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"COMUNISMO" n. 42 - giugno 1997
Avvolgersi della mondiale crisi borghese.
IL SOGNO-BISOGNO DEL COMUNISMO  (Fine): Oriente ed occidente - Forme della mistica - Pensiero ed azione - Sono, dunque penso.
– LE CAUSE STORICHE DEL SEPARATISMO BASCO   [ - 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - ]
IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO  NEI PAESI DEL MAGHEREB   [ - 1 - 2 - 3 - 4 - ]   UNA FUORVIANTE PROSPETTIVA PER IL PROLETARIATO  -  La crisi economica dell’Ageria.
– Appunti per la Storia della Sinistra: RUOLO DEI FALSI COMUNISTI 
                  NEL BORGHESE ASSESTARSI DEL DOPOGUERRA ITALICO  [ nn. 42 - 43 - 44 - 45 - 46 - 47 - 49 - 50 ].
Dall’Archivio della Sinistra:
     L’attentato di Guido Beiso (Prometeo, 1935).
     Le vittime non possono essere riabilitate dai loro carnefici (il Programma Comunista, 1965).

 
 
 
 



Si apre, il quarantaduesimo numero della Rivista, con le stesse questioni, gli stessi interrogativi con cui era stata chiusa, alla fine d’anno, la precedente. Il semestre passato non ha sciolto uno solo dei nodi che elencavamo nell’introduzione di allora. Pochi sei mesi, ci verrà detto, finanche per abbozzare un tentativo di soluzione. Pochi davvero, vogliamo rispondere, per come i fatti del mondo capitalistico si sono ancor più aggrovigliati.

La crisi dello ’Stato sociale’, che agiva come ’idea’ di cardine economico e strumento di controllo di alcune fondamentali variabili macroeconomiche, continuiamo a vederla avanzare senza soste, anzi ormai da ogni parte, ’sinistre’ borghesi comprese e organizzazioni sindacali di regime, se ne teorizza la fine, con una gamma di ricette sempre più bislacche e lambiccate per disinnescarne i pericolosi effetti sociali. Il conseguente risultato è nel peggioramento sempre più deciso non solo delle condizioni di vita dei proletari ma anche, alla fine!, dei piccoli borghesi, ingrassati dal cinquantennio postbellico, il che corre il rischio di mettere in crisi, del pari, l’infernale – per la ripresa di classe – meccanismo di corruttela indotto dall’ideologia delle mezze classi nel seno del proletariato. E se sul piano dei rapporti tra le classi tende quindi ad incrinarsi il ’patto sociale’ che ha caratterizzato, negli ultimi decenni, l’economia politica, con lo stretto rapporto governo-padronato-sindacati, sul piano dei rapporti tra gli Stati europei d’altro lato il tentativo affannoso e contorto di stringere un’unione in prima fase economica, e poi forse politica, va naufragando tra gli scogli delle dure necessità nazionali, degli squilibri tra le bilance dei pagamenti per gli enormi deficit statali che sopravanzano i tassi di sviluppo, delle contrapposte volontà di assumere la direzione politica – ed economica – della costituenda unione.

Sono trascorsi, quest’anno, cinquanta anni da che i vincitori della seconda guerra impressero il loro feroce e iugulatorio sigillo alla ricostruzione dell’Europa dalle sue macerie, stremata da una catastrofe di una ferocia e distruttività mai sperimentata sin allora; ed ancora oggi, dopo cinquant’anni, all’imperialismo più potente della storia non riesce a contrapporsi, crollato il blocco dell’est, un ’altrettanto forte e determinata coalizione del vecchio mondo; la dinamica delle contraddizioni tra gli Stati e le economie nazionali ha impedito, e impedisce questo risultato, che è tutto ’dentro’ l’ordine capitalistico. Il piano Marshall, i meccanismi di ’alleanze’ militari in cui gli Stati Uniti d’America hanno ingabbiato l’Europa – politica militare forgiata insieme all’economia politica – hanno funzionato alla perfezione; i loro ’benefici effetti’ perdurano ancora quasi mezzo secolo dopo; non c’è male, quanto a lungimiranza capitalistica!

Ma il fatto apparentemente paradossale è che, malgrado un andamento tendenzialmente in crescita della produzione, malgrado i produttori dell’estremo oriente inondino i mercati delle loro merci, malgrado la ripresa degli Stati Uniti, malgrado infine le condizioni dell’industria europea non siano, come i vari padroni vanno lamentando, in crisi significativa, ecco, malgrado un segno che non è negativo dell’economia mondiale nel suo complesso, le sorti dei lavoratori continuano a peggiorare. La quantità di ricchezza prodotta tende a crescere, in volume raggiunge livelli inimmaginabili, anche se il tasso – ma questo è un altro discorso – in crescita non è; eppure lo sfruttamento degli operai alla produzione è sempre più intenso, in crescita è la percentuale di espulsi dalla produzione, in crescita è il tasso di chi aspetta ’una vita’ di entrare nell’inferno della produzione capitalistica. Un discorso a parte, ma non inficiante il succo delle osservazioni ’terra terra’ qui svolte, sarebbe da fare per i disastri delle economie degli Stati cosiddetti ex socialisti, e per la loro presente incapacità di rientrare nel ’giro virtuoso’ di cui stiamo trattando.

In realtà emerge chiaramente da questi fatti il principio che il capitalismo nella sua fase senescente, è incapace perfino di mantenere i suoi schiavi privilegiati al livello ’socialmente’ raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive. Alla scala poi dell’economia mondiale, il fenomeno è ancora più tremendo, e davvero la ’massa della miseria’ cresce ad un ritmo da vertigine; soprattutto se comparata alla ’massa della ricchezza’, cioè al lavoro morto, che in un carosello folle si muove giornalmente sui mercati finanziari. La tranquilla e terribile banalità di questi fatti, patenti e non disconoscibili, se l’economia politica non fosse ’la scienza economica di classe’ per eccellenza, dovrebbe far manifesto a chiunque, le altrettanto taglienti enunciazioni della scienza economica del comunismo; ma l’idealismo delle ’convincimento’ non è mai stato il nostro metodo, da materialisti sappiamo che altre sono le motivazioni dello schierarsi di campo.

Non ci interessa nulla, allora, ’far valere le nostre ragioni’ nell’arena delle idee, degli studi, della teoria; non mettiamo a confronto, non l’abbiamo mai fatto, la nostra teoria, la nostra dottrina, la nostra scuola rivoluzionaria con chicchessia, ma continuiamo del nostro passo, parlando a chi col cuore, prima che con la ragione, ci vuoi seguire. Non sono le dimostrazioni teoriche, la chiarezza delle motivazioni, la molla che fa scattare l’adesione ai sentimenti e alla prassi rivoluzionaria. L’abbiamo detto, ripetuto, e continueremo a ripeterlo, la Rivista non fa opera di studio teorico, palestra di ingegni e dibattiti; anzi, anche il suo stile è naturalmente ’basso’, di battaglia, e fornisce argomenti per la descrizione sempre più precisa e tagliente della nostra visione del mondo, al solo e dichiarato scopo di ’rovesciare lo stato di cose esistente’.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


IL SOGNO-BISOGNO DEL COMUNISMO
Capitolo del rapporto esposto alla riunione generale di gennaio 1997.

(continua dal numero 41)
 resoconto esteso

(Fine del rapporto)

 
 
 
 
 
 



LE CAUSE STORICHE DEL SEPARATISMO BASCO

Rapporto, esposto alla riunione generale del partito del maggio 1996.

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La nostra corrente ha sempre sostenuto che i mezzi tattici che il Partito può utilizzare in determinate aree storiche debbono essere previsti e codificati in chiare regole di azione. La teoria del materialismo storico permette al Partito rivoluzionario proletario, al Partito Comunista, di prevedere i fatti storici nelle loro grandi linee generali, evitando un pericoloso empirismo tattico che non potrebbe non influirebbe assai negativamente sulla organizzazione e sul corso della stessa lotta proletaria. Viceversa, cercare nuove vie, impreviste e sconosciute dall’insieme del Partito, induce una frattura anche nella monolitica struttura teorica e programmatica.

È pertanto una necessità vitale per il movimento rivoluzionario che il rigore dottrinario e programmatico si espliciti in linee tattiche che non ne contraddicano la natura, determinata dalla finalità suprema del nostro combattimento, la società senza classi; sempre, in ogni congiuntura le linee tattiche debbono essere subordinate al fine rivoluzionario che le determina rigidamente.

L’abbandono di questi principi marxisti fondamentali ha provocato nel movimento operaio internazionale la peggiore delle sue sconfitte storiche, della quale la maggiore responsabilità cade, senza possibili dubbi, sullo stalinismo e sulla sua politica di rinnegamenti continui e consumati tradimenti. In ognuna delle grandi questioni sociali che lacerano la società contemporanea si è manifestata la cosciente e meticolosa opera di falsificazione di quell’esercito di veri controrivoluzionari di professione.

L’impianto meccanicistico dell’opportunismo traditore nella cosiddetta questione nazionale e coloniale, dimostra – e la guerra iugoslava ne ha costituito una ennesima prova – come la borghesia e i suoi agenti ancora cerchino di confondere il proletariato perché versi generosamente il suo sangue per obiettivi che non gli sono in modo alcuno storicamente propri.
 

Il Marxismo e il Problema Nazionale

L’opportunismo di fronte alla questione nazionale si è presentato sempre sotto due forme. La prima ha negato che la costituzione dello Stato nazionale fosse uno dei fattori storici decisivi al momento del consolidamento delle basi dell’ordine borghese contro l’antico regime feudale ed ecclesiastico. Già Marx ed Engels dovettero combattere contro queste posizioni, anche nelle proprie file, secondo le quali, in un contesto europeo di rivoluzione borghese antifeudale, si consideravano le nazionalità e le lotte di liberazione nazionale come dei pregiudizi caduchi. Si ricordi la polemica sorta nel seno dell’Internazionale, come per esempio riflettono le lettere di Marx ad Engels del 7 e del 20 giugno 1866.

La seconda forma, che ha causato maggiori pregiudizi al movimento operaio dello indifferentismo della prima, riconosce nella formazione dello Stato nazionale borghese un elemento di progresso storico di fronte alla forme sociali decadute, però applica meccanicamente questo principio lì dove la forma borghese è già un fatto consumato ed irreversibile, lì dove la lotta antifeudale e anticoloniale ha già il suggello della legittimità storica, diffondendo fra le masse proletarie il sacro rispetto dell’ideologia nazionale patriottica e popolare, totalmente identica a quella degli ex alleati, ora solo nemici, borghesi.

Già al tempo del Manifesto troviamo esposta la posizione marxista circa l’appoggio proletario alla borghesia in lotta contro l’antico regime feudale. «In questo stadio gli operai formano una massa dispersa per tutto il paese e disgregata dalla concorrenza. Il loro raggrupparsi in masse non è ancora la conseguenza della loro propria unione, ma dell’unione della borghesia, che per raggiungere i suoi propri fini politici deve – e ancora è in grado di farlo – mettere in movimento tutto il proletariato. In tale stadio i proletari non combattono dunque i loro propri nemici, ma i nemici dei loro nemici, cioè gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccolo borghesi. Tutto il movimento storico si concentra così nelle mani della borghesia; ogni vittoria così ottenuta è una vittoria della borghesia».

Pertanto, da quando esiste – già nel 1848 – la dottrina e il partito del proletariato, esiste la spiegazione teorica delle lotte nazionali alla luce del determinismo economico, e in essa si stabiliscono i limiti e le condizioni di tempo e di luogo per l’appoggio alle insurrezioni e alle guerre statali di indipendenza nazionale.

Marx ed Engels stabilirono questi limiti nell’area europea occidentale (esclusa l’Inghilterra paese già pienamente capitalista) dal 1848 al 1871, data alla quale la cruenta sconfitta della Comune di Parigi da parte dei due eserciti nazionali nemici, spinse apertamente alla coalizione di tutte le borghesie europee contro il proletariato, chiudendo definitivamente le lotte di liberazione nazionale in quest’area geostorica.

Ciononostante si ha un caso, quello irlandese, che non si chiude definitivamente, per le sue ben note peculiarità, fin ben dentro il secolo XX. A quello Marx ed Engels dedicarono grande attenzione, poiché in realtà l’Irlanda può considerarsi come la prima colonia inglese o per l’influenza determinante di questa questione sul movimento operaio inglese: «La classe operaia inglese non farà nulla finché non si separerà dall’Irlanda. La leva deve essere applicata in Irlanda. Per questo il problema irlandese riveste tanta importanza per il movimento sociale in generale» (Lettera ad Engels del 10 dicembre 1869).
 

Il caso irlandese

Il riferimento all’Irlanda è obbligatorio per due ragioni: in primo luogo ci fornisce un esempio storico notevole, analizzato direttamente da Marx e da Engels, di una lotta anticoloniale e di liberazione nazionale nei suoi aspetti peculiari, e, in secondo luogo, serve per smascherare analogie che interessatamente si sono stabilite fra la storia irlandese e quella di altre zone di Europa, come i paesi baschi, che si pretende offrano caratteristiche di oppressione nazionale e coloniale simili a quelle irlandesi.

Da tempi remoti l’Irlanda fu aperta ad ogni tipo di popoli invasori. Nelle Isole britanniche, alla remoto sostrato etnico preindoeuropeo si sovrapposero le invasioni celtiche che, assimilata la primitiva popolazione aborigena, costituirono un elemento etnico chiaramente differenziato da quello dei posteriori invasori germanici. In alcune zone della Gran Bretagna (Scozia e Galles) e soprattutto in Irlanda la germanizzazione degli aborigeni trovò maggiori difficoltà. La storia scritta irlandese è la storia della invasioni e della resistenza a queste. Cadrà definitivamente sotto il giogo inglese nel secolo XVII, e il borghese rivoluzionario Cromwell aprirà le porte ad una particolare pulizia etnica nell’isola che continuerà nei secoli successivi. L’occupazione militare trasformò l’Irlanda nella prima colonia inglese, impedendone il naturale sviluppo nel commercio e nella industria.

Le basi per la successiva rovina economica dell’Irlanda e la fuga in massa per disperazione di milioni dei suoi abitanti si impose in quegli anni di massima oppressione e feroce repressione delle sollevazioni nazionali.

Così descrive Marx, in uno dei suoi numerosi testi sulla questione irlandese, le radici economiche di una vera oppressione nazionale e coloniale: «Irlanda ingannata ed umiliata al massimo. 1692 - 4 luglio 1776. 1698: Il parlamento anglo-irlandese votò (in quanto coloni sottomessi) per ordine della madrepatria una imposta proibitiva sull’esportazione di articoli di lana irlandese all’estero. 1698: nello stesso anno il parlamento inglese gravò l’importazione di prodotti irlandesi in Inghilterra e in Galles di una pesante imposta e proibì totalmente la loro esportazione in altri paesi. L’Inghilterra distrusse le manifatture dell’Irlanda, spopolò le sue città e gettò le loro popolazioni di nuovo nelle campagne» (Progetto di una conferenza sul problema irlandese, dettata il 16 dicembre 1867 per l’Associazione Culturale dei Lavoratori Tedeschi).

Più avanti anche il lavoro nei campi sarà un lusso troppo grande per i contadini irlandesi, come riferiva Marx citando la rivista irlandese The Galway Mercury: «La gente va sparendo rapidamente dalla terra dell’ovest dell’Irlanda. I fondiari di Connaught si sono tacitamente accordati per sradicare tutti i piccoli occupanti contro i quali si intraprende una guerra regolare e sistematica di sterminio (...) Quotidianamente si praticano in questa provincia le più violente crudeltà, cosa della quale il pubblico non ha alcuna conoscenza» (The New York Daily Tribune, 22 marzo 1853 e The People’s Paper, 16 aprile 1853). Per questo, a misura che andava scomparendo la popolazione andava aumentando il numero di capi di bestiame di proprietà dei fondiari. I dati che ci fornisce Marx sono illuminanti: «Il problema della terra, diminuzione della popolazione. 1841: 8.222.664 abitanti; 1866: 5.571.971 abitanti; in 25 anni una diminuzione di 2.650.693. 1855: 6.604.665; 1866: 5.571.971. In 11 anni una diminuzione di 1.032.694. Non solo diminuì la popolazione, ma anche allo stesso tempo aumentò il numero di sordomuti, ciechi, invalidi, dementi, ritardati rispetto all’insieme della popolazione. Aumenta il numero di capi di bestiame fra il 1855 e il 1866 (...) Di conseguenza approssimativamente un milione di capi di bestiame vaccino, suino e ovino sostituì 1.032.694 irlandesi. Cosa ne fu di questi irlandesi? La statistica dell’emigrazione ci dà la risposta» (Progetto di un discorso non pronunciato sulla questione irlandese, 26 novembre 1867).

Questa emigrazione di espropriati irlandesi si porterà soprattutto in Inghilterra e in America. In Inghilterra è noto il sospetto con il quale erano ricevuti questi emigranti che competevano a basso prezzo con gli operai inglesi. L’Internazionale diretta da Marx e da Engels lottò decisamente per l’indipendenza dell’Irlanda e contro i pregiudizi nazionali fra lavoratori da entrambi i lati del Canale di San Giorgio, poiché il superare questa contrapposizione è una condizione per la rivoluzione sociale anticapitalista in Inghilterra.

Però l’attenzione di Marx e di Engels non si concentrò solo ed esclusivamente sull’Irlanda. La loro condanna delle infamie coloniali in Africa e Asia e il loro appoggio alle lotte di liberazione coloniale del secolo XIX (Polonia, Italia...) sono ben conosciute, come lo è la critica alla direzione borghese di quei movimenti europei (Irlanda compresa), ponendo in guardia il proletariato su quale sarà il vero nemico una volta che lo Stato nazionale borghese fosse una realtà. Il pericolo per la classe operaia risiedeva nel sacrificare per questi interessi nazionali una forza proletaria che fosse già storicamente capace di lottare per un piano autonomo di classe, elevando i principi e la politica della liberazione nazionale ad un fine in se stesso e forma eterna, patrimonio spacciato comune a borghesi e a proletari.

Questo ciclo è invece ben delimitato, in Europa occidentale e continentale si chiuderà nel 1871, precisamente dopo che fu schiacciata nel sangue la prima forma statale proletaria data nella storia: la Comune di Parigi. Da quel momento in quell’area i comunisti di pongono una sola prospettiva storica: la DITTATURA DEL PROLETARIATO.

Pertanto questi sono i punti fondamentali che ogni rivoluzionario marxista deve difendere nella questione: L’organizzazione sociale e statale feudale costituisce un ostacolo per la formazione della nazione unitaria borghese moderna. L’unità nazionale è una necessità storica giacché il mercato unico interno, l’abolizione degli Stati Generali feudali, il diritto positivo comune per tutti i cittadini, la lingua nazionale (importantissimo mezzo di produzione!) sono condizioni previe per il trionfo futuro del comunismo.

Il proletariato e le sue organizzazioni appoggiano la borghesia per la liberazione nazionale, in un contesto di rivoluzione antifeudale o anticoloniale, per l’impiantarsi del modo di produzione capitalista. In presenza di un ambiente sociale capitalista e mercantile, il comunismo rifiuta qualsiasi formula di solidarietà nazionale e rivendica in politica la Dittatura del proletariato e la Rivoluzione comunista internazionale.

* * *

La chiusura definitiva delle lotte di indipendenza nazionale in tutta l’area Europea ha tuttavia lasciato in piedi numerosi problemi minori. La persistenza di questi, più che l’acutizzarsi di presunte questioni nazionali, pone in chiaro il grado di influenza che le ideologie caduche e reazionarie esercitano sulla classe operaia. Lunghi anni di controrivoluzione hanno avuto come risultato non solo l’inesistenza fisica del partito in quasi tutto il mondo, ma anche l’emergere di movimenti antiproletari che, agitando la falsa bandiera della liberazione nazionale, hanno ottenuto di far passare obiettivi puramente borghesi come se fossero di interesse proletario.

Il nazionalismo basco ha in sé tutte queste caratteristiche.
 

Un’origine misteriosa?

Non sono certo mancati coloro che hanno dedicato non pochi sforzi all’arduo compito di individuare le origini di tale o tal’altro gruppo etnico. E, nella misura in cui una lingua è rimasta isolata dalla famiglia linguistica che la raggruppa, si dà la stura a illazioni a ruota libera che hanno in comune più con la fantasia che con la scienza. La questione si complica se si considera che la specie umana forma una rete complessa, nella quale le linee sono spesso intersecate fra loro. L’incrocio di specie distinte è sterile, per incompatibilità genetica; l’incrocio di razze è fecondo, per il che ha molto più senso scientifico e logico parlare di processi evolutivi dei gruppi e della specie umana, più che la ricerca di mitiche origini di questo o quel gruppo etnico particolare. È fatto innegabile che alcuni gruppi umani si caratterizzino per elementi differenziati, tanto nei tratti fisico-anatomici quanto nei mezzi di produzione e nelle sovrastrutture: però questi elementi sono da considerarsi, assai più che come retaggio biologico, come prodotti dall’adattamento all’ambiente circostante, che è quello che, in definitiva, condiziona le loro relazioni economiche, sociali e, infine, religiose e culturali.

Elemento innegabilmente differenziato dei baschi è la loro lingua, la cui peculiarità consiste nel non essere imparentata, almeno allo stato delle ricerche, ma non è caso unico, con alcuna famiglia linguistica conosciuta. Questo è uno dei pilastri su cui si è fondato il nazionalismo basco e giustificata le sua richiesta politica, il separatismo tanto dalla Francia quanto dalla Spagna e la pretesa, in realtà più propagandistica che reale, di formare un presunto Stato nazionale basco.

L’ambiente fisico condiziona l’uomo, e questo è valido anche per i popoli misteriosi. Fino ad oggi non abbiamo elementi di giudizio per affermare che gli uomini del paleolitico che abitavano la cornice cantabrica fossero gli antenati diretti di una parte degli abitanti attuali. Però possiamo affermare che l’ambiente fisico nel quale sviluppavano le loro attività ha plasmato un modo di vita comune ad altre zone con caratteristiche similari. Inoltre di tutta la zona franco-cantabrica e di quelle confinanti l’archeologia ci fornisce elementi comuni ad altre zone di Europa: gruppi umani di cacciatori-raccoglitori, che abitano in capanne o grotte e che in queste ultime hanno lasciato significativi resti del loro peculiare modo di esprimere le loro aspirazioni e timori. Nelle provincie basche incontriamo preziose manifestazioni di simile arte nelle caverne di Ekain, Santimamine o Alcherri, fra le altre.

Il cosiddetto patriarca dell’etnologia basca, il prete Barandiaràn, nega che durante la preistoria il territorio basco sia stato invaso da popoli diversi dall’autoctono, spiegando i cambiamenti culturali con il contatto con altri gruppi umani, per cui ci troveremmo davanti al popolo più antico di Europa. Evidentemente ciò che si nasconde dietro a queste teorie è l’affermazione della purezza razziale per sostenere le teorie nazionaliste.

I successivi periodi storici preistorici (neolitico, dei metalli, ecc.) ci offrono del paese basco un panorama molto simile a quello delle altre aree peninsulari ed europee. Inoltre i monumenti megalitici baschi presentano differenze fra di loro: rispetto a quelli posti nel montuoso Nord, quelli delle zone del Sud, più pianeggianti e agricole, di solito sono più grandi e complessi nella loro elaborazione, e al loro interno si incontrano resti più ricchi in varietà ed elaborazione. Tanto i resti pertinenti al periodo neolitico quanto quelli della prima età dei metalli portano l’impronta dell’influenza europea e peninsulare.

Questo, ovviamente sintetizzato al massimo, è quanto ci offre l’archeologia preistorica nel paese basco, e possiamo ora riferirci alle prime fonti storiche scritte.
 

I baschi nell’antichità

I riferimenti degli autori classici sui baschi, come in generale sopra tutti i popoli che abitavano il Nord della penisola iberica, non sono molto numerosi. Si sono conservate però validissime testimonianze di prim’ordine che ci offrono una visione molto approssimata alla realtà nella quale vivevano quei gruppi umani.

L’orografia e la climatologia del Nord peninsulare conferiscono a questa regione geografica un carattere più o meno uniforme in quanto a mezzi di vita per i suoi abitanti. La montuosità e il regime pluviale determinano una struttura economica che, a ragione di quanto ci dicono i cronisti greco-romani, si può inglobare nello stadio medio della barbarie con un netto regime matriarcale. La base economica di questi montanari era essenzialmente pastorale-agricola e di raccolta, il pane si fabbricava con ghiande raccolte e macinate. Questo terreno tanto accidentato dette impulso ad una agricoltura rudimentale e povera in varietà. A questo le popolazioni dei monti supplivano con frequenti scorrerie nei vicini altopiani meridionali, ricchi di grano e bestiame.

Alcuni autori classici, evidentemente pro-romani, raccontano che questa fu la causa della quale presero pretesto i romani per dichiarare guerra ai popoli del Nord, le famose Guerre Cantabriche, con l’obiettivo di proteggere così i loro ipotetici alleati. Qualche autore moderno (Schulten) mette in relazione queste guerre con l’insurrezione dell’Aquitania negli anni 29-289 A.C., dato che sono stati una costante storica i vincoli stretti fra aquitani e cantabrici, allora forse di tipo gentilizio. Però, oltre a questo, una ragione sufficientemente potente per dichiarare guerra ai cantabrici, asturegni e galiziani era l’esistenza di notevolissimi giacimenti di ferro nella cordigliera e di oro nelle Asturie. Sottomettere le popolazioni native era il primo passo per lo sfruttamento commerciale di quelle risorse minerarie e per ottenere la manodopera schiava necessaria. La grande ripercussione che ebbero queste guerre cantabriche fece che questa regione, ancora incognita al mondo civilizzato dell’epoca, iniziasse ad esser conosciuta.

Nella misura in cui la romanizzazione progrediva, quei popoli andavano perdendo parte della loro fisionomia etnica e linguistica originale, incapaci di contenere per ragioni materiali l’inarrestabile accerchiamento del latino, veicolo della superiore civiltà, quanto a modo produttivo e cultura, dello schiavismo romano.

Non tutti i popoli del Nord subirono questo processo nella stessa misura. Una serie di tribù, indicate più tardi con il nome generico di baschi, conserveranno più a lungo la loro idiosincrasia etnico-linguistica. I baschi, secondo gli antichi testi classici, erano gli abitanti di quello che oggi costituisce la totalità della Navarra, una parte del Guipùzcoa, del Logrono e dell’Aragona. Oltre ad essi vi abitavano una serie di popoli come gli autrigoni, i caristi e i varduli, che occupavano il rimanente dell’attuale paese basco e buona parte delle regioni limitrofe.

È solo un mito, difeso interessatamente dai nazionalisti, l’affermazione della sconfitta romana davanti ai baschi. È invece certo che tutto il Sud del territorio, ricco di agricoltura e di bestiame, fu occupato da Roma. Il Nord montagnoso e con scarse risorse non attrasse l’interesse dei romani, che tennero Pamplona (Irugna in basco, la Città per antonomasia), come loro importante attestamento settentrionale. La partecipazione dei baschi al mondo romano però non fu certamente modesta, tanto che appaiono citazioni circa soldati baschi in servizio delle legioni romane ai confini dell’impero e partecipanti alle loro vicende politiche e alle guerre civili così comuni nella storia romana.
 

Considerazioni sulla lingua basca

La dominazione romana e la progressiva adozione del latino apriranno una frattura linguistica nel territorio dei baschi, fra il Sud romanizzato e il Nord nel quale l’influenza romana non fu così intensa. Un fenomeno simile si è avuto sull’altro versante dei Pirenei, in Aquitania, cambiando le coordinate geografiche, dato che lì l’influenza latina muoveva da Nord a Sud. La lingua e i toponimi baschi, oltre al maggioritario elemento non indoeuropeo, includono gran quantità di prestiti latini e romanzi e, in molto minor misura, celtici.

Alcuni linguisti affermano che la lingua basca si configura in realtà in una serie di dialetti, imparentati però distinti gli uni dagli altri in tal modo che molte volte era impossibile che si intendessero reciprocamente. E’, in un certo modo, un fenomeno analogo a quello esistente fra le lingue romanze e fra altri gruppi di lingue note. Fatto è che in data recente la Accademia della Lingua Basca, nel suo Congresso di Arànzazu del 1968, preso atto di queste differenze dialettali, approvò ufficialmente i criteri per unificarli artificialmente stabilendo la euskera batua, o basco unificato, basato in gran parte su come si parla nella Guipzcoa.

Né il basco né alcuno dei suoi dialetti è potuto essere incluso, ad oggi, dentro nessuna famiglia linguistica. Con altre lingue, come con l’etrusco o l’iberico, per limitarci all’occidente europeo, succede lo stesso. La differenza è che i dialetti baschi sono sopravvissuti come lingue vive, sebbene, con il trascorrere dei secoli, la loro area di utilizzo sia andata restringendosi e limitandosi al mondo rurale per la concorrenza di altre lingue che erano evidente veicolo di relazioni produttive più moderne, cioè le lingue romanze con le quali conviveva. Però il fatto che il basco non sia stato incluso ancora dentro alcuna famiglia linguistica conosciuta non è motivo per affermare l’impossibilità assoluta di individuarne genesi e parentela.

Diceva Marx nella Miseria della Filosofia, parlando del lavoro di Rodbertus, che la prima condizione per qualsiasi critica è l’assenza di pregiudizi. Molti scienziati in materia linguistica, proprio come succede negli altri rami della scienza, trovano un limite stabilito alle loro ricerche dai loro interessi politici, in definita, della loro classe. Per questo una questione, che apparentemente dovrebbe presentarsi come innocua, lo studio comparato della lingua basca, ha suscitato da sempre interessi contrapposti.

Il marxismo non necessita di certo di servirsi dell’argomento linguistico per giustificare la validità o meno di una ipotetica lotta nazionale, giacché la lingua in se stessa non è altro che un mezzo al servizio della produzione. Le forze produttive nei paesi baschi, nei quali hanno sempre convissuto arcaismo e modernità fin da tempi remoti, non si sono affatto mantenute inalterate nei secoli, al contrario, hanno mostrato sempre una dinamismo che è mancato, per circostanze storiche date, ad altre regioni presunte oppressori. Detto questo, opponiamo i materiali disponibili ad oggi alle considerazioni sulla lingua basca degli amanti dell’esclusivismo razziale.

Per semplice deduzione logica, le lingue più affini all’euskera o basco, dovrebbero trovarsi vicino alla sua area geografica di diffusione. La toponomastica delle regioni confinanti cogli attuali paesi baschi offre elementi comuni con quella basca. Però è certo che fenomeni onomasiologici (parole affini in diverse lingue) di questo tipo si danno praticamente in tutta la penisola iberica ed anche fuori di essa, in Francia e in tutto l’occidente europeo, Isole britanniche incluse, Nord Africa e, presumibilmente, il Caucaso. Una espansione basca primitiva o, più probabilmente, l’esistenza di una famiglia linguistica pre-indoeuropea, della quale il basco è l’unico rappresentante nell’occidente europeo? Tutto sembra indicare che si tratta in realtà di questa seconda ipotesi.

All’inizio del secolo scorso Wilhelm von Humboldt fu un dei primi che, con rigore hegeliano, cercò di avvicinarsi scientificamente al tema della classificazione del basco. Già altri autori avevano affrontato la questione, però con una metodologia che avevamo ben poco di scientifico, utilizzando testi biblici come supporto delle loro teorie, anche inventando neologismi, inesistenti nella lingua parlata, per conferire al basco un carattere colto del quale mancava (i preti Erro e Larramendi).

Homboldt fa una esaustiva e particolareggiata esposizione della toponomia e dell’onomastica preromana estratta dai testi classici e stabilisce, sebbene mai con carattere assoluto, interessanti e suggestivi etimologie con l’aiuto del basco. Secondo Humboldt il basco «Non appartiene ad alcun gruppo di popoli isolati, privi di legami continentali, ma ad un antico tronco di popoli, in massima parte scomparsi, intimamente imparentati con i primitivi destini dell’Europa occidentale» (Primitivos pobladores de Espana y lengua vasca).

Successivamente ad Humboldt i linguisti sembravano incontrare una strada in salita. Era certo che le ipotesi di Homboldt e di altri autori erano solide, però urtavano con un fatto irrefutabile: le iscrizioni peninsulari in lingue preromane non indoeuropee non solo non si potevano tradurre con l’aiuto del basco attuale ma nemmeno quasi si riusciva a trascriverle. Fu l’archeologo Gòmez Moreno il primo a trascrivere nel 1920 le iscrizioni dall’alfabeto iberico in caratteri latini. Però, nonostante questo grandissimo progresso, le iscrizioni nella cosiddetta lingua iberica rimanevano senza possibilità di traduzione.

Recenti ricerche (denigrate senza alcuna argomentazione valida dai circoli legati al nazionalismo basco) hanno messo in chiaro la possibilità di traduzione di alcune di quelle epigrafi. Vediamo un esempio.

Nella Sierra di Gàdor, in Almerìa, si trovò in una miniera di galena, nel 1862, una lastra di piombo con la seguente iscrizione, letta da destra a sinistra, come segue:

BISTEULESKEMSTARIENMU IIIIII     UDUORUDUINOMSTARIENMU IIIIIIIII
ENULESKEMSTARIENMU III           EKOULESKEMSTARIENMU IIII

Apparentemente ciò non corrispondeva ad alcuno dei dialetti baschi conosciuti e quindi la traduzione risultava impossibile. Però se tali strane e lunghe parole si segmentavano la traduzione non solo diventava fattibile ma risultava pienamente coerente col luogo di rinvenimento dell’iscrizione. Per esempio il primo rigo: UDUORU, uduri, carbonella, in alto navarrano e in labortano; DUIN, duin, giusto, bastante, in vizcaìno; OM, on, provento, in basco; STAO, zto, abbondante, in vizcaìno; ARI, ari, vena, in basco; EN, en, particella per il genitivo, in basco; MU, muin, midollo, in basco. La traduzione è quindi: "9 parti giuste di carbonella per il provento dalla parte centrale di una vena ricca"... Si trattava, con i restanti righi similmente traducibili, delle proporzioni dei componenti per la fusione, attività che sarebbe in gran parte responsabile della deforestazione di quella parte del Sud-Est spagnolo, dato che la fusione del minerale richiedeva enormi quantità di carbone vegetale, unico combustibile conosciuto all’epoca adatto per la funzione. Le successive analisi delle scorie trovate in fonderie antiche hanno confermato la grande approssimazione delle proporzioni iberiche e la traduzione con l’aiuto dei dialetti baschi.

Quando le ricerche procedono senza criteri preconcetti dimostrano l’assurdità di imbastire dogmi definitivi e senza appello, sullo stile della verità eterne dell’illuminato Duhring, sull’esistenza di popoli senza connessioni nello spazio e nel tempo.

Le vicende storiche reali dei dialetti o della lingua basca sono stati quelli di una lingua marginale, relegata al mondo rurale e spesso associata nel passato con l’ignoranza e l’abbrutimento che gli erano propri. Però, al contrario di quanto è successo con l’irlandese, perseguitato e limitato il suo uso dall’invasore inglese, il basco non ha sofferto mai di una rigorosa proibizione ufficiale. Tramontata l’esaltazione dei valori della razza e della lingua spagnole durante i primi anni della dittatura fascista di Franco, già negli anni ’50 si dette piena apertura alla diffusione scritta del basco e già negli anni ’60 cominciarono ad apparire le prime ikastolas, scuole in lingua basca.

È innegabile che il basco ha sofferto un processo di emarginazione dovuto al fatto, evidenziato innanzi, di non aver potuto servire come veicolo di nuove forze produttive perché il suo spazio fu occupato dapprima dal latino, poi dalle sue varietà dialettali. Questi fattori economici sono quelli che provocarono la lenta ritirata del basco, come è successo nella valle del Roncal in Navarra dove il dialetto locale, il roncalese, è scomparso a seguito dei crescenti rapporti di transumanza con il Sud della Navarra e il contatto con le lingue romanze. Altri fattori economici ugualmente importanti per determinare il regredire del basco furono il ripopolamento di vasti territori guadagnati ai mori e la scoperta e colonizzazione dell’America, imprese alle quali parteciparono non pochi baschi, per non parlare delle moderne emigrazioni, fattori di importanza economica evidente.

La letteratura scritta in lingua basca ha uno sviluppo recente. I primi testi (nel 1545 appare il libro di poemi dei Bernard Dechepare) sono scritti in dialetto di Labourd, in Francia, e sempre per mano di religiosi. È a partire dal secolo XVIII quando il dialetto di Guipuzcoa, grazie al commercio oltremare e al declino commerciale di Labourd, riveste maggiore forza letteraria, che però resterà sempre marginale in confronto con la letteratura romanza. Nel secolo XIX si ha un prevalere della letteratura profana rispetto alla religiosa, riflesso nella lingua basca dei contrasti sempre più vivi fra la dinamica borghese delle città e un mondo rurale chiuso in relazioni arcaiche. Non è in questo certamente casuale l’appoggio, constatabile ugualmente oggi, dato dai preti al rafforzamento del basco. E questo per interessi di dominazione di classe. Per il clero, lo euskera della gente semplice e ignorante è una lingua da proteggere contro l’irruzione di altre lingue straniere, giacché in questa maniera si protegge dalla contaminazione ideologica esterna, mantenendo il dominio materiale e ideologico delle classi dominanti e della Chiesa: «La nostra lingua custodisce anche un’altra virtù ed ancora un altro vantaggio. Così come la solida muraglia circonda il prato o la vigna, così si leva la nostra lingua ai confini del paese basco. Ella protegge le nostre pure credenze, i nostri buoni costumi e tutti gli antichi usi, allo stesso tempo che allontana da noi le falsità dei vicini, le loro turpi azioni e i semi dannati e stranieri» (Arbelbide, La domenica, giorno del Signore, citato da Ibon Sarasola). Questo stesso autore cita un’altra interessante allocuzione del vescovo Freppel ad un altro popolo che si dice oppresso, i bretoni: «Custodite la vostra lingua, essa sarà una garanzia dei vostri costumi e una protezione della vostra fede».

Abbiamo visto, a grandi tratti, quale è stato il corso passato dello euskera o dei dialetti baschi. La manipolazione storica su questa questione è stata permanente fin dall’apparizione del movimento nazionalista alla fine del secolo passato, poiché appunto la tesi della unicità della lingua costituisce uno dei pilastri centrali della epopea nazionale basca, epopea che non è per niente un prodotto della storia, poiché è stata creata manipolando grossolanamente la Storia per porla al servizio di ideologie caduche e arcireazionarie.
 

I Paesi baschi nel Medio Evo

Il crollo dell’Impero Romano e l’irrompere violento, e talvolta rigeneratore di un mondo decadente, delle tribù germaniche ebbe gli effetti di un cataclisma sociale. La rivolta contadina delle bagaudae, che ebbe carattere generale, soprattutto nella provincia di tarraconense e nei territori baschi, fu espressione dello scontento sorto contro i rantoli di una forma sociale agonica.

Come già i romani, anche i nuovi invasori germanici si dimostrarono poco interessati ad occupare un territorio aspro e povero di risorse. Solo la zona meridionale basca fu occupata militarmente dai visigoti, che innalzarono fortificazioni per difendere quelle terre, ancora ricche in colture e bestiame, dalle incursioni dei montanari. Tale sarà l’origine della fortezza Victoriacum, che più tardi darà il suo nome alla capitale della provincia di Alava, fortezza difensiva eretta dopo la sconfitta dei baschi nel 581.

In questo periodo dell’alto medioevo il cristianesimo, sorto in Oriente sul tessuto sociale dello schiavismo romano, poco a poco veniva rimpiazzando gli antichi riti pagani preromani. È una caratteristica non solo del paesi baschi ma di tutte le zone montagnose del settentrione della penisola, la sopravvivenza di questi riti le cui immagini, evidentemente distorte, sono giunte fino ai nostri giorni. Nonostante alcune versioni interessate, è certo che la cristianizzazione dei paesi baschi, eccettuata la zona meridionale romanizzata, fu lenta e tardiva. Ancora nel secolo XII il resoconto di un pellegrino francese a Compostela, Aymeric Picaud, ci descrive un Saltus Vasconum (la montagna pirenaica in Navarra) per niente tenero con i cristiani. È logico che quelle zone che rimasero al margine delle grandi correnti economiche e sociali dell’antichità si mostrassero più refrattarie ad ammettere una ideologia e delle credenze proprie di un sostrato sociale del quale mancavano.

Questo coesistere fra il cristianesimo del Sud progredente e il paganesimo del Nord che retrocedeva ha trovato interessanti riflessi nella letteratura orale basca: nelle leggende i pagani o gentili (gentillak) si presentano come esseri con poteri eccezionali e talvolta malefici; anche non cessa di essere significativa la designazione che in alcune zone dei paesi baschi si impiega rispetto ai monumenti megalitici chiamandoli Jentilleche (casa dei gentili) ovvero Jentilarri (pietra dei gentili).

Poi arriverà la invasione-liberazione musulmana (non si spiega in altro modo la fulminea conquista di quasi tutta la penisola), che occupa Pamplona nel 732. Più tardi recupererà parzialmente la sua indipendenza, il che sarà il primo passo per la formazione del futuro regno di Navarra, mantenendosi però tributario per qualche tempo dei musulmani. Sarà l’invasione musulmana e la posteriore riconquista cristiana ciò che darà una fisionomia particolare al medioevo spagnolo che non rassomiglia ad alcun altro paese d’Europa. Così lo spiega Marx: «Nella formazione della monarchia spagnola si dettero circostanze particolarmente favorevoli per la limitazione del potere reale. Da un lato, durante il lungo scontro con gli arabi, la penisola andava riconquistata per piccole parti, che si costituivano in regni separati. Durante questa guerriglia si adottavano leggi e usi popolari (...) La lenta redenzione dal dominio arabo mediante una lotta tenace di circa ottocento anni dette alla penisola, una volta totalmente emancipata, un carattere molto differente da quello presentato dall’Europa di quel tempo» (Marx, New York Daily Tribune, 9 settembre 1854).

È in questo periodo che si affermano ed assurgono a future leggi le libertà locali, i fueros, norme di legge che nella Spagna medioevale hanno difeso i diritti e i privilegi concessi a città e a municipi, i quali hanno goduto di autonomia amministrativa, giuridica, fiscale e militare. Questi, insieme al sorgere di nuove unità statali – i diversi regni peninsulari unificati più tardi in una monarchia assoluta – e la decadenza delle città, condizioneranno il divenire storico non solo dei paesi baschi ma di tutta la Spagna. Come riconosce Marx, «Nella misura in cui declinava la vita commerciale e industriale delle città, si facevano più rari gli scambi interni e meno frequenti le relazioni fra gli abitanti delle diverse provincie, i mezzi di comunicazione trascurati e le strade reali rimasero gradualmente abbandonate. Così la vita locale in Spagna, l’indipendenza delle sue provincie e dei suoi municipi, la diversità della sua vita sociale, basata originariamente sulla configurazione fisica del paese e sviluppatasi storicamente in funzione delle diverse forme nelle quali le provincie si emancipavano dalla dominazione moresca e creavano piccole comunità indipendenti, si mantennero e accentuarono infine a causa della rivoluzione economica che prosciugò le fonti dell’attività nazionale».

Parallelo a questo processo di atomizzazione locale si dà quello della trasformazione del latino volgare in nuovi e dinamici dialetti romanzi, che nei paesi baschi, sorgendo in una zona di bilinguismo di difficile demarcazione, stringerà sempre di più il cerchio imposto al basco dal latino. Il romanzo diventa il veicolo del commercio, l’emblema linguistico dello sviluppo dei paesi e delle città, in tal modo che i commercianti e i nobili baschi presto cominciarono a dimenticarsi del basco, simbolo plebeo e volgare, e nelle corti di Navarra e di Castiglia si parla solo romanzo. Inoltre si utilizzerà la questione della lingua come discriminante sociale, giacché si richiederà il saper leggere e scrivere in romanzo per accedere agli uffici pubblici. Questo tipo di disposizioni comporterà un doppio ostacolo poiché i contadini poco erano in grado di parlare il romanzo e scrivere nemmeno nella madre lingua, con la qual cosa l’accesso agli incarichi pubblici restava riservato sempre alla classe dominante. Inoltre una chiara prova della perdita progressiva del carattere aperto che godevano le primitive istituzioni locali medioevali nel paese basco e nel resto della Spagna, lo rinveniamo nella instaurazione dell’eleggibilità in funzione del patrimonio. Così nella città di Azpeitia, in Guipùzcoa, la provincia di San Sebastiàn, alla fine del secolo XV risultavano eleggibili 300 residenti su un totale di 3.000. Nel secolo XVIII su 5.000 residenti erano eleggibili solo in 50.

In questo periodo medioevale il paese basco oscillerà fra l’una e l’altra delle grandi unità statali influenti sul territorio: Castiglia e Navarra. Ne saranno un riflesso le guerre di fazioni che rappresenteranno qualcosa di più di una contesa fra clan di principi, come quelle che dividevano altre zone della Spagna o dell’Europa. L’aiuto prestato dal potere reale di Castiglia alle città per contrastare l’influenza dei nobili si manifesterà nella istituzione degli Hermandades (affratellamenti), che nelle provincie basche saranno uno strumento di prim’ordine per porre freno all’arbitrio signorile. La corona favorirà anche la fondazione di città con regime speciale e non tarderà a sorgere una rivalità fra queste città che vantavano protezione reale e le anteiglesias, città minori, alleate ai jaunchos, signori locali. In questo scontro si troverà uno delle motivazioni, nelle provincie basche, delle guerre carliste del secolo XIX.

Smentendo l’argomentare dei nazionalisti, è certo che dall’unione alla Castiglia beneficiarono enormemente il commercio in generale e le classi dominanti in particolare delle province basche. Il mantenimento dei fueros locali e provinciali dette alle principali città e villaggi uno strumento notevole per originare una primitiva accumulazione di capitale, che le trasformerà poi in una delle zone economiche più potenti della Spagna, sebbene mai si poterono redimere dal carattere arretrato che presentavano di fronte allo sviluppo di altre città europee. Così, mentre in Castiglia la sollevazione delle città (la Guerra delle Comunità del 1521) contro l’assolutismo ebbe come risultato la riduzione considerevole della portata economica dei fueros, ponendo le basi per una ignominiosa decadenza economica e sociale, le provincie basche trovarono nel mantenimento del regime forale un fattore di crescita economica di prim’ordine. Solo più tardi, con il sorgere di nuovi rapporti produttivi capitalistici, questo regime forale si trasformerà in un ostacolo per lo sviluppo economico e sociale.

Lo studio del contenuto dei fueros pone in evidenza i grandi vantaggi economici che offrivano alle provincie basche. Di fatto la loro strutturazione non subisce significative modifiche durante tutta la vigenza del regime feudale, i fueros con esso sorgono e con esso muoiono, all’avvento del moderno regime capitalista. Questi i vantaggi del regime forale, senza dimenticare il suo ambito ristretto e la sua incompatibilità con un mercato unico nazionale moderno. Alla libertà di commercio, con barriere doganali e ai dazi interni ed esenzioni doganali nei confronti dell’esterno, si aggiungeva una minore pressione fiscale. Anche notevoli le garanzie personali: l’instaurazione dell’habeas corpus, la proibizione della confisca dei beni dell’accusato. I beni sono non sequestrabili per debito che non provenga da delitto. Proibizione della tortura agli arrestati, salvo eresia, lesa maestà, falsificazione di moneta e sodomia. Regime militare speciale: esenzione del servizio militare in tempo di guerra, così mantenendo una massa di giovani intatta, in un periodo di guerre permanenti, per prevenire invasioni dalla Francia...

Sarà la soppressione di questo regime forale, ormai incompatibile con le necessità del moderno capitalismo, benché ancora assai vantaggioso per una parte delle classi dominanti basche (la borghesia rurale o jaunchos) ciò che provocherà uno scontro armato, che non sarà uno scontro nazionale, come presenta la storiografia di fede nazionalista, ma uno scontro sociale, di classi con interessi economici opposti.
 

Le Guerre Carliste e la fine del regime forale

Come detto i paesi baschi sono una regione nelle quale modernità ed arcaismo hanno coesistito da tempi remoti. Mentre che da un lato incontriamo uno sviluppo considerevole in certi rami dell’industria (ferriere famose in tutta la Spagna fin dai secoli XV e XVI e industrie navali), per altro incontriamo una struttura agraria di marcato arcaismo, questo soprattutto nelle zone montagnose che rendono impossibile l’adozione nella stessa misura dei progressi tecnici propri delle grandi estensioni agricole pianeggianti.

Saranno alcune città principali quelle che, sotto la protezione dello speciale regime reale e forale, cominciarono a distaccarsi economicamente sulle altre. Fra queste Bilbao e San Sebastiàn (Donostria in basco). Di qui l’odio costante per secoli dei jaunchos e delle anteiglesias contro queste città. Precedenti di questi conflitti, anche alle guerre carliste, appaiono nelle machinadas del secolo XVIII. È durante questo secolo che va montando un malessere in alcuni settori sociali baschi, quelli che restavano esclusi dai grandi traffici oltremare o che si vedevano particolarmente colpiti da alcune misure adottate durante il regno di Carlo III (spostamento delle dogane e aumento della pressione fiscale). Un fattore importante degno di esser tenuto in considerazione e che aiuta a comprendere lo stato d’animo di un settore della classe dominante rurale (jaunchos) in quel periodo, è il crollo delle esportazioni di prodotti di ferro a seguito della concorrenza internazionale, soprattutto svedese. Fin dal medioevo questi jaunchos erano proprietari di gran parte delle ferriere basche, difensori del mantenimento del regime forale che concedeva un regime molto favorevole nei confronti del loro mercato naturale, lo spagnolo. La soppressione del regime forale da parte del liberalismo borghese spingerà la jauncherìa sul piede di guerra.

Ugualmente il contadiname, non solo basco ma anche di altre parti della Spagna, si solleverà contro il liberalismo, però per ragioni molto diverse da quelle del moderno proletariato. Le misure desamortizadoras, di esproprio delle terre della Chiesa e comunali, non basteranno a soddisfare la fame di terra dei contadini poveri spagnoli, (per questo sarebbe stata necessaria una Grande Rivoluzione, ma la Spagna non era la Francia), e la grande quantità di terre offerte sul mercato finirono nella maggior parte a coloro che possedevano il denaro necessario per comprarle, cioè alla borghesia e ai grandi proprietari, che peggiorarono la situazione degli affittuari aumentando le rendite. Insieme alle terre ecclesiastiche furono espropriati molti terreni comunali, che contribuivano a fare più sopportabile l’aspra e miserabile vita del contadino. Non fu certo escluso il paese basco dal rivoluzionamento borghese dei rapporti di produzione. I contadini poveri, vera carne da cannone delle pretese reazionarie del carlismo, videro in esso l’unica possibilità di ritorno ad una precaria stabilità che il liberalismo nella sua versione ispanica loro negava. Una seri di misure di tipo fiscale ed economico imposte dai governi liberali costituirono in realtà il miglior reclutatore per la causa carlista. La borghesia e le città si confrontavano di fronte alla questione agraria, e questo scontro portava con sé la sconfitta della borghesia liberale spagnola per aver lasciato che gli interessi della maggioranza dei contadini di legassero al movimento delle città. Così riconosce Marx, citando il per niente sospetto di rivoluzionarismo generale Morillo: «se le Cortes (del 1820-23) avessero approvato la legge dei diritti signorili e spogliato così le grandi proprietà rurali a favore delle moltitudini, il duca (di Angulema, che diresse la spedizione assolutista dei Cemtomila figli di San Luigi) si sarebbe scontrato con minacciosi eserciti, nutriti di forze patriottiche che si sarebbero organizzati spontaneamente, come successe in Francia in circostanze analoghe» (La Spagna Rivoluzionaria, 21 novembre 1854).

Dallo stesso testo estraiamo quest’altra citazione che Marx riproduce dal libro Guerra Civile in Spagna scritto dal generale San Miguel nel 1836: «I numerosi decreti delle Cortes avviati a migliorare la situazione materiale del popolo non potranno dare risultati immediati con quella rapidità che richiederebbero le circostanze. Né la riduzione delle decime alla metà né la vendita degli appezzamenti dei monasteri contribuiranno a migliorare la situazione materiale delle classi agrarie inferiori. L’ultima misura, al contrario, porre la terra dalle mani degli indulgenti frati in quelle dei calcolatori capitalisti, peggiorò la situazione dei vecchi affittuari, a seguito dell’aumento delle rendite, con il che la superstizione di questa numerosa classe, instigata già per l’alienazione dei beni della Chiesa, trovò ulteriore alimento per l’impatto degli interessi materiali offesi»

In questo modo, nel 1833, lo scontro politico fra le due forme sociali si traduce in scontro militare, iniziando così la cosiddetta Prima Guerra Carlista alla morte di Ferdinando VII, quel re che «non si preoccupava di giurare il falso, poiché disponeva sempre di un confessore pronto a concedere la piena assoluzione di tutti i peccati possibili» (Marx). Però in Spagna la rivoluzione borghese porterà, paradossalmente, il marchio monarchico. Così Marx spiega questa parodia: «A seguito delle tradizioni spagnole, è poco probabile che il partito rivoluzionario trionfi per aver abbattuta la monarchia. Fra gli spagnoli, per vincere, la loro rivoluzione dovette presentarsi come pretendente al trono. La lotta fra i due regimi sociali dovette prendere la forma di lotta per interessi dinastici opposti. La Spagna del secolo XIX fece la sua rivoluzione con leggerezza, quando avrebbe potuto darle la forma delle guerre civili del secolo XIV. Fu precisamente Fernando VII che propose al partito rivoluzionario e alla rivoluzione un motto monarchico, il nome di Isabella, mentre legava la controrivoluzione a suo fratello Don Carlos, il Don Chisciotte degli autos de fe». Da qui il nome di carlisti per indicare i partigiani della reazione antiliberale e clericale, e di isabalinos per indicare i liberali, che in un primo momento ricevettero il nome di cristinos in riferimento alla reggente Maria Cristina.

Nei paesi baschi lo scoppio della Prima Guerra Carlista fu il prodotto della contesa, montata da tempo, fra Bilbao, San Sebastiàn, Pamplona, Vitoria, ecc. da un lato, contro le città minori e i villaggi. Donostria svolgeva nel Guipùzcoa il ruolo che Bilbao copriva nella Vizcaya (il suo entroterra): «San Sebastiàn vive per quasi un secolo in aperta lotta con il resto della provincia. La Guipùzcoa era principalmente agricola. San Sebastiàn principalmente marittima e commerciale. Gli elementi dirigenti di San Sebastiàn avevano fatto la loro fortuna con l’esercizio del commercio. I maggiorenti della Guipùzcoa erano i grandi proprietari fondiari della provincia, intestatari dei grossi patrimoni ereditari. Gli abitanti di San Sebastiàn erano fornitori. Quelli del Guipùzcoa consumatori. San Sebastiàn richiedeva la dogana fosse alla frontiera, come lo era stata durante il triennio costituzionale (1820-23). La Guipùzcoa la voleva all’Ebro e il transito libero con la Francia. San Sebastiàn necessitava dell’unificazione politica. La Guipùzcoa si aggrappava alle istituzioni autonome. San Sebastiàn era protezionista. La Guipùzcoa liberoscambista. San Sebastiàn liberale e progressista. La Guipùzcoa assolutista» (José Mùgica, Carlistas, Moderados y Progresistas).

Alcuni documenti dell’epoca mostrano chiaramente il carattere borghese e commerciale delle grandi città basche e il loro contrasto con il mondo rurale mentre danno una certa spiegazione della primitiva accumulazione di capitale che si realizzò nel paese. Così la Memoria giustificativa di ciò che espone e richiede la città di San Sebastiàn per favorire l’industria e il commercio in Guipùzcoa, redatta nel 1832, precisamente in un periodo di contrazione commerciale dovuto alla perdita delle colonie americane, avendo esaminati i titoli di proprietà osserva che «le spese per la prima acquisizione si finanziarono o con un imprenditore ferraio, o con un commerciante stabilitosi in America, o con un navigatore, che in quanto armatore, capitano, generale, governatore di qualche Isola o Provincia, fece un suo capitolo che riportò al paese, o con un prelato o chierico che dovette forse la sua carriera, se non la sua Dignità, alle misure e ai servizi dei suoi parenti impiegati nella navigazione o nel commercio o talvolta a qualcuno degli impiegati nei domini immensi della corona di Castiglia, che non ha considerato come forestieri i naturali di questo paese ma come fratelli degli altri spagnoli. Abbiamo esaminati sufficienti titoli di questi e abbiamo trovato che loro origine è sempre in alcuni di quelli che abbiamo indicato e non ne abbiamo visto alcuno per il quale i benefici dell’agricoltura abbiano fornito i fondi per una acquisizione di importanza o per una delle opere pubbliche, costruzioni e fabbriche notevoli». Questo testo, redatto all’indomani della Prima Guerra Carlista, pone in evidenza, inoltre, il timore della borghesia basca a trovarsi isolata davanti all’ostilità, sempre più manifesta, del mondo rurale circostante, pienamente cosciente che il suo destino era legato a quello del resto della Spagna liberale e borghese.

Però la Memoria anche riconosce il risentimento antiforale esistente: «Il fatto è che non si ha né può aversi commercio né industria allo stato attuale delle cose; che senza commercio non può esistere questa Città; che l’unico mezzo per ottenere questa sopravvivenza è acconsentire ad un mutamento amministrativo, e allora la vera questione è la seguente: ha da mantenersi il sistema presente che distrugge il commercio rendendo impossibile di fatto il suo esercizio, o ha da consentirsi un mutamento delle dogane che lasci libera la facoltà di commerciare? ha da sacrificarsi l’esistenza della classe commerciale e industriale alla conservazione delle pratiche del paese, o deve sacrificarsi alcuna di quelle pratiche alla conservazione dei commerci e delle industrie?».

Bilbao e San Sebastiàn, per la loro grande influenza economica, furono fin dall’inizio della Prima Guerra Carlista un obbiettivo primario: fu a Bilbao che il genio militare del generale carlista Zumalacàrregui crollò di fronte alla ben difesa capitale liberale, al cui assedio, nel 1835, perderà la vita, e il carlismo il suo massimo stratega. L’assedio e la resistenza di Bilbao rivestono un contenuto simbolico di prim’ordine, che illustra perfettamente il crollo di un vecchio mondo che si sfalda davanti alla solidità inevitabile delle nuove relazioni produttive.

La guerra continuerà con qualche altro episodio di fugace pericolo per la capitale del regno, Madrid, che nel 1837 ebbe i carlisti alle porte. Per quanto riguarda il paese basco, nel 1839 l’Accordo di Verdara fungerà da formula di compromesso nell’accettare il mantenimento di una parte del regime forale in Navarra e nel paese basco. A questo si opporrà la borghesia di San Sebastiàn, poiché non vi si dava vera soluzione al problema delle dogane né si contrastava il grande peso politico dei jaunchos nelle giunte della provincia. Bilbao si mostrerà più incline ad accettare il patto poiché mancava della vicinanza di una frontiera terrestre; inoltre il fatto di aver sofferto un durissimo assedio, che aveva influito molto negativamente sulla sua economia, la predisponeva al compromesso davanti al pericolo, in realtà più infondato che reale, di una nuova guerra contro la jauncheria e una massa contadina ostile. In realtà lo spirito dell’Accordo de Vergara era di attaccare a fondo la struttura del regime forale, mantenendo una facciata di conservazione del medesimo per far tacere i sospetti della massa sociale del carlismo. Per questo la borghesia liberale non si pronunciò esplicitamente contro i fueros, però di fatto lo fu privando progressivamente di contenuto o sopprimendo una serie di disposizioni forali importanti ma anacronistiche in un ambiente sociale ed economico ogni giorno più capitalistico. Così con il servizio militare, che si fece obbligatorio come nel resto della Spagna; le imposte, che riconsiderarono i privilegi fiscali baschi; la deroga da alcuni diritti cittadini incompatibili con una costituzione borghese (secondo la legge forale solo i nobili ricchi potevano essere eletti a cariche pubbliche); soppressione dei diritti di passo (una protezione contro gli abusi del potere centrale, chiara reminiscenza medioevale che urtava contro il centralismo, necessario per il regime borghese); l’applicazione del regime giudiziario spagnolo; lo spostamento delle dogane portandole finalmente alla frontiera con la Francia.

La incompatibilità del sistema forale con le necessità del mercato nazionale e internazionale era, poi, manifesta. Ciononostante occorreranno più di tre decenni perché il sistema forale fosse definitivamente liquidato nel 1876, fra la fine della Seconda e l’ultima Guerra Carlista.

Nel frattempo la particolare rivoluzione borghese spagnola proseguiva il suo tardo cammino. Già abbiamo visto come spiegava Marx il carattere dinastico del liberalismo spagnolo: «Sotto tali bandiere si levò la lotta dal 1831 fino al 1843. Si ebbe un finale di rivoluzione, e la nuova dinastia si permise di provare le sue forze dal 1843 fino al 1854. In questo modo la rivoluzione di luglio 1854 portava in sé necessariamente un attacco alla nuova dinastia; però la innocente Isabella restava protetta grazie all’odio concentrato contro sua madre; e il popolo festeggiava non solo la sua propria emancipazione ma l’emancipazione di Isabella, liberata da sua madre e dalla camarilla» (Marx, New York Daily Tribune, 18 agosto 1856). Però presto di dimostrò quali interessi difendeva realmente Isabella II e le classi sociali che appoggiavano il suo mandato: «Nel 1856 il velo sarebbe caduto e fu la stessa Isabella ad affrontare il popolo con il colpo di Stato che scatenerà la rivoluzione. Con la sua fredda crudeltà e la sua vile ipocrisia si mostrò degna figlia di Ferdinando VII il quale era tanto dedito a mentire che, nonostante il suo filisteismo, mai si poté convincere, nemmeno con l’aiuto della Santa Inquisizione, che personaggi tanto eminenti come Gesù Cristo e i suoi apostoli avessero detto la verità». Marx espone anche il ruolo svolto dall’esercito come strumento della borghesia liberale, un esercito che nel 1856 già aveva esaurito la sua missione rivoluzionaria. Da qui la conclusione di Marx: «La prossima rivoluzione europea troverà una Spagna matura per collaborare con lei. Gli anni dal 1854 al 1856 sono stati una fase di transizione che si doveva attraversare per arrivare a questa maturità». Parallelamente a questo la trasformazione dell’arcaica struttura economica spagnola incominciava ad spiegare le vele ed il Paese basco non poteva sottrarsi al ritmo generale. I conflitti che sollevava la coesistenza del regime forale con le necessità del moderno capitalismo trovarono il loro riflesso in parlamento. Gli jaunchos, che non avevano perso lo loro rappresentatività, come prova il fatto che andavano conservando gran parte della loro influenza economica e politica, accostandosi alla ideologia del fuerismo, facevano appelli contro una serie di disposizioni che, secondo loro, attentava agli interessi baschi. Una di esse fu la legge sull’istruzione pubblica del ministro Claudio Mollano, che imponeva un insegnamento unificato. Gli jaunchos esigevano che fossero le Deputazioni (controllate da loro) a nominare i maestri. L’intento era ovvio: si trattava di maneggiare un’arma ideologica di prima grandezza, la scuola, per porla al servizio di alcuni interessi di classe ben definiti e in questo modo contrapporla all’avanzare delle nuove e perniciose idee. I timori dei jaunchos, che in questo senso erano quelli della borghesia spagnola ed europea, erano fondati, perché uno spettro realmente percorreva l’Europa: «Vedi sorgere all’orizzonte, dalla parte di mezzogiorno, uno spettro sanguinoso e mostruoso? Ebbene questo spettro è la Rivoluzione con i suoi ornamenti di socialismo, del quale abbiamo visto già oggi alcuni frutti. Se questo spettro giunge a prender corpo, se questo spettro avanza, siate sicuri che la Regina, gli uomini dabbene, la società che vorrebbero distruggere troveranno uno dei centri di resistenza nelle Provincie basche» (Discorso del deputato fuerista Barrota Aldamar nel 1864).

Ciononostante alcuni aspetti del modernismo saranno ben visti dalla jauncheria. È il caso della costruzione delle ferrovie nelle provincie basche. Nel 1846 e nel 1849 si ebbero sollevazioni carliste in Catalogna e a Valencia (i matiniers) che non suscitarono alcun entusiasmo nei paesi baschi e nella Navarra. La concessione per la ferrovia nella Vizcaya è del 1845. Nel 1860 si ha una insurrezione carlista in San Carlos de la Ràpita, in Andalusia, diretta dallo stesso pretendente Carlo VI in carne ed ossa. Questo sollevamento, che rovinò precipitosamente, non fu secondato nemmeno in piccola parte dei suoi correligionari baschi e navarresi. A seguito della concessione nel 1860 era in piena costruzione la linea ferroviaria Madrid-Irùn. La complicità dei carlisti del Nord con il governo liberale non deve stupire poiché i vantaggi economici che la ferrovia portava con sé non erano da disdegnare nemmeno dai più refrattari al progresso. Bisogna in qualche modo domandarsi quale era la forza sociale dei jaunchos per poter trascinare a proprio beneficio ingenti masse contadine. La risposta si trova nelle relazioni di tipo cacicco, fenomeno che si dava per tutta la Spagna però acutizzato a causa dei fueros nei paesi baschi. Il jauncho o cacicco, era l’influente proprietario terriero, e le sue relazioni con i suoi conterranei erano quelle di ogni proprietario con i suoi affittuari. «Se analizziamo una serie di contratti di affitto della metà del secolo XVIII nella zona di Azpeitia, si nota subito che gli inquilini dei casolari erano sottomessi a condizioni che ricordano in molto le corvée. L’inquilino di un casolare qualunque del maggiorasco di Loyola cominciava a pagare le decime al patrono della Chiesa (che era lo stesso signore di Loyola) e una quantità fissa in natura che gravava sulla produzione; inoltre, poi, doveva lavorare per il signore, facendogli il carbone, vigilando sui vivai, piantando alberi o portandogli la metà delle mele dell’anno nella piazza che lui o il suo amministratore gli indicavano». (Alfonso del Otazu y Llana, El igualitarismo vasco: mito y realidad).

C’è un’altra versione interessatamente decaffeinata delle relazioni fra proprietari e affittuari, che ci presenta un panorama idilliaco dove le crude relazioni economiche sono sostituite da un irreale paternalismo: «Qui il proprietario, lungi da essere un tiranno del colono, ne è il protettore, amico, padre (...) Il fazzoletto che raccoglie le lacrime dell’inquilino è sempre il proprietario (sic) che l’aiuta nelle sue necessità, lo consiglia e visita quando è malato, lo difende quando viene offeso (da chi?) e lo consiglia quando ha necessità di consiglio» (Antonio de Trueba, Organizaciòn Social de Vizcaya en la primera mitad del siglo XIX, Bilbao 1870). Evidentemente questo non è che un modo assai grossolano di dissimulare lo sfruttamento economico del colono da parte del proprietario, il che costituisce la ragione d’essere di questo negozio in ogni luogo della Terra.

Alla situazione di oppressione da parte dei jaunchos, che pativano gran parte degli affittuari e piccoli contadini proprietari baschi, si aggiunse il terremoto sociale provocato dalla perdita dei terreni comunali e gli effetti della grande industria capitalista sopra la fragile struttura dell’industria rurale. Sicuramente fu facile per i signori locali sviare la tensione sociale, con l’aiuto dei preti, verso il nemico liberale, in un processo che ricorda, in un certo modo, la Vandée durante la Grande Rivoluzione Francese. Fu in questa occasione che la conservazione della lingua basca si mostrò come un fattore politico utilizzabile, dato che i jaunchos e i preti si rivolgevano alla massa contadina nella loro lingua, l’unica che intendevano. La capacità di pressione economica dei proprietari, in un periodo nel quale l’aumento della popolazione faceva scarseggiare case e terra, e la incapacità della borghesia liberale a legare i suoi interessi a quelli dei contadini, fece in modo che il carlismo e le classi che lo sostenevano potessero contare su di una massa contadina disposta a tutto nella difesa del sistema forale tradizionale, che almeno garantiva loro un’esistenza misera ma sicura.

Le minacce costanti da parte del regime forale e delle classi da esso beneficiate si concretizzarono, dopo la Rivoluzione del 1868 e l’accesso al trono spagnolo di Amedeo di Savoia, nella Seconda Guerra Carlista, che continuò dopo l’abdicazione del Savoia, il «primo re scioperante», come ironizzava Engels. In essa vediamo un ripetersi del dramma sociale che aveva avuto luogo trenta anni prima, benché in questa occasione si avesse maggior partecipazione dalla parte carlista di settori della piccola borghesia rovinata. Le capitali basche di Pamplona, come nel 1834, si mantennero liberali, mentre che il resto del territorio appoggiò in massa il carlismo. Miguel de Unamuno, di Bilbao, rifletterà nel suo magistrale Pace nella guerra la polarizzazione della società basca in questo periodo, rifrangendosi gli interessi delle classi nelle vicende di due famiglie, gli Arana, liberali, e gli Iturriondo, carlisti. I fondamenti ideologici di questi ultimi sono bene espressi: «Cosa sperare quando la società rovina, la minaccia il caos e si avvicinano le acque del diluvio; quando si vede la religione dei padri oppressa, la patria oltraggiata, la monarchia legittima vilipesa e minacciata la proprietà; quando si lamenta il sacerdote mendicando di che vivere, geme la Vergine del Signore e i padroni dei negri di Porto Rico sono minacciati nei loro interessi? Vincere o morire!». Tale era lo stato d’animo che muoveva le masse carliste, e che produsse l’apparizione di fenomeni di atavico fanatismo criminale, come le bande guerrigliere del prete Santa Cruz, che in realtà non furono che l’espressione disperata di un regime condannato dalla storia a sparire.

Le guerre carliste furono liquidate definitivamente nel 1876 e a partire da questo periodo, una volta soppressi gli ostacoli forali all’industrializzazione, la grande accumulazione di capitale realizzata dalla borghesia basca si proietta in uno sviluppo vertiginoso dell’attività industriale e commerciale. Esso presupporrà il trionfo definitivo del mondo moderno e mercantile sopra una società rurale tradizionale e l’apparizione di nuovo conflitto di classe e delle sue espressioni politiche.
 

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IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO NEI PAESI DEL MAGHEREB
UNA FUORVIANTE PROSPETTIVA PER IL PROLETARIATO

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LA CRISI ECONOMICA DELL’ALGERIA
 

L’Algeria fa il suo ingresso sotto la dominazione coloniale capitalista nel 1830 quando, con lo sbarco e la presa di Algeri, iniziò l’occupazione francese, divenuta definitiva nel 1847. Per le operazioni militari in profondità la Francia utilizzò per la prima volta il corpo della Legione Straniera appositamente creato nel 1831 reclutando emigrati, disertori e avventurieri di ogni risma per le sue imprese coloniali.

I briganti del capitalismo francese sconfiggono, e si sostituiscono per civilizzarli, i regni barbareschi locali che per secoli avevano fatto della pirateria per mare e del commercio degli schiavi cristiani la loro più importante attività sovente in aperta concorrenza con le flotte olandesi ed inglesi, rendendo insicura la navigazione nel Mediterraneo.

In un nostro articolo, Fasti della colonizzazione francese in Algeria ("Programma Comunista", n. 12/1958), è riportato parte del cap. XXVII de L’accumulazione del Capitale della Luxemburg dove è ampiamente descritto il violento superamento di quelle forme persistenti tra le tribù arabo-cabiliche di comunismo primitivo che regolavano in comune lo sfruttamento, la ridistribuzione della terra e il godimento dei suoi prodotti secondo la grandezza delle famiglie e delle tribù, includendo perfino gli attrezzi, il vestiario e gli oggetti preziosi. Anche il nomadismo e le migrazioni stagionali erano organizzate su percorsi e zone di sosta prestabilite che tenevano in gran conto la sicurezza e un utilizzo equo delle risorse delle oasi.

La dominazione turca provocò una consistente demolizione di queste forme di comunismo primitivo con le confische di terra per il demanio statale ed all’inizio della dominazione francese la situazione era di 6,5 milioni di ettari (5 nelle zone costiere più 1,5 nel Sahara) come proprietà indivisa fra le tribù arabe contro 9 milioni di ettari sottoposti a diverso titolo: 1,5 come demanio turco, 3 di terreni incolti come proprietà comune di tutti i fedeli di Allah, 3 come proprietà privata dei Berberi dai tempi di Roma e 1,5 di proprietà turca acquistati a prezzo di favore dal demanio. Da queste cifre si ricava che il 42% delle terre e delle sue risorse era gestito secondo le persistenze dell’antica forma di produzione del comunismo primitivo contro il 58% condotto dall’insieme delle forme successive. Queste percentuali indicano in forma numerica anche l’intensità della spinta alla rapina delle terre comuni e demaniali del capitalismo francese.

La ricetta della civilizzazione studiata a Parigi si basava sulla progressiva e massiccia requisizione delle terre migliori e delle foreste a favore di compagnie francesi, l’imposizione di tributi onerosi, la rottura degli antichi legami tribali mediante l’imposizione accelerata della proprietà privata parcellare per i contadini, e il massiccio insediamento di coloni europei.

La «riforma agraria» del 1863/73 stabiliva che dei 700 territori delle tribù arabe, 400 dovevano essere divisi secondo tre livelli di proprietà; la singola tribù, i suoi rami o Cabile ed infine la parcella individuale. L’estensione variava secondo la grandezza della tribù: si andava da 1 a 4 ettari, per arrivare a 100 e perfino 180 ettari.

Alla stessa data 400.000 ettari appartenevano invece ai francesi, requisiti o espropriati a tariffe da occupazione, e fra questi 120.000 erano concentrati in due compagnie: la «Algerina» e la «Setif», che li davano semplicemente in affitto ai nativi i quali continuavano a coltivarli secondo gli antichi sistemi ma ostacolati dai nuovi rapporti sociali.

Gli investimenti di capitale nella terra per una «agricoltura razionale» rimasero sulla carta a Parigi; in realtà ci si voleva solo appropriare della terra, dei suoi prodotti e dei ricavi dell’usura.

Il capitalismo inglese distruggendo con il suo sfruttamento coloniale le antiche forme di produzione procurò in India nel 1866 una tremenda carestia e, per le stesse cause, una decina d’anni dopo quello francese in Algeria ne provocò una analoga con una mortalità impressionante. La causa di tale disastro fu attribuita da Parigi alla ancor scarsa diffusione della proprietà privata nella nuova colonia che avrebbe permesso agli algerini, tramite un maggior lavoro o l’accensione di ipoteche o alla fine la vendita dell’appezzamento, la formazione di garanzie contro future carestie per cui il processo di frantumazione delle antiche regole tribali fu intensificato con il risultato che iniziarono le prime massicce emigrazioni verso la Turchia asiatica di quanti erano stati espropriati dalle proprietà comuni prima e parcellari poi.

La penetrazione economica e demografica che seguì fu così intensa che nel 1906 nella Francia d’Oltremare, granaio del paese, i coloni europei erano il 13% dell’intera popolazione e nel 1947, due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Algeria per l’importanza delle sue risorse alimentari, energetiche e strategiche è dichiarata territorio metropolitano francese.

La rivoluzione anticoloniale, genera anche in questo paese nordafricano una lotta durissima a partire dal 1954.

Nel 1962 l’Algeria diviene indipendente dopo 8 anni di scontri e rappresaglie feroci che contrapposero 160.000 militanti dell’FLN contro 550.000 militari francesi particolarmente addestrati con durezza tant’è che, come riportammo in un nostro articolo, Stalinismo ed Algeria ("Programma Comunista", 21-1958), «a Rouen 600 richiamati si rifiutano di lasciare la caserma per non farsi spedire in Algeria, un sindaco «comunista» (quello di Petit Quevilly) si incarica di arringare i rivoltosi, col risultato che, malgrado qualche incidente fra polizia e operai di guardia alla caserma, alle 2 del mattino i soldati possono finalmente partire in autocarri speciali. Ci voleva un «rappresentante del proletariato» per ottenere quello che ai poliziotti non riusciva».

Per scontri armati, rappresaglie, torture, deportazioni ed emigrazioni forzate vi fu un consistente calo demografico, intorno al 10% della popolazione, che nel 1962 si ridusse a 10 milioni di abitanti considerando anche il ritiro dei militari e dei civili francesi rimasti che fu rapido durante il 1963, tranne per la base navale di Mers el-Kebir e per i centri atomici nel Sahara.

Sotto il nuovo governo nazionalista partono le prime riforme economiche definite in modo menzognero di tipo socialista cioè: nazionalizzazione della terra e successivamente delle compagnie petrolifere americane e delle industrie francesi. Proprietà privata, rendita fondiaria e finanziaria, banche, scambi in moneta sonante, specialmente se di valute pregiate, rimangono al loro posto come ben si conviene in ogni economia capitalista anche se giovane e se alcuni settori produttivi portanti e dei servizi sociali sono sotto il diretto controllo statale.

Il risultato della politica algerina in questi ultimi trent’anni può essere facilmente riassunto in queste righe tratte dall’articolo Verso un’economia di guerra ("Le Monde Diplomatique", agosto 1992): «L’Algeria ha, in effetti, ereditato dal vecchio sistema coloniale una specializzazione economica fondata sull’esportazione di prodotti primari per lo scambio con beni manufatturieri. Nel 1964, per esempio (due anni dopo l’indipendenza), materie prime e prodotti agricoli rappresentavano il 98,5% delle esportazioni totali. Le sole materie prime costituivano, alla stessa data, il 59,4% delle esportazioni, e la parte degli idrocarburi, nelle materie prime, erano il 90,6% (...) Dal lato delle importazioni, la parte dei prodotti manufatturieri (impianti e consumi) arrivava, sempre nel 1964, al 76% delle importazioni; e tra questi prodotti manufatturieri, i beni di consumo rappresentavano da soli il 60,5% del totale.

Trent’anni dopo, l’economia continua a basarsi sull’esportazione di sole materie prime, ridotte praticamente agli idrocarburi e all’importazione massiccia (...) di prodotti alimentari. Nel 1989, la parte degli idrocarburi nel totale delle esportazioni raggiunse il 96% (contro il 12% nel 1961) mentre la parte dei prodotti alimentari e manifatturieri sul totale delle importazioni raggiunse, nel medesimo anno il 91% (contro il 94% nel 1961).

In questo periodo l’Algeria è diventata un paese praticamente mono-esportatore ed il programma di industrializzazione a tappe forzate degli anni 1965-79, basato sull’elevato costo del petrolio che nel 1979 veniva pagato 40 dollari al barile e sull’alto tasso di scambio della moneta americana, comprendeva progetti molto spesso improvvisati e mal dimensionati. Con la successiva caduta della quotazione del greggio e del dollaro si è aggravata la situazione e l’economia algerina si è legata più rigidamente a quella dei paesi europei coi quali realizza il 75% dei suoi scambi».

Scrivevamo nel dicembre 1988: «Questo improvviso impoverimento costringe l’Algeria a rivedere il proprio modello di sviluppo tutto basato su alcuni grandiosi poli industriali che dovevano strappare il paese al sottosviluppo.

Tutto il parco industriale – siderurgia, raffinerie, cementifici, costruzioni meccaniche – tutto, beninteso, comprato all’estero e spesso a credito si rivela ben presto poco remunerativo, considerando anche i costi di gestione e di funzionamento dal momento che queste fabbriche dipendono dall’importazione continua di pezzi di ricambio, tecnici in grado di farle funzionare, ecc.».

Il risultato fu che i costi di questo processo di accumulazione accelerata furono sopportati pesantemente dai proletari algerini; è cresciuto il ferro ma è diminuito il pane!

Gli accordi e i protocolli addizionali con vincoli protezionistici siglati con la CEE dal 1976 all’88 riducono il paese a semplice fornitore di idrocarburi a flussi regolari a prezzi stabiliti. Inoltre volendo tenere forzatamente il paese maghrebino nel ruolo di sbocco per i prodotti agro-alimentari e industriali europei si attua il dumping (vendita sotto costo) a prezzi cosi bassi da scoraggiare soprattutto la temutissima concorrenza americana.

All’interno di questi accordi la Francia vanta prezzi di favore e clausole di salvaguardia volendo in particolar modo favorire l’impiego dei salariati francesi e i redditi dei suoi agricoltori ai quali distribuisce incentivi per l’esportazione ed agevolazioni di ogni sorta.

L’operazione di strangolamento dell’economia algerina e l’immiserimento progressivo delle masse più povere è completato dal fatto che tutti gli aiuti economici della CEE sono diretti esclusivamente al sostegno dell’export-import e molto raramente allo sviluppo degli insediamenti produttivi.

Inoltre la pratica della concorrenza sleale del dumping ed il conseguente fallimento della riforma agraria del 1973 ha accelerato la fuga in massa dalle campagne e fatto crollare la produzione locale.

La particolare attenzione della CEE nei confronti dell’ Algeria risiede nel fatto che un eventuale conflitto di lunga durata nell’area del canale di Suez e l’instabilità delle forniture di gas dalla Russia rende il paese maghrebino essenziale per la continuità dei rifornimenti di idrocarburi. La svendita delle eccedenze europee di prodotti agricoli, oltre ad alleggerire ammassi e magazzini nazionali e comunitari, e qualche programma di cooperazione risultano essere buoni investimenti «a buon rendere».

La crisi capitalistica avanza e divora quel che resta del sistema economico algerino; nel 1988 si autorizzano le imprese pubbliche, le vecchie società di Stato, a costituire società miste con partners stranieri; l’anno successivo è tolto ogni tipo di vincolo.

Nell’aprile 1990 una legge sul credito ha perfezionato l’apertura totale, o meglio la capitolazione, ai capitali stranieri che possono operare direttamente senza il vincolo del 51% del controllo algerino potendo riesportare liberamente prodotti, capitali e profitti e aprire proprie banche.

Successivamente si autorizzano grossisti e concessionari stranieri ad importare e vendere direttamente in Algeria cancellando cosi il monopolio statale sul commercio esterno.

Il 30 novembre 1991 una legge sugli idrocarburi autorizza società estere a partecipare fino alla quota del 49% allo sfruttamento dei giacimenti in funzione ed alla esplorazione di nuovi nell’area di Hassi Messaoud mediante il pagamento di un «ticket d’ingresso» che Algeri valuta complessivamente di qualche miliardo di dollari. In questo modo si pensa di porre rimedio al «mancato guadagno» di 40 miliardi di dollari dovuto all’abbandono dei programmi di valorizzazione del gas naturale voluto dal presidente Chadli Benjedid; una quindicina di compagnie si fanno avanti e tra queste, con un’offerta di 600 milioni avanzata dalla Total, arrivano in Algeria due società petrolifere giapponesi.

Di fronte alla reale e più volte dichiarata impossibilità da parte algerina di pagare gli interessi dei debitori con l’estero il FMI presenta la solita ricetta: compressione della domanda, in particolare per le importazioni, ed incremento delle esportazioni. E puntuale una legge il 20 giugno 1992 elimina le sovvenzioni statali per i beni di prima necessità sovente importati: in quell’anno i prodotti alimentari importati costituivano il 25% sul totale delle importazioni; soltanto la semola, il latte e la farina beneficiano ancora di un aiuto parziale.

Ma la vastità della crisi algerina è tale che il programma di «economia di guerra» lanciata dal primo ministro Belaid Abdesslam appena eletto, nel giugno ’92, cioè «tirare la cinghia per almeno tre anni ed accontentarsi dopo aver pagato la quota dei debiti di 3 o 4 miliardi di dollari l’anno», è comunque insufficiente.

Nel febbraio 1994 da Algeri parte un ulteriore avviso di insolvenza nonostante gli sforzi imposti agli algerini che hanno permesso di restituire 32 miliardi, in 4 anni: la rata del primo trimestre ’94 è di 1,5 miliardi su un totale annuo di 9,3.

Nel frattempo, dopo un ulteriore cambiamento del primo ministro, il debito estero è salito a 26 miliardi di dollari e il pagamento delle rate assorbe 1’80% delle esportazioni; quello che rimane non arriva a 2 miliardi cioè la metà di quanto preventivato: in queste condizioni non è possibile alcun investimento e la sorte di oltre 400 imprese che necessitano di capitali per ammodernare gli impianti è avviata sulla strada della chiusura.

Mediamente le fabbriche lavorano al 50% delle loro potenzialità, la disoccupazione sale al 20% della popolazione attiva, l’inflazione galoppa al 30% annuo, il prezzo del petrolio scende a 16 dollari al barile mentre lo scambio franco francese/dinaro che ufficialmente è di 1 a 4, al mercato nero diventa 1 a 12.

La Francia, che con i suoi 30 miliardi di franchi vanta il 50% dei crediti, vuole gestire il risanamento economico proposto dal FMI tenendo conto del suo grande coinvolgimento mentre il Giappone che reclama il 25% dei crediti non accetta un riscaglionamento o l’annullamento di una quota parte dei debiti; l’Algeria dal canto suo spera in una cancellazione di 6 miliardi di dollari di debito pubblico contratto con la CEE come «contributo alla sicurezza energetica dei Dodici».

La soluzione imposta dal FMI il 10 aprile ’94 è sempre sullo stesso tono: svalutazione del 40% del dinaro, riduzione dei posti di lavoro ovvero 200.000 licenziamenti, programma di riscaglionamento del debito e ulteriore cambiamento di primo ministro, ciò che avviene regolarmente il giorno dopo. La UGTA, Unione Generale dei Lavoratori Algerini, si fa sentire solo per smentire di aver dato il suo assenso preliminare al piano del FMI, ritenuto inevitabile sia dal ministro dell’economia Benachenou che dalla CAP, Confederazione Algerina del Padronato.

Dai resoconti della stampa non risulta che il sindacato, in seguito, abbia in qualche modo mobilitato i lavoratori, i disoccupati e le masse più deboli per una difesa pur minima delle già misere condizioni di vita algerine come invece aveva fatto nel 1988, suo malgrado, negli scioperi contro il blocco dei salari. Molto probabilmente la Ugta non ha più credito presso i lavoratori e gli spazi di manovra ora sono controllati dalle diverse organizzazioni fondamentaliste e paramilitari maggiori: FIS, GIA, MIA, gli squadroni della morte paramilitari OJAL e i gruppi armati della mafia algerina dedita al contrabbando di armi e di droga a cui in seguito si è attribuito l’assassinio del presidente Boudiaf.

Completiamo questa ricostruzione tramite i resoconti di "Le Monde Diplomatique" con i dati forniti dalle serie annuali del Calendario Atlante De Agostini e dai bollettini statistici ONU.

Nel decennio 1984/94 la popolazione algerina è cresciuta da 18 a 23 milioni più 1 milione di emigrati secondo le tabelle De Agostini; mentre le stime ONO (Gennaio 94) dall’83/92 indicano l’aumento da 20 a 26 milioni. Entrambe le fonti denunciano «censimenti e proiezione non regolari» (!) e comunque in un breve periodo la popolazione cresce di circa il 30% che equivale al 3% medio annuo che porta la densità da 7 a 9,6 abitanti per Kmq, che comunque dice poco visto l’enorme estensione delle aree desertiche; in particolare però la popolazione urbana dal 40% del 1980, salita a1 50% nell’87 è poi scesa nel 1990, per effetto della crisi, al 45%.

La popolazione attiva sale da 4,3 a 6 milioni e gli addetti all’agricoltura lentamente scendono al 23,8% del totale nel 1991.

Il censimento delle aree agricole, tanto caro agli agrimensori francesi del secolo scorso, rivela che i terreni incolti nell’84 erano 190 milioni di ettari pari al 79,8% del totale e nel 94 sono cresciuti all’81,7%. Gli arativi e colture arboricole (7,5 milioni di ha) sono cresciuti dal 3,1% al 3,2%: un misero incremento di 94.000 ettari in dieci anni forse grazie ai tanto strombazzati progetti di cooperazione. I prati e i pascoli permanenti sono scesi dal 15,1% al 13,1% per un totale di 31 milioni di ettari. Le foreste e boschi (4,7 milioni ha) crescono dall’ 1,8% al 2,0%.

In sintesi crescono le bocche da sfamare e i terreni incolti con questo andamento: 6 milioni di algerini e 3,6 milioni di ettari di deserto ovvero per ogni bocca da sfamare che si aggiunge mezzo ettaro abbondante di deserto in più grazie alle «riforme socialiste»!

Inutile stupirsi dopo quanto detto che il PNL pro capite fosse di 2380 dollari dell’’84 e di solo 2020 nel ’91, cifra comunque alta se confrontata con il vicino e uguale per popolazione Marocco il cui PNL pro capite però è della metà con 1030 dollari poiché in quest’altro paese maghrebino non intervengono le rendite petrolifere che per l’Algeria sono ragguardevoli.

Per maggior comprensione operiamo il confronto Algeria/Usa: i dati del 1990 ci indicano che sia nel settore del gas naturale sia in quello del petrolio grezzo il rapporto della produzione, in volume, è intorno a 1/10: 49 contro 488 miliardi di mc di gas e 37 contro 369 milioni di tonnellate di greggio. Troviamo all’incirca lo stesso valore sia per la popolazione (26 contro 248 milioni di abitanti) sia, disgraziatamente per il proletariato e le classi oppresse algerine, anche per il PNL pro capite: 2.020 contro 22.560 dollari riferiti al 1991.

A causa dei «censimenti e proiezioni non regolari» non sappiamo con quanti dollari oggi i proletari algerini possono comprarsi la semola per il couscous se consideriamo che i dati forniti dal FMI per il 1992 indicavano una considerevole caduta a 1515 dollari pro capite, al di sotto della Tunisia con 1776 mentre il Marocco sale leggermente a 1042 pro capite. ("Problèmes économiques", feb. 1994).

In questo progressivo aggravarsi delle condizioni materiali di sopravvivenza ed in assenza di una vera e profonda direzione della lotta economica da parte dell’UGTA, nonostante i gravi scontri costati centinaia di morti nell’ottobre del 1988 con la successiva dichiarazione dello stato di assedio, le enormi energie dei lavoratori e dei disoccupati algerini prendono una strada diversa da quella della genuina lotta di classe e si inginocchiano sui tappeti delle mosche.

Nel febbraio 1989 un referendum per una nuova costituzione apre il percorso del multipartitismo; sei mesi dopo il FIS è riconosciuto legalmente e nel giugno 1990 riporta una vittoria schiacciante alle elezioni comunali.

Nel maggio-giugno ’91 vi sono tentativi di scioperi ad oltranza organizzati dal FIS che si estendono a tutto il paese, le rivolte per la semola hanno fatto scuola; i maggiori capi del FIS vengono incarcerati nel tentativo di disperdere il movimento ma al primo turno delle elezioni nel dicembre dello stesso anno si ha questo risultato: il FIS ottiene 188 seggi; FLN (il vecchio partito unico di governo erede della lotta anticoloniale) 15; FFS (Fronte delle forze Socialiste) 25 e Indipendenti vari 3.

Seguono gli avvenimenti più noti: il presidente in carica viene dimesso e sostituito dal HCE (Alto Comitato di Stato) che annulla il secondo turno delle elezioni, decreta lo stato di emergenza e scioglie il FIS.

Per meglio comprendere questo movimento che si definisce, si muove ed è riconosciuto come un fronte figlio del vecchio FNL e non un partito politico, che inoltre non ha un preciso programma politico ed economico per governare, occorrono ulteriori considerazioni.

Le tabelle statistiche ci dicono che dal 1962, anno della proclamazione dell’indipendenza, la popolazione è passata da 10 a 26 milioni, questo vuol dire che minimo i 3/5 di algerini sono nati in questi trenta anni. Ogni anno arrivano sul mercato del lavoro 300.000 giovani e il 25% della popolazione attiva è già disoccupata. In più con l’aggravarsi della situazione economica e gli obblighi imposti dal FMI altri 200.000 lavoratori rischiano il licenziamento mentre le industrie primarie non funzionano più regolarmente.

La mancanza di abitazioni è ad un livello drammatico: il governo in 10 anni prevedeva la costruzione di 100.000 alloggi per anno, ne ha realizzati 20.000 in tutto e per soddisfare la necessità occorrerebbero più case del totale di tutto il paese entro il 2000; cioè 5.500.000!

Delle abitazioni esistenti 600.000 sono disabitate per questioni di speculazione; nei quartieri poveri la maggior parte delle case sono poco più che capanne o ruderi senza finestre e con tetti sfondati, senza servizi né acqua e, nella maggior parte dei casi, in una stanza vive un’intera famiglia. È la casa il tema migliore di reclutamento del FIS. Mancano ospedali e scuole e i ricchi inevitabilmente preferiscono mandare i loro figli nelle scuole francesi o all’estero in Francia, Svizzera o Stati Uniti.

In questa situazione che continua a peggiorare e appare senza speranza l’unica soluzione per molti giovani è quella di andarsene: «Uno su dieci è disgustato e non crede in miglioramenti, vorrebbe lasciare l’Algeria e andare in altri paesi, 27 milioni di algerini però non possono espatriare, questo è certo» ("Le Monde Dipl.", Marzo 1993).

Per un’altra parte di giovani senza riserve che restano in Algeria non rimane che combattere: «Ci si può forse abituare al peggio? (...) Rischiare per rischiare, tanto vale rischiare la vita armati» ("Le Mond. Dipl.", Maggio ’94).

È dai grandi scontri dell’ottobre ’88 che «la piazza» si identifica con il movimento islamico e la lotta politica viene sempre più sostituita con quella armata che perde sempre più il carattere di azione terroristica ma riguarda il controllo di intere città minori e di territori periferici.

«I tre cardini del fondamentalismo islamico: la modernità laica è l’origine dei mali ed i governi che agiscono in quella direzione sono gli unici responsabili; l’unico rimedio è la ribellione delle avanguardie dei credenti; la guerra santa è il culmine della lotta, hanno rappresentato l’ultima speranza per le masse algerine private delle autentiche organizzazioni classiste e rivoluzionarie comuniste.

Slogans e parole d’ordine semplici mobilitano con efficacia; Il Corano,con i suoi precetti di carità, giustizia e solidarietà verso i poveri diverrà la nuova costituzione; per questo non vi sarà più bisogno della polizia poiché il controllo della moralità e dell’applicazione della legge religiosa sarà svolta nelle moschee; tutti i fedeli sono combattenti e quindi parte dell’esercito che può essere ridotto; le tasse saranno eliminate e sostituite con le zakat, le imposte religiose secondo la tradizione coranica. Con i risparmi di bilancio così realizzati si potrà dare un contributo alle donne a cui verrà chiesto di lasciare il lavoro ed occuparsi esclusivamente della famiglia» ("Le Monde Dipl.", febb.’92).

È opportuno ricordare a chi con spocchia mitteleuropea commenta questi programmi che l’anno successivo queste dichiarazioni, il blasonato e semisocialista governo francese proponeva, per risolvere la sua crisi, il salario alle casalinghe come incentivo a liberare posti di lavoro in Francia.

L’adesione al FIS cresce di giorno in giorno e dopo il suo scioglimento la ribellione esplode e la repressione risponde durissima; chi voleva lo scontro è stato accontentato con gli interessi: nei soli primi due anni di conflitto civile si contano ufficialmente 3.000 morti e migliaia sono in prigione o in campi di prigionia nel Sahara. La lista dei morti è poi cresciuta a dismisura per arrivare, alla metà del 1996, a quota 50.000.

Le autorità e l’esercito promulgano decreti antiterroristici come la creazione di corpi speciali (15.000 militari nelle brigate d’intervento), l’abbassamento a 16 anni per le responsabilità penali, coprifuoco, arresto anche solo se «sospettati o simpatizzanti», tortura e condanna a morte (in un anno sono state emesse 368 sentenze capitali e 26 attivisti del FIS sono stati giustiziati).

La smobilitazione dei combattenti del FIS con gli arresti dei capi carismatici ed organizzativi e le uccisioni generalizzate hanno portato inevitabilmente i gruppi di attivisti rimasti liberi a disperdersi, frantumarsi, in balìa di se stessi senza collegamento tra di loro e senza direzione centralizzata.

Tentano di imporsi nuove gerarchie e si assiste ad una nuova distribuzione generale delle forze in campo che si sono paralizzate su più fronti.

Le Forze Armate algerine secondo una serie di tabelle e quadri tratti da «Rivista Marittima» (aprile 1992) che analizza l’insieme delle marine militari locali da Gibilterra a Suez, sulla carta sono composte di 125.500 regolari e 150.000 riservisti concentrati per il 95% nell’Esercito ed hanno assorbito nel 1991 come bilancio alla difesa 660 milioni di dollari pari ad una spesa pro-capite di 25,1 dollari cioè l’1,2% del PNL pro capite che in quell’anno era di 2020 dollari.

I vertici delle forze armate sono distribuiti in tre gruppi: generali provenienti dal vecchio esercito francese saldamente ancorati ai loro posti di comando ereditati dal vecchio apparato coloniale, un gruppo di comandanti moderati formatosi dopo l’indipendenza, più volte chiamati e poi allontanati in questi ultimi tempi per gestire l’emergenza, ed un terzo gruppo di nuovi ufficiali, già a suo tempo avversario del «socialismo di Boumedienne», che fin dal 1986 auspicava la formazione di uno Stato islamico e che comprende al suo interno alcune figure eminenti del FIS "Le Monde Diplomatique" del maggio 1994 che ci ha permesso la ricostruzione sui vertici militari parla però anche di «una sporca guerra: dalle incursioni mortali e punitive della marina e dell’aviazione, all’impiego del napalm, ai raid punitivi, alle torture». Lo scontro in atto è quindi generalizzato ed esteso a tutto il territorio e il timore di una sua divisione per feudi militarizzati è grande specialmente dopo la frantumazione e proliferazione dei gruppi armati che con quelli della mafia algerina controllano ormai alcuni paesi o territori decentrati.

Fautore di una linea durissima di repressione e deportazioni è il cosidetto «Partito della Francia» che aveva nel primo ministro Reda Malek, deposto l’11 aprile ’94, il fulcro e le leve del potere. Cinque suoi ministri tra cui quello degli interni e responsabile della repressione Salim Saadj, che durante la guerra di liberazione ha passato un lungo periodo nell’esercito francese, erano dichiaratamente di sentimenti antiarabi ed antislamici. Sempre secondo La Stratégie des islamistes ("Le courrier international", feb. 1994) il Partito della Francia, sostenuto da intellettuali, uomini politici, Berberi, francofoni e persino qualche «comunista» che insieme hanno fatto fronte comune contro il FIS, facevano continuamente appello alla Francia affinché intervenisse direttamente nelle questioni algerine. Parigi, a tempo debito ricorderà questa richiesta di aiuto; per il momento contrasta le decisioni del FMI con il Club di Parigi, un organismo economico internazionale di creditori pubblici che agisce sotto la sua regia, mentre il club di Londra è formato da creditori privati. Delle organizzazioni segrete legate a questo »partito» sono più volte riuscite a innescare scontri tra esercito e polizia ed il FIS e si ritiene addirittura all’interno delle sue frazioni.

L’Organizzazione dei Giovani Algerini Liberi, OJAL, con il rapimento di un professore di matematica di fama mondiale, si è presentata in campo ed è accusata di fare il lavoro sporco per conto del potere.

Nel fronte opposto il dispiegamento delle forze è fluido ed articolato prescindendo dalle potenti organizzazioni mafiose e criminali che approfittando della situazione reclutano giovani per una guerra santa tutta particolare e in conto proprio mediante il contrabbando ed il traffico di ogni sorta di armi e droghe.

È generalmente riconosciuto che la sospensione delle elezioni e l’arresto dei vertici del FIS fu per il potere algerino un unico grave errore: pensavano, infatti, che dopo alcuni anni di impossibili tentativi di governo il loro potere sarebbe caduto da solo, inoltre i vertici politici ed organizzativi sopravvissuti in carcere ora non hanno più alcun ascendente sui gruppi esterni ed anche liberandoli non sarebbero in grado di riprendere il controllo della situazione.

Il FIS non è mai stata un’organizzazione con una struttura e un programma, è divisa in correnti, una di queste, vicina ai Fratelli Musulmani egiziani, di tendenza moderata si propone un inserimento nell’apparato dello Stato per pesare dal di dentro del sistema; questa corrente è rappresentata da Abassi Madani capo storico del FIS.

L’altra corrente dell’imam Ali Benhadi, «l’uomo che fa tremare il potere solamente con il suono della sua voce», è più radicale, senza una direzione unificata può sopravvivere più facilmente e a lungo clandestinamente, proprio perché l’iniziativa è lasciata a strutture mobili, autonome e ben armate. È questa organizzazione che trova più consensi e complicità nelle forze militari dove le diserzioni di giorno in giorno si moltiplicano.

Le armi vengono prese nei vari assalti alle caserme e commissariati o portate da disertori che lasciano l’esercito per passare nelle file del FIS. «Si moltiplicano i sabotaggi e vengono sferrati colpi sempre più duri alle forze dell’ordine. In seno all’esercito la diserzione prosegue dopo quella recente e spettacolare di parecchie decine di allievi ufficiali della scuola militare di Cherchell ("Le Monde", febbraio 1994).

Molti ragazzi poi hanno paura per la loro vita e per quella dei loro famigliari perché gli Ikhwans (fratelli) hanno proibito ai giovani di fare il servizio militare, da una parte c’è il terrore della repressione e dall’altra la paura di vendette e ritorsioni.

Il FIS è sostenuto, in questo periodo, da due formazioni militari: il MIA (Movimento Islamico Armato) ed il GIA (Gruppi Islamici Armati).

Complessivamente si stima che in tutto il paese operino 650 gruppi armati composti da meno di 12 uomini; alcuni di essi sono formati esclusivamente da donne.

La loro struttura clandestina è estremamente decentralizzata; le decisioni sono prese a livello di gruppi di quartiere e anche di caseggiato e si adotta lo stesso tipo di guerriglia che trenta anni fa l’FLN usò contro l’armata francese: la tecnica del triangolo.

Ogni militante conosce solo altri due membri della rete ma ignora il grado nella gerarchia, se viene arrestato deve resistere senza parlare per 24 ore anche sotto tortura per consentire agli altri due militanti di porsi al sicuro e avvisare del pericolo tutta la rete.

Alla divisione per gruppi autonomi ridotti per motivi di sicurezza si è aggiunta la debolezza dei vertici per dissensi interni per cui la realtà presenta un groviglio di bande che operano indipendentemente le une dalle altre senza un vero coordinamento.

Le reti che sostengono i gruppi armati diffondono un giornale clandestino di propaganda e sono finanziate in parte dall’Iran e Sudan dopo la rottura con l’Arabia Saudita durante la guerra del Golfo ma la maggioranza dei finanziamenti proviene da rapine in uffici postali e banche.

La differenza tra le due sigle si fonda sugli obbiettivi da colpire: il MIA, considerato moderato, agisce esclusivamente contro i rappresentanti del potere empio ed i loro complici.

Questo gruppo successore del suo omonimo afghano, creato dai leggendari fratelli Buyali all’epoca di Chadli Benyedid, è riapparso sotto la guida di nuovi capi Chebouti e Meliani e, nonostante le divergenze con i vecchi dirigenti in carcere o in esilio, sostiene il FIS.

Il GIA, insediato a Tiaret nella regione interna della Mitidja, più estremo e radicale, rivolge le sue armi verso giornalisti, scrittori ed intellettuali vari, religiosi moderati, femministe ma soprattutto contro gli stranieri non musulmani verso i quali nel novembre ’93 ha lanciato un ultimatum per lasciare il paese.

Nei loro ranghi ci sono uomini e gruppi particolarmente addestrati alla guerriglia che si sono formati ed hanno acquisito esperienza in Afghanistan con i mujaheddin contro i russi. Il loro capo Sid Mourad «l’afghano» è stato ucciso all’inizio del marzo ’94 ad Algeri in uno scontro a fuoco. Il GIA propone nei confronti delle donne l’estensione dell’haram (proibizione) a tutte le sfere della vita sociale e privata.

Dopo la marcia nella capitale il 22 marzo 1994 contro il terrorismo e per la tolleranza a cui aveva partecipato un gruppo di studentesse universitarie che si opponevano tra le altre cose all’obbligo di portare il velo, la risposta è stata chiara ed immediata: due francesi assassinati e successivamente due studentesse accoltellate.

Il clima di terrore è esteso a tutto il territorio ed alla popolazione; c’è il coprifuoco del potere e il coprifuoco islamico. Sui muri sono affissi dei manifestini: «Leggete questo volantino e passate oltre. Stracciate questo volantino e sarete morti. Ormai nessuna attività è consentita dopo le 15. Se lavorate siete dalla parte del faraone (nome del potere infedele). Non attiratevi le ire dei mojaheddin».

Ci sono numerosi posti di blocco e falsi posti di blocco dove molti militari e poliziotti hanno perso la vita; pensando di trovarsi di fronte a colleghi hanno esibito il tesserino e sono stati uccisi e decapitati.

C’è il fondatissimo sospetto che all’interno del ministero della giustizia ci siano simpatizzanti dei movimenti islamici poiché molti prigionieri dopo l’arresto vengono rilasciati o aiutati a fuggire; per questo alcuni gruppi di intervento hanno deciso di non catturare più prigionieri e di procedere con esecuzioni sommarie sul posto.

Ultima novità nel campo della repressione da parte delle forze speciali antiterrorismo, ribattezzate ninja per il loro abbigliamento da samurai, è il presentarsi alla porta di case situate nelle zone controllate dagli islamici e spacciarsi per mojaheddin chiedono asilo; chi li accoglie viene immediatamente ucciso.

La popolazione, dobbiamo usare questo termine vago ed interclassista giacché gli schieramenti delle classi sono confusi e fluidi, in parte simpatizza per questi movimenti islamici e in parte vive una passività che sfiora la complicità e poco si sa in concreto in quanto avvenga e quante siano le «zone liberate».

Un’altra parte aspira ad una democrazia laica e teme il FIS al potere che provocherebbe la fuga dei tecnici indispensabili alla ricostruzione con un ritorno indietro sia economico che culturale. Si stima anche che 3 o 4 milioni di algerini fuggirebbero e la comunità berbera che rappresenta il 20% della popolazione farebbe resistenza contro il dogmatismo dottrinario islamico e potrebbe passare alla lotta armata.

La crisi continua con attentati sempre più arditi e devastanti; il GIA esige dal governo francese la fine di ogni tipo di aiuto al potere algerino, che sul piano economico significa un finanziamento di 5 miliardi di franchi che non è mai cessato, e puntuale segue un dirottamento di un aereo francese. La comunità straniera, cioè la banda di assassini a scala industriale, USA in testa, reclama repressioni ancor più incisive, che non tardano ad arrivare e la temuta spaccatura dell’esercito non avviene, anzi migliora il suo intervento contro il terrorismo.

La farsa elettorale riprende dopo repressioni e mediazioni internazionali ma solo quando si è certi che l’elettorato non è più allineato a favore dei gruppi estremi del fondamentalismo. Crisi, terrore ed un’accordo propaganda di regime che tenta di paragonare il FIS al partito nazista ed il GIA alle SS, producono i loro effetti.

Le elezioni del novembre 1995, a cui non partecipano il FIS che subisce continue divisioni interne, l’FFS (Fronte delle forze socialiste) e una buona parte dell’FLN, riconfermano lo schieramento di potere in corso e cercano di presentare un paese che ha superato una grande crisi politica; quella economica invece si è ampliata nonostante il consistente apporto della rendita petrolifera.

I legami economici con la Francia si sono ampliati poiché ha riempito i vuoti lasciati da altri Paesi e di conseguenza è aumentata la dipendenza algerina al capitale francese.

Dopo l’assassinio dei sette trappisti francesi, sostenitori del dialogo per la pace, e quello del vescovo di Grano, deciso oppositore, il GIA patisce forti contrasti interni e limitazioni dei finanziamenti da parte delle società caritatevoli islamiche in Europa, che ora sono fortemente controllate in quanto sospettate di essere delle finanziatrici del terrorismo.

Gli attentati in Algeria, contro bar e luoghi di ritrovo, a prima vista obbiettivi contro la corruzione occidentale, si rivelano spesso azioni di ritorsione e di auto finanziamento contro quei proprietari che non pagano la «tassa islamica».

Sta di fatto però che non si è visto un rafforzamento numerico o il sostegno generalizzato alle formazioni fondamentaliste, segno che il proletariato algerino in definitiva non ha riconosciuto in quel movimento l’opportunità di attaccare il suo vero nemico: lo sfruttamento capitalista. E non è poco, in un momento completamente controrivoluzionario com’è l’attuale.
 

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Appunti per la Storia della Sinistra
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Il rapporto che qui riportiamo, esposto alla riunione di partito del gennaio scorso, prosegue quanto già pubblicato su questa rivista. Da una rielaborazione dei capitoli che si riferivano alla battaglia della Sinistra contro la sottomissione proletaria alla seconda guerra, sotto le mentite bandiere dell’antifascismo, è stato tratto il numero monografico di Comunismo, il 40. Questi capitoli di quelli sono la continuazione.

RUOLO DEI FALSI COMUNISTI NEL BORGHESE ASSESTARSI DEL DOPOGUERRA ITALICO
 
 

Alleati e cominformisti disarmano quel che resta di un ingannato movimento partigiano

I partiti della controrivoluzione, ingabbiando la classe operaia entro gli angusti limiti della cosiddetta guerra di liberazione nazionale antifascista, non si limitavano a deviare il proletariato dal terreno della lotta di classe per dar modo al capitalismo di vincere la sua guerra, ma preparavano fino da allora le condizioni perché esso riuscisse a vincere la pace: ossia perché la fase di accumulazione che si sarebbe aperta dopo le immani distruzioni della guerra potesse realizzarsi sul disumano sfruttamento della classe operaia senza che la collettività venisse sconvolta da rivolte sociali.

Questo fatto era ben chiaro ai nostri compagni che, ancor prima che la guerra cessasse, scrivevano: «Il partito di classe del proletariato deve saper prevedere che anche al termine di questa guerra, dopo il clamoroso invito seguito da vasti successi a dare man forte alla borghesia dei paesi alleati nella lotta contro il fascismo (invito a cui hanno risposto non solo i capi opportunisti del movimento operaio in tutti i paesi, ma anche gruppi generosi ed ingannati di combattenti partigiani) seguirà, come è già seguita in molti paesi cosiddetti liberati, una repressione non meno decisa di quella fascista, contro i tentativi di questi organismi irregolari armati di realizzare obiettivi propri ed autonomi, e mantenere localmente il potere conquistato combattendo contro i tedeschi ed i fascisti».

Chi più di ogni altro si preoccupò che il movimento partigiano non superasse i limiti imposti dalle necessità della guerra imperialistica fu Palmiro Togliatti che, appena liberata Roma, da Napoli trasmetteva alle formazioni del Nord una direttiva in cui si diceva che «l’insurrezione che noi vogliamo non deve essere di un partito o di una parte sola del fronte antifascista, ma di tutto il popolo, di tutta la nazione (in) stretta alleanza con i socialisti (...) con i democratici di sinistra, con le masse cattoliche, con ufficiali e soldati patriottici (...) sotto la bandiera del tricolore simbolo dell’Unità di tutto il popolo».

«È importante notare – ha scritto Ernesto Ragionieri –il forte contributo di classe presente nella Resistenza italiana, che non è però da identificarsi immediatamente con un contenuto classista». Anche in questa occasione lo storico stalinista dice la verità. Tradotta dal linguaggio opportunista l’espressione significa che, malgrado le bande partigiane fossero composte in grande misura da lavoratori e proletari, questi non conducevano affatto un’azione con finalità di classe. Basti pensare che il movimento partigiano, che mai era stato rivoluzionario, perse ben presto anche qualsiasi connotato ribellista. Il ribelle, che si era dato alla macchia ed aveva imbracciato un’arma per il trionfo dei propri ideali (quali che essi fossero) o soltanto nella convinzione di riuscire a salvarsi la pelle, si ritrovò ad essere quello che era stato fino al giorno innanzi l’8 settembre 1943, ossia un soldato del regio esercito italiano, anche se al servizio di un’altra coalizione imperialistica.

Nel giugno 1944 alle brigate partigiane venne tolta ogni tipo di autonomia, furono trasformate in Corpo Volontari della Libertà, sotto un unico comando militare diretto dal generale Cadorna, rappresentante del governo monarchico e che, in seguito, verrà inviato oltre le linee tedesche. In attesa dell’arrivo del generale furono investiti di questa alta responsabilità Luigi Longo e Ferruccio Parri.

I partigiani, che con la costituzione del Corpo Volontari della Libertà erano diventati incontestabilmente strumenti del governo e partecipi della guerra imperialistica a fianco degli Alleati, presto ebbero un’altra bruciante prova di essere delle semplici marionette nelle mani della borghesia. Nel mese di dicembre una delegazione del CLNAI stipulò, a Roma un duplice accordo: il primo con il comando Alleato (7 dicembre) ed il secondo con il governo di Roma (26 dicembre). Gli Alleati, per mezzo del generale Wilson, si impegnarono a garantire alla Resistenza un sussidio di 160 milioni di lire al mese e di assicurarle la ’massima assistenza’.

Naturalmente gli Alleati mantennero i patti come piacque a loro. Nel febbraio 1945 il Quartier Generale anglo-americano dava questo ordine: «Gli aiuti devono essere concentrati prevalentemente in scorte di beni di carattere non militare e le armi devono essere consegnate ad elementi selezionati per compiti speciali».

«Gli Alleati – scrive Paul Ginsborg in Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi – non riconobbero ufficialmente il CLNAI, ma i partigiani si videro accordare una certa responsabilità, diventando gli esecutori del Supremo Comando Alleato». Secondo i patti, i partigiani, che nel frattempo erano ridiventati soldati, al momento dell’arrivo delle truppe alleate avrebbero perduto «tutta l’autorità ed i poteri di governo locale precedentemente assunti. Tutto il potere sarebbe passato nelle mani del Governo Militare Alleato. Tutte le unità partigiane sarebbero state immediatamente smobilitate e tutte le armi consegnate agli Alleati». Sandro Pertini, con una delle sue solite sfuriate, denunciò il patto come la «sottomissione della Resistenza alla politica inglese».

Sottomissione che però non dispiacque al futuro presidente della repubblica, visto che rimase tranquillo al suo posto.

Se la Resistenza aveva accettato di diventare strumento mercenario dell’imperialismo anglo-americano per quale motivo non avrebbe dovuto vendersi alla borghesia indigena? Così il 26 dicembre il piccista Giancarlo Pajetta, in qualità di rappresentante del CLNAI ed Ivanoe Bonomi, ex organizzatore militare delle bande fasciste ed ora capo del governo antifascista, stipularono il secondo patto di Roma. In virtù di questo il CLNAI veniva riconosciuto come «organo dei partiti antifascisti nei territori occupati dal nemico» con delega di rappresentare il governo in questi territori. Anche in questo caso la Resistenza rinunciava a qualsiasi autonomia ed autorità per aderire al principio della continuità dello Stato, in barba allo sbandierato ’rinnovamento dello Stato’ attraverso la lotta antifascista. Bonomi, al capo della Commissione Alleata di Controllo, Stone, aveva promesso che la Resistenza sarebbe «rimasta in una posizione subordinata e non (avrebbe assunto) il carattere di governo de facto».

Per la verità, nell’inverno 1944/45, alcuni rappresentanti del Partito d’Azione, con una lettera aperta ai dirigenti degli altri partiti del CLN, avanzarono la proposta di approfittare dell’intervallo di tempo tra la ritirata delle truppe tedesche e l’arrivo delle truppe alleate per costituire un ’governo rivoluzionario’ che proclamasse la repubblica e ponesse le condizioni per la realizzazione di riforme sociali; tutto questo sancito attraverso un referendum popolare. Non siamo in grado di dire con quanta sincerità questa proposta fosse avanzata, ma il fatto certo è che tutti gli altri partiti, dal liberale al democristiano, dal PSI al PCI stroncarono sul nascere le velleità degli azionisti perché, come scrive Ragionieri, «erano preoccupati della possibilità che i CLN si trasformassero in ’superpartiti’ e in strumenti di democrazia diretta». Anche questa volta Ragionieri dice il vero confessando che la paura principale dei dirigenti resistenziali era l’azione diretta della classe operaia, altrimenti definita, dall’illustre storico, come ’democrazia diretta’.

È interessante ascoltare la testimonianza di uno dei protagonisti, preoccupato per le ripercussioni che le proposte degli azionisti avrebbero potuto avere, sia nei confronti del governo, sia nei confronti degli Alleati. Ma il nostro protagonista si preoccupava soprattutto di un’altra cosa e cioè che dando libertà di espressione alle organizzazioni di massa ed alla consultazione popolare il PCI potesse assumere un potere politico di gran lunga superiore agli altri componenti il CLN rompendo l’equilibrio che, a tavolino, era stato concordato. Leggiamo: «Con Tito a Trieste, un sistema che permettesse al PCI di avere una influenza crescente attraverso i rappresentanti del Fronte della Gioventù, dei Gruppi di Difesa della Donna, e soprattutto dei Comitati d’Agitazione di fabbrica rischiava di spezzare la gabbia della pariteticità». Di conseguenza il progetto di Foa, Spinelli, Lombardi (i firmatari della lettera aperta) veniva nettamente respinto.

Ma di chi sarà stata la citazione riportata? di Parri? Di De Gasperi? Oppure di Saragat, Romita, Pacciardi, Sogno? No, compagni, la citazione è di ... Giorgio Amendola (Chi non ci crede prenda la storia del PCI di Spriano, vol. V, pag. 520, e legga le ultime 5 righe). Lo stratega di via Rasella giustificava questa sua affermazione dicendo che un PCI troppo forte «rischiava di lasciare spazio alla monarchia e di favorire un intervento armato degli Alleati, del tipo di quello già in corso in Grecia». È proprio una tattica ’rivoluzionaria’, non c’è che dire, quella di mantenere la propria forza sotto un livello non pericoloso, per non fare il gioco del ... nemico.

La realtà, evidentemente, è un’altra e questo fatto non dimostra soltanto la vocazione opportunista e traditrice del PCI, ma anche il fatto di essere un organismo ostaggio delle armate anglo-americane. È di quel periodo una lettera di Togliatti in cui lamenta il fatto che gli Alleati gli negano perfino il permesso di recarsi in Sicilia.

Le ’repubbliche’ partigiane delle Langhe, di Valsesia, di Val di Maira, di Montefiorino, dell’Ossola che dalla storiografia romanzata della Resistenza vengono dipinte come esempi di potere popolare rivoluzionario, furono consegnate ai dominatori senza il minimo rimpianto. Anche in questo caso ogni stupore è fuori luogo. Il movimento partigiano, come abbiamo sempre dimostrato, era nato come strumento militare da affiancare ad una coalizione imperialistica e con funzioni di polizia a scopo controrivoluzionario. Ulteriore conferma di ciò è il colloquio tra il rappresentante del PCI, Concetto Marchesi, ed il colonnello inglese Roseberry.

Concetto Marchesi, dopo l’esperienza di collaboratore della Repubblica Sociale Italiana, durante i suoi riposi luganesi, in qualità di accreditato antifascista ha un incontro con un emissario inglese. Gli inglesi, lo abbiamo visto nei rapporti precedenti, non temono tanto l’esercito tedesco quanto i pericoli di sommosse proletarie, e sui proletari, e non sull’esercito nemico, sganciano le loro bombe ’liberatrici’. Quindi le domande che il colonnello di Sua Maestà rivolge a Marchesi si incentrano soprattutto su questo argomento.

Roseberry: «Se qualche capobanda si rifiutasse di riconoscere l’autorità del CLNAI e si disponesse ad agire arbitrariamente?» Marchesi: «Sarebbe considerato e trattato come nemico. Ma i governi alleati sono disposti ad un tale procedimento?» Il rappresentante del PCI chiede l’autorizzazione per poter ’pacificare’ e liberare il terreno dai ’nemici’ interni. A questa richiesta, che non è da poco, il colonnello risponde: «Forse». Il colloquio continua. Roseberry: «Naturalmente se rivolte e tumulti dovessero scoppiare gli Alleati si troverebbero nella necessità di dover intervenire militarmente». Marchesi: «Questo non avverrà». Roseberry: «Il comitato è dunque capace di svolgere azione politica?» Marchesi: «Il termine è impreciso, tuttavia rispondo di sì (...) Il partito comunista può dare su questo punto assoluta garanzia (...) esso è un ’véritable instrument d’ordre et de concorde. Les communistes ne sont pas pressés. Depuis un siècle ils ont appris à marcher avec fermeté, mais sans impatiance». Roseberry: «Se le popolazioni dovessero sopportare disagi di vita e penuria di viveri, ci sarebbe rischio di insurrezione popolare?» Marchesi: «Il CLN, quale emanazione del popolo, è l’organismo più adatto a consigliare e ottenere moderazione e sopportazione, ma potrebbe esso contare su aiuti alleati?» Roseberry: «Si».

È evidente che per ’aiuti alleati’ si intendeva intervento militare nel caso che il movimento non potesse più essere controllato dalla Resistenza.

Ma, almeno per il momento, all’interno del CLN c’erano altre cose più pressanti a cui pensare. Leggiamo nella storia del PCI: «Tra l’autunno del 1944 e la vigilia della liberazione s’intreccia fra le forze politiche del CLN al Nord una trattativa – che si conclude con accordi sottoscritti da tutti, e poi rispettati e fatti valere – sulle cariche pubbliche da assegnare ai rappresentanti di ciascuno dei 5 partiti del CLN per il ’dopo-insurrezione’, dalla carica di sindaco a quelle di prefetto, di questore, di commissario a enti comunali, provinciali, istituti finanziari, aziendali, assistenziali (...) Così, Riccardo Lombardi diventerà il prefetto di Milano, Roveda il primo sindaco comunista di Torino, e dalle grandi città la ripartizione sarà attuata fino ai piccoli centri». E chi si scandalizzava allora delle lottizzazioni? Certo che se Bossi o Berlusconi trovassero qualcuno che gli leggesse un po’ di storia, ne avrebbero di argomenti!

Secondo quanto era stato stabilito nei Patti di Roma, all’arrivo delle truppe anglo-americane i partigiani venivano immediatamente disarmati ed i ’volontari della libertà’ ricevevano il ben servito, ossia la classica pedata sul sedere. Anche in questo caso l’opera dei caporioni del CLN servì a smorzare il risentimento dei partigiani per l’ultima beffa della gloriosa resa ai ’Liberatori’.

Lo storico militare inglese Harris descrive in questi termini il rituale della consegna delle armi: «Fu dato ogni incoraggiamento ai partigiani perché celebrassero con la massima enfasi il momento della smobilitazione organizzando tutta una serie di cortei e parate militari (...) che sembrassero decise da loro stessi e non tenute per ordine degli Alleati (...) Le parate dovevano comportare il massimo di ufficialità possibile, con la presenza del più vicino comandante alleato a ricevere il saluto e a sovrintendere alla raccolta delle armi. La consegna delle armi poteva essere accompagnata, se si riteneva opportuno, dalla distribuzione di ’certificati di merito’» (Allied Military Administration). Finita la cerimonia e consegnati i certificati di merito, i nuovi padroni davano immediatamente corso a rastrellamenti a tappeto per la ricerca di armi nascoste ed i tribunali militari infliggevano severissime pene a chi veniva trovato in possesso di materiale ritenuto bellico.

Da buoni democratici gli Alleati non rimossero i prefetti e le altre autorità che amichevolmente i partiti antifascisti si erano ripartiti fra di loro, però misero subito in chiaro che chi comandava e che non avrebbero tollerato nessuna iniziativa che mirasse a fare dei CLN degli strumenti di potere alternativo. E a chi aveva la testa dura o faceva finta di non capire arrivavano avvertimenti come quello inviato dal Governatore Militare alleato del Piemonte al presidente del locale CLN nel quale veniva ricordato che il Comitato di Liberazione Nazionale «non ha il minimo grado di autorità esecutiva o amministrativa». Non ci risulta però che i patrioti abbiano avuto molto a soffrire di questa limitazione delle loro libertà, avrebbero sofferto molto di più se anziché la libertà fosse stata tolta loro la poltrona. Se è stato ritenuto degno di passare alla storia il gesto del prefetto di Milano, l’azionista Riccardo Lombardi, che si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà alle autorità militari alleate, ciò significa che tutti gli altri non ci pensarono due volte a fare l’atto di servile sottomissione richiesto, per quanto non fosse nemmeno indispensabile come appunto l’episodio di Riccardo Lombardi dimostra. Anni dopo, passato ormai al partito socialista, Lombardi scrisse che i suoi «rapporti (con gli Alleati) furono sempre buoni: però rapporti di reciproco rispetto, non mai (...) di servilismo». Questo dimostra che agli anglo-americani era sufficiente che i rappresentanti dei CLN si attenessero alle loro disposizioni ed ai loro ordini, anche senza servilismo. Il servilismo dei dirigenti ciellennini non fu dovuto a necessità, bensì a vocazione.

A dire il vero una certa autorità e libertà di azione ai CLN fu lasciata, vedremo tra poco a che proposito.

Rimaneva un problema di non poco conto: quello di smobilitare circa 100 mila uomini, reinserirli nella vita civile e soprattutto far loro accettare un regime in tutto e per tutto simile a quello contro il quale erano stati chiamati a combattere.

I partiti opportunisti per distogliere il proletariato dal terreno della lotta di classe avevano martellato il proletariato con la parola d’ordine di ’morte ai fascisti’. Ora, finita la guerra, i proletari vedevano gli ex fascisti entrare, accolti a braccia aperte, in tutti i partiti democratici; vedevano la beffa delle epurazioni; vedevano come nottetempo le carceri si aprivano e i fascisti a frotte si dileguavano nelle tenebre; vedevano il ministro di Grazia e giustizia Togliatti concedere l’amnistia a quelli che non erano riusciti a tagliare la corda, mentre lo stesso ministro emanava circolari perché ’con assoluta urgenza’ venisse assicurata ’una pronta ed esemplare repressione’ dei lavoratori in sciopero (su questo argomento torneremo in seguito); vedevano le carceri riempirsi di ex partigiani ...

Non può quindi sorprendere se gruppi di partigiani, specialmente quelli più radicali, quelli che avevano nascosto le armi, continuarono delle proprie guerre private che il più delle volte sfociavano in azioni di vendetta spicciola e di rapina, ma tuttavia rappresentavano un atto di rivolta di chi aveva toccato con mano e si era reso conto della speculazione fatta sulla sua pelle dal capitalismo italiano e dai suoi lacchè opportunisti.

Per neutralizzare pericoli di rivolta o solo di una situazione incontrollabile in un paese in cui ancora troppi uomini giravano armati, fino dai primi di maggio 1945 era stato previsto dal governo l’inquadramento dei partigiani nella polizia e nell’esercito.

L’Unità del 13 maggio scriveva: «Il Consiglio dei ministri, riconfermando le sue precedenti dichiarazioni circa i vari problemi relativi ai patrioti dopo la cessazione della loro attività di guerra, ha espresso la sua adesione ai seguenti punti: 1) Una immediata, larga ed organica integrazione delle forze regolari di polizia con elementi tratti dalle unità partigiane, tale che quantitativamente e qualitativamente essa divenga la più sicura garanzia e difesa dei rinnovati ordinamenti democratici. Detta integrazione non costituisce un provvedimento di carattere transitorio perché il governo considera come una delle misure tendenti ad immettere nuove energie provate nella lotta di liberazione nazionale, in tutti gli organismi e nella vita dello Stato. 2) Una pronta ed organica immissione nelle unità dell’esercito regolare di forze partigiane e di quadri militari tratti dal corpo volontari della libertà che abbiano dato prova di capacità, di valore e di amor patrio nella lotta di liberazione nazionale. 3) Stanziamento di mezzi finanziari atti ad assicurare ad ogni partigiano smobilitato un aiuto immediato e l’assistenza necessaria alla riammissione dei volontari della libertà nell’attività produttiva e nella vita civile della Nazione».

La sorte dei ’patrioti’ era quindi segnata: i più fortunati sarebbero diventati degli sbirri, a vita, del nuovo regime borghese democratico, e, nella polizia e nell’esercito, avrebbero affiancato i poliziotti ed i militari ex repubblichini rimessi in servizio dal ministro degli Interni, il socialista Romita; alla stragrande maggioranza veniva promesso un aiuto immediato ed una generica assistenza. Un bel bidone per tutti quegli ingenui che si erano illusi che, eliminando il fascismo, si sarebbe poi continuata la battaglia per l’instaurazione di una società comunista!!

Di conseguenza, nel Nord Italia, durante il secondo semestre del 1946 si ebbero svariati episodi di rivolte partigiane. Caratteristica comune di queste manifestazioni era il confusionismo ed una gretta ottica corporativa. Queste proteste vennero immediatamente sconfessate dall’ANPI ed i ribelli si costituirono in Movimento di Resistenza Partigiana (MRP). Questo nuovo movimento, di fatto, rappresentava soltanto un recupero a sinistra di un malcontento generalizzato ed il suo capo, certo Carlo Andreoni, era un personaggio ambiguo che aveva militato un po’ in tutti i partiti: dal PCI, al PSI, al Movimento anarchico, fino ad approdare nel PSLI di Saragat, dal quale, sembra, sia stato poi espulso. Il fatto che questo movimento non rappresentasse nessun pericolo per lo Stato democratico (anzi un contenitore del ribellismo) lo dimostra il fatto che i suoi dirigenti, arrestati il 25 ottobre 1946 dalla polizia con l’imputazione di rivolta contro lo Stato, siano stati rimessi in libertà 9 giorni dopo, il 3 novembre, e le imputazioni siano cadute. Tuttavia il PCI non mancò di utilizzare, anche nei confronti del MRP, la sua caratteristica ’analisi politica’ definendo il movimento come neofascista e neosquadrista ed il suo capo, Andreoni, agente ... dell’Ovra. Ma quale fantasia, questi stalinisti!

Una ben più seria valutazione del fenomeno è invece possibile leggerla sul nuovo organo del Partito Comunista Internazionalista: ’Battaglia Comunista’: «L’episodio della ripresa partigiana è andato, col passare dei giorni, assumendo la fisionomia ed i limiti ch’era facile assegnargli fin dall’inizio. È ben vero che alla base di questa fiammata di ripresa era l’istintiva rivolta dei proletari stanchi e delusi, una manifestazione di vitalità in cui si esprimeva il disagio sempre più diffuso delle masse lavoratrici, ma, da una parte correvano a sfruttare questo genuino spirito di reazione proletaria piccoli capi in cerca di onori e, dall’altra la gigantesca macchina dei ’partiti di massa’ interveniva a controllare il movimento, per contenerlo nel quadro di rivendicazioni di categoria o per utilizzarlo a fini di concorrenza elettorale o di pressione sul governo. Così, quello che nell’animo di qualche proletario in buona fede era stato un confuso ed incoerente atto di rivolta verso il ricostituito edificio dello Stato borghese, con relativa liquidazione delle ultime ed ormai ’antistoriche’ sopravvivenze di antifascismo, è andato rapidamente trasformandosi in una specie di ’sciopero dei partigiani’, in una circoscritta agitazione di categoria. E i proletari rischiano di farsi sfruttare una seconda volta per fini che non sono di classe, ma che servono ottimamente a procurar qualche nastrino di più ai capoccetti, a consolidare le posizioni traballanti dei partiti dell’ordine, a disarmare un altro po’ di operai in buona fede e a far correre – in occasione della conferenza di pace – qualche altro fiume di retorica patriottarda, combattentistica e antifascista. Noi dobbiamo dire ai proletari partigiani lasciatisi riprendere in buona fede dal fascino della montagna, che, se non riusciranno a trarre la lezione politica di questo episodio ed a liquidare in se stessi per sempre l’ideologia che è stata alla base di tutta la loro lotta, il loro destino sarà di ritornare alle proprie case con una delusione in più. Giacché le rivendicazioni politiche ed economiche dei proletari partigiani possono essere difese e soddisfatte solo lottando a fianco a fianco degli operai contro il regime dello sfruttamento capitalistico di cui la loro vicenda non è che un aspetto particolare e circoscritto, e portando questa lotta su di un più vasto piano politico, come, del resto, hanno fatto e fanno i partigiani che accettano le nostre direttive classiste. Solo così lo spirito di lotta e di sacrificio di questi proletari avrà un frutto: solo così non si ripeterà la farsa di un antifascismo borghese iniziatosi con una commedia – l’epurazione invece della distruzione di una classe – e conclusasi con ... l’amnistia» (’Battaglia Comunista’, n.24, settembre 1946).

Tornando sull’argomento, nel n. 27 di novembre, ’Battaglia Comunista’ metteva in evidenza che «episodi del genere, manifestazioni caotiche di confusione politica e di malessere sociale sono fatalmente destinati a ripetersi finché, da una parte, la crisi economica e la impotenza borghese a risolverla getteranno la loro fosca ombra sul proletariato e, dall’altra, le masse dei disoccupati, dei partigiani, dei reduci non ritroveranno la loro via di classe a fianco di tutti gli operai e sotto la guida di un partito che rifugga dal compromesso politico, dalla tattica deleteria dei blocchi, dalla malattia del pasticcio, dell’azione per l’azione, dell’avventurismo di cui sono allo stesso grado affetti Carlo Andreoni e quelli che lo vogliono ora alla gogna. Solo a queste condizioni, nella solidarietà classista di tutti i proletari, occupati e disoccupati, reduci o partigiani, fuori dalle combinazioni caotiche, su un terreno netto e intransigente di classe, sarà possibile risolvere i problemi che travagliano il proletariato italiano. Su qualsiasi altro terreno è possibile soltanto la degenerazione opportunistica dei partiti ministeriali o la confusione politica, ideologica, pratica degli innamorati dell’avventura. Da entrambi questi scogli bisogna che il proletariato si guardi, per combattere e fondo e vincere la sua battaglia».
 

Sbirri staliniani contro gli internazionalisti

La voce del partito, in quegli anni riusciva a raggiungere e ad influenzare le masse lavoratrici sia nelle fabbriche sia nei campi ed anche una minoranza genuinamente proletaria e politicamente più avanzata di ex partigiani che, dopo avere assaporato sulle proprie carni il tradimento del partito nazional-comunista, si era avvicinata al partito e guardava con molto interesse alle sue posizioni e direttive schiettamente classiste. Non pochi partigiani, inoltre, avevano aderito individualmente ed erano stati inquadrati nei ranghi dell’organizzazione.

Nell’orgia interclassista dello Stato democratico-progressivo, della ricostruzione nazionale, della riconciliazione, il piccolo Partito Comunista Internazionalista, fermo sulle posizioni del marxismo rivoluzionario e punto di riferimento non equivoco per la riorganizzazione e la lotta di classe senza compromessi, avrebbe potuto costituire un vero pericolo per la pace sociale, per la democrazia e per l’ordine borghese: ed è per questo che contro il Partito Comunista Internazionalista venne scatenata una campagna di intimidazione e repressione non meno violenta e molto più infame di quella che il fascismo stesso aveva condotto.

Nel n.4 di Rinascita, aprile 1945, a firma di Felice Platone, in un articolo intitolato ’Vecchie e nuove vie della provocazione trotzkista’, si legge: «Stroncare sul nascere qualunque ripresa del sabotaggio e della disgregazione trotzkista è oggi un’esigenza vitale non soltanto del nostro partito e della classe operaia, ma di tutto il movimento antifascista, democratico, di liberazione e di rinascita nazionale». È chiaro, e confessato, quindi che la lotta contro i cosiddetti ’trotzkisti’ veniva fatta a difesa dello Stato e dell’ordine democratico borghese. Ma vediamo le accuse politiche rivolte dal Platone al nostro movimento: «Sconfitta la democrazia in Italia, dopo il fallimento dell’Aventino ed il colpo di Stato del 3 gennaio (...) massimalismo e bordighismo perdettero gradatamente tutto ciò che vi era in essi di sano e di onesto (Bontà sua, una volta pure noi avevamo qualche cosa di sano e di onesto!)caddero rapidamente nell’aperta provocazione, divennero gli agenti venali e i più validi ausiliari dell’Ovra e della Gestapo».

Il togliattiano, sano, onesto e non venale, visto che veniva pagato un tanto ad insulto, si addentra, da ignobile par suo, perfino a tratteggiare la personalità del capo dei ’trotzkisti’ italiani: «Non sarebbe forse privo di interesse mettere a confronto la grettezza, la smisurata presunzione piccolo-borghese, la superficialità, l’ignoranza, il provincialismo e l’istrionismo di Mussolini con gli analoghi tratti caratteristici dell’ingegner Amadeo Bordiga».

Sulle amenità di questo cialtrone non spendiamo una parola di commento. Il cialtrone, non avendo nessuna possibilità di svolgere una critica su di un piano dottrinale, ideologico o soltanto politico, si limitava ad accusare la nostra corrente di presunti delitti commessi ai danni del proletariato e, vista la poca fantasia che ha sempre albergato dentro le zucche degli stalinisti, descriveva tutte le sconcezze commesse dal suo partito attribuendole a noi. Compagni, turatevi il naso: «Ma quel che preme ricordare è che attorno all’ingegner Bordiga si è formata – soprattutto dopo il 1926 – un’accolta di avventurieri che, fatto dell’anticomunismo il loro cavallo di battaglia, non ha tardato ad esprimere dalle sue file ogni sorta di sabotatori del movimento proletario, provocatori e agenti stipendiati dell’Ovra (...), manigoldi come l’assassino del compagno Montanari (...) trucidato in una stazione del Métro di Parigi. Per anni ed anni le organizzazioni clandestine del partito comunista hanno dovuto difendersi non soltanto contro la polizia fascista, ma anche contro le trame dei bordighiani che riuscivano talvolta a carpire la buona fede di qualche gruppo di operai e cercavano tutte le vie per colpire a tradimento l’attività antifascista. Noi li conosciamo, si può dire, ad uno ad uno questi provocatori, conosciamo ad uno ad uno i loro delitti e le loro provocazioni politiche e poliziesche ed abbiamo ancora davanti agli occhi lo spettacolo istruttivo dei trotzkisti italiani che, la vigilia di Monaco e della guerra hitleriana, predicavano la pace con Hitler e la guerra contro i comunisti, oppure si adoperavano, con tutti gli accorgimenti del mestiere, a denunciare all’Ovra o ad una qualunque polizia gli antifascisti Italiani».

Per l’atteggiamento tenuto dalla Frazione all’estero in occasione del ’caso Montanari’, si veda la documentazione riportata di seguito nell’Archivio della sinistra.

La calunnia non era certamente fine a se stessa, ma rispondeva ad un piano strategico del regime capitalista per spezzare la resistenza e la possibilità di rinascita dell’unica organizzazione rivoluzionaria ancora in piedi dopo che la controrivoluzione internazionale si era abbattuta sul movimento operaio con tutte le sue milizie coalizzate: fascismo, democrazia, stalinismo. Il compito di portare a termine la parte sporca dell’operazione toccò, come si conviene, ai Giuda del partito comunista italiano i quali presero tanto a cuore la loro missione che la stessa borghesia dovette mettergli un freno.

Abbiamo visto come Concetto Marchesi tranquillizzasse il colonnello britannico Roseberry assicurandogli che in Italia rivolte e tumulti non sarebbero scoppiati perché il PCI, garante dell’ordine, avrebbe considerato e trattato come dei nemici i perturbatori sociali. A sua volta l’ex collaboratore della RSI chiedeva che alle squadre del PCI fosse lasciata libertà di azione per ’pacificare’ i ribelli. Si ricorderà che la risposta dell’inglese fu sibillina: ’Forse’. Ed è evidente che non avrebbe potuto essere affermativa perché, se il potere, oltre che dei suoi organi repressivi ufficiali, si serve anche di truppe irregolari o mercenarie (in questo caso quelle organizzate dal PCI), mai può concedere ad esse di sostituirsi al potere ’legittimo’. Al riguardo non esiste delega. Ed è sicuramente per questo motivo che i partiti della coalizione antifascista rifiutarono «la richiesta fatta in sede di CLN dagli esponenti del PCI di avere le mani libere per la ’liquidazione’ di Damen e dei suoi seguaci» (G. Zaccaria, 200 comunisti italiani vittime dello stalinismo).

Abbiamo citato questo opuscoletto edito nel 1964 esclusivamente per riportare il fatto segnalato, senza per questo cambiare minimamente la nostra opinione, espressa in Programma Comunista n.1 del gennaio 1965, nei confronti dell’ autore e dell’ambiente politico ispiratore di tale iniziativa. Anzi questo ci dà occasione di riproporre ai compagni la lettura di quell’articolo che ripubblichiamo tra i nostri testi di Archivio.

Nel giugno 1945 un centinaio di fascisti si trovavano rinchiusi all’interno delle carceri di Schio. Divulgatasi la notizia, vera o falsa che fosse, che questi signori, come molti altri loro camerati in altre parti d’Italia, sarebbero presto diventati uccel di bosco, un commando di partigiani irrompeva nella prigione e compiva una carneficina uccidendone addirittura 54. Il partito stalinista aveva sempre cercato di presentare i nostri compagni come agenti fascisti e spie dell’Ovra, nel caso specifico, quindi, se sospetto verso di noi ci fosse stato avrebbe dovuto essere quello di avere organizzato l’evasione dei fascisti, caso mai. Ma la logica stalinista non è così semplice, infatti ’L’Unità’ scopriva immediatamente che i responsabili morali, gli istigatori, se non addirittura gli esecutori materiali, erano i comunisti internazionalisti. ’L’Unità’ del 12 luglio per la penna di una canaglia (a 15 mila lire mensili) pubblicava un articolo intitolato «Si fa luce sull’eccidio di Schio – Provocazione trotzkista all’opera», dove veniva chiamato in causa il Partito Comunista Internazionale come sobillatore di «una immediata azione rivoluzionaria, una insurrezione armata contro gli alleati e il nostro Governo». Un nostro compagno veniva additato come responsabile del misfatto, ne veniva fatto il nome e se ne tratteggiava una biografia falsa e infamante, moralmente degna, questa sì, di un provocatore fascista. A commento del vigliacco articolo de ’L’Unità’ è sufficiente riportare il titolo del trafiletto apparso sul n. 3 di ’Battaglia Comunista’: «L’Unità organo di delazione politica».

Dopo tutta una serie di falsità il sudicione del PCI dichiarava «contrario alle leggi dell’umanità e della civiltà il gesto compiuto». Era il 12 luglio 1945. Il giorno dopo, il 13, in nome delle ’leggi dell’umanità e della civiltà’, a Casale Monferrato, il nostro compagno Mario Acquaviva veniva crivellato con 6 colpi di pistola da un sicario del PCI che, dileguandosi, gridava: «È un fascista! È un fascista!». Lo stesso losco individuo che aveva accusato i nostri compagni per l’eccidio di Schio, il 28 luglio, con un articolo intitolato «Provocatori» sputava ancora il suo veleno su Mario Acquaviva ed accusava il nostro partito di «speculare sui morti». Per i fatti di Schio vennero arrestati 7 partigiani iscritti al PCI ed il 13 settembre la Corte Generale Alleata di Vicenza ne riconosceva 5 colpevoli ed infliggeva 3 condanne a morte e 2 ergastoli.

L’eccidio di Schio anche se apparentemente potrebbe sembrare in contrasto con la politica ufficiale del PCI, tutta impregnata dei sacri principi della democrazia, in realtà rappresentava la conseguenza della sua politica cieca e provocatoria. I 5 partigiani di Schio erano stati conseguenti esecutori delle direttive e delle istigazioni che per due anni di guerra partigiana gli stalinisti avevano loro impartito. Ma il partito di Togliatti, moralmente responsabile di quello che a Schio era avvenuto, uno dei partiti più influenti del governo Parri, aveva montato (per mezzo di un redattore ex fascista) una mostruosa campagna contro la nostra organizzazione non tanto per salvare la pelle ai propri iscritti quanto per «preparare il terreno ad essere premessa psicologica e giustificazione preventiva d’ordine giuridico, politico e morale all’assassinio di Uno dei nostri migliori: Mario Acquaviva» ’Battaglia Comunista’, n.5, agosto 1945). Il PCI si guardò bene dall’intraprendere una vasta campagna di mobilitazione in difesa dei suoi iscritti condannati; nei giorni successivi al verdetto di Vicenza sulle pagine de ’L’Unità’ apparivano, diligentemente nascosti, rari stelloncini di solidarietà di pochissimi centimetri quadrati. E questo non perché avessero rinunciato all’uso della violenza. La violenza antiproletaria e controrivoluzionaria continuava imperterrita.

A Milano, pochissimi giorni dopo i fatti di Casale Monferrato, un gruppo di compagni mentre stava affiggendo un manifesto murale denunciante la responsabilità dei centristi nell’assassinio di Mario Acquaviva veniva fermato da tre individui che svolgevano azione di ronda in bicicletta. Questi ultimi, dopo avere letto il manifesto, estraevano le pistole ed intimavano ai nostri compagni di seguirli. Con le armi puntate alla schiena i nostri compagni furono portati al locale CLN di Via Rucellai, qui venivano perquisiti, veniva loro sequestrato il materiale politico, venivano sottoposti ad una specie di processo a base delle solite calunnie e stilato un verbale per la polizia. Prima di essere rilasciati i nostri compagni ricevevano come ultima minaccia l’intimazione a non continuare l’attività politica e si ordinava loro di consegnare al CLN tutto il materiale politico che possedevano, altrimenti sarebbe stato il CLN ad andare a prenderlo nelle loro case. Il giorno successivo uno di questi compagni veniva nuovamente prelevato e portato alla sede di Via Rucellai dove tra le altre minacce fatte ci fu quella che «sabato sera sarebbero venuti a trovarci nella nostra sede con mitra e bombe a mano» ’Battaglia Comunista’, n.4/1945).

A Torino, molto più sbrigativamente che a Milano, contro dei nostri compagni che affiggevano il medesimo manifesto vennero sparati colpi di arma da fuoco da parte dei soliti garanti della democrazia progressiva. Questi compagni riuscirono a salvarsi semplicemente perché a loro volta risposero al fuoco.

Delazione alla polizia ed agli Alleati per delitti non commessi; assassinio; tentato omicidio; minaccia a mano armata; sequestro di persona e tante altre simili cose erano le imprese nel neo-squadrismo ’rosso’, a danno non dei fascisti bensì dei proletari rivoluzionari. La violenza sul proletariato non cessò quindi con la scomparsa del cadavere putrefatto del fascismo, ma si perpetuò sotto altre forme più ipocrite e più subdole del manganello e del gagliardetto nero. Ma gli squadristi ’rossi’ dal mitra e dalla bomba a mano erano servi dello stesso padrone, di quel padrone che fino al giorno avanti aveva armato gli altri. Non si capirebbe altrimenti come mai dopo la smobilitazione dei partigiani ed il loro ’disarmo’, continuassero ad esistere squadre armate con tanto di sede pubblica e con compiti più o meno ufficiali di polizia.

Ma dove la polizia fascio-togliattiana svolgeva in modo più sistematico la sua opera di repressione ed intimidazione era all’interno delle fabbriche. Lì il PCI, oltre ad avere il controllo del sindacato avendone ereditato tutto l’apparato fascista, attraverso le squadre dei CLN di fabbrica faceva il bello e cattivo tempo e, in aggiunta alle consuete accuse e minacce di rito, usava l’arma della denuncia al padrone con il conseguente pericolo di licenziamento che la denuncia comportava. Quasi ovunque nelle fabbriche i nostri compagni o simpatizzanti erano soggetti ad attacchi violenti da parte dei dirigenti centristi e dei bonzi sindacali il cui odio nei nostri confronti li spingeva fino ad additarci come fascisti o finanziati dagli industriali. L’azione svolta con tanta tenacia dai capi nazional-comunisti al fine di screditare il nostro partito attaccandolo con tutti i mezzi; l’odio viscerale provato verso di noi; la malafede nelle loro calunnie; la violenza nei loro attacchi e nelle aggressioni fisiche; tutte queste cose non avrebbero potuto giustificarsi né con una concorrenza nostra ai loro interessi di bottega né con l’astio personale verso individui, ma possono essere comprese solo andando ad analizzare la funzione storica che il nazional-comunismo era chiamato ad assolvere. Abbiamo molte volte dimostrato e documentato come il PCI non avesse ormai più nessun connotato di classe, ma fosse divenuto un organo di inquadramento delle forze proletarie all’interno dello schieramento imperialistico e, di conseguenza, avesse il compito di combattere con tutti i mezzi e soffocare con la violenza qualsiasi forza autonoma che avrebbe potuto riportare il proletariato su di un piano schiettamente di classe. Era naturale dunque che per riportare le masse lavoratrici sul terreno della lotta di classe, oltre a subire la reazione della polizia, si sarebbero dovuti sostenere gli attacchi, le violenze e le calunnie di quei partiti che avevano ereditato dal fascismo il ruolo di boia del movimento proletario: i partiti stalinisti innanzi tutto.

La ’polizia di officina’ bloccava e minacciava i diffusori di ’Battaglia Comunista’, vietava agli operai la partecipazione ai comizi indetti dagli internazionalisti, schedava i nostri compagni passandone gli elenchi ai padroni, alla polizia e agli uffici di collocamento per essere certi che quei compagni che grazie alla loro delazione avevano perso il lavoro non lo ritrovassero. Nelle assemblee di fabbrica la sbirraglia sindacale tentava di impedire con le minacce e con le aggressioni fisiche gli interventi dei comunisti rivoluzionari. Intimidazioni venivano fatte perfino ai gestori di edicole che esponevano i nostri giornali.

Per farsi un’idea delle violenze compiute da parte dello squadrismo democratico-progressivo ai danni dei comunisti rivoluzionari e di tutti quei proletari che non chinavano servilmente la testa, perché così comandavano i duci di turno, basta sfogliare il periodico di ’Battaglia Comunista’ degli anni del dopoguerra. Non vi si troverà di certo una documentazione completa poiché il vittimismo non rientra nel nostro armamentario politico; a noi piacerebbe più raccontare le legnate assestate al nostro nemico che quelle purtroppo ricevute. Di conseguenza le denunce apparse sui nostri giornali non venivano fatte per piagnucolare sulle libertà democratiche non garantite, ma semplicemente per dimostrare alla classe operaia come la democrazia, la libertà, ecc. siano solo menzogna, come il capitalismo si sia sbarazzato definitivamente di questi inutili imbrogli e come, quindi, il proletariato debba prepararsi e preoccuparsi solamente dello scontro frontale di classe contro classe.

Se le Camere del Lavoro ed i CLN di fabbrica denunciavano alla polizia gli internazionalisti quali organizzatori di scioperi, le commissioni interne da parte loro controfirmavano disposizioni delle direzioni aziendali di questo tenore: «I Capi Ufficio, i Capi Reparto, i Sotto Capi Reparto ed i Capi Squadra hanno la responsabilità della disciplina del personale dipendente. Essi debbono adoperarsi affinché vengano osservati e rispettati i regolamenti e punire e segnalare i più riottosi e gli insofferenti di ogni disciplina. Nelle classifiche di merito sarà tenuto conto, ad ogni effetto, del grado di autorità che ciascun superiore saprà far valere presso i propri dipendenti» (Comunicazione n. 35 del 17 gennaio 1946 emanata dalla direzione degli Aeroplani Caproni). Come si vede è un vero e proprio elogio al negriero, con tanto di placet sindacale.

I sindacati post-fascisti non si limitavano di certo a controfirmare le direttive delle direzioni aziendali, ma prendevano essi stessi l’iniziativa facendo vedere di essere ben più ... a destra dei padroni stessi. È dell’aprile 1946 la circolare che riportiamo emanata dalla Commissione Interna dei Cantieri Metallurgici Italiani di Castellammare di Stabia: «Compagni lavoratori, È ormai da tempo accertata l’esistenza di una più o meno vasta organizzazione tendente ad infiltrarsi, sotto varie forme, fra le masse lavoratrici, specie fra quelle operanti in stabilimenti industriali, e qui provocare fatti e cose capaci di creare in seno ad esse facili dissidi, col precipuo scopo di disgregarne l’unione, per indebolirne la forza, e per apportare nocumento al fattore produttivo, onde dedurre l’incapacità delle masse al buon governo delle attività produttive. E poiché non è mistero per alcuno che qui trattasi di una azione dovuta alle organizzate ed oscure forze reazionarie, si ravvisa la necessità di mettere in guardia tutte le maestranze di questo stabilimento, perché ciascuno vigili e perché ogni elemento sospetto che dovesse qui eventualmente affiorare, venga immediatamente denunciato alla commissione interna di fabbrica. È pertanto vietata ogni interruzione di lavoro e qualsiasi azione individuale o collettiva che possa turbare o, comunque, influire sinistramente sui fattori disciplina e produzione, se non preventivamente autorizzata dall’organo responsabile, che è la commissione interna di fabbrica. Ogni eventuale infrazione a questa elementare regola di disciplina sindacale, anche se non fosse dovuta alla diretta opera delle forze disgregatrici, reazionarie, risponderebbe in pieno ai fini che esse forze reazionarie si prefiggono: per cui va considerata come di loro emanazione e come tale verrà denunciata ai superiori organi sindacali e politici per gli immediati provvedimenti a carico dei responsabili ...»

Se Mussolini fosse stato ancora vivo avrebbe certamente sorriso di fronte a tanta fascistica emulazione da parte dei rappresentanti dell’antifascismo democratico e progressivo. Ma se il Duce non poteva più sorridere poteva comunque, di Lassù, con soddisfazione constatare di non essere morto invano: i pochissimi rimastigli fedeli avevano trafugato la sua salma dal cimitero di Milano, quelli che si dichiaravano suoi nemici, dal cimitero della storia avevano trafugato il suo programma.

Se per la schiena dell’operaio doveva essere usata la frusta del negriero, nei confronti della borghesia doveva, al contrario essere usato il guanto di velluto, se non c’era niente di meglio. Il 7 febbraio 1946, con grande indignazione, il ’Corriere dell’Emilia’ riportava una sconcertante notizia: sui muri delle case apparivano «colossali scritte di color nero in cui si esaltava la rivoluzione proletaria e si mettevano genericamente alla gogna i capitalisti». Immediatamente i leccaculo della federazione reggina del PCI emanavano un comunicato ufficiale in cui si diceva: «La scritta ’viva la rivoluzione proletaria’ è pertanto da considerarsi una provocazione tendente a turbare la tranquilla operosità dei cittadini intenti all’opera di ricostruzione. La reazione – continuava la nota – tenta con tutti i mezzi di gettare il discredito sui partiti democratici che hanno maggiore affinità col proletariato».

Mano a mano che il tempo passava i giornali a diffusione nazionale quali ’L’Unità’ e ’Rinascita’ diradavano le loro grossolane calunnie nei confronti del Partito Comunista Internazionalista, questo compito veniva passato alla stampa locale che praticamente riciclava le solite ingiurie badando bene di non dimenticarsi (questa era d’obbligo) l’accusa di essere stati degli agenti dell’Ovra. «Dovrebbero avere almeno il pudore di non toccare certi tasti – scriveva ’Battaglia Comunista’ il 27 luglio 1946 – dopo che la famosa lista degli agenti dell’Ovra ha visto, dopo i necessari bagni preventivi, la luce e, guarda caso, ci potete trovare degli iscritti ai due partitoni di massa, ma internazionalisti nessuno. Avete da un anno il Ministero della Giustizia, avete condotto l’epurazione: vi era tanto facile individuare, arrestare, processare questi famosi ’equivoci figuri’: perché non lo avete fatto?».
 

La difesa comunista di un combattente proletario

Era un tardo pomeriggio dei primi giorni di settembre 1946, il marchese Lapo Viviani della Robbia, alla guida di una ’topolino’, si dirigeva verso la sua tenuta di campagna nei pressi di S. Polo, vicino Firenze. La macchina restava improvvisamente in panne, veniva chiesto aiuto ad un contadino che, attaccata l’automobile ai buoi, si accingeva a rimorchiarla fino alla villa. In quel momento qualcuno sparava dal bosco alcuni colpi di pistola: il marchese, colpito, moriva poco dopo. Il Marchese Viviani era stato vice segretario del Fascio di Firenze e segretario del Fascio di S.Polo ed era noto come spietato fondiario della campagna circostante la città. ’L’Unità’ dell’11 settembre si affrettava a dire che «di fascio non volle più saperne dopo il 25 luglio» e che «durante il periodo del movimento partigiano accolse e favorì nella villa di S. Polo i componenti di varie formazioni che operavano in quella zona». Gli abitanti di S. Polo, a dire il vero, si ricordavano la cosa in modo un po’ diverso: «Il Viviani aveva la villa piena di tedeschi ed era in rapporto coi vari comandi dei carabinieri nel periodo in cui i rastrellamenti contro i partigiani si facevano sempre più frequenti (...) Ognuno sa quanto ha dovuto soffrire per le violenze subite dall’ex gerarca. È convinzione comune che su di lui ricada la responsabilità della morte dell’eroico partigiano Adriano Gozzoli» (L’Unità’, 14 settembre 1946).

A sparare era stato Ilario Filippi, un giovane partigiano diciannovenne, da poco iscritto al nostro partito. Possiamo solo immaginare la reazione di tutto l’orizzonte democratico ed il furore isterico con cui venne montata una campagna di diffamazioni e calunnie nella quale tutti i giornali fecero a gara nello scoprire i complotti organizzati dagli internazionalisti nel corso dei loro incontri segreti. Il ’Mattino d’Italia’ attribuiva ai nostri compagni un piano organico di «delitti a catena in modo da mandare al Creatore tutti gli indesiderabili appartenenti al ceto abbiente, piccoli e medi agricoltori»(!)e ci definiva «movimento di delinquenti che si annidano sotto la veste dei cosiddetti leniniani». Che ebbrezza, per ’L’Unità’ scoprire che anche i borghesi usavano la loro stessa fraseologia! ’L’Unità’ del 13 settembre titolava: ’Un gruppo di giovani esaltati e corrotti ha armato la mano dell’assassino diciannovenne’ e terminava il suo articolo con queste parole: «Cresciuti in questi anni tragici di guerra in cui i valori umani sono capovolti o smarriti, soffocati dagli istinti meno nobili nella natura, sono poveri individui che credono che a questo mondo tutto si possa risolvere col mitra».

Magistratura e carabinieri compivano il resto dell’opera: oltre ad Ilario Filippi, benché avesse fermamente dichiarato di avere agito da solo senza istigazione di alcuno, altri quattro compagni vennero arrestati come complici ed altri due venivano ricercati come mandanti.

La federazione fiorentina del partito, in un volantino distribuito alla classe operaia, dichiarava: «Le posizioni programmatiche e dottrinarie di un partito marxista vietano di servirsi del metodo terrorista e dell’azione individuale come sistema di lotta politica». In un altro documento, del 26 settembre, il concetto veniva ribadito con queste parole: «La nostra linea politica, rigidamente marxista, esclude il ricorso all’azione individuale e alla violenza singola, ma persegue l’unificazione dei movimenti di massa del proletariato per la conquista rivoluzionaria del potere».

Ora, per comprendere appieno le motivazioni del comportamento tenuto nei confronti di Ilario Filippi, che con il suo atto aveva rotto la disciplina di partito e lo aveva esposto ad una feroce campagna repressiva, intimidatoria e denigratoria; per comprendere questo comportamento, dicevamo, è bene vedere, con altri esempi, il comportamento che la nostra corrente ha avuto nei riguardi di normali proletari che si siano trovati in situazioni analoghe. Nel corso di questo rapporto ci è capitato di parlare di due attentati: quello di Parigi, nel 1935, contro il centrista Montanari e quello di Schio, del 1945, ai danni di più di 50 fascisti.

- Parigi: Guido Beiso, che il 9 agosto 1935 nel Métro di Belleville a Parigi uccise il centrista Camillo Montanari, fu immediatamente tacciato, dagli stalinisti, come ’provocatore trotzkista-bordighista’. I trotzkisti, vigliaccamente, si affrettarono a dichiarare di non avere nulla in comune con Beiso. Non questo fu però il comportamento della Frazione. «La nostra Frazione – scrisse "Prometeo" – ha delle responsabilità politiche ben precise che nessuna manovra potrà alterare. Essa non accetta il dilemma che il centrismo le porge: per o contro Beiso. Il gesto di quest’ultimo non può essere spiegato con criteri moralistici o giuridici, ma unicamente politici e la responsabilità – lo ripetiamo – ricade unicamente sul centrismo: Noi (...) non diremo una sola parola che possa indebolire la posizione di Beiso che ha creduto di dover seguire altra via da quella da noi indicata. Nelle prigioni capitaliste Beiso è l’oggetto della campagna velenosa del centrismo (...) Beiso è altresì respinto dai trotzkisti che vogliono lavarsi da un’accusa che il centrismo aveva lanciato a scopo di manovra. Il centrismo vorrebbe forse che, per tema di cadere nella sua manovra, noi si lasci Beiso alla mercè della reazione borghese? Si sbaglia: la nostra Frazione contribuirà a far risultare la verità dai dibattimenti del processo (...) Noi ci auguriamo vivamente che possa uscire libero dalle tenaglie di avvenimenti nei quali il centrismo lo aveva gettato. Dipenderà unicamente da Beiso prendere posto, nell’avvenire, nelle lotte del proletariato per il trionfo della sua liberazione» (’Prometeo’, n.121, agosto 1935).

- Schio: Dopo le infami calunnie lanciateci attraverso ’L’Unità’ per i fatti di Schio, il partito avrebbe dovuto gioire per la condanna inflitta ai partigiani del PCI? Ecco cosa scrisse su di loro il nostro partito: «Hanno pagato l’illusione di poter rivendicare una propria indipendenza d’azione di fronte alle forze degli istituti dell’ordine capitalistico nazionale ed internazionale, dopo di aver servito inconsciamente quest’ordine nell’atroce crogiolo della guerra. È un terribile monito quello che, con questo verdetto, la borghesia ha voluto lanciare ai proletari ansiosi di giustizia. Sappiano questi raccoglierlo, e cercare la via della loro emancipazione fuori dei quadri politici borghesi e del vicolo cieco della violenza individuale, sulla via della lotta di classe e della preparazione rivoluzionaria alla suprema conquista del potere» (’Battaglia Comunista’, 18 novembre 1945)

I comunisti non esprimono facili condanne, specialmente nei riguardi di coloro che restano vittime di fatti e situazioni materiali di una portata enormemente superiore alle loro individuali persone ed alla loro forza individuale. I comunisti sono innanzi tutto dei materialisti, rifuggono quindi il moralismo, e vanno alla ricerca delle ragioni che determinano i comportamenti, anche individuali, anche disperati.

Tornando quindi al gesto di Ilario Filippi, dobbiamo dire che il partito non avallò minimamente il suo comportamento, ma, allo stesso tempo, senza mezzi termini, affermò che questo gesto doveva essere visto come il prodotto dell’atmosfera del dopoguerra imperialistico, di una crisi economica, politica e sociale che ogni giorno di più pesava sulle spalle dei proletari salariati e nullatenenti, era il prodotto di una situazione in cui gli operai, che avevano sacrificato tutta la loro vita alla lotta contro la schiavitù borghese del fascismo, crepavano di fame. L’ ’assassino’ di S.Polo, colui che, secondo L’Unità pretendeva «che a questo mondo tutto si possa risolvere col mitra», divideva con suo padre un solo paio di scarpe, mentre la classe dominante che ieri era stata fascista e monarchica, poi democratica e repubblicana, che si era favolosamente arricchita con il sudore e con il sangue di milioni di lavoratori e di disoccupati, continuava ad accumulare con sfacciata impudenza scandalosi guadagni. Questa classe aveva sfruttato il nobile sentimento di rivolta del proletariato per tradurlo in guerra partigiana, non a favore della classe lavoratrice, ma a profitto di una sedicente liberazione nazionale che avrebbe poi dato i frutti che ogni proletario aveva dinanzi agli occhi; aveva trasformato questo spirito di lotta in un ottuso sciovinismo dietro il quale non si nascondevano se non le casseforti dei padroni; aveva fatto dell’antifascismo proletario e classista una ignobile mascherata conclusasi con l’amnistia, con l’apertura delle galere per tutti i responsabili fascisti.

I due colpi di pistola, sparati dal partigiano diciannovenne di S. Polo rappresentavano «l’atto disperato di un giovane che ha creduto di vendicare in tal modo tutte le sofferenze, le privazioni e le umiliazioni subite nel ventennio fascista dagli operai della sua terra: è la protesta individuale e violenta contro la politica falsa e controrivoluzionaria dei partiti della democrazia saliti al governo della Repubblica, che ora fanno ammanettare quei combattenti che hanno avuto l’ingenuità di prendere sul serio le loro istigazioni alla violenza antifascista. Chi ha armato la mano del compagno di S. Polo è la fame, è la disoccupazione, è la politica di tradimento di quei partiti che avevano fatto credere a questi giovani appassionati ed eroi che la loro liberazione, la liberazione della loro classe, consisteva nella liquidazione fisica dei fascisti e non nelle ragioni economiche, sociali e politiche da cui storicamente si origina ogni forma di fascismo. Sono proprio questi partiti che ora si servono del tragico episodio di S. Polo per avvelenare l’opinione pubblica con una stupida campagna scandalistica e per tentar di montare un complotto contro il nostro partito» (da un volantino del settembre 1946).

’Battaglia Comunista’ del 1° novembre 1946, dopo avere ricordato che nel carcere delle Murate, accanto ad Ilario Filippi, stavano ormai da due mesi altri quattro compagni del tutto innocenti, denunciava questo abuso della giustizia borghese che, oltre a colpire i nostri iscritti, colpiva tutti i lavoratori e quindi concludeva con un appello alla solidarietà di classe: «Proletari italiani, la vostra solidarietà ai compagni vittime delle mene di una borghesia che non conosce limiti ai suoi abusi, dirà che il proletariato ha ancora la sua forza, che non impunemente si possono colpire uno ad uno i suoi membri. Gli arrestati delle Murate aspettano la vostra solidarietà: non li tradiamo, perché tradiremmo noi stessi».

Non è facile però esprimere una solidarietà di classe quando una classe è privata dei suoi strumenti naturali. La borghesia la sua solidarietà al marchese Viviani della Robbia l’aveva espressa imprigionando cinque comunisti, quattro dei quali completamente estranei al delitto; l’aveva espressa attraverso il tentativo di linciaggio morale, compiuto dai suoi organi di stampa, del partito comunista internazionalista; la esprimeva mantenendo la propria dominazione di classe e schiacciando senza pietà ogni conato di rivolta proletaria.

Il proletariato, da parte sua, avrebbe dovuto scendere in piazza ed imporre con le proprie manifestazioni di classe, l’immediata liberazione dei compagni arrestati ed una sentenza equa per il compagno Filippi. Ma i lavoratori d’Italia non potevano essere mobilitati perché erano stati privati del loro partito. Il partito che pretendeva di rappresentarli era in aperta combutta con la peggiore feccia borghese. Il sindacato, che avrebbe dovuto essere l’organo di difesa di classe, tesseva il terrorismo antioperaio nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Il proletariato era nell’impossibilità di esprimere la propria solidarietà classista, ma i proletari, sia individualmente sia nei loro luoghi di lavoro, seppero rispondere all’appello lanciato dal nostro partito. Seppero sputare in faccia alle direttive camorristiche dei nazionalcomunisti. In questa occasione i lavoratori d’Italia scrissero certamente una della più belle e gloriose pagine di vitalità di classe e di slancio solidale di questi ultimi 50 anni.
 

Una bella reazione classista

Abbiamo ricordato che Ilario Filippi condivideva con il padre un unico paio di scarpe, ma anche le altre quattro vittime politiche erano dei proletari puri, dei senza riserve (anzi senza nemmeno il necessario per vivere): il partito doveva sostenere tutte le spese per la loro difesa e forse per dare un aiuto alle famiglie. Venne aperta una sottoscrizione ’Pro Vittime Politiche’. Immediata ed entusiastica fu, da un capo all’altro della penisola, la risposta dei proletari, appartenenti a qualsiasi partito: partigiani, iscritti al PCI, al PSI, anarchici, azionisti, democristiani. Ognuno, secondo le proprie possibilità, inviava il proprio contributo. Alcuni annotavano il fatto di essere dei partigiani o il partito al quale appartenevano, altri la loro fabbrica, altri ancora esprimevano brevi parole di solidarietà e di incitamento alla lotta di classe. Dobbiamo dire che aderirono alla sottoscrizione anche alcune redazioni di giornali anarchici e del partito d’azione: in particolare ’Il Libertario’ e ’Non Mollare’. Il nostro giornale non aveva lo spazio sufficiente per pubblicare i lunghi elenchi di nomi di sottoscrittori e più di una volta era stato costretto a diramare avvisi di questo genere: «Il numero delle schede sottoscritte per i compagni di S. Polo è tale che la pubblicazione di tutti i sottoscrittori va a rilento: i compagni abbiano dunque un po’ di pazienza».

Non erano somme colossali quelle che venivano inviate, capitava qualche vaglia da cento lire, ma la maggior parte era sotto le 50, molti erano quelli di dieci lire ed anche solo di cinque. Ma erano 5, 10, 50 lire proletarie, e, in un periodo di disoccupazione e di miseria come quello che si viveva negli anni del dopoguerra, erano piatti di minestra che i proletari non mangiavano, erano pezzi di pane che si erano tolti di bocca per esprimere solidarietà a dei compagni. Con il passare del tempo la sottoscrizione assunse forme sempre più organizzate; le collette venivano fatte nei luoghi di lavoro e le schede inviate al giornale riportavano il nome della fabbrica o del reparto in cui la raccolta era stata effettuata. Le sezioni del partito stimolavano in vari altri modi la raccolta di fondi, la Federazione di Firenze, ad esempio, con il ’Concorso Pro Vittime Politiche’ racimolò 12.350 lire. La redazione del giornale spesso accompagnava le liste dei contributi con la segnalazione dei luoghi di lavoro che maggiormente si erano distinti in questo unanime moto di solidarietà. Tra le altre un elogio particolare venne inviato al reparto forni ghisa delle ferriere Fiat di Torino; alla scuola di riqualificazione ’Caproni’ di Milano; alla Magneti Marelli di Sesto San Giovanni ed un elogio particolarissimo fu indirizzato ai compagni dell’Ilva di Torre Annunziata. Altre volte le liste venivano precedute da messaggi di questo tenore: «L’ex Presidente del Tribunale Speciale fascista è stato assolto. Quattro proletari innocenti sono tutt’ora detenuti alle Murate» (15 novembre 1946); «La giustizia, la famosa giustizia col G maiuscolo di fronte alla quale la camorra capitalista afferma che tutti i cittadini sono uguali, continua a tenere imprigionati i cinque proletari di S. Polo, uno dei quali colpevole di avere ucciso, sotto la spinta della fame e del disgusto, un agrario notoriamente fascista, e gli altri innocenti. Tutte le forze dell’ordine sono coalizzate contro cinque proletari che non godono di nessuna alta protezione, che sono inermi di fronte all’impotenza e all’onnipotenza della legge borghese. Sottoscrivete per loro! Aiutateli!» (26 aprile 1947).

Non è possibile farsi una idea di questo moto di solidarietà che investì tutto il proletariato attraverso un racconto, solo sfogliando le collezioni di Battaglia Comunista di quegli anni si può avere un’idea di cosa significò per la classe operaia l’affronto borghese, la rappresaglia di classe sui quattro proletari innocenti. A noi basti dire che la somma raccolta ammontò a circa il doppio di quanto il partito aveva ottimisticamente sperato. I contributi, anche se via via decrescenti, continuarono a giungere anche molto tempo dopo che il rito processuale era stato consumato e la sentenza emanata.

Abbiamo voluto mettere in evidenza l’appoggio fraterno, d’istinto veramente comunista, che gli operai, benché influenzati da diversi partiti politici, diedero ai nostri compagni vittime di una mostruosa rappresaglia di classe. Dobbiamo però mettere anche in evidenza l’infame atteggiamento dei nazionalcomunisti che, oltre alla campagna di stampa denigratoria nei confronti della nostra organizzazione e di difesa verso la vittima fascista, in più parti ed in più modi boicottarono le raccolte di sottoscrizione arrivando perfino, come all’Ilva di Torre Annunziata, ad appendere cartelli di diffida. Battaglia Comunista, il 5 novembre ’47, riportava la notizia di questo sabotaggio e, in risposta, pubblicava la seguente lettera aperta del gruppo comunista di fabbrica dell’Ilva.

«Cari compagni dell’Ilva, In risposta all’avviso a firma del segretario politico della locale sezione nazional-comunista, recentemente affisso in codesto stabilimento, nel quale si diffidano le maestranze dell’Ilva dal voler raccogliere l’appello di aiuto, da noi avanzato in favore dei militanti internazionalisti, rinchiusi nelle carceri di Firenze, ove attendono di essere giudicati dalla magistratura borghese, dell’accusa di omicidio del grande proprietario fondiario ed ex gerarca fascista marchese della Robbia; il gruppo di fabbrica comunista internazionalista tiene a dichiarare quanto segue:
1)Il contenuto e lo stile camorristico dell’avviso in questione non sorprende affatto i comunisti inter. dell’Ilva ed i proletari coscienti che si stringono attorno alla nostra bandiera, poichè dalla dura lezione dei fatti, essi hanno imparato a smascherare la vergognosa attività sabotatrice dei crumiri e dei soffocatori dello spirito rivoluzionario del proletariato, quali sono i piccolo borghesi che fanno il mestiere di dirigente nazional-comunista. La turpe manovra inscenata dai dirigenti nazional-comunisti dello stabilimento, che tende ad ostacolare, in perfetta corrispondenza di intenti con le mene ostruzionistiche della magistratura borghese, la difesa dei proletari accusati di aver tolto di mezzo un triste arnese di Mussolini, deve essere considerato come il portato necessario e l’espressione inconfondibile della mentalità e della prassi controrivoluzionaria di uno schieramento politico responsabile di aver firmato, nella persona del suo capo Palmiro Togliatti, il decreto di amnistia ai criminali fascisti.
2)In contrasto fondamentale con le abitudini caporalesche che i gerarchetti nazional-comunisti hanno ereditato dai fiduciari fascisti e che manifestano in ogni circostanza, che si presenti favorevole ad operare ogni sorta di trattenute sulle paghe operaie a favore di chiunque riesca gradito ai loro gusti antiproletari, i comunisti internazionalisti, si sono rivolti direttamente alle maestranze scavalcando gli organi polizieschi dello stabilimento e facendo appello al sentimento di solidarietà di classe delle maestranze (...)
Sicuri di interpretare i sentimenti di gratitudine dei compagni detenuti e di tutto il Partito, ringraziamo i compagni ed i simpatizzanti che si sono prestati al lavoro di raccolta dei fondi, auspicando l’unità di tutti i Proletari contro il Capitalismo. Abbasso i sicari del capitalismo! Libertà ai detenuti di S. Polo!

Il gruppo di fabbrica comunista internazionalista dell’Ilva».


 La vendetta di classe borghese per l’uccisione del marchese di S. Polo non si limitava a trattenere in galera quattro proletari estranei ai fatti, ma, nell’ottobre ’47, un altro clamoroso colpo di scena si aggiunse ad aggravare la posizione degli arrestati. Il processo, che in un primo momento era stato fissato per il 20 novembre a Firenze, sarebbe stato spostato a Lucca o ad Arezzo. I motivi apparivano evidenti: «1)Lucca e Arezzo essendo le città dove più forte è la reazione agraria la ’giustizia’ di quei luoghi è più facilmente addomesticabile secondo le buone e freschissime tradizioni del ’ventennio’ (non si dimentichi che queste sono le sedi prescelte per i processi contro i fascisti che escono molto frequentemente assolti).
2)L’accusa più subdola dei nostri compagni viene dall’ambiente fiorentino nazionalcomunista che deponendo pubblicamente a Firenze a favore del gerarca fascista della Robbia e contro operai stimati veri comunisti da chiunque si sarebbe sputtanato: e il partito non permette questo perché gli operai non devono accorgersi che i loro più abili aguzzini sono proprio i funzionari del PCI» (’Battaglia Comunista’, n.25, 29 ottobre 1947).

Ma a questa doccia fredda se ne aggiunse immediatamente una seconda. Il processo sarebbe stato trasferito, è vero, ma né a Lucca, né ad Arezzo, bensì negli Abruzzi, a L’Aquila. A tanti chilometri di distanza il defunto marchese avrebbe potuto essere presentato come il più innocuo degli individui, si sarebbe potuto testimoniare sulla sua purezza ed innocenza. L’uccisore ed i suoi ’complici’ sarebbero stati presentati come pericolosi delinquenti. Dal punto di vista economico, questa ulteriore vigliaccata borghese, mentre non avrebbe impedito ai ricchi rappresentanti della vittima di mettere sul piatto della bilancia tutta la loro potenza di classe per schiacciare un pugno di proletari, avrebbe però messo in gravissime difficoltà gli accusati: molti testimoni della difesa non avrebbero avuto le possibilità economiche di affrontare le spese di viaggio. Ma soprattutto il processo avrebbe perduto, trasferito fuori del suo contesto sociale, sia il carattere politico sia quello strettamente giuridico per assumere unicamente quello della vendetta di classe.

Come era prevedibile il processo, celebrato a L’Aquila nel luglio 1948, condannò volutamente tutti e cinque i proletari che già da due anni erano rinchiusi in galera: Ilario Filippi ebbe 27 anni (ridotti a 18 per condono); gli altri quattro, innocenti, furono condannati a 20 anni (ridotti a 13). Il compagno Filippi fu due volte vittima del regime borghese: la prima volta durante la guerra partigiana, quando la borghesia, nel tentativo di rifarsi una verginità politica, attraverso i suoi servi nazionalcomunisti, aveva armato la mano e lo spirito dei proletari contro i fascisti presentati come gli unici responsabili di tutte le disgrazie del proletariato: non c’era che da sopprimere i fascisti in camicia nera per liberarsi per sempre dell’oppressione di classe. Se il Filippi avesse ammazzato il marchese un anno prima, avrebbe ricevuto una medaglia al valore. La seconda volta è stato vittima della rappresaglia borghese che ha colpito in lui non il partigiano, ma il comunista rivoluzionario. Così come, estendendo la condanna agli altri quattro proletari non si è voluto colpire l’antifascismo, ma la classe proletaria intera colpendo il partito comunista internazionalista. ’Battaglia Comunista’ del 20 luglio usciva con questo titolo: «Cinque per uno – Rappresaglia di classe».

La borghesia sa di essere in lotta permanente con il proletariato e contro di esso adotta le leggi di guerra. In quei giorni, a Roma, si stava svolgendo il processo a Kappler come criminale di guerra reo di avere applicato il concetto di rappresaglia nazista che prevedeva ’dieci italiani per un tedesco’. La democrazia post fascista utilizzò un metro "più umano", ma lo stesso criterio, applicando la rappresaglia di ’cinque proletari per un borghese’. Nei confronti di Kappler la borghesia italiana adottò il criterio della clemenza (anche se non essendo un pesce molto grosso fu tra quelli peggio trattati), sui proletari di S. Polo usò quello della vendetta: in fondo Kappler apparteneva alla stessa classe sociale dei suoi giudici, perché avrebbero dovuto infierire?
 

Impunità democratica per i gerarchi fascisti

Parlando dell’epurazione antifascista, Ernesto Ragionieri, scrive: «Dagli ambiziosi progetti iniziali (...) si passò rapidamente ad una stentata e burocratica prassi epurativa, che coinvolse ed angustiò, come troppo spesso avviene in questi casi, i ’pesci piccoli’, sottoposti a lunghi e complessi controlli, lasciando invece indenni gli alti funzionari e quanti avevano realmente contratto responsabilità pesanti nelle attività svolte sotto la dittatura fascista». L’unica cosa che lo storico stalinista si dimentica di dire è che il suo partito allora si trovava al potere ed era uno dei partiti più potenti (forse il più potente), sia dentro sia fuori del governo; e si dimentica di dire che il capo del loro partito era anche il ministro di Grazia e Giustizia. A chi dare la colpa se l’epurazione lasciò indenni i maggiori responsabili del passato regime?

A quanto ne sappiamo noi, forse l’unico epurato fu il tenore Beniamino Gigli. Fu torto un capello a Graziani? Badoglio, che dal fascismo aveva tratto più vantaggi dello stesso Mussolini, quando se la vide brutta si rifugiò all’interno dell’ambasciata inglese, e, visto che tra ladroni c’è sempre modo di intendersi, Churchill ordinò al suo ambasciatore di ospitare il Maresciallo d’Italia, di farlo proteggere da un reparto militare e, se fosse stato necessario, di portarlo al sicuro a Malta. Non fu necessario perché la vigliacca borghesia italiana, per bocca di Mario Berlinguer (padre di Enrico), dichiarò che mai si era pensato ad arrestare Badoglio (’Corriere della Sera 25 novembre 1946). Il principe Valerio Borghese venne condannato ad otto anni (condonati). Occhetto (pesce piccolo), il segretario del questore di Roma, Caruso, quello che aveva integrato la lista Kappler per le fosse Ardeatine, venne condannato a 30 anni, ma ebbe poi l’amnistia e rientrò nella carriera. Il generale Roatta, condannato all’ergastolo, venne prelevato dalla prigione e trasportato al sicuro in Spagna, rientrò in seguito in Italia dove fino alla morte godette (è proprio il caso di usare questo termine) della pensione di generale di corpo d’armata. L’ambasciatore della Repubblica di Salò a Berlino, Filippo Anfuso, fu condannato all’ergastolo, scontò la sua condanna a ... Montecitorio come deputato del MSI.

Per finire leggiamoci una pagina della Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi di Paul Ginsborg: «L’epurazione si risolse in un fallimento completo (questo è quanto ingenuamente pensa lo storico). La magistratura non ne fu minimamente toccata e quando fu il suo turno di giudicare prosciolse quanti più imputati poté dall’accusa di collaborazione col passato regime. Anche altri settori fondamentali del personale statale rimasero inviolati.

Nel 1960 si calcolò che 62 dei 64 prefetti in servizio erano stati funzionari sotto il fascismo. Lo stesso era vero per tutti i 135 questori e per i loro 139 vice.(...) I dirigenti fascisti furono assolti con formulazioni oltraggiose. Paolo Orano, capo di stato maggiore di Mussolini durante la marcia su Roma, membro del Gran Consiglio e sottosegretario agli Interni, fu liberato perché il tribunale fu incapace di stabilire un "nesso causale" tra il suo comportamento e la distruzione della democrazia. Renato Ricci fu ritenuto non colpevole in quanto la Guardia nazionale di Salò, di cui era stato comandante, fu considerata nient’altro che una forza di polizia interna».

Tutto questo è niente, il bello doveva venire con l’amnistia. Paul Ginsborg continua: «Nel giugno 1946 Togliatti promulgò un’amnistia che segnò la fine dell’epurazione (...) Grazie alle sue norme sfuggirono alla giustizia anche i fascisti torturatori. Venne stabilita una distinzione grottesca e disgraziata tra torture ’normali’ e ’sevizie particolarmente efferate’. Con questa formula i tribunali riuscirono ad assolvere crimini quali lo stupro plurimo di una partigiana, la tortura di alcuni partigiani appesi al soffitto e presi a calci e a pugni come un sacco da pugile, la somministrazione di scariche elettriche sui genitali attraverso i fili di un telefono da campo. Per quest’ultimo caso la Corte di Cassazione stabilì che le torture furono fatte soltanto a scopo intimidatorio e non per bestiale insensibilità come si sarebbe dovuto ritenere se tali applicazioni fossero avvenute a mezzo della corrente ordinaria». Avrebbero potuto sperare, i nostri compagni, in una giustizia borghese?

(continua   [ nn. 42 - 43 - 44 - 45 - 46 - 47 - 49 - 50 ])

 
 
 
 
 
 



Dall’Archivio della Sinistra
 

L’assassinio politico è un metodo proprio sia del fascismo, sia dello stalinismo. Ma fascismo e stalinismo non tralasciano di speculare sui cadaveri dei propri caduti per presentarsi come vittime della violenza e dell’intolleranza altrui. Criminalità e vittimismo sono due aspetti non disgiungibili dei partiti e dei poteri controrivoluzionari.

Noi, che vittimisti non siamo, rifiutiamo, parimenti, l’uso della violenza e dell’assassinio individuali come metodo di lotta politica. Non condanniamo però questa pratica in nome del diritto, che è solo una maschera dietro la quale si nasconde una dittatura di classe, né la condanniamo in nome di una morale, basata su principi metafisici ed irreali, ma altrettanto classista e strumento del potere; noi ne rileviamo e ne denunciamo le cause nel regime capitalista borghese.

Con questa ottica valutiamo anche gli episodi di violenza individuale, compiuti da singoli proletari, atti di violenza con i quali questi intendono vendicare ben più gravi attentati subiti dalla classe alla quale essi appartengono. L’attentato in questo caso, costituisce un estremo e disperato atto di ribellione della vittima nei confronti di una figura che rappresenta la personificazione della violenza e dei soprusi commessi dalla classe nemica. Neghiamo che questo sia un metodo rivoluzionario e tantomeno marxista ed infatti la Sinistra comunista (come del resto tutta la tradizione del marxismo ortodosso) non l’ha mai né praticato, né favorito o semplicemente avallato. Però non si è mai unita al coro degli accusatori borghesi.

La Sinistra comunista ha sempre valutato le motivazioni materiali ed emotive dell’attentatore, mettendo l’accento non tanto sull’errore di questi atti disperati, quanto sulle motivazioni che hanno spinto l’attentatore ad agire ed abbiamo spiegato come, sempre, questi episodi siano conseguenza o dell’assenza o del passaggio del partito proletario nel campo del nemico di classe. Dove e quando esiste il partito marxista rivoluzionario questi episodi non accadono perché non hanno ragione di accadere.

Il partito forma la coscienza di classe del proletariato dandogli una chiara visione delle finalità e dei metodi della lotta rivoluzionaria per la presa del potere, coscienza che determina anche un rafforzamento del carattere e della volontà dei singoli compagni.

Quei proletari che individualmente compiono attentati o contro persone o contro istituzioni borghesi sono due volte vittime della violenza capitalista; innanzi tutto perché, loro come la loro classe, vengono quotidianamente oppressi materialmente e spiritualmente da una classe sfruttatrice che non si arresta di fronte a niente nella sua inesauribile sete di profitto; in secondo luogo perché il tradimento dei partiti opportunisti impedisce loro la riorganizzazione e la lotta per il riscatto proletario.

Ne consegue che i comunisti mai potranno unirsi al livore della borghesia e dei traditori che incitano al linciaggio di quei proletari che con un estremo atto, vano e disperato, hanno tuttavia dimostrato la loro volontà e la loro determinazione a ribellarsi.

Ma la migliore spiegazione del lineare atteggiamento tenuto dalla Sinistra comunista al riguardo dell’assassinio politico sono i due articoli che vengono di seguito ripubblicati. Il primo apparve nell’agosto 1935 quando gli stalinisti, sterminatori di marxisti rivoluzionari, accusarono i bordighisti per la morte del loro compagno Montanari; il secondo fu pubblicato nel gennaio 1965 quando un comitato democratico, con l’adesione di qualche transfuga della nostra scuola, pretese di fare del vittimismo interessato ed ipocrita speculando sul cadavere di Mario Acquaviva. Questi due articoli rappresentano una eccellente lezione di comportamento comunista per tutti i compagni ed un solenne ceffone sulle facce di bronzo dei nostri nemici e presunti ... cugini.
 
 
 
 
 
 

da Prometeo, n.121, 25 agosto 1935
L’ATTENTATO DI GUIDO BEISO

Venerdì 9 agosto, nel Métro di Belleville a Parigi, Guido Beiso ha tirato sul centrista Camillo Montanari il quale soccombeva l’indomani all’ospedale. La Difesa del 17 agosto pubblicava il «Saluto del Comitato Centrale del Partito Comunista d’Italia» ed un commento di L. Gallo al «nostro Agostino». In detti documenti il centrismo presenta l’attentato del «provocatore trotzkista-bordighista» come dovuto «ai trotzkisti e bordighisti, i responsabili politici e morali dell’assassinio: le loro campagne di calunnie, di istigazioni, di odio contro l’URSS, contro il comunismo ed i suoi uomini migliori».

Quello che la stampa centrista passa accuratamente sotto silenzio sono le circostanze che hanno determinato l’attentato di Beiso. Quest’ultimo era stato diffidato nel n.

32 di Azione Popolare che lo presentava quale provocatore sospetto, ed i pochi elementi di cui disponiamo nel momento attuale, ci permettono di affermare categoricamente che la diffida era la conclusione che dava il centrismo ad una divergenza politica sorta in seguito alle recenti manifestazioni della politica dei partiti comunisti e dell’URSS. Beiso aveva cercato invano di ottenere una smentita al comunicato che lo infamava e quando per caso egli incontrò Montanari, in un eccesso di indignazione, tirò su di uno di quelli che egli considerava come il responsabile della diffida.

Questi elementi di fatto che il centrismo cerca di offuscare, se non addirittura di nascondere, sono i moventi diretti del gesto di Beiso, e fanno parte del metodo che è stato introdotto nel seno dell’emigrazione politica. È impossibile al centrismo di provare che la politica che esso applica e che rappresenta una rottura totale con i programmi su cui furono fondati i partiti comunisti, l’Internazionale, su cui vinsero gli operai russi nel 1917, che la politica di sanzione agli armamenti dell’imperialismo francese, di difesa della patria, della democrazia borghese, del tricolore, sia una politica comunista. Ma pertanto ai fini stessi della funzione di tradimento che esso svolge nel seno del movimento proletario, il centrismo deve spezzare con tutti i sistemi qualunque voce si levi fra i proletari per combattere la sua opera di corruzione, di degenerazione, di annientamento delle basi della lotta del proletariato. Laddove, come il Russia, il centrismo possiede tutti i poteri dello Stato, esso non esita a fare ricorso alle peggiori forme delle repressione e schiaccia con la violenza, la prigione e la deportazione ogni opposizione che sorge nelle fila operaie. Fuori di Russia il centrismo non ha che un sistema di identificare centrismo e comunismo e questo consiste nell’identificazione al fascismo di tutte le posizioni politiche che si oppongono ad esso. Ed il dirigente del partito crede che l’evoluzione che lo ha portato dai programmi del 1917-20 al loro tradimento aperto rappresenta un corso ’naturale’, spontaneo e si dice dunque che chiunque deve accettare tranquillamente la qualifica di fascista. Dire al proletario che esso è un provocatore, è cosa normale per il centrista che ha di già raggiunto il campo nemico. Presentare alle masse come provocatore il membro del partito che si solleva contro la politica imposta al partito, questo è il metodo che ha avuto largo impiego e che ha condotto all’attentato di Beiso. Chi ha armato le mani di quest’ultimo è giustamente il centrismo, il quale ha potuto mantenere la sua influenza fra le masse grazie anche all’impiego di questi sistemi, mentre il fascismo poteva largamente profittare dei risultati che poteva ottenere.

Non uno ma mille casi di provocazione si son verificati nell’emigrazione ed ogni volta il provocatore bruciato si eclissava dopo avere potuto ottenere largo credito nelle sfere dirigenti del partito, fra le quali egli si presentava come il prototipo dell’antibordighismo e dell’antitrotzkismo. Per completare la nostra informazione diciamo subito che il trotzkismo è di già caduto nel gioco centrista e si è affrettato a dichiarare che non ha nessun rapporto con Beiso. Quanto a noi, noi non abbiamo da rispondere di nulla, né sentiamo il dovere di rispondere di un fatto la cui responsabilità ricade unicamente sul centrismo: se la diffida non vi fosse stata, Montanari non sarebbe stato ucciso e le prigioni borghesi non sarebbero state arricchite di una nuova vittima.

Le nostre posizioni sono chiare, come inequivocabili sono anche i sistemi della lotta che riteniamo idonei alla lotta contro il centrismo, strumento della controrivoluzione mondiale, del capitalismo. Non di un millimetro noi li cambieremo, non di un velo noi ricopriremo le nostre rivendicazioni politiche, anche se lo scandalismo centrista profitta di un cadavere per accreditare il suo gioco fra le masse. La responsabilità morale e politica dell’attentato appartiene in modo inequivocabile alla direzione del partito comunista d’Italia che deve ritrarre da questo fatto la sola significazione che esso comporta: cessare dall’impiego di metodi che i proletari non sopportano, considerare che se è "normale" per un centrista di evolvere verso il capitalismo, l’accusa di ’provocatore’ lanciata a dritta e a manca non appare "normale" per un proletario, che trascinato dall’indignazione, vedendosi nell’impossibilità di ottenere la prova dell’accusa infamante o la smentita della diffida, in faccia al sorriso sardonico di chi può insultare ma anche rifiutare una giustificazione, si sente trasportato ed esplode in un atto di vendetta.

Ma il centrismo vuole porre l’attentato di Beiso sul terreno della politica generale e Montanari sarebbe caduto «vittima di un feroce assassinio, preparato alla sua missione omicida nei gruppetti trotzkisti e bordighisti emigrati, agenti della reazione fascista, che cerca con tutti i mezzi di pugnalare il partito comunista che lotta eroicamente per salvare l’Italia dalla catastrofe a cui la porta il fascismo particolarmente in questo momento con la guerra in Abissinia». All’ultima seduta della Società delle Nazioni, il suo emerito presidente, il signor Litvinof ebbe a felicitare Laval di avere fatto approvare il compromesso che sanziona lo sviluppo degli armamenti fascisti diretti a sostituirsi al regime del Negus nello sfruttamento delle masse abissine. Laval aveva potuto contenere l’opposizione degli strapotenti oppressori inglesi al piano del capitalismo italiano ed ottenere, per questo, le felicitazioni del ’compagno Litvinof’. Il congresso di Basilea e di Bruxelles? Polvere negli occhi delle masse, narcotico che si somministra perché i proletari non scorgano la terribile realtà attuale e che vede tutti gli Stati imperialisti legati insieme allo Stato sorto dalla vittoria del 1917, e stretti in una solidarietà infrangibile per preparare la nuova guerra mondiale. La nostra Frazione combatte da anni contro la politica che, come essa lo previde fin dalla sua fondazione, non poteva che condurre al tradimento degli interessi del proletariato. Questa politica è oggi in atto. Noi sappiamo benissimo che la lotta per il comunismo non è la lotta per la serie degli atti terroristi, che la lotta per il comunismo la si realizza attraverso la difficile opera della costruzione delle frazioni di sinistra, le eredi del programma della rivoluzione russa tradita dal centrismo. Ma questo il centrismo lo sa quanto noi, esso che può starnacchiare quanto vuole: di contro al suo precipizio nel fango della controrivoluzione, la nostra Frazione tempra i suoi quadri per cercare di mostrarsi degna dell’eredità che le spetta: mantenere fede agli impegni che Bordiga prese nel 1921, a Livorno, nei confronti del proletariato italiano ed internazionale.

Ma il centrismo tenta la diversione, vuole commercializzare il cadavere di Montanari, vuole farne una bandiera per la lotta contro il comunismo. In questa manovra il centrismo può riferirsi a precedenti insigni: ogni volta che un attentato si è verificato i boia del capitalismo hanno tentato sempre di profittarne per scatenare ondate di repressioni crudeli contro le masse. Per un morto migliaia di caduti proletari, come d’altronde si è visto recentemente in Russia, dopo l’uccisione di Kirov.

La nostra Frazione ha delle responsabilità politiche ben precise che nessuna manovra potrà alterare. Essa non accetta il dilemma che il centrismo le porge: per o contro Beiso. Il gesto di quest’ultimo non può essere spiegato con criteri moralistici o giuridici, ma unicamente politici e la sua responsabilità – lo ripetiamo – ricade unicamente sul centrismo. Ma il fatto è là. Noi che non possiamo identificarci che con i proletari i quali applicano i ben noti sistemi della nostra lotta politica, non diremo una sola parola che possa indebolire la posizione di Beiso che ha creduto dovere seguire altra via da quella da noi indicata. Nelle prigioni capitaliste Beiso è l’oggetto della campagna velenosa del centrismo che ha un finto rimpianto su Montanari mentre vuole servirsi di questo cadavere per fare fruttificare la sua azione controrivoluzionaria fra le masse. Beiso è altresì respinto dai trotzkisti che vogliono lavarsi da una accusa che il centrismo aveva lanciato a scopo di manovra. Il centrismo vorrebbe forse che, per tema di cadere nella sua manovra, noi si lasci Beiso alla mercé della reazione borghese? Si sbaglia. La nostra Frazione contribuirà a fare risultare la verità dai dibattimenti del processo e questo senza fare ricorso ai sistemi dello scandalismo così cari al centrismo. Il centrista Di Modugno che uccise il console fascista di Parigi ha potuto essere strappato alla prigione borghese, noi ci auguriamo vivamente che Beiso possa uscire libero dalle tenaglie di avvenimenti nei quali il centrismo lo aveva gettato. Dipenderà unicamente da Beiso di prendere posto nell’avvenire nelle lotte del proletariato per il trionfo della sua liberazione.
 
 
 
 
 
 

da Il Programma Comunista, 12 gennaio 1965
LE VITTIME NON POSSONO ESSERE RIABILITATE DAI LORO CARNEFICI

La stampa d’informazione ha annunciato la costituzione di un ’Comitato italiano per la verità sui misfatti dello stalinismo’. Tale ’Comitato ha preso l’iniziativa di pubblicare un volumetto presso le ’Edizioni Azione Comune - Milano’, dal titolo: Duecento Comunisti Italiani tra le Vittime dello Stalinismo. Ci pare necessario fissare i punti seguenti:

1 - Questo ’Comitato’ non solo serve gli interessi della socialdemocrazia, ma ne è una diretta emanazione. Infatti: a) Si trova scritto nel volumetto citato: «l’autore di questa ricerca, entrato giovanissimo nel PCI, ne fu espulso per ’titoismo’ nel 1950. Già segretario della Federazione Milanese dell’Unione Socialista Indipendente (USI), è attualmente redattore di Corrispondenza Socialista e collabora a diverse pubblicazioni democratiche e socialiste». b) I trenta componenti il ’Comitato’ si suddividono in 12 iscritti al PSI come ultranenniani; 4 iscritti al PSDI; 2 redattori della rivista filo-americana ’Tempo Presente’; 2 anarchici; 1 sindacalista della UIL; ecc. ecc. Se si volesse aggiungere una nota di colore, si dovrebbe osservare che gli ’Assessori’ e i ’Consiglieri comunali’ figurano in numero di quattro. c) Infine, Corrispondenza Socialista, rivista della Destra Socialdemocratica, forse per riconoscere nel ’Comitato’ una propria legittima creatura e per rallegrarsi con il proprio redattore, ha presentato entusiasticamente, nel suo numero 7 - luglio 1964 - il volumetto edito da ’Azione Comune’.

Risulta dunque provato ad abundantiam che la socialdemocrazia ha costituito il ’Comitato Italiano per la Verità sui Misfatti dello Stalinismo’, e li ha propagandati e diffusi in mezzo all’opinione pubblica.

2 - Il volumetto citato contiene un ’Appello’, il quale conclude con queste parole: «Nello stesso tempo siamo anche convinti della necessità di documentare davanti ai lavoratori italiani fino a quale grado di abiezione le organizzazioni proletarie possono degenerare allorché esse si aggiogano ad una politica di potenza e alla sua ragione di Stato e tradiscono i principi dell’autogoverno, della libera discussione e del rispetto reciproco fra tutte le tendenze delle classi lavoratrici». Non intendiamo soffermarci sull’ultima frase – ’fra tutte le tendenze delle classi lavoratrici’ – né ricordare quello che fu l’insegnamento della stessa socialdemocrazia classica, e del suo teorico Karl Kautsky: vale a dire, che il socialismo è il movimento storico di una sola e di una ben determinata classe lavoratrice, il proletariato, e che il movimento politico di questa sola classe si esprime in un solo partito politico. Riconosciamo che sarebbe una folle illusione supporre negli intellettuali e ’Assessori’firmatari dell’’Appello’ la conoscenza dei verbali dei congressi della socialdemocrazia tedesca e della Seconda Internazionale.

Passando dunque oltre, affermiamo categoricamente che il PSI e il PSDI, sedici membri dei quali fanno parte del ’Comitato’, non sono in nessun caso ’tendenze delle classi lavoratrici’, e ciò per le ragioni stesse invocate nell’’Appello’ citato, cioè:

Il PSI e il PSDI «si aggiogano ad una politica di potenza e alla sua ragione di Stato» nel momento stesso in cui sedici loro influenti rappresentanti si servono delle «vittime dello stalinismo» per tuonare contro «la politica di potenza e la sua ragione di Stato». Il PSI e il PSDI fanno parte entrambi del governo di centro-sinistra, e sono gli strumenti diretti della borghesia italiana e dell’imperialismo americano. Il PSDI è direttamente responsabile dello sfruttamento inaudito e degli eccidi sanguinosi compiuti a danno del proletariato dallo Stato borghese italiano dal 1947 ad oggi. Il PSI e il PSDI sono stati al governo dal 1943 al 1947 insieme alla Democrazia Cristiana ed al PCI; insieme ai preti ed agli stalinisti hanno salvato il capitalismo italiano dalla crisi del secondo dopoguerra; insieme hanno redatto e firmato la Costituzione italiana fondata sulla proprietà, sul lavoro e sullo sfruttamento.

Le correnti dell’antico PSI sezione della Seconda Internazionale alle quali gli attuali dirigenti socialisti e socialdemocratici si richiamano (Bonomi, Bissolati ed altri arnesi) si ’aggiogarono’ nel corso della prima guerra imperialista al carro dell’Intesa, alla sua «politica di potenza e alla sua ragione di Stato» conducendo una politica sostanzialmente identica a quella dell’interventista Mussolini e del ’democratico’ Salvemini. Quelle stesse correnti furono complici della socialdemocrazia tedesca e dei suoi boia Noske e Scheideman, assassini del proletariato tedesco, assassini di Rosa Luxumburg e di Karl Liebknecht. Il PSI ha sabotato negli anni 1919-1922 la rivoluzione proletaria in Italia, ed ha firmato in quegli stessi anni il patto di pacificazione con i fascisti. Il PSI si è opposto negli anni seguenti alla «politica di potenza» e alla «ragione di Stato» dell’Italia fascista e della Germania nazista, solo per aggiogarsi alla «politica di potenza» e alla «ragione di Stato» della Francia dell’Inghilterra degli Stati Uniti e della stessa Russia staliniana. Il PSI è stato infine insieme al PCI lo strumento diretto dell’imperialismo americano e della controrivoluzione stalinista nel corso della seconda guerra mondiale, e fu uno dei responsabili del massacro dei 50 milioni di proletari immolati per la sopravvivenza del capitalismo e dell’imperialismo.

In quegli anni i Saragat, i Nenni, i Silone, i Giolitti, i Cucchi e compagni non avevano nulla da dire intorno alle «vittime dello stalinismo»: esse erano benvenute, e il boia Stalin era allora un sincero amico della «democrazia».

3 - Da quanto detto risulta dunque chiaramente che: a)la socialdemocrazia italiana e internazionale è aggiogata dal 1914 alla «politica di potenza» e alla «ragione di Stato» dell’imperialismo, e si trova oggi al servizio del centro dell’imperialismo mondiale: gli Stati Uniti. b)La socialdemocrazia italiana ed internazionale ha appoggiato il terrore staliniano quando questo era diretto contro l’ala rivoluzionaria del Partito bolscevico e dell’Internazionale Comunista, e ha salutato con gioia lo Stato poliziesco di Stalin quando questo si mise al servizio dell’imperialismo anglo-americano nel corso della seconda guerra mondiale. c)Il tradimento degli interessi storici del proletariato ad opera della socialdemocrazia italiana e internazionale è in un certo senso peggiore dello stesso tradimento operato da Stalin e dai suoi successori: in primo luogo, perché è più antico, e risale al 1914; in secondo luogo perché il sabotaggio della rivoluzione proletaria in Europa negli anni dal 1914 al 1926 ad opera della socialdemocrazia fu la causa principale della sua degenerazione staliniana. In conclusione: lo stalinismo è figlio della socialdemocrazia: le vittime dello stalinismo sono nello stesso tempo le vittime della socialdemocrazia.

4 - ’Corrispondenza Socialista’ (numero 7, luglio 1964) scrive: «L’iniziativa di questa pubblicazione si deve ad un organismo appositamente costituitosi – il ’Comitato Italiano per la Verità sui Misfatti dello Stalinismo’ – del quale fanno parte militanti di tutti i gruppi e le tendenze del movimento operaio del nostro paese (dal socialdemocratico al comunista internazionalista, dal socialista all’anarchico)...». Inoltre nel ’Comitato dei trenta’, composto di 12 socialisti nenniani, 4 socialdemocratici, 4 ’assessori e consiglieri comunali’, 1 sindacalista della UIL, 2 anarchici, 2 redattori della rivista filo-americana ’Tempo Presente’, e figure meno "illustri’, spiccano pure 2 sedicenti ’comunisti internazionalisti’. Ora, per quanto riguarda l’affermazione sopra riportata dalla rivista socialdemocratica di destra ’Corrispondenza Socialista’, secondo la quale: primo, il Partito Comunista Internazionalista sarebbe ’una tendenza’ del movimento operaio; secondo, il Partito Comunista Internazionalista farebbe parte del ’Comitato Italiano per la Verità sui Misfatti dello Stalinismo’, noi rispondiamo quanto segue:

A) Il Partito Comunista Internazionalista (ora Internazionale) è il solo che propugni oggi i principi del marxismo rivoluzionario difesi nel 1914 dalle sinistre socialiste contro il tradimento della socialdemocrazia, difesi nel 1926 dalle sinistre comuniste contro il tradimento di Stalin: esso è dunque l’unica organizzazione politica che abbia il diritto storico di richiamarsi alle vittime proletarie e del tradimento socialdemocratico, e del tradimento stalinista.

B) Il Partito Comunista Internazionale è l’unica organizzazione rivoluzionaria sopravvissuta alla sconfitta del proletariato internazionale e ai colpi della controrivoluzione, prima socialdemocratica, poi stalinista: esso è dunque quanto rimane di un esercito sconfitto. Questa sconfitta permette oggi ai boia del proletariato, ai servi dell’imperialismo, di usare come icone inoffensive, per la mistificazione delle masse, le loro stesse vittime. Il Partito Comunista Internazionale è oggi costretto, per la forza del nemico di classe, a tollerare questa infamia: ma esso denuncia oggi di fronte al proletariato tale oscena manovra; ma esso dichiara che i responsabili dovranno un giorno rendere conto delle loro azioni al proletariato rivoluzionario.

C) I sedicenti ’comunisti internazionalisti’, che dell’illustre comitato fanno parte, non hanno alcun diritto di rivendicare il martirio dei militanti comunisti caduti sotto i colpi dello stalinismo, non hanno alcun diritto di vendere questo martirio ai boia della socialdemocrazia. Gli Atti, gli Acquaviva e i loro compagni, non sono morti per essere commemorati dai Nenni e dai Saragat. Partecipando alla costituzione del "Comitato Italiano per la Verità sui Misfatti dello Stalinismo", i sullodati sedicenti ’comunisti internazionalisti’ hanno dimostrato quello che da tempo noi sappiamo, cioè che non sono assolutamente comunisti internazionalisti, ma poveri rottami di un periodo degenerativo, alla caccia del sogno di un minestrone osceno di gruppetti estremisti – a cui ben potranno essere invitati i filocinesi che riabilitano lo stesso stalinismo; mentre un punto fermo e discriminante del nostro movimento è il rifiuto e lo spregio di simili luridi affasciamenti.

5 - A p.11 del volumetto citato, si legge: «Le vittime non possono in alcun modo essere ’riabilitate’ dai loro carnefici». Noi accettiamo toto corde questa verità lapalissiana. Le vittime dello stalinismo sono nello stesso tempo le vittime della socialdemocrazia. Per questa ragione, i socialdemocratici ’non possono in alcun modo riabilitare’ le vittime dello stalinismo. Per questa ragione i boia della socialdemocrazia e i loro accoliti pagheranno un giorno, insieme ai boia dello stalinismo, i loro delitti.