e sempre il 14 novembre a Milano, “Per la ripresa della lotta di classe”.

Nei confronti del movimento dei lavoratori della logistica, organizzati nel SI Cobas, siamo intervenuti: a Pioltello, domenica 28 settembre, “Tutti i lavoratori imparino dai loro fratelli di classe da quattro mesi in lotta contro la DiElle”; il 16 ottobre, “Al fianco dei lavoratori della logistica in lotta”. Ai lavoratori dei magazzini generali di Torino abbiamo il 26 ottobre dedicato uno specifico manifesto del partito: “Viva la lotta dei lavoratori del CAAT”.

Infine, il 9 novembre, abbiamo rivolto un “Saluto agli scioperanti in Belgio”.

 

Storia dei sindacati in Venezuela, seconda parte: Ricambio borghese - ricambio sindacale

Nelle elezioni presidenziali del 1998 viene eletto Hugo Chavez, dopo di che si rompe definitivamente con la fase del bipartitismo AD-COPEI, che già si era esaurito e non garantiva più alla borghesia il controllo sociale dei salariati.

Nel 1999 il “chavismo” convoca una Assemblea Costituente, incaricata di scrivere una nuova costituzione, e promuove una “rivoluzione bolivariana”, la nuova facciata dietro la quale verrà data continuità alla dittatura della classe borghese.

È andato formandosi un fronte di partiti contrari a Chavez, composto principalmente da quei gruppi che avevano perso i loro privilegi e quote di potere dell’epoca bipartitica.

Il chavismo e i suoi alleati (il “Polo Patriottico”) hanno incontrato delle resistenze nelle centrali sindacali controllate da AD e COPEI, principalmente la CTV, che all’epoca era la centrale più grande e che raggruppava il maggior numero di federazioni e sindacati. All’inizio il chavismo si è neganto alle trattative con i rappresentanti della CTV, a livello nazionale e in molte imprese e istituzioni dello Stato, e sviluppando una campagna di critica alle centrali sindacali che sarebbero organismi antidemocratici, corrotti e allineati con le posizioni del fronte di opposizione.

Il 5 aprile 2003 è celebrata a Caracas la creazione di una nuova centrale sindacale, formata da Forza Bolivariana dei Lavoratori (FBT), Autonomia Sindacale (AS) e Blocco Sindacale Classista e Democratico di Carabobo. L’1 e 2 di agosto del 2003, sem­pre a Caracas, si tiene il Congresso di Fondazione della Unione dei Lavoratori del Venezuela (UNT), una centrale completamente artificiosa e vincolata al governo.

In questo modo, il nuovo quadro delle centrali sindacali esistenti in Venezuela è: CTV, UNT, CODESA, CUTV, ASI e CGT. Sono tutte centrali sindacali del regime, tutte praticano la collaborazione di classe con il padrone. La differenza fra loro è che alcune fanno parte del fronte dei partiti di opposizione al chavismo, altre si schierano a difesa del governo chavista e del “socialismo del XXI secolo”.

In questo modo si completa il quadro delle organizzazioni sindacali che in Venezuela controllano i salariati, in una situazione di divisione del movimento sindacale, con più correnti politiche che si muovono nel suo seno. Tutte queste organizzazioni sindacali e correnti politiche, benché quasi sempre si auto-denominino “classiste”, in pratica si subordinano alla legge borghese, alla difesa della patria, dell’azienda e dell’economia nazionale, ed al conciliatorio dialogo con i padroni. Alcune di queste Centrali, come la CBST, si definiscono “antimperialiste”, però sono fieri difensori della democrazia parlamentare e della libera impresa.

In generale ogni centrale o organizzazione sindacale è in collegamento con determinati movimenti politici, che si disputano i posti in parlamento e nel governo. Il risultato di questa situazione è di una relativa pace sociale e nella continuità dello sfruttamento capitalistico.

In Venezuela ci sono molti sindacati ma pochi aderenti. Il numero di organizzazioni sindacali è più che raddoppiato dalla fine del 2001, quando 2.974 organizzazioni erano registrate per i comizi sindacali nel padronale Consiglio Nazionale Elettorale, mentre oggi questa cifra arriva a 6.200. Però, mentre è in aumento il numero dei sindacati, il tasso di sindacalizzazione è calato dal 40% del 1974 all’11% di oggi. Però gli attivi del settore ufficiale che possono aderire ai sindacati nei centri industriali rappresentano il 25% della popolazione economicamente attiva, che è di 3,5 milioni, dei quali 2,3 nel settore pubblico.

Fin dal loro arrivo al governo i chavisti hanno fatto una campagna critica nei confronti della CTV, screditandola come centrale padronale. La stessa campagna è stata lanciata contro i sindacati in generale, denunciati come organismi corrotti che non rappresentano i lavoratori. In fondo la critica del chavismo, come di tutto il movimento borghese, è contro il sindacato in generale e contro ogni azione di lotta rivendicativa dei lavoratori che attenti alla produzione e all’appropriazione del plusvalore.

Il controllo operaio e la cogestione sono stati proposti nei casi delle cosiddette “aziende recuperate”, aziende in fallimento espropriate dal governo e date ai lavoratori o condotte in compartecipazione operaia. Questi espropri, pubblicizzati dal governo come primi passi nel socialismo, non sono altro che un aiuto ai capitalisti falliti. Al di là del successo produttivo di queste aziende, pur nel cambiamento di gestione, affidata agli operai, sempre si producono merci che si vendono nel mercato, l’azienda guadagna un profitto mentre sfrutta i suoi lavoratori. Questo è ciò che i chavisti chiamano “socialismo del XXI secolo”.

Come nella cosiddetta “IV Repubblica” e del bipartitismo di AD e COPEI, anche nell’epoca dell’egemonia politica del chavismo la classe operaia resta sottomessa alla politica borghese. Lo scontro fra chavismo ed i suoi alleati del “Polo Patriottico” con il fronte dei partiti di opposizione del “Coordinamento Democratico e Tavolo di Unità Democratica” è stato presentato alle masse, come in altri paesi, come contrapposizione fra destra e sinistra, o fra socialismo e capitalismo. In questo modo le frazioni borghesi che si disputano il controllo del governo e delle istituzioni riescono a far marciare le masse operaie sotto bandiere anti-proletarie come la difesa della patria. In particolare il chavismo e i cosiddetti partiti della sinistra che lo spalleggiano hanno proposto il classico programma opportunista che definisce il socialismo un regime che rispetta la proprietà privata, la produzione delle merci e lo sfruttamento del lavoro salariato e che pratica la democrazia borghese parlamentare, da loro perfezionata con la demagogia del protagonismo e della partecipazione.

Gli obbiettivi principali dei conflitti operai dal 1999 fino al 2014 sono stati i seguenti.

Difesa del salario, tramite l’applicazione dei contratti collettivi o il rinnovo di quelli scaduti. Le centrali sindacali non hanno promosso simili mobilitazioni unitarie, anche perché non ne hanno il seguito sufficiente: la loro forza è volta, utilizzando i salariati come pedine, alla lotta per il controllo del governo e non contro i padroni. Per aumenti salariali nei contratti collettivi vi sono state lotte isolate, formalmente dirette dai sindacati d’azienda, che hanno dovuto cedere alla pressione e al malcontento dei loro affiliati. La firma dei contratti collettivi con anni di ritardo, compensati solo col pagamento di un bonus, avvantaggia solo gli imprenditori con la riduzione dei costi salariali. Inoltre è venuto in uso il metodo della “tessera per il paniere”, un buono alimentare usato per mantenere i lavoratori nella passività mentre peggiorano i salari. Negli ultimi 15 anni è stata lunga la lista dei conflitti per aumenti salariali e per contratti collettivi, e in tutto questo i sindacati sono stati strumento di contenimento, agendo nella maggior parte dei casi come vere bande di gangster mafiosi.

Per la difesa del posto di lavoro. Vista la situazione di imprese in fallimento che lasciano i lavoratori per la strada, alcuni movimenti opportunisti, principalmente di orientamento trotzkista, hanno innalzato la bandiera del salvataggio delle aziende tramite la loro ristrutturazione e nazionalizzazione. Il governo borghese del chavismo, favorito allora dall’aumento del prezzo del petrolio, ha attuato una politica di “salvataggio” e appoggio ai capitalisti in fallimento, favorendo, dopo alcune incertezze, gli espropri, che diceva di segno socialista. È con questa demagogia che sono spacciate ai lavoratori le illusioni del “controllo operaio” e la cogestione.

Il governo borghese anche nella sua fase chavista è andato perfezionando il suo apparato repressivo, tramite cospirazioni, attentati terroristici e minacce di colpi di Stato. Inoltre negli ultimi 15 anni è stato modificato il quadro giuridico per agevolare la repressione non solo degli scioperi ma anche delle proteste più timide e conservatrici, perfezionando leggi e decreti e dotandosi inoltre di corpi repressivi e servizi segreti. Tutto questo apparato si è rovesciato sui lavoratori e sui dirigenti sindacali ogni volta che il governo lo ha considerato necessario. Dopo le guarimbe, rivolte, e le barricate dell’opposizione, con protagonismo della classe media scontenta, il governo ha stabilito nuove aree di sicurezza oltre a quelle già esistenti, principalmente intorno alle zone industriali, dove tutte le crisi dell’ordine pubblico (cioè le proteste operaie) sono rapidamente attaccate dai corpi repressivi. Quando i lavoratori hanno travalicato queste restrizioni il governo non ha esitato a reprimerli violentemente. I fronti e i coordinamenti operai che sono sorti localmente riflettono sul problema dell’auto-difesa. Ma, per la debolezza della situazione attuale, le posizioni di classe, quando espresse, sono spesso accompagnate da illusioni legalitarie e nazionaliste, influenzate dalle posizioni delle bande borghesi in lotta.

Negli ultimi 15 anni il controllo sociale dei lavoratori è stato realizzato dalla borghesia attraverso la fola opportunista del chavismo “socialismo del XXI secolo”, sviando le energie operaie sotto bandiere borghesi e anti-proletarie. I sindacati si sono prestati a ribadire questo inganno. La divisione del movimento sindacale si è fatta secondo questa falsa opposizione socialismo/capitalismo e così le centrali sindacali, come i fronti nazionali fra partiti, hanno mantenuto il controllo sul movimento, pur non potendo contare su di una reale capacità di mobilitazione.

Benché i sindacati attuali in Venezuela siano di regime, allineati con i padroni e con il governo, su molti sindacati d’azienda non esiste il pieno controllo da parte delle federazioni e delle centrali, e dei partiti che le dirigono. Sono emersi anche dei coordinamenti fra sindacati di azienda, che in Venezuela si dicono “sindacati di base”, che agiscono ai margini delle centrali e delle federazioni per condurre lotte o agitazioni. È un processo al suo inizio e molte posizioni opportuniste vi hanno campo.

Tuttavia la mobilitazione dei lavoratori in Venezuela, seppure dietro le false bandiere “socialiste” e “rivoluzionarie”, ha dimostrato una volta di più che nel seno della classe operaia riposa una gigantesca energia. Questa viene oggi piegata dalla borghesia a suo profitto e per la conservazione del capitalismo. A questo servono gli attuali sindacati che operano come cinghia di trasmissione della politica borghese nel seno della classe operaia. Quando sarà possibile la ripresa della lotta di classe i salariati si inquadreranno in organizzazioni di lotta economica fuori e contro i sindacati attuali, funzionando di nuovo allora come cinghia di trasmissione della politica del partito comunista rivoluzionario.

 

Origini del movimento operaio in Italia - Genova 1892

Quello di Genova del 1892 fu il primo congresso nazionale socialista in Italia. Nato in origine come congresso operaio, si convertì in socialista per la doppia scissione avvenuta: da una parte il nuovo partito che nasceva a vita propria ed autonoma, dall’altra il movimento anarchico e l’intransigente operaismo corporativo.

Non è un caso che le due ali estreme del movimento operaio, l’anarchismo e l’operaismo, la cui ideologia apparirebbe inconciliabile, abbiano fatto fronte unico contro il nascente partito socialista ed assieme abbiano fondato il, seppure effimero, Partito dei Lavoratori Italiani bis.

La separazione dagli anarchici era una necessità storica, già rivelatasi l’anno prima al congresso internazionale di Bruxelles, dove l’unione dei partiti dei lavoratori di tutti i paesi, affermandosi sul programma del socialismo marxista, aveva sentito il bisogno di scindere la propria azione da quella anarchica.

Turati, rappresentante dell’Italia a quel congresso, esprimeva in un articolo della “Critica sociale” del 10 settembre 1891 le ragioni della scissione, che analogamente l’anno successivo si trovava a compiere in Italia. Turati dimostrava la necessità della separazione dagli anarchici per l’incompatibilità delle due opposte scuole. Era ormai solo bizantinismo discutere se il movimento anarchico debba o non debba venir compreso nel “socialismo”, inteso in senso ampio. Di comune tra anarchismo e socialismo tutt’al più ci poteva essere una parte della critica negativa alla società capitalista, «ma diverso essenzialmente è fra le due scuole il concetto dell’evoluzione sociale, diverso il fine, diverso soprattutto, ed opposto, il metodo d’azione. A che pro’ unirsi per intralciarsi a vicenda? A che pro’ mutare i congressi in accademie, rifriggendo un’altra volta le eterne contese fra legalitari e antilegalitari, fra astensionisti e non astensionisti, fra rivoluzionari organizzatori e rivoluzionari d’impeto o semplici rivoltosi?».

L’altro problema che i socialisti si trovarono ad affrontare, ed a neutralizzare, era costituito dall’operaismo. Su “Critica Sociale” del 16 agosto 1892 Turati scriveva: «Nella classe operaia italiana — partito in formazione — covano ancora i fermenti che troviamo, agli inizi, nella storia di tutti i partiti operai. Essa non ha ancora superato tutte le malattie dell’infanzia, e rimane ancor dubbio se potrà schivarne taluna [...] L’antagonismo — di cui acquista lentamente la coscienza — colla classe borghese, si traduce, nelle menti rozze, in una specie di diffidenza irrazionale e istintiva verso tutto ciò che dalla classe borghese proceda, quand’anche si tratti di forze essenzialmente contrarie al dominio borghese o di armi adattissime e indispensabili a rovesciarlo [...] Di qui ancora e soprattutto quella tendenza, sempre viva fra molti dei nostri operai [...] ad appartarsi, a trincerarsi nell’ambito cosidetto economico – frase salsa e con la quale si intende l’ambito delle contese di puro mestiere – battezzando non meno falsamente questa tattica eunuca col nome grandioso e fatidico della lotta di classe [...] La gran frase riassuntiva e finale dell’opera di Marx: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”, la grande epigrafe dell’Internazionale: “l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera degli stessi lavoratori”, ridotte al sesto di certe teste, [...] vengono [...] tradotte così: “Separiamoci da quant’è intelligenza, indipendenza e coltura, guardiamo alla blouse, non ai principi [...] e formiamo il partito operaio degli analfabeti”».

Il Partito operaio-socialista, teoricamente proclamato l’anno precedente dal congresso operaio di Milano, era, secondo le parole di Turati, «nelle condizioni di un infante di cui i medici stanno a domandarsi se sia vivo e vitale». Proclamata la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani, ad una commissione era stato affidato l’incarico di formulare Programma e Statuto del partito da sottoporsi all’approvazione del prossimo congresso nazionale: quello di Genova.

Dal giugno 1892, a Milano, usciva il settimanale “Lotta di Classe”. Nel suo “numero unico” si legge: «Il principio della lotta di classe – come tutte le idee nette, vere, precise, senza doppi fondi, le idee che servirono di base a nuova civiltà – ha anche questo di caratteristico: che serve a meraviglia di pietra di paragone, per saggiare gli uomini e i partiti. Dite giustizia, bene pubblico, miglioramento del popolo e simili frasi fatte [...] tutte belle parole che impegnano tanto quanto dire “servitore umilissimo”! Ma l’idea della lotta di classe non ammette sottintesi e riserve. L’equivoco fugge da lei spaventato come Mefisto all’aspetto della croce».

Il 16 luglio “Critica Sociale” annunciava che erano state diramate le circolari di convocazione del Congresso nazionale intitolato: “Congresso per l’organizzazione operaia italiana”. Furono invitati tutti i Circoli e le Associazioni operaie che accettavano i principi: costituzione del Partito di Lavoratori, indipendente da tutti gli altri partiti; organizzazione per la rivendicazione delle terre e dei capitali in mano alla collettività dei lavoratori; conquista dei poteri pubblici, come un altro mezzo per l’emancipazione del lavoro.

In definitiva c’era quanto bastava per porre il partito nel campo del socialismo, ma allo stesso tempo tanta genericità da farvi rientrare un po’ tutto e tutti. Secondo Turati al proletariato italiano, almeno per il momento, non si poteva chiedere niente di più. Infatti all’interno dell’ingarbugliato movimento operaio restava una componente che si opponeva all’invadenza dei “socialisti borghesi” in seno al Partito operaio affermando che il Partito dei lavoratori doveva restare un puro partito “di classe” e dei suoi organi centrali dovevano far parte soltanto lavoratori manuali, dal congresso dovevano essere escluse le società politiche, e, di conseguenza, il partito non avrebbe dovuto chiamarsi “socialista”.

Ma la crisi che aveva colpito il Partito Operaio stava proprio a dimostrare il contrario: il movimento privo di una base programmatica, rinchiuso all’interno delle fabbriche, con una coscienza più corporativa che di classe, non solo non cresceva spontaneamente come si auspicavano i teorici dell’operaismo, ma col passare del tempo si inaridiva ed anche il suo primitivo impulso alla lotta pian piano si spegneva.

Il mattino del 14 agosto, a Genova, nella sala Sivori si riunirono i congressisti provenienti da tutt’Italia. Erano presenti i nomi più noti del socialismo italiano ed erano rappresentate tutte le correnti politiche sotto la cui direzione si erano formate le società ed i circoli operai: erano rappresentati operaisti, socialisti rivoluzionari, anarchici, evoluzionisti, democratico-sociali, repubblicani collettivisti.

La scissione dagli anarchici, anche se non esplicitamente annunziata, era già scontata. Ma anche senza l’intervento degli anarchici si sapeva che non si sarebbe trattato di un congresso tranquillo. Infatti gli incidenti scoppiarono fin dall’inizio. Il primo si ebbe quando Casati avanzò la pretesa che i membri della presidenza fossero degli autentici operai. Gli anarchici, pur di sabotare la maggioranza socialista, si schierarono dalla parte degli operaisti, anche se non ne condividevano le posizioni.

L’atmosfera divenne rovente quando il Maffi prese la parola per riferire sul Programma e sullo Statuto del partito; gli anarchici si opposero vigorosamente e chiesero che la discussione fosse rinviata al giorno dopo affermando che non tutti i congressisti avevano avuto la possibilità di prenderne visione. La proposta di Programma e di Statuto erano stati pubblicati sul primo numero di “Lotta di Classe” del 30 luglio, ossia 15 giorni prima del congresso: era chiaro che si trattava di ostruzionismo; più di una volta si fu sul punto di venire alle mani e a nulla valsero le parole che Prampolini rivolse agli anarchici: «Da anni e anni, quando incominciò a sorgere il partito socialista in Italia, noi combattiamo fra noi una lotta continua nei giornali, nelle assemblee, nelle pubbliche piazze, nei congressi; io non dirò che vi sia da una parte o dall’altra malafede, anzi non vi è. Voi siete onesti quanto noi, ma è indiscutibile che questa lotta esiste, ed è di tutti i giorni, di tutte le ore, e ciò perché noi siamo due partiti essenzialmente diversi, percorriamo due vie assolutamente opposte, fra noi non ci può essere comunanza [...] Se noi dobbiamo battere due vie diverse, facciamolo da buoni amici; voi percorrete la vostra, noi proseguiamo la nostra, lasciamoci senza rancori [...] Domani voi adunatevi in un altro sito, e noi faremo altrettanto e credete che solo così potremo riescire a qualche conclusione».

Ma dal punto di vista degli anarchici la proposta di Prampolini era inaccettabile perché, anche se in minoranza, rivendicavano il diritto di rimanere nel del partito con ogni libertà. Affermava Pietro Gori: «Noi siamo la minoranza, ma esigiamo la libertà di portare fra voi la nostra propaganda [...] Dovunque voi sarete, là vi seguiremo».

Dei due giorni dedicati al congresso, il primo fu reso vano dalle continue diatribe ed il secondo avrebbe avuto il medesimo esito se non si fosse operato un atto di forza. Il Comitato promotore deliberò lo scioglimento del congresso. Visto che la minoranza non aveva nessuna intenzione di abbandonare il congresso, fu la maggioranza a farlo. La stessa sera, in una trattoria, Turati si ritrovò con un piccolo gruppo di congressisti e lì decisero di invitare tutti i membri del congresso che accettavano la partecipazione alle lotte elettorali (era la formula di separazione dagli anarchici) a riunirsi il giorno dopo nella sala dei Carabinieri Genovesi, in via della Pace.

La decisione di convocare il nuovo congresso in altro locale, presa per necessità da un ristretto gruppo di compagni all’insaputa degli altri, impedì che l’informazione arrivasse a tutti i rappresentanti della maggioranza, una parte dei quali l’indomani tornarono alla sala Sivori; tra questi era anche Andrea Costa.

Romagnoli e veneti protestarono vivacemente disapprovando il modo in cui si era prodotta la scissione e l’atto scorretto ed arbitrario compiuto da un piccolo gruppo di congressisti che si era arrogato il diritto di decidere in nome della maggioranza. Dichiararono quindi di abbandonare l’uno e l’altro congresso.

È evidente che la decisione di Turati esorbitava da tutte le regole statutarie e il suo fu un colpo di mano. Il convegno non avrebbe potuto chiamarsi congresso perché il congresso era stato sciolto, ci fu infatti chi lo definì “riunione privata”. Questo è vero, ma è altrettanto vero che la maggioranza non avrebbe potuto vincere l’ostruzionismo anarco-operaista a colpi di votazione, e soprattutto è vero che i socialisti già allora, ed i comunisti sempre, non si ritengono vincolati alle forme democratiche e bene fece Turati, in quella situazione, a mettere tutti di fronte al fatto compiuto.

Il salutare atto di forza di Turati determinò il compimento della definitiva separazione, ormai storicamente matura ed irrevocabile, del socialismo dal movimento anarchico. Si chiudeva così definitivamente una antica discordia, facendola finita con l’ormai sterile confronto fra le due teorie sociali che, dopo 13 anni dalla lettera di Andrea Costa “Ai miei amici di Romagna”, ancora paralizzava il movimento socialista.

La mattina del lunedì 15 agosto si aprirono due congressi: alla sala Sivori si ritrovarono gli anarchici e gli operaisti intransigenti, mentre in via della Pace i socialisti. A questo partecipò una grandissima parte dei delegati, uscendo dai limiti regionali ed abbracciando i lavoratori di tutta Italia.

Ma la battaglia dei socialisti non era ancora finita. Turati, a nome di un gruppo di compagni, propose di apportare modifiche sostanziali al progetto di Programma, che era opera di Antonio Maffi. Il Maffi aveva preso come base il Programma di Bologna del Partito operaio e lo aveva rielaborato inserendoci pure concetti tipicamente democratico-borghesi, come l’uguaglianza naturale degli uomini, la sovranità popolare, etc. Ne era risultato un documento che poteva andar bene per un partito repubblicano, radicale, demo-sociale, non certo per un partito socialista. Inoltre il programma cozzava in modo lampante con l’abbinato Statuto, pedissequamente ricalcato su quello del Partito operaio dal quale riportava persino, senza mutare una virgola, la famosa condizione restrittiva circa la qualifica di mestiere necessaria per l’ammissione al partito. Effettivamente, come aveva scritto “Lotta di Classe”, il progetto maffiano altro non era che un vaso con “troppi manichi”.

Se l’anarchismo e l’operaismo intransigente erano rimasti nella sala Sivori, c’era però ancora da sgombrare il campo socialista dalla democrazia sociale e dal semi-operaismo che, entrambi, si opponevano a una netta caratterizzazione del Programma. Turati fu determinato ad uscire dall’equivoco e si ripropose di fondare un Partito socialista, fosse anche, come dirà Anna Kuliscioff, di “una cellula sola capace di sviluppo”. E ci riuscì. Affermò che era indispensabile uscire finalmente dal vago, causa di eterna impotenza: nella società capitalistica non esiste il “popolo”, ma le varie classi sociali in lotta fra loro, proletariato e borghesia.

Alle contestazioni di Maffi e Lazzari efficace fu la replica di Turati: «I miei amici Maffi e Lazzari non sono ancora tornati, mi sembra, da una vecchia illusione: l’illusione del partito grande, che accolga un po’ tutti [...] Non v’è che un solo terreno sul quale piantare un partito perché metta ed estenda radici: quel terreno è la convinzione. Voi temete l’ignoranza della massa: facciamo piuttosto di addottrinarla. In ogni caso non è sui piedi ma sulla testa di un partito che deve modellarsi il programma. Non si deve temere che la testa impacci il movimento dei piedi: essa anzi lo guida».

Dopo una vasta e animata discussione, l’assemblea approvò gli emendamenti proposti da Turati quasi all’unanimità, eccettuati 4 contrari ed alcuni astenuti, che però dichiararono di essere personalmente favorevoli ma che non si sentivano di impegnare su di una questione imprevista i propri rappresentati. Si chiuse la seduta al grido “Viva il Partito operaio socialista italiano”.

Chiaramente molti sono i limiti di origine del Partito socialista, limiti che saranno più estesamente esaminati nella pubblicazione integrale del rapporto.

(Fine del resoconto di Firenze)

 
 
 
 
 

 

  
 
 

Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione del­l’in­dirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo

 
Il coraggioso sciopero dei braccianti messicani

Il Messico è il terzo paese più popoloso del continente Americano, con 117 milioni di abitanti, il secondo dell’America Latina, dopo il Brasile. La sua importanza economica e industriale è notevole, strettamente legata agli Stati Uniti d’America. Dopo l’accordo economico del Nafta (Accordo per il libero commercio in Nord America), del 1994, molte industrie statunitensi si sono trasferite in Messico. E moltissimi sono i messicani emigrati negli USA. Il rafforzamento della lotta proletaria in uno dei due paesi non può che riflettersi nell’altro.

La concorrenza ha sempre spinto i capitalisti a guerre commerciali per accaparrarsi posizioni di mercato e una leva utilizzata a questo scopo è la compressione dei salari. La cosiddetta “delocalizzazione” ha principalmente questo obiettivo. Succede così che nella regione messicana della Bassa California, a neanche 200 chilometri dal confine con gli Stati Uniti, si trovi una fiorente produzione ortofrutticola (fragole, more, pomodori) destinata a varcar la frontiera con i marchi di grandi gruppi agroalimentari che hanno sede nella parte della California appartenente agli Stati Uniti. Queste aziende producevano negli Stati Uniti, sfruttando emigranti messicani, spesso clandestini. Ma oltre frontiera i salari sono ancora più bassi e così da alcuni anni hanno trasferito colà la produzione.

I salariati agricoli, lo sappiamo bene anche in Italia, ricordiamo la grande rivolta di Rosarno nel gennaio 2010, sono una delle parti più sfruttate della classe operaia. Nella Bassa California i braccianti, in prevalenza immigrati interni provenienti dalla regione di Oaxaca e di Guerrero, vivono – come quelli di Rosarno e di molte altre parti del mondo – in baracche, senza acqua corrente, e percepiscono un salario di circa 8 dollari per una giornata lavorativa di 9 ore.

Esasperati, a San Quintin, il 17 marzo scorso, sono scesi in sciopero, bloccando la strada transpeninsulare che collega le principali città della regione – Tijuana, Ensenada, La Paz e Los Cabos – occupando alcuni edifici governativi e un commissariato. Le rivendicazioni vanno da un aumento del salario del 50%, da 200 a 300 pesos giornalieri, circa 19 dollari, all’assistenza sanitaria, agli scatti di anzianità, alla richiesta che nessun lavoratore in lotta sia oggetto di future ritorsioni.

Il giorno stesso il governatore della Bassa California si è incontrato con gli impresari a Tijuana e ha poi sorvolato la regione in elicottero. Atterrato al sicuro nella caserma del 67° battaglione di fanteria, in conferenza pubblica ha detto che se a San Quintin vivono così tanti abitanti è perché evidentemente è un terra “piena di opportunità”. Per i capitalisti certamente è così, visto il grado di sfruttamento dei lavoratori.

Per porre fine alla rivolta e spezzare lo sciopero il governo ha quindi inviato un corpo repressivo di circa 1.200 uomini fra agenti federali, polizia statale e municipale, esercito. Cariche, lacrimogeni, proiettili di gomma, assalti alle famiglie operaie nelle case hanno condotto a circa 200 arresti, 25 dei quali di minorenni, ma non hanno fermato lo sciopero che è proseguito ad oltranza, condotto da 30.000 braccianti su un totale di circa 80.000.

Per resistere più a lungo gli scioperanti si sono organizzati con mense collettive. Vi è da considerare che la categoria è in maggioranza avventizia: si lavora a chiamata giornaliera, col sistema del caporalato. In queste condizioni, l’organizzazione e l’adesione allo sciopero di circa il 35% di questi operai è un notevole risultato. Lo conferma il fatto che dopo 10 giorni i padroni denunciavano una danneggiamento al 45% del raccolto e al quindicesimo giorno di sciopero offrivano un aumento salariare del 15%, rigettato dai lavoratori. Al 7 aprile, dopo 21 giorni, il fronte di sciopero restava compatto, con una adesione del 30% dei braccianti, poco meno dei 30.000 iniziali. Il 16 aprile gli scioperanti erano scesi a 10.000 ma resistevano determinati.

Il 24 aprile, giorno in cui era previsto un incontro fra rappresentanti del governo e dei lavoratori, fin dalla mattina i braccianti hanno interrotto la strada con picchetti, impedendo il passaggio dei pullman, e bloccando completamente la produzione. Si è quindi svolto un corteo di oltre 7.000 lavoratori, il terzo dall’inizio dello sciopero. Al termine dell’incontro il rappresentante dei lavoratori ha definito “unilaterali” le proposte del governo e ha dichiarato la prosecuzione dello sciopero.

Per i braccianti, come per tutti i lavoratori, vale la legge per cui gli scioperi, più sono isolati dal resto della classe, più sono facili da sconfiggere per il padronato. Il proletariato agricolo di San Quintin dovrebbe cercare e ricevere il sostegno, non simbolico ma materiale, con lo sciopero, delle altre categorie. Deve unirsi agli altri lavoratori in lotta nel paese, come gli insegnanti, che stanno conducendo una dura battaglia per miglioramenti salariali e contro la ristrutturazione della scuola, con aspri scontri con le forze dell’ordine, costati anche la vita ad uno di loro nell’ultimo sciopero.

A questa unione della classe lavoratrice è di ostacolo l’organizzazione dei braccianti non come proletari, cioè salariati, ma come contadini (campesinos), cioè unitamente ai piccoli proprietari, ma separatamente dai lavoratori delle metropoli, ponendo prevalentemente l’accento sulle loro origini indigene. Questa forma organizzativa interclassista è tipica in tutta l’America Latina. Il governo non a caso cerca di ridurre la rivolta di San Quintin a una questione locale, indigena e contadina, per scongiurare l’unità della classe operaia.

I lavoratori devono organizzarsi al di sopra delle divisioni aziendali, di categoria, nazionali ed etniche, perché i loro obiettivi sono gli stessi: difesa del salario e delle condizioni di lavoro (ritmi, orario, ambiente di lavoro). Il movimento operaio accetta il sostegno alla sua lotta da parte degli strati sociali di lavoratori non proletari, come ad esempio i contadini poveri, ma si organizza da questi separatamente e non nulla fa proprio del loro programma sociale: se vogliono ottenere il sostegno dei lavoratori devono mettersi al seguito delle loro organizzazioni di lotta e del loro partito.

* * *

Mentre ci apprestiamo a mandare in stampa il giornale, giunge notizia che la polizia messicana, all’alba di sabato 9 maggio ha attaccato a San Quintin i lavoratori che, ancora in sciopero, il giorno prima erano tornati a bloccare la strada transpeninsulare, in reazione alla rottura delle trattative. Gli operai non si sono sottratti allo scontro, affrontando le forze dell’ordine che hanno aperto il fuoco uccidendo due, forse tre di loro. Una settantina sono stati i feriti. Il sangue di questi lavoratori ancora una volta mostra che la democrazia è la maschera della dittatura del Capitale. Noi non ci scandilizziamo del fatto che lo Stato borghese faccia il suo sporco mestiere. È quello che ci attendiamo e che i fatti confermano.

Denunciamo da un lato l’opportunismo politico, il quale insegna ai lavoratori che sarebbe la democrazia a difenderli, quando al contrario, nel momento in cui gli operai lottano davvero, è proprio col regime democratico che vanno allo scontro. A quel punto l’opportunismo torna a parlare di fascismo, di crisi della democrazia, di deriva fascista. Questo è un ottimo alibi per il capitalismo: lo sfruttamento e l’oppressione della classe lavoratrice non sarebbe mai colpa di questo modo di roduzione e del suo regime politico, ma di una sua deviazione, del fascismo! Non si vuole capire, o ammettere, che fascismo e democrazia sono due metodi di governo del regime borghese, complementari.

Dall’altro lato denunciamo l’opportunismo che dirige in tutto il mondo le principali organizzazioni sindacali. In Messico, in un mese e mezzo di sciopero, le principali federazioni sindacali hanno lasciato isolati i braccianti di San Quintin, senza organizzare alcuna lotta di solidarietà del resto della classe lavoratice, nemmeno limitatamente alle campagne. Così agisce l’opportunismo di fronte alle lotte determinate di parti della classe operaia: finge di sostenerle, restando a guardare, isolandole, aspettando che esauriscano le forze di fronte a un nemico – la classe borghese – più forte perché organizzato e centralizzato, anche e soprattutto grazie al suo Stato. Così, ad esempio, è successo recentemente in Italia, con lo sciopero di 35 giorni alle acciaierie di Terni.

  

 
  

 


Primo congresso del SI Cobas
L’intervento del nostro compagno

Si è svolto a Bologna, l’1, il 2 e il 3 maggio, il primo congresso nazionale del SI Cobas. È stato preceduto dai congressi provinciali a Milano, Brescia, Torino, Bologna e in altre città. I nostri compagni sono intervenuti nel congresso provinciale di Torino e, in quello nazionale, hanno partecipato alle giornata del 2 maggio e al pomeriggio di quella successiva, dedicato agli interventi delle organizzazioni politiche, sindacali e sociali esterne al sindacato.

A Torino l’attività locale del sindacato è iniziata nell’ottobre del 2011 ma è sostanzialmente decollata con lo sciopero ai mercati generali (CAAT) il 22 maggio 2014. Al congresso provinciale un nostro compagno è intervenuto ribadendo, come fatto ripetutamente fino ad oggi, la necessità di dare effettivo seguito al proposito di formare un coordinamento provinciale dei delegati e dei lavoratori più attivi del sindacato, dando preminenza alle riunioni inter-aziendali, rispetto agli incontri limitati ai dipendenti della singola azienda. L’esperienza storica a cui richiamiamo il movimento operaio organizzato è quello delle originarie Camere del Lavoro, come nacquero e si svilupparono a fine Ottocento e nei primi due decenni del Novecento: organismi territoriali dove si organizza la lotta difensiva dei lavoratori e dove essi si incontrano in quanto membri di un’unica classe, rafforzando i legami di fratellanza e affossando uno dei principali ostacoli all’unità di classe, l’aziendalismo.

Nel nostro intervento al congresso di Bologna, il 3 maggio, ci siamo limitati a pochi punti essenziali:
     1) i meriti del SI Cobas: effettiva disponibilità a organizzare la lotta difensiva di classe, lavoro sindacale teso al superamento dell’aziendalismo, indirizzo tattico del fronte unico dal basso;
     2) la necessità di dare maggior impulso all’azione sindacale per il superamento dell’aziendalismo ponendo a fondamento della struttura del sindacato la sua organizzazione territoriale e sancendo questo indirizzo modificando il punto 5.1 dello Statuto, dove recita «Il Comitato di Base (Cobas) è la struttura portante del SI COBAS», con la formula «Il sindacato nasce all’interno dei posti di lavoro, dove sono fondati i Cobas, ma ha la sua struttura portante nei suoi organismi territoriali interaziendali, i coordinamenti provinciali»;
     3) raccolta diretta delle quote sindacali, abbandonando il metodo anticlassista della raccolta per delega.

Per ragioni di tempo, e soprattutto di stanchezza dei presenti, al volgere del termine della terza giornata del congresso, abbiamo limitato il contributo che avevamo intenzione di esporre, che qui riportiamo, integrato dopo aver ascoltato l’intervento conclusivo del coordinatore nazionale del SI Cobas, che, a replica della ventina di interventi del pomeriggio, pur non apportando elementi che non fossero già noti, ha spiegato con chiarezza i caratteri che la dirigenza intende imprimere a questa organizzazione sindacale.

* * *

Nella stampa del nostro Partito, anche in quella internazionale, da tempo abbiamo riferito con attenzione e continuità dell’attività del SI Cobas – dalla lotta alla Esselunga di Pioltello a fine 2011 e inizio del 2012, che portò alla prima manifestazione nazionale, il 1° Maggio di quell’anno a Pioltello, e dallo sciopero a Basiano coi duri scontri con le forze dell’ordine il giugno successivo – e il suo sviluppo, commentando le principali battaglie. Molti compagni ricorderanno i nostri interventi in esse.

Ciò perché abbiamo attribuito notevole importanza a questo movimento organizzato di una porzione della classe operaia in Italia e a testimonianza del nostro entusiasmo per esso.

 

Il SI Cobas e il sindacalismo di classe

Per la prima volta nella storia del difficile processo di rinascita del sindacato di classe – che da quasi 40 anni indichiamo poter avvenire fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil e Ugl) – dai suoi primi passi nella seconda metà degli anni ‘70, poi maturati nella nascita di vari Sindacati di Base negli anni ‘80 e nei primi anni ‘90, una di queste organizzazioni, il SI Cobas, nata recentemente, nel 2010, da uno scissione dallo SLAI Cobas, è riuscita ad organizzare un autentico movimento operaio, esteso a una intera categoria della classe lavoratrice, quella della logistica.

Anche nelle sue esperienze positive, che non sono mancate, il sindacalismo di base sinora non aveva raggiunto un tale risultato, o perché la sua forza è rimasta limitata all’interno di alcune aziende, come ad esempio lo SLAI Cobas all’Alfa di Pomigliano ed Arese, o perché alla crescita organizzativa, frutto delle episodiche e rarefatte ondate di lotta di settori della classe operaia degli ultimi tre decenni, è seguito un declino e una stagnazione. In generale, il sindacalismo di base non è riuscito a togliere la direzione delle lotte ai sindacati confederali, se non in modo episodico.

Gli scioperi generali nella logistica organizzati dal SI Cobas hanno colpito effettivamente l’attività del settore, a differenza di quelli del resto del sindacalismo di base che sono stati quasi sempre minoritari, riducendosi spesso non a prove di forza col padronato ma a manifestazioni di opinione.

Il SI Cobas non solo è stato capace di organizzare queste mobilitazioni. Ha ottenuto un risultato ancor più lontano dalla portata, fino ad oggi, del sindacalismo di base, costringendo aziende di dimensioni internazionali – SDA, TNT, GLS e Bartolini – a trattare con esso, giungendo a siglare un accordo nazionale che va a rimpiazzare e migliorare un altro accordo, firmato il 13 febbraio 2014 dai confederali – Filt-CGIL, Fit-CISL, Uilt-UIL – con Fedit e Confetra, due sindacati padronali della logistica.

Interessano, oltre che i risultati in sé, soprattutto le ragioni che li hanno consentiti.

È vero che gli altri sindacati di base sono organizzati in categorie della classe lavoratrice attualmente meno combattive di quella in cui si è radicato il SI Cobas, e nelle quali è più asfissiante la cappa del sindacalismo di regime. Lo stesso SI Cobas, laddove è presente in altri settori – come fra i tranvieri, i metalmeccanici, gli ospedalieri, gli statali, le poste – non è riuscito a organizzare mobilitazioni paragonabili a quelle della logistica. A rovescio, però, gli altri sindacati di base non sono riusciti a organizzare la lotta nella logistica come fatto dal SI Cobas, nemmeno dopo che le prime dure battaglie fra i facchini hanno mostrato a tutto il movimento sindacale come vi fosse la disponibilità a una vera lotta di classe da parte di molti lavoratori di questo settore.

La ragione di questa capacità del SI Cobas la individuiamo nella disponibilità a battersi coi metodi della autentica lotta di classe: scioperi ad oltranza, picchetti, che si sono scontrati con la polizia anche duramente, creazione di una cassa di resistenza per sostenere i lavoratori in sciopero e licenziati. Il SI Cobas non ha avuto timore di organizzare tali lotte fronteggiando la reazione padronale, coi licenziamenti, le minacce, i pestaggi dei loro scagnozzi, e da quella del loro Stato, coi massicci dispiegamenti di forze dell’ordine davanti ai cancelli, le denunce, gli arresti, i processi, i fogli di via per i dirigenti. Gli altri sindacati di base, pur richiamandosi tutti al metodo della lotta operaia, in contrapposizione a quello della concertazione, questa forza, in linea generale, non l’hanno avuta, o è venuta loro a mancare.

Rileviamo altri due meriti di grande importanza nell’azione del SI Cobas.

Il primo è la volontà di superare uno degli ostacoli più duri e insidiosi all’unità della classe operaia: l’aziendalismo. Questa necessità, questa nozione fondamentale della lotta di classe, del sindacalismo di classe, è emersa dagli interventi nella giornata di sabato del congresso. A questo scopo il SI Cobas ha agito principalmente su due leve: da un lato chiamando a partecipare ai picchetti i lavoratori di altre aziende; dall’altro promuovendo la formazione di coordinamenti provinciali dei delegati, cioè di organismi sindacali territoriali e non aziendali.

Il secondo merito, molto importante, è l’adozione della tattica del fronte unico dal basso, richiamata nel documento congressuale. Questo indirizzo è stato sempre propugnato dal nostro partito, nonché dalla corrente di cui siano espressione, la Sinistra Comunista, che su di esso incardinò la sua azione nel proletariato finché ebbe la maggioranza nel Partito Comunista d’Italia, nella prima metà degli anni Venti del Novecento, gli anni di fuoco della lotta di classe in Italia e nel mondo.

Anche in ciò il SI Cobas si distingue dal resto del sindacalismo di base, che sostiene l’indirizzo tattico opposto, anti-classista, delle azioni separate da quelle del sindacalismo di regime, e spesso persino fra le varie sigle al suo interno. I sindacati di base hanno quasi sempre, tranne poche eccezioni, sabotato gli scioperi dei sindacati tricolore (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), promuovendo mobilitazioni in concorrenza con essi. In questo modo il sindacalismo di regime non viene indebolito ma rafforzato. Gli scioperi separati sono più deboli e fiaccano il morale dei lavoratori. La forza dei sindacati confederali riposa sulla debolezza della classe operaia. Le masse di lavoratori che Cgil, Cisl e Uil riescono a mobilitare sono ancora molto superiori a quelle messe in moto dai sindacati di base, le cui azioni risultano nettamente minoritarie.

In tal modo, la parte della classe lavoratrice inquadrata nei sindacati di base, che generalmente coincide con quella più combattiva, è tenuta separata dagli altri lavoratori, protetti così dalla sua influenza nelle manifestazioni di piazza dei sindacati confederali. Scioperare insieme ai sindacati di regime non significa essere confusi con essi dai lavoratori, se in piazza si scende con spezzoni definiti e diffondendo le proprie parole d’ordine. Significa al contrario favorire il successo delle mobilitazioni, dando forza e morale ai lavoratori, così istintivamente portati ad abbracciare indirizzi e rivendicazioni più radicali.

Lo ha confermato, in questi giorni, il successo dello sciopero dei lavoratori della scuola, del 5 maggio, inizialmente proclamato dalla Confederazione Cobas, cui si sono aggiunte CUB e UNICobas, poi i sindacati confederali Flc-Cgil, Cisl-Scuola, Uil-Scuola e quelli autonomi Snals-Confsal e Gilda-Unams, infine il Coordinamento Autoconvocati Scuole Roma. I sindacati confederali hanno proclamato lo sciopero nella stessa data per “coprire” l’azione del sindacalismo di base e non lasciargli l’iniziativa e la direzione del movimento. Ma dallo scio­pero la rivendicazione di questo – il rigetto completo della riforma della scuola – è uscita con maggior vigore. L’USB, che aveva scioperato insieme a CUB e UNICobas il 24 aprile, a differenza di questi non ha sostenuto lo sciopero del 5 maggio.

Il sindacalismo di base deve distinguersi da quello di regime non per scioperare in date diverse ma per farlo più a lungo, più duramente, con picchetti e manifestazioni agguerrite che rigettino il principio del pacifismo sociale. Deve spiegare la fondamentale differenza fra “unità sindacale” e “unità d’azione della classe operaia”.

Il SI Cobas, fin dalla sua fondazione, ha abbracciato il principio dell’unità d’azione dei lavoratori. Leggiamo, ad esempio, dal suo comunicato in vista dello sciopero generale dei sindacati di base del 15 aprile 2011 e dello sciopero generale indetto dai sindacati di regime il 6 maggio successivo: «Chiediamo ai comitati di lotta, ai lavoratori e ai delegati più combattivi, di impegnarsi per cominciare a costruire una mobilitazione comune e collettiva, che prescinda dall’iscrizione a questo o quel sindacato, che si prefigga di costituire una rete nazionale per la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro (con rivendicazioni e piattaforme comuni nei posti di lavoro) e per lo sciopero generale. Per riuscirci è necessario … cercare di imporre ai “sindacati di base” che … non ci siano più proclamazioni di sciopero “generale” differenziate … spingere perché tutto il “sindacalismo di base” proclami collettivamente … 8 ore di sciopero generale il 6 maggio».

Il maggiore successo di questo indirizzo d’azione si è ha avuto nella manifestazione a Milano per lo sciopero generale FIOM del 14 novembre. Gli operai metalmeccanici hanno potuto vedere coi loro occhi l’esistenza di una forza organizzata fuori dalla CGIL, con uno spezzone del SI Cobas di oltre un migliaio di operai, nonché la sindacalizzazione dei lavoratori immigrati, il loro essere compagni di lotta, fratelli di classe, dando un colpo alla divisione borghese della classe operaia fra lavoratori italiani e stranieri. Ugualmente il SI Cobas ha partecipato allo sciopero generale proclamato da CGIL e UIL del 12 dicembre. Un’altra azione molto positiva è stata la partecipazione alla manifestazione davanti ai cancelli della FIAT SATA di Melfi il sabato 24 marzo – cui ha aderito tutto il sindacalismo di base – a sostegno dello sciopero contro lo straordinario comandato organizzato da una minoranza dei delegati FIOM della fabbrica e sabotato dalla FIOM territoriale e nazionale. Questo indirizzo tattico è stato pienamente confermato dal coordinatore nazionale del SI Cobas nel suo discorso conclusivo del congresso, domenica 3 maggio.

Questi tre fattori sopra descritti – metodi della lotta di classe, lavoro per l’unità di classe contro l’aziendalismo, tattica del fronte unico dal basso – sono a nostro avviso i punti di forza del SI Cobas, quelli che ne hanno consentito lo sviluppo, sulla base dell’incontro con operai disposti alla lotta, condizione senza la quale nessun sindacalismo di classe è possibile.

Con l’approfondirsi della crisi del capitalismo, che è solo al suo inizio, nuovi strati della classe operaia saranno risvegliati dalla passività e dalla rassegnazione che da tempo li affligge. Nella misura in cui saprà mantenere questi caratteri il SI Cobas potrà superare i confini del settore logistico, cosa che in alcuni incoraggianti casi è già avvenuta, e marciare sui binari che conducono alla ricostruzione del Sindacato di Classe.

La dirigenza del Si Cobas, però, esprime anche due indirizzi che a nostro avviso possono rallentare o compromettere questo sviluppo: 1) la pretesa di costruire un organismo non puramente sindacale bensì un ibrido fra sindacato e partito; 2) la volontà di unire il movimento operaio ai cosiddetti movimenti sociali.

Se finora queste inclinazioni hanno recato poco danno nella sostanziale azione sindacale, poiché sono considerati dalla dirigenza del SI Cobas dei punti di forza del sindacato, con valutazione opposta alla nostra, la loro pericolosità crediamo che sussista e sia destinata ad aggravarsi.


O sindacato o partito

Come già si era manifestato in vari comunicati e discorsi dei dirigenti del SI Cobas, come è emerso dal documento pre-congressuale, come infine è stato compiutamente spiegato dal coordinatore nazionale nel suo discorso a conclusione del congresso, il SI Cobas non vuole essere un “semplice” sindacato. Leggiamo dal documento congressuale: «La mancanza di una forza politica che sia in grado di dirigere la lotta per la difesa economica ha imposto al sindacato il compito di supplirne l’istanza per ... condurre il proletariato sul terreno dell’autonomia di classe». Altrove, e spesso, sono stati denunciati da parte del SI Cobas i limiti di una lotta “puramente tradunionista” e la necessità di “passare a un piano politico”. Ad esempio, in un comunicato del marzo 2014 sulla lotta alla Granarolo di Bologna: «Si tratta ... di creare dei quadri consapevoli, altrimenti si rischia di limitarsi a una lotta radicale ma tradeunionista, senza un quadro più generale ... La mancanza di una coscienza politica dei lavoratori può essere la forza come spinta e la debolezza in prospettiva: praticano una lotta dura, aggregano i loro amici nell’azienda, però bisogna anche collegare le lotte. Per questo motivo abbiamo iniziato a fare formazione interna al SI Cobas, non solamente sulle buste paga, ma anche dal punto di vista politico. Non possiamo assumere una concezione gradualista, per cui prima si fa la lotta sindacale e poi verrà quella politica: dove abbiamo fatto questo errore, è più difficile riprendere una battaglia generale».

Questi brani, scelti fra altri analoghi, manifestano una errata concezione del rapporto fra sindacato e partiti, fra lotta sindacale e lotta politica.

Va detto innanzitutto come sia errata la tesi che la politica non abbia a che fare col sindacato, che possano separarsi i due campi, che possa esistere un sindacato indipendente dai partiti politici, né quindi che il sindacale possa venire “prima” del politico. Al contrario, ogni indirizzo sindacale deriva da un indirizzo politico. I sindacati le cui dirigenze si definiscono apolitiche, in Italia generalmente i sindacati autonomi, sono, ugualmente a quelli di regime, succubi della ideologia dominante, quella della classe dominante, la borghesia. Una loro caratteristica, generalmente, è il gretto aziendalismo.

Ma dicendo strettamente legati assieme non si è spiegato nulla di questo legame, fra due organismi necessariamente separati e diversi. Un sindacato può nascere spontaneamente, dalla volontà di ribellione di un gruppo di lavoratori, ma come si accresce si trova inevitabilmente a dover affrontare problemi di indirizzo generale, di rapporto con le altre classi, con i partiti borghesi, con lo Stato, che sono affrontati e risolti in modo diverso, e spesso opposto, dai diversi partiti operai.

Non si chiede ai partiti presenti nel sindacato di nascondere le proprie opinioni politiche e di non propagandarle al suo interno, così come fanno al di fuori di esso. Ma il sindacato, che ciascuno di essi si propone di dirigere, è necessariamente composto di lavoratori delle più diverse opinioni politiche, anche reazionarie, i quali nella loro generalità, nella loro grande maggioranza, non convengono affatto con i principi e gli assunti generali di quel dato partito, in particolare del comunismo, tanto meno del marxismo.

Compito specifico, possibile e necessario che anche i comunisti si danno nel sindacato non è quindi “insegnare” il marxismo ai proletari organizzati, bensì i principi e i metodi del sindacalismo classista, come si conduce la lotta di oggi e le lotte in generale. Questi principi e metodi di lotta non sono esclusivi di un partito, né del comunismo rivoluzionario, ma comuni a molte delle ideologie che hanno campo nella classe e sono comprensibili immediatamente da tutti gli sfruttati.

Dalla confusione degli ambiti, delle situazioni, dei tempi deriva l’illusione di poter in qualche modo sovrapporre, in tutto o in parte, le funzioni del partito e del sindacato. Non è un sofisma ma un confine, una impostazione fondamentale che sarà necessario chiarire perché ne conseguono importanti effetti prettamente pratici e che condiziona addirittura quello che vogliamo costruire, se saremo davvero in grado di esprimere quello che i lavoratori, esplicitamente o meno, chiedono e si attendono da noi.

Un sindacato a base ideologica, che pone agli aderenti, di fatto se non statutariamente, delle preclusioni politiche generali, come potrebbe essere il marxismo, o l’anarchismo, o la democrazia per esempio, si precluderebbe da se stesso la capacità di divenire domani un vero e grande sindacato della classe operaia. I sindacati, quello di domani come di tutti i gloriosi esempi della storia della nostra classe, si sono sempre caratterizzati per la loro incondizionata apertura a tutti gli sfruttati. È invece sicuramente destinato a fallire o a vita oltremodo stentata il progetto di un sindacato di partito.

I partiti borghesi alla testa dei sindacati di regime fanno lottare gli operai, ad esempio, in difesa della costituzione e della democrazia, della patria. Questa è una strumentalizzazione della lotta operaia, che viene sviata e indebolita: infatti il suo sviluppo conduce inevitabilmente allo scontro con l’ordine democratico-costituzionale. Per evitarlo i partiti operai-borghesi frenano la lotta operaia e la sviliscono indicando ai lavoratori di affidarsi per la tutela dei loro interessi allo Stato democratico, che noi sappiamo essere borghese, cioè la macchina di dominio della classe dominante sul proletariato.

I comunisti, invece, non hanno necessità di utilizzare le leve dell’organizzazione sindacale per mobilitare i lavoratori, oggi, dietro alle loro parole d’ordine programmatiche, per esempio, dell’abbattimento del capitalismo e della dittatura del proletariato. La difesa della classe lavoratrice impostata sui binari classisti condurrà nella pratica i lavoratori a questo compito supremo, a condizione che siano diretti dal partito comunista.

Il processo di crescita dell’unità e della forza del proletariato sale – non in modo lineare – dalla lotta all’interno dell’azienda, alla lotta di categoria, all’unione delle lotte per gli aumenti salariali, a rivendicazioni unificanti tutta la classe lavoratrice: riduzione dell’orario di lavoro, salario ai lavoratori disoccupati.

Questa curva ascendente della forza della classe espressa nel sindacalismo di classe va ad intersecarsi con quella discendente del capitalismo in crisi, sempre meno in grado di sfamare i suoi schiavi salariati. Ad un certo svolto storico la lotta in difesa del salario, per il salario ai disoccupati, per la riduzione dell’orario, permane lotta sindacale ma è di tale forza e con tali rivendicazioni dal risultare insostenibile per il regime capitalista, portando perciò allo scontro decisivo con esso. Diviene allora possibile il passaggio dalla lotta in difesa del salario a quella per la distruzione del salariato, per l’emancipazione sociale della classe operaia. Lo sciopero diviene insurrezione. Questo trapasso è “politico”, nel senso che riguarda la questione del potere statale, e quindi richiede un partito rivoluzionario.

Questo processo sarebbe invece inibito qualora, cadendo nella tentazione di percorrere scorciatoie che accorcino i tempi dello schieramento della classe nel campo rivoluzionario, si pensasse di approfittare della posizione dirigente negli organi sindacali per portare gli iscritti ad abbracciare una particolare dottrina politica, con gli strumenti della propaganda o dell’indottrinamento, o mobilitandoli per fini programmatici al di fuori della realtà.

Ogni partito prevede le sue norme di azione, che sono la traduzione dei suoi principi politici nel campo della lotta economica. I lavoratori saranno convinti a respingerle o ad adottarle non per motivi teorici o ideologici o morali ma perché si dimostrano le migliori per le esigenze pratiche della lotta.

I comunisti intendono dimostrare nella lotta come il loro indirizzo d’azione sindacale sia il più efficace anche ai suoi fini immediati. In questo senso «non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato» (Il Manifesto del Partito Comunista).

I comunisti non intendono sottomettere la funzione sindacale e i suoi strumenti organizzativi alla propaganda politica, discriminando i lavoratori con parole d’ordine programmatiche proprie di situazioni avvenire, o facendo formazione teorica di partito; il risultato sarebbe opposto a quello sperato di “condurre il proletariato sul terreno dell’autonomia di classe” perché si agirebbe, nei fatti, in senso opposto al principio essenziale che nel sindacato sono organizzati i lavoratori, non solo al di sopra delle divisioni aziendali, di categoria, di sesso, razza e nazionalità, ma anche di opinione politica e di fede religiosa.

Non rispettare questa natura propria del sindacato significa alienare i lavoratori non comunisti, o non anarchici, o democratici dal sindacato di classe e abbandonarli al sindacalismo di regime.

La nostra critica, quindi, non è “politicantismo”, dogmatismo, astrattismo, o come lo si voglia chiamare, ma solo risponde alle esigenze pratiche della organizzazione e della lotta proletaria.

Occorre sfatare alcuni pregiudizi. Una banalizzazione del problema vuole che la divisione fra il sindacato e il partito sia solo tipica del riformismo, e ad esso utile. Limitare il sindacato alla funzione tradeunionista, si dice, giova a chi non vuol portare i lavoratori nel campo della rivoluzione. In vari comunicati del SI Cobas si sostiene la necessità di superare la lotta tradeunionista per salire a un livello politico. Se per livello politico si intende l’azione unitaria dei lavoratori al di sopra delle aziende e per tradunionismo l’aziendalismo, possiamo convenire. Ma sarebbe più corretto dire che l’aziendalismo fa parte di un indirizzo sindacale anti-classista e la battaglia per l’unità delle lotte dei lavoratori contro l’aziendalismo è invece uno dei principi fondamentali del nostro sindacato.

Certo tutto è “politico”, anche salire un gradino nel rafforzamento e nell’unità della classe. E questo è ciò che ha fatto – ed anche bene – il SI Cobas nella generalità della sua azione sindacale. Ma definire questo un “elevamento al livello politico del movimento operaio” manifesta un’errata concezione del rapporto fra lotta sindacale e lotta politica. Un sindacato che sia riuscito a divenire di categoria o intercategoriale non per questo è diventato, o può diventare, un mezzo partito.

Per facilitare la comprensione del problema riportiamo tre esempi di presentazione impropria dell’organo sindacale.

1) Il documento pre-congressuale è in buona parte condivisibile. È la prima volta che un sindacato di base, che per giunta ha conseguito un maggior successo pratico, esprime posizioni in buona parte corrette. Ma in alcuni passaggi si presenta più come un documento di un partito marxista che di un organismo operaio. In esso si tratta più di teoria marxista che di norme operative e organizzative del sindacato che si intende costituire. Nonostante le pretese, infine poco vi si dice di politica sindacale.

2) Nel suo intervento conclusivo il coordinatore nazionale ha raccontato come in alcune sedi del SI Cobas si sia iniziato a fare lezioni sul “Manifesto del Partito Comunista” di Marx ed Engels. Riunioni dalle quali sono implicitamente esclusi gli iscritti di opinioni anti-marxiste, che, tutti noi dobbiamo riconoscere, sono molti dei lavoratori e anche degli iscritti, e la quasi totalità se vi contiamo gli indifferenti.

3) Il primo maggio il SI Cobas si è accodato alla manifestazione No Expo a Milano insieme a diversi gruppi politici di varia estrazione. Si è partecipato a una manifestazione non operaia e, in essa, nel suo spezzone politico. In questo modo si è sostituita la tattica sindacale corretta del fronte unico dal basso con quella di un fronte unico politico. Sullo striscione di apertura si leggeva: “Per un Primo Maggio internazionalista. Il capitalismo non si riforma, si abbatte”. Un concetto impeccabile, per i comunisti. Ma agli altri lavoratori cosa appariva il SI Cobas? Un nuovo sindacato che lotta per la difesa degli interessi immediati della classe lavoratrice, o un gruppo, se si vuole operaio, ma costituitosi per l’affermazione del programma rivoluzionario comunista? Non vedono un sindacato di classe ma, dopo il sindacato dei partiti borghesi, dei socialdemocratici, e dopo i sindacatini degli stalinisti, degli anarchici, eccetera, un altro sindacato di partito, questa volta marxista. Sullo striscione si sarebbe potuto scrivere, ad esempio: “Per l’unità internazionale della classe operaia”, un concetto che esprime una necessità di lotta comprensibile e condivisibile da tutti i lavoratori, e “Per la riduzione dell’orario di lavoro”, tornando ad agitare fra i lavoratori questa parola d’ordine, all’origine dello stesso Primo Maggio, nonché obbiettivo del comunismo stesso, quindi, in sé, del tutto “politica”.

L’assenza storica di un visibile e riconoscibile partito comunista non si risolve con scorciatoie o inventando strade nuove, che nuove non sono. Il sindacato non può surrogare il partito, nemmeno transitoriamente.

Costruire un organismo ibrido fra sindacato e partito danneggia e il sindacato e il partito: 1) allontana dal sindacato i lavoratori non comunisti, indebolendolo, e rafforzando il sindacalismo riformista; 2) distoglie i lavoratori dall’aderire al partito politico comunista (che non è “operaio”, cioè non composto di soli proletari), a favore dei partiti opportunisti.


Movimento operaio e movimenti sociali

Il SI Cobas propugna un’alleanza del sindacato operaio con i cosiddetti movimenti sociali. Questi movimenti sono detti “sociali” perché non sono “operai”: includono elementi di diverse classi e strati. Si propone perciò un’alleanza del proletariato con movimenti interclassisti. Non si possono definire parte del proletariato strati sociali come gli studenti o gli occupanti di case. In entrambe queste categorie vi sono operai e figli di operai, ma comprendono anche non appartenenti al proletariato. Correttamente perciò sono definiti movimenti sociali, non proletari, e ad essi sono affiancati quelli in difesa del territorio, della salute, ecc.

Il sindacato, e in genere il movimento operaio, non è ostile a questi movimenti, che reagiscono e si oppongono alle varie barbarie del capitalismo, e non li considera nemici della classe operaia, nella misura in cui non si pongono di traverso alla sua lotta.

La solidarietà di giovani, studenti, una parte dei movimenti sociali, che intuiscono come nella classe lavoratrice stia la vera forza nella società, e partecipano ai picchetti e alle manifestazioni, va apprezzata, ma alla condizione che essa significhi mettersi a disposizione del movimento proletario, le cui decisioni devono essere prese dai suoi organismi di classe, non da coalizioni con organismi non proletari, o, come li si chiama, sociali.

Invece nel suo statuto il SI Cobas prevede, all’articolo 11, la possibilità di patti federativi con “organismi sindacali o sociali”, pur salvaguardando “le rispettive autonomie politiche e organizzative”.

Il classe operaia, organizzata nel suo sindacato, accetta la solidarietà proveniente da strati sociali al di fuori di esso, ma stabilirvi un organico patto federativo verrebbe a modificare la sua natura operaia. Le parole “salvaguardando le rispettive autonomie politiche e organizzative” (ma allora che “patto” è? cosa si patteggia?) non cambiano la natura interclassista dell’alleanza e dei suoi fini. Farlo, illudendosi di diventare più forti perché più numerosi, in virtù dell’aggregarsi di questi strati sociali non proletari, indebolisce invece il movimento operaio, al cui interno è già da combattere l’influenza dominante dell’ideologia borghese, che verrebbe rafforzata mischiando il proletariato organizzato coi movimenti sociali non proletari.

Sul piano sindacale, che, ripetiamo, è indissolubilmente legato a quello politico, il rigetto dell’alleanza fra movimento operaio e movimenti sociali si spiega con la necessità di dedicare le energie dei lavoratori nella ricerca della solidarietà con il resto della classe, collegandosi con i gruppi di operai in lotta sul territorio e battendosi per emanciparli dall’aziendalismo, perché è dalla capacità di dispiegare scioperi sempre più estesi e unitari che dipende la vera forza del movimento operaio. Portare i lavoratori nelle mobilitazioni dei movimenti sociali significa invece, oltre che fornire una connotazione equivoca del sindacato, distogliere preziose energie operaie dal vitale lavoro di estensione e rafforzamento dell’unità di classe.

Va notato, inoltre, come l’indirizzo di alleanza coi movimento sociali accomuni il SI Cobas, invece di distinguerlo per i suoi caratteri classisti, non solo al resto del sindacalismo di base ma anche dall’ala sinistra del sindacalismo di regime, ossia la FIOM. Quest’ultima, infatti, sostiene la cosiddetta Coalizione Sociale. L’USB, invece, la chiama Confederazione Sociale. L’idea di fondo è la stessa: un movimento meticcio, popolare, operaio e sociale. Ciò che cambia è la platea a cui ci si rivolge: la FIOM guarda all’area della sinistra cattolica; l’USB al cosiddetto “movimento”; il SI Cobas alla sua ala “di sinistra”. Evidentemente si tratta di un criterio politico, col che si ritorna al problema della confusione fra sindacato e partito.

Il corretto indirizzo del fronte unico dal basso deve essere seguito coerentemente fino in fondo da parte del SI Cobas e la ricerca dell’alleanza coi movimenti sociali agisce in contraddizione con esso.

Ritornando al Primo Maggio, si sarebbe dovuto, invece che partecipare a una manifestazione non operaia – per contenuti e partecipanti – come NO Expo, al fianco di organizzazioni politiche, scendere in piazza in quelle organizzate dai sindacati di regime, come a Milano o a Torino, per mostrare agli altri lavoratori la forza raggiunta dal SI Cobas.

 

Il movimento per la casa

Un aspetto specifico di questo problema è quello della casa. Il movimento operaio questo problema deve affrontarlo essenzialmente sul piano del rapporto capitale-salario: se per pagare l’affitto il salario non basta i lavoratori devono battersi per aumentarlo. La lotta operaia rimanda il problema del livello degli affitti a questione fra capitalisti e proprietari fondiari: di fronte a battaglie per aumentare il salario saranno i capitalisti a pretendere che diminuisca la fetta di plusvalore estorto alla classe operaia di cui si appropriano i proprietari fondiari.

Analogamente, ad esempio, a quanto si è ipotizzato di fare nella lotta di questi giorni in SDA, prospettando, se seguisse l’intransigenza aziendale, di promuovere lo sciopero generale di tutta la categoria in solidarietà a questa lotta. Al fianco di un gruppo di lavoratori si mobilita una parte di classe operaia molto più estesa: è una delle migliori realizzazioni pratiche del principio dell’unità classista cui possa tendere un sindacato. Così facendo il prezzo dell’intransigenza di SDA, dietro a cui ci sono le Poste Italiane, cioè lo Stato borghese, è fatto pagare anche alle altre aziende multinazionali del settore.

Il movimento operaio organizzato difende il salario, piuttosto che battersi per la riduzione degli affitti, così come non lotta contro il caro-vita. Non certo si batte contro movimenti interclassisti di tal genere, ma non se ne fa organizzatore, indirizzando tutte le energie nella lotta per gli aumenti salariali, per il salario ai lavoratori disoccupati, per la riduzione dell’orario di lavoro.

Quanto ai movimenti di lotta per la casa essi non hanno carattere proletario perché organizzano, per principio, in base a un bisogno che travalica le classi, potendo riguardare non solo i lavoratori, occupati o disoccupati, ma anche i piccoli borghesi in rovina, gli studenti, il sottoproletariato.

Come, giustamente, il SI Cobas, nel documento congressuale, sostiene essere errata la rivendicazione del “reddito per tutti”, cui va opposta quella del salario per i lavoratori disoccupati, così non è giustificato battersi per “la casa per tutti”.

Se nei movimenti per la casa vi sono proletari, è il sindacato che deve organizzarli e condurre una lotta contro gli sfratti o per l’assegnazione di abitazioni ai lavoratori. Gli inquilini non devono essere organizzati in una struttura interclassista ma del sindacato, quindi di soli proletari. Analogamente a quanto deve avvenire coi disoccupati. Può essere solo questa formula organizzativa a garantire un movimento di classe anche su questo fronte, non bastando certo aggiungere l’aggettivo di “proletario” a movimenti organizzati di fatto su base non classista.

  

 

 

 

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Lunedì 20 aprile
Ai netturbini genovesi

A Genova continua ad esserci un certo fermento fra i lavoratori dell’AMIU, l’azienda municipale per la raccolta dei rifiuti. Il comune, proprietario, vuole vendere una parte dell’azienda. Contestualmente l’azienda paventa un peggioramento delle condizioni di lavoro, con un taglio del salario attraverso modifiche alla contrattazione integrativa. La questione non è nuova. Quando nel dicembre 2013, i tranvieri genovesi scioperarono a oltranza per cinque giorni, i lavoratori AMIU in assemblea si espressero per unirsi allo sciopero. Il bonzo della CGIL si oppose strenuamente e fu cacciato dai lavoratori fuori dall’assemblea. Tranvieri e netturbini si accordarono affinché all’alba gli autobus della rimessa di Gavette fossero schierati dinanzi all’ingresso dello stablimento AMIU della Volpara, poco distante. La notte alla rimessa si presentarono gli agenti della Digos prendendo i documenti ai lavoratori, allo scopo di intimidirli per impedire l’azione, cosa che riuscì.

Di seguito a quelle calde giornate di lotta diversi lavoratori AMIU si incontrarono più volte con l’intento di organizzarsi indipendentemente dai sindacati confederali, cercando di costituire un comitato di lotta dei lavoratori AMIU. La determinazione in questa direzione non è ancora sufficiente e la confusione di idee spesso porta allo scoraggiamento, inevitabile in una classe operaia disabituata alla lotta da decenni. Ma le situazione di crisi storica e irreversibile del capitalismo, e del riformismo politico e sindacale, spingono gli eventi nella direzione del ritorno alla lotta di classe dei lavoratori, il che dovrà necessariamente avvenire fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), come andiamo dicendo da fine anni Settanta.

Il 24 novembre scorso uno sciopero, proclamato dai confederali, ha avuto un notevole successo, con un corteo di oltre 700 netturbini. Alcuni lavoratori del comitato di lotta si sono duramente scontrati con un delegato della Cgil. Il 20 aprile vi è stato un nuovo sciopero, ancora indetto da Cgil, Cisl e Uil, con una manifestazione un poco meno numerosa ma sempre partecipata. Vi abbiamo distribuito il seguente volantino.


Per la lotta intransigente contro ogni peggioramento delle condizioni di lavoro! Per l’unione delle lotte della classe lavoratrice! Per la rinascita del sindacato di classe!

Lavoratori AMIU,

azienda, istituzioni dello Stato borghese e industriali manovrano per peggiorare le vostre condizioni e rendere anche la attività di raccolta e smaltimento dei rifiuti una fonte di profitto. Che questo avvenga mantenendo AMIU di proprietà pubblica o privatizzandola ciò che a voi interessa è che non siano toccati salario e condizioni di lavoro. Questo dipende solo dalla vostra forza di opporvi a ogni peggioramento con veri scioperi. La contrapposizione fra padrone pubblico e padrone privato è fasulla perché questo Stato è la macchina di dominio del Capitale contro la classe lavoratrice. Se avrete la forza di opporvi ad ogni peggioramento l’azienda non sarà appetibile ad alcun privato o, nel caso, la avrete anche per difendervi da esso. Viceversa, se cederete alla richiesta di sacrifici pur restando sotto padrone pubblico, la vostra forza sarà già stata messa alla prova e sarete avviati a ulteriori sconfitte, di cui, la privatizzazione, sarà solo un riflesso.

I lavoratori non devono battersi per un tipo di azienda che sia “meno peggiore” per essi – come fanno gli attuali sindacati – ma preparare la propria organizzazione di lotta in difesa del salario e delle condizioni di lavoro. Contro gli inevitabili e sempre più duri attacchi bisogna prepararsi a scioperi ad oltranza. Per far ciò – innanzitutto – è necessario predisporre una cassa di resistenza.

Non solo. I lavoratori AMIU sono solo una piccola frazione della classe lavoratrice che oggi è tutta sotto attacco. Una vera difesa è possibile solo uscendo dal ghetto aziendale e unendosi sul territorio a tutti gli altri lavoratori in lotta: tranvieri, Fincantieri, vigili del fuoco, ospedalieri, ecc. Le differenze nelle lotte sono fasulle e messe dinanzi agli occhi dei lavoratori dai bonzi sindacali allo scopo di dividere la classe operaia. L’obiettivo è unico: difesa del salario e delle condizioni di lavoro (ritmi e orario). Vanno perciò organizzati scioperi comuni, con cortei comuni improntati non al pacifismo sociale ma alla rivolta di classe.

Oggi tutto questo – scioperi ad oltranza, unione delle lotte, manifestazioni agguerrite – può essere fatto solo fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), dotandosi di una nuova organizzazione di lotta. Dentro le aziende vanno esautorate dalla direzione delle lotta le RSU che, dopo l’Accordo sulla Rappresentanza del gennaio 2014, sono definitivamente uno strumento in mano a questi sindacati di regime. Ma il passo immediatamente successivo deve essere quello di uscire dalla azienda per creare un Coordinamento territoriale dei nuovi comitati di lotta dei lavoratori, finalizzato a organizzare un movimento di lotta sempre più esteso ed unito.

 
 
 
 


Mobilità alla Franger con il consenso dei sindacati

Di seguito riportiamo una lettera di un simpatizzante che descrive la condizione operaia in un’azienda piemontese e denuncia l’infamia dei sindacati tricolore e l’assenza di un’adeguata risposta dei lavoratori. Situazione in cui si trovano molti lavoratori dopo decenni di diseducazione alla lotta e privi di una vera organizzazione sindacale che possa difenderli dai continui e sempre più pesanti attacchi dei padroni, puntualmente aiutati dalle menzogne dei sindacati di regime. Dalla delusione, rabbia ed amarezza che ne emergono i comunisti traggono la conferma di dover continuare a smascherare e denunciare queste serpi in seno alla classe operaia ed indicare che l’unica soluzione che i lavoratori hanno per tornare a difendersi sarà la rinascita di forti e combattivi organismi di lotta.

Da dicembre 2014 ad aprile 2015 un’azienda locale, la Framec, che fa parte del gruppo Franger di Casale ma è sparsa in paesini circostanti e con un sito anche a Timisoara, in Romania, periodicamente, “parcheggia” in mobilità, con l’aiuto sindacale, decine di dipendenti, oggi centosessanta. Nel corso degli ultimi anni circa trecento sono rimasti a casa. Ma la futura realtà sarà la disoccupazione.

Parlando tra gli operai emerge isolamento, vuoto mentale, sconfitta, che impediscono di iniziare ad organizzarsi per lottare. I sindacati ripetono dal 1997 che c’è la crisi, ma anche che le aziende non sono abbastanza brave negli affari. La classe tornerà a difendersi solo quando vi sarà una ripresa di coscienza tra i lavoratori che occorre liberarci da questi traditori ed opportunisti. Gli operai non dovranno accettare le false giustificazioni dei padroni e di questi sindacati, che sono sempre contro gli interessi della classe operaia.

Si dovranno domandare quali sono stati i guadagni per l’azienda spostando la produzione a in Romania e quali sono le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, qui, là e in generale. Se domani gli operai rumeni lotteranno per aumenti salariali, basterà spostare gli impianti a Chişinău, in Moldavia, con salari di trecento euro al mese! Per questo occorre la lotta solidale e l’organizzazione di tutti gli sfruttati.


 
 
 
 
 

 

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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

(Continua dal numero scorso)

 

36. Crisi economica mondiale ed intensificazione dei conflitti inter-imperialisti

– Il primo shock petrolifero del 1973

L’aumento del prezzo del petrolio una necessità per il capitale finanziario

Già nel febbraio del 1973 il dollaro subiva la sua seconda svalutazione nell’anno. Questa indusse perdite per i paesi produttori poiché le tasse e le royalties sono calcolate in dollari. L’OPEC aumentò allora il prezzo del greggio e impose un nuovo sistema di indicizzazione correlato all’inflazione mondiale. In tre anni il greggio subì un aumento del 60% e il Light libico raddoppiò.

Il 6 ottobre 1973 l’Egitto e la Siria, aiutati da consiglieri e armi russi, attaccarono Israele: la guerra del Kippur. Gli israeliani, approvvigionati di armi dagli USA, riuscirono a respingerli fin oltre il canale di Suez. I paesi dell’OPEC reagirono decretando un embargo verso l’Occidente che comprendeva gli Usa, il Canada, l’Olanda, il Portogallo e l’Africa del Sud, considerati alleati di Israele, e con un aumento considerevole del prezzo del greggio nella quota parte spettante ai paesi produttori.

In realtà quest’atteggiamento proveniva soprattutto dalla decisione che gli USA avevano preso, nel 1971, di sospendere la convertibilità in oro del dollaro, reso “fluttuante”, che comportò un suo forte ribasso. Fu il primo shock petrolifero, terminologia usata dai media per definire una penuria di petrolio e un aumento del suo prezzo; gli altri due seguiranno nel 1979, in occasione della guerra Iran-Iraq, e nel 2008, a causa di una speculazione. Se tra il 1958 ed il 1972, quando il prezzo del petrolio era in ribasso, la rendita delle Sette Sorelle si moltiplicò; in occasione degli shock petroliferi, con prezzi fuori controllo, salì alle stelle.

Questo primo shock diffuse il panico, ogni Stato cercò di crearsi delle riserve e di negoziare separatamente con i paesi arabi. Alla fine di ottobre, la Comunità europea ed il Giappone, contro gli USA, si associavano alla risoluzione 242 dell’ONU, già proposta nel 1967, che condannava Israele e che esigeva il ritiro “dai”, nella versione francese, o “da”, nella versione inglese!, territori occupati. Benché l’Algeria continuasse a consegnare petrolio alla Francia, questa adottava misure draconiane di restrizione, in particolare per l’illuminazione. In seguito la Francia si lanciò in un massiccio programma di costruzione di centrali nucleari procurandosi l’uranio dalla Nigeria e dal Kazakistan. In Italia, la circolazione delle automobili private fu regolamentata e vietata nei giorni festivi. Anche l’Olanda impose il razionamento dei carburanti benché Rotterdam disponesse delle maggiori riserve petrolifere del mondo. In realtà non ci fu mai una vera penuria. Le Compagnie distribuivano le loro riserve verso tutte le destinazioni senza ovviamente tenere conto dell’embargo dell’OPEC. L’Iran non si accodò all’embargo ed aumentò la produzione. E il prezzo del barile non fece che salire. L’embargo fu tolto nel marzo 1974.

Di fatto questo aumento del prezzo conveniva molto alle Compagnie che iniziavano a sfruttare intensamente i pozzi off-shore del golfo del Messico, nel Mar del Nord ed in Alaska (dove Exxon e BP avevano scoperto il petrolio nel 1968 con conseguente costruzione di un oleodotto di 1280 km in 5 anni), cosa che richiedeva investimenti enormi. Le leggi del capitale finanziario conducevano il gioco.

Gli Stati tassavano diversamente i prodotti del petrolio. In Francia lo Stato prelevava più del 51% per diverse tasse sui carburanti, le società ne traevano il 26% e meno del 22% restava ai paesi dell’OPEC. Nel 2007, i prelievi dello Stato francese arrivarono al 60% sulla super (contro l’80% nel 1999), il 52% sul gasolio ed il 23,7% sul gasolio domestico. In Gran Bretagna, il governo si teneva il 30%, le società petrolifere il 40% mentre il 31% andava ai paesi produttori dell’OPEC.

Tra il 1973 e il ‘75 il mondo capitalista si trovò ad affrontare una crisi economica mondiale. Il consumo di petrolio, che era aumentato vertiginosamente nei decenni precedenti, fu rallentato piuttosto dalla crisi che dalla guerra con Israele. Mentre la recessione colpiva il mondo intero, le Compagnie furono accusate di scorrettezza per l’aumento del prezzo del petrolio, e gli USA furono additati dalla stampa occidentale come i maggiori responsabili perché le loro importazioni superavano del 50% il fabbisogno interno. La ARAMCO si piegò dinanzi alle pretese del governo saudita che chiese, invece del 25%, il 60% del capitale delle Compagnie, e tutti gli Stati arabi lo seguirono. Ma la quota dei paesi dell’OPEC sul mercato mondiale del petrolio passava dal 60-65% negli anni ‘70 al 30-35% negli anni ‘80, la metà.

Un altro elemento importante in questo giro di traffici era l’esistenza dei mercati cosiddetti liberi che andavano estendendosi in concorrenza a quello dell’OPEC. Il mercato libero di Rotterdam esisteva dagli anni ‘30 ma con una funzione di riserva per la distribuzione dei prodotti raffinati. Dopo il formarsi dell’OPEC questo mercato iniziò a trattare anche il greggio e dopo gli anni ‘80 ne è diventato il mercato di riferimento mondiale. Questo si spiega anche con l’aumento dei partecipanti al mercato, dalle Compagnie nazionali del petrolio dei paesi OPEC, alle società private e pubbliche dei paesi consumatori, alle società di trading a quelle dedite al brokeraggio. Funziona come una vera borsa del petrolio, dove si tratta il 5% del totale degli scambi. Lo chiamano spot-market: le trattative sono effettuate direttamente per telefono o per via informatica, e il pagamento in contanti contestualmente all’acquisto. Tutte le multinazionali hanno raffinerie a Rotterdam e questo ne fa un barometro del corso mondiale del petrolio, che dà informazioni sui casi di penuria o di eccedenza favorendo così la speculazione: i paesi produttori vendono il petrolio dove c’è penuria a prezzo maggiorato piuttosto che ai loro clienti abituali, con i quali il prezzo del barile è fissato in anticipo. Inoltre alcuni paesi dell’OPEC avviano petrolio anche su questo mercato per superare le quote imposte dal cartello.

Nel 1973-74, i prezzi crescevano a causa del panico e di questa speculazione, poiché non c’era penuria. I paesi, ognuno per conto suo, ricorrevano al mercato di Rotterdam per accumulare riserve. Dal 1973 al 1981 i commercianti indipendenti, a Rotterdam e altrove, regneranno sul mercato mondiale: si chiamano broker, intermediari, e possono così rifornire i paesi colpiti da embargo, come Israele ed il Sudafrica, utilizzando petroliere affittate da armatori indipendenti (il greco Aristotele Onassis era uno di loro fin dal 1938 e fu il promotore, nel dopoguerra, delle super petroliere, scontrandosi con le Compagnie americane). Per fissare i prezzi, vista la diversità di qualità dei greggi, si prenderanno due riferimenti a livello mondiale, leggeri e poveri di zolfo, il che ne facilita la raffinazione: il West Texas Intermediate e il Brent del Mare del Nord.

Il mercato di Rotterdam è il più importante dei mercati liberi e tratta sia greggio sia i derivati. Altri mercati esistono per il greggio: il mercato mediterraneo per quelli russo, libico ed iraniano; il mercato del Golfo per il greggio della Repubblica di Oman e degli Emirati Arabi Uniti, e un poco dell’Arabia Saudita; il mercato di Estremo Oriente al quale il greggio viene soprattutto dal Medio Oriente; il mercato degli USA; il mercato del Mare del Nord per il petrolio della Norvegia e della Gran Bretagna; il mercato dell’Africa Occidentale per il greggio della Nigeria e dell’Angola.

 

– Il secondo del 1979

Il 1979 è un anno chiave nel quale entrano in crisi le alleanze politiche.

Il governo degli Stati Uniti aveva condotto gli accordi di Camp David con i quali l’Egitto nel 1978 era diventato il primo Stato arabo a firmare un accordo di pace con Israele in cambio della cessione del Sinai. Il che significò per gli Usa poter mettere le mani sull’Egitto.

La perdita dell’alleato americano iraniano con l’arrivo dei religiosi e di Khomeini, nel febbraio 1979, determinò un cambio strategico per gli USA e gli Arabi sunniti. Nel 1980, l’Iraq di Saddam Hussein, sostenuto militarmente dagli Stati Uniti e dalla Francia, entrò in guerra contro l’Iran, che respinse l’attacco e penetrò in Iraq. Le battaglie furono cruente con gran numero di vittime e ingenti danni anche agli impianti petroliferi. In Iraq subirono un terribile bombardamento la gigantesca raffineria di Bassora, il terminale di Fao, gli impianti di Kirkuk e gli oleodotti che portano il petrolio, attraverso la Siria e la Turchia, fino al Mediterraneo; dal lato iraniano furono distrutti dalle bombe i terminali dell’isola di Kharg e di Bendar Khomeini e il complesso di Abadan.

Venne così a mancare sul mercato il 10% dell’approvvigionamento mondiale; si parla così di secondo shock petrolifero, con conseguente panico e aumento dei prezzi. È il si salvi chi può. Tutti vogliono fare scorta e principalmente sul mercato di Rotterdam. In realtà la penuria fu soltanto momentanea, poiché le Compagnie possedevano stock enormi, il cui valore crebbe assai, evidentemente consegnati al migliore offerente. Scoppiò uno scandalo quando si resero noti gli enormi profitti delle imprese, nel periodo 1972-74 e poi nel 1978-80. Dal 1973, le indagini negli Stati Uniti si moltiplicarono, condotte tra l’altro da parlamentari come Ted Kennedy, e le otto più grandi Compagnie furono perseguite dalle leggi antitrust, per intese illecite, corruzione ai paesi produttori, etc... Qualche testa cadde, ma i processi non arrivarono a nulla. Anche in Francia le grandi Compagnie furono accusate di rifiuto di vendita ed intese illecite contro le piccole, ma istruzioni ministeriali consentirono che la legge non fosse applicata e i processi non ebbero seguito.

In Francia nel 1983, lo scandalo degli aeroplani “sniffatori” fece riparlare dello strapotere delle Compagnie, ma fu presto dichiarato che esse avevano agito per il bene dello Stato, cioè di una parte della borghesia francese, che riempiva così le sue casse. Era stato l’imbroglio che un aereo in sorvolo potesse di “annusare” i giacimenti di petrolio: dal 1975 al 1979 somme enormi furono versate dallo Stato ad Elf Aquitaine per sperimentare tale metodo, ma la vera destinazione di quei fondi non fu mai chiarita e si suppone che una parte sia finita per finanziare la destra francese.

In Italia nel 1973 le scuole rimasero a corto di carburante per il riscaldamento mentre il combustibile era accantonato per indurre una falsa penuria. Risultò poi che le Compagnie americane avevano versato bustarelle ad alcuni politici italiani, della Democrazia Cristiana, fra cui l’allora Ministro Andreotti, ma anche al Partito Socialista. A parte un paio di sacrificati tutti furono assolti. Nel 1978, la Guardia di Finanza, responsabile delle entrate fiscali dal petrolio, fu coinvolta in un’indagine giudiziaria per frodi di petrolieri e grossisti di Torino, Venezia, Milano. Si trattava di una evasione colossale che coinvolgeva numerosi alti funzionari della Guardia di Finanza e uomini politici della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista; si scoprirono i legami tra politici, uomini d’affari e servizi segreti aderenti alla loggia massonica P2. Ci furono morti strane di camionisti incaricati del trasporto clandestino del petrolio e anche di una giornalista ficcanaso. Nel 1979 ci fu un nuovo scandalo politico e finanziario relativo all’ENI per uno storno del 7% a un principe dell’Arabia Saudita, e altre elargizioni a politici italiani della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista e alla P2. Lo spettacolo è andato avanti, ma ad oggi i “colpevoli” si cercano ancora.

Durante questo secondo shock petrolifero, nel dicembre 1979, si ebbe l’invasione dell’Afghanistan da parte dei russi, allora molto influenti nella regione tramite i palestinesi, la Siria e l’Iraq (prima del 1979). Lo Stato Usa allora non esitò ad aiutare attivamente la jihad afgana a combattere i sovietici, dando così inizio alla nebulosa di Al Qaeda e di Bin Laden. Si trattava di proteggere il proprio feudo in Medio Oriente, a qualsiasi prezzo.

Dall’inverno del 1981, a causa della recessione globale, l’enorme eccedenza di petrolio intasava il mercato; la Nigeria, il Venezuela e la Libia oltrepassarono le quote di produzione imposte dall’OPEC e praticarono ribassi di prezzo. Dal 1980 al 1982 il consumo mondiale di petrolio calò di un quarto; l’Europa consumava meno, così come gli Stati Uniti, che non importavano che il 30% di quanto producevano, contro il 50% del 1979, né vi fu un incremento sostanziale della produzione interna. Nel febbraio del 1982 l’Iran riduceva il prezzo del suo Light senza il consenso dell’OPEC, seguito da Venezuela, Messico, Egitto, Nigeria; poi dagli inglesi e i norvegesi per il Brent del Mare del Nord, e dalla Russia, il più grande produttore mondiale, che aveva necessità di guadagnare moneta forte e propose un prezzo ancora più basso. In tutto il mondo erano consumati 60 milioni di barili al giorno mentre la capacità di raffinazione nei paesi occidentali era di 80 milioni: un terzo di troppo rispetto alla richiesta. Fermare la produzione di paesi come Iran e Iraq in quegli anni non era dunque un male. Nel 1984, all’interno dell’OPEC, il Kuwait dichiarava riserve per 65 milioni di barili, ma nel 1985 la cifra aumentava del 50%! In effetti le quote di produzione imposte dall’OPEC dipendono dalle riserve dichiarate: più riserve, più diritto di produrre. Il Kuwait, che vive principalmente di finanza, non sapeva che farsene delle sue riserve: truffò, e gli altri fecero lo stesso.

Fin dal 1970 vi è stato un calo graduale dell’uso di petrolio come combustibile per il riscaldamento. In Francia questa diminuzione è stata compensata aumentando la produzione di energia nucleare che dal 1979 al 1985 è cresciuta di 4,5 volte. Nel 2011, un quarto delle forniture di gas all’Europa è garantita dal gigante russo Gazprom. Il gasdotto Nord Stream che collega i campi della Siberia occidentale alla Germania è stato inaugurato nel novembre 2011, mentre un altro gasdotto, il South Stream, era previsto che arrivasse in Italia.

Questa diminuzione della domanda è accompagnata, a livello mondiale, da una sopracapacità delle flotte petrolifere e dal 1982 alla chiusura di molte raffinerie. Le multinazionali del petrolio si sono ristrutturate e diversificate. Nel 2011 Huston è sempre la capitale dell’oro nero, dove hanno sede le Sette Sorelle, Elf Aquitaine, l’AGIP e le trenta più grosse Compagnie americane, con un seguito di 400 Compagnie straniere, 500 statunitensi legate al petrolio e 65 banche internazionali.

 

37. La corsa infernale alle risorse energetiche e ai profitti

In Africa

Nel 1971, il presidente algerino Bou­mé­diène nazionalizzava il petrolio. Total ed Elf si rivolsero al petrolio del Mar del Nord e del golfo di Guinea. Una filiale di Total sfruttò il petrolio del Gabon imponendovi un dittatore, mentre Elf si concentrò in Nigeria, Ciad, Congo, Angola, Niger.

La Nigeria, paese che si affaccia sul golfo di Guinea ed è il più popoloso in Africa, è ricca di giacimenti off-shore; i rubinetti del petrolio vi furono aperti nel 1956 da Shell, essendo il paese allora sotto protettorato inglese, facendo diventare il paese il primo produttore africano di petrolio. Il conflitto del Biafra fu provocato dalle potenze occidentali per accaparrarsi le ricchezze del paese. Nel 1967 il Biafra proclamava la sua indipendenza dalla Nigeria, sostenuto dalla Francia e da Elf. La guerra fu orribile e causò la morte di più di 2 milioni degli abitanti, di cui una parte per fame. Attualmente la situazione della Nigeria è caotica e disastrosa, anche a causa di un inquinamento chimico abominevole. Il consorzio petrolifero vi detta la legge con Shell, la società chiave che ne detiene il 40%, Chevron, Eni e Total (per il 10%). Nel 2003, il presidente americano si recò in Nigeria per proporre un aiuto finanziario e accaparrarsi del petrolio: per l’imperialismo, qualunque esso sia, è importante differenziare gli approvvigionamenti per non dipendere troppo da alcune aree come ad esempio il Medio Oriente, tanto più che solo l’oceano atlantico separa l’Africa dagli USA.

Nello stesso tempo, nel 2003, gli USA si riconciliarono con la Libia, facendovi ritornare le società petrolifere e levando le sanzioni.

La Cina, famelica di risorse energetiche, si interessa molto all’Africa nera fin dagli anni ‘90. Dopo avere investito capitali e sviluppato legami commerciali in paesi come la Nigeria, l’Angola, l’Etiopia, il Sudan (Darfur) e il Ciad, dove ha aiutato una ribellione, l’imperialismo cinese è arrivato in Niger dove il petrolio sarà prodotto dal 2012 da imprese cinesi.

Nell’ex impero russo

Durante i decenni ‘80 e ‘90, la quota delle entrate per gli Stati produttori non ha cessato di aumentare favorendo così la nascita di molte società nazionali. Le zone molto ricche di idrocarburi si facevano più rare e i costi di esplorazione e di produzione più elevati. I rapaci planarono quindi sui giacimenti inesplorati attorno al Mar Caspio, che nascondono grandi riserve di petrolio e di gas. Con lo smantellamento dell’impero russo, i paesi della regione, l’Azerbaigian, il Kazakistan ed il Turkmenistan, sono diventati oggetto delle cupidigie degli Stati imperialisti assetati di materie prime indispensabili alla sopravvivenza della loro economia. Le Compagnie hanno agito come sciacalli e le diplomazie hanno utilizzato tutti i mezzi, i più perfidi e crudeli, al fine di dividersi i pozzi e i tragitti degli oleodotti, negoziando aspramente anche con i paesi limitrofi, fra cui la Turchia. Nel 1989, cadeva il “muro di Berlino”, l’impero russo crollava a causa di una grave crisi economica. Dal 1987 Gorbaciov aveva iniziato la “liberalizzazione” dell’economia russa con l’aiuto di capitali americani, della Banca Mondiale e quelli della Banca Europea, liberalizzazione che si accentuò sotto Eltsin negli anni ‘90 con una vasta privatizzazione delle imprese, che dal 1992 a metà 1994 portò a che più del 60% del PIL provenisse dal settore privato. In seguito vi fu una nuova ondata di privatizzazioni per le imprese dell’energia, dei metalli e delle telecomunicazioni.

Sul terreno della “libera-concorrenza” sorgevano ovviamente i monopoli bancari ed industriali, dei famosi “oligarchi”. Nel 2000, Putin pretese di cambiare tutto senza cambiare nulla, prendendosela con i “cattivi” oligarchi diventati responsabili dell’aggravarsi delle disastrose condizioni di vita del proletariato russo, e si sbarazzò di alcune Compagnie straniere un po’ troppo intraprendenti. La rendita del petrolio e del gas russo finì così nelle casse del clan di Putin.

Baku in Azerbaigian è diventata la Dubai ultra moderna della regione e dal 1994 tutte le grandi Compagnie vi hanno attività ben avviate. I pozzi off-shore finanziati dalle Big del petrolio sono ben promettenti. Ma la Russia contro Baku sostiene la vicina Armenia e l’orso russo sorveglia, a portata di cannone, il petrolio del Mar Caspio. Dalla caduta del fratello maggiore russo, sulla riva asiatica del Mar Caspio, in Kazakistan, grande produttore di uranio e di potassio e la cui capitale Astana è un’altra Dubai, sono accorse tutte le grandi Compagnie mondiali, foraggiando la famiglia al potere. Scoperto nel 2000, Kashagan, nel nord del Mar Caspio è il più grande giacimento off-shore del mondo; un consorzio di 8 società, fra cui Shell, Exxon, Total ed Eni, si divide i giacimenti nei quali l’accesso al petrolio è tecnicamente il più difficile della storia dell’oro nero con un rischio ambientale elevato perché, in caso di incidente, l’emissione di gas sulfureo è mortale per i lavoratori e per la popolazione. Mentre non si è vista ancora una goccia di petrolio da queste parti, ci vorranno decenni per pagare i debiti che il paese ha contratto!

Dal 2005 il petrolio del Kazakistan passa in Cina per un gigantesco oleodotto dai giacimenti kazachi di Atasu alla provincia cinese Xinjiang-Ouïghour, provincia di lingua turca, musulmana, oggi in ribellione contro Pechino. È così che arriva nelle raffinerie cinesi il 15% del fabbisogno nazionale. Nel Caucaso, il gioco delle materie prime energetiche è quindi nelle mani di tre imperialismi: americano, russo e cinese.

(Continua al prossimo numero)