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"COMUNISMO" n. 44 - luglio 1998
Presentazione.
– LE CAUSE STORICHE DEL SEPARATISMO BASCO   [ - 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - ].
IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO NEI PAESI DEL MAGHEREB  [ - 1 - 2 - 3 - 4 - ]
   UNA FUORVIANTE PROSPETTIVA PER IL PROLETARIATO
            La polveriera egiziana - Il fondamentalismo in Sudan.
– MARXISMO E LEGGI DIFFERENZIALI   [ 1 - 2 - 3 ].
INVARIANZA E "CREATIVITÁ".
– Appunti per la Storia della Sinistra: LA REPUBBLICA "CATTO-COMUNISTA" [ nn. 42 - 43 - 44 - 45 - 46 - 47 - 49 - 50 ].
– Dall’Archivio della Sinistra:
     Abbasso la Repubblica borghese, Abbasso la sua Costituzione (Prometeo, marzo 1947).
     La costituente si diverte, il proletariato tira la cinghia e stringe i denti (Battaglia Comunista, marzo 1947).

 
 
 



Si apre questo nuovo numero della Rivista, che continua come sempre il tenace e sicuro lavoro del Partito, mentre l’ennesima bufera, questa volta proveniente dall’Asia, scuote i mercati finanziari e le borse del mondo intero; e nello stesso tempo la capitalistica Russia affonda nel pieno della crisi economica e finanziaria. D’altro canto non è mai cessata la violenta tensione tra Stati nelle diverse aree geopolitiche. Gli scontri tra Stati o gruppi di Stati per i controlli dei mercati si stanno facendo di tempo in tempo più aspri, le crisi politiche generali sfociano in sanguinosissime guerre locali, scoppiate anche all’immediata periferia della non più allineata Europa dell’Euro; l’estremo est dell’Asia è teatro di uno scontro gigantesco, travestito da mutuo sostegno monetario, tra antichi nemici, Cina e Giappone, per il predominio dell’immensa area.

Registriamo gli eventi con animo scientifico: ben sappiamo che quelli nel mondo finanziario sono epifenomeni, effetti secondari del più generale e contraddittorio processo di produzione ed accumulazione capitalistico. Pure, nel lungo periodo, anche gli effetti collaterali assumono valore significativo. L’intero meccanismo capitalistico mondiale sembra entrato in un grave ciclo congiunturale, mentre tutti i tassi di crescita degli indicatori economici delle principali economie mostrano valori bassissimi, frutto di una ipertrofia produttiva e dell’accumulazione spaventosa che non consente crescita degna di questo nome, e le crisi più o meno gravi si manifestano nei punti nodali più deboli o meno protetti, scaricando così le tensioni generate nel complesso del capitalismo.

Queste fasi da un ventennio almeno le vediamo ripetersi con frequenza crescente; i loro esiti nel medio periodo non sono in genere particolarmente significativi, mentre degno di nota è appunto il breve intervallo tra crisi, ripresa non impetuosa, nuova crisi.

Tale percorso, considerato nell’arco temporale di una generazione alla luce della nostra dottrina, mostra un andamento che porta ineluttabilmente ad un punto di rottura che non potrà più essere scaricato in zone periferiche, ma colpirà al cuore il sistema capitalistico con lo sbocco che naturalmente gli Stati borghesi sono costretti ad usare in questo caso. La guerra tra imperialismi, da troppo tempo assente sulla scena del mondo, effetto ’perverso’ dello strapotere economico e militare del vincitore della seconda mondiale, torna allora a far sentire la sua necessità di bagno rigeneratore – bagno disumano di sangue per l’umanità lavoratrice – che distruggendo masse immense di ricchezza accumulata, permetta il successivo mentecatto ciclo di accumulazione a tassi di due cifre. Evento che da un allargamento forsennato dei mercati, ampliati senza soste, è stato dilazionato fino alle estreme possibilità, ma la cui ombra di sangue torna a manifestarsi, a dispetto dei tanti sedicenti uomini ’di buona volontà’ e ridicoli sistemi politici sovra-nazionali che avrebbero la pretesa di mediare i conflitti tra Stati od intervenire a spengere i focolai di guerra.

La nostra dottrina, patrimonio oggi di pochissimi, legge in tal senso gli accadimenti turbolenti di questa estate; non ci esaltiamo per le crisi ripetute di questo meccanismo inumano, come non ci siamo mai abbattuti per i suoi temporanei successi e per come ha potuto in questa ultima tornata di millennio sradicare dal cuore dell’umanità lavoratrice speranza e certezza di un modo migliore di vivere e produrre. Non possiamo però fare a meno di leggere con gusto di questi ultimi accidenti della ’finanza globale’, o almeno i variopinti commenti che la scienza finanziaria propina ad ogni scossone, a monito della delicatezza dell’argomento e consolazione delle torme di ’risparmiatori’ che nel gioco delle borse hanno buttato i loro soldi più o meno sudati. Ecco allora che le altalenanti vicende della finanza mondiale fanno sbizzarrire i pronostici dei commentatori economici, che un giorno gridano alla catastrofe del sistema globale, un altro tirano sospiri di sollievo per le ’ripresine’ delle borse, un altro ancora innalzano lodi alla disciplina monetaria cinese – figurarsi che genere d’argomento! – che ha eretto un baluardo contro la speculazione a sostegno della finanza asiatica e del sistema bancario giapponese, la seconda potenza economica nel mondo, la cui moneta si indebolisce giorno dopo giorno.

Il Giappone, con le banche più grandi e più integrate nei sistemi finanziari internazionali, alla mercè della buona disposizione delle autorità monetarie dell’ultimo grande Stato che si richiama al ’comunismo’, il solo che sia rimasto – a parte la derelitta e folcloristica Cuba – dopo il tracollo e la disintegrazione della URSS! Miliardi e miliardi di sudati risparmi, anzi la finanza mondiale salvata dai decisi nipoti del Grande Timoniere, queste sono le delizie e mirabili novità del mondo presente.

La ricetta che erompe poderosa da tutte le gole, sale al cielo; più vigilanza da parte del Fondo monetario, più vigilanza internazionale sui sistemi bancari, e il coraggio di ristrutturare quelli in preda a ’sofferenze’ non altrimenti colmabili. Perdio, coraggio e impietosa chirurgia da parte dei governi, quale che sia il loro colore. Banalità cui nessuno crede, ma che nella schizofrenia di un sistema ormai fuori di ogni controllo razionale fanno il paio con l’impotenza anche ad antivedere il sopraggiungere di ogni nuova crisi.

Ogni Stato, a conti fatti, difenderà alla fine con le unghie e con i denti il proprio sistema bancario, perché questo significa appunto difendere il proprio sistema produttivo, la propria economia, la capacità di portare la sfida sui mercati interni ed esteri. È una verità di solare evidenza, ma l’intrinseca falsità dei sicofanti del capitalismo putrescente fa intonare le pietose giaculatorie del controllo; e del resto la sterminata massa dei capitali a giro per il mondo ha il cuore sensibile, è delicata e cagionevole, e non sopporta le asserzioni brutali e dirette.

Passerà ’domani’ anche questa fosca congiuntura, un cialtrone che finge di avere il più grande potere politico del mondo confessa contrito al mondo intero le sue porcheriole, e d’incanto il ’Toro’ prende il sopravvento sull’’Orso’, Wall Street tornerà a macinare utili, seguita dalle altre spelonche infami del mercato finanziario. Poi qualche altro ingranaggio si bloccherà, e ’domani l’altro’ ritornerà il buio, per le centinaia di milioni di corrotti dal gioco del capitalismo, che torneranno a trepidare per i propri soldi, a giro per il mondo in chissà quale misterioso circuito finanziario.

Ma ben altro attende, dietro l’angolo, questo mondo infame. Buon lavoro, compagni!
 
 
 
 
 
 
 
 



LE CAUSE STORICHE DEL SEPARATISMO BASCO
 

[ - 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - ]

Seguito dal numero precedente del rapporto, esposto alla riunione di Genova nel maggio ’97.
 
 
 

Dalla dittatura di Primo de Rivera alla Seconda Repubblica

Il colpo di Stato del generale Primo de Rivera non fu che la risposta della borghesia di fronte alle sfide economiche e sociali. Si trattava prima di tutto di ristabilire la pace sociale e così garantire il normale sviluppo dell’economia e dei traffici, turbati da un’agitazione operaia che cresceva incessantemente attizzata dalla crisi del dopoguerra e dalla guerra in Marocco.

La neutralità nella Prima Guerra Mondiale aveva provocato conseguenze assai vantaggiose per la borghesia spagnola. Però la fine del conflitto, col pieno ritorno sul mercato mondiale delle potenze liberate dalle necessità belliche, dimostrò subito il carattere estremamente debole e arretrato dell’economia spagnola, del tutto incapace di competere a livello internazionale. Per questo il nuovo regime, in campo economico adottò il protezionismo ad oltranza, richiesto urgentemente da tutti i settori economici padronali, e, in campo sociale, la proibizione e persecuzione delle organizzazioni operaie che non si piegavano (come successe con il PSOE e con la UGT) alle nuove condizioni. Primo de Rivera fu accolto come salvatore della patria da tutti i settori della borghesia, spaventati per l’aspetto che stavano prendendo gli avvenimenti: sconfitta della controrivoluzione interna ed esterna in una Russia ancora rivoluzionaria; agitazione operaia internazionale; in Spagna scioperi e sommosse e risposte armate di nuclei operai di inclinazione anarcosindacalista alla repressione e agli attentati terroristici di bravacci al soldo padronale, soprattutto a Barcellona. Nominato Capitano Generale della Catalogna, Primo de Rivera si mostrò particolarmente sensibile alle richieste della borghesia catalana, che richiedeva misure urgenti e drastiche di fronte al clima di quasi guerra civile che si viveva in Catalogna.

Per quanto riguarda la situazione nei paesi baschi, il golpe di Primo de Rivera godette della benedizione di quasi tutti i settori padronali, eccettuata una piccola borghesia che veniva trascinando il suo scontento da decenni. Già abbiamo visto nella seconda parte di questo lavoro la scissione che allora si era prodotta nelle file del nazionalismo: da un lato i settori nazionalisti, partigiani del mantenimento dello status quo difeso dalla odiata Madrid, cambiarono il vecchio nome del partito, PNV, in Comunione Nazionalista, mentre la piccola borghesia insoddisfatta si scindeva mantenendo la sigla di sempre insieme alla rivendicazione separatista e pubblicando il settimanale Aberri. Questo dopo il golpe di Primo de Rivera fu sospeso, e per ingannare la censura del regime dovette apparire con un nuovo nome, El Diario Vasco, omettendo qualsiasi riferimento al Partito Nazionalista. Così, mentre le attività della Comunione Nazionalista centrate sugli aspetti meramente culturali e linguistici baschi sono tollerate, 34 sedi del PNV in Biscaglia furono chiuse e il suo maggior dirigente, Gallastegui, dovette esiliarsi. Accantonando il ricorso all’attività terroristica, che per il momento non sarà utilizzata, Eli Gallastegui e gli aberriani costituirono il nucleo precursore meglio definito nel campo ideologico, prima dell’ETA e poi del cosiddetto Movimento di Liberazione Nazionale Basco.

Come succederà 30 anni dopo, questa piccola borghesia basca, incapace di inserirsi con un proprio ruolo nel vortice dell’accumulazione capitalista, cercherà di accattivarsi la classe operaia, interessandosi ai suoi problemi, però dal suo particolare punto di vista, non vedendo nel proletariato che uno strumento da utilizzare per le sue finalità di classe, pienamente filoborghesi quanto a forma e a contenuto.

La politica economica della dittatura di Primo de Rivera consentì alle grandi banche e alle imprese siderurgiche basche i migliori risultati fino allora mai conosciuti. Ricordiamo il famoso discorso di F. de Echevarrìa a Bilbao, nel 1926, a nome della Lega dei Produttori di Biscaglia, per felicitarsi col nuovo regime per le direttive economiche adottate. Direttive che, sia detto di passo, essa stessa aveva proposto al governo di Primo de Rivera. Diamo come cifra di riferimento quella relativa alla produzione di acciaio che dal 1920 al 1930 aumentò del 235%. Questi risultati sono estrapolabili alla generalità delle attività economiche a livello nazionale, e questo spiega la relativa pace sociale che regnerà in Spagna durante il periodo primoriverista.

Però quest’aria di prosperità borghese si interromperà nel 1930-31, facendo cadere il regime così come lo aveva fatto arrivare, e nonostante l’appoggio della grande borghesia di Biscaglia, che ha sempre visto soddisfatte le sue aspirazioni da parte di tutti i regimi politici succedutisi in Spagna fino ai nostri giorni. La crisi dei mercati internazionali nel 1930-31 obbligherà a nuovi impostazioni nel campo economico e politico e i capitalisti faranno cadere senza troppo strepito la dittatura di Primo de Rivera dando il passo ad un periodo di transizione conosciuto come la Dictablanda, che preparerà la sostituzione tranquilla e senza soprassalti di una monarchia ridotta solo a schermo politico e che davanti agli occhi delle grandi masse della popolazione si presentava come un regime corroso dalla crisi e dalla corruzione.
 

La Seconda Repubblica e il ’Problema Basco’

La crisi economica del 1930-31 si fece assai sentire nei paesi baschi che continuavano ad essere, insieme alla Catalogna, la regione più industrializzata di Spagna. Furono particolarmente colpiti la siderurgia e la cantieristica navale, due settori chiave della struttura produttiva basca. Non è un caso che è proprio in questo periodo che rialzano la voce le rivendicazioni regionaliste e per gli Statuti di Autonomia. La questione autonomista sarà abilmente utilizzata inoltre per confondere le masse proletarie, di per sé già confuse dal collaborazionismo del Partito Socialista, dal falso apoliticismo degli anarcosindacalisti e dall’avventurismo zigzagante di un PCE senza alcuna base marxista e al servizio della politica controrivoluzionaria dittata da Mosca.

L’analisi superficiale, e per altro verso tendenziosa, della questione spiega questo fenomeno di radicalizzazione regionalistica come la risposta alla oppressione di minoranze nazionali da parte del regime di Primo de Rivera. Il governo aveva imposto come lingua ufficiale solo il castigliano, ciononostante già dal 1926 tutte le lingue parlate in Spagna erano legalmente autorizzate a far ingresso di pieno diritto alla Academia de la Lengua. Lasciando da parte gli aspetti linguistici, tanto sfruttati da allora fino ai nostri giorni, è indubitabile che l’apparizione di questi consistenti movimenti per l’autonomia in Catalogna e nei paesi baschi era legata agli effetti della crisi capitalistica del 1929-31 sulla fragile struttura industriale spagnola di allora. Prova di questa affermazione è la debolezza della rivendicazione nazionalista in Galizia, una regione nella quale l’industrializzazione ancora tarderà alcuni decenni a far sentire i suoi effetti e che mancava di una piccola e media borghesia con forza sufficiente perché si potesse udire la sua richiesta di partecipare, sotto la bandiera dell’autonomia, al riparto del plusvalore estorto al proletariato.

All’arrivo della Repubblica nel 1931 (è sicuro che la località di Éibar in Guipùzcoa fu la prima a proclamarla), la coalizione repubblicano-socialista salì al potere secondo quanto concordato fra partiti repubblicani e opportunisti nel Patto di San Sebastian dell’agosto 1930. I nazionalisti baschi non si erano integrati nel patto in parte per il carattere laico che lo ispirava e soprattutto perché non soddisfaceva le loro richieste economiche che erano ispirate ’al regime precedente il 1839’. Nel far questo evidentemente non mancavano di soddisfare demagogicamente la loro massa elettorale, che ancora rimpiangeva gli innegabili vantaggi che per le loro classi aveva rappresentato, ai suoi tempi e nel suo contesto storico, il regime forale.

Nel novembre del 1930 la Comunione Nazionalista e il Partito Nazionalista Basco tornarono a riunificarsi con il nome di sempre. Il nuovo PNV conterà sulla sua base sociale abituale: contadini, pescatori, operai di discendenza e lingua basca, clero e piccola e media borghesia. La sua linea politica tuttavia offrì ulteriori novità: indipendentismo nebuloso, reminiscenze xenofobe e soprattutto difesa ad oltranza della proprietà privata e anticomunismo esacerbato. Inoltre, e come era successo nel 1910 con Aberri eta Askatasuna, Patria e libertà, una parte della piccola borghesia intellettuale laica e urbana formò Eusko Abertzale Ekintza, Azione Nazionalista Basca, gruppo politico del tipo di Azione Catalana, che non arriverà mai ad oscurare minimamente l’influenza del PNV.

Come abbiamo visto nella seconda parte di questo lavoro, il regime dei Conciertos Econòmicos si istituì nel 1878, dopo la sconfitta militare del carlismo, come abile mezzo di compensazione del governo di Cànovas del Castillo dopo la perdita dei fueros di radice medioevale che erano sopravvissuti nella regione basca. Questi Conciertos Econòmicos si mantennero nelle tre province basche e nella Navarra durante il regime di Primo de Rivera e durante la Seconda Repubblica e fino alla caduta dei paesi baschi sotto le truppe franchiste nel 1937. Al regime repubblicano il PNV chiedeva uno statuto di autonomia per i paesi baschi simile a quello concesso alla Catalogna. Alcune iniziative di carattere autonomista non riuscirono a prosperare, come il cosiddetto Statuto di Estella del 1931 e altri nel 1932 e 1933. Le frizioni fra il governo centrale repubblicano e i nazional-clericali baschi a seguito della questione dello Statuto di Autonomia e dei suoi effetti economici e politici, assunsero talvolta carattere estremamente violento e si registrarono incidenti armati fra militanti del PNV e partigiani della repubblica. Comunque questi occasionali scontri non si spinsero oltre un limite prestabilito da entrambe le parti giacché il nemico comune, il proletariato, poco a poco andava perdendo quella fiducia iniziale che le organizzazioni che dicevano di rappresentarlo gli avevano fatto riporre nella repubblica borghese.

I fatti dell’ottobre 1934 vennero a confermare che la politica del governo di ’destra’ di Lerroux-Gil Robles non era altro che la continuazione della politica antioperaia e repressiva della coalizione fra partiti repubblicani e il PSOE. Conoscendo le sue origine e traiettoria crediamo che nessuno si stupisca della posizione totalmente contraria dei nazionalisti baschi al tentativo insurrezionale della classe lavoratrice dell’ottobre 1934. Uno dei suoi più qualificati rappresentanti, Aguirre, dichiarava in atto di scusarsi: «Nella Rivoluzione di Ottobre non abbiamo preso partito, né abbiano avuto contatti spirituali né materiali (...) Né noi solidarizziamo con quel movimento protestando per gli assassini, le offese e violenze commesse nelle Asturie e nella Guipùzcoa». Già si respirava un’atmosfera insurrezionale, e di nuovo, come sempre aveva fatto in situazioni simili fin dai tempi di Sabino Arana, il PNV rimproverò i grandi borghesi che «consegnarono miniere e fabbriche nelle mani del socialismo (...) che con il loro egoismo, la loro ambizione con il loro anelito smodato per le ricchezze, nell’abbandono nel quale lasciarono il corpo e l’anima degli operai, fecero tutto, tutto, assolutamente tutto il possibile perché gli umili si appartassero dalle loro credenze (...) Con qual diritto tuonare allora ipocritamente contro gli ’estremisti rivoluzionari’?». (Euskadi, 22 settembre 1934).

Nonostante l’opposizione del PNV, l’organizzazione sindacale nazionalista, la filo-padronale STV (che nel 1933 da SOV aveva mutato la sua sigla in STV, Solidarietà dei Lavoratori Baschi, senza per questo mutare in nulla la sua linea politica e sindacale gialla-bianca), si vide trascinata suo malgrado dal movimento insurrezionale. Benché mancassero di una direzione autenticamente rivoluzionaria, le masse operaie si mostrarono senz’altro disposte a difendersi in modo intransigente dagli attacchi del padronato e del suo Stato. Della durezza degli scontri che ebbero luogo nella zona basca durante l’insurrezione operaia del 1934, ci dà un’idea la successiva occupazione militare di tutta la zona mineraria di Biscaglia e della zona industriale della costa di Bilbao e la repressione esercitata nei centri più industrializzati della Guipùzcoa.

Pochi mesi prima del movimento insurrezionale di ottobre, il Partito Comunista Spagnolo aveva creato la sua filiale basca, il Partido Comunista de Euskadi. Fin dalle sue origini il PCE aveva goduto di un certo seguito operaio, soprattutto in Biscaglia, e alle elezioni del 1933 ottenne 13.000 voti in Biscaglia e in Guipùzcoa. Il dato dimostra il progressivo disaccordo di settori della classe operaia con la politica collaborazionista del PSOE. Disgraziatamente per la classe operaia spagnola e internazionale alla base della politica del PCE, pienamente stalinizzato, non c’era altro che il mantenimento dell’ordine stabilito, secondo le direttive impartite da una Internazionale e da uno Stato russo completamente persi per la causa della rivoluzione mondiale. Così il PCE si dedicherà a recitare in moto totalmente meccanico e fuori del suo contesto reale, seguendo il dettato di Mosca, la posizione di Lenin sulla autodeterminazione delle nazionalità oppresse, comprese le minime, baschi catalani, galiziani «e qualsivoglia nazionalità sia oppressa dell’imperialismo della Spagna». Il POUM, che ugualmente mancava di una base marxista, nemmeno sfuggirà alla trappola della ’questione delle nazionalità in Spagna’, ipotizzando che il suo sbocco sarebbe consistito nel passaggio della direzione del movimento dalle mani della piccola borghesia a quelle del proletariato.

Come studi di partito hanno dimostrato, sulla scorta di netti giudizi di Marx e di Engels, il carattere pienamente capitalista delle relazioni produttive e pienamente borghese del potere statale in Spagna risalgono a dir poco alla fine del secolo passato. Pertanto, in presenza di un simile contrasto sociale e storico un vero partito marxista rivoluzionario potrebbe scrivere sulla sua bandiera un solo compito emancipatore: la liberazione della classe proletaria tramite la internazionale rivoluzione sociale anticapitalista. La negazione di questa prospettiva provocherà la partecipazione dei partiti e delle organizzazioni cosiddette proletarie e comuniste ai Fronti Popolari insieme ad altre forze dichiaratamente borghesi e clericali, come succederà nei paesi baschi, facendo propri totalmente i loro piani reazionari di difesa della proprietà privata e del regime borghese repubblicano. Sarà precisamente nei paesi baschi dove risalteranno in massima chiarezza i disastrosi effetti per la causa del proletariato di questa politica fronte unico.
 

La Guerra Civile nei paesi baschi

Dopo una serie di titubazioni iniziali, il PNV decise di mantenere la sua neutralità elettorale nei comizi generali del febbraio 1936 che dettero la vittoria al Fronte Popolare. A poco servirono le raccomandazioni della curia vaticana perché i nazionalisti baschi si alleassero alla Confederazione Spagnola Destre Autonome. In questo senso i massimi dirigenti nazionalisti si mostrarono estremamente cauti nel non appoggiare in modo aperto la CEDA, la qual cosa avrebbe aggravato il malanimo della numerosa classe lavoratrice della regione e provocato un pericoloso allontanamento dai suoi dirigenti dalla stessa base elettorale nazionalista. Nei mesi precedenti allo scoppio della guerra civile la situazione sociale di Spagna mostrava caratteristiche ogni volta più preoccupanti per la stabilità dell’ordine borghese. La vittoria del Fronte Popolare conteneva momentaneamente le rivendicazioni proletarie immediate, però superata la fase di impasse iniziale, queste non tardarono a presentarsi, a volte in modo violento, nonostante i reiterati intenti di stalinisti, riformisti, POUM e della direzione della CNT-FAI per canalizzarle in senso istituzionale. La politica seguita da queste organizzazioni nei tre anni che durò il conflitto non sarà che la continuazione degli indirizzi antiproletari che avevano portato alla ’vittoria’ del Fronte Popolare nel febbraio 1936.

La fase precedente lo scoppio della guerra vide, per quel che riguarda i paesi baschi, aspetti di vera polarizzazione sociale. Le aspirazioni autonomiste di una gran parte della società furono accolte nel programma del Fronte Popolare, facendo credere a tutti i settori sociali scontenti che l’ottenimento dell’anelato Statuto di Autonomia avrebbe costituito una specie di panacea universale per tutti i mali che affliggevano la società.

Altro punto che ugualmente contribuì alla vittoria del Fronte Popolare nei paesi baschi fu l’inserimento nel suo programma elettorale del blocco degli sfratti agrari. È quasi sicuro che una certa responsabilità nel calo notevole in queste elezioni del voto nazionalista e la sconfitta spagnolista è attribuibile al voto dei responsabili di questi sfratti rurali, i proprietari o jaunchos, molti dei quali legati al PNV. Il peso del fattore rurale nei paesi baschi a quel tempo era ancora grande, nello stesso modo che era mutata la sua divisione sociale in funzione della proprietà della terra. Il voto nazionalista era più numeroso nelle zone rurali nelle quali si parlava il basco e con un regime predominante di piccola proprietà e di affitto, sottomesso ad un regime di spietata spoliazione da parte dei proprietari, impoverito da imposte e ipoteche e aggravato dalla mancanza di infrastrutture e vie di commercializzazione dei prodotti. Per contro la maggioranza dei proprietari rurali più agiati, i kulak baschi e i fondiari del sud basco e della Navarra, orienteranno le loro posizioni politiche verso il carlismo, che ora si presentava come un movimento di orientamento borghese ultraconservatore e profondamente controrivoluzionario. I braccianti agricoli, molto numerosi nelle zone a latifondo del sud dei paesi baschi e della Navarra, daranno i loro voti per lo più al Fronte Popolare allettati dalle sue promesse elettorali. In provincia i proprietari e gli affittuari di Biscaglia e di Guipùzcoa si orientarono verso il nazionalismo, nonostante la caduta elettorale di questo nel 1936, mentre, al contrario, in Alava e in Navarra saranno partigiani per lo più di un carlismo adattato ai nuovi tempi. Più avanti vedremo le conseguenze che questo trarrà con sé durante la guerra civile e successivamente.

La posizione del PNV prima e durante la guerra civile non offre alcun luogo a dubbi riguardo al suo carattere autenticamente controrivoluzionario e antioperaio. Alcuni mesi prima della guerra, l’organo ufficiale dei nazionalisti baschi, Euzkadi, in un articolo redatto da una nostra vecchia conoscenza, Don Engracio de Aranzadi, chiariva le sue idee per non lasciare il minimo sospetto di ambiguità di fronte al suo elettorato, ferventemente cattolico: «Se c’è un sentimento veramente antirivoluzionario in Euzkadi, questo è quello del Partito Nazionalista Basco (...) Tutto ciò che qui ha un senso rivoluzionario non è basco (...) Solo il nazionalismo e nient’altro del nazionalismo ha fatto lavoro controrivoluzionario; al nazionalismo dobbiamo che non sia rossa, che non sia socialista, che non sia comunista tutta la massa operaia di Biscaglia (...) Pubblico e notorio è che in Biscaglia, come in Euskadi intera, l’unico nemico efficiente del sinistrismo è il Partito Nazionalista Basco» (Euzkadi, 17 gennaio 1936). Che non si trattasse di uno sfogo isolato lo provano la serie di editoriali col medesimo tono che apparirono in quest’organo nazionalista alla fine di quel mese e all’inizio di febbraio.

Pertanto, e come abbiamo potuto comprovare, non si può accusare di incoerenza il PNV, che metterà in moto tutti i mezzi per evitare qualunque iniziativa proletaria che ponesse in pericolo la pace sociale e l’ordine capitalista. Per questo scopo, come succede in ogni dramma storico, si cercava qualcuno disponibile al ruolo miserabile ma sempre necessario del fellone: tale onore è da riconoscere agli organismi cosiddetti operai, comunisti e socialisti, che non solo collaborarono in compiti di governo con un partito che si dichiarava apertamente loro ostile, ma che inoltre posero nelle sue mani i meccanismi del potere e di repressione che garantivano l’applicazione di tutta una serie di misure antiproletarie e apertamente procapitaliste. Saranno gli stessi fatti della guerra civile nei paesi baschi a mostrare nuovamente, e con prova marcata a fuoco sulla pelle insanguinata della classe operaia, la funzione mille volte controrivoluzionaria sia del nazionalismo basco, sia del possibilismo nelle sue versioni stalinista, socialdemocratica e anarchica.

Come è noto la sollevazione militare, ordita in collaborazione con il governo repubblicano, fu dapprima sconfitta nella maggioranza delle principali città e zone industriali spagnole dalla reazione inattesa delle masse proletarie che si armarono spontaneamente sconfiggendo gli insorti. Da quel momento e in entrambi i campi avversi, tutte le forze e le manovre di carattere politico e militare saranno indirizzate in un’unica direzione: disarmare il proletariato e sconfiggerlo.

In Alava e in Navarra il carlismo rinnovato era la forza politica predominante ed è lì dove iniziano a prevalere le forze fasciste. Immediatamente circa 6.000 persone saranno assassinate in Navarra, compresi alcuni membri del PNV vittime individuali della ambiguità elettorale del loro partito. In Alava, ove ugualmente trionfarono i fascisti, molti nazionalisti si unirono ad essi, alcuni per salvare la pelle e altri perché capirono che era arrivato il momento di decidere fra il fascismo e la minaccia del proletariato in armi, scegliendo coerentemente per l’opzione più affine al loro credo politico, cioè, quella fascista. La provincia di Alava era allora scarsamente industrializzata e mostrarvi inclinazioni controrivoluzionarie non implicava alcun rischio, semmai il contrario. È però significativo che fino al 18 settembre 1936 il generale Mola, capo dell’esercito fascista del nord, non sciogliesse le organizzazioni nazionaliste basche.

Senz’altro in Biscaglia e in Guipùzcoa il golpe fascista fallisce a causa della decisa opposizione del proletariato. Però la preponderanza operaia dura poco. La formazione di una Junta de Defensa e successivamente del Governo Autonomo Basco sarà il passo decisivo della controffensiva capitalista lì dove i militari erano stati sconfitti dagli operai. Non tarderanno infatti i contrasti fra il partito dell’ordine borghese (PNV, Fronte Popolare) e i comitati operai che si indisciplinavano dalle direttive dei loro massimi dirigenti. A San Sebastian la fucilazione dei fascisti da parte degli operai, in risposta al bombardamento aereo e navale della città, provocherà le dimissioni dei membri del PNV del Dipartimento dal Governo nella Junta de Defensa della Guipùzcoa. Però nella stessa Junta poi prevarrà il criterio del PNV, secondo il quale ogni resistenza sarebbe stata inutile, e che farà sì che la città di San Sebastian si consegnasse al generale fascista Beorlegui senza resistenza alcuna.

Precedentemente, il 4 settembre 1936 era stata occupata Irùn, città di frontiera, dopo una disperata resistenza degli operai male armati che, abbandonati alla loro sorte, incendiarono la località prima dell’entrata delle truppe fasciste. La consegna di San Sebastian, senza che si sparasse un colpo, ebbe grandi ripercussioni strategiche poiché l’esercito fascista poté avanzare circa di 60 chilometri verso la capitale basca, Bilbao.

L’analisi delle operazioni militari e delle misure politiche adottate dal governo di coalizione basco pone in chiaro che i nazionalisti e il Fronte Popolare fecero quanto era in loro potere per favorire la sconfitta dei lavoratori. Per farlo appianarono ogni divergenza fra loro quando fu il momento di decidere il metodo adeguato. Una cosa è innegabile: quando si è trattato di difendere, ad ogni costo, l’ordine stabilito si sono trovati d’accordo tutti i settori politici nazionalisti, dagli officialisti, agli indipendentisti della Federaciòn de Mendigoizales. Così lo ribadisce Luis Arana, qualificato rappresentante del settore più critico con la linea ufficiale pro-spagnolista del PNV: «Era nostro dovere in questa lotta, che non è la nostra, che non è della nostra razza, che non è della nostra ideologia, il mantenimento dell’ordine nella nostra casa, nella nostra Biscaglia, nella nostra Euskadi».

La testimonianza di qualcuno tanto poco sospettabile di simpatie rivoluzionarie come il consolo britannico a Bilbao è sufficientemente eloquente circa il vero spirito regnante fra i nazionalisti: «Per quanto ho udito, i baschi lamentano profondamente il compromesso politico del mese scorso (non unirsi a Franco, ndr) (...) Mi hanno detto inoltre che la Junta non è riuscita a convincerli di inviare distaccamenti a difendere San Sebastian».

L’insistenza dei rappresentanti in Madrid del PNV perché le Cortes, il parlamento repubblicano, approvassero lo Statuto di Autonomia non oscurava l’altro obbiettivo, la creazione di un corpo para-statale nei paesi baschi con l’obiettivo di proteggere la proprietà capitalista e farla finita con gli ’eccessi’ degli operai armati. Non riuscirono nei loro propositi in un primo momento a causa della inferiorità delle condizioni rispetto ai lavoratori armati. Ascoltiamo a questo riguardo il testimone, ugualmente al di sopra di ogni sospetto, dell’ambasciatore inglese in Spagna, Henry Chilton: «Quando ho lasciato Zarauz il 1° agosto, un dirigente nazionalista basco chiese di parlarmi e mi informò che sebbene i baschi si siano uniti al Fronte Popolare al principio del conflitto quando era stata loro promessa l’autonomia, erano ora disgustati dagli orrori perpetrati dai comunisti, anarchici, ecc. nel territorio basco, dove si erano fucilati prigionieri insorti a sangue freddo e a caso e anche vari nemici personali dei partiti di governo. I baschi sarebbero stanchi del regime sovietico in Guipùzcoa, non dispongono di armi e si vedono, pertanto, impotenti. Con 800 fucili potrebbero, pare, affrontare le forze sovietiche della provincia. Sebbene di fatto non dicesse di sollecitare queste armi dal Governo inglese, l’insinuazione è chiara».

Lo Statuto sarà approvato il 1° di ottobre 1936 e pochi giorni più tardi sarà costituito il primo ’governo basco’ presieduto dal nazionalista José Antonio Aguirre, e che conterà sulla partecipazione di membri del PCE e del PSOE. Il solenne teatrale giuramento per il suo incarico da parte di Aguirre, pronunciato in basco e in castigliano, poco concesse per giustificare la partecipazione del PCE-PSOE a questo governo autonomo: così recita: «Prostrati davanti a Dio, in piedi sulla terra basca, memore degli antenati, sotto l’albero di Guernica, giuro di adempiere fino in fondo al mio mandato...».

In questo spirito di ’intendimento’ un delegato del giallissimo STV fu inviato a Mosca nell’ottobre 1936 per assistere alle cerimonie ’commemorative’ della rivoluzione di Ottobre. Sicuramente nell’animo di quel discepolo del prete Larrañaga, capo spirituale del STV, si trattava di presiedere alla sepoltura definitiva della rivoluzione, nel mentre venivano eliminati e diffamati davanti alla classe operaia mondiale i vecchi bolscevichi compagni di Lenin.

La prima disposizione del governo autonomo basco fu, evidentemente, garantire l’ordine pubblico. Si creò un corpo di polizia proprio (la Ertzana) al comando di Telesforo Monzòn, e la sua presenza si fece subito notare: «Si sono avuti casi isolati di assassinii, opera degli anarchici. Da quando essi (il PNV) sono andati al potere la situazione è senza dubbio alcuno molto più sicura» (Dichiarazione del console inglese a Bilbao l’8 dicembre 1936). L’episodio dell’assalto al carcere di Bilbao di Larrinaga ci mostra molto bene qual’era la vera missione del PNV e del suo governo di coalizione con il Fronte Popolare. Il giorno 4 gennaio 1937 una folla operaia inferocita assaltò la prigione di Larrinaga e altri centri di detenzione della capitale della Biscaglia, uccidendo 224 prigionieri in risposta ai bombardamenti e ai crimini fascisti. La repressione del Governo Basco non si fece attendere e sei operai del battaglione UGT, che erano stati inviati a proteggere i prigionieri fascisti, cosa che non fecero, furono condannati a morte, condanna eseguita con l’acquiescenza e l’approvazione dei partiti del Fronte Popolare. Per proteggere meglio i fascisti un battaglione di gudaris, soldati baschi sotto il controllo stretto del PNV, fu ritirato dal fronte, dove era più forte l’offensiva dell’esercito franchista, e destinato a compiti di ’vigilanza’ a Bilbao.

Se non in altro ha ragione Letamendia quando afferma che il regime sociale instaurato nei paesi baschi era ’più a destra della Repubblica’, giacché si proibirono tacitamente gli scioperi, e fu il governo basco a garantire che la proprietà delle imprese restasse nelle mani di ’legittimi’ proprietari. Se il governo basco non si fece carico di impresa alcuna perché i suoi proprietari, che in gran parte erano stati pro-fascisti, e il controllo governativo garantissero la impossibilità di qualsiasi iniziativa che puzzasse di espropriazione operaia.

Lo Statuto di Autonomia e la creazione di una polizia e di un esercito sotto il controllo del governo autonomo basco furono assai utili quando giunse il momento di dover dividere l’azione dei lavoratori in tutto il nord della penisola. Poter disporre di un governo basco frontepopulista-clericale servì come cintura sanitaria per evitare la saldatura fra il proletariato asturiano e cantabrico con quello basco, inoltre ad impedire che la poderosa industria siderurgica basca, chiave per decidere la sorte della guerra, cadesse in mani indesiderabili. Su questo aspetto della guerra civile spagnola l’opinione del console inglese Henderson risulta estremamente chiarificatrice: «I baschi, secondo la mia impressione, hanno più paura dell’aggressione rossa dei santanderiani e asturiani che del pericolo dei militari. Per impedire l’infiltrazione di elementi indesiderabili dall’ovest hanno alzato un rigoroso controllo della loro frontiera con Santander».

Non c’è pertanto nulla di strano che, in un simile girone, nel quale non mancarono nemmeno trattative, tramite il Vaticano, fra i nazionalisti baschi e Franco per concordare una pace separata, il sottodirettore del progetto del Cinturòn de Hierro, le fortificazioni militari intorno a Bilbao, fosse in realtà un agente di Franco, e che alla prima occasione fuggisse con i piani segreti delle successivamente mitizzate fortificazioni. Comunque il possesso di questi piani segreti non avrebbe che messo in evidenza per i capi fascisti la scarsa efficacia delle fortificazioni predisposte da ingegneri civili senza alcuna esperienza militare.

La caduta del Fronte del Nord era solo questione di tempo, e la sua realizzazione fu attuata meticolosamente, pianificata a livello nazionale e internazionale, dissimulata abilmente con qualche ’offensiva’. L’unica ’offensiva’ dell’esercito basco si ebbe nel novembre-dicembre 1936 contro la capitale dell’Alava, Vitoria, che era in mani fasciste. L’obiettivo immediato era la presa di Villareal di Alava, la quale avrebbe facilitato la caduta di Vitoria. Dal punto di vista militare risulta incredibile e inconcepibile che l’esercito basco, appoggiato da unità asturiane e di Santander, molto superiore di numero e armamento, e che contava inoltre nella copertura aerea, non riuscisse a prendere Villareal, difesa da poco più di 600 fascisti con scarsa artiglieria. Dal punto di vista politico, che è quello che in definitiva determina la strategia militare, questo fatto si spiega con le caratteristiche stesse della ’offensiva’, attuata per togliersi l’immagine di ignavia che il governo basco iniziava a suscitare nelle masse. Per altro la caduta di Vitoria avrebbe implicato un sollievo per Madrid, attaccata da Franco, il che non era desiderato da nessuno, né da Franco, né dal PNV, né dal Fronte Popolare i quali tutti contavano in una caduta rapida di Madrid. Però il proletariato della capitale resistette.

I compiti di retroguardia evidentemente acquisirono lo stesso peso di quelli realizzati sul fronte militare. Il primo capro espiatorio, data la sua debolezza numerica nei paesi baschi, fu la CNT, che pateticamente, e facendo astrazione ancora una volta dai suoi sacri principi apolitici e antiautoritari, reclamò un posto nel governo frontepopulista-clericale basco. Non solo si ignorò la sua richiesta: ma la tipografia del quotidiano anarchico CNT del Norte fu consegnata al partito stalinista per stamparvi Euskadi Roja.

Tutto cominciava ad esser ben preparato per la caduta definitiva di Bilbao, che se tarderà fu per la resistenza sanguinosa del proletariato di Biscaglia e per l’appoggio delle unità venute dalle Asturie e dalla Cantabria, unità che dovettero scontrarsi militarmente non solo con le truppe di Franco ma anche con quelle del governo basco, che impedirono che si attuasse una politica di terra bruciata per privare i fascisti della industria e delle miniere di Biscaglia. Il risultato fu che al cadere di Bilbao, il 19 giugno 1937, Franco trovò praticamente intatta l’industria pesante che in poche settimane iniziò a produrre massicciamente forniture per l’esercito fascista. La collaborazione suggellata fra la potente oligarchia bancaria e industriale, i juanchos del PNV e il Fronte Popolare, con l’attiva partecipazione della borghesia internazionale, aveva dato i suoi frutti.
 

Il Dopoguerra

Le massicce distruzioni originate dalla guerra civile ebbero l’effetto di rinvigorire il capitalismo ispanico. Se i grandi impianti industriali capitalistici di Biscaglia furono rispettati durante il conflitto, non successe lo stesso con i centri urbani: Bilbao, San Sebastian e, l’esempio più tragico, Guernica costituirono terreno di prova del moderno armamento che poco dopo si sarebbe impiegato contro il proletariato nella Seconda Guerra Mondiale. Poiché quasi tutte le grandi città spagnole coinvolte nei combattimenti, così come le scarse infrastrutture viarie e ferroviarie, avevano sofferto notevoli distruzioni si poté poi dar il via alla ricostruzione con i suoi grandi affari a vantaggio della borghesia. E tutto questo accompagnato dal tallone di ferro antiproletario del franchismo e dell’inquadramento e militarizzazione delle attività produttive e dei trasporti di base, imponendo alla classe operaia un regime di privazioni materiali e di disciplina del lavoro simile a quelli esistenti negli altri paesi d’Europa e negli Stati Uniti, indipendentemente dalla maschera politica adottata dal Capitale in ciascuna situazione particolare.

Dopo l’entrata delle truppe di Franco in Bilbao e lo sbandamento conseguente (si calcola che circa in 200.000 fuggissero all’estero dai paesi baschi), la borghesia basca poté respirare definitivamente tranquilla. Il potere economico della odiata oligarchia basca era praticamente intatto e questo la privilegiava rispetto al resto della borghesia spagnola. Alfonso Churruca, presidente del centro industriale di Biscaglia dichiarò nel febbraio 1939: «Per gli interessi dell’industria di Biscaglia, oltre alle costruzioni navali e la costruzione del materiale ferroviario, hanno da essere di estremo beneficio i lavori che si intraprendono d’accordo con il piano preparato dal Signor Ministro delle Opera pubbliche, la costruzione di strade e porti, che implicano la costruzioni di gru, ponti metallici, betoniere, livellatrici, attrezzatura, ecc.».

Nel 1940 il regime franchista creò il Consiglio dell’Economia Nazionale che emanerà una seria di direttive per adeguare l’economia alla congiuntura internazionale. La borghesia spagnola, che ufficialmente mostrava fervida ammirazione per l’Asse italo-tedesco, in pratica non disdegnava trattati economici con paesi nemici dell’Asse. Nell’aprile 1940 e nell’aprile 1941 la Gran Bretagna concesse consistenti prestiti alla Spagna franchista. Questa ambiguità, a distanza di pochi anni, passata la Guerra Mondiale, si convertirà in un proamericanismo aperto nella guerra fredda fra i due colossi imperialisti dominanti: Russia e Stati Uniti. In premio il piano Marshall previde la concessione di grossi prestiti alla Spagna nel 1949 al 1950.

Però i primi anni ’40 non videro nei paesi baschi lo sviluppo economico che si sarebbe potuto sperare data una serie di condizioni estremamente favorevoli: grande capacità produttiva essendo restati intatti i maggiori mezzi di produzione industriali, grande domanda interna e annientamento del movimento proletario. Dopo l’entrata in Bilbao delle truppe fasciste il regime dei Conciertos Econòmicos fu abolito in Biscaglia e in Guipùzcoa, come castigo a queste province ’traditrici’ per non aver favorito la ’Sollevazione Nazionale’, essendo conservato per contro in Alava e in Navarra. Comunque questo non portò più che ripercussioni puramente propagandistiche poiché tale misura punitiva tanto radicale non influì in niente sulla buona marcia dei traffici e dello sviluppo dell’attività industriale in Biscaglia e i Guipùzcoa. Quindi l’origine del rallentamento nello sviluppo non deve trovarsi nell’abolizione da parte del governo di Franco del regime dei Conciertos Econòmicos, ma in fattori congiunturali come la mancanza di energia elettrica, di carbone e di rottame di ferro. Progressivamente l’industria basca andrà superando questa situazione, soprattutto al termine della guerra mondiale. In questo modo delle 191 imprese e 16.795 lavoratori che esistevano nell’industria di trasformazione del ferro in Biscaglia nel 1944 si passa a 244 imprese e 20.755 lavoratori nel 1950, arrivando a 513 imprese nel 1956. Ugualmente succederà con il settore delle macchine in ferro, che fino al 1940 era di scarso sviluppo nei paesi baschi, raggiungerà un certo livello nel 1959, fino al grande slancio successivo, rallentando solo con la crisi generale nel 1975.

La guerra civile, vissuta e sofferta tanto intensamente nei paesi baschi, pagata con un vero macello del proletariato, portò le sue logiche ripercussioni nella contrazione della forza lavoro salariata. Per questo, come successo alla fine del secolo passato e all’inizio di questo che muore, il territorio basco tornò a registrare un saldo migratorio positivo da tutti i punti della Spagna, benché principalmente dalle zone geograficamente vicine. Così nel breve periodo compreso fra il 1950 e il 1953, la crescita della popolazione nei pesi baschi fu quasi del 23% mentre la media spagnola non arrivava al 9%. Per questo non risulta in assoluto paradossale che fra le 17 province spagnole che ridussero la loro popolazione dal 1950 al 1960 non ve ne sia alcuna basca né di Navarra. Qualcosa di simile succedeva con il prodotto pro capite per il quale tutte le province basche e di Navarra superarono abbondantemente la media nazionale.

Un aspetto caratteristico della politica economica franchista di quegli anni è la progressiva emarginazione di quei settori della Falange che realmente avevano creduto integralmente al programma di nazionalizzazioni. Già nel 1940 il Generale Muoz Grandes (segretario generale della Falange Spagnola Tradizionalista) chiariva inequivocabilmente le intenzioni del regime al riguardo in una Conferenza nel 1940: «Dobbiamo preoccuparci molto assiduamente non solo di rispettare, ma di sostenere e favorire con tutti i mezzi l’iniziativa privata come fattore principale dell’economia». E José Marìa de Areilza nello stesso 1940 lo esprimeva in maniera molto più allusiva verso quei settori nazionalizzatori della Falange: «Senza l’iniziativa privata, ogni impegno autarchico, che è in sintesi l’industrializzazione crescente, si ridurrebbe a mera elucubrazione teorica. L’iniziativa privata, l’imprenditore, l’industriale o il fabbricante spagnolo è quello che deve portare sulle spalle il peso della battaglia per l’autarchia. Supporre che lo Stato vada a convertirsi in fabbricante o in industriale per supplire alle deficienze private non cessa d’essere una ingenuità infantile e, ciò che è più grave, un errore psicologico profondo». Tuttavia alcuni settori della borghesia, tramite le Camere di Commercio e di Industria, non cessarono di reclamare insistentemente e ripetutamente maggiori misure di liberalizzazione, protestando ricorrentemente contro quello che consideravano ’eccesso di interventismo’.

Gli affari per la borghesia basca e per le sue banche andavano prendendo un avviamento molto favorevole, partecipando, spesso come soci di minoranza, alla maggior parte delle imprese spagnole. La contropartita era nel degradarsi della condizione operaia fino a dei livelli che richiesero l’apertura di mense in molte fabbriche per alimentare i loro lavoratori giacché i miserabili salari erano del tutto insufficienti per sfamare loro e i loro familiari.

Lo Stato borghese, per opera della Falange, ipotizzava che la sindacalizzazione forzata riuscisse a contenere lo scontento operaio provocato da queste condizioni. Questo si augurava Muoz Grandes, a quel tempo segretario generale del sindacato, in occasione della citata Conferenza: «Parallelamente noi ci proponiamo di inquadrare, e già lo stiamo facendo,, tutti i lavoratori nelle nostre organizzazioni, spingendo alla sindacalizzazione, fino a convertire la sottomissione attuale in fervida adesione». La fervida adesione arrivò sì nell’aprile del 1951 però in una forma molto diversa da quella prefigurata dall’illustre militare: con l’adesione cioè ad un grande sciopero generale nei paesi baschi al quale parteciparono circa 200.000 lavoratori, con riuscita anche in città che tradizionalmente mai si erano distinte per la vastità di conflitti sociali, come Vitoria e Pamplona. Nonostante quel che dicevano i reazionari l’industrialismo e i suoi effetti già si facevano sentire in tutto il territorio basco. In Guipùzcoa le cose presero tale aspetto che lo stesso governatore civile, il barone Benasque, preparò i passaporti per sé e per la sua famiglia. Il ricordo dello spavento del 1936 era ancora fresco nella mente dei carnefici.

Il peso politico di queste lotte ricadde sopra i militanti del PCE, che avevano ricevuto la consegna di infiltrarsi nei sindacati fascisti. Si trattava di fatto di controllare le lotte operaie per evitare la formazione di movimenti di carattere autonomo che potessero rompere un giorno con la linea politica propugnata dagli stalinisti e dall’opposizione democratica di Franco. Il PNV e la sua appendice sindacale nei fatti si distinsero per la loro assenza per tutto questo periodo.

Molti dei militanti del PNV, imprenditori in attività, non avevano gran motivo di lamentarsi per l’andamento economico, mentre i fuorusciti per personali responsabilità politiche erano occupati a far pressione sugli americani, finché questi decisero di optare per Franco nella guerra fredda facendogli da spalla. I nazionalisti baschi mostrarono il loro disappunto di fronte a questa decisione degli Stati Uniti: «Ha urtato la nostra ingenua coscienza il fatto che coloro che diressero tanto brillantemente la seconda guerra mondiale per salvare la democrazia (...) abbiano inciampato tanto nei loro principi da considerare necessario, a quanto pare, prestare armi e denaro all’ex amico di Hitler e Mussolini» (Javier de Landàburu, 1956). Benché fosse una decisione poco intelligente per i membri del PNV con responsabilità politiche trattenersi nella Spagna di Franco, successivamente, di fatto, tanto l’esilio quanto il carcere subìto sotto il franchismo costituiranno un buon biglietto di presentazione antifranchista davanti alle masse.

Il 1956 sarà un anno chiave per le lotte operaie. Nella primavera di quell’anno si era prodotto nel Nord e in Catalogna un poderoso movimento di sciopero che riuscirà a strappare ai capitalisti un aumento generale dei salari che oscillerà fra il 25 e il 70%, ciò che dà un’idea dei salari da autentica fame fisica esistenti. In questo periodo in Spagna cominciano a soffiare nuovi venti che portavano con sé la fine della tappa cosiddetta autarchica. Il processo di riaccumulazione capitalistica postbellica era già sufficientemente maturo per poter integrare pienamente l’economia spagnola nel mercato mondiale. Tale maturità veniva esprimendosi tramite la crisi economica del 1957-59 che renderà necessario il Piano di Stabilizzazione e che, ancora una volta, imporrà una serie di misure antioperaie riducendo la capacità di acquisto ottenuta con le lotte del 1956.

Sarà in questi anni ’50 che si avranno i primi segni di scontento nelle file nazionaliste rispetto alla politica di inattività del nazionalismo ufficiale. Di nuovo, come era successo agli albori del primo nazionalismo sabiniano, e come nel secolo XIX con le guerre carliste, questa nuova ondata di industrializzazione postbellica scuoterà i paesi baschi. Il mondo rurale soffrirà in grande misura i progressi della nuova industrializzazione. Già nel 1955 l’attività agraria rappresentava solo il 12,8% del prodotto interno lordo basco, e andrà riducendosi progressivamente fino all’8,1% nel 1975. La campagna si andava spopolando ed il prezzo del suolo industriale aumentava, per la qual cosa la coltivazione della terra, in una orografia così poco favorevole come quella basca, cesserà d’essere redditizia. L’allevamento del bestiame si presenterà come una via di uscita di fronte alla rovina economica o all’emigrazione nelle città, però le troppo piccole dimensioni aziendali e la concorrenza estera farà che nemmeno questa attività risulterà vitale.

Il contesto socio-politico di questo periodo sarà pertanto di una reindustrializzazione massiccia; arrivo di gran numero di immigrati dalle altre regioni della Spagna; lotte operaie sempre più numerose una volta superato il primo periodo del terrore franchista; rovina della piccola borghesia agraria e in minor misura urbana; calcolata repressione governativa delle manifestazioni culturali in lingua basca e inattività del nazionalismo ufficiale di fronte a tutto questo. Elementi più che sufficienti perché settori della piccola borghesia insoddisfatta, sempre presenti attivamente nella moderna vita politica basca, comincino a manifestare sintomi di inquietudine che si formalizzeranno nella creazione di un gruppo che porterà il significativo nome di Ekin, Fare, sorto fra gli studenti della elitaria università gesuita di Deusto nel 1952. Questo sarà il nucleo dirigente che più tardi si chiamerà Euskadi ta Askatasuna, Paese Basco e Libertà, organizzazione molto più conosciuta con la sua sigla: ETA.
 

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IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO NEI PAESI DEL MAGHEREB
UNA FUORVIANTE PROSPETTIVA PER IL PROLETARIATO

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LA POLVERIERA EGIZIANA

Lo sviluppo della crisi economica in Egitto segue il percorso degli altri paesi arabi economicamente deboli, e in generale di tutti quelli del Terzo Mondo, tracciato ed imposto dal Fondo Monetario Internazionale mediante le consuete e ben note «manovre di riaggiustamento strutturale».

In favore della situazione egiziana intervengono però due fattori di carattere geo-strategico: primo l’Egitto è l’unico Stato cerniera e di comunicazione terrestre tra l’Africa e il Medio Oriente; secondo, sul suo territorio c’è

quell’importantissima autostrada d’acqua lunga 161 Km su cui transita il 14% di tutto il traffico mercantile internazionale via mare.

Questi due fattori, parte integrante della più complessa ed articolata questione militare in Medio Oriente, servono da oltre mezzo secolo a far allentare i cordoni delle borse americane ed europee e ad ottenere continui rinvii sulle restituzioni dei crediti. In particolare l’imperialismo americano non potrà mai rinunciare al suo controllo diretto in questo importantissimo fulcro strategico, soprattutto dopo lo smacco subito in Iran con la conseguente perdita delle basi e dell’appoggio garantito dallo scià Reza di Persia, suo fedelissimo alleato fantoccio.

Per questi due aspetti le masse derelitte e sfruttate egiziane, oltre i normali patimenti che sopportano, sono da considerarsi prigioniere ed ostaggio della classe dirigente locale poiché sono da questa utilizzate per difendere con il loro sacrificio umano, come è stato già fatto nel passato con sconclusionate operazioni militari, questi due importanti «beni della Nazione».

Il Dono del Nilo come era chiamato anticamente l’Egitto per il fatto di svilupparsi esclusivamente sulle sue alluvioni racchiude all’interno dei suoi confini politici 1 milione di Kmq compresi i 59.200 Kmq in Asia. La maggior parte di questo territorio è completamente desertico mentre la parte abitata e coltivata è di solo 55.000 Kmq, pari a 1/18 sul totale, ovvero una superficie grande il doppio della Sicilia, sui cui però vivono, secondo l’ultimo censimento, 56 milioni di individui. Ciò porta la densità abitativa reale a 1.018 abitanti per Kmq di territorio utile, contro quella puramente aritmetica di 58 abitanti per Kmq in media. Il Cairo, quindi, secondo l’ultimo censimento ufficiale del 1986, con i suoi 6 milioni di residenti ed una incredibile densità di 28.300 abitanti per Kmq, è la degna capitale di uno Stato sovraffollato. Però, secondo le ultime stime dell’agosto 1993, la popolazione totale sale a 58 milioni, mentre quella del Cairo, la città più grande dell’Africa, è stimata in 15 milioni. Nel solo infernale quartiere cairota di Imbaba, di poco superiore ai 2 Kmq, «vivono» un milione e mezzo di egiziani, il che significa poco più di un metro quadrato di spazio a testa, strade, tetti e terrazze compresi.

Nella Città dei Morti, segnalata da tutte le guide turistiche per il suo «contrastato paesaggio», ovvero un ex cimitero mamelucco delimitato da mura, fra migliaia di tombe, costruzioni e monumenti funebri «riciclati», vivono oltre mezzo milione di persone più derelitte di altre, per lo più profughi provenienti dalla zona del Canale e da qui fuggite durante la guerra del 1973 per la riconquista della piena sovranità su questo importantissimo bene nazionale!

Come popolazione l’Egitto è il secondo paese africano dopo la Nigeria è il terzo, dopo il Sudafrica e l’Algeria, come PIL con 32 miliardi di dollari nel 1992; il PIL pro capite però è sceso molto basso a 570 dollari: occorre ricordare che nel 1970 esso era di 200 dollari pro capite e salì a circa 700 nel 1987.

Le voci principali dell’economia egiziana riguardano principalmente agricoltura, materie prime, petrolio e derivati, rimesse degli emigranti, turismo di massa, pedaggi sul canale di Suez, aiuti e finanziamenti internazionali particolarmente agevolati.

L’agricoltura egiziana è favorita da eccezionali condizioni geo-climatiche: proverbiale fertilità naturale del suolo, soleggiamento continuo ed inverni caldi, territori piani, di facile accesso e raggruppati attorno al Nilo e irrigazione totale in quantità pressoché illimitata, regolarizzata dopo la costruzione della diga di Assuan, la quale però trattiene considerevolmente la discesa naturale del limo, il fertilissimo fango trasportato dal fiume nelle sue periodiche inondazioni, costringendo così i contadini a ricorrere ai fertilizzanti industriali. Il necessario prezzo del progresso, giustificano ipocritamente i grandi economisti di ogni parte!

Il terreno coltivato in Egitto è di 2,7 milioni di ettari uguale alla metà del territorio utile, oasi comprese ma ovviamente deserti esclusi: terreni sottoposti alla pratica della inondazione annuale del Nilo sono rimasti solo 400.000 ettari, mentre il resto è irrigato in modo permanente mediante opere di regolamentazione idraulica.

Queste opere irrigue e le condizioni climatiche permettono tre raccolti l’anno e determinano conseguentemente una particolare pratica e rotazione colturale contraddistinta con varietà e terminologia adatta: «Scitui», ovvero le principali colture invernali di grano, fagioli, orzo, fave, cipolle, lino ecc.; «Sefi», quelle estive di cotone, «l’oro bianco dell’Egitto», riso, mais, miglio canna da zucchero arachidi sesamo; »Nilj», o dell’inondazione del Nilo, le colture autunnali di riso, mais e miglio.

Di conseguenza la superficie seminata è molto più estesa di quella posta a coltura, la produzione di frutta ed ortaggi è continua, l’allevamento di bestiame da lavoro, da cortile, per carne e latte è estesa. Nonostante ciò, come non deve stupirci nel modo di produzione capitalistico, anche per l’Egitto si pone ancora oggi il drammatico problema dell’autosufficienza alimentare.

Da un dossier di Problèmes économiques marzo 1994 sull’economia egiziana riassumiamo una serie di dati per illustrare in sintesi la situazione. L’agricoltura assicura il 20% del PIL complessivo ed assorbe più di un terzo della popolazione attiva. Il PIL agricolo è cresciuto al ritmo medio del 2,7% annuo negli anni ’60, è passato al 3,5% negli anni ’70 dopo l’entrata in funzione della diga di Assuan, per poi discendere al 2,5% negli anni ’80, cioè a valori inferiori a vent’anni prima. Queste variazioni però vanno rapportate al consistente incremento demografico ricordando che nel 1950 l’Egitto contava solo 20 milioni di persone, ovvero in solo 40 anni la popolazione è quasi triplicata.

Di seguito riporteremo le illuminate spiegazioni del FMI e le conseguenti manovre di aggiustamento strutturale.

Per quanto riguarda l’occupazione in agricoltura negli anni ’60, non avendo a disposizione notizie in merito più aggiornate ma che rimangono comunque significative considerando il buon livello produttivo raggiunto in quel periodo, riportiamo un brano da Islam e capitalismo, di M. Rodinson. «In realtà, dopo il 1880 e l’occupazione inglese, con l’intensificazione della coltivazione del cotone che tendeva a diventare monocoltura, vi è uno sviluppo dello sfruttamento delle terre ad opera di operai salariati. Secondo il censimento del 1907, già il 36,6% della popolazione rurale attiva era composta da operai agricoli. Nel 1958-59, la cifra dei contadini senza terra saliva al 74% della popolazione rurale. Si trattava di salariati in potenza, non avendo in pratica altre risorse; tuttavia, dei 14 milioni di individui rappresentati da tale percentuale, di cui 10 milioni abili al lavoro, solo 3 milioni erano regolarmente salariati. A tale cifra bisognerebbe aggiungere proprietari delle micro-coltivazioni i quali possono vivere solo impiegandosi presso i proprietari maggiormente favoriti, vale a dire 215.000 capi di famiglia per un totale di 1.075.000 contadini: circa il 5% della popolazione rurale. Alla stessa data, si stima al 56% della superficie delle grandi proprietà (più di 20 feddans) la parte di queste che non è affittata, ma direttamente sfruttata dal proprietario, vale a dire lavorata da salariati».

Al di là delle strane definizioni sui salariati in potenza che per noi, vista la successiva descrizione, sono puri proletari agricoli, il quadro degli anni ’60 ci mostra 4 milioni di salariati agricoli, tra proletari e piccoli proprietari certamente in via di proletarizzazione, che lavorano oltre la metà delle grandi aziende agricole, vere fabbriche a cielo aperto.

Tornando alla situazione attuale, i documenti ci dicono che gli investimenti pubblici in agricoltura sono diminuiti negli ultimi 25 anni, mentre ora dopo l’avvio delle manovre del FMI, con i nuovi investimenti si vuole aumentare la produzione agricola che cresce al 3% annuo, di poco superiore alla crescita demografica che per ora si è stabilizzata al 2,7% dopo gli elevati tassi degli anni precedenti. In altre parole se tutto fila liscio si continuerà a consumare, o meglio a patir la fame, come ora.

L’agricoltura è il settore dove, a partire dal 1987, la liberalizzazione economica è stata più intensa; e ben se ne vedono gli effetti. Si è iniziato a sopprimere i controlli sulla varietà delle colture, sui prezzi fissati all’origine, sulla commercializzazione delle derrate agricole e sono iniziati i programmi di privatizzazione delle aziende agricole statali e delle attività para-agricole. Anche qui la falsa formuletta, anche da noi tanto riproposta, «meno Stato, più Mercato» ha accresciuto la ricchezza di qualcuno e la miseria di molti altri.

La liberalizzazione è rimasta parziale per parecchio tempo; le produzioni agricole programmate e sottoposte al regime dei prezzi fissati statalmente e le rotazioni colturali per le derrate alimentari (riso, mais, grano, cotone), allo scopo di approvvigionare a basso costo le città e le industrie, sono state via via sostituite da colture foraggiere, non calmierate e non sottoposte ad alcun vincolo, in sostituzione di quelle per l’alimentazione umana. Il fenomeno si accrebbe al punto di far cadere le entrate di imposte per l’erario su quelle derrate da 5,5 miliardi di lire egiziane del 1985 a 1 miliardo del 1991.

Inoltre gli «aggiustamenti» programmati dal ’92 prevedono la drastica riduzione delle sovvenzioni per la produzione per l’alimentazione animale, per i fertilizzanti ed i pesticidi, con l’esclusione di quelli per il cotone; la commercializzazione di questi prodotti passa al settore privato e la liberalizzazione di tutta la produzione agricola dovrà essere completata nel 1995. Le politiche del FMI inoltre tendono a realizzare incrementi di produttività sul suolo già coltivato, piuttosto che aumentarne la superficie tramite bonifiche, irrigazioni ed opere varie. Così facendo il deserto potrà riprendere la sua avanzata nonostante gli immani sforzi, Sfinge compresa, fatti per arrestarla. Ma di ciò i cervelloni dell’alta finanza non si preoccupano, fino a quando ovviamente non diventerà un’occasione su cui speculare.

Loro calcolano che si aumenterà la disponibilità commerciale delle derrate dal 20% al 40% solamente migliorando le sementi, introducendo nuove varietà e ibridi, modernizzando la raccolta, che ridurrà perdite e dispersioni, e infine razionalizzando l’irrigazione, oggi praticamente a costo zero, introducendo adeguate tariffe sui consumi che ne limiteranno «gli abusi». Parallelamente le opere per la manutenzione idraulica, bonifiche e drenaggi passeranno gradualmente a carico dei produttori.

Il Faraone del capitalismo non ricorda più o non è più in grado di adempiere alla massima incombenza dei Faraoni delle precedenti forme di produzione: la difesa del territorio e la manutenzione delle opere idrauliche compiti riservati all’unità centrale! In questo modo introducendo il pagamento dell’acqua e le tasse sull’irrigazione si limiteranno le produzioni che necessitano di grandi quantità di acqua, ovvero della canna da zucchero ma soprattutto del riso, tradizionalmente un alimento base; quindi meno acqua, meno riso, più fame.

Le cifre dell’autosufficienza alimentare sono complessivamente peggiorate e solo in alcuni settori, secondo i trionfalistici rapporti del FMI, ci sono stati rallentamenti e qualche recupero, però complessivamente sempre sotto il livello dell’autosufficienza. Un esempio per tutti il grano: nel 1960 la produzione nazionale copriva il 66% del consumo, nell’87 scende al 22%, per risalire al 45% nel 1991.

Un’altra consueta carta del FMI riguarda la limitazione dei consumi alimentari. Secondo questi obesi geniacci e i loro ben pasciuti pennivendoli le «sovvenzioni per i prezzi calmierati producono degli sprechi (zucchero e pane soprattutto) perché il costo del pane rimane sempre solamente ad un quarto del suo valore». Per loro, benché presto per considerare che la dipendenza alimentare egiziana sia definitivamente in via di attenuazione, le prospettive di incremento produttivo e di rallentamento della crescita demografica tenderebbero ad accreditare una soluzione favorevole. In altre parole: producete di più, mangiate pagando al prezzo di mercato e figliate con estrema moderazione! Quante lauree, masters e stages sono occorsi per tanto risultato?

Nel frattempo l’Egitto rimane uno dei primi paesi importatori agricoli mondiali con un enorme deficit commerciale: nel 1990/94 le esportazioni agricole sono state il 5,8% sul totale delle esportazioni, mentre le importazioni alimentari (grano, farina, mais) risultavano il 23,5% sul totale delle importazioni. Queste cifre ci mostrano come, nonostante le potenzialità e gli incrementi di produzione, la fame e la miseria capitalistica sia ben radicata.

Non consola, né sfama, il primato nel mondo per il 1990 per il più alto rendimento nella produzione del riso. Anche la produzione del cotone, l’oro bianco dell’Egitto, considerato come qualità il migliore del mondo, ha subito una caduta del 40% in 20 anni. La causa è, sempre secondo i soliti dottoroni, nei bassi prezzi imposti dallo Stato ai produttori, i quali negli ultimi anni hanno preferito pagare delle ammende piuttosto che continuarne la coltivazione. Occorre precisare che molti piccoli produttori furono costretti da questi bassi prezzi a coltivare il grano, altre derrate agricole e passare alla produzione orticola, sicuramente più remunerativa e più nutriente del cotone, mentre solo le grandi aziende potevano meccanizzarne la produzione e la sgranatura. Le superficie coltivate quindi sono scese della metà in 25 anni compromettendo così il rifornimento all’industria tessile nazionale che impiega 386.000 addetti.

Questo, come altre situazioni, non è dovuto al «più Stato, meno Mercato» ovvero all’ingerenza della macchina statale in economia, ma alle generali leggi e necessità della produzione capitalistica, come Marx ha ampliamente descritto a proposito dei processi di concentrazione e centralizzazione della produzione in questo modo di produzione nel Primo libro del Capitale al cap. XXIII, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica».

Il programma americano sul riassetto della produzione cotonifera da una parte prevede un piano di finanziamenti per 620 milioni di dollari, da un’altra contempla la totale apertura alle importazioni «per far giocare la concorrenza», fluttuazione dei prezzi di vendita ai filatori pari ai costi reali di produzione e legati al generale andamento dei prezzi internazionali e totale eliminazione di ogni controllo statale.

Nel settore minerario il programma internazionale riguarda l’apertura al capitale privato nazionale e straniero per la ricerca e lo sfruttamento dalle non disprezzabili risorse attualmente poco utilizzate ad eccezione di ferro, manganese, fosfati e carbone. Il pezzo forte però riguarda gli idrocarburi, settore in cui l’Egitto ha una lunga tradizione; le prime esplorazioni risalgono al 1884 mentre la produzione su vasta scala è iniziata nel 1911.

Attualmente, vista la produzione record del 1991, è il 16° produttore mondiale e ne esporta la metà, mentre non si prevede ancora di esportare il gas che viene impiegato sempre più frequentemente, oltre ai consumi domestici, negli impianti industriali e in quelli termoelettrici in sostituzione del petrolio. Il ricavato o meglio la rendita in valuta straniera che compete alle casse statali è stata di 1312 milioni di dollari nel 1991, cifra ragguardevole e corrispondente al 40% delle esportazioni petrolifere.

Anche in questo settore il FMI si preoccupa di lottare contro gli sprechi energetici dovuti come al solito, «ai bassi prezzi interni calmierati» che dovranno quindi essere adeguati al livello di quelli internazionali. Il prezzo di vendita del carburante e del gas alle centrali termoelettriche erano fissati al 9% di quelli internazionali e progressivamente sono aumentati. Di conseguenza le tariffe elettriche alle famiglie, che nel 1992 coprivano solo il 58% dei costi di produzione, dovranno essere adeguate ai costi reali, limitando altresì sprechi e consumi. I dottoroni sanno benissimo che più son poveri e più sprecano, e non solo gli egiziani!

Gli introiti derivati dal Canale di Suez rappresentano la seconda fonte di valuta straniera per il paese dopo le rimesse dei 2,5 milioni di emigrati all’estero, pari all’11% di tutta la popolazione attiva, impiegati per il 93% del totale nei vicini paesi arabi mediorientali, per la maggior parte con contratti temporanei. L’anno record per le entrate derivate dai pedaggi sul traffico marittimo sul Canale è stato il 1992 con un gettito di 1,9 miliardi dollari, il doppio rispetto il 1985.

La politica tariffaria privilegia le navi di grosso tonnellaggio; il traffico annuo è stato di 16.629 unità pari a 45 mercantili al giorno per un totale di 370 milioni di tonnellate di merci in transito. Allo scopo di ridurre il traffico delle grandi petroliere in favore delle portacontainers (le superpetroliere attualmente non possono transitare per limiti di pescaggio e larghezza) si sta potenziando l’oleodotto che convoglierà tutto il flusso del petrolio tra il mar Rosso ed il Mediterraneo.

I lavori per portare da 16 a 17 metri la profondità utile del Canale entro l’anno avranno costi pari a 300 milioni di dollari, pari alle entrate di due mesi di esercizio, mentre il progetto iniziale di 1,2 miliardi per permettere il passaggio di navigli fino a 270.000 tonnellate di stazza lorda, contro le attuali 150.000, è considerato proibitivo.

Altra voce importante dell’economia egiziana riguarda il turismo di massa internazionale e quello di gran lusso dai paesi arabi che oggi trovano nell’Egitto un paese tollerante rispetto le rigide leggi coraniche. Nell’esercizio turistico 1989/90, ultimo anno di crescita, 2,8 milioni di stranieri hanno speso in Egitto complessivamente 3,5 miliardi di dollari. La guerra del Golfo ha poi provocato una caduta del 14% nell’esercizio 90/91. La stagione successiva 91/92 ha registrato una ripresa quasi ai valori precedenti ma con l’attacco armato ad una nave da crociera nell’ottobre ’92 e la successiva campagna terroristica del 92/93 lanciata dal gruppo Gamaa al Islamiya (Associazione Islamica) c’è stato il crollo delle entrate derivate dal turismo valutate in 700 milioni di dollari in meno per il ’93. Attualmente il crollo è pari al 40% delle entrate turistiche globali con una perdita di 200 milioni di dollari al mese. Per la ripresa del flusso turistico le navi da crociera ed i pulman verso il Mar Rosso viaggiano in convogli scortati, mentre verso il sud consigliano il trasferimento aereo.

Gli ambiziosi e lungimiranti programmi della Banca Mondiale, prevedono, una volta riportata la calma, di produrre un flusso di 4,5 milioni di turisti l’anno entro il 2000, per la realizzazione del quale occorrerà costruire 40.000 nuove camere d’albergo. Noi ci auguriamo che gli abitanti dei quartieri di Imbaba e della Città dei Morti abbandonino i loro tuguri degni dei peggiori gironi danteschi e si approprino, armi alla mano, di tutti quei conforts da 5 stelle a loro negati ì dalla dittatura capitalista!

Altro consistente capitolo del bilancio egiziano sono i finanziamenti internazionali agevolati pari al 18% del PIL. Il servizio per questo debito, attualmente pari a 50 miliardi di dollari ossia il 150% del PNL, ha assorbito il 23% delle entrate correnti del 1992/93 e dovrà scendere, sempre secondo il FMI, al 7,5% nel 95/96; questo naturalmente contenendo sprechi e consumi.

Subito dopo la guerra del Golfo è iniziato per l’Egitto, che era giunto al limite del collasso economico, un periodo favorevole, grazie alla «disinteressata generosità americana». Infatti la partecipazione all’intervento militare contro l’Irak è servito a cancellare la metà del debito estero, mentre già con la firma degli accordi di pace con Israele era iniziato un flusso di aiuti americani pari a 3 miliardi di dollari l’anno. Infine gli Usa sono riusciti a far finanziare dai ricchi paesi arabi un piano quinquennale di aiuti per 18,5 miliardi per ridurre la miseria, causa accertata del terrorismo, nei villaggi e nelle oasi egiziane.

Nonostante queste potenzialità la crisi egiziana è molto ampia: l’analfabetismo (fatto che, in sé al comunismo rivoluzionario non nuoce poiché può capire meno un laureato borghese che un proletario analfabeta) riguarda il 50% della popolazione uguale alla scolarità della fascia tra i 12/15 anni. I recenti programmi di aggiustamento hanno poi cancellato la norma vigente per la quale, allo scopo di favorire l’istruzione superiore, lo Stato assicurava a ciascun laureato egiziano un posto nell’amministrazione pubblica, decisione che, con le altre che hanno provocato perdite occupazionali, ha provocato scontri al Cairo.

La popolazione attiva egiziana, secondo i dati del 1991, era calcolata in 15 milioni, di cui 9,6 impiegati nel settore privato; 1,8 nelle imprese pubbliche e 3,6 nelle collettività pubbliche. Il piano 93/97 prevede la creazione di 3,2 milioni di nuovi posti di lavoro di cui 1,5 milioni nell’agricoltura, 700.000 nei servizi per la produzione e 1 milione nei servizi sociali.

Questo a tavolino, mentre sulle strade ci sono 3 milioni di disoccupati la metà dei quali solo nella capitale, secondo le più ottimistiche stime di un tasso di disoccupazione di solo il 20%, mentre altre, comprendenti gli emigranti occupati solo stagionalmente all’estero, indicano percentuali molto più elevate fino al 50%. Inutile riportare i trionfalistici risultati conseguiti tramite il FMI nell’ultimo periodo sulla riduzione del deficit e dell’inflazione, sulla stabilità dei cambi e la scomparsa del relativo «mercato parallelo» (ovvero scambio del dollaro al mercato nero fuori dal controllo bancario) e l’aumento delle riserve. La miseria crescente, che in parte si sfoga nel terrorismo, represso con estrema ferocia, sconfessano questi risultati.

Su questo livello di crisi economica, aggravata notevolmente dalla imperante e sfacciata corruzione a tutti i livelli, il mito del paradiso oltre tomba promesso dal Corano ha convogliato anche qui le energie di parte delle masse diseredate egiziane, deviandole, a causa soprattutto dell’assenza di reali organizzazioni classiste, sul terreno del riscatto morale e religioso della società, baluardo che occulta lo sfruttamento capitalista. Le sole cause economiche, anche se profonde e radicate come in Egitto, sono da sole insufficienti, se manca l’adeguato intervento del partito comunista rivoluzionario e dei sindacati di classe, ad ingaggiare la decisiva battaglia per la caduta del capitalismo, vera causa originante ogni male e sofferenza attuale.

Attualmente la costituzione egiziana vieta la formazione di partiti in base alla religione, alla discriminante sessuale e di quelli che si ritiene essere una copia di quelli già esistenti. Questa norma è considerata dall’attuale gruppo dirigente intoccabile allo scopo di impedire la legalizzazione dei partiti religiosi islamici, evitando quindi, come nel caso del FIS in Algeria, di perdere il potere tramite «libere e democratiche elezioni». Questo quindi non fa che radicalizzare le opposizioni, accrescere e coinvolgere negli scontri anche le organizzazioni moderate. Si rivela di conseguenza superficiale la scusa di impedire la formazione di partiti islamici, in opposizione di quelli copti che inevitabilmente si formerebbero, per impedire contrasti interni come ora sta avvenendo in Algeria tra fondamentalisti e berberi.

Il tentativo di creare un canale di dialogo ideato dal ministro degli interni A.H. Moussa, tramite degli incontri con un comitato di saggi comprendenti alcuni capi spirituali fondamentalisti, è stato immediatamente bloccato dopo l’incontro Clinton-Mubarak dell’aprile ’93 con la scusa che lo Stato non può dialogare con dei fuorilegge; il ministro quindi è stato subito rimosso.

Le organizzazioni islamiche sono anche qui frammentate e divise sugli obiettivi da perseguire; sono però diffuse su tutto il territorio, hanno una formazione militare «afgana» ben collaudata sia negli attacchi alle navi e ai centri turistici, sia ai vertici dello Stato, fino all’assalto al World Trade Center di New York.

Tra i moderati i Fratelli Musulmani sono il gruppo più vecchio, come abbiamo già riferito, ed al momento sono per una soluzione «alla sudanese» ovvero non sarebbe indispensabile che siano i religiosi al potere ma occorrerebbe un governo di precisa ispirazione religiosa. In Sudan il capo di Stato è il generale Bechir mentre l’autorità suprema è un capo religioso, lo sceicco Tourabi, soluzione che si prospetta ora anche per l’Algeria dopo la scarcerazione dei capi del FIS. I Fratelli Musulmani sono vicini ed alleati con il Partito del Lavoro di matrice nazionalista e «socialista» che si è orientato verso posizioni fondamentaliste. Gli Islamisti Indipendenti hanno invece un indirizzo più morbido e si basano sul pluralismo politico e sulle maggioranze parlamentari. Invece i due gruppi Gamaa al Islamiya, o Al-gamaat (Associazione Islamica) e quelli di EI-Jihad ritengono indispensabile l’uso della forza per realizzare una vera repubblica islamica.

La repressione è durissima contro i gruppi armati fondamentalisti: dal ’92 vi sono stati più di 350 morti nei vari scontri, fra cui 10 turisti stranieri e un migliaio di feriti, mentre nelle carceri sono ufficialmente rinchiusi oltre 10.000 prigionieri politici per alcuni dei quali è già pronta la forca.

Nel goffo tentativo di limitare l’influenza fondamentalista a tutti i livelli, il governo ha vietato alle studentesse di indossare il velo durante le attività scolastiche senza il consenso scritto dei genitori ed ha preso misure disciplinari nei confronti degli insegnanti che faranno pressioni per indurle a coprirsi il capo.

I gruppi più radicali, gli «afghani», per il loro moderno addestramento ed esperienza in quella guerra, al rientro in patria dopo la loro smobilitazione si sono rivelati elementi di forte destabilizzazione. Egitto, Yemen, Tunisia, Algeria e Sudan si sono trovati inizialmente impreparati a contenere questo imprevisto effetto boomerang. Questa situazione si è rivelata particolarmente pesante in Egitto ad opera del gruppo EI-Jihad che in Afganistan ha stretto forti legami con il FNI (Fronte Nazionale Islamico) sudanese ed usa il Sudan, nonostante il cambiamento parziale di rotta del regime segnato dalla consegna del terrorista internazionale Carlos, come una base per i suoi movimenti.

Il sostegno economico per i fondamentalisti egiziani arrivava tramite il principe saudita e uomo d’affari Osama Bin Laden, il quale aveva creato in Pakistan la base di Peshawar per l’addestramento dei combattenti islamici, finanziando così indirettamente il terrorismo in Egitto. Non tutti i combattenti che arrivavano lassù erano convinti fondamentalisti, ma una buona parte di questi erano semplici disoccupati egiziani, anche della piccola borghesia, che cercavano lavoro in Arabia Saudita ma che avevano scarse possibilità di occupazione e visti di breve durata e in via di scadenza.

È evidente che miseria, disoccupazione e una paga certa sono stati richiami più forti di quelli religiosi e molti di questi giovani mercenari, dopo un intenso addestramento di tre mesi di tipo militare e ideologico, sono passati dalle posizioni dei Fratelli Musulmani a quelle più radicali. Alcuni recenti rapporti del governo egiziano indicano che delle migliaia di emigranti andati a combattere in Afghanistan, non più di 600 sono ancora attivi di questi 150 sono rientrati in Egitto e 70 sono stati arrestati. Le stesse stime governative calcolano che vi siano 15.000 militanti islamici con età compresa tra i 18 e i 35 anni. Un’altra parte invece si trova in Europa e negli Usa dove hanno ottenuto asilo politico. Tra questi si trovava anche lo sceicco cieco Abdel Rahman, un novello Komeini, ritenuto l’ispiratore dell’attentato al WorId Trade Center, che a suo tempo aveva ottenuto la protezione americana in cambio dell’invio di alcune centinaia di fedelissimi combattenti integralisti contro i russi in Afghanistan.

I gruppi minori si sono allineati su questo livello di scontro militare, ma come per gli altri paesi precedentemente visti, ciascuno di questi si muove senza coordinamento con altri gruppi nazionali o stranieri, costante limite politico e strategico di queste formazioni che imbavagliano e dirottano sui binari morti dei vetusti Stati teocratici le possenti energie delle masse oppresse arabe.

Ma il vero nemico che si troveranno di fronte, nel caso di un loro consistente rafforzamento, non sarà Mubarak ed i suoi boia, che al momento contengono ancora il terrorismo fondamentalista, ma i molteplici interessi economici strategici dell’imperialismo americano, per la difesa dei quali gli Usa ritengono di dover intervenire con la loro gigantesca macchina bellica ovunque siano messi in pericolo. Gli americani non possono permettere una situazione simile a quella ancora in corso in Algeria, o ancor peggio a quella iraniana, poiché l’esplosione della polveriera egiziana coinvolgerebbe con la sua ampiezza tutto il Medioriente, compromettendo seriamente i loro grandi affari ed il potere in tutta l’area. Queste particolari precauzioni, permanendo gli attuali equilibri internazionali ispireranno le risposte alla violenta esplosione della rivoluzione comunista, pericolo ben più temuto del fondamentalismo islamico.
 

IL FONDAMENTALISMO IN SUDAN

Lo sviluppo del fondamentalismo e la sua attuale gestione del potere in Sudan sono legati a due recenti e particolari fattori. In primo luogo l’annosa guerra con tro il Movimento Popolare per la Liberazione del Sudan e le sue formazioni militari dirette dal colonnello Garang per l’abrogazione dell’uso della sharia (le leggi coraniche) nella vita pubblica e per l’autonomia, poi trasformata per l’indipendenza, nelle regioni meridionali del Sudan.

Il secondo aspetto risiede nel fatto che l’attuale gruppo dirigente, dopo l’assunzione di tutti i principi fondamentalisti nella guida del paese, ha conseguentemente trasformato il Sudan in terra di asilo e protezione a qualsivoglia combattente altrove perseguitato entrando così nella lista nera dei paesi «ad alto rischio».

Il conflitto nelle province del Sud ha evidentemente provocato il crollo economico e produttivo del paese a cui si può brevemente accennare.

Un vasto territorio di 25 milioni di Kmq, desertico ed improduttivo solo per un terzo: nel centro del paese vi sono fertili pianure alluvionali che hanno reso il Sudan un discreto paese produttore di cotone; il 62% del territorio è occupato da pascoli e savane arborate. Le stime del 1992 sulla popolazione contano 26,5 milioni di abitanti, il 40% dei quali sono arabi, il 30% sono popolazioni nilo-etiopiche e il 10% sono nomadi. La popolazione attiva é di 8,5 milioni, il 60% é occupata nell’agricoltura.

Nell’agosto 1955 con l’ammutinamento dell’Equatoria Africa Corps, nel sud del paese, iniziano le lotte per l’indipendenza del Sudan che la ottiene velocemente alcuni mesi più tardi. La stabilità non fu mai raggiunta e seguono colpi di Stato e guerre civili. Nel 1971 ufficiali dell’estrema sinistra tentano di prendere il potere. La risposta del colonnello Nimeiry che detiene il potere è l’esecuzione dei dirigenti del potente partito comunista locale. L’anno successivo ad Addis Abeba vengono firmati i primi accordi tra ribelli del sud ed autorità centrale di Khartum, l’inizio di una inutile serie di pezzi di carta.

Nel 1983 il regime del colonnello Nimeiry decide di applicare la legge coranica, la sharia, nella gestione dello Stato mentre a Sud si riaccende con maggior vigore la ribellione del MPLS, che poi si propaga al nord provocando infine la caduta del regime militare nel 1985. Seguono altre «libere elezioni pluraliste» ma quattro anni dopo ennesima giunta militare, questa volta guidata dal gen. Bashir, e scioglimento di tutti i partiti compreso il Fronte Nazionale Islamico. Vengono incarcerati indistintamente tutti i dirigenti compreso lo sceicco Turabi, ispiratore del colpo di Stato e grande guida carismatica islamica.

Attualmente però chi esercita realmente il potere in Sudan sono gli aderenti, civili, militari e religiosi del FNI, inseriti a tutti i livelli nei 26 Stati recentemente creati nel quadro della politica di decentralizzazione del paese, Bashir detiene il potere solo di nome, mentre di fatto può molto poco, ed è invece lo sceicco Turabi che coordina gli indirizzi statali.

Anche qui il fronte fondamentalista non è compatto e oltre la contrapposizione fra moderati e radicali c’è l’allontanamento, poi punito a mitragliate nelle moschee dagli «afghani», di alcune sette fra le quali la rigorosa wahhabita che denuncia la giunta di governo di utilizzare il fondamentalismo per scopi di potere personali.

Le Forze di Difesa Popolare, organizzazioni militari del FNI, guardia scelta del regime costituite per sorvegliare l’esercito regolare dopo le ultime epurazioni, sono diventate la punta armata per l’islamizzazione e l’arabizzazione forzata del Sud ed il governo attribuisce loro il merito delle recenti successi contro il MPLS.

In realtà queste parziali vittorie sono avvenute dopo la caduta nel maggio 1991 di Menghistu che aveva concesso ai separatisti di usare l’Etiopia come loro sicura retrovia. Da quella data gli scontri hanno avuto esiti alterni e mai stabili mentre il costo di questa guerra interna è arrivato per le forze governative a circa 2 milioni di dollari al giorno.

Il sud è ormai totalmente dipendente dagli aiuti stranieri, mentre solo nell’ultimo periodo sono iniziati anche al nord i problemi di autosufficienza alimentare che era stata raggiunta nel 1991 grazie alla grande estensione della coltura del grano ed alle opere di canalizzazione.

Con il salario minimo mensile ora si può comperare solo 2,5 kg di carne o 10 litri di carburante.

L’ipotesi di dividere in due Stati tra il nord e il sud il paese non è ancora attuabile poiché tutte le opposizioni ancora esistenti sono allo sbando e non riescono ad unirsi nemmeno sotto la guida del MPLS.

In questa situazione la Francia traffica in appoggio al governo di Khartum e cerca di mitigare la dura posizione americana che vorrebbe far espellere il Sudan dal FMI, tagliandogli così ogni finanziamento internazionale mentre è già operante l’embargo da parte dell’Unione Europea. Già nell’agosto del ’93 vi era stato un provvedimento di sospensione dal Fondo in seguito al rifiuto sudanese di garantire il pagamento degli interessi sul debito estero che attualmente è salito a 16 miliardi di dollari più arretrati vari per circa 1 miliardo.

Il recente arresto ed estradizione in Francia del «terrorista internazionale» Carlos è certamente frutto del mercanteggio diplomatico come segnale di attenzione alle pressioni americane. Gli Usa infatti non vogliono che il Sudan si trasformi realmente in un secondo Iran ed in cambio della loro «disinteressata generosità» pretendono che il governo africano rinunci alla politica di sostegno alle formazioni terroristiche internazionali.
 

(Fine del rapporto  [ - 1 - 2 - 3 - 4 - ])

 
 
 
 
 
 
 
 
 



MARXISMO E LEGGI DIFFERENZIALI
Riunione di Genova, maggio 1998.

(Parte prima)   [ 1 - 2 - 3 ]
 
 
 

I nostri studi di partito sulla questione agraria concludono nel senso che la legge delle rendita differenziale, considerata nel suo operare in campo agrario, possa generalizzarsi nel campo della natura e sociale, traendone conclusioni che si oppongono frontalmente ai risultati della contemporanea scienza fisica e agli epigoni degenerati dei teorici dell’armonia economica-sociale, rinnegatori del determinismo storico. Ugualmente la legge differenziale è la dimostrazione scientifica della impotenza sul piano teorico e sul piano dell’azione pratica dei seguaci del concretismo e della politique d’abord.
 

Origine della Rendita Differenziale

Marx analizza due forme di rendita differenziale dei terreni agrari. La prima discende dalla diversa fertilità dei terreni man mano messi a coltura per la necessità d’alimentazione di una popolazione aumentata. La seconda scaturisce dai miglioramenti attuati nelle terre già coltivate con l’aumento del capitale e del lavoro impiegato.

Nell’analisi dell’origine della rendita differenziale prima (I) e seconda (II) Marx parte dalla critica della teoria della rendita di Ricardo. Questi aveva constatato come, mentre nella manifattura il prezzo di un dato prodotto è determinato dalla fabbrica migliore, nell’agricoltura è determinata dall’azienda peggiore. Essendo venduti i prodotti allo stesso prezzo ne deriva che i proprietari fondiari dei terreni migliori intascano una rendita differenziale. Per Ricardo la rendita fondiaria scaturisce dal monopolio della terra da parte del giuridico proprietario fondiario. Da difensore coerente del capitalismo industriale egli auspica la nazionalizzazione della terra e l’acquisizione della rendita da parte dello Stato come imposta. Marx dimostra che ciò non determinerebbe un abbassamento del prezzo della sussistenza, atteso da Ricardo, e che la causa della rendita è da ricercare non nell’esistenza del fondiario ma altrove.

La domanda centrale per comprendere l’origine della rendita differenziale è la seguente: perché il prodotto manufatto tende al prezzo minimo, determinato dalla fabbrica più avanzata, mentre il prezzo del grano può elevarsi a quello massimo, dell’ultimo quintale necessario? Marx cerca la risposta nella diversa natura dei bisogni umani. Questi si dividono in due grandi gruppi: quelli artificiali e quelli naturali. La definizione di bisogni naturali necessita di una precisazione: devono essere definiti storicamente in quanto, per esempio, l’abitazione dell’uomo delle caverne non è certamente quella dell’operaio moderno.

La soddisfazione dei bisogni artificiali, artatamente inculcati nel consumatore da una martellante pubblicità, non presenta difficoltà alcuna. Basta aprire nuove fabbriche, ’stimolare la domanda’, ridurre i prezzi e il prodotto sarà certamente consumato. Il difficile in questo campo non consiste nella produzione ma nello smercio del prodotto. Da qui lo sviluppo delle tecniche di persuasione, di ricerche di mercato, ultimo prodotto della fessaggine borghese, il marketing. È chiaro, che essendo il prodotto puramente voluttuario, esso è tanto più consumato quanto più a buon mercato. Per questo il prezzo sarà determinato dalla fabbrica migliore, che ne può produrre in quantità praticamente infinita e con costi tanto minori quanto più ne produce.

Diverso è il caso dei prodotti agricoli, alimentari e non, necessari per lo più a soddisfare bisogni vitali. Qui non c’è bisogno di ’tecniche di mercato’ per ’convincere’ il consumatore a consumare, è lo stomaco che lo spinge a cercare e pagare il prodotto a qualsiasi prezzo. Se per placare la fame di una data popolazione è necessaria una data quantità di grano, sarà il prezzo dell’ultimo quintale che determinerà il prezzo di tutto il prodotto perché è assurdo, in base alla legge del valore, far pagare l’ultimo quintale ad un prezzo superiore a quello del primo. La conclusione che se ne trae è che la rendita differenziale ha un’origine mercantile, dalla norma ferrea dello scambio tra equivalenti, la legge del valore. Contro Ricardo la nostra scuola conclude che della rendita differenziale «non culpa l’istituto proprietà, culpa l’istituto Mercato» (Mai la merce sfamerà l’uomo, "Programma Comunista", n.8/1954).

Con lo sviluppo del capitalismo e la mineralizzazione crescente della vita, con l’ampliarsi dei bisogni artificiali, che oggi sono reputati più necessari e naturali dei naturali medesimi, si assiste al dilagare della rendita al di fuori del campo agrario d’origine. Il parassitismo sociale si estende a tutta la produzione dissipando immense forze produttive nella soddisfazione di capricci insensati a scapito dello sviluppo della produzione dei beni primari.

L’imperialismo è tutto scritto nella rendita e questa è un risultato della legge base della produzione mercantile, la legge del valore: «La portata della teoria di Marx sulla rendita, in certi passi difficili, sta nel contenere la critica essenziale di tutto il capitalismo. Per riportare i prezzi di mercato ai valori nella produzione non basta sopprimere i beneficiari dei premi che si stabiliscono tra i primi e i secondi (i proprietari fondiari, ndr); è invece vero che tali sempre più mostruose dilapidazioni sorgeranno fino a quando l’inizio degli atti produttivi e i calcoli di essi si baseranno sui fatti della sfera di circolazione delle merci, con l’applicazione della legge del valore. Tutte le forme di parassitismo dei monopoli commerciali e industriali, cartelli, trust, aziende di Stato e Stati capitalisti, non hanno bisogno di una nuova teoria sotto il pretesto asino che Marx abbia dettato la teoria del capitalismo nell’ipotesi della concorrenza. Essendosene Marx della concorrenza beffato, o meglio, avendo provato che essa è un fenomeno inessenziale al capitalismo, la teoria del monopolio e dell’imperialismo si trova già tutta scritta all’ultima frase e all’ultima formula: nella dottrina della rendita agraria».

La rendita differenziale con lo sviluppo dell’imperialismo e della mineralizzazione si risolve nell’equazione della fame integrale.

La rendita differenziale I e II non è quindi, contrariamente a quello che pensava Ricardo, causata dal monopolio giuridico della terra, ma dal monopolio economico della classe capitalistica. Essendo la legge fondamentale del modo di produzione capitalistico quella del valore, e scambiandosi tutti i prodotti secondo la legge degli equivalenti, il prodotto del terreno peggiore sarà venduto allo stesso prezzo del prodotto del terreno migliore, originando quindi un plus: la rendita differenziale appunto. Rendita che viene in gran parte pagata dal proletariato in quanto è questa classe che consuma quasi tutto il suo reddito in prodotti agrari.

La rendita differenziale trova origine quindi nel fatto che la società scambia i suoi prodotti secondo la legge degli equivalenti, dimostrando ancora una volta come l’arco su cui poggia la struttura di sfruttamento del proletariato sia la legge del valore e tutto ciò che ne consegue, produzione mercantile, lavoro salariato, legge del plusvalore etc... La forma valore è il segreto della rendita differenziale e di tutte le forme economiche borghesi.

Solo la teoria dialettica dell’’universale concreto’ è capace di cogliere la realtà oggettiva nel suo divenire, realtà che non è fissata in identità metafisiche, ma è essenzialmente movimento. La logica dialettica dell’universale presuppone la trasformazione del singolare nell’universale e viceversa, trasformazione che avviene costantemente in qualsiasi processo reale di sviluppo. Marx nel Capitale scopre le determinazioni universali del valore mediante l’analisi del caso particolare della circolazione semplice delle merci: l’analisi di un caso particolare dà luogo a determinazioni non singolari ma universali.

Lenin nei Quaderni Filosofici spiega come l’analisi dello scambio mercantile porti alla luce tutte le contraddizioni della società capitalistica: «Marx nel capitale analizza dapprima il rapporto più semplice, abituale, fondamentale, il rapporto più diffuso, più ricorrente, osservabile miliardi di volte, della società (mercantile) borghese; lo scambio delle merci. L’analisi scopre in questo fenomeno elementare (in quella ’cellula’ della società borghese) tutte le contraddizioni (rispettivamente l’embrione di tutte le contraddizioni) della società moderna».

Il risultato dell’analisi del rapporto più semplice della società capitalistica (lo scambio diretto tra merce e merce) è il concetto della forma semplice di valore. In questa forma come in una cellula si cela tutta la restante ricchezza della forma più complessa e più sviluppata dei rapporti capitalistici. Ciò è possibile perché lo scambio mercantile è divenuto nel capitalismo il fondamento genetico universale di tutte le altre forme, perché solo nel capitalismo si è avuto lo sviluppo della forma merce a forma effettiva di dominio della società nella sua totalità.

Marx esprime lo stesso concetto in una lettera ad Engels del 22 giugno 1867: «I signori economisti non hanno finora badato all’estrema semplicità del fatto, che la forma: 20 braccia di tela = 1 vestito è il fondamento non ancora sviluppato di 20 braccia di tela = 2 sterline, che dunque la più semplice forma della merce, in cui il suo valore non è ancora espresso come rapporto con tutte le altre merci, ma invece soltanto come distinto della sua propria forma naturale, contiene tutto il segreto della forma denaro e con ciò in nuce di tutte le formi borghesi del prodotto del lavoro».

Sulla stessa linea di Marx e Lenin abbiamo scritto: «Il Capitale di Carlo Marx contiene un paragrafo, quarto del primo Capitolo che in una decina di pagine riassume tutta l’opera e la materia. Quel capitolo s’intitola ’Il carattere feticistico della merce il suo segreto’» (Il Marxismo dei cacagli).

La legge del valore costituisce quindi il mostruoso pilastro su cui si erge la costruzione del capitalismo nella sua involuzione imperialistica. L’urto della rivoluzione proletaria dovrà abbattere quel pilastro se vorrà distruggere l’intera costruzione spianando la strada all’umana società comunista. «La teoria della rendita che consente di stabilire la formazione del prezzo di mercato del grano (delle sussistenze alimentari) permette la dimostrazione che col grandeggiare della produzione capitalistica non si arriva ad alimentare la specie umana, per alto che divenga il livello delle forze produttive. Ne deriva la previsione del crollo del capitalismo. Ma la cosa importante è la dimostrazione che per aversi tale crollo, è lo scambio di mercato, colla sua legge d’equivalente che deve crollare».
 

Formulazione matematica della Legge

Formuliamo qui la legge della rendita differenziale in termini matematici. La ricerca della formula non è un esercizio accademico per soddisfare pruriti di rigore estetico: in campo economico-sociale le formule non sono neutre poiché esprimono rapporti di forza tra le classi. Come la formula del saggio del plusvalore pv/v esprime il rapporto di forze tra classe operaia e classe capitalistica, la formula della rendita differenziale esprime il rapporto di forza tra proprietari fondiari e le altre classi e più in generale il grado di parassitismo e putredine sociale. Così come il saggio pv/v è una potente formula che misura la violenza esercitata su tutta la società (da quella a livello individuale fino alla bombe atomiche), tutti i fenomeni di putrefazione e parassitismo sociale (dal dominio imperialistico del capitale finanziario e speculativo, alla disgregazione della famiglia fino al dilagare dell’oscurantismo in tutte le sue manifestazioni) trovano la loro misura nel saggio della rendita differenziale.

È interessante osservare come né il pensiero laico borghese né quello religioso, siano essi ’deboli’ o ’forti’, riescano a dare una spiegazione sensata a questi fenomeni di ultra oscurantismo: dalla Ragione di ’Le Monde Diplomatique’ scandalizzata dallo sviluppo delle sette esoteriche, più o meno ’serie’ in Francia ed in tutta Europa, alla voce di cattolici come Gianfranco Ravasi – che occupa tutta la prima pagina del supplemento domenicale del ’Sole 24 Ore’ dell’8 marzo – forse preoccupati per la ’concorrenza scorretta’ che il New Age pratica nei confronti delle grandi religioni costituite. Di fronte a questo ’sfacelo dello Spirito’ saremmo quasi tentati di solidarizzare con l’esimio sacerdote. «Non possiamo (...) dire che il nuovo secolo sarà necessariamente credente, nel senso forte della fede delle grandi religioni, le quali sono forse tentate di edulcorare e liofilizzare anch’esse il loro depositum fidei. E invece, a nostro avviso, senza temere l’impopolarità, esse dovrebbero conservare, annunziare e testimoniare in forma pura le loro Scritture Sacre, il loro messaggio glorioso e secolare, la loro morale impegnativa, la loro generosa utopia, il loro essere lievito e seme (...) Perché (...) Cristo non ha detto ai suoi discepoli: ’Siate il miele della terra, ma il sale’ che brucia e dà sapore».

Ma come pensa Gianfranco Ravasi, supposto che sia in buona fede, che una Chiesa che affida le sue sorti non alla potenza del Verbo ma alle campagne pubblicitarie televisive a favore dell’otto per mille, possa rimanere immune dalla putrefazione generale del mondo di cui è parte? Il sale della terra oggi non possono essere i discepoli del Cristo, neanche di quelli che chiedono un ritorno alle origini e all’affermazione forte dei fondamenti dottrinari, ma i militanti del partito marxista rivoluzionario i quali, avendo chiaro dove sta il marcio, sanno che è possibile estirparlo con il ferro e il fuoco della rivoluzione sociale.

A proposito di New Age, Giorgio Galli, intellettuale di punta del socialismo libertario, invita noi, marxisti ortodossi, ad abbandonare la concezione dell’invarianza del marxismo per procedere ad un suo arricchimento con elementi culturali fatti propri dal suddetto movimento, affinché il pensiero marxista ritorni a avere un ruolo politico. In particolare ci invita: 1) a non considerare il proletariato industriale come classe sociale di riferimento; 2) ad abbandonare il determinismo newtoniano per un approccio quanto-probabilistico con la realtà storica, recuperando non solo i risultati della moderna fisica quantistica, ma anche il sapere pre e protoscientifico, dall’astrologia alla cultura ermetico-alchemica. Il marxismo, a suo dire, sarebbe stato caratterizzato dall’eurocentrismo, per cui si renderebbe necessario innestare nel suo corpus dottrinale elementi di culture diverse, in particolare orientali dal Taoismo, all’Induismo, al Buddismo; 3) a depurare il marxismo del concetto di violenza come strumento di trasformazione sociale. In conclusione ci si invita ad annegare la nostra dottrina nel minestrone di un sapere costituito da tutti i rottami culturali del passato, ritornati in auge in questo secolo di rinculo.

Nel tentativo di dare dignità scientifica a questo argomentare fa appello ai risultati della fisica quantistica, che vengono visti da alcuni come la conferma di certe concezioni delle culture orientali. Per quanto ci riguarda il fatto che la maggior parte dei sostenitori della fisica quantistica nuotino in questo brodo, ci convince solo della senilità e della putrescenza del moderno pensiero ’scientifico’ e non di abbandonare il nostro metodo e la nostra scienza di classe. Sono queste argomentazioni a confermarci che gli avversari dichiarati della nostra scuola sono sempre da preferire ad amici, cugini e compagni di strada.

Tornando alla rendita differenziale, i marxisti sanno che la causa ’differente fertilità’ genera l’effetto ’differente rendita’. Un approccio prescientifico al problema conclude che la rendita sarebbe proporzionale alla fertilità del terreno e quindi al prodotto. Se prendiamo la tabella uno, base di tutte le considerazioni di Marx sulla rendita (Capitale, III, cap.39), vediamo che i quattro terreni, A,B,C,D, danno rispettivamente i prodotti 1,2,3,4 in misure di grano, mentre le rendite differenziali sono, espresse sempre in misura di grano, 0,1,2,3.

Se valesse la legge: ’La rendita differenziale è proporzionale al prodotto’ avremmo la formuletta Rn/Pn = Costante, dove Rn e Pn sono rendite e prodotto del terreno ennesimo. In questo caso però, passando per esempio dal terreno B, il cui prodotto è 2, al terreno C, il cui prodotto è 3, la rendita passerebbe da 1 misura a 1,5 misura. Infatti dovendo rispettare l’uguaglianza R2/P2 = R3/P3 risulterà che R3 = R2/P2 x P3 = 1/2 x 3 = 3/2 = 1,5, mentre in realtà è 2.

Esprimere la legge differenziale nei termini di cui sopra «avvantaggia il proprietario fondiario borghese e politicamente frega il mio partito rivoluzionario». La giusta formulazione della legge differenziale e la sua corretta espressione matematica non sono quindi ininfluente nel rappresentarsi i rapporti di forza tra le classi e nell’azione del partito comunista.

Partiamo sempre dall’ipotesi che il prezzo del prodotto agrario sia determinato dal prezzo di produzione del terreno peggiore. Con riferimento alla fertilità dei terreni esprimeremo la legge differenziale nel seguente modo: La rendita non è proporzionale alla fertilità del terreno, ma le differenze di rendita sono proporzionali alle differenze delle fertilità. In formula: DeltaR/DeltaF = Costante. Ovvero, passando ai differenziali: «Legge di Marx: differenziale della rendita uguale una costante moltiplicata per il differenziale della fertilità». In formula dR/dF = Costante, ove dR = differenziale della rendita, dF = differenziale fertilità. Cosa distingue una differenza da un differenziale è che un differenziale è una differenza scelta piccola quanto si vuole.

Se consideriamo il prodotto P del terreno la legge differenziale diventa: «La rendita non è in proporzione del prodotto ottenuto, bensì gli ’scatti’ di rendita sono in proporzione degli ’scatti’ ottenuti nel prodotto». In formula DeltaR/DeltaP = Costante. La costante è uguale a 1 come è ampiamente dimostrato nel testo citato: «Nello sviluppo dimostrativo di Marx vengono dapprima dimostrate le leggi differenziali della rendita nella I e II forma, provando quantitativamente che a differenze di prodotto corrispondono esattamente altrettante differenze di rendite, fermo restando la remunerazione del lavoro e del capitale d’impresa agraria».

Riassumendo: sia per la rendita differenziale I sia II valgono le due formule equivalenti: DeltaR/DeltaF = Costante; DeltaR/ DeltaP = 1.

La differenza tra la prima e la seconda formulazione della legge differenziale non è da poco. Mentre con la prima: Rn/Pn = Costante, abbiamo che la potenza del fondiario è una costante sociale, dimostriamo con la seconda che è una potenza sociale crescente, tanto più si sviluppa il modo di produzione capitalistico. «Si tratta di intendere qual’è la tesi di Marx: collo sviluppo del modo di produzione capitalistico e coll’investimento di maggior capitale nella terra, solo mezzo di aumentare il prodotto in relazione all’aumento di popolazione, la rendita tende ad aumentare, sia nella massa totale, sia nella media per unità di superficie, a volte in rapporto maggiore di quello del capitale (e del suo profitto), poche volte con ritmo minore di esso».

Qui è in discussione l’evoluzione della rendita differenziale II, quella in rapporto a successivi investimenti di capitali sul medesimo terreno. Ma la nostra legge ci permette già ora di stabilire che passando dai terreni peggiori a quelli migliori la quota del prodotto che si trasforma in rendita aumenta. È utile al riguardo trovare un’espressione matematica della legge in cui entrano in gioco le rendite e i prodotti. In questo modo conseguiremo un doppio risultato: metteremo in evidenza matematicamente l’aumento del peso sociale del fondiario, a prescindere dagli investimenti successivi di capitali addizionali sulla terra, che non fanno che accelerare il fenomeno, e quindi il parassitismo sociale; e permetteremo una più semplice verifica della legge differenziale nei casi reali.

Nel caso ideale, infatti, la legge differenziale si conferma pienamente, mentre nei casi reali la formula DeltaR/DeltaP = Costante presenta degli scostamenti, inconveniente che è utile cercare di eliminare. «Come in ogni questione scientifica, se vediamo che nell’economia agraria effettiva (...) si va per scatti di rendita secondo gli scatti di fertilità, avremo dimostrato che la nostra ipotesi (prezzo stabilito dal terreno peggiore) era la giusta. Così l’ipotesi di Newton sulla attrazione dei corpi celesti resta dimostrata vera dalle leggi di Keplero tratte dalla osservazione, perché da quella ’supposizione’ si deducono proprio quelle leggi, che di fatto seguono i pianeti muovendosi nel cielo».

La legge differenziale che esprimiamo qui sotto è equivalente a quella enunciata da Marx: ’I rapporti tra rendita e prodotto ottenuti dai terreni via via migliori descrivono una serie crescente di numeri’. In termini matematici, posto m=n+1, se Kn = Rn/Pn e Km = Rm/Pm dove Kn è il coefficiente ennesimo ed Rn e Pn sono Rendite e Prodotto dell’ennesimo terreno e lo stesso dicasi per Km, Rm e Pm, la tesi, che sarebbe facile dimostrare, è che, qualunque sia l’ennesimo terreno, sarà sempre Km maggiore di Kn.

Ritornando a Marx è facile verificare che in tutte le tabelle riportate nel III libro: 1) La serie K è crescente; 2) Il coefficiente di proporzionalità tra differenziali di rendita e di prodotti è uguale a 1.

Da parte nostra ci limitiamo a verificare come il caso concreto analizzato nel nostro testo di Partito confermi la legge differenziale come qui matematicamente formulata. Vengono considerati 5 terreni i cui dati in lire possono essere riportati nello specchietto:

Terreni              1     2     3     4     5.

P = Prodotti       3390  3900  5100  6580  7900
R = Rendite        1950  2400  3300  4600  5800

DeltaP                    510  1200  1480  1320
DeltaR                    450   900  1300  1200

K = R/P           0,575 0,615 0,647 0,699 0,734
C = DeltaR/DeltaP       0,882 0,750 0,878 0,923

La legge è ampiamente confermata anche in questo caso preso da valori reali: K aumenta regolarmente, C risulta approssimativamente costante e in valore prossimo ad 1. È messo in evidenza che mettendo a coltura nuovi terreni (rendita differenziale I) o aumentando l’investimento di capitale sullo stesso terreno (rendita differenziale II) il peso sociale della rendita aumenta, a prescindere dalle ulteriori considerazioni svolte da Marx in merito alla rendita differenziale II che dimostrano un aumento della rendita sia come massa che come saggio coll’aumento d’investimento di maggiore capitale nella terra.

Il coefficiente K = R/P svolge un ruolo simile al rapporto Pv/V. Mentre questo misura il grado di sfruttamento e quindi di violenza sociale, quello misura il grado di parassitismo sociale. Nella legge differenziale trova quindi spiegazione il parassitismo e la putrefazione crescente che pervadono tutti i rapporti della moderna società borghese, di fronte ai quali si dimostrano impotenti nelle loro spiegazioni i rappresentanti sia ’laici’ sia ’religiosi’ del moderno pensiero teoretico borghese.
 

(Continua al prossimo numero)  [ 1 - 2 - 3 ]

 
 
 
 
 
 
 
 



INVARIANZA E "CREATIVITÁ"

(Riunione di Genova, maggio 1998)
 
 

«In realtà di idee ne ho avute solo due, e che me ne venga una terza adesso, in una breve passeggiata, lo vedo molto improbabile». Così Einstein rispondeva ad un ammiratore che gli aveva chiesto: «porta sempre con sé un blocchetto per annotare le idee che le vengono in mente?».

Non che abbiamo scelto a nume tutelare Einstein, ma la risposta del famoso fisico assume per noi il sapore d’una conferma. Invarianza non significa "sindrome o ossessione dell’idea fissa"; al contrario comporta attenzione e curiosità per la complessa varietà dei fenomeni, non solo sociali ma anche fisici, naturali e d’altro tipo, con la preoccupazione, tipica della ricerca scientifica non fine a sé stessa, di individuare ciò che caratterizza, tipicizza realtà tra loro diverse, in modo da cogliere la legge, la tendenza che le unifica. Se non c’è questo, la scienza è morta. Invarianza dunque, alla nostra scuola, è non creatività, il "passe par tout" del nostro tempo senza effettive idee che meritano d’essere approfondite e che interessino veramente la nostra capacità di capire la realtà per trasformarla.

Nell’analizzare la figura e l’opera di Leonardo, Valéry così annotava: «Egli è immerso nella dimensione del "fare" (...) non teme le analisi: le conduce o anche si fa condurre da loro a remote conseguenze, ritorna al reale senza sforzo. Egli imita, innova non rifiuta l’antico, né il nuovo essendo "nuovo", ma consulta in sé qualcosa d’eternamente attuale». L’invarianza che sta a cuore alla nostra corrente è di questa natura: le nostre Idee non hanno bisogno del taccuino a portata di mano mentre si passeggia, perché le Idee che contano non nascono per ispirazione creativa di tipo romantico. Sono le condizioni della vita reale che le determinano, solo hanno bisogno di chi le sappia organizzare, raccogliere, rappresentare.

L’individuazione delle pietre angolari e dei principi ha bisogno del riscontro oggettivo della verifica costante sul terreno della pratica.
 

Determinismo ed "Invarianza"

Nel metodo scientifico, specie nell’approntamento di modelli interpretativi si deve tener conto dell’incidenza che elementi perturbatori possono avere sulla previsione degli eventi: con la teoria dell’Invarianza la Sinistra è stata presa di mira come la corrente che, nell’ambito del movimento operaio internazionale, non avrebbe avuto la sensibilità di cogliere certi fatti decisivi, che avrebbero costretto la storia ad impaludarsi e andare da un’altra parte, lontana dalle aspettative della previsione. Ciò che viene più spesso rimproverato, non solo alla Sinistra ma allo stesso Lenin, è di aver puntato sulle contraddizioni aperte dalla guerra mondiale, che fecero dell’anello debole Russia l’epicentro non "previsto" del moto rivoluzionario. Come si vede non un "fatto" da quattro soldi, ma le condizioni complesse della guerra imperialista. L’Invarianza come teoria avrebbe il limite di "interpolare" con troppa disinvoltura eventi storici di enorme portata, di appiattire le creste delle differenze in nome della uniformità complessiva della realtà da interpretare.

In questo consisterebbe il nesso tra determinismo ed Invarianza: una sorta di visione predestinata della realtà, un fatalismo che non terrebbe conto della "volontà degli uomini come attori di storia", un eccessivo peso attribuito ai fatti economici (economicismo).

La Sinistra ha avuto modo di dimostrare come queste accuse, da prendere in seria considerazione, siano nel complesso da rigettare. Il nesso struttura economica e azione politica nel materialismo esclude che in determinate circostanze la storia possa affrontare problemi non maturi, e che una nuova forma di società possa aprirsi il varco a colpi di "decisioni". La prova è stata che una volta che i movimenti opportunisti e revisionisti hanno messo "la politica al primo posto", si sono trovati nella necessità di ammettere l’impossibilità del socialismo. La lettura incauta dei fenomeni sociali "nel lungo periodo" li ha portati nelle secche del fallimento dichiarato.

In termini più astratti, ma necessari per capire ed isolare le insufficienze di interpretazione, l’Invarianza, mentre apprezza le differenze nel manifestarsi degli eventi storici e della loro rilevanza, tiene conto, attraverso il suo organo storico, del corso degli eventi secondo un punto di vista generale: ciò fa del partito un organo parallelo alla classe, esterno ad essa, e non confuso con essa, o da essa contingentemente prodotto e plasmato. La preoccupazione del partito è sì quella di non perdere "l’attimo fuggente", ma senza considerarlo come avulso dalla catena degli eventi che l’hanno preparato. Torna ancora una volta insomma il problema del modo di intendere la dimensione spazio tempo, che, nonostante l’adesione teorica di certi ambienti opportunistici, nell’ambito dalla pratica continua ad essere intesa dualisticamente, nella illusione di far leva su determinati eventi per ottenere risultati miracolosi.

Quanto più l’organo partito ha solide basi, tanto più è in grado di valutare le sue scelte concrete alla luce di "necessità" di largo spettro. È quello che fece Lenin, che impropriamente viene considerato un "volontarista", un uomo d’azione, mentre alla nostra lettura è prima di tutto un restauratore attento della lezione di Marx.

Non sono certo questioni di dettaglio, e gli eventi del Novecento fino a noi stanno lì a dimostrare quanto peso abbiano avuto nella vita della classe e delle sue prospettive storiche.

In teoria si dovrebbe sostenere che quanto più la visione storica è larga e diffusa nell’organo partito, tanto più le sue previsioni sono valide e resistenti agli alti e bassi delle vicende contingenti, termine in qualche modo improprio, in quanto nella versione deterministica non c’è contraddizione tra contingente e necessario, come previsto dalla logica e dalla metafisica scolastica. Ogni evento preso in sé infatti corre il rischio d’essere interpretato come elemento perturbante e non prevedibile. È così che fanno le correnti opportunistiche che si appellano agli eventi "nuovi" per trovare il pretesto di deviazioni e di nuove tattiche da mettere in atto.
 

La teoria astratta

Il vantaggio della sistemazione della realtà attraverso la forma riduttiva e riduttivistica delle Idee è quello di tendere ad abbracciarla tutta, passando sopra alla serie infinita delle diversità e delle pieghe non facilmente indagabili. Le generalizzazioni vuote di "contenuti referenziali" permettono così di interpretare e di "dominare", nel senso metaforico reale di "signoreggiare". Il Signore, come il pretore romano non curat de minimis, e soltanto con questo atteggiamento e metodo sta sopra, governa.

Notoriamente il materialismo dialettico ha ampiamente smontato la natura "ideologica" di tale modo di procedere nell’analisi della realtà; basti pensare a tutto quello che è stato passato al setaccio nell’Ideologia tedesca da Marx e Engels. Ma è anche noto che la Sinistra, con la sua fissazione dell’Invarianza, è stata tirata in causa ed accusata d’essere ricaduta nel vizio della tradizione idealistica, perdendo di vista "l’analisi concreta della situazione concreta". La risposta che ci compete non può che essere questa: non è possibile conoscere la realtà se non partendo dall’astratto per tornare sul "concreto": non è possibile procedere diversamente se vogliamo andare oltre i fatti come sono stati idealizzati e messi in fila dal metodo positivistico. Il materialismo dialettico non ha bandito dal suo metodo né la teoria generale, né la logica formale; semplicemente ha sempre negato che la realtà possa essere ridotta a pura storia di Idee e di regole logiche, in astratto collegate in modo tale che le conclusioni del discorso siano in linea e coerenti con determinate premesse.

Potremmo dire che il passaggio (e dialettica significa anche passaggio tra astratto e concreto) non si verifica e non si realizza una volta per tutte. La realtà delle cose si aggroviglia e si sgroviglia non una volta per tutte, e ciò comporta un continuo confronto tra regole e leggi codificate e possibilità di verifica sperimentale di esse.
 

Leggi di natura - leggi della storia

Ci sentiamo ripetere, da secoli ormai, che le leggi di natura sono diverse dalle leggi della storia, per la ragione che quest’ultime portano in sé incorporato il sigillo della natura umana, irriducibile a pura natura fisica e materiale.

Il nesso realtà naturale-realtà storica non è certamente un meccanismo semplice, da risolvere con un prima e con un dopo, con una causa ed un effetto. È questo che in verità ha sempre sostenuto il materialismo storico, quando ha chiarito che la storia non può che portare a compimento processi ampiamente maturi, oppure quando ha affermato che l’uomo, mentre è prodotto di storia, è in una certa misura anche attore delle proprie imprese. Il rischio, ancora una volta, è quello di ricadere in generalizzazioni povere o perfino mancanti di contenuto referenziale. Come ovviare a queste strettoie del linguaggio?

Prima di tutto non pretendendo di sostituire il linguaggio stesso allo svolgimento dei processi reali, che seguono la dinamica di forze soltanto relativamente esprimibili nel "linguaggio articolato", e in gran parte soggette a forme di "linguaggio" d’altro genere, compreso quello inconsapevole intrinseco alle forze della natura.

L’errore opposto è stato quello delle correnti idealistiche, che in ultima analisi hanno ridotto la coscienza all’Essere e viceversa.

Il materialismo storico è molto cauto e circospetto nell’applicazione di concetti e di parole, poiché sa che, ad esempio, determinati processi "istintivi" anche nei gruppi e nelle classi, non possono essere automaticamente "codificati" in leggi. Non a caso, la nascita dell’organo della classe ha preteso il dispiegamento della storia, dai modi di produzione antichi fino alla dialettica moderna borghesia/proletariato. La legge del plusvalore vale anche per i proletari antichi, schiavi e servi della gleba, ma soltanto dallo scontro tra classe operaia e interessi capitalistici è potuta emergere la definizione più chiara di "legge del profitto".
 

Meccanicismo e Dialettica

Nella versione "metafisica" e devota il determinismo è espresso nella formula "non muove foglia che Dio non voglia", mitigato delle elaborate speculazioni scolastiche sulle cause seconde. Rimane il fatto che nel modello "deterministico" la realtà è considerata non solo "conoscibile", ma trasparente ed oggettiva. Una mirabile macchina che risponde a ordini ferrei e indefettibili. La versione "razionalistica" e immanentistica di questa interpretazione è quella di Laplace, per il quale, grazie alla capacità di analisi infinita della ragione, si può derivare dalla conoscenza attuale del mondo la ricostruzione d’ogni stato del passato e la perfetta previsione di ogni stato futuro.

Notoriamente la concezione della Sinistra, accusata di "determinismo" (come se la parola fosse una macchia indelebile), mentre non è la stessa di quella di Laplace, è comunque più vicina ad essa che alle teorie del disordine e del caos come si sono sviluppate nel secolo che sta per finire. Il dubbio, la critica, fanno parte integrante del metodo scientifico, ma la tendenza rimane quella di prevedere, per quanto possibile, l’andamento dei fenomeni, cercando di individuare le leggi del divenire sia in campo naturale sia sociale. La rinuncia esplicita ad ogni sapere ordinato ed oggettivo è invece il cavallo di battaglia di una caterva di interpretazioni a sfondo nichilistico-esistenzialistico, che rispecchiano il clima di indecisione e spesso di confusione ideologica ed epistemologica propria di tante discipline moderne nel campo della fisica e della analisi della realtà in generale.

Il determinismo che ci viene imputato è in realtà il materialismo dialettico, che la Sinistra avrebbe interpretato in chiave "riduttiva" e schematica, comunque non in grado di cogliere il valore "autonomo" e libero dell’azione e della volontà umana sul terreno storico. Rispondiamo che noi riconosciamo che la realtà della materia e dell’essere in generale non è una "macchina" né un sistema omogeneo in ogni sua parte. Lo sviluppo stesso della materia, fino alla realtà vitale, comporta che l’intera complessità non può essere risolta con un modello lineare, ma dialettico. In questo campo si corre sempre il rischio di cadere in luoghi comuni e frasi ad effetto: ma non si può negare che la sana aspirazione alla "formula risolutrice" oppure alla visione diretta della realtà nella sua essenza costituisce la motivazione che anima la scienza. Il fatto che la teoria dei quanta, o quella del caos abbiano messo in discussione tanto ottimismo non significa che possano vantare una parola definitiva. Dunque, mentre fa effetto sentir dire da Popper che "la dialettica è un pasticcio da scuola serale", fa ancora piacere sentire che ci sono persone che farebbero di tutto per poter accedere alla "scuola serale" per cercare di capire qualcosa. La naturale tendenza a distinguere senza problemi gli oggetti "esterni" da quelli "interni" propri della mente e delle operazioni coscienti rimane fondamentale per non perdersi nei meandri torbidi ed oscuri dai contorcimenti esistenziali.

D’altronde se il "determinismo" appare una concezione tanto piatta e infantile da essere assimilabile alla formula devota del "non muove foglie che Dio non voglia", è anche vero che i fautori delle teorie del caos, dell’indeterminismo, della complessità, non possono pretendere di aver trovato la pietra filosofale, né di proporre i loro modelli come "oggettivi".

Esclusa dunque la versione della realtà-macchina, che il materialismo dialettico non può condividere se non altro perché rispondente ad un meccanicismo funzionale alla "ratio" borghese, nemmeno se la sente di aderire alle fumose interpretazioni delle decadenti versioni indeterministiche. Semmai, alle une ed alle altre di queste versioni c’è da riproporre la domanda: ma la scienza ha ancora voglia e possibilità di conoscere la realtà? Che cosa ci permette di non confondere il sogno con la realtà esterna ed oggettiva? Perché i criteri che collegano gli oggetti interni della mente sono diversi da quelli che ci permettono di trovare un nesso ed un legame tra quelli "esterni". Perché la "religione della mente", il sogno, ha leggi diverse dalla "religione" della realtà? A queste domande il "determinismo" non si stanca di tentare soluzioni valide e utili per la vita umana.

Non intendiamo indulgere al "riduzionismo", ma nemmeno evitare di raccogliere quanto c’è di unificante nei fenomeni e nelle esperienze comunicabili e esprimibili in leggi. La presunta irriducibilità dei processi mentali a quelli materiali non ha impedito alla relatività di proporre una credibile unità della struttura spazio/tempo. Il determinismo da noi rivendicato non ha mai accettato di rinunciare ad applicare ai fenomeni storici e sociali il metodo delle scienze naturali, pur sapendo che la "materia" della coscienza è di natura più complessa, in quanto organica, della natura inorganica.

La tendenza a dividere, opporre tra di loro contraddizioni insuperabili è propria d’un criterio dualistico mosso dalla preoccupazione di considerare l’unità come impossibile o da spostare in mondi non comprensibili, d’altro non definito genere. La matrice "ideologica" di tali attitudini di pensiero non può essere nascosta: si tratta, di schematismi piatti ed astratti. Noi siamo della convinzione che "ideologia" significhi qualcosa di più nobile, alla condizione che si abbia la vigilanza critica di cogliere gli aspetti provvisori ed i limiti di essa. Il vero "pasticcio" della dialettica consiste nel pretendere che "fatti" non meglio identificati possano, come il classico granello di sabbia, mettere in crisi il complesso meccanismo della natura. Non sono mai fatti isolati a "falsificare" una teoria, compresa quella deterministica, ma collegamenti di fatti, e cioè altre "religioni", teorie, paradigmi che si presentano come più attendibili, più veri! È evidente che l’obiezione più facile che si fa al determinismo è quella secondo la quale non esistono "fatti identici" e che si ripetono meccanicamente... Non è forse questa la versione della dialettica? Ma è anche vero che se non esistono fatti identici, si riscontrano esperienze analoghe simili, confrontabili. Senza di questo non soltanto nella vita comune, ma anche nel rigoroso procedere del metodo scientifico, non varrebbe la pena di perdere un minuto della vita a cercare ed a riflettere.

Estendere dunque il metodo della ricerca del mondo esterno a quello "interno" non solo è possibile, ma in qualche modo salva dalla follia del pragmatismo soggettivistico.
 

Il criterio della "fallibilità"

Da che pulpito viene la predica... Nel dibattito politico, nel senso più largo e teorico del termine, si batte il chiodo della "società aperta" (Popper) contro le "società totalitarie", e quindi inevitabilmente "chiuse". Il paradigma base di questo confronto viene individuato nel criterio della "fallibilità della conoscenza umana" che metterebbe in crisi ed in discussione tutte le cosidette "utopie", fondate sulla pretesa di poter "costruire" la "società perfetta".

Non c’è dubbio che la polemica è apertamente anticomunista: come se il "comunismo" non fosse (lo dicono loro!) stato sconfitto... dai fatti! A quanto pare, ed hanno ragione, gli è rimasto qualche dubbio sia sulla teoria sia sui fatti. Ma, bando alle facili ritorsioni polemiche.

A scoprire la "fallibilità della conoscenza" sono rampolli che si definiscono apertamente "cattolici", che si propongono di stimolare i liberali più consapevoli ad una collaborazione attiva per la "società aperta", appunto. La scoperta della "fallibilità" della conoscenza, quando provenga da certi ambienti, fa sempre un certo effetto. Si pensi al fatto che questi personaggi, a meno che non ammettano la contraddizione, riconoscono un’autorità che, fino a prova contraria, ha proclamato addirittura il dogma dell’infallibilità pontificia! (ma soltanto in tema di "fede e di morale", obiettano). E scusate se è poco, dopo che hanno impiegato quattro secoli dal caso Galilei per riconoscere d’aver avuto torto a identificare la Bibbia con la scienza. Già la precisazione dovrebbe dire qualcosa sulla sincera buonafede dei convenuti intorno al dibattito. Ma, se non altro per il gusto del "gioco linguistico", stiamo in tema.

È chiaro che il criterio logico della "fallibilità" presuppone, come termine di riferimento, delle proposizioni opposte, da considerarsi "infallibili". E già questo propone chiarimenti logici, con grandi pericoli di classici "mal di testa".

È chiaro, anche se non confessato, che chiunque si proponga di intervenire e "partecipare" al dibattito sull’argomento non può pretendere, come fa certuno, che il dibattito sia pura e semplice "conversazione" nella quale non si deve aver la pretesa, anzi nessuna pretesa, di dire la verità. Questo tipo di "idillio" dialogico non soltanto è falso nei fatti, ma non regge neppure come ipotesi astratta. Poiché il gioco viene da lontano ed è soltanto il caso di ricordare che gli "scettici" storici, molto più seri di questi signori, avevano posto il tema della verità, sostenendo la cosidetta epochè, o sospensione del giudizio, come criterio per filosofare in modo veramente libero e senza pregiudizi.

È stato facile obiettare, sempre come gioco linguistico, che non "prender partito" è per l’appunto prender partito, cioè quello di non prender partito. Se si pensa alla formulazione di regole "democratiche" della conta delle teste, ci si domanda se gli "astenuti" facciano parte o no del gioco! Eccome! (a proposito, ne sappiamo qualcosa noi, dell’astensionismo, e anche quale peso abbiamo avuto la pretesa che avesse!). Nessuno può negare che la posizione scettica è veramente "debole".

Dunque i "convenuti", che prendano posizione d’un tipo o d’un altro tipo, "fanno parte del gioco", e nella ricerca dei criteri per una conversazione aperta o "democratica", "fallibile per definizione", non possono invocare la pretesa di "non aver nessuna pretesa". In quel caso sarebbero consigliati di starsene a casa, o di vivere da eremiti, come almeno hanno fatto certuni nella storia. Che si pretenda dunque di dire la verità, o di dire delle mezze verità, chi entra nell’agone teorico, fa parte del gioco, e dunque ha "qualcosa da dire".

Dunque è "fallibile per definizione" anche la pretesa di non dire la verità. Sappiamo bene quanto poco umili si sono manifestati i "tolleranti" democratici d’ogni epoca. È evidente così che non è possibile "individuare" l’ubi consistam del criterio della fallibilità in quanto esso stesso fallibile.

Nello stesso tempo è evidente che non si pone il criterio della "fallibilità" se non si ammette l’evidenza d’una realtà "infallibile", nel senso di non "negabile" a causa della sua assoluta trasparenza. È il tema platonico per il quale "un cavallo è un cavallo", e cioè della identità. Va da sé che l’identificazione d’una "identità" nella società umana, di per sé ambiente "culturale" prima ancora che "naturale" (natura, come termine, equivale a dato oggettivo inequivocabile che comporta la sua identificazione da parte d’una determinata cultura), è un prodotto storico, e come tale "fallibile", nel senso di soggetto ad errore.

L’identificazione dell’identità d’un determinato oggetto presuppone il possesso d’una cultura linguistica in grado di procedere a questa operazione. Ne consegue che l’affermazione dell’assoluta evidenza del primato dell’Essere in rapporto alla coscienza (Ideologia tedesca) non significa l’opposizione della coscienza in rapporto all’Essere, ma il riconoscimento tautologico che l’Essere è l’Essere che è. Quei giri di frase che noi usiamo senza darci la briga di valutare la loro "verità" alla luce della "chiarificazione logico-linguistica" non necessariamente sono in contraddizione con la "visione del mondo" (Weltanschauung, tanto ridicolizzata da certi analisti), anche se è chiaramente legittima l’esigenza di verifica della "fallibilità" ed erroneità di essa.

Il modo di procedere logico di determinate culture è il prodotto d’una complessa evoluzione storica di queste prese nella loro globalità di essere e di coscienza. La scoperta della possibilità di considerare "fallibili" certe proposizioni sia filosofiche sia logico-matematiche è un’acquisizione del pensiero critico, capace di giudizio, che si esercita necessariamente in relazione a proposizioni considerate "vere" e come tali trasmesse culturalmente. La pretesa di partire dal criterio della "fallibilità" è solo un’astrazione di cui è necessario essere criticamente consapevoli.

Il materialismo storico considera "ideologiche" una serie di "verità" trasmesse come vere. Ma a sua volta parte da "sentimenti" base che considera positivi e validi, prima ancora di porsi il problema della loro obiettabilità e fallibilità.

Non soltanto gli individui ma anche i gruppi sociali, mentre sono capaci a livello di "pensiero" di sottoporre a critica le loro convinzioni e credenze, praticano un certo tipo di vita reale e di valori. Il criterio della "fallibilità" allude dunque inevitabilmente a delle verità o a dei comportamenti ai quali ci informiamo almeno "come se" fossero infallibili. La regola ricorrente "si è fatto sempre così", mentre alla luce della critica è d’una debolezza evidente, dal punto di vista pratico ha una enorme rispondenza nella vita e nel maggior numero di casi ci si attiene utilmente ad essa.

Certamente, quando si affronta la questione su un piano critico e filosofico è senza valore tirare in ballo l’esperienza pratica, dal momento che intendiamo saggiarla alla luce di possibilità più veritiere e produttive, o anche rispondenti al vero. Ed allora non abbiamo difficoltà ad accettare il tema della "fallibilità" di tutte le conoscenze umane. Non solo, ma una volta che accettiamo tale criterio, si deve avere sempre il coraggio di applicarlo alle proprie convinzioni, non solo a quelle esterne o ritenute avverse.

Il criterio della "fallibilità" attiene comunque ad un modo di intendere la teoria e la filosofia, e cioè a quello che considera la chiarificazione del linguaggio, in tutta la complessa gamma di possibilità in questo ambito, come preventiva, ma non opposta alle cosiddette "visioni del mondo". La vita sociale – si ha ragione di sostenere – non comincia con la critica e la chiarificazione del linguaggio, ma con l’attribuzione di nomi alle cose e con l’esperienza pratica di tale operazione.

Così, stabilito il valore del criterio della fallibilità d’ogni conoscenza, è necessario stabilire in che consiste e che cosa intendiamo per "conoscenza fallibile". Fallire comporta che una determinata acquisizione possa "cadere", dimostrarsi non vera, sostituibile da altre, migliorabile, addirittura da revocare esplicitamente come falsa. Come si vede una gamma complessa e varia di accezioni. Lo statuto di "infallibilità" comporta invece un’assolutezza ed una drasticità che rientra negli schemi della "metafisica": senonché, come dice Carnap, i metafisici "sono dei musicisti senza capacità musicale", cosicché l’infallibilità, comunque venga presentata, ha poco da dire sulla realtà dei problemi pratici, se non emettere enunciati che hanno bisogno di "verifica", e cioè di possibilità d’essere "falsificati".

Quali proposizioni, allora, possono essere obiettate di "fallibilità"? Certamente non quelle tautologiche, poiché mettersi ad obiettare nei confronti di proposizioni tautologiche è un girare a vuoto, a meno che non si tratti di confutare il principio d’identità, una volta che sia riconosciuto esso stesso come prodotto linguistico, e come tale, da giustificare nell’ambito delle operazioni mentali. Lo stesso concetto elementare di identità, infatti, presuppone uno stato di coscienza tanto elevato da identificare nell’identità la prima scoperta logica degna di rilievo. Insomma che "un cavallo è un cavallo" non è una scoperta da poco... Le proposizioni logico-matematiche a loro volta, mentre possono apparire inattaccabili nella loro coerenza, in realtà possono essere inficiate nei loro enunciati di base, che, come è noto, sono inevitabilmente fondati su un tipo di arbitrarietà di tipo apodittico-evidenziale.

L’esercizio dell’obiezione di "fallibilità", a questo punto comporta necessariamente l’enunciazione di criteri e di argomenti che permettano di procedere.

Poiché le proposizioni "filosofiche" sono del tipo che rientrano sia tra quelle che si propongono di "chiarificare" il linguaggio, sia tra quelle che predicano sulla "visione del mondo", andranno distinte secondo questi due grandi domini, oltretutto non pacifici fino in fondo. Se vogliamo obiettare tesi che rientrano nella filosofia come chiarificazione del linguaggio, ogni proposizione linguistica in senso largo può essere obiettata d’essere fallibile. Se ad esempio vogliamo provare la fallibilità delle parole "prima / dopo" e cioè di successione temporale, oppure le regole interne che ordinano determinate "presunte" operazioni della mente, non è sufficiente obiettare la generica accusa: "errore!" è necessario opporre altre regole, altre operazioni capaci di sostituire quelle accusate d’essere fallaci.

In questo modo si scopre come i "metafisici sono dei musicisti che non hanno capacità musicale", nel senso che il loro terreno non ammette l’obiezione di fallibilità, in quanto le loro presunte regole vengono "dedotte" da un dominio per definizione incontrollabile, che non tanto non accetta ispezioni, ma che non è in grado di ospitarle, quand’anche lo volesse.
 

Democrazia - totalitarismo - organicismo

Il rischio dei metafisici viene corso dai fallibilisti a tutta prova, quando, non indicando le condizioni base da cui prelevano concetti, operazioni, strumenti critici, si tengono al largo con generalizzazioni abusive, oppure si contentano delle dichiarazioni di principio. Possiamo accennare a qualche esempio: il materialismo dialettico viene assimilato al pensiero totalitario di ascendenza platonica (quanto onore!), ma poi, all’atto pratico, quando si denunciano le leggi e le tendenze scoperte in campo sociale, massime quella del plusvalore, non si è in grado (Popper, come ieri Croce!) di proporre uno straccio di altra linea interpretativa della pressione sociale sul proletariato, che pure viene riconosciuta, in nome d’una "società" aperta anche alla pelosa "giustizia sociale". I fallibilisti insomma peccano degli stessi difetti degli "infallibilisti", che saremmo stranamente noi!

Quando si sostiene che una teoria deve accettare la griglia critica, il vaglio dell’obiezione di fallibilità, non si deve pretendere d’imporre il proprio esclusivo metodo senza confrontarlo con altri, dandolo per buono, sia come impianto concettuale sia come specifico arnese in senso analitico. Insomma, in questo delicato campo, è molto facile per tutti predicar bene e razzolare male. Il materialismo storico, che parte da premesse teoriche anti idealistiche, non ha niente da temere da esaminatori così saccenti.

D’altronde, stando alle premesse (... ed alle promesse!), il pensiero critico dei "fallibilisti" che si autodefiniscono tali dovrebbe essere in grado di "penetrare" il pensiero totalitario, dogmatico, talmudico o mistico. Se le armi della critica (di cui sappiamo qualcosa) non avessero questa possibilità, tutto il castello "fallibilista" andrebbe in frantumi. Il pensiero totalitario "metafisico" notoriamente, nella sostanza, non sopporta la critica, perché i musicisti senza capacità musicale si ostinano ad ascoltare la loro musica o a farla eseguire anche a costo di rompere i timpani di chi non la gradisce. La posizione del materialismo dialettico è diversa: per definizione esso sostiene che il pensiero è inevitabilmente "sovrastruttura", anche quando appare il fondamento. Dunque non ha la pretesa di far ascoltare la propria musica per forza, come se questa potesse risolvere i problemi.

L’obiezione è che "storicamente" il marxismo al potere ha costretto tutti ad ascoltare la sua musica, anche teoretica. A noi risulta che da Marx a Lenin la risposta alle tesi delle correnti teoriche avversarie è stata combattuta con argomenti, e sappiamo di quale livello. Il dibattito nella temperie rivoluzionaria è stato, per riconoscimento unanime, alto e, ci permettiamo di usare la parola equivoca, libero. Il "Diamat" è venuto dopo. Si legga il nostro Dialogato con i morti.

Comunque da Engels a Lenin la nostra tesi di fondo è che la scienza non è un sistema "totalitario" che tutto spiega ed ha spiegato, sia a proposito della natura della materia, sia sulle questioni di metodo, a proposito della natura della conoscenza, che Engels ha definito in fieri e asintotica in rapporto al suo infinito oggetto. Altro che totalitarismo.

Dunque, ancora, fuori gli argomenti, sia sul terreno dei criteri di approccio e di fondazione pratico-trascendentale, sia a proposito dei contenuti e dei risultati.

Se il dibattito verte, per i fallibilisti, sull’accordo intorno al "metodo" ed alle regole, la domanda è: chi interviene nella "conversazione"? Tutti? Tutti chi? Il modello teorico della realtà è una cosa, la realtà sociale un’altra. Questo è noto, ma l’escamotage della "conventio" non può procedere senza la distinzione, essa pure teorica, tra una forma di "conventio ad escludendum" e di "conventio ad includendum’.

Che le società gentilizie, o aristocratiche ed elitarie, siano state e siano tutt’ora delle società in cui vige il modello teorico della conventio ad escludendum è pacifico. Fingere che soltanto una conventio ad includendum sia l’unica immaginabile, agibile e legittima, è soltanto un’esercitazione utile per saggiare tutte le possibili conseguenze. Se tutti hanno diritto a partecipare alla "conversazione", altra cosa è se tutti possono "decidere" e dare un contributo diretto di competenza. La democrazia moderna, nella fase romantica e rivoluzionaria della sua stagione, può rivendicare di aver sostenuto l’idea dell’eguaglianza come criterio politico e giuridico, ma ha subito dovuto ripiegare in forme particolari di delega di fronte all’esperienza pratica che fa leva su inevitabili differenze di capacità, energia, competenza, etc.

Quando tale modello ha significato portare il movimento operaio alla possibilità di pesare politicamente, la nostra parte politica ha sostenuto il suffragio universale, ma quando storicamente questa conquista si è dimostrata senza vantaggio allora il nostro movimento ha valutato la questione dialetticamente, e non secondo schemi astratti. L’esclusione del movimento operaio dal diritto di voto, nella fattispecie, era una esplicita conseguenza della conventio ad escludendum cui la borghesia dava un peso ed un valore di repressione e di negazione delle necessità della classe operaia. Ma quando, caduta ogni esclusione, ha puntato su altri metodi di repressione, allora è venuto meno l’interesse del movimento operaio alla partecipazione alla vita dei parlamenti democratici. Ciò sottolinea come l’intrecciarsi di motivazioni formali e materiali tra di loro è sempre attuale, e la valutazione della sua efficacia è il metro di misura della sua validità e "legittimità".

Ciò è ampiamente giustificato dal fatto che il passato entra a far parte del presente, nel senso che la sua memoria produce effetti: l’esperienza della democrazia fatta dal movimento operaio non comporta la negazione del principio democratico in astratto, ma giustifica la necessità di negarlo oggi, poiché gli effetti che tale principio e tale pratica hanno prodotto per l’oggi è quello che noi chiamiamo il principio del centralismo organico. Siamo quello che siamo perché siamo diventati tali, come del resto siamo diventati perché siamo stati quello che siamo stati. Questo vale non solo per la nostra consistenza storica e materiale, ma per qualsiasi altra realtà.

Gli effetti della vita passata hanno prodotto nella nostra compagine la necessità di praticare non più il principio democratico, all’interno come all’esterno, ma l’organicismo, sia come modulo interno sia come prefigurazione dell’intera società comunista. Sappiamo bene che il termine "organico" viene respinto perché per loro equivalente a "totalizzante", se non totalitario, ma da chi non ha avuto né modo né tempo di vivere dall’interno condizioni reali che postulano quanto stiamo affermando. Il nostro centralismo organico non è la negazione del "centralismo democratico" praticato fino al tempo di Lenin, mentre è il prodotto degli effetti che esso ha determinato, e che ha comportato la "codificazione" esplicita di questo modulo di esperienza organizzativa.

Noi non abbiamo la pretesa che il tempo/spazio "metafisico" sia presente nella nostra attuale esperienza storica di partito, perché nel frattempo è "diventato", sia esso sia la nostra consapevole padronanza di tale forma organizzativa. Quando una realtà diventa organica significa che precedenti stati della materia e dell’esperienza mentale o spirituale trasmettono degli effetti che esaltano il nuovo modo acquisito, lo impongono come il più valido, efficace e completo. La tendenza storica attuale, anche nelle limitate e ipocrite versioni borghesi, tende all’integrazione, all’inclusione. Nessuno più nega recisamente "l’inclusione", semmai trova espedienti formali per evitarne gli aspetti indesiderati.

È certo comunque che lo scontro e la discussione attuale sulle "regole" della democrazia rivelano una grande preoccupazione borghese per la revisione del proprio apparato di governo e di potere, inadeguato alle esigenze di ulteriore repressione della classe operaia.

La riflessione ed i giochi linguistici che vengono proposti per magnificare la democrazia come la meno peggiore delle forme di organizzazione sociale non ci devono illudere: oggi la conventio ad escludendum per il proletariato non passa certo per l’esclusione dal diritto di voto, che anzi vengono artatamente moltiplicate le occasioni di sondaggio, di adescamento per l’elezione di nuovi sfruttatori: per il marxismo è noto da un secolo e mezzo che la vera questione discriminante è l’esclusione ormai sempre più grave dai mezzi di produzione, e dunque di tipo economico-sociale. Le stesse cifre delle statistiche di varia provenienza attestano che un pugno di privati (non importa se magnati, individui o Stati) detiene la stragrande maggioranza dei mezzi finanziari e produttivi, e che la spinta verso la verticalizzazione internazionale della finanza sta portando alla disperazione miliardi di persone. Nelle conferenze sullo "sviluppo" e sulla "fame nel mondo" gli stessi responsabili della questione hanno l’impudenza di ammetterlo, pena la continuazione della loro politica. Così non ci aspettiamo che la "questione sociale" possa essere risolta per via costituzionale e giuridica.

La smania di decidere, all’ordine del giorno dei governi della borghesia e dai suoi accoliti, ci fa rispondere: «Anzitutto non decide nessuno, ma un campo di rapporti economico produttivi comuni a grandi gruppi umani. Si, tratta non di pilotare, ma di decifrare la storia, di scoprirne le correnti, e il solo mezzo di partecipare alla dinamica di esse, è di averne un certo grado di scienza, cosa assai diversamente possibile in varie fasi storiche» (Dialogato con i morti). Non certo la negazione della "politica", ma certamente, come sempre, della politica a tutti i costi, del "politicantismo", che ammorba e impedisce di capire come stanno le cose.
 
 
 
 
 
 
 
 
 



Appunti per la Storia della Sinistra
(continua dal numero scorso   [ nn. 42 - 43 - 44 - 45 - 46 - 47 - 49 - 50 ] )

LA REPUBBLICA «CATTO-COMUNISTA»
Riunione di Firenze, gennaio 1998
 
 

Il proletariato italiano, pagato il prezzo della guerra, paga quello del dopoguerra
 

Il 1946, primo della pace, fu l’anno delle più dure condizioni di vita della popolazione italiana, ed in particolar modo delle classi lavoratrici.

In un documento ufficiale del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione si parlava esplicitamente di «un abbassamento del tenore di vita a livelli tali da far temere per l’esistenza stessa della popolazione italiana». La rivista "Congiuntura Economica" del marzo 1946, in una inchiesta sui salari degli operai dell’industria milanese, scriveva: «Si può ritenere che in media la retribuzione totale corrisposta nelle varie forme alle categorie operaie sia attualmente su un livello di circa 15/16 volte quello prebellico. Dato il maggior aumento segnato dal costo della vita, le retribuzioni reali si sono ridotte in maniera che si può valutare intorno al 30%». Nella stessa rivista si leggeva: «L’Istituto centrale di statistica ha calcolato un indice nazionale del costo dei generi alimentari dal quale risulta che tale costo, tenendo conto sia dei generi distribuiti con tessera, sia di quelli acquistati al mercato libero e clandestino, è salito ad un livello di circa 32 volte quello del 1938».

Queste erano cifre ufficiali, e come tutte le cifre ufficiali, generiche ed ottimistiche: comunque era chiaro che per l’operaio il potere di acquisto del suo salario era ridotto ai 2/3 di quello già misero dell’anteguerra. Questi dati nazionali nascondevano inoltre differenze regionali che erano ancor più drammatiche. I braccianti agricoli della provincia di Foggia, ad esempio, percepivano poco più della metà di quanto percepissero quelli della provincia di Milano. Nello stesso anno la produzione industriale era inferiore ad 1/3 di quella del 1938.

Nonostante gli ’aiuti’ alimentari forniti dagli Alleati, le disponibilità di proteine e di idrati di carbonio erano scese a poco più del 60% di quelle prebelliche; mentre quelle dei grassi erano addirittura inferiori. Solo nel 1950 i consumi annui pro-capite raggiunsero il livello del 1940 (primo anno di guerra).

Accanto allo stato generalizzato di denutrizione, c’era l’incertezza per l’esistenza stessa di due milioni e mezzo di disoccupati ed altrettanti lavoratori occupati precariamente.

Nel n. 13 dell’8 ottobre 1945 ’Battaglia Comunista’ aveva pubblicato delle tabelle sulle condizioni di vita dei lavoratori italiani raffrontandole a quelle del periodo prebellico. Il confronto veniva fatto prendendo come paragone il salario medio orario di un operaio qualificato milanese nel 1937 (3 lire) e nel settembre 1945 (28 lire, comprese le varie indennità).
 

Generi di prima necessità    Lire al Kg.  Ore di lavoro necessarie
                             1937   1945        1937   1945

     pane di frumento (*)    1,73     31        0,34   1,06
     farina di frumento      1,82     60        0,36   2,08
     farina di granoturco    1,16     18        0,23   0,38
     riso                    1,63     24        0,32   0,51
     fagioli secchi          2,14    150        0,42   5,21
     patate                  0,60     30        0,12   1,04
     carne bovina            9,34    400        3,16  14,25
     carne suina            10,81    600        3,36  21,30
     salame                 16,46    650        5,29  23,03
     uova (alla dozzina)     5,76    276        1,55   9,52
     formaggio              11,15  1.000        3,43  35,45
     olio di oliva           8,08    700        2,41  25,02
     zucchero                6,19    850        2,03  30,23
     latte                   1,11     30        0,22   1,03

(*) Il prezzo del pane del 1945 era stato calcolato come se metà fosse acquistato con tessera e metà al mercato nero.
 

I dati riportati in tabella sono molto parziali, innanzi tutto perché si riferiscono al salario di un operaio qualificato, in secondo luogo perché si tratta di salari percepiti a Milano, in terzo luogo perché moltissimi lavoratori si trovavano nello stato di disoccupazione. Se si tiene presente che quasi la metà del salario operaio veniva assorbito da spese non alimentari (affitto, vestiario, bollette, spese per l’istruzione dei figli, sperando sempre che non fossero sopraggiunte malattie), si vede come anche nel 1937 il proletariato dovesse, per sopravvivere, tirare la cinghia. Ma, al sopraggiungere della guerra la classe lavoratrice vide crescere enormemente lo sforzo ad essa imposto anche se i parolai borghesi ed opportunisti proclamavano la ripartizione dei sacrifici fra i componenti delle diverse classi sociali. Ne consegue che lo sperpero della guerra, il mantenimento di moltissime categorie improduttive, le conseguenze delle distruzioni, venivano superate unicamente a spese del sudore e del sangue degli operai e lavoratori in genere. Basterà confrontare i dati che abbiamo sopra riportato per avere un’idea di quello che ha voluto dire la guerra per i lavoratori: raddoppiare, triplicare e talvolta moltiplicare per dieci volte lo sfruttamento del lavoro per sopperire alle più elementari esigenze umane.

Ma partiti e personaggi illustri non si lasciavano sfuggire un’ottima occasione come la carestia e la fame per farsi propaganda e pubblicità personale. Il papa, De Gasperi, Togliatti, chi telefonava, chi lanciava appelli, chi faceva comizi. Lo stesso Luogotenente, al Quirinale, aveva dato da mangiare a 250 bambini ed aveva aperto una mensa. Questo indegno sfruttamento della fame rivelava, ancora una volta, le delizie della civiltà borghese che non sa regalare ai suoi schiavi che guerra e miseria e che traduceva la famosa formula ’libertà dal bisogno’ nella periodica riduzione della razione del pane.

’L’Unità’ del 9 agosto 1945 informava che mentre gli operai morivano di fame, i fabbricanti di formaggio, dal mattino alla sera, avevano realizzato un utile di un miliardo (un miliardo del 1945!) grazie al decreto legge che autorizzava l’aumento del prezzo del formaggio anche per le scorte già in magazzino e fabbricato con latte acquistato d’imperio. ’L’Unità’ chiedeva che questo miliardo venisse, in tutto o in parte, incamerato dallo Stato. A parte il fatto che l’organo del PCI sapeva benissimo che la sua proposta sarebbe rimasta lettera morta perché lo Stato capitalista non spoglia la classe capitalista, è comunque importante notare come il giornale di Togliatti non si opponesse alla speculazione fatta sulle spalle degli affamati, ma chiedesse solo che lo Stato partecipasse agli utili del ladrocinio. Nello stesso ordine di idee, Ugo Arcuno, ne ’L’Unità’ del 14 agosto, consigliava i borsaneristi di sottoscrivere il prestito statale per la ricostruzione lumeggiandone i vantaggi. Contemporaneamente a Torino ingenti quantità di merci degli spacci aziendali Fiat, accumulate e rimaste giacenti nel periodo più duro della carestia, ormai imputridite venivano gettate nel Po.

Un altro problema drammatico era quello degli alloggi, problema peraltro non risolvibile in regime capitalista. Hitler stesso aveva dichiarato che per ogni colpo di cannone sparato si sarebbe potuto dare un’abitazione ad una famiglia tedesca. Nel 1945 un giornale svizzero calcolava che con quello che si era speso per la guerra si sarebbe potuta dare una lussuosa casa, completamente arredata, ad ogni famiglia europea, Russia compresa, e che, inoltre, si sarebbero potuti costruire tutti gli edifici pubblici, biblioteche, scuole, ospedali che fossero stati ritenuti necessari.

Il patrimonio edilizio esistente in Italia, una decina di anni prima della guerra, ammontava a circa 30 milioni di vani a fronte di una popolazione di 40 milioni di persone. A quell’epoca l’Istituto di Statistica aveva valutato nel modo seguente la ripartizione dell’affollamento a seconda delle condizioni sociali della popolazione: Proprietari e benestanti 0,6 persone a stanza; Forze armate, culto, professioni ed arti liberali 0,8; Impiegati 1,0; Commercianti 1,2; Persone di servizio 1,6; Operai 1,7; Addetti all’agricoltura 1,8.

Dunque, fino da allora un benestante medio disponeva, ufficialmente, ad uso di abitazione, di una quantità di vani almeno tripla di quella utilizzata da un contadino o da un operaio, senza tenere conto dell’aspetto qualitativo. Vi era infatti la differenza che mentre l’alloggio del contadino e dell’operaio era spesso in condizioni pessime (gli alloggi dei lavoratori, dall’1 al 2%, erano costituiti da grotte, baracche, sotterranei, soffitte), i proprietari, al contrario, godevano di appartamenti grandi e comodi.

La guerra, poi, aveva aggravato enormemente la situazione. I bombardamenti degli Alleati "liberatori" si erano scatenati su intere zone cittadine con particolare predilezione nei confronti dei quartieri proletari. Oltre alla perdita di vite umane, i bombardamenti avevano causato la distruzione di circa 6 milioni di vani, rendendo di conseguenza molto grave per il proletariato il problema dell’alloggio. I profughi, gli sfollati, le requisizioni, fecero il resto. Le requisizioni non migliorarono, anzi aggravarono la situazione alloggi, perché le case signorili non vennero interessate dai provvedimenti di requisizione con il pretesto che erano troppo care per assegnarle a profughi o sinistrati.

Durante tutto il 1946 per i senzatetto furono edificati o ristrutturati soltanto 15 mila vani, e fino al 1951 ne vennero ricostruiti solamente 450 mila; altri 75 mila godettero di un parziale finanziamento da parte dello Stato. Si dirà che l’Italia era povera e che, anche volendo, non avrebbe potuto fare di più. Che questo si possa dire è un conto, ma è certo che fin dal 1945 per ricostruire il Palazzo Reale di Milano fu trovata la bella cifra di cento milioni di allora ed 80 per rimettere in ordine la Scala.

Le statistiche ufficiali documentavano, per i soli mesi di marzo-aprile 1946, l’esistenza, nella sola Italia del Nord, di una disoccupazione effettiva 720.219 unità, di cui 111.820 nella sola provincia di Milano. Questi dati non tenevano tuttavia conto della disoccupazione parziale e potenziale. La disoccupazione totale per tutta Italia era valutata a circa 2 milioni e mezzo di unità.

La guerra e la vittoria democratiche avevano liberato l’umanità dall’oppressione del nazi-fascismo, ma, evidentemente, non si erano preoccupate di liberare il proletariato dal bisogno, dalla miseria e dalla fame, così una enorme massa di proletari (massa che ogni anno aumentava vertiginosamente) per far fronte alla esigenze di vita dovette prendere la via dell’emigrazione.

«L’operaio libero vende se stesso pezzo per pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita ogni giorno, al migliore acquirente, ai possessori delle materie prime, degli strumenti di lavoro, dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti. L’operaio non appartiene né ad un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che la compera. L’operaio abbandona quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto, ed il capitalista lo licenzia quando crede, non appena non ricava più l’utile che si prefiggeva. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita della forza lavoro, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè l’intera classe dei capitalisti; ed è affar suo cercarsi il suo uomo, cioè trovarsi, in questa classe di capitalisti, un compratore». Così Marx, nel Capitale, sintetizza la condizione dell’operaio libero, tanto libero da non avere la libertà di scegliersi né il mestiere, né la fabbrica, né il domicilio; libero di emigrare per seguire il capitale emigrante.

Nel 1946 si ebbero più di 110 mila partenze per l’estero, 254 mila nel 1947 e l’anno successivo 310 mila. E non si pensi che questo fenomeno si sia limitato agli anni critici dell’immediato dopoguerra: per avere un’idea della sua vastità basti pensare che dal 1946 al 1972 espatriarono ufficialmente più di 7.000.000 di lavoratori di cui circa 4.800.000 nei paesi europei e 2.200.00 verso altri continenti.

Quando faceva comodo per la propaganda di guerra, la deportazione degli operai in Germania rappresentava una offesa alla cosiddetta civiltà ed alla dignità umana. Dopo la ’Liberazione’ alla propaganda per la ricostruzione interessava invece passare sotto silenzio i nefasti di una emigrazione operaia che aveva esattamente gli stessi connotati delle deportazioni naziste. Le condizioni dei lavoratori ingaggiati per le miniere del Belgio o di Francia per la ricostruzione democratica erano davvero ripugnanti: trasportati in vagoni bestiame, vincolati ad un contratto ’liberamente firmato’ che per un periodo di tre anni proibiva loro di inviare a casa denaro a meno che non avessero sottoscritto un contratto a lungo termine, con divieto, sotto pena dell’arresto, di abbandonare l’impresa e di uscire dal territorio, sottoposti ad un regime di sfruttamento bestiale della loro forza produttiva. Inoltre con il sistema delle cantine obbligatorie erano messi al centro di una vasta impresa di ladrocinio dalla quale uscivano con la sola pelle, non conservando più nulla del loro magro salario. Questi lavoratori non godevano di nessun diritto politico e non erano protetti da nessun organismo sindacale. Non solo questi proletari venivano derubati in mille modi, ma al minimo sciopero potevano essere messi in galera ed i consolati si incaricavano di consegnarli alla giustizia se sgarravano.

Quale fosse il ’valore dell’Uomo’ nella ’democrazia resistenziale’ lo si poteva leggere nel giornale che portava come titolo ’La Libertà’. A proposito delle trattative italo-francesi sull’invio di proletari italiani in Francia, scriveva il 6 febbraio 1946: «Al pari del trattato stipulato nel novembre scorso col Belgio, per ogni minatore ci verranno date 6 tonnellate di carbone annue». Il giornale liberale, tanto impegnato nella campagna per i ’diritti umani’ borghesi, riferiva senza alcun commento la notizia di trattati internazionali che riducevano l’operaio al livello di un capo di bestiame da scambiare contro un’altra merce.

De Gasperi, nella dichiarazione fatta alla Costituente il 27 giugno 1946, a proposito della emigrazione italiana in Francia, elencando le prove di accondiscendenza e di «spirito conciliante che il governo italiano ha dato nei confronti della repubblica consorella», citava la conclusione di un «accordo per l’emigrazione di 20 mila minatori italiani in Francia, in cui le abituali garanzie che circondavano per consuetudine siffatti accordi vennero ridotte al minimo e che avrebbero dovuto e potuto essere il preludio di più vasta corrente emigratoria verso la Francia». Commentava ’Battaglia Comunista’ il 20 luglio: «Dunque dopo le strombazzature confederali sulla difesa dell’emigrante, veniamo ora a sapere che il minatore italiano è stato fatto oggetto del più indegno mercato per assicurarsi le simpatie della Francia: che per ottenere quest’effetto si è rinunciato alle garanzie minime a tutela del lavoro; e che un contratto di tal genere avrebbe, nel pensiero dei nostri illustri governanti (democristiani, socialisti, comunisti), dovuto rappresentare l’incoraggiante preludio di più vaste correnti emigratorie». Dimenticavamo di dire che chi volesse ritrovare il citato passaggio di De Gasperi non perda tempo a ricercarlo nelle collezioni de ’L’Unità’: i redattori del giornale nazional-comunista, nel fare il resoconto dell’intervento, ne omisero, prudentemente, la citazione.

Quale sia il cinismo con cui la classe capitalista tratta il proletariato (che non viene considerato ’umanità, ma semplicemente ’merce’ o ’minaccia’) lo si può vedere anche dal ’Rapporto della Direzione Generale dell’Emigrazione’ (marzo 1949) del Ministero degli Esteri. Questo rapporto, valutando la consistenza della forza lavorativa disoccupata a quell’epoca calcolava che vi erano «almeno 4.000.000 di persone in eccesso» per cui auspicava la soluzione di tale problema attraverso «un’adeguata emigrazione» e precisava che avrebbe dovuto «trattarsi di contingenti emigratori di portata la più vasta possibile e, perché i loro effetti possano essere veramente apprezzabili, il volume dovrebbe essere anche superiore a quello che oggi è possibile prevedere». Dopo essersi soffermato sulle prospettive economiche dell’operazione, il rapporto concludeva con questo commento politico: «I vantaggi dell’emigrazione per l’Italia non possono essere limitati al solo settore economico; non meno importanti potranno essere i riflessi sociali. Da una elevazione del tenore di vita e del reddito medio, anche le lotte sociali potranno essere grandemente attenuate, eliminando il pericolo che un paese di circa 50 milioni di abitanti venga continuamente turbato e minacciato da disordini e agitazioni, in gran parte dovute a troppo basso tenore di vita ed alla disoccupazione».

Terrorismo di fabbrica, repressione poliziesca delle lotte ed agitazioni, politica traditrice dei sindacati e dei falsi partiti opportunisti, emigrazione sono tutti sistemi di difesa del capitalismo per il mantenimento del proprio dominio sul proletariato.
 

La «Democrazia Progressiva»

Nel 1944 Togliatti nel suo rapporto ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana aveva detto: «Noi abbiamo un programma per il domani d’Italia. L’obiettivo che noi proponiamo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo. Per questo obiettivo noi chiameremo a combattere gli operai, i contadini, gli intellettuali, le giovani generazioni. Vogliamo che l’Italia venga ricostruita rapidamente nell’interesse del popolo. Sappiamo quale è la profondità delle distruzioni avvenuta nel tessuto sociale italiano e sappiamo quindi che se ci ponessimo un altro obiettivo non adempiremmo ai doveri che abbiamo verso la nazione che cerca in noi una guida (...) Oggi non si pone agli operai italiani il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia (...)»

«Il partito nuovo è un partito della classe operaia e del popolo, il quale non si limita soltanto alla critica e alla propaganda, ma interviene nella vita del paese con una attività positiva e costruttiva (...) Un partito il quale sia capace di tradurre nella sua politica, nella sua attività di tutti i giorni, quel profondo cambiamento che è avvenuto nella posizione della classe operaia rispetto ai problemi della vita nazionale. La classe operaia, abbandonata la posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico» (’Rinascita’, agosto/settembre 1944).

L’abolizione dei monopoli e dei latifondi si trovava nei programmi di quasi tutti i partiti dell’antifascismo ed era condivisa perfino da una parte di liberali. Anche il riconoscimento di forme di proprietà cooperative o statali era largamente accolto e per quanto riguarda il più diretto ruolo dello Stato nella produzione il terreno era già stato preparato dalla ’irizzazione’ di importanti settori dell’economia, avvenuta già durante il fascismo.

Nel convegno economico che il PCI organizzò dal 21 al 23 agosto 1945, Togliatti pronunciò quello che sarebbe poi stato il piano del ministro delle finanze, Scoccimarro: «Non siamo orientati verso una soluzione catastrofica e riteniamo che sarebbe delitto essere oggi orientati in questo modo. Siamo invece orientati verso soluzioni costruttive, sia nel campo politico che nel campo economico (...) Se dicessimo oggi di volere un piano economico generale come condizione per la ricostruzione sono convinto che porremmo una rivendicazione che noi stessi non saremmo in grado di realizzare. Voglio dire che se anche fossimo al potere da soli faremmo appello per la ricostruzione all’iniziativa privata, perché vi sono compiti a cui sentiamo che la società italiana non è matura (...) La lotta si impegna dunque non contro il capitalismo in generale, ma contro forme particolari di rapina, di speculazione e di corruzione».

Il piano del ministro delle Finanze, Scoccimarro, si limitava a proporre un cambio della moneta ed un contemporaneo prelievo di una imposta straordinaria sul patrimonio. Il cambio della moneta avrebbe comportato la eliminazione di due zeri, si sarebbero cioè cambiate cento lire vecchie per una nuova. Con la nuova moneta si cercava di colpire l’inflazione dovuta alla eccessiva quantità di denaro in circolazione a causa, anche, della indiscriminata emissione di ’banconote false a corso legale’, le cosiddette Amlire, e delle illimitate facilitazioni di credito praticate dalle maggiori banche. La limitazione della circolazione sarebbe avvenuta con la tassa sulla ricchezza che avrebbe colpito, in maniera progressiva, il cambio della moneta. Le risorse finanziarie così raccolte avrebbero dovuto permettere una serie di interventi governativi diretti ad indirizzare il processo di ricostruzione a fini pubblici e ad assorbire la manodopera disoccupata, parzialmente occupata e quella ’eccedenza’ di operai che gli industriali si apprestavano ad eliminare.

Per farsi un’idea del livello raggiunto dall’inflazione basti fare un raffronto con gli anni precedenti la guerra: nel 1937/38 in Italia vi era una massa di moneta circolante calcolata sui 16 miliardi di lire. Con il sopraggiungere della guerra il governo aveva iniziato ad emettere denaro senza misura, per cui alla prima caduta di Mussolini il circolante era aumentato di quasi sette volte. Da quel momento in poi il fenomeno si aggravò in maniera sempre maggiore poiché i governi delle due Italie, quello badogliano-bonomiano e quello fascista-repubblicano, ricorsero alla rotativa per superare le loro difficoltà. Alla fine del marzo 1945 si potevano calcolare 350 miliardi di circolante. Nel giugno 1945, con l’aggravante della moneta di piccolo taglio, delle emissioni dei mesi successivi, delle Amlire, il denaro in circolazione non era inferiore ai 400 miliardi.

Di fronte ad una situazione del genere il piano Scoccimarro non era neppure un piano blandamente riformista, tant’è vero che ricalcava in tutto e per tutto (oggi si definirebbe "fotocopia") il programma predisposto dal liberale Soleri, Ministro del Tesoro nel governo Parri fino alla sua morte avvenuta nel luglio del 1945.

Al piano Scoccimarro veniva contrapposto quello del liberale Corbino che, appellandosi ai classici principi dell’economia liberista, proponeva la più ampia libertà di iniziativa privata, escludeva il ricorso ad ogni tipo di misura fiscale di carattere straordinario e ad ogni tipo di controllo sugli investimenti e confinava il ruolo del governo ad un’opera di ricostruzione puramente infrastrutturale. È chiaro che in tale politica l’inflazione giocava un ruolo quale mezzo per la raccolta forzata di denaro con cui finanziare gli investimenti privati, mentre lo sblocco dei licenziamenti ne rappresentava il corollario. La grande borghesia quindi si opponeva energicamente anche ai tiepidissimi piani liberali di Scoccimarro senza peraltro che i partiti della sinistra opponessero resistenza.

Un esempio della complicità dei partiti social-comunisti con gli interessi della grande borghesia nazionale è dato dalla eliminazione del governo Parri. Parri, rappresentante del Partito d’Azione, nel suo programma di governo aveva proposto delle durissime tasse che avrebbero colpito i grandi complessi industriali, accusati di avere accumulato ingenti profitti durante il regime fascista, ed aveva previsto un sistema di distribuzione delle materie prime, scarsissime per mancanza di valuta estera, che sarebbe andato a tutto vantaggio delle piccole e medie industrie. Inoltre, tra le sue intenzioni c’era quella di riaprire il capitolo ’epurazione, accantonato dal secondo governo Bonomi, estendendo la ’purga’ ai maggiori esponenti dell’industria privata che avevano apertamente favorito l’ascesa del movimento fascista e per motivi di interesse economico avevano sostenuto la politica bellicista di Mussolini.

Ciò era più che sufficiente per essere eliminato, ed il 21 novembre 1945, Cattalini, leader del PLI, si recò da Parri e gli notificò formalmente la decisione dei liberali di ritirarsi dal governo. Questo fatto prospettava la minaccia di una crisi di governo, ma non la rendeva inevitabile: data la limitata rappresentanza liberale si sarebbe potuto procedere alla sostituzione dei ministri dimissionari con un rimpasto. Senonché, pochi giorni dopo, anche la Democrazia Cristiana decideva di seguire l’esempio dei liberali, determinando così la caduta del governo Parri, il 24 novembre 1945.

Parri, il giorno stesso delle sue dimissioni, convocava in una conferenza stampa i rappresentanti dei giornali stranieri e denunciava pubblicamente che «la quinta colonna all’interno del suo governo (cioè i democristiani ed i liberali), dopo avere minato sistematicamente la sua posizione, si accingeva, ora che aveva ottenuto il proprio scopo, a restituire il potere a quelle forze politiche e sociali che avevano formato la base del regime fascista».

I partiti di sinistra non solo non fecero nulla per salvare il partigiano Parri dalle mene fasciste della Democrazia Cristiana, ma la loro complicità si mostrò palese quando Pietro Nenni propose ufficialmente la candidatura di De Gasperi per la presidenza del nuovo governo.

Torniamo al piano economico proposto da Scoccimarro. Il cambio della moneta veniva continuamente rinviato adducendo motivazioni di vario tipo, dalla mancanza di carta per la stampa delle nuove banconote, al trafugamento delle matrici, fino al rifiuto della Banca d’Italia di distribuire la nuova moneta alle filiali perché, si disse, tutta quella quantità di denaro avrebbe potuto essere rapinata durante il tragitto. Si convenne di non farne niente.

Il governo dei partiti antifascisti non riuscì a tradurre in pratica il cambio della moneta; non riuscì ad attuare l’imposta straordinaria sul patrimonio; l’avocazione dei profitti di guerra e di regime si ridusse ad una barzelletta; il sequestro dei beni degli industriali non avvenne. Al contrario, le uniche imposte in continuo aumento erano quelle di consumo e la tassa di famiglia, istituita a favore dei comuni, che colpiva maggiormente le entrate dei proletari che quelle dei borghesi.

Per rimpinguare le casse dello Stato il Partito Socialista avanzò questa proposta ’proletaria’: «È immorale, ma poiché per colpire l’oro accumulato non agisce né l’avocazione allo Stato dei profitti di regime e di guerra, né è ancora attuato un sistema tributario veramente acconcio, ben vengano i casinò quale ottimo autobalzello per i ricchi sfrenati» (’Avanti!’, 16 febbraio 1946). Certo, per i ricchi ’sfrenati’, perché contro quelli furbi non ci sarebbe stato nulla da fare. O meglio, ci sarebbe stato modo di far investire i loro loschi guadagni. Infatti, lo Stato, che aveva bisogno di un bel po’ di quattrini per far quadrare il bilancio (300 miliardi come minimo) nel 1946, lanciò il Prestito per la Ricostruzione. Questo prestito, che era esente da qualsiasi tipo di tassazione, rappresentava un comodo rifugio per quei capitali che avrebbero potuto temere un controllo del fisco. Così il giro di vite fiscale promesso dai partiti della sinistra e che avrebbe dovuto colpire i profittatori della guerra e del mercato nero, andò in fumo.

Sui numeri di ’Rinascita’ del 1946 si leggeva il seguente avviso:
IL PRESTITO DELLA RICOSTRUZIONE RENDIMENTO - 3,50% PREZZO DI EMISSIONE L.97,50 - RIMBORSO PER ESTRAZIONI ANNUALI - OFFRE UN INVESTIMENTO SICURO AI VOSTRI RISPARMI - ASSICURERÁ LA RIPRESA DELLA VITA ECONOMICA DEL PAESE - È ESENTE DALLA ISTITUENDA IMPOSTA STRAORDINARIA SUL PATRIMONIO, DA OGNI IMPOSTA REALE PRESENTE E FUTURA, DALLA IMPOSTA DI SUCCESSIONE, DALLA IMPOSTA DI REGISTRO SUI TRASFERIMENTI A TITOLO GRATUITO - POTRETE SOTTOSCRIVERE DAL 20 NOVEMBRE PRESSO LE BANCHE, ISTITUTI DI PREVIDENZA E DI ASSICURAZIONE, CASSE DI RISPARMIO, UFFICI POSTALI, AGENTI DI CAMBIO.

È poco probabile che proletari, operai e disoccupati fossero interessati al prestito della ricostruzione, mentre lo erano invece tutti i ’risparmiatori’ borghesi, specialmente coloro che nel corso della guerra avevano accumulato denaro in maniera losca (ammesso che vi sia una maniera ’onesta’ di far soldi!). Il giornale del PCI insegnava ai borghesi come sfuggire a quella ’imposta straordinaria sul patrimonio’ che, tra l’altro, a parole, rappresentava il cavallo di battaglia dei partiti della sinistra, e di ogni altro tipo di tassazione. In nome della lotta contro... l’evasione fiscale!.

Se questi erano gli appelli dei difensori degli interessi della classe operaia, quelli del cattolicesimo, tradizionale ’protettore’ dei poveri e dei diseredati, non potevano essere di molto dissimili: «Chi non sottoscrive al Prestito della Ricostruzione non solo respinge il più utile mezzo di difesa del proprio risparmio contro l’inflazione, il prestito forzoso e l’imposta confiscatoria, ma si dimostra altresì privo di senso di solidarietà, diserta la battaglia che sola può salvare l’economia nazionale, nega il suo contributo alla ripresa produttiva, fonte di lavoro e di pane per milioni di concittadini. Un cattolico cosciente non può mancare a questa colpa verso se stesso e verso il prossimo» (Istituto Cattolico di Attività Sociale, Roma, dicembre 1946).

C’è da notare che i cattolici, al grande affare che si celava dietro il ’Prestito per la Ricostruzione’, cercavano almeno di dare una parvenza di moralità e solidarismo, cosa di cui gli stalinisti italiani non si preoccupavano affatto.)

I giornali del PCI invitavano quindi borghesi, borsaneristi e profittatori della guerra ad investire patriotticamente i loro... risparmi. In questo modo qualsiasi tipo di denaro, di qualunque provenienza venne nobilitato e purificato non appena si tramutò in buoni del tesoro. Anche la CGIL plaudì all’iniziativa e Di Vittorio invitava gli operai a non essere da meno dei borghesi ed investire i loro miseri averi nel prestito per la patria.
 

Contro operai e contadini poveri

Intanto il fronte padronale si riorganizzava e riprendeva possesso a pieno titolo di quel potere che aveva fatto finta di concedere agli organi del CLN. Anzi fu proprio il CLN a rilegittimare il potere borghese. «Lo sforzo compiuto dal CLN – ha scritto Giorgio Amendola in ’Classe Operaia e Programmazione democratica’ – fu quello di arrivare ad un ritorno dei padroni nelle fabbriche». Padroni e dirigenti riassunsero le loro posizioni di comando, nei luoghi di lavoro fu ristabilita la disciplina che si era notevolmente allentata. Ed anche questo ultimo risultato lo si ottenne grazie ai CLN di fabbrica ed alla CGIL che, come abbiamo visto nel corso di rapporti precedenti, svolsero una vera e propria funzione di polizia di fabbrica con sistemi che quelli fascisti, al confronto, erano da considerarsi dilettanteschi.

I poteri dei Consigli di gestione divennero puramente simbolici, avviandosi il processo della loro graduale estinzione. La eliminazione dei Consigli di Gestione avvenne per motivazioni essenzialmente politiche, perché avrebbero potuto costituire «un elemento deleterio per la pace sociale», come ebbe a dichiarare la Confindustria nel febbraio 1946. Però, a parte le preoccupazioni per il futuro, era un fatto incontestabile che fino ad allora avevano costituito un elemento di stabilità, di ordine, di produzione. Adelio Pace, dirigente della società Montecatini, a proposito dei Consigli, aveva detto nel febbraio del ’46: «I risultati concreti sono stati: un pronto miglioramento dell’organizzazione industriale, un aumentato spirito di collaborazione delle maestranze (che in certi casi sono giunte, per esempio, a rinunciare al vino ed al secondo piatto della mensa per mettere in condizione l’azienda di finanziare acquisti di materie prime), il centuplicarsi di iniziative da parte dei lavoratori per poter sopperire ad alcune deficienze funzionali».

Un altro esempio di ’partecipazione operaia’ alla gestione industriale è dato dall’ordine di servizio n. 79 del 1945 diramato dalla direzione generale dell’Ercole Marelli di Sesto S.Giovanni: «La situazione attuale dell’azienda pone l’imperativo assoluto della massima riduzione di tutte le spese. Risultati importanti non potranno essere ottenuti se non mediante la più attiva collaborazione di ciascun appartenente alla ditta, sia impiegato che operaio. Si invita pertanto chiunque abbia proposte da fare in merito di esporle per tramite gerarchico a questa direzione generale la quale le prenderà nella massima considerazione e, se riconosciute pratiche e vantaggiose, ne provocherà l’applicazione». Questa era la partecipazione alla gestione delle aziende: il lavoratore, oltre che i muscoli, si sarebbe spremuto il cervello per inoltrare gerarchicamente proposte atte a ridurre gli oneri ed aumentare gli utili della azienda, e chi aveva poco cervello poteva sempre collaborare rinunciando al vino ed al secondo piatto.

Ma, si sa, gli operai dovevano rinunciare ai loro interessi ’corporativi’ per concentrare tutti i loro sforzi allo scopo di una rapida ricostruzione che, nella formulazione del PCI, si articolava in tre momenti essenziali: 1) quello della «funzione nazionale della classe operaia»; 2) quello della «solidarietà nazionale» e 3) quello della ricostruzione economico-produttiva.
1) La funzione nazionale operaia significava che la classe operaia «non esprime soltanto i propri particolari interessi di classe, ma quelli della maggioranza del popolo italiano e quindi della Nazione».
2) In quanto alla solidarietà nazionale, in cambio della rinuncia da parte dei lavoratori ai propri interessi di classe, il PCI richiamava «le classi abbienti al dovere morale di venire incontro ai bisogni elementari delle classi che nulla possiedono, attraverso il principio di solidarietà». Non veniva fatto nemmeno un richiamo alla ’Giustizia’, ma semplicemente ad un ’dovere morale’ verso i ’bisogni elementari’ che, si badi bene, non dovevano esser risolti, ma semplicemente leniti. Certo il minimo bastante per la pura sopravvivenza! È bene che gli oppressi non si facciano troppe illusioni! Che non si abituino male!
3) Sulla ricostruzione economica, il partito togliattiano se la cavava con una constatazione di fatto ed una speranza: «Poiché oggi la ricostruzione della nostra economia su di un piano socialista non è possibile, perché a ciò mancano le condizioni necessarie (...) la sola cosa che possiamo fare è che nella ricostruzione gli interessi e la volontà della borghesia capitalista non siano l’unico fattore dominante ed assoluto» (Scoccimarro su ’Rinascita’, dicembre 1945).

Date queste premesse non c’è da meravigliarsi se i negoziati tra Confindustria e sindacati per lo sblocco dei licenziamenti iniziarono e si conclusero rapidamente facilitati, appunto, da tutte le prese di posizione del PCI dichiaratamente filo-padronali.

Durante il Convegno Economico del PCI, al quale abbiamo precedentemente accennato, Togliatti aveva già tracciato quali sarebbero state le direttive del suo partito in materia salariale e di politica del lavoro: «La nostra politica deve essere una politica di produzione e non di sussidi (...) Riporto qui l’esempio accennato dal compagno Roveda al quale mi associo a proposito dell’accordo che scade il 30 settembre. Questo accordo (si tratta dell’accordo per il blocco dei licenziamenti n.d.r.) nella sua sostanza consiste nel sussidiare, per un periodo di alcuni mesi, il nucleo fondamentale della classe operaia del Nord anche se esso non lavora, mantenendo gli operai nelle fabbriche anche se queste sono ferme e pagando loro i tre quarti del salario. Questa misura si è imposta in via straordinaria perché ci trovavamo di fronte ad una situazione che aveva scadenze molto vicine a cui nessuno era in grado di far fronte. Ma non possiamo continuare in una linea simile ed agli operai dobbiamo dirlo apertamente. La prima cosa da farsi è, secondo me, l’appello agli operai perché dappertutto dove essi lavorano aumentino il rendimento del lavoro. D’ora in avanti questo deve essere uno dei punti fondamentali della nostra agitazione (...) La classe operaia deve sapere che l’aumento della produttività del lavoro è una delle condizioni per riuscire a creare in Italia un regime democratico, perché se non riusciamo oggi a risolvere i problemi economici e un andazzo di non lavorare si generalizzasse sarebbero compromesse seriamente le sorti della democrazia». È ora di finirla, dice Togliatti, con quest’andazzo dove degli operai sfaticati, senza lavorare rubano lo stipendio ai poveri padroni.

L’accordo tra Confindustria e sindacati sul blocco dei licenziamenti era stato ratificato dal governo che si era accollato il 25% dell’onere dell’operazione, ricorrendo anche, per un altro 25% alla cassa integrazione guadagni. I partiti di sinistra protestarono blandamente contro questo finanziamento concesso agli industriali, ma la loro protesta, lo si capisce benissimo dal pensiero di Togliatti, aveva come scopo non quello di privare i padroni dei sussidi dello Stato, ma gli operai. Può essere interessante notare che il blocco dei licenziamenti, avversato dal partito della democrazia progressiva era stato imposto agli industriali dalla Repubblica Sociale Italiana. (Il PCI evitava perfino di chiamarsi ’progressista’ che avrebbe potuto assumere un aspetto dottrinale. ’Progressivo’ era più blando, più democratico, meno compromettente. ’Progressisti’, al contrario, si definivano i... liberali).

Per la borghesia: cambio della moneta sospeso, rimandato sine die e poi dimenticato; imposta straordinaria sul patrimonio, come sopra; avocazione dei profitti di guerra e di regime ridotta ed attuata con tale ritardo da avere effetti nulli; sequestro dei beni dei grandi industriali, restituiti il giorno dopo ai ’legittimi’ proprietari. Per i proletari: aumento delle imposte di consumo gravanti sui redditi minori per coprire il disavanzo, disoccupazione di larghi strati operai e, in ultimo, sblocco dei licenziamenti.

Il quadro di una politica economica democratica e progressiva era completo.

«Niente sblocco!!» – aveva tuonato minacciosa la CGIL nel corso dei comizi e con queste dichiarazioni altisonanti aveva tirato a lungo snervanti trattative (snervanti per la classe operaia) senza preparare serie azioni di lotta, una adeguata difesa dei disoccupati o, quanto meno, un piano di riassorbimento della manodopera licenziata. La CGIL tuttavia cantava vittoria per avere convinto gli industriali a ’licenziare gradualmente’ così da attenuare la risposta proletaria. I bonzi sindacali sapevano che i licenziamenti in massa sono pericolosi, mentre quelli fatti con il contagocce hanno il doppio vantaggio di non colpire indistintamente la totalità dei lavoratori spezzando così la solidarietà di classe e mettendo gli operai in concorrenza tra beneficiati e colpiti.

Su richiesta sindacale i padroni avrebbero dovuto ’selezionare’ i lavoratori da licenziare creando categorie antitetiche all’interno della massa operaia ed affidando alle commissioni interne il compito forcaiolo di controfirmare queste selezioni. Si sarebbero dovuti fare gli elenchi dei vecchi e quello dei nuovi; di quelli che erano affluiti nelle fabbriche e quelli che già c’erano; di quelli che avevano il campicello e di quelli che non lo avevano; di quelli che «osservano i doveri di disciplina e di una normale produttività» e dei

«turbolenti», dei «facinorosi», dei «provocatori». La CGIL cantava inoltre vittoria per il fatto che ai licenziati, per ben 60 giorni, sarebbe stato corrisposto un assegno pari a poco più della metà del salario il che, tradotto in termini proletari, significava che se un operaio, fino ad allora aveva mangiato due volte al giorno, dal momento del licenziamento lo avrebbe fatto una sola volta... per 60 giorni!

Di fronte a questa situazione i partiti della sinistra ed il sindacato raccomandavano ed imponevano calma richiedendo sacrifici su sacrifici perché, secondo l’insegnamento togliattiano, l’operaio viveva in quanto viveva e prosperava il capitale: evviva il capitale, dunque!

Sul ruolo svolto dalle commissioni interne e dal sindacato nell’operazione sblocco dei licenziamenti riportiamo, a mò di esempio, l’episodio accaduto alla Borletti di Milano. Alla scadenza del blocco si procedette al licenziamento del 30% degli operai in base alla lista redatta dalla Commissione Interna. Ma il signor Borletti, certo di trovare comprensione ed appoggio tra le gerarchie sindacali, pretendeva la consegna di un’altra lista con la stessa percentuale per procedere ad un altro immediato licenziamento di operai, vale a dire complessivamente il 60%. A questa richiesta, che esulava dai patti, da parte della C.I. fu telefonato alla Camera del Lavoro per richiedere l’immediato intervento di un «responsabile», il responsabile, patteggiando con il padrone, concesse un supplemento del solo...

20%. In seguito a questo episodio alcuni lavoratori membri della Commissione Interna, non accettando il ruolo di aguzzini del proletariato, si dimisero. Restarono ai loro posti, naturalmente, piccisti e democristiani.

Il 27 settembre 1945, quando già si profilava lo spettro dei licenziamenti, ’Battaglia Comunista’ aveva scritto: «Contro il tentativo di strangolamento e di fame del capitalismo, il moto unitario e politico del proletariato (...) Bisogna rompere il cerchio di violenza e di paura nel quale il proletariato è ancora prigioniero: ieri era il fascismo a terrorizzarlo, oggi è la democrazia socialcentrista che lo corrompe e lo disarma col miraggio della falsa unità e della conquista pacifica e legale del potere». Il 18 febbraio 1946 il partito ripeteva le medesime parole ed aggiungeva: «C’è un fronte compatto della borghesia, al quale tengono ottimamente bordone i partiti del compromesso e i dirigenti di un organismo che non è più di classe. Le rivendicazioni concrete che gli operai porranno in questo duro momento della storia delle loro lotte – indennità di disoccupazione pari al salario di chi lavora, o riduzione delle ore di lavoro senza riduzione delle mercedi, od occupazione totale della massa operaia – avranno senso ed otterranno successo nella misura in cui la lotta politica prenderà tono e vigore e uno spostamento radicale dei rapporti di forza vedrà la ricostituzione dei sindacati di classe e, a loro guida, il partito del proletariato. È su questa linea che noi impegnamo battaglia».

Nel marzo 1946, quando Ministro del Commercio era un azionista, Ministro dell’Industria un socialista e Ministro delle Finanze un comunista, il governo decise di concedere agli esportatori praticamente tutto quello che chiedevano. La più importante di queste concessioni fu la possibilità di vendere liberamente sul mercato il 50% della valuta estera acquisita, l’altra metà doveva essere ceduta all’Ufficio Italiano Cambi al prezzo ufficiale di 100 lire al dollaro. L’effetto di questa liberalizzazione governativa del mercato nero della valuta, da una parte incoraggiava il diffondersi della speculazione e dall’altra toglieva allo Stato la capacità di effettuare piani economici.

Malgrado i richiami sindacali e politici al sacrificio, a produrre di più, a non pretendere di vivere sulle spalle dei padroni, da un capo all’altro d’Italia scoppiarono agitazioni e moti spontanei contro l’inflazione, la disoccupazione, la fame. Già nel maggio-giugno 1945 dimostrazioni di donne si ebbero a Torino, Milano, Brescia e città minori; scioperi operai a Lodi, Magenta, Legnano ed altre cittadine lombarde. Di fronte alle forti agitazioni dei lavoratori del bacino carbonifero, una commissione ministeriale mista si recava in Sardegna dove era costretta ad ’assicurare’ aumenti salariali, invio di indumenti e generi alimentari. Il profondo malessere dalle città si estendeva nelle campagne, in particolar modo tra le mondine che reclamavano l’osservanza dei patti da parte degli agrari e miglioramenti delle condizioni di vita. Nel luglio si ebbero dei saccheggi a Venezia, a Treviso un migliaio di disoccupati costrinse il prefetto a promettere loro un immediato lavoro, a Brescia gli operai rifiutarono un accordo firmato dalla Camera del Lavoro ed assaltarono l’abitazione dell’industriale più rappresentativo della città. Il movimento operaio ebbe la sua espressione più alta a Torino dove fu organizzato uno sciopero generale.

Si ebbero scioperi degli statali in Alta Italia; scioperi dei solfatari di Sicilia; scioperi e manifestazioni di disoccupati a Roma; sciopero generale a Trieste in risposta della minaccia di licenziamenti. Violente manifestazioni dei portuali interessarono Napoli a causa della mancata occupazione dei reduci e contro l’utilizzo dei prigionieri tedeschi nei lavori del porto.

In merito al problema dei prigionieri di guerra leggiamo su ’I Consigli di Fabbrica, a cura dei gruppi di fabbrica comunisti internazionalisti’ del 15 giugno 1945. «Da Londra, 6 giugno 1945: ’Il ministro britannico per i combustibili, interrogato ai Comuni circa l’opportunità di impiegare temporaneamente prigionieri tedeschi nelle miniere ha dichiarato che la cosa non è desiderabile’. Evidentemente la questione dei minatori inglesi non è ancora risolta. Questa categoria di proletari, sfruttata nel lavoro più ingrato e infame, massa informe di esseri umani che per sei anni di guerra ha alimentato col suo sangue le industrie belliche, non può essere messa a riposo; e neppure è ’opportuno’ mettere a contatto prigionieri tedeschi (cioè proletari tedeschi) con proletari inglesi; meglio che non opportuno è "non desiderabile", giacché (dobbiamo così interpretare la laconica risposta del ministro britannico per i combustibili?) proletari e proletari, anche se di diversa nazionalità, anche se tedeschi e inglesi, sarebbero logicamente portati a ’fraternizzare’ e probabilmente ad accorgersi che il nemico non è in chi è stato fisicamente costretto a fare la guerra, ma in chi l’ha comandata, in chi l’ha difesa, in chi l’ha sostenuta. E allora? E allora i minatori inglesi s’accorgerebbero di non essere certo più felici dei prigionieri tedeschi: gli uni e gli altri ritroverebbero la propria coscienza di classe nel comune destino, nello sfruttamento quotidiano; e questo per il capitalismo inglese, che ha in mano i timoni dello Stato, non sarebbe ’desiderabile’ perché potrebbe pregiudicare... gli sforzi degli Alleati per la continuazione della guerra e per la "ricostruzione" della diroccata economia borghese».

’Battaglia Comunista’ n. 17 del 1947 riportava la seguente notizia: «A Berlino, il comando supremo russo ha ammonito l’intero personale civile sovietico di limitare al minimo la fraternizzazione coi tedeschi, vietando fra l’altro l’acquartieramento di impiegati civili e ufficiali presso famiglie tedesche e di famiglie russe in case abitate da tedeschi. D’ora innanzi, nella zona d’occupazione russa, gli impiegati civili sovietici e le loro famiglie vivranno in case esclusivamente loro riservate».

Questi due episodi apparentemente sembrano contrastare con quanto avveniva in Italia dove i prigionieri di guerra tedeschi venivano usati come lavoratori forzati. Ma il contrasto è solo apparente: in Inghilterra, vietando ai proletari tedeschi ed inglesi di lavorare fianco a fianco, come a Berlino proibendo i contatti con le popolazioni martoriate dalla guerra, si impediva la fraternizzazione fra proletari di diverse nazionalità in guerra; in Italia, usandoli in lavori forzati e sottopagati, si spezzava la solidarietà proletaria e si alimentava ancor di più l’odio artificialmente costruito nei confronti di quei proletari altrettanto vittime della guerra imperialistica.

Immediatamente l’organizzazione della CGIL si mise in moto per contenere le agitazioni, la Camera del Lavoro di Milano, ad esempio, constatando che in diverse località della provincia scoppiavano scioperi nati spesso da «futili motivi» o «promossi da agenti provocatori e da pescatori nel torbido», diffidava tutti gli operai dal partecipare a manifestazioni che non fossero state autorizzate dalla stessa Camera del Lavoro.

Dopo l’estate le agitazioni persero di intensità nel Nord, ma in ottobre migliaia di edili romani minacciati di licenziamento invasero la sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Con la scusa che l’agitazione era stata sobillata da provocatori infiltrati, la polizia intervenne violentemente. Il bilancio della lunga battaglia furono due morti e 150 feriti.

La fine della guerra fu accompagnata nel Mezzogiorno da un vasto movimento contadino. In Calabria già alla fine del 1943 cominciarono le occupazioni delle grandi proprietà terriere, per lo più incolte e tenute a pascolo. L’anno successivo questo fenomeno si estese ampiamente. Il governo del tempo percepì la pericolosità del movimento e, sia per il prestigio e la credibilità dell’Italia che cercava il suo nuovo posto nello schieramento internazionale, sia, e soprattutto, per contenere il movimento contadino all’interno dei limiti compatibili con l’ordine borghese, incaricò Gullo, il ministro togliattiano dell’agricoltura, di elaborare dei provvedimenti che permettessero di ricorrere alla repressione il meno possibile, in attesa che il potere si ricompattasse.

I decreti Gullo, della fine del 1944, rappresentavano solo delle promesse che nessuno era in grado di mantenere e soprattutto nessuno era intenzionato a mantenere. Questi decreti tra le altre cose prevedevano la concessione delle terre incolte a cooperative agricole dopo che ne fosse stata legittimata l’occupazione. Le commissioni locali aventi il compito di stabilire la legittimità o meno delle occupazioni delle terre venivano composte da: 1) il Presidente della Corte di Appello, 2) un rappresentante dei proprietari, 3) un rappresentante dei contadini. Se il giudizio del presidente della Corte di appello fosse stato ’imparziale’, i contadini avrebbero potuto sperare nella legittimazione del 50% delle loro occupazioni. Ma così non fu, «Le statistiche relative alla Sicilia sintetizzano brutalmente cosa questo significò: le richieste contadine accolte dalle autorità locali furono 987 e riguardavano 86 mila ettari di terreni incolti; quelle respinte furono 3822 per non meno di 820 mila ettari» (P. Ginsborg, Storia d’Italia dal Dopoguerra ad Oggi). Il ministro Gullo aveva proposto che alle cooperative fossero garantite ampie facilitazioni di credito, ma quale banca avrebbe mai concesso una lira a dei poveri pezzenti se nemmeno dal Ministero dell’agricoltura era arrivato un soldo?

All’indomani della prima guerra mondiale, in merito alle terre incolte occupate dai contadini, Gramsci, ironizzando, aveva scritto: «Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal coltivata? Senza macchine, senza un’abitazione sul luogo di lavoro, senza credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che acquistino il raccolto stesso (se il contadino arriva al raccolto senza essersi impiccato al più forte arbusto della boscaglia, o al meno tisico fico selvatico della terra incolta!) e lo salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può attendere un contadino povero dall’invasione?» ("Ordine Nuovo", 3 gennaio 1920).

Gullo, forse proprio perché probabilmente aveva letto Gramsci, fece in modo che l’esperimento cooperativistico fallisse miseramente anche per dissuadere l’espandersi del fenomeno. Le terre che le cooperative riuscirono ad acquisire erano sempre molto limitate per estensione e qualitativamente povere. Le cooperative erano costituite da troppi membri e da pochissima terra, la proprietà media per persona si aggirava intorno all’ettaro. In queste condizioni i contadini più poveri furono costretti a disfarsi delle loro quote alienandole in favore di quelli più agiati. A salvare le cooperative del Sud non furono sufficienti nemmeno i 15 trattori che, nel 1949, l’Unione Sovietica donò in segno di fraterna amicizia. Forse l’unico che servì a qualche cosa fu il quindicesimo, smontato e fatto sparire dai nemici del socialismo realizzato.

Riguardo ai decreti del ministro Gullo c’è da aggiungere che furono addirittura dichiarati illegali, prima dalla magistratura di Sassari, nel dicembre del 1944, poi da altri tribunali, infine, nel maggio 1946 la Corte di Cassazione confermò il loro orientamento. Perché meravigliarsi di questo se si pensa che il ministro della giustizia era Togliatti?

Anche i lavoratori avventizi delle Murge nell’estate 1945 dovettero amaramente constatare che il passaggio dal potere politico del regime fascista a quello dei CLN non aveva per nulla modificato le loro condizioni sociali e, con il solito sistema delle plebi affamate, anche in quella occasione avevano dato l’assalto agli istituti dello Stato nei quali essi individuano la difesa degli interessi dei fondiari e borghesi sfruttatori. Solo che a difesa degli odiati istituti di classe, questa volta non trovarono soltanto i regi carabinieri e le camicie nere, ma vi trovarono anche gli uomini, i partiti e le armi dei CLN, assieme ai... fascisti altrettanto armati. Ancora una volta, come nel passato, furono le armi a riportare l’ordine lasciando sul terreno cadaveri di lavoratori e comunisti illusi. La stampa democratica dipinse il moto come reazionario e fascista e ’L’Unità’ e l’’Avanti!’ si scagliarono contro questa ondata di sovversivismo. A pacificazione attuata il ministro Gullo intervenne sul luogo ed elogiò i regi carabinieri per la funzione da loro svolta nell’interesse pubblico.

Ma dopo la Puglia fu la Sicilia a manifestare una serie di agitazioni sociali contro lo stato di miseria e di fame in cui versavano i contadini poveri, moto di intensità tale che in alcune località della provincia di Agrigento venne proclamato lo stato di assedio. A Santa Maria a Bellice fu presa d’assalto la caserma dei carabinieri e per sedare la rivolta fu necessario l’intervento dei carri armati e del Ministro comunista Gullo che, per pacificare la regione apportò modifiche alla sua legge. Ma le modifiche erano favorevoli agli agrari e non ai contadini. Nello stesso periodo le agitazioni e le lotte contadine scoppiarono anche in Emilia Romagna.

’Battaglia Comunista’ del 28 luglio 1945 riportava che il ’Lavoro’ organo della CGIL, denunciando l’insorgere di una vera e propria reazione agraria, ammetteva che l’attività pacificatrice svolta dal sindacato, intesa a mitigare, prevenire e risolvere bonariamente le controversie, veniva interpretata dai padroni come debolezza. E come altro avrebbero dovuto considerarla? Questa confessione è sufficiente per dimostrare che in risposta alle lotte di classe condotte dai lavoratori rurali, la confederazione del lavoro rappresentava un freno alla lotta mentre la reazione agraria preparava le armi all’interno della legalità democratica.

Il 5 aprile 1946 a Cerignola fu sparato contro Di Vittorio, ma PCI e sindacato non accettarono la provocazione. Scrive Mammarella: «’L’Unità’ cerca di sdrammatizzare la tensione che sta montando nel paese nel duplice tentativo di contenere le spinte protestatarie della classe lavoratrice e di rassicurare le classi medie sulle intenzioni del PCI» (Il Partito Comunista Italiano 1945/1975).

In quei giorni venne fuori anche la diceria di un ’duello’ tra De Gasperi e Togliatti. La voce era chiaramente falsa ma Togliatti si affrettò a dichiarare la propria amicizia nei confronti del leader democristiano: «Quando è necessario trovare una linea di intesa, De Gasperi la trova più agevolmente con me, credo, che con gli altri uomini del governo che lui presiede».
 

Abiura su tutta la linea

Il 2 giugno 1946 gli italiani, e per la prima volta le italiane, andarono a votare per scegliere, con referendum, la forma istituzionale che l’Italia post-fascista avrebbe dovuto assumere (monarchica o repubblicana) e per eleggere i rappresentanti popolari all’Assemblea Costituente.

I risultati, ufficiali, delle votazioni del 2 giugno furono di 12.717.923 votanti a favore della repubblica e 10.719.284 a favore della monarchia. Per la Costituente le sinistre non raggiunsero quella maggioranza assoluta che fino alla vigilia avevano detto di sperare: su un totale di 555 deputati ne riuscirono eletti solo 219, di cui 104 comunisti con il 19% dei voti e 115 socialisti con il 20,7. La democrazia cristiana emerse come il partito di gran lunga più forte raccogliendo il 35,2% dei consensi e 207 seggi all’Assemblea. Il PCI ottenne così ben due sconfitte: «Ci proponevamo di ottenere tra il nostro partito ed il partito socialista una somma di voti che ci permettessero di contare la metà dei deputati alla Costituente. Questo obiettivo non è stato raggiunto. Ci proponevamo inoltre di affermarci come il partito più forte della classe operaia e come il secondo partito del paese. Anche questo obiettivo non è stato raggiunto» (Risoluzione della direzione del PCI, luglio 1946).

Sicuramente il PCI accolse questa doppia sconfitta con un sospiro di sollievo; una politica opportunistica è più facile svolgerla quando il partito è ’impossibilitato’ a realizzare i propri programmi... popolari. Ed infatti la risoluzione del PCI del 2 settembre 1946 parlava chiaro e parlava a favore della borghesia capitalista: «La sola via di uscita alla grave situazione presente sta nell’imprimere all’economia nazionale un ’nuovo corso’ nel quale sia lasciata ampia libertà all’iniziativa privata, ma lo Stato intervenga per impedire con ogni mezzo la speculazione che tende a provocare il crollo della moneta e affamare il popolo e in pari tempo eserciti una funzione di guida di tutta la ripresa economica promuovendo tanto una energica politica fiscale, per colpire le classi abbienti, quanto l’azione pianificatrice esercitata dagli appositi organismi di governo al centro e alla periferia, il controllo sulla produzione esercitato dai consigli di gestione, un efficace controllo sui prezzi e l’aumento delle razioni alimentari, la nazionalizzazione delle imprese monopolistiche, l’inizio di una riforma agraria a favore dei contadini senza terra».

La linea di condotta del PCI era estremamente chiara ed esplicita. La enunciazione più importante e significativa, perché immediatamente attuabile, era quella che riconosceva «ampia libertà all’iniziativa privata». Le successive erano dirette soltanto a gettare polvere negli occhi della classe lavoratrice. Le misure di controllo, come quelle sui prezzi, rappresentano interventi normali «in tutte le società (...) quando ci si trova di fronte a situazioni di emergenza» (Togliatti, intervento al convegno economico); la nazionalizzazione dei monopoli e la riforma agraria rappresentavano provvedimenti non immediati, ma di futura applicazione. In sostanza con questo programma il PCI rinunciava ad incidere nella politica della ricostruzione.

Il Mammarella scrive: «I motivi e la genesi di questa rinuncia possono essere ricostruiti in modo abbastanza attendibile. Per prima cosa non ci sembra azzardata l’ipotesi che il PCI, nonostante che si fosse programmaticamente trincerato dietro la politica di ricostruzione economica imperniata sul cambio della moneta e sulla tassa patrimoniale, non avesse mai puntato a realizzarla, salvo forse nei suoi aspetti esclusivamente formali. Tra i dirigenti comunisti non mancavano le perplessità sugli effetti di quella politica e lo stesso Togliatti, secondo una testimonianza, era contrario al cambio della moneta nel timore che essa alienasse al partito il favore dei piccoli coltivatori che avevano accumulato denaro con il mercato nero. Inoltre, il ministro Scoccimarro, nonostante la sua continua permanenza al ministero delle finanze dal giugno 1945, aveva agito con estrema circospezione, talché non solo la DC ma lo stesso PSI (...) accuseranno Scoccimarro di non aver preparato nessun piano per rivalutare le tasse, colpire le evasioni, preparare l’imposta straordinaria sul patrimonio e incamerare i profitti del regime».

A partire dal suo V congresso del gennaio 1946, il PCI aveva intrapreso una politica diretta ad eliminare gli elementi turbolenti ed a sensibilizzare iscritti e simpatizzanti sulla necessità di ispirare l’azione del partito al massimo rispetto delle regole della legalità borghese.

Come massima prova della loro fede democratica Togliatti si proponeva quale paladino della religione. Al V congresso aveva detto: «Rivendichiamo e vogliamo che nella Costituzione italiana vengano sancite le libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa (...) Per noi la soluzione data alla questione romana è qualcosa di definitivo che ha chiuso e liquidato per sempre un problema. Al patto del Laterano è però indissolubilmente legato il Concordato. Questo è per noi uno strumento di carattere internazionale, oltre che nazionale, e comprendiamo benissimo che non potrebbe essere riveduto che per intesa bilaterale, salvo violazioni che portino l’una o l’altra parte a denunciarle (...) Questa nostra posizione è chiara e netta. Essa toglie ogni possibilità di equivoco e impedisce che, fondandosi sopra un equivoco, si possano avvelenare od intorbidire i rapporti fra le forze più avanzate della democrazia che seguono il nostro partito e la Chiesa cattolica».

Il Concordato venne introdotto nella Costituzione così come era stato stipulato nel 1929 con il governo fascista anche se ora si trovava ad essere in aperto contrasto con parecchi articoli del nuovo statuto democratico, specialmente con quello che sanciva l’uguaglianza di fronte alla legge indipendentemente dal sesso, dalla lingua, dalla religione. Infatti il Concordato proclamava il cattolicesimo religione ufficiale dello Stato, rendeva obbligatoria nella scuola l’educazione religiosa e comprendeva una serie di misure repressive, quali, ad esempio, sanzioni civili contro ex sacerdoti.

Votando l’art. 7 della Costituzione italiana, Togliatti dichiarava di essersi assicurato «un posto al governo per i prossimi vent’anni». Ma di questo argomento parleremo più diffusamente in seguito.
 

Il diversivo Monarchia/Repubblica

Il decreto luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944 stabiliva, senza ombra di dubbio, che il problema della questione istituzionale sarebbe stato risolto, tramite voto, dalla Costituente. All’articolo n. 1 si legge: «Dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali saranno decise dal popolo che, per questo scopo, eleggerà, con suffragio universale, diretto e segreto, una assemblea costituente per determinare la nuova costituzione dello Stato».

Oltre ai dettami della legge vi era, inoltre, un impegno personale di De Gasperi che, in una lettera resa pubblica da Lussu, dichiarava testualmente: «Avevo proposto il referendum su monarchia o repubblica, quando ritenevo che ciò fosse ritenuto da tutti il modo migliore per consultare direttamente il popolo. Ma poiché si sono manifestati in riguardo molti insistenti dissensi, non credo di ritornare su tale idea» (’Italia Libera’, 6 febbraio 1946).

Il ricorso alla democrazia diretta attraverso la consultazione popolare invece era caldeggiato, e non a caso, da Casa Savoia e dagli ambienti politici interessati al mantenimento della monarchia. Umberto di Savoia, per quanto avesse apposto la sua firma al decreto n. 151, brigava perché la Costituente fosse esautorata da questa prerogativa e già nel novembre 1944, in una intervista al ’New York Times’ richiedeva il referendum perché in questo modo sarebbe stato più facile indirizzare gli elettori in senso monarchico di quanto non lo fosse per i componenti della Costituente. I partiti di sinistra temevano i voti di categorie tradizionalmente fedeli alla monarchia come i contadini ed anche le donne che, per la prima volta, si accingevano a fare il loro ingresso nella cabina elettorale. Ricorrere al referendum avrebbe significato togliere la questione istituzionale di mano ai partiti che ne avevano fatto il loro cavallo di battaglia ed annegarla in un contesto sociale molto più vasto e diluito. Inoltre la Corona dalla sua parte aveva un alleato potente in grado di orientare il voto di gran parte di elettori: la Chiesa Cattolica.

L’appoggio del clero alla monarchia era evidente a tutti e tutta la gerarchia ecclesiastica, dal prete di campagna fino al Santo Padre, non nascondevano le loro simpatie per la Corona. Clamorosa fu la partecipazione di ben 40 cardinali al ricevimento che Umberto di Savoia offrì il 26 febbraio 1946 in occasione del Concistoro. Ma, come abbiamo accennato, lo stesso Sommo Pontefice non aveva tralasciato di compiere gesti significativi: ad esempio il 14 ottobre 1945, mentre si svolgeva una grande manifestazione repubblicana, aveva ricevuto la principessa di Piemonte e le duchesse d’Aosta ed il 1° giugno 1946, il giorno avanti delle elezioni, aveva lanciato un appello elettorale certamente non pro-repubblicano.

Per farsi un’idea della organizzazione capillare controllata dalla Chiesa cattolica basta leggere un documento top secret (pubblicato nel 1995) inviato al Pentagono nel gennaio 1946 dal Comando Militare Usa a Roma. Il rapporto porta il seguente significativo titolo: L’Organizzazione del Vaticano per Controllare la situazione Interna Italiana. Vi si legge: «L’organizzazione è stata formata dal papa per influire sulla situazione interna italiana (...) Il cardinale Enrico Gasparri e monsignor Morano si occupano dei rapporti con la DC, il principe Umberto e la Costituente (...) Tramite i vescovi monsignor Montini viene informato da tutte le parrocchie degli orientamenti politici della popolazione (...) Il generale dei gesuiti Norberto De Boynes ed il suo assistente Alfonso Martin sono stati incaricati di uno scrupoloso servizio d’informazioni segrete sulle attività e i rapporti tra il PCI e Mosca (...) A Genova il cardinale Pietro Boetto, anch’egli gesuita, ha organizzato un analogo servizio segreto separato per l’Italia del Nord e comunica direttamente con il pontefice».

Quindi De Gasperi, chiaramente legato al Vaticano, mentre assicurava Lussu di essere contrario al referendum, suggeriva agli americani che fossero le potenze vincitrici ad imporre la consultazione referendaria, aggiungendo che essi avevano tutto il diritto di farlo in base alla dichiarazione di Mosca dell’autunno 1943.

Oltre al governo inglese, che naturalmente era filomonarchico, anche il dipartimento di Stato americano il 20 gennaio 1945 dichiarava di essere «giunto alla conclusione che un referendum con una adeguata supervisione costituirebbe una espressione della volontà popolare più sicura di quanto non farebbe una assemblea costituente». Restava però da superare lo scoglio del decreto luogotenenziale n. 151. L’ammiraglio Stone mise allora al lavoro i suoi consulenti legali, i quali, dopo avere anche interpellato una commissione di giuristi italiani, il 30 agosto, espressero una opinione inappellabile: la validità del decreto era totale ed i cavilli sollevati risibili.

Ma, poiché i vincitori, giustamente, delle leggi se ne fregano, il nuovo segretario di Stato americano, James Byrnes telegrafava all’ambasciatore Kirk: «Non siamo d’accordo con il parere dei consulenti legali della commissione alleata sull’Assemblea Costituente (...) L’attuale governo che ha il potere di provvedere alla formazione di questa assemblea, può anche stabilire la procedura e restringerne le competenze al compito essenziale di redigere la nuova costituzione», tanto più, prosegue il telegramma, che in Italia «esiste un regime legittimo, sottoposto ad obblighi verso gli Alleati».

Quindi gli Alleati, in armonia anche con gli interessi dei partiti di centro-destra, imposero all’Italia il seguente programma articolato su quattro punti: 1) le elezioni amministrative avrebbero preceduto quelle per la Costituente; 2) la questione istituzionale sarebbe stata decisa con referendum popolare; 3) il decreto luogotenenziale n. 151 sarebbe stato sostituito da un altro decreto governativo; 4) il governo e non la Costituente avrebbe mantenuto il potere.

Il 10 dicembre 1945 De Gasperi formava il suo primo governo ed immediatamente si metteva al lavoro. Il 5 gennaio 1946 si recava dall’ammiraglio Stone al quale chiese di ricevere ordini scritti. Gli ordini scritti arrivarono ed Alcide ne rese partecipi il 21 febbraio gli altri membri del governo che, dopo le proteste di rito, accettarono di buon grado la limitazione dei poteri della Costituente, le elezioni amministrative anticipate ed il referendum istituzionale.

Questa lotta a colpi di decreti luogotenenziali e di imposizioni angloamericane tra referendisti ed anti-referendisti, faceva comunque parte della coreografia elettoralesca al fine di coinvolgere la classe operaia in questa ’grande battaglia’ per la libertà, per l’avvenire, per il progresso della patria: gli uni, contro la monarchia sabauda che aveva consegnato l’Italia al fascismo; gli altri, contro il comunismo che voleva consegnarla ai russi. Comunque si fosse votato, si sarebbe votato per il bene della patria e, di conseguenza, contro gli interessi del proletariato.

I partiti di sinistra cedettero sul referendum, oggetto dei loro violenti attacchi; i partiti di destra cedettero sull’obbligatorietà del voto da imporsi con sanzioni penali. I partiti di destra, che avevano voluto le elezioni amministrative prima di quelle politiche, chiesero ed ottennero, poi, che ciò non avvenisse nelle maggiori città italiane, contro il parere delle sinistre che qualche giorno prima avevano ’combattuto’ per la stessa cosa. Ogni partito cedette su qualche punto per guadagnare su qualche altro, rinnegando di volta in volta quello che aveva sostenuto il giorno prima e si rimangiò quello che aveva solennemente giurato che mai avrebbe accettato. Ma dietro questi aspetti meschini e ripugnanti del politicantismo della putrescente borghesia, stava qualcosa di ben più importante.

«Significa – scrivevamo su ’Battaglia Comunista’ l’8 marzo 1946 – che l’esito delle elezioni è già deciso, e che il famoso verdetto popolare da cui, come nel vuoto, per una libera e spontanea decisione, dovrebbe emergere la chiara volontà del popolo italiano, è già stato elaborato dietro le quinte attraverso consultazioni tra i partiti dominanti e rispecchierà, grazie ad un abile gioco di garanzie reciproche, questo specifico accordo».

Le elezioni non potevano che rispecchiare accordi tra vertici di partiti, non certo lo scontro tra contrapposti programmi politici che non esistevano. Chi avesse voluto mettere a confronto i programmi di democristiani, nazional-comunisti, socialisti, liberali, monarchici, repubblicani, non avrebbe trovato in essi che formule di tipo ’solidarietà’,

’ricostruzione’, ’unità nazionale’, ’popolo’, ’sacri confini’, insomma le medesime formule che, negli anni precedenti, aveva recitato il corporativismo fascista e la cui lontana origine può essere ricercata nelle encicliche sociali dei papi. Non era un caso quindi che i cattolici potessero apparire in veste socialista ed i socialisti in veste cattolica, che i monarchici si fossero trasformati in costituzionalisti ed i liberali in ’progressisti’. E tutti insieme erano soprattutto d’accordo perché tanto gli accordi quanto gli scontri dovessero essere fatti in nome degli interessi nazionali, della patria e del popolo, per raggiungere qualcosa ben più importante della «tregua istituzionale»: la tregua della lotta di classe.

Che si fosse trattato solo di una commedia inscenata per distogliere il proletariato dai suoi reali problemi di classe lo si capisce anche da una lettera di De Gasperi, inviata a Don Sturzo il 3 marzo. De Gasperi, dopo avere rammentato le posizioni di ’principio’ ed ’irrinunciabili’ poste dai vari partiti ed il loro successivo unanime accordo raggiunto, dice: «Pacciardi stesso coi suoi, pur protestando, se ne rimane fuori dalla Consulta per non ostacolare con la sua intransigenza il compromesso raggiunto (...) La crisi economica, la situazione esterna, tutto questo spinge istintivamente a ricorrere a quell’arbitrato popolare (il referendum, n.d.r.) al quale avevo pensato io stesso a Salerno, come ad una valvola di sicurezza».

Ecco come, nel mezzo di tutta questa armoniosa collaborazione era stata trovata la soporifera illusione dietro la quale fare agitare il proletariato, e questa fu data dall’alternativa: monarchia o repubblica?

Fummo gli unici ad estraniarci dal partecipare alla grande parata elettoralesca mettendo in guardia il proletariato che «la Costituente repubblicana sarà una variante democratica della Costituente fascista. Nella storia delle crisi più profonde abbattutesi sul regime della borghesia, la Costituente appare ogni volta come l’estremo tentativo di risalire la crisi e imbrigliare e smorzare lo sforzo offensivo dell’avanguardia del proletariato: allora è il capitalismo che vince; diversamente è la marea montante della rivoluzione che spazza via la Costituente, ridicolo argine del conservatorismo battuto in breccia, e si fa allora l’ottobre bolscevico» (’Battaglia Comunista’, n. 15, maggio 1946). E dalle colonne del nostro giornale non ci stancavamo di negare «alla Costituente non solo la capacità di risolvere i problemi della classe operaia, ma la cosiddetta funzione progressiva alla quale i cosiddetti partiti di ’sinistra’ si appellano per smerciare di contrabbando fra le masse l’avariatissima merce del riformismo. Noi diciamo agli operai che la Costituente e la lotta per la Costituente sono una solennissima truffa, la stessa truffa di quella famosa solidarietà nazionale, di quella collaborazione fra le classi, di quell’interesse superiore della patria, nel cui nome si invitano i lavoratori ad ’accantonare’ (come si dice oggi) la lotta di classe e la difesa dei loro più vitali interessi contingenti e lontani» (’Battaglia Comunista’, n. 16, maggio 1946).
 

Muore la Monarchia non la Dittatura borghese

Intanto Vittorio Emanuele III, memore delle tradizioni sabaude, il 9 maggio abdicava a favore del principe Umberto ed il giorno successivo prendeva la via dell’esilio con il compiacente ’non so nulla’ del governo e lasciando ai giuristi ed ai tecnici della politica parlamentare l’impaccio di risolvere il problema della costituzionalità o meno del nuovo re e, a quest’ultimo, il buffonesco compito di giocare per pochi giorni a fare il monarca. Vittorio di Savoia partiva portandosi dietro i pochi ’effetti personali’ che era riuscito a stipare all’interno dei suoi 53 bauli ed i ricordi delle sue variopinte esperienze politiche: dal giolittismo al fascismo al badoglismo. Il vecchio monarca trovò alfine rifugio e riposo in Egitto, la terra delle mummie. Mummia sì ma non fesso, ché partì solo dopo avere avuto assicurazione dal governo britannico che sarebbe tornato in possesso dei quattrini da lui imboscati (anche in tempo di guerra) all’interno dei sicuri forzieri della perfida Albione.

L’abdicazione di Vittorio Emanuele, nel tentativo di condizionare positivamente la libertà di scelta degli elettori, tendeva ad alterare a vantaggio della Corona l’equilibrio instaurato di forza con la ’tregua istituzionale’ imposta dai vincitori. Ma anche questo escamotage del vecchio monarca non provocò eccessive proteste, specialmente da parte del PCI. L’unica cosa che l’intransigente Togliatti volle mettere in chiaro fu che, negli atti ufficiali intestati ad ’Umberto II Re d’Italia’, venisse eliminata la formula ’per grazia di Dio e volontà della Nazione’.

Il 2 giugno un altro angoscioso dubbio sorse a turbare le coscienze degli esperti costituzionalisti: il Re vota? A rigor di logica non dovrebbe votare né nel caso che sia monarca ’per grazia di Dio’ né che lo sia ’per volontà della Nazione’, ma Umberto non era né l’uno né l’altro e quindi il problema si poneva. L’unica maniera seria per risolvere la questione sarebbe stata quella adottata dai rivoluzionari russi nei confronti dello Zar Nicola II, ma Togliatti, in Italia, non avrebbe certo permesso che una simile barbarie venisse compiuta. Nemmeno la giurisprudenza poté dare una risposta definitiva, e poiché non fu possibile rintracciare alcuna norma o disposizione, si pensò di ricorrere alla tradizione, anch’essa, in mancanza di regole scritte, fonte di diritto: il Re aveva mai votato? Anche questa domanda sarebbe rimasta senza una risposta se, alla fine, non fosse uscito fuori un vecchio maggiordomo il quale affermava che una volta, tanto e tanto tempo fa, aveva accompagnato Vittorio Emanuele III a votare. La testimonianza del maggiordomo in pensione fu sufficiente a sciogliere il nodo ed a re Umberto II venne concesso il democratico privilegio di recarsi ai seggi elettorali. Ma con la raccomandazione, da parte di De Gasperi, di deporre cavallerescamente la scheda bianca nell’urna. Sembra che la risposta del re sia stata: «Ci puoi contare».

Durante la serata del 3 giugno dal Ministero dell’Interno venne data la notizia del successo repubblicano e la mattina del 4 i giornali uscirono in varie edizioni straordinarie annunciando la sconfitta della monarchia, anche se i dati ai quali si riferivano questi risultati erano ancora parziali. Infatti soltanto il giorno 5 il ministro degli Interni, Romita, annunciava i risultati «praticamente» definitivi delle votazioni: 12.182.000 voti per la repubblica e 10.362.000 per la monarchia.

Due giorni dopo, però, un gruppo di professori dell’Università di Padova presentavano un ricorso nel quale la vittoria repubblicana veniva contestata: anche ammesso che i voti a favore della monarchia fossero stati di numero inferiore rispetto a quelli favorevoli alla repubblica, i professori dell’università patavina facevano notare che all’articolo n. 2 del decreto legislativo del 16 marzo 1946 si parlava esplicitamente di «maggioranza degli elettori votanti» e votanti erano tutti coloro che si erano recati alle urne, anche se avessero consegnato la scheda bianca oppure nulla. Quindi prima di proclamare la vittoria della repubblica bisognava sapere il numero complessivo dei votanti e non il numero dei voti riscossi da ciascuno dei due opposti schieramenti.

Di fronte a questa nuova ’imprevista’ (?) obiezione, De Gasperi disse che non vi era altro che aspettare altri due giorni, vale a dire fino al 9, quando la Corte di Cassazione sarebbe stata in grado di pubblicare tutti i dati inerenti al referendum. La Corte Suprema, da parte sua, rimandò di un giorno la data storica, fissando la cerimonia per il giorno 10. Ma anche il 10 giugno il presidente della Corte, Pagano, si limitava a leggere un verbale nel quale erano riportate le cifre già conosciute, ossia quelle praticamente definitive dei voti ottenuti da monarchia e repubblica; mentre rimandava ad una futura comunicazione il numero delle schede nulle e bianche, i voti delle sezioni ancora mancanti e soprattutto un giudizio finale sulle contestazioni.

A questo punto De Gasperi, a nome del governo imponeva il suo diktat ad Umberto: il conto dei voti e l’interpretazione delle leggi valgono poco, quello che contava era che il re se ne doveva andare ed alla svelta. E così fu. Dopo avere valutato che nessuno, né Londra, né Washington e nemmeno la Chiesa nutrivano più che una generica simpatia per la Corona (quello che a tutti importava era invece la pace sociale), Umberto, alla chetichella, il 13 giugno partì in aereo per destinazione ignota.

La Chiesa cattolica aveva espresso più che una generica simpatia per la Corona, aveva compiuto in suo favore dei gesti significativi, con interventi anche personali del papa in appoggio alla monarchia, però, come è sua bimillenaria tradizione, si era ben guardata dal compromettersi in modo aperto. Anche ’Rinascita’ del maggio-giugno 1946 riconosceva che «L’Osservatore Romano aveva a sua volta dichiarato illecito ogni tentativo di costringere gli elettori a votare per la monarchia in nome della religione».

Il 1° maggio 1946 l’incaricato d’affari americano Harold Tittman riassumeva in questi termini la posizione della Chiesa sulla questione istituzionale: «La tendenza del Vaticano è indubbiamente monarchica, ma non ci sono indicazioni che esso sia disposto a prendere un atteggiamento energico in difesa dell’istituzione (...) Il loro scopo è di mantenere i migliori rapporti possibili con il governo italiano, qualunque sia la sua forma» (Caretto-Marolo, Made in USA). I partiti di sinistra, sostenitori della repubblica erano stati bollati dal clero come nemici della religione; il cardinale Salotti in una lettera pastorale aveva scritto: «I nemici di Dio e della Chiesa andranno alle urne compatti, i cattolici devono fare lo stesso»; Pio XII, rivolto alle donne che avrebbero votato per la prima volta, le aveva richiamate al «dovere di fermare la corrente che minaccia di minare le fondamenta delle famiglia». Ma, in definitiva, il Vaticano, la Chiesa, il clero avevano più a cuore la vittoria della Democrazia Cristiana che non la salvezza dell’istituto monarchico. La Chiesa pensava ai suoi interessi, e non voleva e poteva giocarseli nel caso, assai probabile, che la repubblica avesse preso il sopravvento.

’Battaglia Comunista" del 15 giugno titolava la sua prima pagina: ’La Monarchia è Morta: la Repubblica Borghese ne Continuerà Degnamente le Tradizioni’. Il nostro giornale denunciava il ruolo dei partiti di sinistra che, sfruttando la loro grande presa sulle masse proletarie e popolari, avevano riassorbito l’urto di classe all’interno della legalità borghese. «Hanno dato mano alla ristabilizzazione borghese nel momento più critico dello sfasciamento dello Stato dopo il clamoroso crollo dell’armamentario fascista». Il partito prevedeva anche che la collaborazione dei social-comunisti con il governo sarebbe ancora continuata perché «alla società borghese la loro sapienza di medici curanti è ancora necessaria: sono ancora essi a dare il tono alla democrazia e sono ancora essi, in nome delle ’forze del lavoro’, a dar consistenza alla politica della ricostruzione nazionale e della concordia fra le classi. Il loro appoggio è tutt’ora una necessità vitale per questa società capitalista che può reggere al terribile urto della guerra e delle conseguenze della guerra alla sola condizione di impegnare il proletariato a sacrificare se stesso, le sue rivendicazioni immediate, il suo compito storico, la sua battaglia rivoluzionaria, al pacifico, normale funzionamento della macchina produttiva capitalistica».
 

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Dall’Archivio della Sinistra
 

Non il popolo italiano, ma i suoi cosiddetti rappresentanti, dopo una gravidanza di diciotto mesi, partorirono la seconda costituzione repubblicana. La prima era stata promulgata dai fascisti a Verona il 14 novembre 1943 ed era di gran lunga più a... sinistra. Forse perché a Verona Togliatti e Nenni non erano stati invitati!

Ebbe l’onore di dare il solenne annuncio di questa seconda costituzione repubblicana un uomo che negli anni 1920-21 era stato un militante comunista rivoluzionario di primo piano e quindi conseguentemente antiparlamentare ed antidemocratico, mentre ora, alla fine della sua degenerazione politica si era trasformato in perfetto – per usare la definizione di Orlando – homo parlamentaris e presidente dei costituenti.

Non staremo a perdere tempo nell’analisi dei vari punti della carta costituzionale perché proprio non ne vale la pena. Diremo soltanto che i costituenti sfornarono semplicemente un documento di democrazia formale e di demagogia pura, il più pretenzioso ed il più astratto che potesse esser fatto: vi si parlava di indipendenza nazionale per un paese che viveva (e vive) sotto il giogo diretto dell’imperialismo. Si parlava di obbligo di provvedere pane e lavoro a tutti, mentre, proprio in quei giorni veniva concordato tra padroni e sindacati lo sblocco dei licenziamenti, il valore dei magri salari bloccati era in continua vertiginosa caduta, i proletari italiani venivano (dal governo papalin-comunista) venduti ed avviati come schiavi nelle miniere francesi e belghe dietro compenso in sacchi di carbone. Si parlava di giustizia uguale per tutti in un paese di disuguaglianza sociale; di decentramento amministrativo in un regime di accentramento statale e di altre favole buone solo per i gonzi che ancora credevano all’afflato della società liberale o alla virtù redentrice della ’democrazia progressiva’.

Costò poco ai signori costituenti proclamare, per bocca dell’ex comunista Terracini, che, fatta la legge, bisognava esserne i servitori più scrupolosi e fedeli. La società borghese è piena di leggi buone ad unger la corda al proletariato e di uomini che hanno tutto l’interesse a servirle.

Quanto ai rivoluzionari essi non hanno mai accettato le Costituzioni sfornate dai rivoluzionari borghesi, e a maggior ragione non accettarono quella post-fascista. La repubblica italiana si diede il suo statuto; solo i rivoluzionari che avevano cessato di esser tali, solo i Terracini, poterono riconoscerlo ed accettarlo.

In nome dei loro alti ideali patriottici e democratici, in nome delle reverenza e della sottomissione a quella carta costituzionale che loro stessi avevano generato, i costituenti, prima di sciogliersi, pensarono bene di assicurarsi un comodo e ben remunerato posticino caldo nel senato repubblicano. Così il popolo italiano ebbe il piacere e l’onore di sopportare sul groppone, a vita, non solo lo Statuto, ma anche chi gli aveva dato i natali.

Lo stesso giorno in cui la costituzione repubblicana, democratica e comun-papalina venne promulgata, a Canicattì tre proletari caddero sotto il piombo della polizia. In nome della Libertà, dell’Uguaglianza, della Fratellanza, della Democrazia... progressiva.
 
 
 
 
 
 


Da ’Prometeo’, marzo 1947.
ABBASSO LA REPUBBLICA BORGHESE – ABBASSO LA SUA COSTITUZIONE
 

Il dibattito sulla costituzione della repubblica italiana è stato già definito come un compromesso tra ideologie diverse e contrastanti. La sottile malignità di Nitti ha distribuito alla massa dei suoi tanto più giovani colleghi una autorevole patente di asinità, scherzando sulla combine di morale cristiana e dialettica marxista. Non meno ovviamente si risponde che la politica non è che l’arte del compromesso, che il problema dell’oggi non è che politica – politique d’abord – e che le questioni di principio erano di moda trent’anni fa. Oggi tutti quelli che di politica fanno professione le considerano fuori corso, e si sentono ad ogni passo anche vecchi militanti di sinistra chiedere con aria stanca di raffinati: non vorrete mica fare tra le masse quistioni di teoria?!

Lasciamo dunque per il momento da parte le dottrine e il chiaro assunto che quella religiosa e quella socialista sono incompatibili. Segnamo solo un innegabile punto di vantaggio a questo riguardo che i cristiani e i credenti in genere sono in grado di vantare sui sedicenti marxisti. Chi segue un sistema religioso è dualista, ossia pone su due piani e in due mondi distinti i fatti dello spirito e quelli del mondo materiale. Sui dogmi oggetto di fede non transige, e può benissimo tenerli salvi ed indenni nel settore spirituale e teoretico mentre fa mercati nel campo degli atti pratici, dei fatti e degli interessi materiali. Questo vantaggio sta alla base della grande forza storica della Chiesa, duttile e volubile nella sua politica e nella sua attività sociale, rigidissima sui capisaldi della teologia. Quindi il cristiano, che come militante politico addiviene al miscuglio di opposte direttive nelle quistioni dello stato terreno, e dei rapporti tra le classi e i partiti, non tradisce i suoi principii, o almeno non è costretto ad ammettere di averne subordinato il rispetto a questioni di bassa convenienza.

Così non è per il marxista, il cui sistema si basa sulla diretta derivazione delle ideologie dallo stesso mondo materiale in cui si svolgono i fatti, e i rapporti degli interessi che divengono forze reali. Questi non possiede una comoda cassaforte dove riporre, mentre fa commercio di fatto con i propri avversari nel campo pratico, una sua intatta dottrina. Quando i delegati degli opposti partiti e delle opposte classi trafficano tra loro e convengono su un accordo intermedio alle loro posizioni di partenza, chi segue o dice di seguire il materialismo storico non ha il diritto di contestare che sia avvenuto il ’commercio dei principi’ rimproverato da Marx ed Engels ai programmi socialdemocratici. Poiché alla pratica, alla effettiva meccanica della collaborazione, non può non corrispondere nei cervelli una eguale frammistione e contaminazione delle opinioni.

* * *

Procuriamo dunque di vedere alcune delle quistioni più notevoli su cui si discute a proposito della nuova costituzione, senza sfondare la porta aperta che i testi di compromesso che vengono fuori dalla discussione, e meglio dalla manovra, sono dal punto di vista teorico semplicemente pietosi nella sostanza come nella forma; ma attenendoci ai rapporti concreti e al gioco delle forze storiche.

Vi è la questione della laicità dello stato, ridotta al cavillo di menzionare o meno in un articolo della costituzione il patto tra l’Italia e il Papato stipulato da Mussolini, che però tutti sono d’accordo nel volere rispettare.

Nulla di più esatto, storicamente, che dichiarare chiusa la quistione romana, e nulla di più vano e sterile che il voler risuscitare su questo punto il vecchio schieramento dei blocchi anticlericali secondo il metodo che i socialisti marxisti già liquidarono prima del 1914 rompendola con le ideologie e la politica della borghesia massonica. A tal proposito entrambi i partiti socialisti hanno dimostrata la stessa vuotaggine, ed il contenuto veramente reazionario e di estrema destra di tutto lo schieramento, che condividono con i gruppetti repubblicani e consimili, e qualche cadavere di liberale.

La quistione è storicamente superata su scala sociale se si considera la generale evoluzione del capitalismo e della politica della Chiesa, e soprattutto su scala locale se si (pon mente) alle vicende dello Stato italiano.

La rivoluzione borghese che instaurò la democrazia trovò come ostacolo ed avversario di prima forza la chiesa, in quanto la organizzazione, l’inquadramento gerarchico di questa e la stessa sua vasta funzione economica facevano blocco con il regime delle aristocrazie feudali. La dura lotta economica e sociale si riflette in una lotta ideologica, sicché la filosofia borghese fu antireligiosa e la politica della vittoriosa e giovane classe capitalista fu antichiesastica. I tentativi di restaurazione del vecchio regime trovarono solidale la chiesa, e quindi tutte le misure della borghesia nel rafforzare le proprie conquiste di classe furono decisamente anticlericali. Tuttavia quando il clero comprese che non era più possibile evitare socialmente il trionfo del capitalismo, esso cessò di scomunicarlo, e ovunque si affiancò, in un processo più o meno complicato nei dettagli, al nuovo ceto privilegiato. Il contrasto teorico tra la religione e i fondamenti dell’economia e della politica borghese prima si sbiadì, poi scomparve, come riflesso della alleanza tra gli stati maggiori del capitale e della chiesa. Non staremo a riportare la dimostrazione, esatta, che non vi è contrasto tra l’etica e il diritto capitalistico ed una visione fideista.

La classe operaia, alleata rivoluzionaria della borghesia nascente, fu a lungo trascinata sullo slancio di un giacobinismo letterario e retorico, e il succo della politica massonica fu di fare di questo mangiapretismo un diversivo alla lotta di classe ed una maschera al vero obiettivo che la politica proletaria, una volta uscita di minorità ed acquistato un moto storico autonomo, trovava nell’abbattimento del privilegio economico e sociale.

In Italia tale svolgimento ebbe ben noti aspetti particolari. Lo Stato nazionale non si era formato nel periodo preborghese, e tra le cause vi era il fatto che in Italia aveva sede la massima chiesa a base mondiale. La giovane borghesia unitaria fu tremendamente antipapale e anticattolica: nel 1848 non esitò ad espellere il papa da Roma, nel 1870 fece quel che tutti sappiamo.

La chiesa cattolica fu costretta a compiere in Italia al rallentatore la sua manovra storica generale di benedire l’avvento dei regimi capitalistici e conciliarsi con essi. Da Cavour a Mussolini; finalmente ci arrivò come in tutti gli altri paesi aveva fatto.

Una volta di più si dimostrò il carattere del metodo cattolico. Il fascismo nei suoi dubbi abbozzi ideologici era inaccettabile nella dottrina per il tentativo di spostare su nuovi miti, con la sua mistica della nazione e dello Stato, i valori religiosi, cosa che fece poi più radicalmente in Germania. Ma la sua politica pratica offrì la possibilità di consolidare negli istituti presenti l’influenza dell’inquadramento chiesastico, e convenne subito approfittarne.

La meccanica fascista e quella cattolica nell’ordine economico sociale conducono infatti ad una stessa prassi conservatrice, e questo era il punto sostanziale.

Questo status quo non dà fastidio alla attuale repubblichetta il cui riformismo e progressismo è avviato dalla storia sulla stessa strada.

Ma come potrebbe l’attuale governo italiano, senza vera sovranità e senza forza materiale, più o meno delegato o tollerato dalle grandi forze mondiali, permettersi in questo campo novità ed iniziative? Evidentemente nel nuovo clima storico susseguito a due guerre mondiali, in cui l’organismo borghese dirigente italiano si è misurato e si è rotto le costole per sempre, non si tarderebbe ad avere una nuova legge internazionale delle guarentigie, analoga a quella nazionale del 1870 sorta dalla regolazione unitaria dei rapporti tra i vari Stati e regioni cattoliche della penisola con il Vaticano. Questo non si porrebbe più quale un pari contraente di fronte all’Italia, come nella puerile finzione del famoso articolo 7, ma in un piano superiore.

Nella moderna fase totalitaria del capitalismo è facile prevedere una regolamentazione pianificata mondiale anche del fattore religioso. Al fianco dell’UNO vedremo probabilmente l’U.C.O. (United Churchs Organization).

La chiesa di Roma non si trova a controllare la maggioranza dei credenti nelle più potenti nazioni del mondo, America, Inghilterra, Russia. Essa non può non aspirare ad una funzione unitaria cristiana. Nella sua azione politica chiama oggi i partiti che ispira ’democratici cristiani’, ’cristiani sociali’, ’popolari’, mai ’cattolici’. Con ciò al solito non elude la sua dottrina, poiché la riforma fu quistione di dogma e di rito, ma l’etica sociale può essere la stessa per tutti i cristiani, se non per tutti i religiosi. Quindi gli abbozzi che si ebbero dopo l’altra guerra per una Chiesa unitaria avranno a ripetersi, sotto nuova forma, e già si parla di una Internazionale cristiana. Un grande paese in maggioranza cattolico, la Francia, che sembrava qualche decennio fa guadagnato all’ateismo militante, ha visto sorgere dal nulla un potente partito cattolico.

Nella nostra visione marxista noi consideriamo invece storicamente che le chiese riformate sorsero in corrispondenza di una adesione anticipata del fideismo al mondo borghese che sorgeva, ed oggi la Chiesa di Roma conciliandosi col regime mondiale del Capitale si mette al passo con quei precursori. L’ultimo atto di questo svolto storico furono i patti del Laterano. Meravigliarsi che lo Statuto della Repubblica sia più legato al Vaticano di quello della Monarchia è ingenuo. La quistione sa di rancido, e in ciò Togliatti ha ragione.

Lo slogan liberale del laicismo fa ridere. Di individui laici si poteva parlare quando tutta la società era controllata da una gerarchia religiosa e i chierici erano in potere di convalidare non solo gli atti politici e giuridici, ma anche quelli scolastici e culturali, monopolizzando tali funzioni in un inquadramento stabile e cristallizzato. Tentando di agire fuori di questi rigidi schemi e di romperne il conformismo feroce, ben facevano opera laica Dante, gli umanisti del Rinascimento, Galileo, Vico, Bruno, Telesio, Campanella, benché di essi alcuni fossero frati. Il primo laico, nel mondo d’occidente, fu Cristo, contro il chiericume degli scribi e dei farisei. Laico dovette essere Cavour e laico lo Statuto Albertino, poiché non potevano procedere se non spezzando i poteri di diritto divino nella penisola, le investiture di Roma e le manomorte.

Oggi che il Sillabo più non tuona contro l’economia ufficiale capitalistica e il diritto romano-napoleonico, sotto lo stesso baldacchino conformista si muovono tutti quelli che, pur vantando intenti riformatori e progressivi non meglio identificati non sono schierati in una lotta istituzionale dall’esterno per rovesciare ed infrangere autorità e gerarchia di un ordine costituito.

Lo stesso fatto di scrivere incerto è sintomo di una fase di conformismo. Quando storicamente le costituzioni ebbero una ragione ed un contenuto, esse seguivano ad una lotta rivoluzionaria, ne erano il riflesso, la loro stesura fu rapida e diritta nelle fiamme dell’azione. Sancirono come carte e dichiarazioni di una nuova classe vincente principii in contrasto stridente col passato, un gruppo omogeneo le affermò e proclamò con ideologie a netti contorni. In epoca successiva le costituzioni ’concessive’ dei principi segnarono la presa di atto di una irrevocabile situazione rivoluzionaria, anche laddove la lotta non era stata così aperta e vittoriosa.

Oggi tutti quei signori di Montecitorio sono allo stesso grado conformisti. Chierici tutti. Voci ’laiche’ nel senso storico non ce ne sono, lì dentro, sentite. Una complicità da congrega li associa, nei loro urti, intrighi e complotti.

Nell’atteggiamento dei ’comunisti’ alla Costituente non è grave dunque lo smantellamento della tesi che uno Stato borghese e democratico-parlamentare come questa povera Italietta possa ben stare sotto le ali della Chiesa, constatazione storica del ponte gettato tra il regime capitalistico e la religione. Il grave è la pretesa di gettare un altro e ben diverso ponte tra i regimi proletari socialisti e il fideismo. Qui la rinnegazione del marxismo si ripete e si riconferma.

Ne avremmo un solo esempio storico ed è la Russia. Ivi non solo vi sarebbe libertà di coscienza religiosa (e quale mai posto nel materialismo dialettico trovano i termini ’libertà’, ’coscienza’, e la loro correlazione?), ma la stessa Chiesa, avendo rinunziato alla difesa del vecchio Regime Zarista di cui era alleata, viene oggi ammessa dallo Stato, e la sua propaganda ha collaborato in guerra con quella nazionale nello spingere le masse militari alla lotta.

La quistione è di una importanza imponente. Essa presenta due conclusioni: o quella di Togliatti che la religione e il socialismo non sono in antitesi, o l’altra che siamo in presenza di una nuova prova che il regime di Mosca non ha più carattere socialista e proletario. Comunque un’altra verità pacifica è che al fine di lanciare milioni di esseri umani nel mattatoio bellico la fede nell’oltretomba è un bene prezioso.

Poiché tutti i politici e i giornalisti stanno a chiedersi che cosa pensa il capo dei comunisti italiani quando li sorprende – ci vuole poco – con le sue mosse e le sue tesi, ci proveremo ad illuminarli col dire che egli, nel raggio del futuro praticamente indagabile dalla sua mente concreta, si chiede se la interchiesa mondiale di domani sarà o meno un monopolio e un possente atout del blocco occidentale. Nella gara a chi potrà con successo maggiore sfruttare la voga dell’odio al fascismo e al nazismo, si inserisce un’altra gara, vecchia quanto la storia umana, a chi potrà meglio utilizzare, per la sua bandiera di commercio e di guerra, la popolarità del buon Dio. Purtroppo il cumulo della sagacia della romana curia e della tenacia del pestifero puritanesimo anglosassone ci fanno vedere la bilancia pendere dal lato opposto a quello palmiresco. Togliatti ci induce a fare un po’ di credito a Dio. De Gasperi avalla la cambialetta, ma con la comoda reservatio mentis che Dio non paga il sabato... Si troverà poi sempre un Calosso per credere che ad essere fatto fesso è stato il prete.

* * *

Troppi punti offrirebbe nei suoi innumeri e malconnessi articoli il progetto di costituzione, e il suo rabberciamento col metodo parlamentare, che più che mai mostra di essere putrescente.

Si è voluto dare un contenuto comune a tutti i gruppi del presente aggregato politico, derivati, come si deve far credere al grosso pubblico, dall’abbattimento del fascismo, trovando una nota, una almeno, accettabile per tutti. Se andiamo in senso contrario alla ’statolatria’ fascista, non ci resta che fare leva sull’Individuo e sulla sacra ed inviolabile dignità della persona umana. E d’altra parte abbozzare alla meglio un decentramento burocratico colla creazione di altri organi parassitarii e confusionisti – se non camorristici – quali saranno le amministrazioni regionali. Temi tutti che si prestano a suggestive illustrazioni.

Lasciamo la teoria. Mentre la realtà di oggi dimostra la sua caratteristica saliente nello irretire, nel soffocare quel povero individuo, quella disgraziata persona, nelle strette senza complimenti dei centri organizzati, mentre gli stessi Stati minori perdono ogni residuo di funzione autonoma in tutti i campi ad opera delle pressioni e dei brutali interventi dei grossi mostri statali (vedi per ultimo episodio il colpo di tallone in Grecia e Turchia), qui ci corbelliamo col ricostruire cartaceamente la lacerata libertà del singolo e della regione.

Su quei principii ’sacri e inviolabili’ convengono nel nirvana conformistico tutte le multicolori ideologie rappresentate a Montecitorio: trascendentalisti cui occorre dare all’individuo il libero arbitrio (poiché altrimenti come farebbe dopo morto ad andare all’inferno?); immanentisti che, dalla libertà dell’IO di attuarsi nella etica dello Stato, debbono derivare la facoltà di disporre vuoi del proprio patrimonio vuoi del proprio lavoro, ossia la libertà di comprare e di vendere tempo umano; materialisti e positivisti che, avendo tra tutti fatto un informe pasticcio di marxismo, da un lato col più volgare cinismo, dall’altro colla più lacrimogena filantropia, non sapevano quale parola più comoda della libertà potesse indurre gli elettori a fare la estrema fesseria di designarli a prendere il posto dei gerarchi di Mussolini.

Quando una cosa è divenuta sacra e inviolabile per tutti, in quanto in quattrocento discorsi non uno tenta di intaccarla, questa è la prova certa che se ne fregano tutti nella stessa suprema misura. Vada questo finale conforto al cittadino elettore che si paga al prezzo di borsa nera la compilazione della carta costituzionale.

* * *

Vi è il piatto forte nel contenuto economico e sociale della costituzione repubblicana. Si fa il passo audace di menzionare qua e là insieme al cittadino anche il lavoratore. Abbiamo una repubblica fondata sul lavoro, o sui lavoratori? L’uno e l’altro, in quanto tutti gli Stati borghesi odierni sono fondati sullo sfruttamento sia del lavoro che dei lavoratori da parte del capitale. Come le fondazioni sopportano il peso dell’edifizio, così i lavoratori italiani tengono sulle spalle il peso di questa repubblica fallimentare.

Le espressioni letterarie sono state felici. La più comoda era stata purtroppo sfruttata dai fascisti: L’Italia è una repubblica sociale.

Anche questa evoluzione di attitudini è perfettamente consona a tutto lo sviluppo del ciclo borghese. Agli inizi la mentalità e l’ordinamento democratico non tollerano che si parli di lavoratore e non di cittadino, di questione sociale e non politica. Il cittadino può credere di essere uguale a tutti gli altri, il lavoratore capisce di essere uno schiavo. La politica del Capitale è uguaglianza di diritti, la sua sociologia è lo sfruttamento.

Ma in un secolo la difensiva borghese ha avuto agio di cambiare i suoi fronti polemici. Riformismo prima, fascismo dopo, hanno portato sulle scena le misure sociali ed il lavoro. Non riportiamo qui questa dimostrazione, che è al centro di tutto il nostro compito di analisi e di ricerca.

Il liberale e il giacobino puro non esistono più. Il sindacato economico proibito nella prassi iniziale della rivoluzione borghese viene prima ammesso, poi corrotto, poi inquadrato nello Stato. Il gioco delle iniziative economiche che all’inizio deve per sacro canone (versione diretta di quello sgonfione della inviolabilità della persona) essere incontrollato, vede interventi sempre più fitti e diretti del potere politico, in nome dell’interesse sociale!

Ma al mondo liberale borghese puro e socialinterventista, contrapponiamo, noi socialisti conseguenti, una idealizzazione, una mistica, una demagogia del lavoro e del lavoratore? Mai più. Ecco un altro punto che merita di essere chiarito e liberato da ostinate incrostazioni.

Quando gli schiavi lottarono per emanciparsi, proposero una repubblica di schiavi, o una senza schiavi? gli operai di oggi lottano per una società senza salariati.

È fare filosofia definire il lavoro come attività umana generale sulla natura senza dedurne subito l’analisi dei diversi rapporti sociali in cui il lavoro stesso si inquadra. La lotta proletaria non tende ad esaltare ma a diminuire il dispendio di lavoro, e si basa sulle enormi risorse della tecnica odierna per avanzare verso una società senza sforzi lavorativi imposti, in cui la prestazione di ciascuno si farà allo stesso titolo con cui si esplica ogni altra attività, abbattendo progressivamente la barriera tra atti di produzione e di consumo, di fatica e di godimento.

Non per nulla i regimi fascisti parlano largamente di lavoro, e la carta mussoliniana si chiamò carta del lavoro. La stessa falsa demagogia guida la prassi ’sociale’ dei modernissimi regimi. Dove essi, tutti, scrivono di esigenze sociali noi leggiamo: esigenze borghesi di classe.

La classe operaia non può considerare come una sua conquista l’enunciato che nelle istituzioni entra il lavoratore.

Il programma di trapasso dei comunisti tra l’epoca capitalista e quella socialista non è una repubblica in cui i borghesi ammettono i lavoratori, ma una repubblica in cui i lavoratori espellono i borghesi, in attesa di espellerli dalla società, per costruire una società fondata non sul lavoro, ma sul consumo.

Il postulato politico della classe operaia non è il trovare un posto nello Stato costituzionale presente, in quanto i posticini vi sono solo ’per quelli dei membri della classe dominante che ogni tanti anni gli operai possono scegliere a rappresentarli’ (Marx).

Il suo postulato sociale non è nemmeno di trovare un posto nella gestione dell’azienda. Nemmeno la fabbrica è l’ideale cui tendono le conquiste del socialismo. Se Fourier chiamò le fabbriche capitalistiche ergastoli mitigati, Marx, ricordando le inglesi ’case di terrore’ per i poveri, dice che questo ideale si realizzò nella manifattura borghese, e il suo nome fu: ’fabbrica’! Tutto il riformismo moderno sulla tecnica produttiva non cessa di avere a scopo il prodotto e non il lavoratore; forse non tutti sanno che le recentissime fabbriche di motori in America si fanno senza finestre perché il pulviscolo atmosferico disturba le lavorazioni meccaniche di precisione, e occorre un ambiente condizionato per temperatura, umidità, etc. Da ergastolo a tomba.

Quanto ai metodi russi di ultralavoro viene anche a mente un passo di Marx: «A Londra lo stratagemma che si usa nelle fabbriche per la costruzione di macchine è che il capitalista sceglie come capo operaio un uomo di gran forza fisica e sollecito nel lavoro. Gli paga tutti i trimestri e ad altre epoche un salario supplementare, a patto che esso faccia tutto il suo possibile per eccitare i suoi collaboratori, i quali non ricevono che il salario ordinario, a gareggiare di zelo con lui...»

Basta col fare sgobbare, basta con lo spingere le masse coi metodi che derivano da quelli che si applicavano agli schiavi, se non al bestiame da lavoro e da macello. Al quale, tuttavia, non si imponeva nella costituzione di credersi sacro e inviolabile, né risuscitabile dopo essere stato mangiato.
 
 
 
 
 
 


Da ’Battaglia Comunista’, 1 marzo 1947.
LA COSTITUENTE SI DIVERTE: IL PROLETARIATOTIRA LA CINGHIA E STRINGE I DENTI
 

Se la democrazia parlamentare ha una tradizione, è quella dell’imbroglio. La democrazia parlamentare italiana non fa eccezione, e non basta cambiare il titolo del parlamento in un titolo un po’ più pomposo, da rivoluzionari dell’89, per cambiar sostanza. L’abito non fa il monaco.

Il periodo aureo della vita parlamentare italiana è stato costellato di scandali in cui furono chiamati in causa ministri e sottosegretari, deputati e senatori. Giolitti, che è, per unanime riconoscimento, l’esempio più classico e venerato del parlamentarismo, ha cominciato la sua carriera così, e non c’è stato crac bancario o crisi industriale che non abbia fatto le sue vittime (vittime per burla intendiamoci) nelle aule sofficemente tentatrici di Montecitorio. Era dunque giusto che la Costituente iniziasse i suoi lavori da dove altri avevano finito anni fa. Heri dicebamus (1): qualche vecchio spettro dell’antico parlamentarismo era forse dietro le spalle di Finocchiaro Aprile quando puntava il dito contro decine di onorevoli colleghi...

A noi, per la verità, questi scandali interessano poco. Quando la società borghese ha bisogno di nascondere le proprie magagne – e sono sempre troppe – la sua arma preferita è lo scandalo personale. Tutti i partiti ne vivono: le destre vivono sugli scandali pecuniari, veri o supposti, delle sinistre, e viceversa; i successi degli uni evocano le invettive, poniamo, di Finocchiaro Aprile; il timore di un trionfo elettorale degli altri evoca il can can sull’oro di Dongo. Non è su questo terreno che ci mettiamo noi: se fosse il caso di dire ’chi è senza peccato scagli la prima pietra’, inviteremmo tutti a lanciarla, non perché tizio sia meno onesto o più farabutto di Caio, ma perché la società borghese è marcia e, storicamente, vale tanto il profittatore smaccato quanto l’’onesto’ complice di un regime di spudorato profitto.

Se la borghesia crede utile farsi un po’ di bucato se lo faccia: morto un papa se ne fa un altro; il metodo, cioè quello che preme, non cambia.

Piuttosto, preme a noi sottolineare il carattere di classe di questa periodica giostra degli scandali. Il credente nella libertà e nella giustizia vede nella sensazionalità di quelle rivelazioni un segno di vitalità degli istituti rappresentativi: ’vedete? ragiona (ammesso che si chiami ragionare), la libertà ha la virtù di bruciare tutte le scorie, il fascismo teneva nascosto il cadavere, la democrazia non teme di rivelarlo’. E giù un bicchiere alla salute degli immortali principii.

La realtà è profondamente diversa: quello che periodicamente ci si butta davanti è un cadavere elettorale, un’arma di propaganda per quelle mostruose macchine pubblicitarie che sono i partiti borghesi moderni, un mezzo di ricatto, qualcosa nello stile dei gangster e nel metodo del più terra terra dei commercianti. Intorno al tavolo anatomico su cui dovrebbe subire l’autopsia c’è un cerchio ristretto di professionisti non della scienza e neppure della morale, ma dell’inganno: nella sala operatoria, l’interessato, il povero pantalone, il proletario, non ci mette il naso. Bastano i suoi ’rappresentanti’, per questo: e fra i professionisti del gioco parlamentare vige un solo codice cavalleresco, quello dell’omertà. Quando due partiti borghesi si attaccano con la terribile arma dello scandalo parlamentare, non crediate che stiano per far divorzio o vadano a nominare i padrini; al contrario, è un segno che stanno per sposarsi. Il torrente accusatore di Finocchiaro Aprile fa di anticamera alla mano tesa del discorso di Togliatti: per i partiti borghesi, il divorzio, quand’anche per strana combinazione fosse introdotto, in Italia pei rapporti fra i coniugi, non avrà mai diritto di cittadinanza.

È questa la ragione per cui di scandali ce ne sono stati e ce ne saranno tanti in regime borghese, ma tutto finirà come nei romanzi per le signorine di buona famiglia. Un pietoso sipario scenderà su tutto come è già sceso sui fatti determinanti dell’assalto al Viminale, sulle mangerie degli appaltatori, sulle prodezze di tutti i partiti nell’amministrazione della ’cosa pubblica’. Il silenzio è d’oro quasi quanto la parola: si strilla un giorno, poi non se ne parla più. Giacché la stessa legge che vieta a noi rivoluzionari di far dello scandalo personale su rappresentanti della putrefazione borghese, vieta ai borghesi di squalificarsi a vicenda. In definitiva rinnegare i propri fratelli è rinnegare la propria madre, la cara comune madre capitalista.

Omertà: primo capitolo del codice cavalleresco borghese. Alla Costituente, la giornata degli scandali non si risolverà mai in qualcosa di più di una giornata di allegria. Una volta ogni tanto il congresso ha pur il diritto di divertirsi!

Intanto, mentre i Soloni legiferano (e intanto prendono tempo per dimenticare e far dimenticare il trattato di pace, e le lacrime che dovrebbero comportare per gli onorevoli preopinanti, e le roventi parole di falso sdegno che dovrebbero suscitare nei corridoi e nell’aula, e le elezioni rimandate all’autunno, e tante altre commedie rinviate a quando farà più comodo ai professionisti della ’democrazia parlamentare’), il proletariato tira gli ultimi (in realtà mai ultimi) buchi della cinghia. Il prestito per la ricostruzione nazionale è passato, sono passate le forniture americane, il pane diminuisce, di carbone se ne parla solo nelle colonne dei giornali e se ne sente l’odore delizioso nelle banche e negli uffici di Montecitorio, la tregua salariale funziona a meraviglia, il cambio della moneta è un mirabile pezzo per l’oratoria di parlamentari e tribuni, ma soltanto per loro, la disoccupazione infierisce nelle città e nelle campagne, la scala mobile funziona come tutti sanno, i padroni fanno praticamente quello che vogliono anche se, in prossimità del congresso di Firenze, la C.G.L. si sbizzarrisce a fare il galletto. Ma il parlamento si diverte. E al proletariato, che diamine, deve bastare che i suoi ’rappresentanti’ si divertano.

Putrefatto mondo borghese! Su un altro piano i proletari francesi della IV repubblica assaggiano il sapore della civiltà capitalista. Blum ha offerto loro, e Ramadier ha confermato, una riduzione del 5% sui prezzi di alcuni generi, ma ha scambiato questo aumento contro la moneta di una tregua salariale protetta dalle minacciose dichiarazioni governative di voler mantenere l’ordine a tutti i costi, e di un ben più sostanziale aumento della settimana lavorativa. Niente agitazioni sociali, niente aumenti di salari: aspettare che i prezzi diminuiscano, sua pure di un 5% ridicolo perfino nella sua formulazione più elementare. E non fare i discoli, altrimenti il governo socialista-comunista-democristiano vi tratterà a suon di sfollagente, e se occorre di mitra. E addosso ai rotativisti e linotipisti, colpevoli di essere ’tra i meglio retribuiti’ e di non considerarsi retribuiti abbastanza. I socialisti al governo non si chiedono se l’operaio può vivere con quel piatto di lenticchie che gli danno i padroni col beneplacito del governo: no, si chiedono se una categoria è fra le meglio o fra le peggio retribuite. E capovolgendo i valori di classe non appoggiano i rotativisti perché, essendo fra i meglio retribuiti, hanno tuttavia il coraggio di dire che anche ad essere i primi della classe non mangiano abbastanza, e danno un buon esempio ai fratelli più timidi; no, appunto per questo, li crocifiggono all’albero della solidarietà nazionale, alla berlina pubblica dell’inefficienza. Viva il crumiraggio! è la nuova parola d’ordine dei ’progressisti’ al governo.

I proletari italiani hanno lottato e lotteranno, e, se qualche volta non se la sentiranno di fare da soli, prenderanno l’esempio dai loro compagni degli altri paesi. Anche se questi, per avventura (ed è facile ipotesi) si lasceranno nuovamente infinocchiare dai partiti che, pur essendo al governo, eludono sistematicamente la responsabilità di aver tradito e di tradire la classe lavoratrice.

Il Congresso si diverta pure: il proletariato tira la cinghia, ma stringe i denti.
 

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(1) Con questa espressione Luigi Einaudi, riprendendo a scrivere sul "Corriere della Sera", il 22 agosto 1943 (ossia nel periodo badogliano) intese riallacciarsi al suo ultimo articolo, apparso sullo stesso giornale, il 29 ottobre 1925.