Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"COMUNISMO" n. 43 - dicembre 1997
Presentazione.
– LE CAUSE STORICHE DEL SEPARATISMO BASCO    [ - 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - ].
IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO NEI PAESI DEL MAGHEREB  [ - 1 - 2 - 3 - 4 - ]
   UNA FUORVIANTE PROSPETTIVA PER IL PROLETARIATO:   NEL GRANDE MAGREB: Marocco, una relativa stabilità - Tunisia fra crisi e fondamentalismo - Mauritania, verso l’Africa più povera - Il «Libro Verde» di Gheddafi
– L’OPPOSIZIONE PROLETARIA E SOCIALISTA ALLA GUERRA DI LIBIA DEL 1911
       In appendice: - TRA PACE E GUERRA (L’ Avanguardia, 17 novembre 1912)
                                - LA FINE DELLA GUERRA DELL’ITALIA CONTRO LA TURCHIA (Lenin, 28 settembre 1912)
                                - CONTRO LA GUERRA MENTRE LA GUERRA DURA (L’Avanguardia, 25 agosto 1912)
                                - IMPERIALISMO E SOCIALISMO IN ITALIA (Lenin, Kommunist, n. 1-2).
L’IMPERIALISMO ITALIANO GUARDA AD EST.
– Appunti per la Storia della Sinistra: IL PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALISTA -
      ROTTURA DEFINITIVA CON IL NAZIONALCOMUNISMO  [ nn. 42 - 43 - 44 - 45 - 46 - 47 - 49 - 50 ].
Dall’Archivio della Sinistra:
      Dopo il convegno di Torino: Il Partito ai lavoratori italiani  (Battaglia Comunista, 1946).

 
 
 
 
 
 
 



Vede la luce, il quarantatreesimo numero della Rivista, in concomitanza con la canea che è stata sollevata per la borghese e spregevole consuetudine degli anniversari, vera occasione di marketing ideologico, che ha preso a pretesto questa volta la rivoluzione di Russia ed i formidabili e drammatici accadimenti che ne sono seguiti.

Intendiamoci, ammettiamo tranquillamente che cose corrette, storicamente parlando, possano trovarsi in moltissimi testi e studi sull’argomento; corre però l’obbligo di affermare che quest’ultima ondata strabocchevole di guano ha solo scopo propagandistico, e si esaurisce nella gara a chi sputa più veleno o la dice più pesante e sonora; e per molti di questi autori, si tratta anche di rifarsi ’certa verginità’, e riallinearsi agli odierni andazzi politici ed ideologici.

Da tempo il ’vento è cambiato’; se anni fa il marxismo, in varie salse e rivisitazioni – invero una più spregevole e carogna dell’altra – era di prammatica per la storiografia ela cultura in genere, oggi fortunatamente – per la Rivoluzione ed il Comunismo – il solo mostrare minima inclinazione per simili temi è rigorosamente bandito in ogni manifestazione, parlata o scritta. Trascorsi ottanta anni dall’Ottobre, ora che il rubinetto delle mazzette d’oltre cortina ha chiuso da tempo il suo getto, e si sono anche completamente esaurite le possibilità di carriera con la cultura ’marxistica’, è diventato d’obbligo, per aver successo nel campo culturale ed accademico e continuare parimenti ad ingozzarsi alla greppia messa a disposizione dal mondo borghese per i suoi sicofanti, rovesciare tutto il fango possibile sull’orribile passato, dimostrare la fallacia di principio dell’idea, negare ogni ipotesi e teoria di riscatto sociale, barare su tutto quanto sia possibile e se proprio anche la minima decenza e dignità di analisi indicasse qualcosa di diverso, inventarsi infine quanto storiografia onesta non possa minimamente confermare.

Ecco allora che sulle pretese macerie della ’utopia sanguinaria’ di questo inizio secolo, come la chiamano professori, scrittori e giornalisti d’ogni corrente, si è scatenata campagna furibonda che si appoggia su ogni fatto ed argomento che possa tornare utile, ed impiega un’ampia, accurata e ben orchestrata ’campagna’ di convincimento su tutti i sistemi di comunicazione che la borghesia ha a disposizione. Nella più rigorosa applicazione dello stile ragioneristico-industriale oggi in voga per ogni aspetto dell’umano vivere ed operare, si applica la contabilità dei vivi e dei morti per decidere se e quando i diversi fatti della Storia siano stati ’produttivi’, e misurarne il successo. Per certi aspetti desta anche divertimento osservare con quanta buona volontà schiere di professori, pensatori e praticanti dello scrivere che in altra temperie avrebbero elevato – ed hanno elevato – struggenti peana al radioso futuro dell’umanità, ed oggi invece rigorosamente al servizio della sempiterna democrazia d’occidente, consumano il loro tempo in questa attività di demolizione di ciò che è andato a catafascio per conto suo.

Qualcuno dei più arditi è arrivato insino a teorizzare la fine della Storia (con la ’S’ maiuscola) come conseguenza del crollo dell’impero del male ad est; ma sono vette di ardimento teoretico che non tutti si sentono di scalare. Altri, più modestamente, si interrogano se le idee che stavano alla base, siano’ colpevoli’ quanto lo sono stati i ’realizzatori’ nella prassi, e nell’ansia di tanto definire e comprendere arrivano fino a porsi angosciosi interrogativi... sulla rivoluzione francese (anno di grazia 1789). Di questo passo, perchè non spingersi oltre, tanto per dire, alla guerra dei Trenta anni, alla caduta di Costantinopoli, alla guerra dei Cento anni, alla caduta dell’impero romano d’occidente, e via di questo passo. Ci vuole davvero una formidabile faccia tosta per produrre scemenze di questa risma, e sopravvivere come se niente fosse!

Ma non basta. Da ’sinistra’, ci sono anche dei begli spiriti che si sono calcolati, sia pure con dichiarato margine d’errore, i morti ammazzati per ’comunismo’ di questo dolente secolo; 60 milioni, no, erano 50, no, conti più accurati dicono 85. E la grancassa giornalistica martella ed amplifica tutta questa gran dottrina da rotocalco, questa storiografia da romanzone d’appendice.

Tant’è, i tempi sono cambiati; gli storici borghesi che hanno affrontato negli anni passati, dal loro punto di vista, la gran questione della Rivoluzione d’Ottobre, dello Stato sovietico e dell’Internazionale, operando nel clima difficile dei tempi della guerra fredda e del grande scontro ’ideologico’ si sono volutamente mantenuti ’alti ed imparziali’, per non parer troppo di parte e forzare con la polemica i loro lavori. La polemica invero ce la mettiamo noi, affermando che questi studiosi, sia pure dalla loro parte della barricata, storiografia sul serio la facevano.

Oggi però che non solo baffone Stalin e morto e sepolto, ma anche i suoi epigoni, uno peggio dell’altro, hanno fatto bancarotta e l’opera che a lui ed ai suoi predecessori si

pretende iscrivere è crollata senza rimedio, la storia viene rivista col solo fine di celebrare le magnifiche sorti e progressive del migliore dei mondi possibili, che ha alla fine trionfato sull’osceno demone del comunismo, cui sono ascritte tutte le infamie, tutte le colpe e tutti i fallimenti del secolo.

Verrebbe davvero da chiedersi perché di tanto accanimento, se ormai il fallimento è così apertamente manifesto e i rottami sono ancora sul campo, se tutti i reduci di quella sciagurata avventura hanno cambiato radicalmente casacca o sono spariti nel gran polverone, tanto in loco che nei paesi liberi. L’argomento è davvero tanto di moda, tanto importante, da giustificare simile spiegamento d’ingegni e risorse? La domanda è retorica; quel che conta è infangare, strappare da cuori e menti anche la memoria del comunismo, la forza eversiva di quell’idea. E del pari, togliere ogni speranza, e rendere più solido il terreno, sul piano ideologico, per i colpi, e non più ideologici, che si preparano contro la classe – parola non più di moda, ma oramai grazie al cielo solo della nostra tradizione rivoluzionaria – operaia, da portare ad un terzo macello mondiale.

Non tocca certo a queste poche righe d’introduzione ai risultati teorici del lavoro di Partito, difendere l’onore della Rivoluzione e del Comunismo, infangato e abbattuto ben altrimenti dallo stalinismo, dalla teorizzazione del socialismo in un solo paese, dalla violenza omicida del partito degenerato contro gli stessi compagni che non vollero piegarsi all’infamia ed al tradimento dei principi, infinitamente più pesanti e drammatici che non le pisciate pseudostoriche di simili bande di venduti alla democrazia borghese, ai suoi miti e atroci violenze, pari come natura ed effetti a quelle che pretenderebbero stigmatizzare. Troppo facile per noi, e tanto più enorme il numero, se volessimo noi comunisti conteggiare i morti, e non soltanto di ieri, bensì di oggi, di questo preciso momento, causati dalla cosiddetta democrazia capitalistica, che per la sua sopravvivenza massacra giornalmente tre quarti dell’umanità, per accrescere a dismisura la massa del lavoro morto e dare un illusorio benessere dei suoi schiavi. Lasciamo questa gente, che solo ieri civettava sconciamente con i veri affossatori della Rivoluzione e del Comunismo, gli stalinisti ed i loro epigoni, ed oggi dimentica per rifarsi il belletto ideologico, e pare andare in deliquio al solo udire le parole Rivoluzione, Comunismo, al solo parlar di violenza levatrice di Storia; lasciamo questa gente finalmente alla classe che li foraggia, e riconosciamoli infine come avversari manifesti. Al lavoro, compagni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 



LE CAUSE STORICHE DEL SEPARATISMO BASCO
 

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Seguito del rapporto, esposto alla riunione di Torino dell’ottobre 1996.
 

L’industrializzazione e i suoi effetti

Come osservato nella prima parte, pubblicata nel precedente numero di questa rivista, la sconfitta militare del carlismo, e degli interessi di classe da esso rappresentati, aveva sgombrato il terreno per una profonda trasformazione economica e sociale nel Paese basco. Questo processo non interesserà nella stessa misura tutte le province, per prime saranno la Biscaglia (Vizcaya), e in minor misura la Guipuzcoa (regione di San Sebastian), a raggiungere il maggiore sviluppo industriale.

La crescita industriale basca in questa fase ha il colore grigio del ferro. Da tempi remoti, fin dalla invasione romana, i giacimenti cantabrici di minerale di ferro furono oggetto di interesse. Ciononostante il terreno impervio e scarso di vie di comunicazione impedì l’esplorazione completa dei giacimenti da parte di Roma, che si impossessò di miniere più accessibili in altre zone della Spagna e dell’Impero.

Fu con lo sviluppo della società industriale capitalistica il ferro di Biscaglia, povero di fosforo, fu richiesto massicciamente dall’industria siderurgica europea, specialmente dall’Inghilterra, e non fu certo scarso l’apporto di capitali stranieri, soprattutto inglesi, nell’industria mineraria basca. Questo attivo commercio procurò ai proprietari delle miniere una grande accumulazione di capitale, favorita dai provvedimenti del governo di Madrid, come, per esempio, una nuova riduzione delle imposte sulla produzione del ferro, concessa al termine della guerra carlista nel 1876. Ma già un decreto del governo aveva ridotto a partire dal primo gennaio 1863 le imposte forali che rendevano impossibile la vendita del ferro fuori della Biscaglia. Poco a poco le redini del potere economico e politico andavano passando pienamente nelle mani di questo settore dell’alta borghesia basca, che andava legando i propri interessi in modo indissolubile con il resto dell’oligarchia spagnola ed anche europea. Questo doppio fatto, l’impossessarsi del potere economico e del potere politico a detrimento degli sconfitti jaunchos, sarà uno dei fattori determinanti nel nascere dell’ideologia nazionalista.

Nella misura in cui cresceva la domanda di minerale da parte dell’industria europea cresceva la produzione di ferro in Biscaglia. In solo dieci anni, dal 1870 al 1880, con la parentesi forzata della terza guerra carlista, la produzione di ferro passò da 250.000 a 2.683.000 tonnellate. Simile incremento trasse con sé lo sviluppo dell’industria di trasformazione siderurgica, e un miglioramento e ampliamento delle vie di comunicazione, in particolare ferroviarie e dei porti: quello di Bilbao stava diventando uno dei principali porti spagnoli.

In questo periodo il Paese basco registra il maggiore incremento demografico di tutta la Spagna, la massima densità di vie ferrate, il massimo investimento e accumulazione di capitale e il massimo sviluppo nella immatricolazione di bastimenti.

Non è questo un caso un po’ atipico di colonialismo? Come abbiamo già visto il marxismo stabilisce che l’aspetto principale che caratterizza un regime di sfruttamento coloniale è esattamente l’impossibilità materiale che la colonia possa sviluppare le proprie forze produttive in senso moderno e capitalista a causa dell’oppressione esercitata dalla metropoli. Tenendo questo in conto, tutta l’impalcatura teorica che regge l’ipotesi del presunto carattere coloniale della presenza spagnola nel Paese basco, così come in Catalogna, crolla davanti alla realtà dei fatti e dimostra il suo carattere antistorico.
 

L’irrompere del proletariato moderno

La grande richiesta di braccia nelle miniere di Biscaglia attrasse numerosi proletari di altre regioni spagnole, sopratutto dalle zone limitrofe, i quali, in fuga dalla miseria secolare dei contadini poveri iberici, aspiravano a migliorare le loro condizioni di esistenza. Erano chiamati maketos perché mako era chiamato, nella zona mineraria di Biscaglia, il fagotto nel quale i proletari delle altre regioni portavano i loro miseri averi. Da allora il termine è stato impiegato, con intento dispregiativo, dai nazionalisti per indicare chi non è originario del Paese basco.

Nelle miniere di Biscaglia si pagavano salari migliori che in altre zone minerarie spagnole, però questo si accompagnava a brutali condizioni di lavoro e di esistenza e ad uno sfruttamento feroce, simile a quello di cui riferiva Engels cinquanta anni innanzi nel suo classico libro sulla situazione della classe operaia inglese. Oltre a sottostare a una durissima giornata di lavoro, che solo lo sciopero delle miniere del 1890 riuscirà a ridurre a 10 ore, i lavoratori erano ammucchiati in baracche o in tuguri carenti delle minime condizioni igieniche. Così descriveva tali locali infetti un periodico di Bilbao nel 1894: «Costruzioni di tavole di legno, con vani ristretti dove vivono affastellati esseri umani, quasi senza luce poiché le finestre sono strettissime; stare all’interno di quelle abitazioni è insopportabile per soli cinque minuti tale è l’odore che vi si sente». Oltre a questo la paga in molti casi si effettuava tramite dei vaglia con i quali i minatori erano obbligati a far acquisti negli spacci dell’impresa, originandosi in questo modo abusi e frodi di ogni tipo (truck-system).

In un primo momento le reazioni operaie contro il bestiale sfruttamento capitalista si manifestarono, proprio come riconosce il Manifesto, in lotte isolate che presto misero in evidenza la necessità di un’organizzazione più ampia. Lotte pioniere di questo tipo apparirono già nel 1872 con lo sciopero degli operai della fabbrica Nuestra Señora del Carmen in Baracaldo, o lo sciopero dei panettieri di Bilbao nel 1884, sconfitto per l’impiego dell’esercito in sostituzione degli scioperanti. Le mobilitazioni operaie che ebbero luogo nel 1890 e il loro esito parziale contribuirono grandemente a dare impulso allo sviluppo in Biscaglia del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) raggruppato intorno ad una figura carismatica, il toledano Facundo Perezagua Pérez. Questo, a seguito di rappresaglie padronali e per consiglio del massimo dirigente socialista, il sempre riformista Pablo Iglesias, si trasferì da Madrid nel Paese basco con l’obiettivo di creare nuovi nuclei socialisti. Nel giugno 1886 si costituì la Agrupaciòn Socialista di Bilbao.

Il grande sciopero del 1890 fu il primo episodio rivendicativo di grande respiro a rompere la pace sociale in Biscaglia. Il movimento si originò il 13 maggio spontaneamente nella depressione mineraria più vicina alla capitale basca, Bilbao, con la richiesta della chiusura delle baracche, del truck-system, la riassunzione degli operai licenziati e la giornata di otto ore. I minatori impedirono, con grandi picchetti l’ingresso al lavoro dei crumiri ed estesero lo sciopero ai centri metallurgici di Bilbao. Nella fabbrica La Vizcaya si ebbe una colluttazione con le forze dell’ordine borghesi con un morto e vari feriti. La risposta operaia fu la radicalizzazione del conflitto decretandosi per la prima volta in Biscaglia lo sciopero generale in tutto il settore minerario e delle fabbriche. Del carattere spontaneo e delle carenze organizzative di questo generoso movimento fanno fede le dichiarazioni del console inglese in Bilbao: «I minatori erano del tutto sprovvisti di fondi che gli permettessero di mantenersi».

La mediazione di Perezagua e dei socialisti indusse la rinuncia all’azione diretta proletaria e la trattativa di un compromesso che, nonostante tutto, si mostrava leggermente a favore dei lavoratori, benché restassero le nauseanti odiate baracche, la cui eliminazione avevano richiesto i minatori.

Gli organi di stampa riflessero bene lo spavento provato dalla borghesia grande e piccola per il movimento degli scioperi: «Il peggio è che i lavoratori hanno imparato che percorrendo vie simili a quelle ora sperimentate possono sperare in considerazione e giustizia» (’L’Imparziale’ – nostre le virgolette – del 28 maggio 1890).

Molto presto però la borghesia poté provare che, per quel che si riferiva alla direzione del PSOE, i suoi timori erano in gran parte infondati. Approfittando dell’incarceramento di Facundo Perezagua, l’ala ultrariformista del PSOE, intenzionata ad arraffare la direzione del partito in Biscaglia, così si esprimeva: «Il partito socialista è un partito nascente, che prima di tutto cerca la legalità e non la turbativa dell’ordine ne lo sterminio dei borghesi, come questi credono», mettendo in chiaro che «siamo nemici dei disordini e non desideriamo che questi siano causati dal partito socialista» (José Aldaco ad un comizio a Bilbao il 14 giugno 1891). Presto questa sarà la linea dominante di quella organizzazione, favorita inoltre dalla direzione del partito e seguita da tutti, compreso Perezagua fino alla sua rottura nel 1921 per formare, insieme ad altri scissionisti, il Partito Comunista di Spagna.

Però l’atteggiamento dei socialisti baschi di fronte ai lavoratori in questo primo periodo dovette essere per forza diverso da quello tenuto dal comitato nazionale di Madrid. Seppure capitale dello Stato Madrid restava solo un centro burocratico-amministrativo con poche industrie, mentre Bilbao stava riunendo, come stava succedendo a Barcellona, tutti i requisiti che la faranno diventare la capitale industriale del Nord della penisola, e quindi centro attivo di un movimento operaio poco controllato organizzativamente dal Partito Socialista, e per questo assai tendente all’azione diretta. Però sia in Biscaglia sia in Catalogna sia a Madrid il virus del cretinismo parlamentare era penetrato profondamente dentro al Partito Socialista Spagnolo. Dal 1891, dopo il Congresso di Bilbao, la politica del partito si sottometterà al risultato elettorale, dando sempre più valore di fine in sé a quello che si considerava dapprima un mezzo, deviando e sacrificando le lotte operaie sull’altare di questo obiettivo, seguendo in questo le grandi correnti degenerative che iniziavano ad infettare ugualmente quasi tutti i grandi partiti socialisti europei.

I primi nuclei socialisti baschi non tarderanno ad estendersi dalla Biscaglia alla vicina Guipuzcoa: nasceranno sezioni socialiste a San Sebastian e a Eibar, con le loro industrie specializzate negli armamenti, centri industriali con maggiori percentuali di adesione sindacale di tutta la Spagna. Tuttavia in questo primo periodo gli scontri di classe fra proletariato e borghesia non raggiunsero in Guipuzcoa la virulenza registrata in Biscaglia: questo per diversi fattori ma il maggiore senza dubbio sarà l’inesistenza di miniere e baraccamenti in una struttura urbana differente che dava la possibilità a molti operai di origine contadina di continuare a conservare in parte il loro modo di vita tradizionale al di fuori dal lavoro.

Nel gennaio 1892 il non rispetto da parte dei grandi capitalisti dei termini dell’arbitrato dettato dal generale Loma nel 1890 dette motivo a un nuovo sciopero spontaneo, presto però inalveato dai riformisti del PSOE e la combattività dei lavoratori si vide sabotata dalla direzione del partito sull’altare della politica elettorale. Così l’indirizzo conciliatore della direzione sarà l’unica politica ufficiale anche fra i socialisti baschi: nel 1894 il PSOE fece abortire uno sciopero dei minatori costringendolo nel rispetto della ’legalità’. Questa politica affatto conciliatoria sarà così apprezzata dal periodico di Bilbao ’El Nerviòn’: «Si è andati molto modificando in quell’atteggiamento semirivoltoso nel quale il partito socialista operaio si collocava per chiedere l’approvazione delle riforme scritte sulla sua bandiera (...) Tali procedimenti sono stati abbandonati». E in modo irreversibile!
 

Fuerismo e Conciertos Econòmicos

Precedentemente abbiamo fatto menzione degli incontestabili vantaggi che le leggi forali conferivano fino dal Medio Evo alle province basche. Però l’irrompere del mercantilismo capitalista dimostrò molte di queste leggi urtassero apertamente con le necessità del nuovo modo di produzione. Quando si parla di fuerismo si deve chiaramente distinguere fra quello difeso dai grandi capitalisti baschi e l’altro che mostra un volto più popolare. Il fuerismo della grande borghesia non sarà altra cosa che pretendere maggiori vantaggi economici e fiscali dal governo di Madrid, approfittandone per ottenere la concessione dei Conciertos Econòmicos fin dal 1878. In questi si concordava una cifra globale da versare al governo lasciando libertà alle Commissioni Provinciali basche di riscuotere le imposte. Non occorre dire che, come succede ancor oggi, questi Conciertos favorivano gli industriali e i commercianti più ricchi, le imposte che colpivano le attività industriali e commerciali essendo molto minori di quelle che gravavano sulle altre attività, soprattutto quelle legate al mondo rurale.

Il processo di accumulazione capitalista nel paese basco alla fine del diciannovesimo secolo aveva propiziato una rapida concentrazione del potere economico e politico nelle mani di un ristretto numero di borghesi. Il peso anche a Madrid di questo settore della borghesia basca sarà tanto grande che imporrà al governo un forte protezionismo doganale per favorire la competitività dell’acciaio di Biscaglia sul mercato interno spagnolo, suo mercato naturale. Tale lo dichiarava apertamente la padronale Lega dei Fabbricanti di Biscaglia in una relazione presentata al Congresso dei Deputati in data 21 ottobre 1894 nella quale si affermava che l’industria «necessita imprescindibilmente di tutto il mercato spagnolo, che già è di per sé assai ristretto, che se fosse privata di esso le condizioni di produzione sono fatalmente tali che la condurrebbero senza rimedio alla sua completa rovina».

Gli interessi di quei grandi borghesi urtavano frontalmente non solo contro quelli del proletariato industriale ma anche con quelli di altri settori di una borghesia media e piccola che non erano per niente d’accordo con quella ripartizione del plusvalore estorto agli operai. In un primo momento, dopo la sconfitta del carlismo, questi settori di jaunchos scontenti, con l’appoggio di una massa contadina schiacciata dalle imposte e dai debiti, vanno raggruppandosi intorno al progetto fuerista. Questo sarà il fuerismo dal volto popolare.

Una delle principali richieste politiche di questo sarà la rivendicazione del ritorno allo status quo anteriore al 1876, o anche al 1839. È evidente che simili rivendicazioni reazionarie non erano se non il riflesso politico della insoddisfazione che fra i jaunchos provocavano i Conciertos Econòmicos contrattati fra l’oligarchia industriale e finanziaria basca e il governo di Madrid, suo alleato naturale. Espressione cinetica di questo scontento saranno i disordini di stampo fuerista avvenuti nell’inverno del 1893. La causa fu trovata nella pretesa del ministro delle Finanze Gamazo di aumentare i contributi fiscali nel successivo Concierto con le province basche e nella riorganizzazione militare col conseguente trasferimento della Capitaneria Generale da Vitoria a Burgos. Si ebbero numerosi morti e feriti in Alava e a San Sebastian.

È su questo fuerismo, erede diretto del carlismo,

sconfitto militarmente ma non ideologicamente, che si basano le fondamenta sulle quali più tardi, nel 1895, sorgerà l’edificio politico e organizzativo del Partito Nazionalista Basco (PNV).

L’evoluzione di questi nuclei di fueristi bizkaitarras, promotori intellettuali di una ideologia propriamente nazionalista con forte retorica separatista, è ciò che intendiamo riassumere nel seguito («Il fuerista, per esserlo davvero, deve essere necessariamente separatista», Sabino Arana, aprile 1894).
 

Nazionalismo basco e movimento operaio

Bizkaitarras, cioè abitanti di Biscaglia, si chiamarono in un primo momento, e non affatto casuale la scelta di questo nome. Già abbiamo visto che fu precisamente la Biscaglia la zona del Paese basco dove più crudelmente si mostravano gli effetti del moderno capitalismo industriale e dei suoi antagonismi di classe. Il fragile equilibrio del mondo rurale basco andò a pezzi davanti all’irrompere delle nuove forze produttive e delle componenti classiste che le erano proprie. Per questo il rimpianto di un mondo rurale idilliaco marcherà in modo determinante questa prima tappa del nazionalismo basco e di tutta la produzione intellettuale e artistica che lo accompagna.

Una forte componente anticapitalista appare in quei primi anni. Si tratta però di un anticapitalismo assai contraddittorio giacché, se da un lato le critiche verso l’industrialismo saranno aspre e frequenti, dall’altro, e non poteva essere altrimenti trattandosi di borghesia media e piccola, vi è una irresistibile attrazione verso il mondo dello sfruttamento e del profitto. Non è difficile incontrare giudizi del genere: «Preghiamo Iddio che sprofondano nell’abisso i monti di Bizkaya con tutto il loro ferro! Che sia povera la Bizkaya, che non abbia che campi e bestiame e saremo allora patrioti e felici!» (Sabino Arana, 1895). Si potrebbe obiettare che appaiono attività assai lontane non solo dall’Euskadi ma anche dai pacifici lavoratori delle campagne, le speculazioni in Borsa e l’avventura industriale dei fratelli Arana, fondatori ufficiali del PNV, nella loro società mineraria Abertzale, Patriota, ma situata in piena Maketonia, nelle miniere del Ibor in Estremadura. Euskadi è un neologismo inventato da Arana per indicare il territorio che il medesimo considerava come basco. La simbologia impiegata dai nazionalisti trova la sua origine nelle invenzioni dei fratelli Arana e dei loro affiliati, come fu per la ikurria, la bandiera, e con la depurazione linguistica e storica.

Inoltre, nelle critiche aspre che si lanciarono in quegli anni contro il capitalismo da parte dei settori nazionalisti, risultano evidenti due cose: l’impotenza del settore fuerista-nazionalista della borghesia, arrivato tardi alla spartizione della torta, e, un feroce odio antiproletario che, con netti caratteri xenofobi e razzisti, ricadrà sopra i proletari sfruttati arrivati in Euskadi dalla Maketonia.

Uno degli aspetti caratteristici del nazionalismo basco, benché attualmente nascosto dal maquillage ad uso elettorale, è l’opposizione frontale agli operai, in prevalenza provenienti dalle altre regioni, e alle loro mobilitazioni tendenti a mitigare il brutale sfruttamento patito. Il dotto nazionalista Engracio de Aranzadi ci spiega, con rigore scientifico, la vera origine della emigrazione maketa in Biscaglia e le sue analogie storiche: «Quella invasione del quinto secolo, tanto vivamente descritta dagli storici, vediamo riprodursi oggi, barbara e selvaggia come quella, però con la essenziale differenza di essere questa sospinta da Satana, quando quella germanica fu diretta dalla ammirabile e sapientissima Provvidenza Divina». Dopo aver equiparato gli operai con le orde di Pedro Botero (come farà Franco 40 anni dopo) ecco qui Sabino Arana a rimproverare ai capitalisti di aver favorito l’invasione maketa nella placida Euskadi: «Questa invasione maketa, gran parte della quale è venuta nella nostra terra col vostro appoggio, per sfruttare le vostre miniere e servire nelle officine e nel commercio, questa perverte la società bizkaina, poiché cometa è questa che non porta con sé che immondizia e non è presago che di calamità: spietatezza, ogni genere di immoralità, blasfemia, crimine, libero pensiero, miscredenza, socialismo, anarchismo... tutto questo è opera sua» (1895).

Come prova della invasione maketa Sabino Arana aveva allora effettuato una minuziosa indagine sulla purezza razziale di una città avvelenata etnicamente come Bilbao. Questi risultarono i nomi più comuni fra gli abitanti di Bilbao nel 1893: tra gli Euskericos - Echevarria 716, Aguirre 369, Arana 349, Zabala 290 - totale 1.724; tra gli spagnoli - Garcia 995, Fernandez 892, Martinez 864, Gonzales 786 - totale 3.537. La meticolosa e risolutiva indagine (esempio di attività intellettuale al servizio di una pulizia etnica) verrebbe a rimarcare, secondo Arana, con la forza dei numeri il carattere invasore dei maketos. È certo che il finale in ez o in iz di molti nomi castigliani non significa altro che ’figlio di...’: il figlio di Fernando era chiamato Fernandez, il figlio di Martin, Martinez, ecc. Le fonti documentali medioevali del Paese Basco e della Navarra ci mostrano un panorama di patronimici pieno di simili esempi, prova irrefutabile di quanto si affermava nella prima parte di questo lavoro circa la trasformazione del latino volgare in territorio basco fino a configurare una serie di lingue romanze la cui convivenza con i dialetti baschi e databile da molti secoli.

Evidentemente non andremo oltre a ribattere una per una le falsificazioni di ogni tipo sopra le quali i fratelli Arana e i loro compari hanno costruito in vitro la epopea nazionale basca. Le basi di tanto voluminosa impresa sono tratteggiate nella prima parte di questo lavoro.

Dimostriamo qui invece il ruolo antiproletario e antisocialista svolto dai bizkaitarras, in ciascuna delle fasi del loro sviluppo organizzativo, fasi che vanno ad essere determinate dalla congiuntura economica e sociale spagnola.

Non può stupire che, mancando di organismi genuinamente classisti, le basi xenofobe e propriamente razziste dei nazionalisti provocassero negli operai provenienti da altre regioni un sentimento di odio e avversione verso tutto ciò che è basco. I dirigenti del Partito Socialista si fecero partecipi di questo, dimostrando ancora una volta di non essere all’altezza della dottrina e del programma del marxismo. È certo che molti operai di origine basca erano meglio trattati dai padroni, però questo fenomeno, lì dove si dava, non aveva alcuna connotazione razziale né etnica. Una parte degli operai baschi, prevalentemente di origine contadina e sottomessi all’influenza dei preti, si mostravano in un primo momento più docili e sottomessi al padronato, e questo apriva la prima breccia fra essi e i lavoratori provenienti da altre zone della Spagna. Questa divisione fu fondamentale per le aberranti teorie dei bizkaitarras e per la inadeguata replica del partito socialista, che invece di condurre una politica di avvicinamento fra tutti i lavoratori, senza escludere la lingua madre degli operai baschi, cadde nella trappola tesa dai nazionalisti.

Vediamo come impostava Sabino Arana la ’intesa’ fra lavoratori nativi e forestieri: «I baserritarras (i proletari baschi di origine contadina, ndr) (...) devono unirsi e associarsi con la feccia del popolo maketo, così corrotto nelle città, ancor più degradato nelle campagne?». E rispondeva, rivolto a questo operaio baserritarra: «Se realmente aspira a distruggere la tirannia borghese (...) dove meglio che nel nazionalismo, che è la dottrina dei suoi antenati, la dottrina del suo sangue, potrà ottenerlo? E se anche del partito nazionalista si sospetta e si teme che abbia nel suo seno differenze fra borghesi e proletari, fra capitalisti e operai, perché gli operai euskerianos non si associano fra di sé separandosi completamente dai maketos escludendoli in assoluto per combattere contro la dispotica oppressione borghese che tanto giustamente cercano? Non comprendono che, se odiosa è la dominazione borghese, più odiosa ancora è la dominazione maketa?». (1897).

Di fronte a questo intento chiaramente ipocrita di dividere la classe lavoratrice, i dirigenti del PSOE risposero, nella maggioranza dei casi, non solo con una politica di critica poco dialettica del reazionario nazionalismo basco ma anche, e quel che è peggio, di opposizione aperta a tutto ciò che era basco, compresa la lingua. Questo fatale errore di valutazione teorica e tattica gettò molti operai baschi fra le braccia dei nazional-clericali, e le sue conseguenze dureranno, come vedremo più avanti, fino ai nostri giorni.

All’interno di questa lotta politico-elettorale fra il PSOE e i bizkaitarras e soprattutto per il timore che suscitavano fra i borghesi di ogni genere le massicce e a volta violente mobilitazioni operaie, si aprì un dibattito dentro il PNV per trovare la maniera di affrontare la questione. Sabino Arana incaricò il suo giovane pupillo Tomas Meabe di studiare il socialismo con l’obiettivo di conoscerlo meglio per potergli assestare colpi più centrati. Questo lavoro di studio dette i suoi frutti tanto che poco dopo Meabe abbandonava le file nazionaliste per integrarsi nel Partito Socialista del quale diventava certo uno dei maggiori propagandisti, benché tendesse con eccessiva frequenza verso un anticlericalismo semplicione che poco aveva a che fare con la critica marxista del fenomeno religioso.

Alla fine del secolo scorso, in seguito alla guerra di Cuba e delle Filippine, il governo spagnolo represse ogni tentativo di separatismo. Così il governo civile di Biscaglia fece chiudere il periodico ’Bizkaitarra’ e mise in carcere diversi capi nazionalisti fra i quali Sabino Arana. In ogni modo il trattamento che ricevettero era molto migliore di quello offerto dallo Stato borghese agli operai. Il settimanale socialista di Bilbao ’La Lucha de Clases’ del 28 settembre 1895 ironizzava su questo trattamento di favore, riflesso evidente che nonostante tutto i bizkaitarras non cessavano di essere i figli discoli della borghesia: «Sono tanto buoni i nostri ’rappresentanti’ che non possono sopportare un’ingiustizia. I giovani della stampa li appoggiano e chiedono clemenza per essi. È che i giornalisti si irritano per qualsiasi arbitrio. È vero che quando sono operai e socialisti i perseguitati ingiustamente, né i deputati si commuovono né la stampa si preoccupa di loro. Vero è anche che i rampolli di Euskeldun (Euskeldun Batzokija, società patriottica antecedente al PNV, ndr) appartengono a famiglie distinte. Per questo esistono le classi».

Tuttavia, nonostante il clima di guerra aperta a Cuba e nelle Filippine, e le sempre maggiori tensioni con il futuro supergendarme mondiale, è certo che il PSOE contrattò la pace sociale con il governo, non sabotando la guerra e praticando un platonico pacifismo, in cambio di alcuni miglioramenti nelle condizioni di lavoro per la classe operaia. Questa pace sociale si romperà nel 1898, con gran cordoglio dei riformisti, con la ripresa delle lotte operaie a seguito della crisi economica e delle conseguenti carestie.

In occasione dello sciopero degli operai della Deputazione di Biscaglia, nel marzo 1898, i dirigenti del PSOE adottarono la seguente posizione: «Noi siamo i primi a lamentare questa forma di fare gli scioperi, poiché se gli operai della Deputazione, per se stessi, dichiarano uno sciopero, essi soli lo devono continuare, contando unicamente nell’appoggio morale e pecuniario di tutti gli operai delle miniere, che debbono rimanere al lavoro». Si trattava, e non era il primo caso, di uno sciopero spontaneo liberamente deciso, in questa occasione dagli operai della Deputazione, che usciva dal quadro stabilito dai riformisti che non era altro che il mantenimento ad oltranza della pace sociale. Lì dove scoppiavano lotte spontanee ne prendevano subito la direzione perché non andassero mai al di là dei limiti segnati dalla strategia elettorale del partito.

Così, nonostante evidenti manovre elettorali arrangiate dai grandi cacicchi baschi Chavarri e Martinez Rivas alle elezioni del marzo 1898, la direzione socialista si mostrò ferma nelle sue convinzioni: «La via della violenza non dobbiamo mai percorrerla, né mai abbandonare l’esercizio dei nostri diritti». Posizione rimarcata mesi dopo dal patriarca del socialismo spagnolo Pablo Iglesias, dato che secondo lui la borghesia «si deve convincere di una cosa: che noi non tentiamo di portarle via il potere con i mezzi che essa impiegò, la violenza e il sangue, ma con gli strumenti del diritto». (1898).

Alla fine della, per ovvie ragioni, breve guerra fra la Spagna e gli Stati Uniti un’ondata di scioperi scosse tutto il paese fino al 1903. Nel luglio del 1899 dilagò lo sciopero generale in Biscaglia per il licenziamento di alcuni lavoratori da Altos Hornos. Il rifiuto della direzione del PSOE di estendere lo sciopero fece sì che questo movimento rivendicativo terminasse in una completa sconfitta operaia. Questo si tradusse in una notevole diserzione dei lavoratori dall’organizzazione sindacale socialista, la UGT. I bizkaitarras, da parte loro, espressero molto chiaramente la loro posizione rispetto al conflitto: «Non possiamo fare a meno di vituperare la condotta codarda e perfino criminale seguita dagli scioperanti».

Nonostante i miserabili intenti dei riformisti, nell’ottobre 1903 scoppiò un formidabile sciopero nelle miniere che provocò l’instaurazione dello stato di guerra in tutta la Biscaglia. Si ebbero, fra incidenti di vario tipo, le note azioni anticlericali che tanto hanno caratterizzato il movimento operaio spagnolo: l’immagine di Santiago fu oltraggiata, Sant’Antonio fu abbattuto e San Lorenzo finì a mollo nelle per niente raccomandabili acque dell’estuario bilbaino. I lavoratori riuscirono a paralizzare completamente Bilbao e un gigantesco picchetto di 3.500 minatori impose lo sciopero ad Altos Hornos, nonostante fosse custodito da reparti militari. Un lodo del generale Zappino, inviato espressamente da Madrid, decretò l’abolizione delle immonde baracche dei minatori e il pagamento settimanale dei salari, benché il lodo fosse rispettato, come era abituale, in modo un tantino irregolare dal padronato delle miniere.

La risposta dei nazional-clericali non si fece attendere. Al vecchio stile degli oltremontani carlisti, i consiglieri del PNV e lo Ayutamiento di Bilbao presentarono una mozione sollecitando che «i rappresentanti della proprietà, delle banca, dell’industria, del commercio e del lavoro dispongano della competente autorizzazione di Stato per armarsi, sia divisi per distretti sia individualmente». Vediamo che, di fronte al pericolo operaio, i nazionalisti non esitano un attimo a chiedere l’autorizzazione dello Stato oppressore spagnolo e costituire le bande bianche armate per affrontare i lavoratori.

Di poco più di un anno prima è un fatto che ha attratto molto l’attenzione di quanti hanno studiato la traiettoria politica del dirigente nazionalista Sabino Arana: la sua conversione allo spagnolismo. Superando gli angusti limiti del personalismo ai quali si tiene adusa la storiografia borghese tradizionale, il marxismo ci insegna che, al di sopra dei barcollamenti di questo o quel personaggio con rilevanza storica, appaiono delle forze sociali davanti alle quali l’individuo si presenta non come soggetto ma come oggetto. Detto questo possiamo comprendere la conversione di Sabino Arana inquadrandola in un contesto di grandi mobilitazioni operaie davanti alle quali le sole forze del nazionalismo si mostravano impotenti.

Ma altro ancora spiega il miracolo. C’è anche il fatto che le sostanziose concessioni ottenute dai Conciertos Econòmicos faranno sì che progressivamente una parte dei borghesi beneficiati, rappresentati da un settore del PNV, andassero perdendo parte della loro iniziale retorica separatista. Ugualmente cesseranno le forti diatribe contro l’industrialismo, il quale ora sarà indicato come ’il frutto del genio basco’. «Vedi aperte e dominate le bocche della terra, tarlati i monti, raffrenati i violenti impeti del mare, solcate le acque da innumeri navi, velato da fumi l’azzurro dell’aere, convertito in luce e in forza il salto delle fonti (...) Tutto questo è opera del basco» (sempre lui, Sabino Arana!). Si confronti questa nuova impostazione con le maledizioni apocalittiche che lo stesso Arana lanciava nei primi anni del nazionalismo contro l’industrialismo capitalista. Sarà a partire da questo tempo che il nazionalismo basco ufficiale inizierà una traiettoria che lo legherà strettamente, e non poteva essere altrimenti, agli sviluppi della politica spagnola.

Questi primi anni del ventesimo secolo, come stiamo vedendo, furono di intensa attività rivendicativa della classe operaia in Biscaglia. Oltre che dello sciopero generale del 1903 possiamo riferire del particolare sciopero degli inquilini in Baracaldo-Sestao, città prossime a Bilbao, nel maggio 1905. Quest’episodio è una dimostrazione istruttiva dell’efficace funzionamento della solidarietà classista del proletariato di Biscaglia in quegli anni e un esempio in più per la classe operaia spagnola e internazionale. Per evitare una serie di sfratti le donne proletarie di Baracaldo si unirono estendendo questa azione spontanea alle fabbriche della zona. Gli abitanti del quartiere bloccarono le strade con ogni genere di masserizie e mobili, producendo tale allarme fra i borghesi che si decretò lo stato di guerra. Ancora una volta la ultrariformista direzione del PSOE mostrò la sua funzione di pompiere sociale: «Benché sia molto giusta la richiesta degli inquilini di Baracaldo, non è di tale importanza che possa compromettere tutta la classe lavoratrice della regione». A quanto sembra, agli occhi dei riformisti, la dichiarazione dello stato di guerra era un episodio di scarsa rilevanza. Simile atteggiamento di chiaro crumiraggio valse ai consiglieri socialisti il meritato disprezzo delle donne di Baracaldo e la critica dei gruppi anarchici locali. Conseguenza di questo tradimento del PSOE fu che in tutta la zona di Baracaldo-Sestao non avesse seguito lo sciopero generale del 20 luglio 1905, il primo indetto dal PSOE per tutta la Spagna.

Un seguito molto maggiore ebbe lo sciopero generale di agosto-settembre 1906 che, iniziato dapprima come uno sciopero di solidarietà contro un licenziamento dalla ferrovia di Trino, di proprietà della Deputazione di Biscaglia, si convertì in un gigantesco movimento a favore della giornata di 9 ore, aggiungendogli una serie di rivendicazioni di carattere salariale e contro il truck-system, che, nonostante tutti i tentativi dei lavoratori per abolirlo, continuava ad esistere. Lo sciopero superò i limiti della Biscaglia e si estese nella vicina Cantabria, a Castro Urdiales si registrarono violenti scontri fra i lavoratori e le forze dell’ordine borghese con due morti e sei feriti. I nazionalisti ancora una volta mostrarono il loro tradizionale modo di affrontare la questione operaia: «Supponendo che la ragione stesse del tutto dalla parte dei lavoratori (il che non è, da qualunque lato si guardi alla questione), non era questa l’occasione propizia per esigere qualcosa dai padroni (...) Vi sono nella lotta presente dei fattori occulti che cambiano l’aspetto della questione; si ha qui, come nella questione religiosa, più che lotta di interessi e di ideali, lotta di razze, lotta di popoli. Qui si cerca di colpire Bilbao, la Bizkaya, per l’odio che si prova contro di noi» (Lo sciopero generale, odio sanguinoso, Aberri, 25 agosto 1906).

Nel 1907 un decreto reale proibirà il truck-system però i padroni ricorsero ad un sistema di credito tale che nessuno poteva competere con loro. Si trattava di una nuova versione del truck-system però senza la componente coercitiva che caratterizzava il modello precedente. Dai minatori di Biscaglia e dai lavoratori portuali e carrettieri giunse di nuovo la risposta al vile sfruttamento borghese tramite un grande sciopero generale in agosto 1910, che venne a confermare quanto afferma il marxismo: nel regime capitalista ogni conquista operaia è effimera.

Il boia Canalejas decretò lo stato di guerra in Biscaglia, ma il conflitto si estese ad altre provincie di fronte all’impotenza dei riformisti del PSOE a contenerlo. Si dichiararono scioperi di solidarietà a Gijon (Asturie), a Barcellona, a Saragozza... Infine, davanti alla intransigenza dei minatori, una legge doveva riconoscere la giornata di 9 ore nelle miniere spagnole. Venti anni di violente lotte e repressioni sanguinose furono necessarie perché, nonostante i continui sabotaggi dei riformisti, si potesse abbassare di un’ora la giornata dei lavoratori delle miniere, Però non per questo diminuì l’intensità dello sfruttamento, tanto che i minatori dovettero scendere di nuovo in sciopero l’anno successivo.

Questa temperie di continue agitazioni operaie porterà i nazionalisti a fondare una loro organizzazione sindacale, del tutto pro-padronale, inspirata, come no!, alla dottrina sociale della Chiesa cattolica: «Nell’occasione dello sciopero attuale (del 1910, ndr) si va parlando di formare un’associazione di operai baschi che serva di laccio per l’unione fra gli operai di questo paese e di strumento per conseguire per vie legali e procedimenti pacifici i miglioramenti che la situazione reclama, e, nello stesso tempo, opporre una diga al socialismo e una forza che vanifichi lo sviluppo che prende nei suoi periodici scioperi. L’associazione crediamo possa riuscire formando nuclei di 20, 30 o 40 operai che si offrano ai padroni per lavorare tutti o nessuno, e separati dagli altri, sia a giornata fissa sia a cottimo» (Agli operai baschi, ’Bizkaitarra’, 1910).

Una simile organizzazione di crumiri contava nelle sue file per lo più impiegati di banca e di commercio e inquadrava nuclei di baserritarras, contadini baschi proletarizzati che, influenzati dall’azione congiunta dei jaunchos e dei preti, formavano un gruppo sociale facilmente malleabile ideologicamente. Le intenzioni dei bizkaitarras si concretizzarono nel 1911 con il nascere dalla Solidarietà degli Operai Baschi (SOV) che così manifestò le sue intenzioni nell’Articolo due del suo regolamento: «Ha per obbiettivo di conseguire il maggior benessere degli operai baschi mediante una istruzione praticamente efficace che coltivi le loro intelligenze ed educhi le loro volontà, inclinandole al più fedele e geloso compimento dei loro doveri come operai e come baschi: fomentare fra essi un vigoroso slancio di mutua e preferenziale protezione e soccorso, con coscienza delle aspirazioni legittime del lavoro nella produzione, e le difenda con quei metodi che siano compatibili con la legalità, fino a vederle realizzate, conformando tutti gli atti ai principi della morale cristiana».

L’effetto di questo sindacalismo clericale fu tanto ridotto che durante lo sciopero generale del 1911 i suoi scarsi effettivi non fecero altro che nascondersi oppure andare a rimorchio forzato della massa degli scioperanti, tanto difficilmente potevano attrarre l’interesse proletario con un credo che predicava la concordia sociale ed una società chiaramente polarizzata dai conflitti di classe: «Ciò che appunto chiede questa società (il SOV) è che gli operai e i padroni lavorino più uniti, esiliando quell’odio di classe predicato dal socialismo» (1911).

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la neutralità spagnola offrirà alla borghesia basca alcune possibilità di buoni affari delle quali logicamente si approfittò al massimo. In Biscaglia le 58 società per azioni del 1914 divennero 219 nel 1918.

Non resterà immune il PNV nemmeno dalla divisione della borghesia spagnola in germanofila e filo-Intesa, in funzione degli interessi commerciali stabiliti con l’uno o l’altro fronte. Aranzadi rappresenterà il settore filo-Intesa e Luis Arana quello filo-tedesco. Le divergenze in merito dovettero essere di gran peso visto che provocarono, come vedremo, perfino una scissione nel PNV. Del resto non sarà la prima importante, giacché antecedentemente alla guerra mondiale, nel 1910 un gruppo di scissionisti dal PNV formò Aberri eta Askatasuna, Patria e Libertà, organizzazione di carattere aconfessionale e piccolo borghese con arie progressiste e che ebbe un’esistenza effimera.

La fine della guerra mondiale ebbe conseguenze economiche immediate sull’economia spagnola e, a maggior ragione, nel Pese basco. I cantieri, che avevano aumentato enormemente i loro utili approfittando della neutralità spagnola nella guerra, al termine della mattanza europea videro cadere i loro guadagni di modo vertiginoso. A questo contribuirono la caduta drastica dei noli, il crollo del prezzo del carbone, le lotte rivendicative dei lavoratori portuali e la concorrenza massiccia delle navi nordamericane. Il governo spagnolo interverrà una volta ancora in appoggio agli armatori baschi autorizzando la libertà di importazione franca dai diritti doganali di alcune classi di bastimenti.

Ma ciò che indurrà un avvicinamento sempre maggiore dei nazionalisti verso il governo di Madrid sarà l’effervescenza proletaria per gli echi che arrivavano dalla Russia rossa e il conseguente panico della borghesia davanti alla minaccia rivoluzionaria, per la qual cosa si imponeva la necessità di affrontare uniti il pericolo. Il PNV adotterà un nuovo nome meno vincolato alle velleità separatiste delle origini e passerà a chiamarsi Comunion Nacionalista Vasca. Solo alcuni settori di jaunchos, senza alcun potere reale, e perciò intransigenti davanti a qualsiasi innovazione, reagirono conservando il vecchio nome del partito. In tal modo gli scissionisti continuarono a chiamare la loro organizzazione PNV, che passerà ad essere diretta da Elias Gallastegui e da Luis Arana (il fratello di Sabino), mantenendo come organo di stampa il settimanale Aberri, Patria, che a metà del 1923 diverrà quotidiano.

Ma il timore di fronte alla minaccia rivoluzionaria costituirà un elemento comune a tutte le tendenze del nazionalismo basco. Così in Aberri del 20 luglio 1923 si affermava: «I popoli colti sanno essere rivoluzionari; i popoli incolti non sanno essere che grandi macellerie. La Spagna è uno dei popoli più arretrati del globo, e la rivoluzione che la Spagna farà sarà un modello selvaggio e di sanguinose vendette. Se non ci prepariamo, se restiamo indifferenti, quando arriverà il momento non potremo scansarci e affonderemo con la Spagna nel precipizio che si apre ai suoi piedi».

Pochi mesi dopo si avrà il cosiddetto colpo di Stato del generale Primo de Rivera e una nuova fase si aprirà nella situazione politica spagnola.
 

(continua   [ - 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - ]).

 
 
 
 
 



IL FONDAMENTALISMO ISLAMICO NEI PAESI DEL MAGHEREB
UNA FUORVIANTE PROSPETTIVA PER IL PROLETARIATO

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NEL GRANDE MAGREB

Il grande Magreb, altrove indicato come il Magreb francofono in seguito alla profonda colonizzazione francese, comprende la Mauritania, il Sahara Occidentale, (ex Sahara Spagnolo, annesso dal Marocco nel 1975 dopo il ritiro della Spagna), il Marocco, l’Algeria, la Tunisia e la Tripolitania, ora compresa nella Libia. È logico quindi chiedersi se il movimento islamico integralista che si è sviluppato con così grande intensità in Algeria, in una posizione centrale dal punto di vista geografico, possa interessare ed estendersi al resto dell’area intera.

Anche per questi paesi del «Al Magrib», il Tramonto, nel primo periodo di indipendenza nazionale post coloniale si è ripresentata la questione di un’unità politica, economica e militare sulla falsa riga del panarabismo egiziano degli anni ’60. Ma, come per i tentativi di Nasser, anche qui non si è andati oltre le grandi dichiarazioni di principio, al contrario sono subito sorti grandi contrasti fra i paesi magrebini confinanti che hanno provocato la rottura dei rapporti diplomatici per diversi anni.

Nella sostanza ciascun paese intendeva il Grande Magreb come una semplice estensione territoriale dei propri confini ai danni dei propri vicini: le mire espansionistiche della Libia di Gheddafi tendevano all’annessione della Tunisia; il Marocco con l’occupazione militare dei due terzi del Sahara occidentale, dove si trovano i più importanti giacimenti di fosfati naturali, e per questo ne diventa il terzo produttore mondiale al pari della Cina dopo gli Usa e l’ex URSS, rafforza la sua espansione verso Sud, mentre l’Algeria tenta una penetrazione nel Sahara occidentale a Sud delle precedenti frontiere del Marocco, la zona di fronte alle isole Canarie ricchissima di fosfati, soprattutto allo scopo di ottenere anche uno sbocco sull’ Atlantico tagliando così la strada verso Sud al Marocco.

In questa situazione la vigorosa guerriglia condotta dal Fronte Polisario (Fronte popolare per la liberazione del Saguia el Hamra e Rio de Oro, la maggior parte dell’ex Sahara spagnolo) tra il 1976 e 1’82 per la costituzione della RASD (Repubblica Araba Sahariana Democratica) è servita a suo tempo solo all’Algeria, unico paese che la riconobbe, in funzione anti marocchina; la sorte di quei forse 200.000 sahariani per lo più nomadi, come del resto è poi successo anche per i Tuareg, che per gli interessi dei grandi centri economici valevano quanto il due di picche, è stata giocata come uno scartino su un tavolo diplomatico che comprendeva anche gli Usa e la Francia.

La Mauritania, il paese più debole e più povero del gruppo, inizialmente occupa la parte dell’ex Sahara spagnolo che momentaneamente non interessa al Marocco, che nel frattempo ha ultimato la costruzione del «muro difensivo» a difesa del Sahara «utile», quello dei fosfati con le relative infrastrutture; ma nel 1979 si ritira da tutta la zona che ha occupato solo per quattro anni.

Alla fine, come non poteva essere diversamente, gli interessi parziali e limitati dei vari gruppi economici nazionali hanno eretto barriere invalicabili a qualsivoglia forma di unità compreso gli effimeri richiami sovranazionali dell’umma coranica.

Se si fosse compiuta l’unità del Grande Magreb mediante la spinta di una borghesia agguerrita e dinamica costretta ad un progressivo processo di centralizzazione, e quindi unificatrice tramite la costituzione di grandi gruppi finanziari e

industriali, si sarebbe anche formato un consistente proletariato magrebino in grado di sferrare significativi colpi all’avversario di classe.

Ma anche queste erano e sono «fiacche borghesie arabe, giunte troppo tardi sull’arena della storia, espressione di economie deboli totalmenti dipendenti dal mercato mondiale» ed anche l’integralismo islamico non si muove verso alcuna forma stabile e consistente di concentrazione di forze, e ciò che eventualmente aggrega è solo per merito della crisi capitalistica, celato e stravolto però dal richiamo a una mitica età dell’oro della supremazia delle leggi coraniche.

Il problema dell’unità del Grande Magreb è rinviato, anche sotto forma tipo CEE e NAFTA o anche dell’instabile MCA (Mercato Comune Arabo tra Egitto, Giordania, Siria, Irak e Kuwait) e sotto il modo di produzione capitalistico, a ben altre condizioni economiche e produttive.

Per questo ora dobbiamo considerare i paesi singolarmente potendoli unire solo nelle tabelle e nei quadri statistici che ricaviamo a scopo di sintesi di una determinata area geografica.

Per quanto concerne Marocco, Algeria e Tunisia i dati pubblicati da ’Problèmes économiques’, n. 2.361/1994 provengono dalle statistiche del FMI aggiornate al 1992, mentre per la Libia e per la Mauritania si fa riferimento, mediante elaborazione in quanto gli ultimi dati economici di questi due paesi risalgono al 1988, ai dati riportati dall’ Atlante De Agostini 1994 e dal bollettino statitico ONU 1/1994.

Paese              Popolazione     P.N.L.     P.N.L. pro capite
                    (milioni)  (miliardi US$)       (US$)
Algeria                26,4         40,0             1515
Marocco                26,5         27,6             1042
Tunisia                 8,5         15,1             1776
Libia                   4,3         22,3             5186
Mauritania              2,1          0,9              428
Totale Grande Magreb   67,8        105,9             1562











Il totale del Grande Magreb ci mostra un valore già consistente di popolazione ma anche la sua debolezza economica se si considera che il PNL pro capite di quest’area di 1562 US$ è molto al di sotto del PNL pro capite medio mondiale che nel 1975 era di 1665 US$ ed è salito a 2529 US$ nel 1983, come abbiamo già riportato e commentato nel volume edito dal Partito Il Corso del capitalismo mondiale alle pagine 230/234 e nell’illustrazione dei relativi quadri sul n. 36 di questa rivista.

Per meglio comprendere il valore del PNL pro capite dei paesi magrebini, dalle tabelle statistiche vediamo che nello stesso anno esso è praticamente identico a quello della Thailandia e di ben 12 volte inferiore a quello dell’Italia.
 

Marocco, una relativa stabilità

La grave crisi economica del Marocco è esplosa nel 1983: da quella data non è più stato in grado di far fronte ai suoi debiti fino a giungere al culmine nel 1985 quando il rapporto tra debito estero e PNL salì al 136,6%.

Dopo l’immediato intervento del FMI, del Club di Parigi e del Club di Londra con il solito programma di ’aggiustamenti strutturali’ e riscaglionamento del debito, il rapporto tra debito estero e PNL è sceso nel 1992, e ’solo’ il 75% come ben han potuto constatare le masse più povere e gli emigrati per fame dei sudditi di sua maestà Hassan II in nome e per conto della ben più importante maestà US Dollar. Il solo rapporto tra gestione e servizi del debito (interessi ’agevolati’ più la restituzione di una quota-parte del prestito) sulle esportazioni si è portato al 28,5%, cifra alta ma inferiore al pesante 77% per quell’anno dell’Algeria, ulteriormente salito all’80% all’inizio di quest’anno.

Il programma di ’liberalizzazione’ dell’economia, come quello adottato per l’Algeria alcuni anni fa che ha prodotto i ben noti risultati, si muove anche qui su due fronti: smantellamento dei meccanismi di formazione e di regolamentazione dei prezzi (soprattutto per quelli dei generi alimentari, farmaceutici e di prima necessità: 1’80% dei prodotti manufatturieri e il 95% di quelli agricoli hanno prezzi liberi) e drastica riduzione dei dazi doganali che in Marocco sono scesi dal 400% al 40% del prezzo delle merci importate.

Tutte le restrizioni alle importazioni sono state abolite comprese soprattutto quelle relative all’ingresso dei capitali esteri allo scopo di favorire gli investitori stranieri i quali, dagli 85 milioni di dollari investiti in Marocco nel 1988, sono progressivamente penetrati nell’economia di quel paese giungendo ai 500 milioni di dollari nel 1992 prevalentemente destinati però al settore turistico e dei servizi annessi. Parallelamente il programma di privatizzazione e ristrutturazione (cioè licenziamenti) delle imprese pubbliche del 1990 è iniziato solo nel 1992 a seguito della pausa forzata della guerra del Golfo a cui il Marocco ha partecipato con un numeroso contingente di fanteria di prima linea come carne da macello nelle trincee del deserto iracheno.

Le entrate marocchine provenienti dal commercio estero si basano su tre voci, a differenza dell’Algeria che come abbiamo visto si fonda esclusivamente sull’esportazione di idrocarburi. L’ingresso di valuta pregiata è dato prevalentemente dalla vendita dei fosfati ed altri minerali grezzi o semi lavorati e dai prodotti agricoli con il 43,5% del totale, il turismo di massa e relativi servizi coprono il 29,7%, mentre le rimesse private degli emigranti costituiscono ben il 25,8% del totale. Secondo i centri finanziari internazionali questa situazione può permettere al Marocco di affrontare la sua crisi con una certa tranquillità, tant’è che gli investimenti stranieri sono aumentati di quasi sei volte in quattro anni.

Ma, aggiungiamo noi, i prezzi dei minerali non sono fissati a Rabat e i fosfati dell’ex URSS, secondo produttore mondiale, sono venduti al ribasso, come quasi tutte le altre merci russe, per far fronte alla crisi dell’ex impero; le rimesse turistiche sono sensibilmente diminuite causa soprattutto la crisi in Europa come pure le rimesse degli emigranti, per cui la soluzione della crisi marocchina di fatto si poggia su tre pilastri molto instabili e direttamente legati all’andamento della crisi mondiale ed europea in particolare.

Inoltre gli scarsi investimenti industriali stranieri riguardano essenzialmente impianti di assemblaggio, visti i bassi salari locali, mentre l’industria pesante è sviluppata in modo insufficiente.

Per ultimo, ma non per importanza, la popolazione attiva è complessivamente di 8 milioni, il 20% è disoccupata ed il 36,7% è addetta all’agricoltura la quale è fortemente condizionata dall’incostante andamento pluviometrico naturale poiché gli impianti di irrigazione artificiale, le colture di serra su vasta scala per le primizie da esportazione e in generale l’agricoltura industrializzata sono ancora molto scarsi. Inoltre una grave siccità negli ultimi due anni ha colpito il Marocco ed ha provocato consistenti perdite agricole.

In conclusione la crisi marocchina, se non grave come quella della confinante Algeria, sta percorrendo la consueta strada voluta dal FMI che non va verso il suo risanamento economico e rafforzamento produttivo, ma ad un suo lento e progressivo indebolimento e asservimento rispetto i centri finanziari internazionali.

Se il fondamentalismo islamico delle organizzazioni algerine valicasse le incerte frontiere fra i due paesi ed esplodesse con eguale violenza contro i turisti e gli investitori stranieri, si produrrebbe, come per l’Egitto, un vistoso danno economico, una forte accelerazione della crisi ed un marcato peggioramento delle condizioni generali di vita.

Il contenimento della violenza integralista forse è l’unico problema che seriamente preoccupa la classe dirigente marocchina la quale al momento è solo impegnata in operazioni di ’vigilanza preventiva’ poiché il fondamentalismo islamico in Marocco è praticamente assente dalla scena pubblica ed è presente come movimento religioso moderato e riformatore soltanto in alcune facoltà universitarie di Casablanca.

Secondo ’Le courrier international’ n. 2/1994 in Marocco ci sono quattro movimenti islamici principali legati ad altrettanti capi spirituali, secondo la classica concezione delle scuole coraniche. Il più importante fra questi gruppi è noto come Al Adl val-Ihsan (Giustizia e Beneficienza) ed il suo ispiratore l’anziano Abdessalam Yassin dopo vari periodi trascorsi nelle prigioni di re Hassan II è al soggiorno obbligato nella città di Salè. L’adesione a questo gruppo comporta l’accettazione dei tre no: No alla violenza, No all’obbedienza allo straniero e No alla clandestinità.

Riconoscendosi con i Fratelli Musulmani egiziani, per vantare l’invulnerabilità dei combattenti islamici, la loro naturale alleanza con il popolo e soprattutto lo spirito di sacrificio estremo l’imam marocchino reclama la formazione di uno Stato Islamico Nazionale in attesa che maturino le condizioni per la costituzione del Califfato Federale che raggrupperà i diversi Stati islamici, un’ennesima versione dell’unità pan araba su base religiosa.

La solita perla allo scopo di deviare e confondere le masse oppresse e sfruttate marocchine: «La depressione economica accenderà il fuoco che distruggerà tutti i dogmatismi materialisti. Le ideologie sono già morte, una nuova èra sta per nascere, il crepuscolo della civilizzazione atea all’orizzonte dei nostri tempi annuncia il sole dell’Islam» (A. Yassin).
 

Tunisia fra crisi e fondamentalismo

L’economia tunisina ha da tempo impostato un moderato piano di diversificazione produttiva allo scopo di sfuggire al cappio della produzione e finanziamento tramite l’esportazione di un unico prodotto. Le stime prevedono però che a breve-medio termine la Tunisia diverrà importatrice netta di idrocarburi mentre ora ne esporta una parte e quindi il processo di industrializzazione dovrà considerare anche la bolletta energetica che sicuramente non sarà calcolata secondo i precetti coranici ma secondo quelli di Wall Street.

La popolazione attiva tunisina è di 2,8 milioni ed il 23,5% è addetta all’agricoltura, percentuale simile a quella algerina ma di molto inferiore a quella marocchina. L’apporto di valuta pregiata necessaria all’autofinanziamento produttivo si basa per il 65% sull’esportazione di merci (nell’ordine per grandezza) del settore tessile abbigliamento, minerario energetico ed agro-alimentare. Seguono il turismo e relativi servizi con il 23,5% e le rimesse degli emigranti per il 9,3%.

Il rapporto tra debito estero e PNL nel 1992 si è ridotto rispetto agli anni precedenti ed è del 55%, il minore fra i tre paesi.

Il rapporto tra servizio del debito ed esportazioni è contenuto scendendo al 19%, valore anch’esso il più basso nei tre Stati magrebini. Per queste condizioni la Tunisia non ha ancora corso seriamente il rischio di non poter far fronte ai suoi creditori esteri e le politiche economiche in favore dei capitali stranieri sono iniziate, pilotate dalla Francia, già dal 1986, accompagnate sempre però dalle solite azioni di liberalizzazione dell’economia che hanno provocato anche in questo paese rivolte per la semola ed emigrazioni verso l’Europa.

In questa situazione relativamente stabile e tranquilla le tabelle del FMI mostrano una crescita reale del PNL a partire dal 1987; nel periodo 1990-92 la media annuale del triennio è stata del 6,7% mentre l’aumento dei prezzi al consumo è sceso dall’8% al 6,6% dell’ultimo periodo. Questi risultati fanno esaltare gli economisti borghesi sui miracoli dell’economia di mercato liberalizzata, ma qui, precisiamo noi, si tratta di un sistema produttivo giovane ed in crescita e la crisi dovuta alla caduta tendenziale del saggio del profitto è ancora relativamente lontana.

Il In Tunisia (’Le Courrier int.’, 2/1994) la disoccupazione riguarda un terzo dei lavoratori manuali, ma anche tecnici medi e quadri superiori, senza scordare le decine di migliaia di dipendenti licenziati per le loro convinzioni integraliste e per attività sindacali, mentre il blocco dei salari e la liberalizzazione dei prezzi, in barba alle rassicuranti statistiche del FMI, hanno prodotto un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori anche se non così devastanti come negli altri paesi magrebini.

Anche qui il movimento sindacale ha percorso la solita strada verso la perfetta integrazione nei meccanismi statali divenendo, dopo il suo ultimo congresso, un semplice apparato dell’ Amministrazione degli Affari Sociali. La direzione esecutiva del sindacato è stata apertamente incaricata dal generale Ben Ali, il presidente della repubblica tunisina autoproclamatosi successore di Burghiba, di imbavagliare i lavoratori, di farli tacere e di sopprimere ogni spirito di resistenza.

Le ultime truccatissime elezioni presidenziali e parlamentari dell’aprile 1989 hanno mantenuto il sistema della candidatura unica sia per il presidente sia per il partito unico detentore di tutti i seggi al parlamento, fatto che in sé rende più efficiente e meno dispendiosa la gestione del regime della dittatura borghese, ma che fa rabbrividire i democratici puri che soffrono, non per la fame, ma per lo strangolamento delle libertà!

In questa situazione ed in assenza di genuine organizzazioni sindacali e politiche di classe, nonostante la tradizione delle precedenti lotte del proletariato tunisino, qui il richiamo del FIS è stato forte. Infatti il MTI (Movimento di Tendenza Islamica) avrebbe raccolto, secondo anche le ammissioni degli stessi organi ufficiali, il 17% dei voti alle recenti consultazioni, cifra significativa ma bassa rispetto all’82% del FIS in Algeria al primo, e ultimo, turno elettorale del 1991. La strategia governativa è di combattere a fondo questo movimento e di allontanarlo dal paese allo scopo di smembrare il suo principale oppositore e contemporaneamente mandare segnali ammonitori agli altri movimenti che contrastano l’operato di Ben Ali, impiegato modello del FMI.

Attualmente al MTI si è sostituito il gruppo En-nahda costituito nel giugno 1993 dopo la dispersione in vari paesi europei dei dirigenti del vecchio movimento e propugna la generica trasformazione della società tramite l’islam. Anche se di recente formazione è già accusato di essere implicato nel tentativo di assassinare il presidente Ben Ali; pubblica a Parigi un settimanale in lingua araba, ’El Moutaouasset’ e, per solidarietà verso gli oppressi, i democratici puri di Parigi ne hanno vietato stampa e diffusione ed hanno costretto al soggiorno obbligato Salak Karkar, uno dei massimi dirigenti sia della precedente sia della nuova organizzazione.

Nell’ottobre 1995 il presidente francese Chirac concludeva la sua visita di stato congratulandosi col collega Ben Ali per le risposte adeguate che aveva dato alla sfida fondamentalista grazie anche al fatto di aver quadruplicato il numero dei poliziotti.
 

Mauritania, verso l’Africa più povera

La Mauritania presenta un aspetto decisamente diverso e più complesso. Soprattutto per il suo basso PNL pro capite e per le divisioni etnico-sociali al suo interno ci riconduce, oltre che per posizione geografica, più verso i problemi dell’Africa sub-sahariana che verso il Magreb.

Questo Stato, ex colonia francese e indipendente dal 1960, dopo un breve periodo iniziale di assestamento ha vissuto una serie quasi biennale di colpi di Stato e lotte per il potere fino a quello del 1984 col quale il colonnello Taya ha concentrato su di sé tutte le cariche più importanti.

Attualmente, sulla carta, la Mauritania è una repubblica democratica islamica multipartitica, governata dai membri del Partito Repubblicano Democratico e Sociale con 67 seggi su 79 al parlamento. Ma la realtà è un’altra: solo nel luglio del 1980 è stata abolita la schiavitù ma ancor oggi il gruppo dominante berbero possiede ancora schiavi negri e mantiene un rigido controllo sulle minoranze di colore, sicure basi per un prossimo scontro razzistico-economico.

Il PNL pro-capite, stimabile in 428 US$, è molto basso, inoltre ben il 22% della popolazione è nomade e conduce l’allevamento itinerante del bestiame, condizione certamente disagevole ma certamente meno opprimente di quella delle masse inurbate per fame, espropriazione o stato di semi schiavitù.

Vi sono stati alcuni sporadici e gravi attentati contro religiosi e studenti seguiti dall’immediato allontanamento dal paese di un centinaio di integralisti algerini, presunti appartenenti al FIS, dopo di che non sono giunte altre notizie di organizzazioni e manifestazioni. Secondo le autorità locali il problema è stato definitivamente risolto con l’eliminazione fisica o l’espulsione dei sospetti.

Da una prima considerazione appare che il destino di questo Stato, come abbiamo già premesso, non sia attratto verso le economie magrebine ma piuttosto in direzione di quello dell’intera Africa Nera, che sintetiziamo con alcune cifre tratte da un recente articolo del ’New York Times’ apparso in sintesi su ’Repubblica’ del 4/8/94.

«Eccetto il Sudafrica, nel 1991 il PNL dell’intero continente sub-sahariano è stato dell’1% di quello mondiale, e gli scambi commerciali il 2% dell’intero traffico mondiale, ovvero un sub continente abbandonato alla deriva; 600 milioni di abitanti vivono distribuendosi un reddito eguale a quello del Belgio che ne mantiene però solamente 10; dal 1980 l’economia di quest’area regredisce al ritmo del 2% annuo, al punto che oggi fra le 20 nazioni più povere del mondo 18 sono africane, mentre la popolazione cresce in modo sempre più incontrollato tant’è che dal 1950 al 1990 essa è triplicata passando da 220 ad oltre 600 milioni di persone».

Il tutto grazie ai miracoli dell’economia di mercato, dello sfruttamento borghese e del modo di produzione capitalistico.

* * *

Come prima sintesi finale per i tre paesi centrali del Magreb emergono i seguenti punti:

1) I movimenti islamici di opposizione ai gruppi di governo non pongono in nessun modo la questione, per noi centrale, dell’abbattimento violento della dittatura borghese ed il superamento dell’attuale modo di produzione capitalistico, ma, pur rivendicando ovviamente un miglioramento delle condizioni generali di vita degli strati più poveri della popolazione, guardano indietro nella storia in direzione di una mitica età dell’oro generale e garantita dalla supremazia delle leggi coraniche.

2) Tutti questi movimenti, fino ad oggi, hanno un forte carattere nazionale e non rivendicano alcuna forma di coordinamento internazionale, ma seguono, secondo l’antica tradizione islamica, ciascuno un proprio capo carismatico proveniente, nella maggioranza dei casi, dai vari centri religiosi. I contatti fra i gruppi dei vari paesi avvengono prevalentemente in occasione di sconfinamento per motivi di difesa tattica. Al contrario le polizie magrebine ed europee sono organizzate in un’opera di controllo dei gruppi locali e delle frange straniere che hanno sconfinato.

3) La Francia prosegue nel suo mandato internazionale di gendarme in Africa e mantiene un ruolo importante nelle politiche finanziarie rivolte al Magreb. In Francia vivono e lavorano 1.200.000 persone con passaporto magrebino, la metà delle quali sono marocchine.

4) La crisi economica algerina, per il crollo del prezzo degli idrocarburi, è insanabile senza consistenti sostegni dei centri finanziari internazionali e non accenna a rallentare.

5) La situazione del Marocco, pur con una considerevole crisi economica, è la più tranquilla e non sono presenti gruppi integralisti armati, mentre in Tunisia con una crisi meno pesante c’è una sensibile adesione ai movimenti islamici con organizzazioni già attive.

6) Il congiungimento, almeno tra le formazioni algerine e tunisine nel caso di una guerra civile in Algeria, allo stato di fatto attuale, appare un’evenienza remota.

7) Il grande assente nel Magreb, per quanto ne sappiamo, è l’organizzazione di classe del proletariato comunista con il suo programma rivoluzionario in grado di prendere il controllo della guerra civile.
 
 

Il «Libro Verde» di Gheddafi

La Libia, secondo la definizione della riforma costituzionale del 1977, è già una repubblica islamica, socialista e popolare ma, giri di parole a parte, sia per l’isolamento sia per l’embargo internazionale, a seguito del rifiuto di Gheddafi di concedere l’estradizione a due cittadini libici implicati, secondo gli investigatori inglesi, in un sanguinoso attentato ad un aereo britannico, si sa molto poco sull’aggiornamento dei dati economici fermi al 1988 e sulle opposizioni al regime statale.

La Libia diventa Stato indipendente nel 1951; nel 1969 un golpe militare di giovani ufficiali guidati dal colonnello Moammar el Gheddafi depone il re ldris I. Senza assumere alcuna carica pubblica Gheddafi si attribuisce il potere supremo di «Guida della rivoluzione». Nel 1973 Gheddafi dichiara l’islamismo via per la rivoluzione sociale ovvero la «Terza teoria universale». Nel 1976 viene proclamata la «Repubblica popolare araba di Libia» fondata sul Corano. Con la riforma costituzionale del 1977 la Libia assume la denominazione di «Jamahiriya araba libica socialista popolare» (Jamahiriya significa letteralmente movimento di massa) e viene istituito un sistema di governo popolare diretto che culmina nel Congresso generale del popolo il quale elegge un segretariato di 7 membri il cui segretario è in pratica il Capo dello Stato e un Comitato generale equivalente a un Consiglio dei ministri. Gheddafi rimane «guida della rivoluzione».

Il testo guida per questa Jamahiriya è il ’libro verde’ che leggiamo nell’edizione in italiano edita a Tripoli dal Centro ricerche e studi sul libro verde. Il testo è articolato su tre parti: la prima «soluzione del problema della democrazia, il potere del popolo»; la seconda «soluzione del problema economico, il socialismo» e la terza «base sociale della Terza teoria Universale».

Nella prima parte si sviluppa la tesi che la democrazia di fatto non esiste perché con l’attuale sistema della conta dei voti la consistente parte in minoranza (il 49% schiacciato dal 51%) viene sempre esclusa dalle decisioni per cui in sostanza le democrazie di stampo parlamentare sono regimi dittatoriali camuffati. Il partito è la dittatura contemporanea: per la società la lotta dei partiti ha lo stesso effetto negativo della lotta tribale o settaria. Il sistema politico di classe è anch’ esso errato perché esso rappresenta solamente una parte del popolo; non sia mai che una parte domini il tutto poiché alla lunga si riformerebbe di continuo un movimento circolare per cui chi prende il potere come liberatore col tempo diverrebbe oppressore fino a quando un nuovo liberatore insorgerebbe per scacciare gli oppressori in un sistema che continuerebbe all’infinito. Casualmente l’esempio viene fatto con la classe operaia che dopo aver preso il potere verrebbe poi combattuta da classi del tutto simili alle classi abolite.

La soluzione è semplice: «È diritto dei popoli proclamare solennemente il nuovo principio: Nessuna rappresentanza al posto del popolo». La rappresentanza è un’impostura; la soluzione è la democrazia diretta; non esiste democrazia senza congressi popolari e comitati popolari in ogni luogo. Alle masse non resta altro che lottare per abbattere tutte le false democrazie comunque denominate.

La democrazia è il controllo del popolo su se stesso e si attua attraverso congressi popolari di base di tutti i cittadini che eleggono ciascuno una sua segreteria, le quali si riuniscono per formare altri congressi popolari non di base e via via, tramite elezioni interne con un sistema piramidale, si arriva al vertice del congresso generale del popolo che si riunisce una volta all’anno ed elegge un segretariato di 7 membri ed un segretario, ovvero le massime cariche dello Stato.

Quali sono le competenze, limiti, potere, uso della forza coercitiva e delle armi, qui non è detto. Nella sostanza tutto ciò assomiglia ad una forma ibridata tra gli antichi consigli familiari-tribali ed i moderni comitati di quartiere cui sono riservati la gestione degli affari minuti ed al massimo l’espressione di pareri ed opinioni sulle grandi questioni, che poi sono sempre risolte nella tenda di Gheddafi.

Questa è la grande novità dove ogni dubbio trova conforto ed ogni questione viene risolta appellandosi alla legge naturale della società, costituita dalla tradizione a sua volta compresa nella religione. La religione quindi è una conferma del diritto naturale ed è lo strumento di governo, che è tenuto a seguire la legge naturale della società.

Come ben si vede nulla di così rivoluzionario e sconvolgente per una società fino ad ieri agro-pastorale, dove erano ancora molto forti i legami delle forme comunistiche della vita tribale, ben compresi quelli della proprietà indivisa del suolo e dell’acqua, che per le sue risorse petrolifere è stata trascinata nel vortice della produzione capitalistica per la quale il resto non conta o sono solo affari interni.

La seconda parte, sulla soluzione del problema economico, accenna al fatto che vi sono state importanti e storiche evoluzioni sulla soluzione del problema del lavoro e del suo costo fino alle norme che limitano il reddito e che vietano la proprietà privata trasferendola allo Stato ma non è stato ancora definitivamente risolto quello dei lavoratori-produttori che rimangono ancora dei salariati anche se in campo normativo si sono fatti molti miglioramenti. Il trattamento salariale rimane nonostante «i tentativi artificiosi di riforma, più vicini alla beneficienza che al riconoscimento dei diritti dei lavoratori», mentre è una sana norma che chi produce deve consumare per cui il salariato anche se guadagna di più «è come uno schiavo del padrone alle cui dipendenze permane temporaneamente e la cui schiavitù si manifesta fino a quando egli lavorerà alle sue dipendenze ed in cambio di un compenso. Ciò indipendentemente dal fatto che il datore di lavoro sia un individuo o lo Stato» (...) «La soluzione definitiva rimane nell’abolizione del salario e nella liberazione dell’essere da questo genere di schiavitù: e cioè il ritorno alle norme naturali che hanno definito il rapporto prima del sorgere delle classi, e delle varie forme di governo e delle legislazioni elaborate dall’uomo (...) Da queste norme naturali è scaturito un socialismo naturale fondato sull’eguaglianza tra gli elementi che concorrono alla produzione economica».

Quindi una eguale ripartizione del prodotto fra gli individui cui spetta una quota parte (non è ben chiaro come sono considerati attrezzi, animali, materie prime e macchinari) e «così si attua un sistema socialista al quale si attiene tutto il processo produttivo fondato su questa norma naturale».

Al contrario «le teorie storiche precedenti si sono occupate del problema economico solo dal punto di vista dell’appartenenza dei fattori produttivi e dei salari rispetto alla produzione, senza riuscire a chiarire l’essenza della produzione stessa (...) La classe operaia è in diminuzione graduale e continua, conformemente all’evolversi delle tecnologie e delle scienze (...) e sarà assorbita progressivamente dal processo produttivo. Tuttavia l’uomo nella sua nuova forma rimarrà sempre un elemento fondamentale del processo produttivo».

Nel Libro verde il rapporto bisogno-libertà è chiarito affermando che la libertà dell’uomo è incompleta se i suoi bisogni dipendono da un altro uomo, per cui la soddisfazione di quelli mancanti producono lo sfruttamento di un uomo schiavo da parte di un altro uomo. La casa, necessità insopprimibile, deve essere di proprietà di chi la abita; la libertà finisce quando si deve pagare l’affitto e quindi tutti i programmi di edilizia statale non sono la vera soluzione. «Nessuno ha il diritto di costruire una casa in più della propria e di quella dei suoi eredi per cederla in locazione»; idem per gli animali da trasporto e lavoro e gli automezzi; proprietari si, noleggiatori no.

Per quanto riguarda il sostentamento, nella società socialista non dovrebbero esserci salariati ma associati ed i proventi necessari per tutti gli acquisti devono giungere dalla quota parte come associato e non come salariato. Inoltre «La terra non è proprietà di nessuno ma è permesso ad ognuno di sfruttarla, godendone i benefici mediante il lavoro, l’agricoltura ed il pascolo».

Gli esempi che seguono definiscono un socialismo in cui si afferma la figura del lavoratore singolo, o associato in cooperative, che lavora, produce e consuma per il solo bisogno personale, della propria famiglia e degli eredi, senza servitù domestica considerata la peggiore delle schiavitù, che possiede solo la sua casa, il cammello o l’automobile e ha risparmi necessari a sopperire le prime necessità della sua famiglia. Avere un di più significa sottrarre ad altri e ridurli nel bisogno e privarli quindi della libertà.

Per noi è la descrizione di una parca società di contadini, artigiani e soci-produttori piccolo-borghesi con un processo di accumulazione appena sopra lo zero.

Queste le solenni conclusioni in campo economico: «La trasformazione delle società contemporanee da società di salariati a società di soci, è fatale conseguenza dialettica delle tesi economiche contrastanti esistenti nel mondo di oggi, ed è anche fatale conseguenza delle ingiustizie inerenti al sistema salariale (...) Il passo finale è l’avvento di una nuova società socialista, dove il profitto e la moneta scompariranno. Questo si verificherà trasformando la società in una società totalmente produttiva dove la produzione raggiungerà un livello tale da soddisfare i bisogni materiali di tutti gli individui della società. In questa fase finale scomparirà automaticamente il profitto e non ci sarà più bisogno della moneta. Riconoscere il profitto significa ammettere lo sfruttamento».

La terza parte sulla base sociale ci illustra l’insieme dei rapporti tra la famiglia, la tribù, la nazione, il rapporto con le altre nazioni, la religione ed i ruoli naturali dell’uomo e della donna {«Non vi è differenza nei diritti umani fra l’uomo e la donna e fra l’adulto e il bambino. Ma non vi è eguaglianza completa fra loro per i doveri cui devono assolvere»}. C’è spazio anche per le minoranze {ai 2 milioni di immigrati in Libia va pur dedicata una paginetta} e i negri: «ora sarebbe giunto il tempo per la razza negra di dominare poiché le altre l’hanno già fatto». Segue sulla nefanda istruzione coercitiva di tipo occidentale che con i suoi programmi ufficiali limitano la sete di sapere; la musica, le arti, lo sport visto negli stadi vengono liquidati così: «Ai popoli beduini non importa il teatro e gli spettacoli, perché lavorano sodo e sono del tutto seri nella vita. Essi realizzano la vita seria, e perciò si burlano della recitazione. Le comunità beduine non stanno a guardare chi svolge una parte, ma praticano i divertimenti o i giochi in modo collettivo, perché ne sentono il bisogno e li eseguono senza spiegazioni».

Va dato merito alla «guida della rivoluzione» di non aver tirato in ballo né Marx né Lenin come di non aver sfilato sulle note dell’Internazionale ma di aver modellato il suo parco socialismo sulla base delle consuete regole sociali delle antiche comunità beduine, come si volesse fermare il tempo ad una pretesa età dell’oro islamico fatta di lavoro e rigore morale sulla base della piccola proprietà privata che comprende però anche i vantaggi dell’industrializzazione.

Le ricchezze accumulate dalla nazionalizzazione delle risorse petrolifere sono state in parte ridistribuite sotto forma di discreti servizi sociali, derrate alimentari di base calmierate, programmi di irrigazione, ecc. Certo è che il plusvalore estorto ai 2 milioni di immigrati come salariati e domestici, la peggiore delle schiavitù, a qualcuno va.

Non ci sono dati sufficienti per leggere l’economia libica nella sua vera struttura cioè il tipo di imprese, la suddivisione per addetti, il grado di meccanizzazione agricola, il tono di disoccupazione, il ruolo delle multinazionali e delle imprese straniere su concessione, ecc. per cui questo libro verde rimane come un propagandistico breviario di buone intenzioni mentre l’economia reale non va sicuramente verso il preteso socialismo islamico né verso quello bolscevico di Lenin. La generale crisi capitalistica ha già varcato le frontiere libiche.
 

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L’OPPOSIZIONE PROLETARIA E SOCIALISTA ALLA GUERRA DI LIBIA DEL 1911
 

Scrive la nostra Storia della Sinistra nel capitoletto intitolato ’Gli intransigenti prevalgono’: «Quello che dette al Partito Socialista un violento scossone fu un fatto storico d’importanza non solo locale ed italiana ma collegato al corso dell’imperialismo mondiale, e gli effetti furono favorevoli alla posizione che il partito italiano potrà prendere nel 1914. Giolitti, tornato al potere (con audace manovra, egli aveva fatto di tutto per avere Bissolati nel Ministero, ma non vi riuscì, e forse il più serio ostacolo si ridusse, nella pacchiana Italia, a una questione di giacca e non frac al Quirinale!), il 29 settembre 1911 dichiarava guerra alla Turchia e la flotta italiana occupava Tripoli».
 

La situazione internazionale

Nel 1908 l’Impero Ottomano era stato scosso dalla rivoluzione nazionalista dei Giovani Turchi intesa a trasformarlo in uno Stato costituzionale, moderno; nel settembre successivo la Grecia annetteva l’isola di Creta; nell’ottobre Ferdinando I si proclamava zar del Regno indipendente di Bulgaria, mentre l’Austro-Ungheria annetteva all’impero la Bosnia e l’Erzegovina, di cui aveva l’amministrazione dal tempo del Congresso di Berlino. La Serbia, che vedeva compromessi i suoi piani per la creazione di un Regno grande serbo, mobilitava il suo esercito. Nella questione degli Stretti (apertura del Bosforo e dei Dardanelli) la Russia urtava contro l’opposizione britannica, si credeva giuocata dall’Austria e si schierava dunque con la Serbia. La richiesta inglese di una conferenza internazionale per chiarire la crisi bosniaca, falliva perché l’Austria, per timore di uscirne battuta, la respinse. L’Italia che temeva l’accrescimento della potenza dell’Austria nei Balcani, si avvicinava alla Russia con cui concluse nel 1909 l’accordo segreto di Racconigi con lo scopo di mantenere lo status quo in quella regione. In questo trattato la Russia riconosceva eventuali interessi dell’Italia in Africa.

In questo continente la Francia, dopo aver occupato la città di Casablanca nel 1907, intensificava la penetrazione in Marocco. Nel febbraio 1909 la Germania riconosceva il preminente interesse francese in quella regione, ma, di fronte all’occupazione da parte di truppe francesi della città di Fez, nel maggio 1911, la Germania inviò nelle acque del Marocco l’incrociatore Panther che gettò l’ancora nel porto di Agadir. La forte tensione tra Francia e Germania veniva risolta con un accordo che prevedeva la cessione alla Germania di 200.000 Kmq di territorio in Africa equatoriale in cambio della rinunzia da parte di Berlino ad ogni interferenza in Marocco.

Poche settimane dopo l’incidente di Agadir, il 29 luglio 1911, il ministro degli esteri San Giuliano inviava da Roma un promemoria segreto a Giolitti: «Dal complesso della situazione internazionale e di quella locale in Tripolitania, io sono oggi indotto a ritenere probabile che, tra pochi mesi, l’Italia possa essere costretta a compiere la spedizione militare in Tripolitania». Il ministro continuava argomentando che il principale pericolo in caso di una simile azione era che il colpo inflitto alla Turchia dalla occupazione della Tripolitania avrebbe potuto determinare una nuova crisi nel Balcani spingendone i popoli ad insorgere contro il regime dei Giovani Turchi, irritando l’Austria che vi avrebbe visto un attacco contro la sua influenza nella regione. D’altronde il momento era favorevole per l’azione perché la Francia, ancora impegnata nella tunisificazione del Marocco e in contrasto con la Germania, avrebbe probabilmente appoggiato l’impresa italiana, mentre il nuovo regime turco, ancora giovane, non avrebbe potuto opporre una seria resistenza militare.

Il pericolo dell’inazione era che altri avrebbero potuto agire al posto di Roma «I timori italiani – commenta lo storico inglese Seton Watson nella sua Storia d’Italianon erano privi di fondamento. La Francia continuava a mangiucchiare nuovi territori lungo le frontiere tunisine ed algerine; nel 1909 l’Inghilterra aveva occupato Sollum, ed era convinzione generale che meditasse di creare un porto di rifornimento di carbone per le navi a Bomba, 270 chilometri più a ovest; la Germania era pericolosamente attiva a Tripoli, dove aveva creato banche e linee di navigazione e dove imprese tedesche effettuavano lavori pubblici ed acquistavano terre. Una fonte più grave di preoccupazione era l’ostruzionismo turco all’iniziativa economica italiana. Nel 1907 il Banco di Roma istituì una filiale a Tripoli e cominciò a finanziare imprese commerciali, compagnie di navigazione e piccole imprese industriali italiane. La Turchia aveva pienamente ragione di diffidare dell’attività del Banco che era praticamente uno strumento del governo italiano; i suoi investimenti non superavano il milione di lire e gran parte delle sue presunte attività economiche servivano in realtà di copertura ad un’azione di penetrazione politica».

Anche il ministro San Giuliano non mancava di notare che «ogni piccolo incidente tripolino ed italo-turco è ad arte ingigantito dalla stampa per diversi moventi, tra cui il denaro e l’intrigo del Banco di Roma, interessato ad affrettare l’occupazione italiana della Tripolitania» (G. Candeloro, Storia d’Italia). «Fin dal 1907 infatti il Banco di Roma, i cui capitali provengono dal Vaticano e il cui Direttore generale è un Pacelli, ha iniziato tutta una serie di investimenti in quella regione; nel 1910 detiene già le linee di navigazione Malta-Tripoli-Alessandria e Tripoli-Bengasi-Alessandria. In quest’anno allarga ancora la sua attività con l’aprire una sua succursale a Bengasi, creando un oleificio, una fabbrica di ghiaccio, acquistando terreni e monopolizzando il commercio delle spugne» (P. Maltese, La terra promessa).
 

Una guerra extraparlamentare

In una lettera del 9 agosto 1911 San Giuliano comunicava a Giolitti che si era diffusa la voce di trattative del Banco di Roma con una società di banchieri austro-tedeschi per la cessione degli affari in Tripolitania e aggiungeva «più volte il Pacelli ha fatto questa minaccia ma io non credo che la tradurrà in atto finché serberà la speranza che l’Italia occupi la Tripolitania o che il Banco di Roma venga altrimenti compensato delle perdite che soffre in Tripolitania» (Candeloro).

In un primo tempo si pensava di agire dopo la fine della crisi franco-tedesca ma verso la metà di settembre sembrò probabile che tra la Francia e la Germania venisse raggiunto un accordo; il governo italiano allora decise di agire subito anche per impedire che la Germania, alleata del governo turco, intervenisse con la sua autorità di grande potenza per impedire l’impresa. «Il 24 settembre Giolitti chiese telegraficamente al Re, che si trovava a San Rossore, il consenso all’invio di un ultimatum al governo turco, che il sovrano (già informato una settimana prima da Giolitti della situazione) diede immediatamente. Il 26 l’incaricato d’affari turco disse a San Giuliano che il suo governo era disposto a concessioni economiche pur di evitare la guerra. Pressioni perché si iniziassero i negoziati su questa base furono fatte lo stesso giorno e il successivo da parte tedesca sui rappresentanti italiano a Berlino e Costantinopoli. Ma nella notte tra il 26 e il 27 partì da Roma l’ultimatum con cui si chiedeva al governo turco di consentire, entro ventiquattr’ore, all’occupazione italiana della Tripolitania e della Cirenaica. All’ultimatum fu data, come era previsto, risposta negativa, sicché il 29 settembre l’Italia dichiarò guerra alla Turchia. (...) La dichiarazione di guerra, costituzionalmente valida in base all’art.5 dello Statuto, fu fatta senza approvazione, né ratifica del Parlamento. Questo infatti aveva preso le vacanze nel luglio 1911 e si riaprì soltanto il 22 febbraio 1912 (...) La decisione di fare la guerra alla Turchia e di farla in quel momento fu presa dunque al vertice della gerarchia statale, da Giolitti e da San Giuliano con l’approvazione del Re, dei ministri militari e degli alti comandi delle forze armate» (Candeloro).

Giolitti governa con l’appoggio del PSI e ha invitato addirittura Bissolati ad entrare nel governo attirandolo con la proposta di allargamento della base elettorale anche agli analfabeti maggiori di trent’anni e con quella dell’istituzione di una gestione statale delle assicurazioni sulla vita ma, allo stesso tempo, esercita una vera e propria dittatura escludendo platealmente il parlamento da una decisione decisiva per la Nazione come la proclamazione di una guerra. «In questo contesto la guerra coloniale contribuì non poco all’indebolimento delle strutture parlamentari, tanto che non solo le ostilità furono aperte senza il voto del Parlamento, anzi durante una vacanza parlamentare di oltre sette mesi, ma addirittura il Parlamento non fu riconvocato né per ratificare la dichiarazione di guerra, né per discutere il decreto di annessione, e quando finalmente, dopo cinque mesi dall’inizio delle ostilità, la Camera venne riaperta, il governo pretese l’esclusione dal dibattito della condotta delle operazioni militari nonché delle questioni politiche relative all’impresa. Né meno grave fu la mortificazione delle prerogative parlamentari sulla politica finanziaria, con la pretesa di Giolitti di avere una sorta di sanatoria dell’arbitraria finanza di guerra tanto che le nuove imposte vennero introdotte per decreto e poi ratificate senza sostanziali obiezioni (...) La guerra venne pagata con artifici contabili, attraverso il sistema delle anticipazioni della tesoreria, il debito, la parziale utilizzazione del fondo di cassa» (Degl’Innocenti, I socialisti italiani e la guerra di Libia).
 

Un PSI in dottrina insufficientemente armato

La decisione della guerra non giunse però inaspettata poiché già da mesi era iniziata un’agguerrita campagna di stampa che spingeva verso l’intervento. «Tra la stampa che caldeggiava la guerra coloniale troviamo, accanto ai giornali del trust cattolico, ’Il Giornale d’Italia’, finanziato dal gruppo Bastogi, dagli armatori e dall’industria bellica, ’Il Mattino’, ’La tribuna’, finanziata dall’industria navale genovese e dalla Banca Commerciale, il ’Resto del Carlino’, organo della borghesia agraria emiliana e degli zuccherieri settentrionali, ’L’Idea Nazionale’, in stretto contatto con gruppi finanziari e dell’industria siderurgica e meccanica. E appare pure significativo che un giornale come ’Il Corriere della Sera’ si prestasse a ’fare della retorica’ sull’impresa libica, non solo dando uno spazio determinante al filo nazionalismo di Andrea Torre, ma soprattutto mobilitando sulla guerra tutto il proprio corpo redazionale» (Degl’Innocenti).

Gli unici a non aspettarsela la guerra sembrano essere stati i dirigenti del PSI. Il 16 settembre 1911 infatti, 13 giorni prima della dichiarazione di guerra, Filippo Turati scriveva sulla ’Critica sociale’: «Non ancora qui s’è scritto un rigo della ’impuntatura’ tripolina (...) Confessiamo: finora, da noi, non si riuscì a prenderla sul serio (...) Si aggiunga che alle frottole infinite dei quotidiani, alla pretesa ’perplessità’ dell’on. Giolitti, davamo – e diamo – la fede, che si conviene a tutti gli altri ’serpenti di mare’ della zoologia giornalistica estiva. Ma, poiché il chiasso sale ormai alle stelle, e il partito socialista è tirato pei piedi nella lizza (...) – e la sezione socialista milanese suona a stormo, come già le fiamme investissero borghi e castella – non facciamo che il silenzio possa interpretarsi come acquiescenza od indecisione (...) L’attuale presidente del consiglio – senza essere personalmente né un Cavour né un Tiburzi, come pretendono sia stato diplomato da noi molti che non ci hanno mai letto – è abbastanza fine ed accorto per non dare ai suoi dolci avversari la ineffabile gioia di vederlo cascare nel trabocchetto che gli vanno ordendo dinnanzi; né vorrà, verso il limite estremo di sua carriera, fare a brani la innestata bandiera del più largo suffragio, per invidia degli allori sanguinosi che attristarono e disonorarono la canizie al Crispi (...) Ma, se il bromuro del buon senso non bastasse a prevenire nei responsabili gli accessi, di cui l’aura si annnunzia con tanto insueto fracasso; se la mulaggine dei turchi e dei tripolini d’Italia, ricusandosi alle provvide docce della fredda ragione, si accanisse a spingere le cose verso il precipizio; pensiamo – ed è l’ora forse di non dissimularlo – che il partito socialista ed il proletariato organizzato d’Italia abbiano oggi quanto basta di coscienza e di forza per tener testa; e che possano, senza iattanza o spavalderia, affrontare le bravacciate degli smargiassi, e dir loro semplicemente: Avanti pure signori! Noi siam pronti».

Queste argomentazioni di Turati, certo la personalità più significativa del socialismo riformista, dimostrano incontestabilmente la miopia politica della direzione riformista del PSI che la portava, da una parte a fondere la previsione della condotta della politica estera dello Stato italiano alle caratteristiche individuali di Giolitti invece di procedere a considerarne lo stadio di sviluppo economico, politico, sociale, e dall’altra a sopravvalutare, in modo clamoroso, la possibilità del partito e delle organizzazioni sindacali di influire sulle decisioni dell’esecutivo su un piano legalitario e democratico che si rivelerà invece del tutto ininfluente.

All’interno del PSI ben poche furono le voci che seppero indicare la linea della difesa intransigente dei principi dell’internazionalismo proletario, quali erano stati enunciati a più riprese dalla II Internazionale. Questi difficili anni in effetti, e poi più decisamente quelli cruciali tra il 1914 e il 1920, dimostreranno che per avere una corrispondenza tra enunciazioni teoriche e azione materiale del Partito una delle condizioni necessarie è che le prime siano chiare e nette e ben digerite dall’organismo ’Partito’.

L’impresa libica, nonostante la debolezza del Capitale italico sia dal punto di vista industriale sia finanziario, era una guerra imperialista, anche se da ’imperialismo straccione’, (ma questo giudizio non inficiava il precedente), poteva semmai essere considerata proprio un’esibizione di forza militare per imporre la presenza dell’Italia tra l’esiguo numero delle potenze imperialiste «Non a caso – commenta Degl’Innocenti – il 1911 fu l’anno delle grandi concentrazioni industriali in una situazione finanziaria dominata, specialmente dopo la crisi del 1907, dalla banca e dalla presenza dello Stato (...) Infatti, l’impresa libica non rappresentava tanto la riscossione obbligata di una vecchia cambiale firmata dalla diplomazia internazionale e dettata da motivi di politica parlamentare interna, quanto piuttosto l’inizio di una politica estera più attiva ed ’energica’, in sostituzione di quella giolittiana ’del piede di casa’, e il tentativo di consolidamento di una politica estera ’mediterranea’, nei Balcani e nell’impero turco più che in Africa, come «inserimento stabile dell’Italia nel mercato imperialistico internazionale».

Ma l’Odg della sezione socialista milanese del 15 settembre, se ha il pregio di ’suonare a stormo’, come si era espresso Turati, richiamando il Partito ad assumersi le sue responsabilità politiche, dimostra però una forte debolezza sul piano dottrinale, soprattutto nell’analisi delle cause dell’azione militare, e non esce da quel piano legalitario al cui interno agisce la direzione del Partito: «Constatata la tracotanza con la quale le congiurate correnti militariste, affaristiche, patriottarde e nazionaliste, impadronitesi di quasi tutta la stampa politica, non esclusa una parte dello stesso giornalismo democratico, incalzano la diplomazia ed il governo italiano, fra l’antica acquiescenza del paese, smemorato o distratto, a rinnovare oggi a Tripoli, ad esclusivo servizio della borghesia germanica in sospettoso antagonismo con quella di Francia, l’errore enorme già commesso a servizio dell’Inghilterra, coll’occupazione dell’Eritrea, espiato a così duro prezzo di denaro, di dignità e di sangue nazionale; affermando una volta di più la criminosa assurdità di qualsiasi occupazione militare di colonie da parte di un paese, cui le forze e i capitali neppure bastano – né bastarono in mezzo secolo di unità nazionale – a colonizzare e rivendicare a civiltà una metà del proprio territorio – anzi neppure a iniziare questa ben più urgente e doverosa riscossa – per sottrarre se stesso alla vergogna del Meridione, economica e morale, incombente tuttora sui molteplici suoi Verbicaro; fa voto che il proletariato italiano sappia intendere in tempo la gravità dell’imminente pericolo: che le sezioni, la stampa, i propagandisti del partito socialista si mettano alacremente in campagna per illuminarlo e sospingerlo alle immediate difese; e, ricordando come, non più tardi di ieri, la colossale manifestazione pacifista del proletariato berlinese imponeva, alla megalomania militarista dell’imperatore feudale, quel rapido mutamento di stile, consacrato nel discorso pacifista di Amburgo, l’azione risoluta di un proletariato consapevole; invita la direzione del partito e il gruppo socialista parlamentare ad accordarsi senza indugio con la Confederazione generale del lavoro affinché analoghe manifestazioni proletarie solennemente ordinate e severamente ammonitrici, valgano a deprecare anche in Italia i disastri minacciati alla nazione dall’imperversare della nuova irresponsabile ubbriacatura militaresca e imperialistica» (da ’La Giustizia’, 17 settembre 1911).

Il giorno dopo, come a rispondere alla chiamata, si riuniva il Comitato centrale della Federazione Giovanile Socialista che approvava il seguente documento: «Discutendo in merito all’agitazione promossa nel paese dal nazionalismo per l’occupazione da parte delle truppe italiane della Tripolitania, mentre riafferma la sua adesione al programma dell’Internazionale socialista avverso ad ogni impresa guerresca espansionistica della borghesia delibera: 1) di iniziare sul giornale federale L’Avanguardia una campagna energicamente contraria a quella dei giornali borghesi e invitare tutte le sezioni ad iniziare od associarsi a tutte quelle manifestazioni tendenti a formare nel popolo una viva corrente avversa alla minacciata invasione africana; 2) di mettersi a completa disposizione del partito socialista e della Confederazione del lavoro per tutte quelle manifestazioni ch’essi intendessero promuovere per impedire con qualunque mezzo una tale disastrosa impresa guerresca» (da ’L’Avanguardia’, 24 settembre 1911).

La direzione del PSI si riuniva il 17 settembre dichiarandosi «risolutamente avversa a qualsiasi avventura militaresca in Tripolitania», ma rimandando allo stesso tempo «al gruppo parlamentare di manifestare il proprio pensiero» e riducendo l’azione diretta del proletariato all’appoggio che «deve essere dato, senza restrizioni, al gruppo parlamentare per ottenere prima la convocazione del Parlamento per agire poi alla Camera e nel Paese».

In tutto il paese intanto per iniziativa delle sezioni locali del PSI e della Federazione Giovanile, delle Camere del Lavoro, dei circoli anarchici e sindacalisti, vengono tenuti comizi, manifestazioni, si indicono scioperi contro la guerra, cercando di rintuzzare la mobilitazione nazionalista. Ma è solo il 20 settembre che si riuniscono, presso la Camera del Lavoro di Milano, il Consiglio direttivo della CGL, alcuni rappresentanti della Federterra e la Direzione del PSI.«Il Consiglio della Confederazione generale del lavoro, di fronte alle manovre del neonazionalismo che tenta di travolgere il paese in imprese nazionaliste delle quali l’Italia ebbe già a subire vergogne e danni, ritiene urgente una riunione plenaria della direzione del partito socialista, della Confederazione generale del lavoro e del gruppo parlamentare socialista. Delibera la pubblicazione di un manifesto che illumini l’opinione pubblica sui pericoli che si minacciano sulla vita politica ed economica d’Italia ed invita le organizzazioni dei maggiori centri a convocare per domenica prossima 24 pubblici comizi contro ogni tentativo di azione militare a Tripoli e dichiara che, per evitare all’Italia il disastro di una guerra, è disposta a ricorrere a tutti i mezzi non escluso lo sciopero generale, la cui effettuazione è deferita al Comitato esecutivo della Confederazione d’accordo con la direzione del partito socialista e del gruppo parlamentare» (’Avanti!’, 22 settembre 1911).

Ma già da giorni, un po’ in tutto il Paese le organizzazioni proletarie locali, sia politiche sia economiche si erano mobilitate per organizzare l’opposizione alla guerra. Nella direzione del partito, come in quella del sindacato non si era affatto convinti dell’opportunità della proclamazione dello sciopero generale, ma questo fu in pratica imposto dalla base socialista e dalle organizzazioni territoriali. «In realtà a vincere l’opposizione dei bissolatiani e le notevoli perplessità di Turati e di Treves, che vedevano nell’agitazione in atto nel paese solo ’uno stato convulsonario’ e il pericolo di ’un’egemonia degli anarchici’, furono gli organizzatori sindacali, che con decisione avanzarono e sostennero la richiesta dello sciopero generale di 24 ore per il 27 settembre, per il timore di perdere ogni contatto con la base. Rigola disse che la CGdL non poteva ’non assecondare quello che era il sentimento vivo e diffuso nelle masse’, e Ludovico Calda aggiunse che l’organizzazione confederale era decisa a ’capitanare per disciplinarlo’ uno sciopero che sarebbe scoppiato comunque» (Degl’Innocenti).

La direzione del gruppo parlamentare del PSI, riunita a Bologna il 25 settembre insieme ai rappresentanti della CGL, decise quindi all’unanimità di proclamare lo sciopero generale per il 27 settembre pur non nascondendo, come ben risulta dal manifesto diffuso per l’occasione, la propria riluttanza verso quest’azione di lotta che temeva potesse sfuggirle di mano: «Chiede a chi di ragione la immediata convocazione del Parlamento della nazione; e mentre consente al sentimento di protesta e di sdegno che anima oggi la manifestazione popolare; di fronte alla deliberazione presa dalla Confederazione generale del lavoro, invita i lavoratori organizzati a contenere nei confini della più severa disciplina e nei brevi limiti di tempo deliberati dalla confederazione allo sciopero generale il cui prolungarsi e il cui trascendere a dispetto del sentimento dei suoi promotori non potrebbe oggi in Italia ottenere altro risultato che di rafforzare le correnti militaristiche e della reazione che conducono a Tripoli le nostre navi; e li esorta a rafforzarsi invece nelle proprie organizzazioni e ivi addestrarsi all’assidua prova della propria battaglia sul terreno politico – la sua assenza dal quale è la vera e sola cagione che rende possibili le follie a suo danno dei governi e delle classi, che oggi ancora monopolizzano le maggioranze parlamentari».

Si intese dunque dare allo sciopero soltanto un carattere dimostrativo, di scissione di responsabilità, di avvertimento al Governo, non certo quello di una manifestazione di forza, di minaccia proletaria che potesse indurre l’esecutivo a rivedere le sue decisioni, come conferma anche il comunicato della CGL, diramato il giorno stesso dello sciopero: «La Confederazione generale del Lavoro, in esecuzione di quanto deliberato nell’adunanza del suo Consiglio direttivo del 20 corrente; plaudendo all’adesione data dal gruppo parlamentare socialista nel convegno del 25 corrente all’ordine di idee esposte dai rappresentanti della confederazione stessa e che si concretizzano nella necessità di opporre alle follie espansioniste tripoline un’energica e grandiosa manifestazione di popolo che dia un valore tangibile alla corrente di protesta che freme nell’anima della nazione che lavora e che paga di persona; invita tutte le organizzazioni operaie d’Italia ad abbandonare il lavoro la mattina del 27 corrente, mantenendosi in modo che la protesta delle braccia conserte si mantenga dignitosa e lontana da ogni atto di violenza, sia alta e solenne ad ammonimento al governo e alle classi dirigenti che il popolo sta vigile custode delle conquiste strappate e del suo destino» (’Avanti!’, 26 settembre 1911).
 

L’opposizione operaia e di sinistra

Non mancava all’interno del Partito una corrente di sinistra che, attestata su posizioni di classe, cercava di portarlo sul giusto binario. Uno dei suoi strumenti era il settimanale ’L’Avanguardia’, organo della Federazione Giovanile; il 24 settembre l’editoriale scriveva, con spiccata chiarezza rispetto alle dichiarazioni riformiste: «Contro Tripoli noi non opponiamo, come obbligato cliché, la Calabria e la Sardegna; non opponiamo le miserie interne; le vergogne dell’analfabetismo patrio; la siccità di acqua, di strade, e di pane meridionale: opponiamo puramente semplicemente la nostra concezione dottrinale del socialismo di classe. Provi pure la borghesia italiana ad andare a Tripoli e se ha la forza necessaria per affrontare una guerra esterna ed una interna ha in diritto di sprezzare e non tener conto delle chiacchiere sovversive e dei latrati dei cani proletari. Il diritto in tutti i campi non è che l’espressione della forza (...) È l’eterna questione che è l’anima stessa dell’attuale sviluppo storico: è il problema della lotta di classe. Al di sopra delle nazioni vi sono le classi; al di sopra dei nazionalismi vi è il socialismo internazionale e perciò superatore del problema della Patria. Chi non vuol capire ciò è un illuso o vuole illudere gli altri. Il proletariato però, con un istinto naturale forse superiore alla stessa coscienza teorica, sente profondamente questo stato di incolmabile antagonismo d’interessi, d’idealità, di azione e di fronte ai borghesi italiani farneticanti per Tripoli grida: Andate pure a Tripoli e noi scenderemo in piazza, il più forte vincerà» (’L’Avanguardia’, 24 settembre 1911). A sostegno di quanto affermato dalla FIGS, si riportavano passi di molti giornali socialisti locali che sostenevano le posizioni degli intransigenti.

Lo sciopero del 27 ebbe una riuscita soltanto parziale, riuscì meglio nel Nord, mentre fallì al Sud, con esclusione di alcuni centri proletari. Le ragioni di questo risultato sono molte; non bisogna ovviamente trascurare il clima di mobilitazione nazionalista e patriottarda creato con ogni mezzo disponibile dai partiti e dalle istituzioni borghesi, né la repressione poliziesca che quando poté, impedì riunioni, comizi e manifestazioni. Ma certamente una delle cause principali fu proprio la mancanza di una direzione energica del movimento e i limiti in cui lo si era voluto imbrigliare.

Non mancarono episodi anche gravi di scontri tra manifestanti ed esercito: a Langhirano una cinquantina di operai ed operaie si recarono alla stazione del tram e, per impedirne la partenza, si stesero sui binari; caricati dalla polizia lasciarono sul terreno 4 morti e diversi feriti. A Poggibonsi le madri dei richiamati si gettarono sui binari per fermare i treni dei giovani soldati che partivano per la Libia.

«In talune località furono efficaci le dimostrazioni filotripoline dei nazionalisti, degli studenti e dei costituzionali, le quali evidenziarono la capacità inedita di mobilitazione della destra. Anche il mondo imprenditoriale non mancò di esercitare forti pressioni sul governo perché le agitazioni del 27 fossero duramente represse in nome della difesa dell’ordine pubblico e della cosiddetta libertà di lavoro» (Candeloro).

Su ’L’Avanguardia’ del 1 ottobre così si commenta lo sciopero: «Il proletariato italiano, ancora una volta,ha dato una prova eloquente della sua coscienza di classe. Prova che rimane eloquente anche se lo sciopero generale, indetto dalla confederazione del lavoro, non ha avuto quel completo successo che noi fervidamente ci auguravamo (...) Il significato, diciamo, è tutto nella deliberazione precisa, e non diminuibile, presa dalla massima organizzazione del lavoro – anche attraverso le incertezze dei capi e le debolezze dei gregari – con la quale nettamente si affermava che la classe operaia si leva al di sopra della nazione e fa da sé, affermando il diritto ad una politica propria che non è e non può essere la politica della borghesia italiana (...) L’episodio del 27 settembre non può essere che semplicemente una dichiarazione di lotta, la lotta comincia dunque ora e noi dobbiamo prepararci ancora a resistere alla borghesia se essa ci vorrà condurre a qualche più grossa avventura militaresca. I comizi, le dimostrazioni debbono continuarsi ed essere intensificate, la reazione alle chiassate nazionaliste deve essere pronta sicura e gagliarda (...) Sì, avanti dunque, la battaglia comincia solo ora» (’L’Avanguardia’, 1 ottobre 1911).

Importante anche il volantino del Comitato Centrale della Federazione Giovanile pubblicato su ’L’Avanguardia’ dell’8 ottobre, ove, respingendo ogni velleitario invito alla diserzione o alla individuale ribellione, come era invece la prassi anarcoide, veniva ribadita la prospettiva storica del socialismo di sinistra: «Oggi dunque piuttosto la nostra fede deve rinnovarvi nel cuore e nel pensiero il suo grido di battaglia. Essa vi dice, sotto la dimostrazione evidente dei fatti, che gli interessi della nazione sono ancora gli interessi degli sfruttatori sopra gli sfruttati; che borghesia e proletariato seguono due strade diverse e contrarie, che la lotta di classe è il mezzo necessario e ostinato perché il socialismo divenga, che il concetto di patria dev’essere superato da noi che abbiamo negli occhi la visione di un’orizzonte più vasto!» (’L’Avanguardia’, 8 ottobre 1911).

Il 12 novembre ’L’Avanguardia’ riporta un manifesto del Comitato Esecutivo dell’Ufficio Socialista Internazionale con queste parole di postfazione: «Questo manifesto dell’Internazionale è una pagina degna e alta della storia socialista. Di fronte alle borghesie nazionaliste aumentanti le rendite con le avventure e le prede coloniali, il proletariato internazionale, che alle avventure ha dato e dà il contributo di sangue e di vite e l’alimento del proprio sudore nelle imprese militaresche, si alza compatto e sicuro, grida la parola dell’avversione e lancia il monito della sociale vendetta. Proceda pure avanti la borghesia capitalistica nell’avida caccia al sanguinario oro coloniale, il proletariato freme in fra le catene della schiavitù borghese, ma silente e compatto prepara i muscoli sicuri per rompere definitivamente queste catene dell’infame servaggio economico e morale. Ed i giovani intanto, che saranno domani gli artefici, i preparatori, gli eroi della rivoluzione sociale, ascoltano anch’essi la parola sacra della solidarietà proletaria ed all’appello dell’Internazionale rispondono compatti il ’Presente’ che è tutto un programma di irriducibile guerra alla guerra ed al capitalismo che ne è il suo espressore (...)». Il manifesto dell’Internazionale proclamava: «In presenza di un simile attentato, la Internazionale operaia non poteva essere che unanime. I nostri compagni di Italia si sono trovati d’accordo coi compagni turchi per protestare, in nome degli interessi comuni del proletariato, contro un’impresa altrettanto criminale che folle, che sarà disastrosa e pei vincitori e pei vinti – forse più per i primi che per i secondi – un’impresa che minaccia di scatenare la furia della guerra generale, di aprire un abisso tra l’Europa e il nuovo mondo islamico e che avrà fatalmente per conseguenza ultima quella di fornire dei nuovi pretesti alle potenze per aumentare ancora il peso degli armamenti (...)

La spedizione tripolina infatti non è che una delle molteplici manifestazioni della politica seguita da tutte le grandi potenze: se l’Italia è andata a Tripoli, l’Inghilterra ha preso l’Egitto, la Francia e la Spagna si disputano il Marocco, la Germania ha fatto il colpo di Agadir, l’Austria-Ungheria si è impadronita della Bosnia Erzegovina. A questa complicità dell’esempio è venuta ad aggiungersi la complicità dell’acquiescenza. Se il governo italiano ha potuto agire, egli non lo ha fatto che d’accordo coi suoi alleati e con la Triplice stessa (...)

A questa politica di brutalità e di violenza il proletariato internazionale deve più che mai opporre tutte le forze di cui dispone. Già contro la spedizione di Tripoli i nostri compagni italiani hanno fatto ciò che hanno potuto in circostante sfavorevolissime. Essi hanno lottato, essi continueranno a lottare, corpo a corpo, contro la bestialità nazionalista.

Ma bisogna che il loro sforzo sia sostenuto dall’Internazionale tutta, bisogna che tutte le nostre sezioni diano ad essi la testimonianza della loro solidarietà morale. Noi protestiamo dunque, con essi, contro la guerra e nel tempo stesso esprimiamo il voto che il Governo turco, traendo dagli avvenimenti una benefica lezione, sforzandosi di attenuare le diversità etniche che dividono lo stato ottomano, contribuisca efficacemente al riavvicinamento delle nazioni, attuando la loro unione più intima in un organismo federale. Le nazioni del sud-est dell’Europa possiedono tutte le condizioni di cultura per uno sviluppo autonomo. Esse sono economicamente legate. Esse dovranno legarsi politicamente. Il socialismo sosterrà con tutta la sua influenza l’idea della solidarietà delle nazioni balcaniche e svilupperà la forza di resistenza di quei popoli contro gli intrighi e le oppressioni del capitalismo europeo.

Lavoratori di tutti i paesi, unitevi contro la guerra, agitatevi per la pace per il disarmo e per la solidarietà dei popoli.

Il Comitato Esecutivo dell’U.S.I.: Edouard Anseele, Leca Furmemont (...) Vandervelde, Camille Huysmans, segretario».

Il manifesto era stato diffuso dal Bureau dell’I.C. assieme ad una circolare spedita a tutti i partiti affiliati ove, rivendicando a sé il compito di coordinare l’azione contro la guerra libica e a favore del mantenimento dello status quo europeo, proponeva a tutti i partiti affiliati l’organizzazione per il 5 novembre di meetings internazionali secondo la risoluzione di Zurigo. Questo manifesto è importante perché nei giorni precedenti i socialisti turchi avevano lamentato l’immobilità del PSI e arrivarono a chiedere nei suoi confronti una sanzione o almeno una nota di biasimo e lo stesso Jaurès e soprattutto Vaillant, per il quale ’il PSI era mancato al suo dovere internazionale’, avevano duramente criticato l’atteggiamento del partito italiano. Addirittura il C.E. del BSI chiese ai partiti affiliati di essere autorizzato ad intervenire direttamente con la seguente motivazione: «Le classi operaie direttamente interessate sono, come in Turchia, troppo deboli per agire efficacemente o, come in Italia, non hanno fatto contro la guerra che una dimostrazione da molti compagni giudicata insufficiente e, ciò che è più grave, hanno trovato nelle proprie file alcuni sostenitori della politica imperialistica del governo di Giolitti». In seguito questo giudizio fu corretto e si arrivò appunto al manifesto sopra citato in cui veniva riconosciuta l’azione del PSI. È ancora da notare però che il PSI non partecipò alla grande manifestazione internazionale del 5 novembre, esprimendo soltanto la propria solidarietà ai partiti europei.

* * *

Dopo una campagna lunga e difficile che vide l’esercito italiano costretto al presidio delle zone costiere e nell’impossibilità a spingersi nell’interno a causa della accanita resistenza del nascente nazionalismo arabo, appoggiato da pochi reparti dell’esercito turco, la guerra si risolse col trattato di pace dell’ottobre del 1912. Era costata 4.000 morti da parte italiana, di cui la metà circa per malattie, molti di più i morti da parte arabo-turca, non solo massacrati in battaglia dalle bombe e dalla fucileria, ma uccisi a centinaia dalla dura repressione che non risparmiò la popolazione civile.

Lo scontro che durante i lunghi mesi di guerra si svolse tra le varie correnti all’interno del PSI non portò soltanto al prevalere degli intransigenti e all’espulsione dei destri, ma permise quell’affinamento dell’analisi teorica sulla questione della guerra che porterà la corrente di sinistra, nel ben più tragico 1914, ad essere in grado di opporsi al macello mondiale su posizioni nettamente marxiste, in sintonia con le correnti di sinistra di Russia e di Germania. Vogliamo dunque concludere riportando per intero alcuni articoli dell’epoca; due sono tratti da L’Avanguardia del 25 agosto e del 17 novembre del 1912 e affrontano la questione dell’opposizione alla guerra e dell’anti nazionalismo proletario con estrema chiarezza.

Altrettanto interessante, per chiarire la natura della guerra, un articolo scritto da Lenin nel settembre 1912 e un altro, più tardo, del 1915 ove, a guerra imperialista ormai in corso, si attacca duramente il socialsciovinismo presente in una parte del PSI, ritornando anche sulla questione dell’opposizione o meno alla guerra in Libia. Gli articoli mostrano la convergenza teorica e pratica fra la Sinistra del PSI e la sinistra bolscevica.

La questione, pure importante dei rapporti tra il PSI e l’Internazionale sarà affrontata in un prossimo lavoro.
 




TRA PACE E GUERRA

da ’L’ Avanguardia’, 17 novembre 1912
 

Quando scoppiò la guerra con la Turchia, il Partito socialista italiano, passato il primo momento di sorpresa, ritrovò una certa unità di coscienza e si schierò decisamente contro l’impresa di Tripoli.

La propaganda contro la guerra fu condotta con sufficiente coscienza e impostata sulle sue vere basi di classe con sufficiente accordo, tanto che riuscì a rompere il cerchio di ostilità che aveva circondato i turchi d’Italia.

Meno le oziose divagazione retoriche sulle «tradizioni nazionali» che avrebbero dovuto rendere la borghesia italiana avversa all’imperialismo per rispetto della indipendenza altrui e qualche altro ingenuo sofisma antimarxista di questo genere, la campagna antitripolina fu svolta con serietà ed energia.

Lo stesso fatto della decisa alleanza dei partiti borghesi a favore della «bella guerra» ci aiutò a dimostrare al proletariato che esso doveva assere avverso.

La troppa sfacciataggine dei nazionalisti nella menzogna ci consentì di dare risalto più vivo alla verità.

Gli avvenimenti stessi sorpassarono le nostre previsioni pessimistiche sul secondo tentativo coloniale della grande Italia. Ma la pace, confessiamolo, ci ha scombussolato un pochino.

Perché non è abbastanza diffusa nel proletariato italiano la propaganda anti-nazionalista, che è pure così chiara, così poco tecnica che è una vera colpa non averla abbastanza volgarizzata.

Una delle cause dell’esame è forse questa: noi credevamo che quella borghesia italiana che aveva fatta (?) l’Italia avesse dimenticato nella sua degenerazione bottegaia il sentimento patriottico, e che non sarebbe stata capace –specialmente dopo Lissa, Custoza e Adua – di dare vita ad un movimento nazionalista. Le associazioni nazionaliste come la «Dante Alighieri», la Lega Navale, ecc. intristivano, le tirate patriottiche erano relegate dai borghesi stessi fra la retorica di bassa lega, la «patria» era fuori di moda nelle conventicole intellettuali della buona società.

Invece bisognava ricordare gli insegnamenti della storia.

Il nobile sentimento patriottico è la via di cui si è servita la borghesia democratica per ottenere l’aiuto dei proletari, dei nulla tenenti, dei senza patria, nel rovesciare le aristocrazie feudali.

Ma è anche un’arma di cui la stessa borghesia si serve per uno scopo che storicamente segue il primo, ossia per impedire la vera emancipazione di classe dei lavoratori, quando questi si accorgono di essersi sacrificati nel solo interesse di una forma di sfruttamento che ne sostituisce un’altra.

La borghesia è patriota per natura nella fase eroica della sua origine rivoluzionaria. Ed è patriota per calcolo dell’utilitarismo volgare della lotta per la sua conservazione, contro il proletariato.

In questa seconda fase la borghesia sfrutta abilmente le tradizioni della prima, per adescare il proletariato ad una tregua nella lotta di classe.

Fa veramente male vedere dei socialisti cadere nel tranello. Sentire dei socialisti intellettuali andare a caccia del concetto marxista della nazione!

Di fronte alla pace che i nazionalisti hanno definita vergognosa molti socialisti hanno esitato. Poi hanno riprese le staffe riconoscendo che non toccasse a noi piangere sul fallimento della bella gesta imperialistica, e che una pace gloriosa dopo una guerra fortunata avrebbe assestato un colpo terribile al movimento operaio.

La nazione, nella realtà, è composta nella grande maggioranza dai proletari. Eppure l’interesse di essa (non l’interesse dei nazionalisti, ma l’interesse vero, reale della nazione) cozza con le aspirazioni del proletariato, non confondendo in questo nome qualche gretto miglioramento di categoria.

È una contraddizione. Ma non è nostra, bensì di un assetto sociale in decadenza che ne presenta ben altre: il capitalismo. Ora i socialisti battono molto sul fatto che la borghesia deve pagare le spese della guerra. Ecco un’altra strada pericolosa. Supponiamo pure che si possa riuscire ad ottenere qualche legge che aggravi un poco di più le classi abbienti nel sopperire alle spese di guerra. Sarà un magro risultato.

Ma avremo fatto un gran male, generando un equivoco nella mente dei lavoratori. In realtà le spese della guerra le ha pagate e le pagherà il proletariato, che non è riuscito ad evitarla.

Che cosa è la borghesia se non una minoranza improduttiva? E con che cosa «pagherà le spese» se non col ricavato dello sfruttamento sulla massa che produce? Sfruttamento che la rifioritura nazionalista le avrebbe permesso di intensificare, se la guerra fosse riuscita secondo i suoi calcoli.

Ora una campagna tendente ad ottenere che le spese di guerra siano prelevate dalle rendite dei capitalisti, anche ammettendo che nei risultati sposti di alcune decine di milioni il sacrificio proletario, avrà per conseguenza di comprendere quei sani concetti di antagonismo di classe, a tutto danno delle conquiste avvenire.

Bisogna invece svolgere un’azione vivissima di propaganda, impostandola sul disagio economico del proletariato in conseguenza della guerra, per ottenere che «un’altra volta» esso sappia insorgere alla prima proclamazione della guerra.

E battere in breccia il patriottismo vero e falso, affarista o romantico, sia che parli in nome delle forche di Tripoli che di quelle di Belfiore.
 
 
 


Lenin
LA FINE DELLA GUERRA DELL’ITALIA CONTRO LA TURCHIA

da ’Pravda’, n. 129, 28 settembre 1912 (Opere, Ed. russa, vol. 22, pp. 113-114).
 

Apprendiamo dai telegrammi che le condizioni preliminari di pace sono state firmate dai plenipotenziari dell’Italia e della Turchia.

L’Italia «ha vinto». Un anno fa essa si è data a predare le terre turche in Africa e d’ora innanzi Tripoli apparterrà all’Italia. Non è superfluo gettare uno sguardo su questa tipica guerra coloniale di uno Stato «civile» del secolo XX.

Che cosa ha provocato la guerra? La cupidigia dei magnati della finanza e dei capitalisti italiani, che hanno bisogno di un nuovo mercato, hanno bisogno dei successi dell’imperialismo italiano.

Che cosa ha provocato la guerra? Un macello di uomini, civili, perfezionati, un massacro di arabi con armi «modernissime».

Gli arabi si sono difesi disperatamente. Quando, al principio della guerra, gli ammiragli italiani, imprudentemente, hanno fatto sbarcare 1.200 marinai, gli arabi hanno attaccato e ne hanno ucciso circa 600. «Per punizione» sono stati massacrati quasi 3.000 arabi, si sono depredate e massacrate famiglie intiere, massacrati bambini e donne. Gli italiani, una nazione civile e costituzionale.

Circa mille arabi sono stati impiccati.

Le perdite italiane ammontano a più di 20.000 uomini, dei quali 17.429 malati, 600 dispersi e 1.405 morti.

Questa guerra è costata agli italiani più di 800 milioni di lire, cioè più di 320 milioni di rubli. Una disoccupazione terribile, la stagnazione dell’industria ne sono le conseguenze.

Circa 14.800 arabi sono stati massacrati. La guerra, nonostante la «pace», si prolungherà di fatto, perché le tribù arabe all’interno dell’Africa, lontane dalla costa, non si sottometteranno. Ancora per molto tempo esse verranno «civilizzate» mediante le baionette, le pallottole, la corda, il fuoco, gli stupri.

Certo, l’Italia non è né migliore né peggiore degli altri paesi capitalisti, tutti egualmente governati dalla borghesia, la quale, per una nuova fonte di profitti, non indietreggia davanti a nessuna carneficina.
 
 
 


CONTRO LA GUERRA MENTRE LA GUERRA DURA

da ’L’Avanguardia’, 25 agosto 1912.
 

Si trovano dei compagni la cui opinione sulla guerra può riassumersi in queste parole: La guerra non si doveva fare ma ora che siamo impegnati come si fa ad essere contrari?

Chi dice questo ritiene evidentemente desiderabile – anche nell’interesse del proletariato – che la guerra finisca bene e sia coronata dal successo e dalla gloria per le armi italiane. Io credo che questa sia una concessione vera e propria all’idea nazionalista e derivi dal falso concetto dell’interesse del proletariato che molti hanno, e che ha condotti tanti compagni alle degenerazioni più aberranti del socialismo.

Quando il socialismo afferma la solidarietà degli sfruttati che lavorano, trasformando l’interesse di ognuno di loro nell’interesse collettivo della classe, arriva anche a posporre il bene di alcuni individui al bene collettivo, determinando dei sentimenti di rinunzia e di sacrifizio in mezzo ai proletari più coscienti dell’avvenire di classe. Proprio nello stesso modo l’interesse attuale degli operai si trasforma nel bene futuro dell’intiero proletariato, e le masse socialiste divengono capaci di rinunzie collettive alle piccole conquiste di oggi, in vista della grande conquista dell’avvenire.

Risulta quindi logicamente che il socialismo deve avversare tutti quei movimenti che possono allontanare l’emancipazione del proletariato spegnendone in esso la coscienza, anche quando rappresentino sotto qualche forma una miglioria delle sue condizioni attuali.

Ora la guerra avversa e ritarda la grande conquista rivoluzionaria delle classi lavoratrici e spegne in esse la coscienza del socialismo, in due modi essenziali.

In primo luogo la guerra sancisce il principio della violenza e della prepotenza collettiva come fonti principali di progresso e di civilizzazione, idealizzando la forza brutale, e tentando così di distruggere la nostra visione di una società basata sulla concordia e la fratellanza umana, e contrastando la logica evoluzione dei rapporti sociali nel senso della abolizione del diritto del più forte (e qui si ricordi che noi, a differenza degli infrolliti pacifisti borghesi e ... tripolini non neghiamo che in determinate circostanze storiche la violenza possa essere un fattore inevitabile di evoluzione).

In secondo luogo poi la guerra ha un altro effetto: illudendo le masse che il loro benessere sorga dal benessere della nazione, dalla sua forza o dignità, e che per questo scopo esse devono rinunziare ai dissensi sociali, creando in esse l’artificiale idealismo patriottico, assicura alla borghesia il suo dominio di classe poiché induce nei lavoratori la rinunzia alla lotta contro lo sfruttamento che li dissangua insaziato nell’interno della patria, mandandoli a farsi uccidere dagli stranieri. Riduciamo quindi il problema ai suoi termini schematici: guerra ed esaltazione nazionale, glorificazione della delinquenza collettiva, assopimento della lotta di classe, allontanamento della rivendicazione dei diritti proletari e della trasformazione sociale. Seguitiamo logicamente: Se la guerra è vittoriosa e trionfale per la nazione ne soffrirà il proletariato, non direttamente, ma per l’allontanamento indefinito della sua riscossa.

Ecco perché noi, contrari alla guerra in teoria, la avversiamo in pratica, senza scrupolo di compromettere il governo nazionale rompendo l’unanimità della nazione.

Tutte le altre argomentazioni anti-tripoline sono accessorie. Quando noi diciamo che la guerra è dura e difficile, che la situazione diplomatica è oscura, che la colonizzazione tripolina è un mito e che la conseguenza di tutto ciò sarà il danno e la rovina della politica e dell’economia italiana, non dobbiamo fare neanche supporre a chi ascolta che se la Turchia avesse ceduto in dieci giorni, e la Tripolitania fosse un Eden, questa guerra ci troverebbe meno avversi. Guai se questo si fosse verificato, per l’avvenire del proletariato in Italia!

Quelle obiezioni di fatto che noi facciamo all’opportunità della guerra, hanno la loro importanza solo per dimostrare questo: in alcuni casi la borghesia ha interesse a portare un danno rilevante alla nazione, avventandola in una inutile guerra, purché ne tragga come compenso una rifioritura di patriottismo e la conseguente attenuazione della lotta di classe. Questo vale a provare la malafede dei fautori primi della guerra, e ci dà l’altro lato della critica all’idea nazionalista che possiamo così riassumere: Gli interessi della nazione non sono quelli della classe lavoratrice.

Non sono poi neanche quelli della classe borghese, che non esita a recar danno alla patria, purché ne possa agitare il bandierone dinanzi agli occhi del proletariato. Quindi nessun interesse comune esiste tra dominanti e dominati; il concetto di nazione e tutto l’idealismo patriottico sono sofismi puri, e la realtà della storia consiste nella lotta sociale delle classi.

Il proletariato lotta in tutto il mondo lealmente, alla luce del sole, e contro lo sfruttamento del capitale. Ma la borghesia che tenta di ammansirlo in nome della patria fa come colui che si avvicina all’avversario sorridendo e gettando la spada, per piantargli a tradimento il pugnale nel cuore.

La religione è un’arma di dominio sociale, come lo è il patriottismo, e noi siamo gli eretici della religione patriottica. Si può citare Gustavo Hervé, oggi che i destri chiamano herveista Filippo Turati?
 
 
 


Lenin
IMPERIALISMO E SOCIALISMO IN ITALIA

da ’Kommunist’, n. 1-2; in Opere complete, vol. 21, Roma 1966, pp. 327-335.
 

Per chiarire le questioni che l’attuale guerra imperialistica ha posto davanti al socialismo, non è inutile gettare uno sguardo sui diversi paesi europei e imparare a distinguere le varietà nazionali e i particolari del quadro complessivo, da ciò che è fondamentale ed essenziale. Si dice che, stando in

disparte, si giudica meglio. Perciò, quanto meno l’Italia rassomiglia alla Russia, tanto più interessante è paragonare, da un certo punto di vista, l’imperialismo e il socialismo nei due paesi.

In questa nota ci proponiamo di esaminare soltanto il materiale che offrono sulla questione i libri pubblicati dopo l’inizio della guerra dal professore borghese Roberto Michels: L’imperialismo italiano e dal socialista T. Barboni, Internazionalismo o nazionalismo di classe? (Il proletariato d’Italia e la guerra europea).

Il chiacchierone Michels, superficiale in questa come nelle altre sue opere, sfiora appena il lato economico dell’imperialismo, ma nel suo libro è raccolto un materiale pregevole sulle origini dell’imperialismo italiano e sul passaggio che costituisce l’essenza dell’epoca contemporanea e che, in Italia, ha un particolare risalto, il passaggio cioè dall’epoca delle guerre di liberazione nazionale all’epoca delle guerre di rapina imperialistiche e reazionarie. L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia che opprime altri popoli, che depreda la Turchia e l’Austria, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria in modo rivoltante, che all’idea di esser ammessa alla spartizione del bottino, si sente venire l’acquolina in bocca. Michels, come ogni altro professore che si rispetti, considera, naturalmente, il suo servilismo di fronte alla borghesia come obbiettività scientifica e chiama questa spartizione del bottino una spartizione di quella parte del mondo che era rimasta nelle mani dei popoli deboli (p. 179). Egli respinge sdegnosamente come utopistico il punto di vista di quei sociali che avversano ogni politica coloniale e ripete gli argomenti di coloro i quali ritengono che l’Italia, per densità di popolazione e intensità di emigrazione, dovrebbe essere la seconda potenza coloniale, lasciando il primo posto solo all’Inghilterra. In Italia il 40 per cento della popolazione è analfabeta, ancora oggi vi scoppiano delle rivolte a causa del colera, ecc. ecc., ma si respingono questi argomenti citando l’esempio dell’Inghilterra: non era l’Inghilterra il paese della povertà incredibile, dell’abiezione, della morte in massa degli operai per la fame, per l’alcoolismo, per la miseria e il sudiciume mostruosi nei quartieri poveri delle città, non era questa l’Inghilterra della prima metà del secolo XIX, allorché la borghesia inglese gettava con tanto successo le fondamenta della sua attuale potenza coloniale?

E si deve riconoscere che, da un punto di vista borghese, questo modo di ragionare è ineccepibile. Politica coloniale e imperialismo non sono affatto deviazioni morbose e guaribili del capitalismo (come pensano i filistei, Kautsky compreso), ma sono le conseguenze inevitabili dei princìpi stessi del capitalismo. La concorrenza tra le singole imprese pone il problema solo in questo modo: colare a picco o far colare a picco gli altri; la concorrenza tra i diversi paesi pone il problema solo così: rimanere all’ultimo posto e correre il rischio di far la fine del Belgio, oppure rovinare e sottomettere gli altri paesi, e conquistarsi un posticino tra le «grandi» potenze.

L’imperialismo italiano è stato chiamato «l’imperialismo della povera gente» in considerazione della povertà dell’Italia e della disperata miseria delle masse degli emigrati italiani.

Lo sciovinista italiano Arturo Labriola, che si distingue dal suo avversario G. Plekhanov solo perché ha rivelato un po’ prima il suo socialsciovinismo e perché è giunto a questo socialsciovinismo attraverso il semianarchismo piccolo-borghese e non attraverso l’opportunismo piccolo-borghese, questo Arturo Labriola scriveva nel suo libro sulla guerra di Tripoli (1912):

«...È chiaro che noi non lottiamo soltanto contro i turchi... ma anche contro gli intrighi, le minacce, il denaro e gli eserciti dell’Europa plutocratica, la quale non può tollerare che le piccole nazioni osino fare anche un solo atto o dire una parola che comprometta la sua ferrea "egemonia"» (p. 22). E il capo dei nazionalisti italiani, Corradini, dichiarava: «Come il socialismo, così il nazionalismo sarà per noi italiani il metodo di redenzione dai francesi, dai tedeschi, dagli inglesi, dagli americani del Nord e del Sud che sono i nostri borghesi».
Ogni paese che ha più colonie, più capitali, più soldati di «noi», «ci» priva di alcuni privilegi, di un certo profitto o sopraprofitto. Come tra i singoli capitalisti, chi ha macchine migliori della media, o ha una qualche posizione di monopolio ottiene un sopraprofitto, così anche tra i diversi paesi ottiene un sopraprofitto quello che è economicamente meglio situato degli altri. È affare della borghesia lottare per i privilegi e i vantaggi del suo capitale nazionale e trarre in inganno il popolo o il basso popolo (con l’aiuto dei Labriola e dei Plekhanov) facendo apparire la lotta imperialista per il «diritto» di depredare gli altri come una guerra di liberazione nazionale.

Fino alla guerra di Tripoli, l’Italia non aveva depredato altri popoli, o, almeno, non in grande misura. Non è questo un affronto insopportabile per l’orgoglio nazionale? Gli italiani sono oppressi e umiliati di fronte alle altre nazioni.

L’emigrazione italiana ammontava a circa 100.000 persone all’anno verso il 1870, e giunge ora a una cifra che varia da mezzo milione a un milione: e son tutti miserabili che la fame, nel senso letterale della parola, caccia dal loro paese, fornitori di forza-lavoro per le industrie che dànno i salari peggiori, una massa che popola i quartieri più affollati, poveri e sudici delle città d’America e d’Europa. Il numero degli italiani che vivono all’estero è salito da un milione nel 1881 a cinque milioni e mezzo nel 1910, di cui la più gran parte spetta a paesi «grandi» e ricchi, nei quali gli italiani costituiscono la massa operaia più rozza, più «greggia», più misera e del tutto priva di diritti. I principali paesi che impiegano la poco costosa mano d’opera italiana sono: Francia, 400.000 italiani nel 1910 (240.000 nel 1881); Svizzera, 135.000 (41.000); Austria 80.000 (40.000); Germania, 180.000 (7.000); Stati Uniti, 1.779.000 (170.000); Brasile, 1.500.000 (82.000); Argentina, 1.000.000 (254.000).
 
La «brillante» Francia, che 125 anni fa lottava per la libertà e perciò chiama «guerra di liberazione» la sua guerra attuale per lo schiavistico «diritto alle colonie» suo e dell’Inghilterra, la Francia mantiene addirittura in ghetti separati centinaia di migliaia di lavoratori italiani, e la canaglia piccolo-borghese della «grande» nazione si sforza di tenersene lontana il più possibile e cerca di umiliarli e offenderli in ogni modo. Gli italiani vengono chiamati sprezzantemente «macaroni» (il lettore della Grande Russia può ricordare quanti nomignoli spregiativi si inventavano anche in Russia per gli «stranieri» che non avevano avuto la fortuna di venire al mondo col diritto a privilegi sovrani e come questi privilegi servivano di strumento ai Purisckevic per opprimere sia il popolo grande-russo che tutti gli altri popoli della Russia). La grande Francia concluse nel 1896 un trattato con l’Italia in base al quale l’Italia s’impegnava a non elevare il numero delle scuole italiane a Tunisi! E da allora, la popolazione italiana a Tunisi è cresciuta di sei volte. A Tunisi vivono 105.000 italiani accanto a 35.000 francesi; ma, dei primi, solo 1.167 sono proprietari di terre, con 83.000 ettari, mentre 2.395 proprietari francesi hanno rubato, nella loro colonia, 700.000 ettari. Come dunque non riconoscere con Labriola e gli altri «plekhanovisti» italiani, che l’Italia ha «diritto» alla sua colonia di Tripoli, a opprimere gli slavi nella Dalmazia, a prender parte alla spartizione dell’ Asia Minore, ecc.!

Come Plekhanov difende la guerra «di liberazione» della Russia contro l’ aspirazione della Germania a fare di essa una sua colonia, così il capo del partito riformista, Leonida Bissolati, strilla contro «l’invasione del capitale straniero in Italia» (p. 97): capitale tedesco in Lombardia, inglese in Sicilia, francese nel Piacentino, belga nelle imprese tranviarie, ecc. ecc. senza fine.

La questione è posta in modo categorico e non si può non riconoscere che la guerra europea ha recato all’umanità l’enorme vantaggio di porre la questione stessa, di fatto, categoricamente, davanti a centinaia di milioni di uomini delle diverse nazioni: o difendere col fucile o con la penna, direttamente o indirettamente, in una forma qualunque, i privilegi di grande potenza in genere o i vantaggi o le pretese della «propria» borghesia, e ciò vuol dire esserne i seguaci e servitori, oppure servirsi di ogni lotta, e soprattutto di ogni lotta armata per quei privilegi, allo scopo di smascherare e abbattere ogni governo, e in prima linea, il proprio governo per mezzo dell’azione rivoluzionaria del proletariato internazionalmente solidale. Non c’è via di mezzo; in altre parole: il tentativo di prendere una posizione intermedia significa in realtà un passaggio camuffato dalla parte della borghesia imperialista.

Tutto il libro di Barboni è appunto fatto, in sostanza, per mascherare questo passaggio. Barboni fa l’internazionalista proprio come il nostro signor Potresov. Egli pensa che bisogna determinare da un punto di vista internazionale qual’è fra le due parti quella il cui successo sarà più utile o meno nocivo al proletariato, e, naturalmente, risolve la questione in modo sfavorevole all’Austria e alla Germania. In uno spirito del tutto eguale a quello di Kautsky, Barboni propone al Partito socialista italiano di affermare solennemente la solidarietà degli operai di tutti i paesi, – e, in prima linea, naturalmente, dei paesi belligeranti, – le idee internazionaliste, un programma di pace sulla base del disarmo e dell’indipendenza nazionale di tutte le nazioni, nonché la costituzione di «tutte le Nazioni in Lega per la reciproca garanzia dell’integrità e dell’indipendenza» (p. 126). E proprio in nome di questi princìpi, Barboni dichiara che il militarismo è un organo «parassitario» e «non è punto un fenomeno necessario al capitalismo, che l’Austria e la Germania sono imbevute di «imperialismo militarismo», che la loro politica aggressiva è una costante minaccia alla pace europea», che la Germania «ha costantemente rifiutato ogni proposta di riduzione degli armamenti sia da parte della Russia (sic!!) sia da parte dell’Inghilterra» ecc. ecc., e che il Partito socialista italiano deve, al momento opportuno, dichiararsi favorevole all’intervento dell’Italia per la Triplice Intesa!

Rimane da dimostrare in base a quali princìpi si può preferire all’imperialismo borghese della Germania, che si è sviluppata economicamente, nel secolo XX, più rapidamente degli altri paesi europei e che è stata particolarmente «lesa» nella ripartizione delle colonie, l’imperialismo borghese dell’Inghilterra che si è sviluppata molto più lentamente, ha saccheggiato una quantità di colonie dove (lontano dall’Europa) applica spesso metodi di oppressione non meno bestiali della Germania e, coi suoi miliardi, assolda milioni di soldati di diverse potenze continentali, per impiegarli nel saccheggio dell’Austria, della Turchia, ecc. L’internazionalismo di Barboni, come quello di Kautsky, nasconde in realtà sotto la maschera di un’ipocrita difesa dei principi socialisti, la difesa della sua borghesia, della borghesia italiana. Non si può non osservare che Barboni, il quale ha pubblicato il suo libro nella libera Svizzera (dove la censura ha cancellato solo una mezza riga, a p. 75, che probabilmente conteneva una critica all’Austria), non ha voluto citare in ben 143 pagine, i punti fondamentali del manifesto di Basilea e analizzarli coscienziosamente. Per contro, egli cita con grande simpatia due ex rivoluzionari russi, a cui ora tutta la borghesia francofila fa la réclame, il piccolo borghese anarchico Kropotkin e il filisteo socialdemocratico Plekhanov (p. 103). Sfido io! I sofismi di Plekhanov non differiscono per nulla, nella sostanza, dai sofismi di Barboni. La sola differenza è che la libertà politica che esiste in Italia permette di smascherare meglio questi sofismi e dimostra con maggiore evidenza che la posizione di Barboni è quella di un agente della borghesia nel campo operaio.

Barboni lamenta «l’assenza di un’anima veramente rivoluzionaria» nella socialdemocrazia tedesca (proprio come Plekhanov); saluta con le più calde espressioni Karl Liebknecht (come lo salutano i socialsciovinisti francesi che non vedono la trave nei loro occhi); ma dichiara recisamente che «non è questione di bancarotta o altro simile dell’Internazionale» (p. 92), che i tedeschi «non hanno rinnegato nulla dello spirito dell’Internazionale» (p. 111), poiché hanno agito con la «leale» convinzione di difendere la loro patria. E, con lo stesso tono untuoso di Kautsky, ma con una certa retorica latina, Barboni dichiarata che l’Internazionale è pronta (dopo la vittoria sulla Germania) «a perdonare come Cristo a Pietro, del fugace attimo di sfiducia, e, dimenticando, lenirà le profonde ferite aperte dall’imperialismo militarista e tenderà la mano sollevatrice ad una pace dignitosa e fraterna» (p. 113).

Un quadro commovente: Barboni e Kautsky – probabilmente non senza la partecipazione dei nostri Kosovski ed Axelrod – si perdonano a vicenda!!

Pienamente soddisfatto di Kautsky e di Guesde, di Plekhanov e di Kropotkin, Barboni non è soddisfatto del suo partito socialista operaio, in Italia. In questo partito, che ebbe la fortuna di sbarazzarsi prima della guerra dei riformisti, Bissolati e soci, si andò formando, capite, un «aere quasi irrespirabile a quanti» (come Barboni) «non giurassero sul verbo della neutralità assoluta» (cioè della lotta contro l’entrata in guerra dell’Italia (p. 7). Il povero Barboni si duole amaramente che uomini come lui, vengano chiamati nel Partito socialista italiano «intellettuali», «gente che ha perduto il contatto con le masse, fuorusciti dalla borghesia vinti da assalti nostalgici, anime smarrite fuori dalla via diritta del socialismo e dell’internazionalismo» (p. 7). Il nostro partito – esclama Barboni indignato – «ha più fanatizzato che educato le moltitudini» (p. 4).

Vecchia canzone! Una variante italiana della nota canzone dei liquidatori e degli opportunisti russi contro la «demagogia» dei malvagi bolscevichi, che «incitano» le masse contro gli eccellenti socialisti della Nascia Zarià, del Comitato di organizzazione e della frazione di Ckheidze! Ma quale preziosa confessione di un socialsciovinista italiano, il fatto che nell’unico paese in cui, per parecchi mesi, si sono potuti discutere liberamente i programmi dei socialsciovinisti e degli internazionalisti rivoluzionari, proprio le masse operaie, proprio il proletariato cosciente si sono schierati dalla parte di questi ultimi, mentre gli intellettuali piccolo-borghesi e opportunisti si son gettati dalla parte dei primi!

La neutralità è egoismo meschino, incomprensione della situazione internazionale, viltà verso il Belgio, è «assenza», e «gli assenti hanno avuto sempre torto», ragiona Barboni, in modo perfettamente eguale a Plekhanov e Axelrod. Ma, giacché in Italia esistono due partiti legali, uno riformista e uno socialdemocratico operaio, giacché in questo paese non si può trarre in inganno il pubblico ricoprendo la nudità dei signori Potresov, Cerevanin, Levitsky e soci con la foglia di fico della frazione di Ckheidze o del Comitato di organizzazione, Barboni riconosce apertamente:

«Da questo punto di vista sento più rivoluzionarismo nell’ azione dei socialisti riformisti – i quali hanno prontamente intuito di che immenso interesse sarebbe per le future lotte anticapitalistiche un rinnovato ambiente politico» (in conseguenza di una vittoria sul capitalismo tedesco) «e, perfettamente coerenti, hanno sposato la causa della Triplice Intesa – che non in quella dei socialisti ufficiali rivoluzionari che si son chiusi entro il guscio di tartaruga della neutralità assoluta» (p. 81).
Di fronte a una confessione così preziosa non ci rimane che esprimere l’augurio che un compagno il quale conosca il movimento italiano, raccolga ed elabori sistematicamente l’ampia e interessantissima documentazione pubblicata da entrambi i partiti italiani per determinare, da una parte, quali strati della società e quali elementi hanno difeso la politica rivoluzionaria del proletariato italiano e con quali aiuti e argomenti l’hanno difesa, e per determinare, dall’altra, chi si è messo al servizio della borghesia imperialistica italiana. Quanti più documenti si raccoglieranno nei diversi paesi su queste due questioni, tanto più chiara apparirà agli operai coscienti la verità sulle cause e il significato del fallimento della II Internazionale.

Per concludere, si osservi che Barboni, quando si occupa del partito operaio, si sforza di adattarsi, con l’aiuto di sofismi, agli istinti rivoluzionari degli operai. Egli dipinge i socialisti internazionalisti italiani, che sono avversi alla guerra, condotta in realtà per gli interessi imperialistici della borghesia italiana, come fautori di una vile astensione i quali cercano di sfuggire egoisticamente davanti agli orrori della guerra. «Un popolo educato al terrore di tali orrori probabilmente avrà terrore anche degli orrori di una rivoluzione» (p. 83). E accanto a questo rivoltante tentativo di passare da rivoluzionario, trovi l’accenno, grossolanamente furbesco, alle «chiare» parole del ministro Salandra: «L’ordine sarà mantenuto ad ogni costo»; ogni tentativo di sciopero generale contro la mobilitazione condurrebbe solo ad una «inutile carneficina»... «Non bastammo a impedire la guerra di Libia, tanto meno basteremo ad impedire la guerra di Libia, tanto meno basteremo ad impedire la guerra contro l’Austria» (p. 82).

Al pari di Kautsky, di Cunow e di tutti gli opportunisti, Barboni, coscientemente, nel vilissimo intento di trarre in inganno questa o quella parte delle masse, sostituisce all’atteggiamento rivoluzionario il piano ingenuo di «far finire» «di colpo» la guerra e di farsi fucilare dalla borghesia nel momento più opportuno per essa. Barboni tenta così di sottrarsi ai compiti che sono stati chiaramente segnati a Stoccarda e a Basilea al fine di utilizzare la crisi rivoluzionaria per una sistematica propaganda rivoluzionaria e per la preparazione di azioni rivoluzionarie di massa. Che l’Europa attraversi un momento rivoluzionario, Barboni lo vede chiarmente.

«Poiché (su questo punto è necessario d’insistere anche a costo di finir con l’annoiare i lettori; giacché non è possibile di valutare giustamente l’odierna situazione politica se non ci si tiene attaccati ad esso) il periodo che attraversiamo è un periodo catastrofico, d’azione, in cui sono a cimento non delle idee da spiegare, dei programmi da compilare, delle linee di condotta politica da tracciare per l’avvenire, ma delle forze vive ed attive per un risultato alla distanza di mesi, forse anche di sole settimane. In queste condizioni non c’è da filosofare sul futuro del movimento proletario: c’è da fissare il punto di vista proletario di fronte all’attimo fugace» (p. 87-88).
Ancora un sofisma che viene impiegato come argomento rivoluzionario! Quarantaquattro anni dopo la Comune, dopo quasi mezzo secolo di raccolta e di preparazione delle forze delle masse, in un momento di crisi catastrofica, la classe operaia d’Europa deve pensare al modo di diventare il più rapidamente possibile serva della sua borghesia nazionale, al modo di aiutarla a depredare, a violentare, a mandare in rovina, a soggiogare popoli stranieri, anziché riflettere al modo di svolgere immediatamente tra le masse una propaganda rivoluzionaria e di iniziare la preparazione di azioni rivoluzionarie.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



L’IMPERIALISMO ITALIANO GUARDA AD EST
 

Nel corso della tavola rotonda tra militari sull’operazione Alba, il cui dibattito è apparso sulla rivista ’Limes’ 2/97, ad un certo punto il generale Angioni, dopo aver parlato dei limiti delle operazioni nelle aree di crisi dell’Onu, la quale solo con l’intervento in Bosnia avrebbe riconosciuto un limitato diritto di ingerenza, «diritto che per abbellirlo è stato definito di ’ingerenza umanitaria’», ha affermato: «In questo contesto, da cui l’Italia non può discostarsi, nasce la missione Alba, che, ricordiamo, è sotto l’egida dell’Onu e come tale ruota attorno all’assenso del governo locale. Certo, se il nostro governo ha deciso l’intervento non è solo per il rispetto dei diritti umani, ma anche in nome degli interessi nazionali. Non è vergognoso dirlo e se avessimo maggiore struttura politica lo proclameremmo apertamente». Subito dopo il generale Caligaris, lanciando la sua proposta di protettorato in Albania, ha rilevato l’importanza che veniva ad assumere l’operazione Alba per gli interessi nazionali italiani: «L’eventuale esclusione dall’Unione monetaria è niente in confronto alla derisione cui ci esponiamo con il resto del mondo, se permettiamo che si dica ’italiani, brava gente’, ma non riescono ad imporsi neanche con uno come Berisha».

È possibile cogliere l’importanza che l’operazione Alba assume per l’imperialismo ed il militarismo italiano solo alla luce del dibattito avviato nel 1989 dopo il crollo dell’Unione Sovietica e degli altri paesi stalinisti, e divenuto sempre più pressante ed urgente in questi anni per la definizione degli interessi nazionali dell’Italia, e quali siano gli strumenti per conseguirli. Si comprenderà quindi come in effetti il successo dell’operazione Alba sia un momento essenziale nelle pretese dell’imperialismo italiano e come un suo fallimento possa costituire l’inizio di un suo ulteriore indebolimento e emarginazione.
 

L’Oro e la Spada

Nella lettera a Bloch del 21 settembre 1890 Engels metteva in evidenza come il rapporto tra l’economico e gli elementi sovrastrutturali non sia di mera dipendenza, ma abbia un carattere dialettico che sfugge la maggior parte delle volte a tanti pretesi marxisti: «Secondo la concezione materialistica della storia, il fattore in ultima istanza determinante nella storia è la produzione e riproduzione della vita reale. Nulla di più né Marx né io abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno travisa la questione nel senso che il fattore economico sia l’unico, egli trasforma quella proposizione in una frase astratta, assurda che non dice nulla. La situazione economica è alla base, ma i diversi fattori della sovrastruttura (...) esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche, e in molti casi ne determinano decisamente la forma. V’é azione e reazione tra tutti questi fattori, azione e reazione attraverso le quali il movimento economico si afferma, in ultima istanza come elemento necessario entro l’infinita congerie di casi accidentali».

Questa dialettica tra elemento strutturale e sovrastrutturale vale anche ai fini della definizione degli interessi nazionali dell’imperialismo italiano. È indiscutibile che vi sia una mappa di legami economici, (interscambio commerciale, approvvigionamento di materie prime ...) fondamentale nella definizione degli interessi nazionali, ma una limitazione a questo aspetto peccherebbe di unilateralismo e porterebbe ad una definizione statica della politica estera ed all’elaborazione di una politica militare errata. Gli interessi nazionali di un paese non si esauriscono nei suoi interessi economici. Se ciò fosse vero, la definizione dell’interesse nazionale non occuperebbe tante energie di esperti in molteplici campi, la sua elaborazione sarebbe un capitolo della scienza economica e si ricaverebbe facilmente da oggettivi parametri macroeconomici.

Gli strumenti necessari a garantire e difendere gli interessi nazionali, anche se strettamente dipendenti dalla potenza economica del paese, debbono tener conto dell’evoluzione complessiva dei rapporti tra le varie potenze imperialiste, in tutti i loro aspetti: economici, politici, diplomatici e militari. «Gli interessi politici italiani superano il quadro geografico regionale, anche se la loro intensità diminuisce con la distanza. Tale gradiente non è lineare (...) La ’mappa degli interessi’ economici, politici ecc. è quindi a ’pelle di leopardo’. La ’mappa’ degli interessi di sicurezza è analoga, anche se ha un andamento differente» (’Limes’ 4/94). È chiaro che l’intersezione delle due ’mappe’ è il luogo in cui sono in gioco gli interessi nazionali più vitali, dove bisogna intervenire attivamente, pena l’emarginazione e la decadenza.
 

Est area ’naturale’ dell’affarismo italico

Bucharin nel suo L’economia mondiale e l’imperialismo mette in evidenza la contraddizione tra «l’internazionalizzazione della vita economica (che) acuisce in alto grado la contraddizione fra gli interessi dei diversi gruppi ’nazionali’ della borghesia» e «la tendenza opposta alla nazionalizzazione degli interessi capitalistici». Questa contraddizione si manifesta tra l’altro nella internazionalizzazione sempre più spinta delle industrie nazionali non solo grandi ma anche medie e piccole e nella esigenza di mantenerne nel paese di origine il nucleo centrale e propulsivo. «Una proiezione internazionale dell’industria richiede una forte e chiara sottolineatura dei vantaggi a tenere qui la testa di sistemi di produzione che possono anche diramarsi in diverse parti del mondo» (’Limes’ 4/94). Si parla qui dell’Italia la cui azione espansiva verso l’esterno troverebbe giovamento dal mantenere la testa del sistema sul territorio nazionale.

Non ha senso dire, come molti fanno, che gli interessi economici italiani ’coincidono’ con quelli europei per cui è dall’Europa che occorre partire per definire gli interessi economici e politici italiani: l’Europa non esiste ancora come economia integrata, come le varie mucche pazze e le quote del latte hanno ampiamente dimostrato: si veda a questo proposito lo studio apparso sul numero di maggio del nostro giornale ’il partito comunista’, L’europa unita borghese, sempre più reazionaria, sempre più impossibile. Al di là delle velleità europeiste l’Ue è un insieme di economie imperialiste in mutua concorrenza, prive di una strategia economica unitaria che non sia lo straccio di Maastricht, destinato al fallimento, e incapace ad avere una politica estera e militare comune, come la Iugoslavia ieri e l’Albania oggi ampiamente dimostrano.

Nella sua proiezione economica esterna l’Italia è certamente oggi rivolta soprattutto all’Europa occidentale in quanto quattro dei suoi primi cinque partner commerciali sono europei: nell’ordine Germania, Francia, Regno Unito, Spagna con gli Usa al terzo posto. La Germania, che assorbe solo il 6% degli investimenti esteri italiani, copre circa un quinto del suo interscambio sia per le importazioni sia per le esportazioni. L’Europa negli ultimi 10 anni ha rappresentato la metà dell’import e dell’export, degli investimenti diretti all’estero e dall’estero, metà delle operazioni internazionali di fusione e di acquisizione che hanno coinvolto imprese italiane. Ma l’Italia non si esaurisce nell’Ue. Nel ’95 infatti il 43,5% del flusso delle esportazioni italiane si è diretto fuori dai confini comunitari ed extra Ue è stato il 40% dell’import (’Limes’ 2/97).

È particolarmente nell’Europa centro orientale che si sta orientando in questi ultimi anni l’azione italiana, in una convergenza di interessi politici ed economici: «L’Europa centro orientale è l’altra area in cui l’Italia sta realizzando una vera e propria ’mini-Ostpolitik’ basata sulla realizzazione di una cornice politico-istituzionale che consenta di mantenere agganciati all’Europa anche quei paesi che sono più indietro nel processo di avvicinamento all’Ue. Vanno in questa direzione anche l’Iniziativa centro europea e la Cooperazione permanente triangolare (Italia, Ungheria e Slovenia)» (’Limes’ 2/97).

In quest’area il tasso di crescita dell’import è stato del 10% nel ’95 e la quota di mercato italiana è del 7%. Per il terzo anno consecutivo l’export italiano in questi paesi è stato superiore alla media europea e la quota di mercato ha raggiunto il 7% del totale. Il maggiore aumento delle esportazioni si è avuto in Slovenia e in Croazia con un tasso di crescita che è passato dal 2,9% nel ’94, al 4,6% nel ’95, al 4,7% nel ’96. In Croazia l’Italia ha sottratto alla Germania il primo posto come paese fornitore con un saldo attivo di 1.146 miliardi di lire ed un interscambio superiore ai 4.000 miliardi nel ’95. La quota degli investimenti diretti italiani nell’area si è stabilizzata nel triennio 1993-95 intorno al 25% e vede partecipi non solo grandi gruppi industriali ma anche un crescente numero di piccole e medie imprese; nel 1995 l’area ha assorbito il 33% del totale delle iniziative di investimento di queste imprese. Le partecipazioni dirette delle industrie italiane all’estero nel biennio 1992-93 vedono il 38,5% delle partecipazioni ed il 48% di partecipazioni di controllo nei paesi Ue contro il 27,1% ed il 23,6% rispettivamente per i paesi dell’Est. Per gli addetti andiamo dal 34,9% e 40,6% per le partecipazioni Ue al 43,2% ed il 41,9% per i paesi dell’Est.

L’area centro orientale è tanto più importante in quanto è solo dal 1989 che si sta delineando una accelerazione nello sviluppo dell’azione italiana nella zona. Dal crollo del muro di Berlino tutta l’area balcanico-danubiana sta diventando area di influenza italiana sia negli spazi lasciati aperti dalle altre potenze (Albania, Romania, Macedonia) sia in competizione con queste (Slovenia, Croazia, Serbia, Ungheria, Bulgaria). L’Italia con 7,3% miliardi di dollari investiti nell’Est Europa è il quinto paese per investimenti nell’Est, ma il primo in Albania, Romania e Croazia. L’attivismo finanziario e industriale dei ’poli economici’ del Nord-Est e del Sud-Est italiani verso i Balcani è in continua veloce espansione dagli inizi degli anni ’90.

Nell’area balcanica e nell’Europa centro orientale la borghesia italiana vede l’occasione per entrare nei grandi giochi imperialistici che l’hanno vista fino adesso passiva o agire in posizione subordinata: «L’Italia dovrebbe essere particolarmente sensibile a questo grido di dolore perché è suo interesse nazionale che venga colmato questo vuoto strategico aperto al centro del continente» ("Corriere della Sera" 27 gennaio). «Dopo la fine della guerra fredda si è aperto uno spazio al centro dell’Europa e noi siamo candidati ad occuparlo per ragioni di continuità geografica, di legami storici e di presenza economica» (Piero Fassino, sottosegretario agli Esteri). Nel convegno organizzato nel luglio ’96 dal Centro Alti Studi della Difesa sul tema: ’Il nuovo scenario internazionale e gli interessi nazionali italiani’ il ’Sole24Ore’ del 23 novembre riporta che «la regione balcanica ed il bacino mediterraneo sono emersi in più interventi come ’aree naturali’ degli interessi nazionali italiani».

Ma queste ’aree naturali’ sono appetite da altri imperialismi ben più potenti, in primis Germania e Usa, con una presenza non trascurabile della Francia. Per cui l’Italia si deve muovere con circospezione cercando di individuare le aree di concertazione e quelle di competizione interimperialista. Un’area su cui non sussistono dubbi è l’Albania lasciata, dopo un primo interesse Usa di tipo politico-militare più che economico, al pieno controllo dell’imperialismo italiano.

In Albania operano attualmente 500 imprenditori italiani. Essi ’danno lavoro’ a 100.000 albanesi. Le imprese italiane sono il 60% delle imprese operanti nel paese. Si tratta per lo più di imprese piccole e medie. Il 30% degli albanesi parla italiano, il 60% degli scambi albanesi è con l’Italia, il 70% degli investimenti in Albania sono italiani. Seguono Germania e Grecia, nell’ordine. I tedeschi si sono accaparrati le industrie strategiche del cromo di cui l’Albania è il secondo produttore mondiale, mentre italiani e greci sono attivi nelle piccole fabbriche, nelle costruzioni ecc.. Nel 1996 l’interscambio commerciale Italia-Albania ha dato questo saldo: 126 miliardi di lire di importazioni dall’Albania, 309 di esportazione. L’Albania è vista dagli industriali del Sud come una testa di ponte per la penetrazione delle loro merci nei paesi balcanici, trovando in essi il loro mercato di sbocco: «I paesi balcanici possono essere per noi quello che è stato l’Est europeo per le aziende del Nord-Est» afferma uno dei massimi investitori in Albania, Divella.
 

Ambizioni guerriere

Negli anni del codominio russo-americano una media potenza come l’Italia poteva fare a meno di una politica estera e di Forze Armate autonome. La sua ’sicurezza nazionale’ era assorbita pressoché integralmente nell’ambito della Nato e nella garanzia militare degli Stati Uniti.

La crisi capitalistica mondiale, provocando il crollo dell’Unione Sovietica ed il ridimensionamento della potenza Usa, al di là di tutte le apparenze contingenti, costringe tutte le potenze imperialistiche a ridefinire la propria politica estera. La questione è particolarmente importante ed urgente per una media potenza come l’Italia che per 50 anni è vissuta sotto l’ombrello Usa e che ha usato le Forze Armate come semplice gettone di presenza per partecipare alla copertura militare della Nato e degli USA.

Sono ormai anni che la questione della determinazione degli interessi nazionali italiani, della definizione di una politica estera che coscientemente li persegua e della formazione dello strumento militare adeguato a permetterne la difesa sono all’ordine del giorno, mentre si moltiplicano le aree di crisi in cui non si sa se e come intervenire e gli strumenti militari si rivelano insufficienti e inadeguati. «L’Italia, come tutti gli altri paesi, deve rispondere ai quesiti: quale sia l’utilità reale del mantenimento delle Forze Armate; quale significato abbiano la Nato e la difesa europea per la sicurezza italiana e quale l’Italia per l’Alleanza e per l’Europa; quale politica militare adottare; quali capacità operative siano necessarie per il nostro paese. Sono problemi tutt’altro che semplici. Finora non hanno trovato risposte esaurienti, come dimostra il dibattito in corso da più anni ma non concluso sul cosiddetto ’nuovo modello di difesa’. Esso è distorto da un vizio di origine. Gli interessi che l’Italia deve perseguire in campo internazionale sono trattati in termini astratti e di principio (... Invece) occorre precisare che cosa possa e voglia fare l’Italia per proteggere i propri interessi, la propria sicurezza e la propria prosperità. (Per giungere a questo) il dibattito strategico va preceduto da un dibattito politico sugli interessi nazionali» (Carlo Jean in "Limes", 4/94).

Secondo questi più spregiudicati e coerenti difensori della ’potenza nazionale’, cioè della capacità di rapina dei capitalisti italiani, per l’Italia, media potenza operante nel tempo della ’globalizzazione’, non avrebbe senso una limitazione regionale della sua azione. O essa partecipa a quella globalizzazione, cioè al governo del mondo, oppure cesserebbe di essere una media potenza. L’Italia è membro dei G7, fa parte della Nato, dell’Ue ed ha chiesto di partecipare al Consiglio di sicurezza allargato dell’Onu. I suoi interessi economici superano di gran lunga il quadro geografico regionale. Solo la chiarezza di quali sono i suoi reali interessi nazionali possono permettere ad essa di decidere se e come intervenire nelle varie aree di crisi e dotarsi ello strumento militare idoneo.

Il contesto in cui ci si muove non è più quello della guerra fredda, della semplicità del mondo bipolare. La coesione delle alleanze e l’affidabilità del loro intervento si sono erose. Quella della Nato è solida solo per i compiti previsti dall’articolo 5 del Trattato di Washington (’Tutti per uno e uno per tutti’) ma non per quelli ’fuori area’ o per quelli derivanti dalla ’partnership for peace’. L’Ueo non esiste perché non esiste un’Europa, qualunque cosa blaterino i monetaristi e i federalisti europei. In questa fase di poche certezze: «Le alleanze organiche si sono trasformate in alleanze a geometria variabile a cui gli Stati partecipano a seconda dei loro interessi e delle loro politiche (...) Si è quindi confrontati ad una triplice incertezza: contro chi, per che cosa e come si dovrà intervenire; quali sono le forze necessarie per gli interventi; quali saranno gli alleati con cui agire. Sono veri e propri dilemmi soprattutto per una media potenza per la quale interventi militari che non siano di entità molto limitata possono essere prevedibili solo in un contesto internazionale. È quindi ineludibile l’esigenza di precisare interessi e obiettivi concreti, cioè limitati e selettivi, da definire in base al livello di risorse allocate alla difesa. Tali interessi e obiettivi devono essere nazionali, e vanno distinti anche se possono essere complementari e coerenti con quelli del sistema internazionale che si desidera o della cosiddetta comunità internazionale che di fatto non esiste nella realtà».

Anche gli esperti di geopolitica debbono prendere atto che non esiste più un controllo ferreo di un imperialismo dominante su tutto il pianeta, che la fine della divisione del mondo fra Russia e Usa non ha portato al nuovo ordine americano ma al disordine generalizzato, primi effetti a livello sociale e geopolitico della crisi generale del capitalismo. Il primo risultato di questo disordine mondiale è la rinazionalizzazione della politica estera: «In tutto il mondo è in atto un fenomeno di frammentazione e di balcanizzazione. Rimangono le particolarità e gli interessi nazionali».

Il moltiplicarsi delle aree di crisi pone continuamente il problema dell’intervento o meno in funzione dei propri interessi nazionali. Una chiusura a guscio lederebbe gli stessi interessi nazionali, la cui difesa è possibile solo attraverso una politica offensiva: «L’unica possibilità rimasta di salvaguardare l’identità e gli interessi nazionali è quello di adottare una politica dinamica, cioè, in termini strategici offensiva. Solo l’espansione può garantire la sopravvivenza e la tutela degli interessi di uno Stato, anche del più conservatore, che si prefigga semplicemente di mantenere lo status quo» (’Limes’ 1-2/93).

L’attuale fase ha molti punti in comune con quella precedente la prima guerra mondiale. Nel corso della crisi bosniaca dell’ottobre 1908, quando l’Austria procedette alla annessione della Bosnia-Erzegovina, sotto le vivaci proteste serbe-montenegrine e nell’impotenza della Russia zarista, sconfitta per opera dei giapponesi nel 1905, a raccogliere l’appello serbo alla guerra, si riaccese in tutta Europa la questione della ridefinizione della politica estera ed anche allora, specialmente da parte delle forze liberali, fu lanciata la parola d’ordine dell’elaborazione di una politica estera ’offensiva’.

In merito la posizione di Lenin è chiara: «La stampa liberale di tutte le grandi potenze europee, esclusa l’Austria, che è nel momento attuale la più ’sazia’, non fa oggi che accusare il proprio governo di scarso rispetto per i propri interessi nazionali. I liberali di ogni paese descrivono la propria patria ed il proprio governo come i più sprovveduti, come i meno capaci di ’sfruttare’ la situazione, come i più ingannati ecc. Proprio questa politica conducono oggi anche i nostri cadetti, che già da un pezzo sono arrivati a dire che i successi dell’Austria suscitano in noi ’invidia’ (espressione letterale del signor Miliukov). Tutta questa politica dei liberali borghesi in genere e dei nostri cadetti in specie è di un’ipocrisia disgustosa, è il più infame tradimento dei reali interessi del progresso della libertà. E infatti questa politica in primo luogo ottenebra la coscienza democratica delle masse popolari, occultando il complotto dei governi reazionari; in secondo luogo sospinge ogni paese, sulla via della cosiddetta politica estera attiva, approva cioè il sistema del saccheggio coloniale e delle ingerenze delle potenze negli affari della penisola balcanica, ingerenza che è sempre reazionaria (sottolineato da noi, ndr); in terzo luogo è a tutto vantaggio della reazione, perché induce i popoli a domandarsi: quanto otterremo, che cosa ’ci’ verrà dalla spartizione, quanto riusciremo a tirare sul prezzo? Proprio oggi i governi reazionari hanno soprattutto necessità di appellarsi all’’opinione pubblica’ per avere una convalida delle loro conquiste o delle loro richieste di ’indennizzi’ ecc. Guardate, essi dicono, la stampa del mio paese mi accusa di eccessivo disinteresse, mi accusa di arrendevolezza, mi accusa di non difendere adeguatamente gli interessi nazionali, e minaccia la guerra, ecco perché le mie richieste, essendo le più giuste e moderate, devono essere soddisfatte (...) L’unica ’premura’ sincera delle potenze nei confronti dei paesi balcanici potrebbe consistere in una cosa soltanto: nel lasciarli a se stessi, nel non turbare la loro vita con l’ingerenza straniera» (’Gli avvenimenti nei Balcani ed in Persia’, 16 ottobre 1908).

Le epoche delle politiche estere attive sono epoche di riposizionamento delle potenze imperialistiche, di ridefinizione delle alleanze, di verifiche dei rapporti di forza: sono epoche che annunziano la guerra.

Il criterio guida borghese per decidere se intervenire o meno è il rapporto costi/benefici riferito ovviamente all’interesse nazionale del paese partecipante, che in alcuni casi può consistere nel rafforzamento del proprio prestigio e ruolo internazionale, o nel costituire un precedente utile a rompere una tradizione di non intervento ormai di ostacolo alla difesa degli interessi nazionali come è stato il caso del Giappone in Cambogia e della Germania in Somalia e Iugoslavia. «Per quanto riguarda l’Italia è evidente che il nostro paese debba essere in grado di definire interessi, obiettivi e politiche per conseguirli e di gestire crisi, emergenze e conflitti limitati. Per far questo occorre una riforma istituzionale che riguardi i settori sia della progettazione sia della gestione della politica estera e militare e un recupero della cultura politica circa l’utilizzazione della forza militare nelle relazioni internazionali. Se entrambe tali premesse non potranno essere realizzate, sarà preferibile astenersi dall’intervenire, per non rischiare disastri e non ridursi al semplice ruolo di portatori d’acqua a favore di alleati più potenti e più consapevoli dei propri interessi e obiettivi» (’Limes’ 4/94).

Il 1989 ha visto un notevole rimescolamento di carte in Europa. È sparita, almeno al momento, la minaccia sovietica, si è unificata la Germania, si è aperto un vuoto politico-strategico in Europa centro orientale e nei Balcani. Gli Usa lentamente si stanno disimpegnando dal Centro Europa. Si assiste ad un tentativo di emarginazione dell’Italia confinata alla difesa del fianco sud-mediterraneo dell’Europa, mentre si sta affermando la tendenza all’integrazione attorno alla Germania o all’asse franco-tedesco. Gli interessi di sicurezza dell’Europa, prima indivisibili sotto la minaccia sovietica, si sono spezzettati in tante parti quanti sono gli Stati veramente importanti che la costituiscono. L’Italia paese sia centro europeo sia mediterraneo, deve ben definire i propri interessi e scegliere i propri alleati preferenziali sul continente e nel Mediterraneo. «Non ha significato pensare di contare di più nel Mediterraneo per aumentare il nostro peso in Europa» è l’affermazione perentoria dei nuovi riarmisti.

Rimangono i Balcani e l’Europa centro orientale. Per motivi storici, che abbiamo descritto in un nostro studio apparso sul numero di maggio del nostro giornale, ’il partito comunista’, una loro unità autonoma è impossibile stante l’impotenza dei nazionalismi che li divorano e la loro attrazione verso i poli potenti dei paesi imperialisti dell’Occidente. Inoltre è per adesso sparita la loro funzione di zona cuscinetto per minacce provenienti dalla Russia. L’Est Europa ed i Balcani stanno determinando tensioni crescenti tra gli Stati occidentali e si stanno trasformando in zona di influenza e di espansione economica e politico-strategica occidentale. Ovviamente, visto che siamo ancora nella fase delle guerre commerciali e finanziarie, e non militari della crisi, la conquista dei mercati ha sostituito quella dei territori e gli strumenti utilizzati non sono tanto i cannoni ma le merci e le monete. Ora «nei conflitti economici, mezzi e fini sono della stessa natura. Questo può rendere il conflitto permanente e molto più totale di quello armato» (’Limes’ 1-2/93). Ciò in attesa che il conflitto diventi armato.

È quindi ormai chiaro che nei Balcani e nell’Europa centro orientale è in corso una lotta per il dominio tra i vari Stati europei «provocando di riflesso fenomeni disintegrativi anche nella Comunità europea, come si è visto nel corso della crisi iugoslava».

L’Italia in questa area è ben piazzata, come abbiamo dimostrato, in posizione subordinata ai tedeschi nei paesi più importanti (Polonia, Repubblica ceca, Slovenia, Ungheria), in posizione predominante in altri (Romania, Macedonia, Croazia, Albania). Per evitare l’emarginazione dall’Europa, implicitamente connessa all’eventuale rafforzamento dell’asse franco-tedesco o franco-britannico-tedesco, l’Italia deve puntare sui suoi punti forti: «In Europa centro orientale e nell’ex Unione Sovietica le prospettive sono più favorevoli, nonostante la massiccia presenza tedesca. Poiché non possiamo comunque contrastarla, sarà inevitabile allearsi con essa. Per questo motivo l’iniziativa Nato della Partnership for peace dovrebbe suscitare in Italia maggior impegno e interesse di quanto sia avvenuto sinora. La Russia sta riprendendo, nel Caucaso e nell’Asia centrale, il controllo del vecchio impero zarista (su questo c’é da dubitarne al momento considerando l’offensiva dei Talebani in Afghanistan e la politica aggressiva del Pakistan e della stessa Turchia nell’Asia centrale in funzione antirussa e filo americana, ndr). Lo sfruttamento del petrolio del Kazakhistan e del gas del Turkmenistan dipenderà molto più da accordi con la Russia che con la Turchia. In sostanza, il missionarismo, l’ecumenismo ed il terzomondismo italiano ci attirano verso il Sud, mentre la ragione delle nostre ridotte risorse economiche e militari ci porta verso l’Est e a un accordo generale con la Germania, pur mantenendo finché possibile la presenza equilibratrice degli Stati Uniti sia in Europa che nel Mediterraneo» (C.Jean, ’Limes’ 4/94).

L’Italia ancora una volta, per la sua debolezza economica e militare è costretta a giocare su due fronti. Mantenere forte il legame con gli Usa giocando «la carta americana nei riguardi ed eventualmente contro l’Europa, ed addirittura quella russa», specialmente se continuano i tentativi franco-tedeschi di ridurre l’Italia alla funzione statica di garante del fianco meridionale dell’Europa, preparandosi nel contempo alla situazione che veda il ritiro Usa dall’Europa. In questo caso quello che era una opzione diventerà una necessità ineludibile a cui l’Italia dovrà dedicare tutte le risorse economiche e militari a disposizione pena la sua scomparsa dal novero delle medie potenze: «L’unico modo per contare di più in Europa e per proteggere meglio i nostri interessi appare quello di puntare ancor più ad Est, sulla Russia, sull’Ucraina e sulla Turchia, coordinando la nostra politica con quella tedesca. L’Europa potrebbe servire alla sicurezza italiana solo se il nostro paese, contando maggiormente ad Est, aumenterà la sua importanza per la Germania rendendo possibile un coordinamento politico fra Berlino e Roma. Esso si integrerebbe in Europa allo stesso modo con cui ’l’asse’ Parigi-Bonn tende ora ad escluderci e a marginalizzarci. È in vista di tale possibilità che l’Italia dovrebbe dedicare ogni possibile risorsa all’Est Europeo, all’Ucraina ed alla Russia per aumentare il suo peso sia nella Nato sia nell’Europa che emergerà da un eventuale ritiro militare statunitense e che sarà sicuramente diversa sia dall’attuale che da quella delineata nel trattato di Maastricht».

Questo quadro pur nella sua lucidità non tiene adeguatamente in conto che l’attuale fase si contraddistingue per una transitorietà delle alleanze, che saranno rapidamente messe in discussione non appena si restringeranno i margini di mediazione fra la politica tedesca e americana in Europa. Si tratta della classica impotenza borghese a cogliere la dinamicità dello spostamento di forze connesso allo sviluppo dei vari capitalismi nazionali. Infatti se è vero che l’Asia centrale sarà uno degli scacchieri strategici dei prossimi decenni in quanto seconda area petrolifera mondiale per riserve accertate e che i Balcani di conseguenza sono una testa di ponte per ogni intervento di ’proiezione di potenza’, il quadro suesposto non tiene conto che le stesse attuali alleanze in seno alla Nato saranno destinate a sfilacciarsi quando le condizioni materiali dell’emancipazione nazionale tedesca saranno tali da imporre il taglio non solo con le alleanze atlantiche ma anche con le stesse alleanze militari europeiste tipo Ueo, la persistenza delle quali, Ueo e Nato, costituiscono un ostacolo alla rinascita nazionale tedesca.

I Balcani e l’Europa centro orientale, comunque evolva la situazione, rimangono il settore di sfogo dell’imperialismo italiano, ultimo arrivato ma non per questo meno lurido dei maggiori e più allenati rivali. Gli interessi del capitalismo italiano nell’area sono quindi vitali e chi tra i borghesi nostrani non si perde nella politica da cortile ha presente questi dati. Li hanno presenti i militari che sanno che il loro futuro ed il loro progetto del nuovo modello di difesa dipendono dalla riuscita dell’operazione Alba.

Questa si differenzia dall’operazione Somalia in quanto lì bisognava solo dimostrarsi militarmente all’altezza della situazione. Si differenzia dall’operazione Bosnia perché là le responsabilità italiane erano coperte dall’ombrello Nato, anche se l’azione avveniva in una zona vitale per l’Italia e l’Europa. L’operazione Alba invece è a guida italiana ed opera nella testa di ponte della penetrazione italiana nei Balcani e nell’Europa sud-orientale. Un suo fallimento sarebbe la conferma sul campo dell’inaffidabilità militare italiana e determinerebbe il suo ridimensionamento nella penetrazione nell’area. Sarebbe la conferma che la cialtrona borghesia italiana come alleato non è utile né alla Germania, né alla Russia, né agli Usa.
 

Il ’Nuovo Modello di Difesa’

Nei suoi elementi tecnici il ’Nuovo Modello di Difesa’ (Nmd) è in fase di continua elaborazione ed ogni intervento militare è utile per una sua migliore definizione. Ha affermato il generale Quintana nel corso della Tavola rotonda militare sull’operazione Alba: «Queste missioni, sotto il profilo strettamente militare, sono indubbiamente molto produttive; se ne ricavano ottimi ammaestramenti di tipo operativo, in particolare nella logistica» (’Limes’ 2/97).

Al fine di comprendere la filosofia di base dell’Nmd è importante sapere che la nuova concezione è stata elaborata dai vertici Nato alla fine del 1989 e applicata nella guerra del Golfo; è su questa nuova base che ogni comando nazionale dovrebbe provvedere a ristrutturare il proprio apparato di forza.

La domanda che sta alla base della filosofia dell’Nmd é: ’Qual’é l’utilità delle Forze Armate?’. Domanda non banale come si comprende dal fatto che dopo 7 anni di discussioni non si sia giunti ancora alla fase operativa del Nmd, ponendo problemi molto seri all’operazione Alba, specialmente se essa dovesse durare più a lungo del previsto e dovesse assumere aspetti cruenti.

«La mancata definizione dell’utilità delle forze militari per la politica estera italiana fa sì che la reale politica militare sia fatta dai ministri finanziari e che, anziché pensare ad ottimizzare le diverse risorse disponibili per obiettivi politici e quindi limitati, le FF.AA. si propongano spesso obiettivi incompatibili con le allocazioni di bilancio, disperdendo a pioggia le risorse sui programmi più disparati. Il fenomeno ha negli ultimi 20 anni assunto proporzioni macroscopiche nell’Esercito e nell’Aeronautica, per cui ci si trova poi nell’impossibilità di impiegare più di qualche migliaio di uomini sui 200 mila effettivi dell’Esercito o 4-5 aerei da trasporto medio. Gran parte delle risorse sono state disperse su una base ampia di reparti e di enti territoriali, destinati alla difesa diretta, ovvero per l’acquisto ed il mantenimento di pressoché inutili cacciabombardieri o aerei da trasporto leggeri di produzione nazionale» (’Limes’ 4/94).

Il fenomeno è apparso evidente negli ultimi 20 anni non perché prima si operasse diversamente, ma perché negli ultimi 20 anni, e particolarmente negli ultimi 10, il codominio russo-americano ha cominciato a traballare fino a crollare, solo debolmente sostituito dal nuovo ’ordine’ americano, per cui siamo entrati nella fase della rinazionalizzazione della politica estera cui abbiamo accennato.

La prima domanda ne richiama subito una seconda: ’Chi decide l’utilità delle FF.AA.?’. «L’utilità delle FF.AA nel loro complesso e nelle loro singole componenti non può essere definita dai vertici della Difesa e tanto meno da quelli militari. Devono definirla i responsabili politici dello Stato». Il perché è evidente da quanto scritto precedentemente quando abbiamo parlato degli interessi nazionali italiani e della loro definizione nell’attuale fase storica. «Dall’individuazione degli interessi e delle priorità della politica estera italiana devono discendere le linee fondamentali del Nmd, che definisce le capacità operative che deve possedere il nostro paese e per concorrere a sostenerla. I compiti e i ruoli delle FF.AA. e le loro conseguenti strutture non possono essere definite né dagli Stati Maggiori né dalle Commissioni Difesa senza tener conto del quadro generale degli interessi internazionali dell’Italia» (C.Jean, L’uso della Forza).

La fine della spartizione dei continenti fra russi e americani, prodotto della crisi generale del capitalismo, ha portato ad una frammentazione ed alla balcanizzazione del mondo, riportando in primo piano gli interessi nazionali. Ogni nazione è sola e da sola si trova a difendere i suoi interessi nazionali, chiaramente definiti, anche se opera in un sistema internazionale. Siamo in una fase di ridefinizione dei rapporti interimperialistici, fase di movimento in cui occorrerebbe dotarsi di una politica estera offensiva e quindi di Forze Armate adeguate a questi compiti. Per una media potenza come l’Italia ciò significherebbe ragionare ed operare in modo globale e senza chiusure regionalistiche. «La sicurezza in definitiva non va più confinata all’interno di determinati limiti geografici: occorre avere la volontà e la capacità di proiettarsi a lungo e medio raggio, ovunque si manifestino situazioni a rischio che potrebbero degenerare rapidamente, coinvolgendo la sicurezza e gli interessi nazionali» (Gen. Franco Angioni, 47.a Sessione del Centro Alti Studi per la Difesa, 1996).

Il compito primario delle FF.AA., afferma lo Stato Maggiore della Difesa, é: «la difesa degli interessi esterni (che) si esercita in tutte le aree di interesse strategico ove possono insorgere situazioni di instabilità, di tensione e di crisi,a salvaguardia degli interessi nazionali e nel contesto di interventi multinazionali» (Modello di Difesa, 1995).

È individuato il legame tra quadro economico e politico della sicurezza. C’é «connessione tra quadro economico e quadro geostrategico (...) Non ci saranno più economie forti non sorrette da forti politiche estere e della sicurezza». A tal fine è necessario «uno strumento militare qualificato che sia in grado di sostenere la politica estera perseguita dall’Italia» e dotato dalla «capacità di operare interventi rapidi laddove le crisi si sviluppano e integrarsi in dispositivi «internazionali». Questo strumento dovrebbe essere costituito dalle nuove Forze Armate strutturate secondo il Nmd: «Si tratta di verificare quanto modello si può realizzare e, nel rispondere a questa domanda sarà possibile definire quale caratura l’Italia potrà avere nella sua collocazione internazionale» (Amm. G.Venturoni, Capo di S.M. della Difesa, 47.a Sessione del Centro Alti Studi per la Difesa, 1996).

In breve: elemento centrale della filosofia del Nmd è una concezione conflittuale degli interessi nazionali e quindi della politica estera, in connessione con la coscienza che il crollo della internazionale gendarmeria russo-americana non è stato portatore di ordine ma di disordine mondiale, che la borghesia ha interesse a suddividere in settori distinti e separati (crisi etniche, politiche, religiose, economiche), ma che noi marxisti, senza dimenticare l’elemento sovrastrutturale, riconduciamo tutti alla generale crisi capitalistica.

Per arginare questa molteplicità di rischi dell’ordine capitalistico occorrerebbe creare «forze ad elevata prontezza operativa, altamente mobili, proiettabili anche a lunga distanza e con capacità risolutive di sicuro affidamento» (Relazione illustrativa del disegno di legge del Ministro della Difesa Andò sul nuovo modello di difesa, 1992).

Questo ’nocciolo duro’ delle Forze Armate dovrebbe essere costituito esclusivamente di mercenari, in ferma breve (3 anni prolungabili a 5) in servizio permanente effettivo. La nuova politica estera di carattere offensivo si creerebbe così lo strumento conforme alle sue nuove esigenze; «un esercito che, con un ’nocciolo duro’ costituito da professionisti della guerra, ha come compito centrale la ’difesa degli interessi nazionali esterni’ nell’’area di interesse strategico’, la quale secondo il Modello abbraccia non solo l’intero Mediterraneo, ma ’l’area ad essa collegata, per riconosciuto legame strategico, comprendente il Golfo, il Medio Oriente ed il Corno d’Africa’, dove si trovano le materie prime necessarie alle economie dei Paesi industrializzati. Il fatto che si sia dovuto ridimensionare quantitativamente il Modello originario, compresa la previsione di spesa non ne intacca la qualità: la scelta di trasformare l’esercito italiano in una forza militare da proiettare nelle ’aree di crisi’» (Manlio Dinucci, L’oro e la spada). Invece il ridimensionamento quantitativo del Modello, se non ne intacca la qualità, può nel breve periodo avere conseguenze pericolose per gli interessi al cui servizio esso è posto.
 

Leva o Mercenariato?

Qui non tocchiamo gli aspetti tecnici di armamento. Consideriamo solo la questione dei ’volontari’ della guerra. Di fatto l’Esercito Italiano sta rafforzando la componente professionale attraverso il reclutamento di mercenari a ferma prolungata. Secondo il generale Bonifazio Incisa di Camerana ne occorrerebbero 36.000 contro gli attuali 11.000 (’G&P’ 39/40). L’Italia recentemente ha condotto due operazioni ’umanitarie’. La missione Sfor (ex Ifor) in Bosnia e l’operazione Alba in Albania. La prudenza avrebbe consigliato di sganciarsi da almeno uno dei due fronti, ma l’estrema opportunità che l’Italia guidasse la spedizione albanese lo ha impedito. L’operazione Alba ha impegnato 2.000 professionisti più 3-400 soldati di leva con incarichi logistici previa domanda individuale (’Stampa’ 15 aprile). Ora «questa cifra va all’incirca triplicata, poiché per ogni reparto in campo ne corrisponde uno smontante che, terminato il turno sul terreno, ha gli effettivi in buona parte in licenza e in addestramento e uno in preparazione per sostituire il reparto operante. Con questa turnazione, due missioni militari che prevedano l’impiego di 2-3 mila uomini sul terreno, comportano la disponibilità di reparti professionisti di prima linea pari a 12-15 mila effettivi, una cifra lontana da quelli che sono i numeri a disposizione del nostro governo» (’Limes’, Albania emergenza italiana). Effettivamente l’Italia aveva già forato o era ai limiti della disponibilità di guerrieri per cui giungeva inopportuno il consiglio del nostro esperto: «Queste considerazioni devono far riflettere tuttavia sull’opportunità da parte dell’Italia di dotarsi di una nuova efficace legge sul reclutamento, visto che nel futuro le missioni militari ’di pace’ si moltiplicheranno».

Questa impostazione efficientista del problema ignorando la profonda e irreversibile involuzione della crisi del regime tardo-imperialistico, di tecnicismo, risultato dell’incapacità di cogliere la inesorabile impossibilità di componimento ’razionale’, volontario e limitato delle forze infernali suscitate dallo sviluppo di un capitale senile sopravvissuto a se stesso. Ciò porta i teorici della borghesia ad escludere quello che per noi marxisti è lo sbocco inevitabile del dispiegarsi della crisi capitalistica mondiale e della balcanizzazione degli interessi nazionali se la spada della Rivoluzione non verrà a fermarla: la guerra mondiale.

Quando la crisi costringerà la borghesia tedesca, pena la sua decadenza e morte, a riappropriarsi pienamente dalla propria emancipazione nazionale rompendo non solo con le alleanza atlantiche tipo Nato ma anche con le stesse alleanze militari europeiste tipo Ueo, ostacoli di primo piano alla rinascita nazionale della Germania la politica militare di tutte le potenze imperialistiche subirà un rovesciamento di 180 gradi.

Il pensiero geopolitico borghese, che anche nei suoi meno schifosi rappresentanti sembra prigioniero della teoria reazionaria dell’ultraimperialismo e dell’impossibilità di una nuova guerra totale mondiale, anche se poi la materialità costante del riarmo lo smentisce, è incapace di comprendere che il ritiro Usa dall’Europa e l’integrazione europea intorno alla Germania dotata di una politica estera rinazionalizzata è la premessa fondamentale del futuro generale scontro imperialistico. «Qualsiasi accordo o unificazione non farà che riprodurre la lotta sanguinosa ad un nuovo livello. Se l’ Europa centrale si unificherà e si realizzeranno i piani imperialisti tedeschi, la situazione resterà all’incirca la stessa, ma se si unirà tutta l’Europa, ciò non significherà affatto il ’disarmo’. Ciò significherà un balzo in avanti mai visto del militarismo, poiché sarà il turno della lotta con l’America e l’Asia» (Bucharin).

Se in questa fase di transizione dal codominio russo-americano alla definizione di nuove alleanze in vista del prossimo scontro per il potere mondiale può prevalere la filosofia del Nuovo Modello di Difesa che privilegia la componente professionale e gli interventi rapidi e massicci ma localizzati e di breve periodo nelle aree di crisi, questo non deve far dimenticare ai marxisti che la tendenza ineluttabile dell’imperialismo è alla militarizzazione di tutta la società civile; militarizzazione ’invisibile’ nei periodi relativamente pacifici, visibile e apertamente dichiarata nei periodi di guerra aperta. «La ’mobilitazione dell’industria’ cioè la militarizzazione è stata effettuata tanto più facilmente quanto più forti erano le organizzazioni imprenditoriali: i cartelli, i sindacati, i trust. Queste unioni padronali, nell’interesse delle quali, in sostanza, è stata intrapresa la guerra, hanno posto tutto il loro apparato regolatore al servizio dello Stato imperialista col quale si trovavano in stretti rapporti di parentela. Esse hanno assicurato, in questo modo, la possibilità tecnico-economica di militarizzare la vita economica, a cominciare dal processo di produzione direttamente, per determinare con le finezze della circolazione creditizia. E proprio là dove l’industria era organizzata in cartelli la sua ’mobilitazione’ ha assunto dimensioni grandiose (...) Gli scopi della mobilitazione industriale, così come il suo significato, appaiono chiaramente dal discorso del ministro inglese Lloyd-George il 3 giugno a Manchester: ’La legge sulla difesa del Paese dà a noi – cioè al governo, dice il ministro – i pieni poteri su tutte le fabbriche. Questa legge ci dà la possibilità di rendere prioritari i lavori necessari al governo. Noi possiamo disporre di tutta la fabbrica, noi possiamo disporre di ogni macchina, e se incontreremo delle difficoltà il ministero dei rifornimenti per l’esercito potrà, utilizzando questa legge, adottare le misure più efficaci’. Misure analoghe sono state adottate anche in Francia e in Russia» (Bucharin).

L’imperialismo, nei momenti decisivi, non solo non può fare a meno della leva in massa, anzi estenderà il controllo militare a tutta la società civile. Dopo la prima guerra mondiale non sono più concepibili guerre localizzate tra grandi imperialismi. Queste sono guerre totali nel senso che tutta la società civile ne è coinvolta, anzi sarà proprio la società civile quella più esposta ai massacri e alle distruzioni.

Che la borghesia tedesca non sia la più sprovveduta, anzi in un certo qual modo abbia intuizione dove l’evoluzione degli attuali rapporti imperialistici conducano, è dimostrato dal dibattito innescato dalla proposta francese di abolizione della leva. La borghesia tedesca ha risposto rafforzando il suo dispositivo di forza territoriale con la motivazione che non sono cessati i pericoli portati da imprecisate potenze contro la nazione tedesca. Le imprecisate potenze sono così chiaramente individuate che ci arriva anche l’organo della Confindustria: «In nessuna presa di posizione si è fatto il benché minimo accenno da quale potenza la Germania debba essere eventualmente difesa, ma non ci vuole molta fantasia per capirlo, visto che il patto di Varsavia non esiste più».

Dal nostro punto di vista, è notorio che comunisti considerano maggiore ostacolo ai propri fini l’esercito di tipo professionale non perché vedano nell’esercito di leva un esercito ’al servizio del popolo’, ma perché nel secondo meglio si riflettono le contraddizioni sociali e quindi più facilmente disgregabile in caso di acute crisi sociali o militari, come si è visto recentemente in Albania.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



Appunti per la Storia della Sinistra
(continua dal numero scorso  [ nn. 42 - 43 - 44 - 45 - 46 - 47 - 49 - 50 ] )

Il Partito Comunista Internazionalista
ROTTURA DEFINITIVA CON IL NAZIONALCOMUNISMO
 
 

Bilancio teorico della Controrivoluzione

Fin dal giugno 1945, con il passaggio del Fronte di guerra, i gruppi della Sinistra comunista che si erano riorganizzati nel Sud e nel Centro d’Italia poterono finalmente ricollegarsi con quelli operanti al Nord. Immediatamente nacque l’esigenza della costituzione, a scala nazionale, di una organizzazione genuinamente marxista rivoluzionaria.

Non si trattava di fare pateracchi organizzativi tra partitini diversi, dove ogni gruppo avesse mercanteggiato la propria adesione o il proprio rifiuto in base a concessioni a dirigenti e a posizioni particolari, si trattava al contrario di ricollegare le membra separate di un unico corpo. La forzata separazione delle compagini della Sinistra non era dovuta a pruriti ideologici di capetti e teorici da quattro soldi, ma ad eventi giganteschi che si erano abbattuti con tutta la loro violenza sulla classe proletaria e sul suo partito: il fascismo, la controrivoluzione staliniana, la seconda carneficina imperialista.

L’evento di questa riorganizzazione a scala nazionale assumeva una importanza enorme perché rappresentava il primo ed unico esempio di ricostituzione del partito di classe dopo la degenerazione ed il tradimento dei vecchi partiti aderenti all’Internazionale. Quando affermiamo questo, sappiamo benissimo di ignorare, e lo facciamo volutamente, tutta la serie di partitini che trotzkisti ed altri gruppi, dal 1933 al 1945, avevano fondato un po’ ovunque ma che non erano riusciti a liberarsi dell’ideologia degenerativa contro la quale avrebbero dovuto combattere: si pensi all’atteggiamento equivoco assunto nei confronti della falsa contrapposizione tra fascismo e democrazia, nei confronti della Russia e, di conseguenza, anche nei confronti della guerra imperialistica.

Al contrario i raggruppamenti che si organizzarono nel Partito Comunista Internazionalista non rappresentavano una tendenza, ma le sole forze che erano rimaste sul terreno del marxismo rivoluzionario, difeso dalla Sinistra italiana e dall’Internazionale di Lenin.

Come recitava la nostra piattaforma del 1945, «esigenza di primo ordine nella presente situazione mondiale è la riunione in un organismo politico internazionale di tutti i movimenti locali e nazionali che non hanno alcun dubbio ed alcuna esitazione nel porsi al di fuori dei blocchi per la libertà borghese e per la lotta generica antifascista, che sono al di fuori di tutte le suggestioni della propaganda di guerra borghese dalle due parti del fronte, che decidono di ricostruire l’autonomia di pensiero, di organizzazione e di lotta delle masse proletarie internazionali, e che intendono per unità del proletariato non l’ibrido contatto tra gruppi di dirigenti, che esprimono programmi disordinatamente discordanti, ma il superamento sicuro ed organico di tutte le particolari spinte destate dall’interesse di gruppi proletari, distinti per categorie professionali e per appartenenze nazionali, in una forza sintetica agente nel senso della rivoluzione mondiale».

Per realizzare questo obiettivo, molto più importante della ricongiunzione fisica dei compagni della Sinistra e di una organizzazione politica che in qualche modo alla Sinistra si richiamasse, era, invece, la restaurazione della dottrina rivoluzionaria, di quella dottrina che, ormai da venti anni, con opera di sistematico attacco distruttivo, era stata completamente snaturata, tanto è vero che perfino quelli che, al di fuori della Sinistra Comunista Italiana, avevano, anche coraggiosamente, tentato di contrapporsi a questa degenerazione, basti pensare a Trotzki, rimasero intrappolati dai miti e dai limiti democratico-borghesi. La riproposizione integrale del programma comunista, a fronte dei vuoti ideologismi e delle false parole lanciate da ogni parte alle masse lavoratrici, avrebbe posto le basi per poter ricostruire un inquadramento che sarebbe servito di base, anche se in un futuro non prossimo, per un vittorioso affermarsi del partito politico di classe, sia a scala nazionale sia internazionale e sulla linea delle tradizioni rivoluzionarie nel campo della dottrina e dell’azione.

Ed è proprio a questo fine che già all’inizio del 1945, quando ancora il fronte di guerra divideva l’Italia, i compagni del Sud iniziarono uno studio teorico nel quale veniva compiuto un riesame di tutte quante le questioni del movimento sociale e politico nella situazione succeduta ad eventi fondamentali quali:
1) La crisi dell’Internazionale comunista, costituita a Mosca nel 1919, e del Partito Comunista d’Italia, fondato a Livorno nel 1921, che condusse all’aperta rottura, fin dal 1926, tra i dirigenti di Mosca, e la corrente centrista loro rappresentante in Italia, con la tendenza di Sinistra, nonché la crisi dello Stato proletario russo.
2) L’affermarsi in Italia ed in altri paesi delle nuove forme totalitarie dittatoriali del dominio borghese.
3) La seconda guerra mondiale e l’infeudamento dei partiti socialisti e comunisti alla propaganda bellica delle democrazie capitalistiche.
4) Lo schiacciamento militare dello Stato italiano, la caduta del regime di Mussolini, la stipulazione dell’armistizio tra il governo della coalizione antifascista e le potenze vincitrici.

Questo riesame generale, che nella sua prima sezione portava il titolo: L’Assalto del Dubbio Revisionista ai Fondamenti della Teoria Rivoluzionaria Marxista, prendeva le mosse dall’interrogativo: 1) se fosse sempre valida l’impostazione generale formulata dal marxismo nei confronti della funzione storica della classe borghese attraverso le sue successive fasi, rivoluzionaria, conservatrice e reazionaria; 2) se fosse sempre attuabile la classica soluzione proposta dal marxismo per l’emancipazione del proletariato attraverso la presa violenta del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato per la futura trasformazione del vecchio sistema economico e sociale; 3) se, infine «come in tutte le grandi svolte della storia contemporanea si è sostenuto da tante parti, e come più che mai oggi si sostiene, gli eventi costringono a valutare diversamente queste aperte antitesi tra forze sociali ed epoche storiche opposte, ed indicano al proletariato, soprattutto nel quadro dei tremendi schieramenti di forze materiali offerti dalle guerre, altre prospettive ed altre esigenze più urgenti di quelle del superamento definitivo del sistema borghese, prospettive ed esigenze che lo inducono ad associazioni di forze con gruppi politici e nazionali della classe dominante?» (Le Tesi della Sinistra, ’Prometeo’, n.5, 1947).

In questo riesame generale vennero trattati il divenire della società borghese, le sue tendenze economiche più recenti, il significato dell’imperialismo e delle grandi guerre mondiali, il significato dei moderni regimi totalitari in rapporto alla democrazia politica borghese e, per contrapposto le vicende del movimento della classe proletaria, le crisi della II e III Internazionale, la sorte delle grandi battaglie rivoluzionarie.

Se è vero, come abbiamo altre volte scritto, «che soltanto nella seconda metà del 1951 e specialmente a partire dal 1952 il partito prese un indirizzo fermo ed omogeneo, basato sul riallacciamento alle tesi di fondo del periodo 1920/1926 e sul bilancio dinamico del venticinquennio successivo, che ad esse conferiva lineamenti ancor più netti e ormai inconfondibili» (da In Difesa della Continuità del Programma Comunista), è anche vero che il partito, già nel 1945, poggiava su di una solidissima struttura teorica attraverso la riproposizione integrale della dottrina marxista. Ne sono chiaro esempio la produzione collettiva di lavori quali: Le Tesi della Sinistra, il Tracciato di Impostazione, Forza Violenza Dittatura nella Lotta di Classe, Proprietà e Capitale, La Tattica del Comintern, ecc.

In particolar modo il Tracciato di Impostazione costituisce una sintesi dei principi di tutta l’impostazione marxista non solo per quel che riguarda l’analisi teorica, ma anche per la definizione della strategia e della tattica del movimento proletario rivoluzionario lungo l’arco ormai bisecolare della dominazione borghese. Non vengono lanciati programmi e parole d’ordine contingenti, ma viene riproposto un indirizzo che non nell’oggi della merdosa controrivoluzione, ma domani sarà indispensabile, nel vivo della più alta espressione della lotta di classe: la lotta per la conquista rivoluzionaria del potere. Si era ben coscienti, invece, che «nella presente fase di smarrimento teorico, riflesso del disorganamento pratico, la rimessa a punto della impostazione (avrebbe prodotto) come primo risultato l’allontanamento e non l’avvicinamento di aderenti».

Il "Popolo" del 4 agosto ’46, in occasione della pubblicazione del Tracciato di Impostazione sul primo numero di ’Prometeo’, ne espresse apprezzamenti positivi. I democristiani, prendendo atto del ’fervore di ricerca’ che animava i comunisti internazionalisti e del loro ’coraggio politico’, si auguravano, tuttavia, che al termine delle nostre ricerche noi riconoscessimo ’l’esigenza di un completamento della persona e della vita di gruppo che solo può venire ottenuto attraverso il riconoscimento di un fattore non esclusivamente umano o terrestre’. Dalle colonne del nostro giornale ringraziammo l’articolista cattolico per la trepida cura delle nostre anime e, mentre ribadivamo l’incompatibilità radicale ed assoluta delle nostre strade e la nostra ferma decisione di rimettere la storia e l’uomo – come diceva Marx – sui loro piedi, assicuravamo che noi, a differenza dei nazional-comunisti non avremmo mai intrapreso viaggi lungo la strada di Damasco.

Il compito di occuparsi di noi e delle nostre elaborazioni teoriche il PCI lo assegnò a Felice Platone che, dalle colonne di ’Rinascita’ del settembre 1946, n.9, scriveva: «nelle allegre trovate che i sedicenti internazionalisti presentano come ’ricerche’ marxiste (...) i suoi dirigenti e i suoi ’teorici’ esibiscono ridicolmente e pomposamente la loro stupidità e la loro presuntuosa ignoranza». Entrando poi a parlare del Tracciato di Impostazione, dopo una profonda analisi politica («si stenta a credere che tante asinerie siano opera di un solo somaro»), Felice Platone si meravigliava del fatto che «in questo grossolano e caricaturale rifacimento di alcune tesi elementari del marxismo, sono completamente scomparsi i ceti medi, gli alleati del proletariato, il problema dell’egemonia e tutti i problemi fondamentali della trasformazione socialista della società». Senza volerlo l’in-Felice attestava la nostra correttezza marxista rivoluzionaria dicendo che dal nostro lavoro teorico mancavano tutti quegli elementi caratteristici del revisionismo controrivoluzionario. Ma quello che scandalizzava più di ogni altra cosa il nostro contraddittore erano le parole con le quali il Tracciato cominciava: «Questo scritto per evidenti motivi non contiene la dimostrazione di quanto afferma».

Ripartire dalle tesi elementari del marxismo era d’obbligo per chi, a differenza del PCI, non volesse rinnegare la dottrina del marxismo. Ed il corpo di tesi del dopoguerra non poteva che essere la dialettica prosecuzione delle enunciazioni teoriche dei precedenti periodi storici, il prodotto organico della vita e della lotta del partito. A differenza di altri testi, le Tesi non spiegano, non discutono, affermano, enunciano, sono le anti-Tesi delle affermazioni del nemico di classe.

Scrivemmo nella prefazione all’edizione del 1976 delle nostre Basi Programmatiche: «Le tesi del secondo dopoguerra hanno un significato speciale, perché a differenza di quelle dei primi congressi dell’Internazionale Comunista, che si ponevano a base del costituendo partito comunista internazionale, tirano le lezioni della più terribile ondata controrivoluzionaria della storia del proletariato moderno, quella conseguente alla sconfitta della rivoluzione d’Ottobre e della distruzione dell’I.C. Il piccolo partito odierno si è trovato dinnanzi ad una montagna di macerie del movimento operaio. Distrutto lo Stato proletario, il sindacato di classe, i soviet e financo il partito. Anno zero della classe operaia».
 

Due Classi - Due Partiti

Alla fine del dicembre 1945 si tenne a Torino la prima conferenza nazionale del riorganizzato Partito Comunista Internazionalista. La conferenza rappresentò la ripresa organizzata dei contatti tra le forze della Sinistra comunista da quando il regime fascista aveva promulgato le sue leggi eccezionali, e sancì la rottura definitiva tra l’internazionalismo rivoluzionario ed il centrismo di ispirazione moscovita ed ora al servizio della sconfitta borghesia italiana in veste di garante della pace sociale. La contrapposizione tra i due schieramenti appariva ancor più netta ed evidente per il fatto che contemporaneamente il PCI teneva a Roma il suo V congresso ed era quindi ovvio paragonare le posizioni ufficiali assunte dai due movimenti.

A Roma il PCI rivendicava in modo aperto i suoi due nuovi principi programmatici costituenti la tattica del ’comunismo’ di governo: il nazionalismo e la collaborazione di classe. A Torino, in perfetta coerenza con i vecchi principi applicati da Lenin sul cammino della rivoluzione d’Ottobre, venivano riaffermati l’internazionalismo e l’indipendenza del proletariato e del suo partito nei confronti dello Stato capitalista.

A Roma venivano esaminati i modi e le possibilità della ricostruzione della patria, di risollevare l’economia capitalista italiana, di realizzare nel migliore dei modi possibili il blocco dei partiti democratici. A Torino, alla salvaguardia del regime borghese era stato opposto il principio della lotta rivoluzionaria del proletariato per la distruzione dell’apparato statale capitalista e l’instaurazione del potere rivoluzionario. Veniva smascherata la vera natura di classe della democrazia (quella di esecutrice testamentaria del defunto regime fascista), riaffermando come unico obiettivo del proletariato e del suo partito quello della organizzazione di classe delle masse proletarie, del partito di classe, di un organismo politico internazionale dove, attraverso le frazioni marxiste internazionaliste, il proletariato dei differenti paesi sarebbe stato rappresentato.

A Roma, infine, i nuovi statuti del PCI stabilivano che si poteva essere comunisti indipendentemente dalla fede religiosa professata e dalle convinzioni filosofiche affermando che non veniva richiesta l’adesione ad una tale o talaltra dottrina a colui che accettava il programma del partito. A Torino fu adottata una piattaforma che non soltanto proclamava il materialismo storico e dialettico di Marx come la teoria propria del partito di classe, ma respingeva ogni altra influenza di ordine idealista o religioso come incompatibile con l’appartenenza ai ranghi della rivoluzione.

Il V congresso del PCI (Roma 1945) fu il primo che si svolse liberamente nell’Italia liberata, ma non libera, dopo 23 anni dall’altro che era stato tenuto a Roma: il II congresso del PCd’I.

Il II congresso di Roma 1922 aveva stabilito che la lotta contro la socialdemocrazia di centro e di destra, faceva parte integrante ed indissolubile della lotta del partito contro la borghesia, il potere statale e le sue formazioni militari ’illegali’. Parlando di proletari sinceramente rivoluzionari e militanti in altre organizzazioni politiche, le tesi affermavano: «L’asprezza della polemica e della lotta contro i partiti socialdemocratici sarà un elemento di prim’ordine per riportare quei lavoratori sul terreno rivoluzionario». Veniva negata, nel modo più assoluto, la possibilità che un governo democratico di sinistra, od anche un governo socialdemocratico potessero concedere «al proletariato maggiore libertà di organizzazione, di preparazione, di azione rivoluzionaria. Il partito comunista – continuavano le tesi del 1922 – sa e ha il dovere di proclamare, in forza di ragioni critiche e di una sanguinosa esperienza, che questi governi non rispetterebbero la libertà di movimento del proletariato che fino al momento in cui questo li ravvisasse e li difendesse come propri rappresentanti, mentre dinanzi ad un assalto delle masse contro la macchina dello Stato democratico, risponderebbe con la più feroce reazione». Sempre nel lontano 1922, a proposito della tattica, l’organo del partito scriveva: «I limiti tattici non li traccia la teoria, ma la realtà. E questo è tanto vero che, senza fare gli uccelli del malaugurio, noi prevediamo che se si continuerà ad esagerare in questo metodo delle illimitate oscillazioni tattiche e delle coincidenze contingenti tra opposte parti politiche, si demolirà a poco a poco il risultato di sanguinose esperienze della lotta di classe, per arrivare non a geniali successi, ma allo svuotamento delle energie rivoluzionarie del proletariato, correndo il rischio che ancora una volta l’opportunismo celebri i suoi saturnali sulla sconfitta della rivoluzione, le cui forze già esso dipinge come incerte ed esitanti e avviate nella via di Damasco» (’Il Comunista’, 21 marzo 1922).

Il partito comunista doveva differenziarsi da tutti gli altri, specialmente quelli definiti affini, con una prassi politica che rifiutasse le manovre tattiche, le combinazioni, i blocchi.

Quello che avevamo temuto avvenne, a conferma che i mezzi condizionano il fine. E nel 1945 la parabola della controrivoluzione era stata completata e il rinnegamento dei principi del marxismo e del tradimento del proletariato aveva superato di gran lunga quello socialdemocratico del 1914. Nel 1914 i partiti socialdemocratici avevano chiamato il proletariato a scendere sul campo di battaglia in difesa della patria borghese perché con la difesa della patria borghese avrebbero difeso anche ’valori’, come la civiltà tedesca contro lo zarismo feudale e teocratico, ovvero la democrazia occidentale contro il militarismo teutonico. Ai proletari allora era stato detto che la difesa di queste conquiste della società civile, contro il pericolo di una ricaduta nella barbarie, interessava soprattutto loro perché si poneva sul cammino dello sviluppo umano verso il socialismo e che quindi alla borghesia veniva concessa solo una tregua della lotta di classe, lotta che, subito dopo il conflitto, sarebbe stata ripresa per il raggiungimento delle finalità socialiste. Che si trattasse solo di un inganno apparve subito evidente alle frazioni della sinistra rivoluzionaria e l’esperienza degli anni successivi lo dimostrò chiaramente.

Ma la degenerazione staliniana andò oltre: nel corso della seconda guerra mondiale e negli anni successivi la lotta di classe fu definitivamente accantonata e al proletariato avrebbe dovuto competere soltanto la collaborazione di classe ed il completo assoggettamento agli interessi nazionali.
 

PCI 1946: Un piano definitivo di tradimento

Il clima in cui si svolse il V congresso del PCI fu quello di una trepidante attesa da parte della borghesia italiana per le scelte che i ’comunisti’ si sarebbero apprestati a compiere. Il partito togliattiano aveva dato più di una prova di lealtà alle istituzioni statali, di fedeltà allo schieramento bellico delle nazioni vincitrici, di devozione alla causa della borghesia italiana; tuttavia era necessario che le opere venissero sancite anche con delibere ufficiali che impegnassero il partito ed i suoi aderenti soprattutto per il futuro.

L’Italia usciva dallo scontro bellico totalmente distrutta, sia sotto l’aspetto militare sia sotto quello economico e politico, con il territorio sottoposto all’occupazione delle truppe vincitrici. Il paese si trovava a dover assolvere ai compiti immensi della ricostruzione economica e a questo scopo aveva soprattutto bisogno di pace sociale e collaborazione di classe. L’unità delle forze antifasciste, realizzata attraverso i Comitati di Liberazione Nazionale, era ancora mantenuta nel governo presieduto da Alcide De Gasperi, ma la messa in crisi del governo Parri, provocata dai liberali per conto della Democrazia Cristiana, aveva già messo in luce l’incrinatura dell’unità politica. La stessa cosa succedeva a livello internazionale: i cannoni non avevano ancora cessato di sparare che tra le nazioni vincitrici, in particolare modo tra USA ed URSS, sorgevano acuti dissensi sulla spartizione del bottino di guerra e sul dominio da imporre sulle nazioni minori, poco importa che fossero vinte oppure vincitrici.

Il V congresso del PCI non deluse però le aspettative della classe dominante, anzi andò tanto avanti nel suo programma che esso è potuto servire magnificamente per un altro mezzo secolo e rappresenta ancora, dopo il cambio del nome e l’aperta abiura del comunismo, la piattaforma programmatica dell’attuale sinistra. Anche il cambio del nome da PCI a PDS e l’apostasia del comunismo non rappresentano una rottura di quel programma, ma la sua logica evoluzione.

Il V congresso rappresentò il definitivo affossamento di qualsiasi legame, anche il più tenue, con Livorno 1921 e pose le basi per un periodo di collaborazione di classe a tempo illimitato legando le sorti del proletariato alle sorti della borghesia italiana, anche se il concetto veniva mistificato con la formula del ’nuovo ruolo’ che alla classe operaia toccava nella ’direzione’ del paese. A questo scopo, dovendo presentare le sue credenziali di fronte al capitalismo non solo nazionale ma internazionale e, soprattutto, alle potenze vincitrici della guerra che occupavano militarmente l’Italia, il PCI si affrettò a dichiarare di avere «superato ogni residuo di settarismo e respinto qualsiasi atteggiamento esclusivistico nocivo alla causa della rinascita e ricostruzione nazionale» (Risoluzione approvata dal V congresso del PCI il 6 gennaio – La Befana! – 1946).

Poiché la continuità del potere di classe è rappresentata dal suo Stato e non dai regimi politici che, a seconda delle fasi storiche, si alternano, Togliatti dichiarava nel suo rapporto al congresso: «Scoppiata la guerra non fummo mai per la disfatta. La nostra parola d’ordine centrale, guida di tutto il nostro lavoro diretto e dei nostri contatti con gli altri partiti e con gli stessi fascisti delusi dalla criminale politica mussoliniana, fu quella di salvare il paese dalla disfatta militare e dalla catastrofe che vedevamo inevitabile». Rivolgendosi poi ai quadri dell’esercito borghese affermava: «Noi dichiariamo a questi combattenti sfortunati che non abbiamo mai disprezzato il loro sacrificio e le loro sofferenze (...) La nostra politica è stata prima della guerra e nel corso di tutta la guerra una politica di unità».

Dopo avere ammesso di non avere mai sabotato né la patria, né il regime, Togliatti passa ad enumerare i suoi meriti controrivoluzionari che, effettivamente, non sono da poco. Vediamo come li elenca in maniera dettagliata: «Messi al bando dalla vita nazionale per venti anni (mentre loro vi avrebbero volentieri partecipato, anche in collaborazione con il regime fascista, come del resto proposero nel 1936 – ndr),ci siamo affermati come i figli migliori della nazione italiana, i migliori eredi e continuatori delle sue tradizioni. Abbiamo tolto ogni base possibile, nella coscienza degli italiani onesti e sinceri, alle stupide calunnie contro il comunismo (...) siamo riusciti (è questo il vero merito della loro opera controrivoluzionaria! - ndr) a portare la classe operaia italiana ad adempiere una funzione nuova, una funzione nazionale. Il nostro contributo alla causa della liberazione d’Italia (...) è stato soprattutto contributo di opere, di lavoro, di combattimento, di libertà perdute, di vite umane sacrificate, di sangue versato sul campo di battaglia: migliaia di anni di carcere, centinaia di morti, migliaia di uomini i quali hanno saputo cadere su terra italiana perché questa fosse libera di nuovo. Fra tutti i partiti antifascisti siamo il partito di coloro che per la libertà hanno saputo dare non solo le parole e i pensieri, ma il sangue e la vita» ... del proletariato!.

Eccoli i meriti rivendicati dal PCI: l’aver gettato, al pari del regime fascista, il proletariato, quale carne da cannone, per gli interessi del potere borghese nel tremendo mattatoio della seconda guerra mondiale!

Nelle tesi del partito del 1922 veniva proclamato che «nel momento in cui il potere dello Stato è scosso sulle sue basi, e sta per cadere, il partito comunista trovandosi nel pieno dello spiegamento delle sue forze e della agitazione delle masse intorno alla sua bandiera di massime conquiste, non si lascerà sfuggire la possibilità di influire sui momenti di equilibrio instabile della situazione approfittando di tutte le forze per un momento concomitanti colla direzione della sua indipendente azione»». La consegna del 1945 è invece totalmente opposta: Togliatti dirà che «dal momento di quella che fu chiamata la ’svolta di Napoli’ (...) si è evitato che si scatenasse una guerra civile (...) Siamo tutti uniti in un patto per l’eliminazione della violenza dalle competizioni dei partiti. Questo patto impone a tutti il disarmo, e noi per primi ci siamo impegnati e abbiamo lavorato per farlo realizzare da ogni formazione partigiana».

Il cuore di autentico italiano che batteva nel petto di Palmiro non poteva non soffrire per la disastrosa rovina dell’Italia, per la perdita del suo prestigio internazionale ed anche per la perdita dell’Impero: «Questa è oggi la situazione in cui si trova l’Italia (...) un paese che trenta anni or sono si era conquistato un posto fra le grandi potenze». Verso la fine del suo lungo rapporto il capo del PCI torna sull’argomento e ripete che «l’Italia, nel passato, era classificata tra le grandi potenze». Abbozza quindi una critica alle aspirazioni imperialistiche del fascismo che, anziché risolvere i problemi dell’Italia l’hanno portata alla rovina e conclude con queste parole: «Gli imperi che oggi esistono sono sorti in altre epoche, quando, e non per colpa del popolo italiano, l’Italia non era rappresentata nella gara e non poteva prendervi parte». Maledetto Risorgimento borghese, se al posto della mazziniana Giovine Italia ci fosse stato il togliattiano PCI, forse le aquile imperiali potrebbero ancora delimitare i confini della romana civiltà in Europa e nel mondo! Non a caso ’L’Unità’ clandestina del 28 febbraio 1943, accanto al titolo portava una manchette del seguente tenore: «Chi ha fatto perdere all’Italia l’impero, la guerra, la sua posizione di nazione rispettata e che non ha ancora trovato il coraggio di impiccarsi? Mussolini!».

Il ’partito nuovo’ dichiarava di avere tutte le carte in regola per assumere compiti di governo, anzi rivendicava di essere il solo a poter assolvere in maniera conseguente il passaggio dal defunto regime fascista alla rinata democrazia e, a questo scopo, metteva da parte il suo atteggiamento mite per assumere di nuovo toni quasi rivoluzionari accusando tutta la classe politica italiana di essere stata complice del fascismo, corresponsabile del suo avvento e solidale con il regime almeno fintanto che si limitava a svolgere una politica esclusivamente di schiacciamento delle forze proletarie e rivoluzionarie. Così il rinnegato Togliatti sparava a zero affermando che «Il fascismo non è sorto in contrasto con la vecchia Italia, ma in connivenza con essa e con l’aiuto di quelle che erano le sue forze dirigenti. Questo spiega l’unità di tutti i gruppi possidenti e dirigenti attorno alle squadre d’azione, distruttrici delle libertà prima della marcia su Roma; questo spiega l’unità dei gruppi reazionari attorno al fascismo al tempo della marcia su Roma; questo spiega il fallimento dell’Aventino; questo spiega l’unità di forze borghesi e anche di intellettuali, che ancora si realizza dopo il 1927, dopo il 1931, dopo il 1935, quando Mussolini si getta sulla via delle avventure imperialistiche che dovevano portarci alla disfatta militare ed alla catastrofe».

Avvedutamente Togliatti si dimentica di rammentare l’entusiastica adesione anche del suo partito, e sua personale, al progetto imperialista del fascismo quando all’indomani della conquista etiopica lanciarono il famigerato appello di solidarietà nazionale e di riconciliazione con il fascismo sottoscrivendo in pieno il programma di Sansepolcro. In un’altra parte del suo rapporto Togliatti sembra rincarare la dose ed afferma: «Prima del 3 gennaio 1925 la collaborazione con il fascismo e l’appoggio al regime fascista non sarebbero state cose riprovevoli. Dopo il 3 gennaio 1925 sì (...) Se è stata fissata questa data è perché altrimenti non vi sarebbe più stata possibilità di discriminare nessuno dei vecchi uomini politici italiani, perché alla criminale offensiva antidemocratica del fascismo tutti dettero la loro adesione, quando credevano fosse diretta solo contro gli operai. La vera pietra di paragone, per distinguere i veri democratici, dovrebbe essere l’atteggiamento che tennero nel 1919, nel 1920, nel 1921, nel 1922, quando il fascismo nacque, quando il fascismo si affermò, quando il fascismo compì quella che fu la parte essenziale della sua opera di distruzione, la distruzione delle organizzazioni democratiche degli operai, dei braccianti, dei lavoratori. Di lì partì la rovina d’Italia e non dal 3 gennaio».

Togliatti, attraverso queste dure accuse alla borghesia italiana vuole presentare la classe operaia ed il partito comunista come i soli difensori della democrazia e degli interessi nazionali, ma, indirettamente, suo malgrado è costretto ad ammettere che quei capitalisti, agrari, uomini politici ed intellettuali con i quali collabora nel governo post-fascista e molti dei quali ha assorbito all’interno delle sue file, altri non sono che ex fascisti o fiancheggiatori del fascismo e che hanno cessato di essere fascisti o fiancheggiatori solo quando un altro regime ed un altro partito si sono assunti il compito di mantenere il dominio capitalista e l’assoggettamento del proletariato.
 

Filomoscovismo nazional-borghese

Passando poi ai rapporti internazionali Togliatti auspicava una politica di stretta amicizia con l’Unione Sovietica, non per motivazioni ideologiche ma per convenienze puramente nazionali. «In genere – dice Togliatti – le ideologie non vengono prese in considerazione quando si tratta di politica estera». Il Padre della Patria aveva ben presente il ricordo non remoto della alleanza tra la casa madre, l’URSS, e la Germania nazista, ed i vantaggi che alla Russia, non certo al suo proletariato, ne erano derivati.

Ma, oltre a motivi di pragmatismo politico, Togliatti, ricorda i doveri di riconoscenza ed il debito morale che il popolo italiano aveva nei confronti della Russia... zarista. Il capo del nazional-comunismo spiegava: «Nell’800, quando si è costituita l’unità d’Italia, fra tutte le nazioni europee, ve ne è stata una che dal Congresso di Vienna fino al 1860/61, pur essendo lontana da noi, ha però sempre fatto una politica che tendeva a favorire la formazione di uno Stato unitario indipendente italiano. Questa potenza è stata la Russia. La politica russa è stata, in questo campo (...) molto più conseguente che la politica dell’Inghilterra e della Francia. Questa politica si è sviluppata dai consigli che lo Zar Alessandro inviava a Vittorio Emanuele I (...) fino alla nota di Gorcakov, che tolse all’Austria ogni speranza di potersi opporre alla annessione al Regno Sardo dell’Italia centrale (...) mobilitando (...) le proprie divisioni alla frontiera austriaca».

Ci immaginiamo che al sentire queste cose sguardi increduli ed interrogativi si siano incrociati anche tra i più fidati compagni ai quali, Togliatti, si sentì in dovere di fare questa comica precisazione: «Mi si dirà che questi fatti sono ignorati dai nostri storici, ma la cosa non mi stupisce, perché la nostra ’storia’ ufficiale è piena di falsificazioni». E, se lo dice lui, che di falsificazioni ufficiali se ne intendeva, possiamo esserne certi!

Continuando nella sua apologia degli interessi nazionali, arrivava alla questione dei sacri confini della patria e si dichiarava solidale con tutti coloro che lottano per evitare che «terre italiane ci vengano tolte». Già nel corso della guerra Togliatti aveva incitato il proletariato italiano a combattere contro l’esercito tedesco in ritirata per poter portare al tavolo della pace il contributo di sangue versato dai lavoratori italiani ed ottenere dai vincitori più miti condizioni. Ed ora, nel corso del congresso, lo ribadisce: «Ai nostri compagni e fratelli d’arme degli altri paesi d’Europa abbiamo il dovere, come comunisti, di dire che quando abbiamo preso le armi contro l’invasore tedesco e contro i traditori fascisti abbiamo combattuto anche per le nostre frontiere». Poi, con un impeto di sciovinismo degno della peggiore scuola reazionaria, aggiunge: «Particolarmente grave fra tutte le altre è da considerare ogni richiesta di modificazione delle frontiere settentrionali. Si tratta qui, infatti, dei rapporti del popolo italiano con il germanesimo al quale dobbiamo sbarrare la porta (...) Per quanto riguarda le frontiere orientali (...) noi abbiamo sempre affermato l’italianità di Trieste (anche se) gli operai di Trieste hanno in maggioranza assunto un atteggiamento favorevole all’annessione della città allo stato federale jugoslavo».

Togliatti non si scandalizzava più di tanto per il fatto che il suo collega Tito volesse impadronirsi della città e candidamente spiegava che «non è eccessivamente grave il fatto che un contrasto esista tra il nostro partito ed il partito comunista jugoslavo poiché entrambi vogliono fare una politica nazionale».

Da buon patriota Togliatti non poteva tralasciare di accennare ai rapporti tra Stato e Chiesa, affermando di accettare totalmente la soluzione fascista sancita negli accordi del Laterano e nel Concordato. Con la stessa disinvoltura con cui risolveva i rapporti tra Stato e Chiesa Togliatti risolveva anche il problema dell’ingresso nel partito da parte di coloro che professavano un credo religioso: «Nello statuto del partito si deve dire chiaramente che possono entrare nel partito i cittadini italiani di ambo i sessi che abbiano raggiunto una determinata età, indipendentemente dalla razza, dalla convinzione religiosa e dalle convinzioni filosofiche».

Sia nel rapporto di Togliatti sia nella risoluzione approvata dal congresso sarebbe fatica inutile cercare un riferimento alla classe operaia, ai suoi interessi, alle sue rivendicazioni, alle sue lotte, alle sue organizzazioni economiche e politiche. Non ora, nel 1997 dal vanesio D’Alema, ma nel 1945 da Ercole Ercoli era stato sancito che la classe operaia, il proletariato, non esistessero più: tutto doveva essere popolo, tutto doveva essere interesse nazionale. Tutto era, ed è, ... fascismo.

Se vogliamo, un accenno indiretto alle condizioni del proletariato ed alla politica del PCI nei confronti del proletariato lo troviamo quando Togliatti parla del rinnovamento economico del paese. Durante questo passaggio lancia un duro attacco alla politica autarchica ed ai «gruppi reazionari dirigenti le classi industriali e agrarie italiane» i quali si sarebbero macchiati di una colpa atroce (ed effettivamente, dal punto di vista capitalistico, si tratta di colpa atroce) e cioè di avere creato una situazione in cui molto bassa era la produttività del lavoro e molto alto il costo di produzione. Cosicché, di fronte ad un tale insensato sciupio Togliatti esclamava: «La nostra politica economica deve essere arrovesciata. Dobbiamo tendere a riorganizzare gradualmente la produzione nazionale sulla base di bassi costi di produzione, di una alta produttività di lavoro e di alti salari».

Per quanto riguarda le prime due conquiste, cioè i bassi costi di produzione e l’alta produttività, i lavoratori le conseguirono immediatamente; per gli alti salari dovettero aspettare, ed ancora aspettano. Ma, si sa, non si può avere tutto e subito!
 

La Conferenza di Torino 1946

A differenza del congresso picciista di Roma la conferenza di Torino della nostra organizzazione non ebbe la pretesa di emanare deliberati che impegnassero il partito attorno ad una serie di obiettivi da realizzare, ma si pose lo scopo di dargli un orientamento teorico-politico. Sarebbe stato sciocco illudersi di rappresentare un fattore di effettivo intervento nell’evolversi delle situazioni e delle condizioni materiali e sociali.

La situazione del 1945, sia sul piano nazionale sia su quello internazionale, poteva essere così descritta: dopo 25 anni di fascismo continuava a persistere un ordinamento sociale e statale che, sotto l’etichetta antifascista, rappresentava la continuità con i caratteri essenziali del fascismo e, in un certo senso, li esasperava. «Il reggimento dello Stato imperialista non può essere che obiettivamente fascista, anche se si ricopre dei manti della democrazia formale». Era falso, affermava uno dei relatori, «che l’elemento capitale della storia contemporanea sia rappresentato dal fascismo, il quale resta una delle forme di dominio del regime capitalista: l’elemento capitale è rappresentato dalla guerra in cui hanno confluito in modo solidale la democrazia, il fascismo e lo Stato russo degenerato. Questa posizione cardine ci ha salvato dall’errore di cercare l’elemento antitetico del fascismo nella democrazia. Noi non siamo degli ’antifascisti’, ma dei proletari che combattono il capitalismo in tutte le sue manifestazioni sociali».

Basti pensare che all’indomani della guerra il capitalismo era riuscito a creare un apparato repressivo internazionale che teneva il proletariato sotto una cappa di piombo e la Russia rappresentava la massima espressione di questa internazionale della controrivoluzione. In Italia, i CLN ed i partiti nazional-comunista e socialista erano riusciti a frenare ed imbrigliare qualsiasi processo rivoluzionario in modo che non sorgessero movimenti generalizzati di classe con possibilità di attacco diretto alle basi della società borghese. La caratteristica essenziale che distingueva il secondo dopoguerra dal primo era che, a differenza degli anni 1918/20, nel 1945 l’atmosfera politica era dominata dall’onnipotenza del programma politico che allora era stato di Mussolini. Nel 1945 dominava incontrastata l’ideologia dei CLN e del movimento partigiano e per ciò stesso non potevano esistere le condizioni per l’affermazione vittoriosa della classe proletaria.

Abbiamo appena visto come il V congresso del PCI rappresentasse un giuramento di fedeltà al potere, alla classe ed alle istituzioni capitalistiche. Di conseguenza la fase storica che si apriva con la fine della guerra non poteva che essere qualificata come reazionaria. A livello internazionale la situazione poteva essere addirittura peggiore se si pensa che era caratterizzata dall’onnipotenza degli Stati Uniti democratici i quali, assieme alla Russia sovietica e all’Inghilterra laburista, dimostravano nella maniera più chiara e manifesta come il capitalismo, quale era uscito vittorioso dalla seconda carneficina imperialista, rappresentasse di fatto la negazione totale di quella ideologia democratica e liberale che il capitalismo aveva sventolato per dar vita al movimento partigiano.

Nonostante questa realtà il partito era riuscito ad essere presente e a far sentire la sua voce all’interno della classe operaia, tra i contadini e nelle agitazioni proletarie, affermando l’assoluta indipendenza delle proprie posizioni politiche da tutti gli altri partiti che operavano in campo proletario. Vi era d’altra parte l’amara presa d’atto che all’infuori della nostra scuola nessun movimento politico era stato in grado di porsi su di un percorso rivoluzionario di classe. In questa situazione generale il partito sentiva la necessità non tanto di estendere la sua base di influenza, di lanciare campagne di adesione; al contrario sentiva la necessità di dedicarsi ad un rafforzamento teorico per mantenere ben salde le sue differenziazioni politiche ed ideologiche da quelle degli altri partiti ’operai’.
 

Ben impostata la difficile Questione Sindacale

Uno degli argomenti più dibattuti in sede di conferenza fu quello sindacale. I sindacati del secondo dopoguerra si erano ricostituiti con gli stessi criteri, e spesso, con le stesse persone fisiche dei sindacati fascisti: gli organi sindacali nacquero come emanazione dello Stato, da esso dipendenti e ad esso legati a doppio filo. Il nodo da sciogliere era quindi quello di sapere se il sindacato, da emanazione dello Stato, sarebbe potuto tornare alla sua funzione originaria e, nel caso la risposta fosse stata negativa quale alternativa poteva essere percorsa dalle masse lavoratrici per la difesa dei loro interessi immediati.

Nella premessa delle tesi sindacali presentate al convegno nazionale si leggeva: «Esiste oggi un fatto controllabile da tutti, ed è che, nella fase monopolistica ed imperialistica del capitalismo, i partiti pseudo-proletari hanno potuto imprimere al sindacato operaio una trasformazione dei suoi principi costitutivi e della sua prassi, trasformazione che lo porta irrimediabilmente ad identificarsi con le esigenze della conservazione di classe del capitalismo e conseguentemente lo mette in aperta opposizione non solo con gli interessi finali del proletariato, ma anche con le sue minime rivendicazioni parziali». Di fronte a questa realtà le tesi presentate tentavano di dare una risposta sull’atteggiamento che il partito di classe avrebbe dovuto tenere nei confronti delle attuali organizzazioni sindacali non potendo più ’formalizzarsi’ nella posizione della conquista dall’interno della Confederazione Generale del Lavoro.

Si diceva nella prima tesi, «In questa situazione mancano le condizioni obiettive sia per un raddrizzamento del sindacato, sia per la conquista del sindacato alla politica del Partito Comunista Internazionalista. L’eventuale ritorno del sindacato alle sue basi di classe non può risultare che dal riflesso nel suo seno dell’imperversare della lotta di classe».

Nella eventualità che il proletariato, schifato dalla politica del sindacato ufficiale, si organizzasse in altri organismi, come ad esempio i consigli di fabbrica, per poter difendere le proprie rivendicazioni, la seconda tesi auspicava il superamento di questi ultimi, dall’ambito ristretto al particolarismo d’azienda, per allargarsi all’arena dello scontro di classe.

La terza tesi stabiliva che il problema non era tanto quello dell’organizzazione che il proletariato si sarebbe dato, ma dove si sarebbe verificata la concentrazione delle lotte di classe. «Il partito agirà in ogni contingenza per far confluire queste lotte verso la forma di organizzazione di massa data obiettivamente dalla situazione, puntando da una parte sui suoi gruppi di fabbrica e dall’altra sulle sue frazioni sindacali per mobilitare le masse sul terreno della lotta di classe».

Constatata l’impossibilità del capitalismo, se non per passeggere contingenze, di soddisfare le esigenze di vita e di lavoro del proletariato e di risolvere il problema di una giganteggiante disoccupazione, la quinta tesi da una parte metteva in evidenza l’impossibilità del capitalismo di evitare le agitazioni operaie conseguenti alla guerra, dall’altra il piano di spingere queste agitazioni in un vicolo cieco attraverso la collaborazione dei sindacati ufficiali. Il partito di classe si dava il compito di inquadrare «tutte le lotte parziali in un insieme di postulati di lotta comuni a tutte le categorie di lavoratori dei campi e delle officine diretti verso la mèta finale della conquista del potere politico» e, allo stesso tempo respingeva «tutte le proposte di ’controllo della produzione’ e di costituzione di ’consigli di gestione’ e tutte le iniziative che oscurino sia pur minimamente la visione netta dell’aspro ed inconciliabile urto di classe fra proletariato e borghesia».

La sesta tesi escludeva ogni possibilità di fronte unico con i partiti che si trovavano alla direzione della CGIL, mentre non veniva esclusa la possibilità «di un’azione convergente del Comitato Sindacale del Partito e di altre correnti sorte o nel campo sindacale o nel sindacato per riflesso delle inevitabili crisi dei partiti controrivoluzionari». In particolare modo il partito respingeva la partecipazione a «blocchi di ’sinistre sindacali’ sorte non dall’opposizione di classe del proletariato al capitalismo, ma unicamente all’opposizione alla burocrazia sindacale per sé presa».

La posizione assunta dalle tesi sindacali era chiara: il partito avrebbe dovuto lavorare a tutti i livelli, all’interno del sindacato e negli eventuali organismi che si fossero costituiti all’esterno in contrapposizione alla sua politica collaborazionistica. Era esclusa nel modo più assoluto la possibilità di una riconquista del sindacato alle posizioni di classe attraverso la pura contrapposizione democratica del punto di vista marxista a quello opportunista; non si escludeva invece che ciò avvenisse a seguito di uno scontro dovuto ad un forte riacutizzarsi della lotta di classe.

Le posizioni espresse in merito dai delegati nel corso della conferenza, anche se tutte quante improntate sul massimo sviluppo della lotta di classe e sul netto rifiuto di ogni forma di collaborazionismo, come prevedibile, non furono affatto omogenee. Degno di particolare interesse, tra i tanti, ci sembra il seguente intervento: «Non bisogna dimenticare che l’origine storica del sindacato è assai differente da quella dello Stato. L’apparato statale capitalista è costituito per assicurare la difesa degli interessi della classe borghese contro il proletariato: esso rappresenta il potere politico della società nelle mani della borghesia. Invece il sindacato nasce come una forma di organizzazione della classe operaia che le permette di difendersi sul terreno economico contro lo sfruttamento capitalista. Dal punto di vista storico, Stato capitalista e sindacato operaio sono stati due termini opposti dell’antagonismo capitale-lavoro. In dati periodi, in cui il rapporto di forze tra proletariato e borghesia è favorevole a quest’ultima, questa può riuscire, attraverso la burocrazia sindacale ad utilizzare il sindacato per scopi contrari alla sua funzione classista e soprattutto per bloccare lo sviluppo delle lotte operaie, anche se limitate ad obiettivi puramente economici; ma non si può parlare di alterazione della natura di classe del sindacato che quando vi è coesistenza di due classi in seno allo stesso organismo (per esempio il fronte del lavoro nazista, le corporazioni mussoliniane, ecc). Il fatto che la burocrazia sindacale rappresenti oggettivamente gli interessi della classe capitalista non cambia i dati del problema. L’esempio più significativo di quest’asserzione è dato dai Soviet in Russia. Nel febbraio del 1917 la direzione dei soviet è nelle mani dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari, i quali non solo fanno di tutto per frenare la lotta di classe, ma aiutano molto efficacemente la borghesia nei suoi tentativi di ricostruire l’apparato statale sconvolto dagli avvenimenti rivoluzionari. Non per questo i soviet sono divenuti parte di questo Stato, tanto è vero che, sette mesi dopo, sotto la direzione politica del partito bolscevico, i soviet rovesciando lo Stato capitalista, gli si sostituirono come organismi del potere proletario. È dunque chiaro che la funzione controrivoluzionaria attuale dei sindacati o di qualunque altra forma di organizzazione del proletariato non deriva da una sua presunta natura di classe capitalista (come gli altri organismi statali: parlamento, esercito, polizia, ecc.) ma soltanto dalla situazione politica generale che, malgrado fermenti di ripresa proletaria, rimane tutt’ora controrivoluzionaria e favorevole alla borghesia: il problema non consiste dunque nella forma di organizzazione del proletariato, ma nel rapporto di forze tra proletariato e borghesia in una certa situazione. Perciò la posizione dei compagni che preconizzano di sostituire l’organizzazione dei consigli di fabbrica ai sindacati esistenti non è giusta. Nella situazione attuale dei consigli di fabbrica in luogo dei sindacati farebbero esattamente la stessa politica».
 

La Questione Contadina

Alla fine della guerra erano scoppiate agitazioni di braccianti e mezzadri che interessarono soprattutto gli epicentri tradizionali di queste lotte: la Puglia, la Basilicata, la Sicilia, ecc. Queste agitazioni non ebbero né la portata né l’estensione di quelle che avevano caratterizzato il primo dopoguerra e, come anche le agitazioni operaie, non erano riuscite a fondersi in moti unitari a carattere nazionale. Rappresentavano però un sintomo del disagio del proletariato e del semiproletariato agricolo e delle condizioni in cui versava l’economia italiana dopo cinque anni di guerra con la disorganizzazione dei mercati e l’impoverimento di tutte le risorse produttive del paese.

Il partito non avrebbe potuto disinteressarsi della situazione del lavoro delle campagne e per il convegno nazionale furono elaborate delle tesi agrarie che portavano il titolo di Guerra, Dopoguerra e Classe Contadina. Le tesi era(no) suddivise in quattro capitoli e precisamente: 1) Economia contadina e Rivoluzione Proletaria; 2) La Classe Contadina e il Partito del Proletariato; 3) Lotte Rivendicative e inquadramento Sindacale dei Contadini; 4) Per la Costituzione di una Sezione Agraria del P.C.Int.

In sintesi le tesi possono essere così riassunte:

a) Mentre nella produzione industriale sono in atto le premesse fondamentali per il passaggio ad un regime di produzione socialista, queste premesse (esistenza di una forma di lavoro associato con alta divisione del lavoro; presenza di una attrezzatura tecnica corrispondente; presenza di un proletariato ampiamente diffuso che raccoglierà l’eredità del capitalismo) non si verificano nel campo agricolo se non nella grande azienda a tipo capitalista.

b) In corrispondenza con il carattere misto dell’economia agraria, il ceto agricolo non si presenta economicamente e politicamente come una entità omogenea (proletariato nella grandi aziende capitalistiche, semiproletariato dei piccoli affittuari e mezzadri; piccoli proprietari coltivatori diretti).

c) Ciò non significa che la rivoluzione proletaria debba trovare nel contadiname povero un ostacolo, al contrario, anche gli strati contadini poveri non proletari possono liberarsi dell’attuale stato di soggezione al regime della proprietà borghese o dalla soffocante pressione dello Stato capitalista solo attraverso la rottura violenta della attuali condizioni sociali.

d) Comunque l’iniziativa rivoluzionaria rimarrà nelle mani del proletariato industriale delle città, né si può prevedere una rivoluzione contadina che si muova nei quadri dell’attuale società capitalista o una vera e propria alleanza tra proletariato e contadini poveri. Al contrario si parla di appoggio di questa parte del contadiname in momenti di alta tensione sociale, mai nei momenti di normale vita politica.

e) È da considerare controrivoluzionaria la tesi che inserisce tra proletariato e borghesia, le due classi fondamentali della società moderna, una terza classe con proprie caratteristiche e con possibilità rivoluzionarie (ceti medi, contadini, od altro).

f) Il partito deve intervenire nelle lotte contadine puntando essenzialmente sui salariati agricoli ed avventizi e dando valido sostegno alle rivendicazioni dei ceti sfruttati dalla società e dallo Stato borghese, in attesa che la situazione comporti uno spostamento di questi ceti sul piano dell’appoggio diretto alla rivoluzione proletaria.

g) Sono assolutamente da escludersi blocchi con i partiti cosiddetti ’contadini’, né si devono promuovere agitazioni per ’la terra ai contadini’ o per ’la piccola proprietà o azienda al posto della grande’.

h) Il passaggio ad un regime di produzione socialista nell’agricoltura comporta la socializzazione immediata delle grandi aziende a tipo capitalista, il trapasso in gestione delle terre padronali ai semiproletari e piccoli proprietari poveri e il loro graduale inserimento nel quadro generale della produzione socialista.

Nel corso della discussione, per una serie di considerazioni che andavano dal fenomeno dell’imborghesimento di certi strati contadini (semiproletari e piccoli proprietari) per effetto della guerra (in effetti alcune categorie rurali, nel corso del conflitto, avevano potuto godere di una artificiale euforia, partecipare al banchetto speculativo del mercato nero, estinguere i debiti ipotecari e conseguire un certo arricchimento), all’arretratezza culturale del contadiname determinata dall’influenza della Chiesa, dalla superstizione, e dalla tradizionale cultura anti-progressista, sorsero perplessità circa la possibilità di una alleanza tra ’falce e martello’. Queste perplessità vennero confutate argomentando che il fenomeno dell’imborghesimento di alcuni ceti contadini non si era esteso ai proletari agricoli, né poteva essere generalizzato per tutte le plaghe rurali e che l’eliminazione dell’influenza clericale e dei tradizionali pregiudizi non sarebbe potuto avvenire che per effetto della stessa rivoluzione proletaria. Concludendo venne ribadita la necessità della creazione di una sezione agraria del partito per lo studio dei problemi agricoli sulla base delle più recenti esperienze economiche: fascismo, guerra.
 

Per un Partito internazionale

Nel corso della conferenza non vennero discusse le tesi sulla questione internazionale, già pubblicate in ’Battaglia Comunista’, (n.18, 28 novembre ’45) perché ritirate dallo stesso compagno redattore. Venne invece votato ed approvato all’unanimità l’ultimo capitolo delle tesi stesse riguardanti il Bureau International. L’o.d.g. recitava testualmente: «In una situazione mondiale caratterizzata dall’inesistenza attuale di movimenti rivoluzionari, il P.C.Internazionalista ritiene possibile la sola costituzione di un Ufficio Internazionale delle Frazioni. L’Ufficio avrà sede nel centro più adatto al suo lavoro, e stabilirà un suo regolamento in base alle norme della più salda organizzazione. Quest’Ufficio si assegnerà il compito di favorire la formazione del Partito di classe in tutti i paesi attraverso il procedimento politico frazionistico e di procedere all’elaborazione dei documenti politici richiesti dallo sviluppo della situazione internazionale. L’Ufficio s’interdice ogni rapporto non solo con tutte le organizzazioni che durante il conflitto mondiale hanno tenuto una posizione non internazionalista (trotzkista compresi), ma con tutte le formazioni o individualità che non avranno dimostrato di rompere con l’atteggiamento confuso assunto nel corso della guerra, attraverso una presa di posizione inequivocabilmente marxista e internazionalista, di fronte all’odierna situazione internazionale».

Come si vede, per quanto si riconoscesse che alla Sinistra italiana sarebbe spettato un ruolo di primo piano per la sua non interrotta coerenza con le posizioni teoriche e pratiche della migliore tradizione marxista rivoluzionaria, si sperava comunque ancora che all’interno dei partiti comunisti potesse svilupparsi una risposta classista che portasse alla formazione di frazioni genuinamente rivoluzionarie. Questo non si verificò perché la guerra aveva costituito uno spartiacque definitivo tra coloro che stavano sul campo della rivoluzione proletaria e quelli che erano passati sul terreno della difesa dell’ordine borghese.

* * *

All’inizio di questo rapporto abbiamo insistito sul fatto che il partito, già nel 1945, possedeva un corpo dottrinale saldo e compiuto; una base teorica che il partito odierno rivendica totalmente. Ad ogni modo la conferenza nazionale mise in evidenza anche molti aspetti deboli dell’organizzazione formale. Queste debolezze risaltarono un po’ ovunque e su tutte le questioni trattate, nelle quali non venne mai riscontrata una unicità di vedute e dove emersero incomprensioni non sempre marginali, specialmente sulla funzione e sul ruolo del partito, sulla sua organizzazione (il concetto di centralismo organico faceva torcere il naso a molti compagni) e sulla possibilità, ancora nel 1945, dell’uso del parlamentarismo rivoluzionario.

Nonostante ciò, il Partito Comunista Internazionalista del 1945, anche con le sue insufficienze, con le sue debolezze e perfino con i suoi difetti rappresenta l’unica risposta marxista rivoluzionaria alla imperante e totale controrivoluzione. La controrivoluzione, a scala internazionale, aveva sconfitto quell’ondata rivoluzionaria che, nel primo dopoguerra, era riuscita a sconvolgere il mondo; la controrivoluzione aveva spezzato l’Internazionale comunista e le sue sezioni nazionali tramutandole da fattore rivoluzionario e distruttivo del modo di produzione capitalista nel suo più valido sostegno; la controrivoluzione, in nome della democrazia e del socialismo, aveva portato il proletariato a scannarsi sui fronti della guerra imperialista; la controrivoluzione, però, non era riuscita a far tacere la voce della Sinistra comunista italiana. E questo è più che sufficiente perché noi possiamo esprimere una valutazione totalmente positiva del partito del 1945.
 

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Dall’Archivio della Sinistra
 

Il proletariato italiano, nel secondo dopoguerra portava ancora impressi, nel proprio cuore e nella propria coscienza sentimenti di classe e, malgrado lo stalinismo fosse riuscito ad imporre il suo predominio dittatoriale sui lavoratori, tuttavia il partito poteva ancora diffondere la parola del marxismo rivoluzionario nella certezza che sarebbe stata ascoltata e quindi non sarebbe caduta del tutto nel vuoto. Ogni proletario riconosceva istintivamente nel borghese, nel prete, nel rappresentante democratico un nemico della sua classe, sempre pronto a passare la mano al fascismo non appena i suoi interessi fossero minacciati, e sapeva che da questi nemici non si sarebbe potuto liberare se, con la violenta azione rivoluzionaria, non avesse abbattuto il dominio capitalista ed instaurato la propria dittatura.

Lo stesso partito di Togliatti, per quanto gli fosse consentito dai padroni borghesi, di tanto in tanto era costretto a fare la voce grossa per lasciare intendere ai lavoratori che la politica di collaborazione nazionale era soltanto una finzione per non allarmare la borghesia e potersi meglio predisporre all’assalto rivoluzionario quando le condizioni fossero state mature. Agli operai si sussurrava della tattica dei due cassetti: in uno c’era il programma di collaborazione nazional-democratica; ma nell’altro c’era sempre quello rivoluzionario che sarebbe stato tirato fuori al momento opportuno. Questo perché, affermavano i dirigenti stalinisti, secondo gli insegnamenti della tattica spacciata per ’leninista’, bisognava sfruttare le contraddizioni della borghesia per poter sconfiggere i nemici uno alla volta: prima il fascismo, poi la monarchia, i capitalisti ’retrivi’... Salendo su su per questa Scala Santa finché un bel giorno ci si sarebbe trovati nel pieno del socialismo senza nemmeno accorgersene.

Non erano pochi però i proletari che avevano sempre respinto la politica di collaborazione borghese rivendicando con orgoglio la loro appartenenza a quella classe sociale che dalla rovina del capitalismo non ha niente da perdere e un mondo intero da guadagnare. E non erano pochi nemmeno i proletari che, all’indomani della sconfitta nazi-fascista, di fronte alla prova dei fatti, si accorsero quale fosse la reale politica di Mosca, del PCI e di tutti gli altri partiti ’comunisti’ nazionali e, nel vivo delle lotte di classe, si accostavano al partito della Sinistra comunista.

La Sinistra comunista italiana, ricostituita la sua rete organizzativa a scala nazionale, dopo due decenni di silenzio impostole dalla forza del fascismo e dello stalinismo, si ripresentava nuovamente alla classe lavoratrice italiana con la propria tradizione e con il proprio programma di sempre. Quello di Livorno, con le integrazioni tratte dalle tragiche esperienze della controrivoluzione staliniana.

Il Partito, quindi, all’indomani della sua prima Conferenza Nazionale, dalle colonne di ’Battaglia Comunista’ (n.1, 1946) lanciava ai lavoratori italiani il documento programmatico che di seguito riproduciamo. Questo non ha bisogno di una presentazione particolare, perché, come abbiamo detto, ripropone il partito nella sua invarianza, della tradizione, dell’analisi dei fenomeni politici, sociali ed economici ed invarianza del programma. In particolare, dopo avere rivendicato la sua continuità con Livorno 1921 e con la migliore tradizione del comunismo rivoluzionario, il documento denunciava il tradimento del PCI portato alle sue estreme conseguenze. Compì una lucida analisi del movimento fascista che non solo non è in antitesi con la democrazia, ma dalla stessa democrazia generato. Viene infatti ricordato come il fascismo fosse, nel 1914, nato come movimento democratico e come proprio l’antifascismo postbellico si sarebbe fatto il nuovo portatore del programma mussoliniano. In questo dopoguerra quel programma fascista è stato attuato in tutto il mondo dalle democrazie postfasciste, compresi militarismo e riarmo che, in mancanza di una ripresa rivoluzionaria a scala mondiale, farà domani di nuovo precipitare l’umanità in una più cruenta terza guerra imperialista.
 
 
 


Da ’Battaglia Comunista’, n.1, 1946
DOPO IL CONVEGNO DI TORINO:
IL PARTITO AI LAVORATORI ITALIANI

Compagni proletari italiani!

Venticinque anni dopo che, sotto l’impulso e la direzione della sinistra italiana, fu fondato a Livorno, nel gennaio 1921, il Partito Comunista d’Italia – erede specifico delle tradizioni rivoluzionarie precedentemente affermatesi nel Partito Socialista Italiano – si è tenuto a Torino, sotto la guida della stessa Sinistra italiana, il Primo Convegno del Partito Comunista Internazionalista.

Nei medesimi giorni si teneva a Roma il V Congresso di quel Partito Comunista Italiano, che ha definitivamente consumato la rottura cogli interessi della vostra classe, col vostro patrimonio ideologico e di lotta, con tutta la storia delle vostre battaglie rivoluzionarie, con la memoria di tutti i vostri caduti nell’epica lotta contro il regime capitalista.

Due date ed una crudele biforcazione: Livorno, gennaio 1921-Torino, gennaio 1946; Livorno, gennaio 1921-Roma, gennaio 1946. Due corsi storici in brutale antitesi, l’uno diretto verso il vostro trionfo rivoluzionario, l’altro verso il vostro massacro nella guerra. Due classi antagoniste che si contendono in un duello spietato i due tipi di organizzazione della società che la storia pone all’ordine del giorno: la dittatura della classe capitalista, evolvente in modo ineluttabile verso la guerra imperialista mondiale, la dittatura della classe proletaria dirigentesi verso la vittoria della società socialista mondiale.

Il Primo Convegno del Partito Comunista Internazionalista ha affermato – sotto la direzione della stessa Sinistra italiana che fondò il Partito Comunista d’Italia – una ferrea coesione programmatica, una solida continuità politica, una ribadita volontà di proseguire la lotta per la distruzione della società borghese e del suo Stato, per l’instaurazione della dittatura rivoluzionaria del proletariato. Per contro, la corrente che, alle assise del Partito Comunista d’Italia nel 1921, non osò nemmeno differenziarsi dalla Sinistra italiana, dopo aver progressivamente affermato il suo controllo sulle file del movimento rivoluzionario attraverso lo stesso corso storico che doveva conoscere il trionfo dell’opportunismo in seno allo Stato sovietico e all’Internazionale Comunista, quella stessa corrente ha celebrato a Roma, in questi giorni, un saturnale controrivoluzionario che rappresenta, nei confronti dell’iniziale programma del Partito Comunista d’Italia la stessa rottura che esiste fra le classi fondamentali della società attuale.

Questi ultimi decenni di lotte costituiscono il capitolo più crudele, ma anche più ricco d’insegnamenti della storia del proletariato italiano ed internazionale. Essi contengono il glorioso episodio della vittoria rivoluzionaria del proletariato russo e la fondazione del Partito Comunista d’Italia. Essi contengono altresì le sanguinose sconfitte in Italia e in tutti i paesi del mondo in cui il proletariato si era gettato nella lotta per liberarsi dalle catene della schiavitù capitalista, ma non ha conseguito il trionfo a causa delle crescenti deviazioni ideologiche ed organizzative apparse nella politica dell’Internazionale. La tragica conclusione di tutte queste sconfitte in campo aperto doveva consistere nel trionfo nel seno stesso dell’Internazionale Comunista, di quella teoria che – rompendo nel 1927 col cardine internazionalista della lotta proletaria attraverso l’affermazione egemonica della teoria nazionalista del ’socialismo in un solo paese’ – doveva ineluttabilmente sboccare nel secondo massacro imperialista.
 

Compagni Lavoratori!

La società capitalista è sempre stata, è, e sarà la società che, fondata sulla legge del profitto, la cui base è unicamente costituita dal vostro sfruttamento, evolve nel senso di perfezionare l’impalcatura statale per far corrispondere al dominio economico e politico sulla vostra classe l’incessante progresso delle forze della tecnica della produzione. Una catena inesorabile unisce la fabbrica dove siete sfruttati, la prigione fascista, democratica o sovietica dove il vostro militante è imprigionato o ghigliottinato, e il campo militare di battaglia, dove l’insieme della vostra classe è massacrato in nome dell’una o dell’altra delle ideologie borghesi: la fascista, la democratica, la sovietica.

La fondazione dell’Internazionale Comunista proclamò di fronte agli sfruttati del mondo intero la sintesi della lotta rivoluzionaria dello Stato proletario russo con la battaglia di tutti i partiti comunisti per l’abbattimento del potere borghese. La Sinistra italiana che, con la fondazione del Partito Comunista d’Italia, si era affermata sullo stesso corso di avvenimenti storici e politici che aveva fatto di Lenin la guida della battaglia rivoluzionaria dell’Ottobre 1917, preconizzò fin dal principio della vita dell’Internazionale quella soluzione dei problemi della tattica e dell’organizzazione che – in corrispondenza con la necessità della lotta rivoluzionaria nei paesi a capitalismo altamente sviluppato – fosse in grado di assicurare la stessa autonomia di direzione politica che aveva condotto il proletariato russo alla sua vittoria. Sin dal 1920, la Sinistra italiana, partendo dalla considerazione fondamentale che l’antitesi democrazia/fascismo si muoveva non nella direzione dell’avanzare delle lotte proletarie, ma nell’opposta direzione del mantenimento del regime capitalista, illuminava con una profonda analisi marxista l’evoluzione della III Internazionale. E tuttavia questa, dopo aver consacrato nel 1927 la rottura dello Stato russo coi principi internazionalisti, doveva infine offrire al capitalismo internazionale la bandiera ideologica per consacrare e santificare nel nome della lotta contro la plutocrazia da una parte, nel nome della lotta per la democrazia dall’altra, il macello dei proletari di tutti i paesi.

Dopo il 1927, un corso inesorabile di eventi storici internazionali doveva associare lo Stato proletario degenerato, il quale ricostituiva, attraverso lo stakhanovismo, il regime dello sfruttamento dei lavoratori nel nome del ’socialismo in un solo paese’, al solidale confluire del capitalismo sotto veste fascista o democratica nel far precipitare il mondo intero verso il massacro imperialista. In realtà, in un’epoca in cui lo sfrenato sviluppo delle forze di produzione impone una produzione gigantesca, mentre il crescente sfruttamento dei lavoratori restringe di tanto più le possibilità reali del consumo, la forma permanente di vita della società borghese è data da una produzione volta alla guerra mentre tutto lo sviluppo politico che ne consegue non può essere che impostato sul vostro massacro nei campi di battaglia.

In questa situazione, la Sinistra italiana conobbe nel seno dell’Internazionale la stessa sorte che fu imposta dagli avvenimenti alla sinistra nel seno della Seconda Internazionale socialista. Essa non trovò – nella maturazione degli avvenimenti storici – le condizioni per salvare al proletariato i partiti comunisti ch’essa aveva fondato per la vittoria rivoluzionaria. E, come la sinistra nel seno dei partiti Socialisti non poté evitare la loro caduta nella prima guerra imperialista del 1914/18, così la Sinistra italiana non poté evitare che il corso opportunista affermatosi nel 1927 giungesse al suo logico e crudele sviluppo nella seconda guerra mondiale.

La Sinistra italiana proclama che un ferreo concatenamento di programmi esiste fra Lenin, capo della rivoluzione russa e fondatore dell’Internazionale comunista, ed il conseguente sviluppo teorico che affonda la sua indagine nel corso di degenerazione nazionalista dello Stato russo per proiettare chiarezza e luce sull’attuale evoluzione del regime capitalista. Essa proclama che, fra lo Stalin del 1927/45 e le forze sociali russe ed internazionali, che nello Stato russo degenerato hanno trovato il loro strumento, da una parte, e il partito bolscevico del 1918 e il Partito Comunista d’Italia del 1921, dall’altra, esiste una violenta antitesi, la stessa che separa ed oppone la classe capitalista, decisa a perpetuare il regno della schiavitù e della guerra, e la classe proletaria che può salvarsi dall’annientamento solo sulla via del trionfo della rivoluzione socialista.

Il capitalismo non può vincere il proletariato aprendo nuovi orizzonti alla sua società; non può vincerlo che corrompendo e distruggendo il partito di classe. Lo strumento essenziale per far precipitare gli avvenimenti nella guerra mondiale è stato perciò rappresentato non dalla democrazia parlamentare o dal fascismo, ma dallo Stato sovietico e dall’Internazionale Comunista degenerati, che, annientando il partito comunista in tutti i paesi, doveva determinare il trionfo del capitalismo nella triplice espressione del suo dominio.

La Sinistra italiana, attraverso il Primo Convegno del Partito Comunista Internazionalista, pone la candidatura alla costruzione del partito di classe del mondo intiero, e questa candidatura poggia sul caposaldo programmatico che, nella fase in cui la storia ha definitivamente relegato nel museo del passato tutte le forme liquidate del liberalismo economico e politico, la lotta proletaria non può essere impostata sull’impossibile resurrezione delle vecchie forme del dominio borghese, ma unicamente sulla distruzione di questo regime.
 

Compagni proletari italiani!

La legge della storia impone al corso delle rivoluzioni di affermarsi non dove esistono le condizioni tecniche più favorevoli al loro trionfo, ma dove eventi storici indeboliscono il fronte di resistenza borghese, e maturano la più alta tensione dei contrasti sociali. Nel 1917 la rivoluzione trionfò nella Russia zarista, non nei paesi caratterizzati dal più alto sviluppo dell’economia capitalista. Nel 1919/21, in risposta alla guerra imperialista, possenti movimenti rivoluzionari sconvolsero l’Italia. Il riformismo paventò allora la rivoluzione col pretesto che, mancando il grano, dovevasi evitare che i grandi Stati imperialisti ci privassero dell’indispensabile. La rivoluzione non venne, ed abbiamo avuto venticinque anni di fascismo, mentre i grandi Stati imperialisti ci hanno dato il solo grano che la storia imponga al capitalismo di dare ai proletari che non acquistano la capacità politica di condurre a termine la loro battaglia rivoluzionaria: bombe, mitraglia, piombo, distruzioni, annientamenti. Ecco quale doveva essere il capitolo conclusivo del fascismo, capitolo cui hanno solidamente concorso il fascismo di Mussolini, il nazismo di Hitler, le democrazie parlamentari di Churchill-Attlee e di Roosevelt-Truman, lo Stato-padrone di Stalin.

Il corso degli eventi mondiali che aveva conosciuto il solidale confluire della democrazia, del fascismo e dello Stato russo degenerato verso il macello della guerra doveva altresì conoscere, in questo fosco dopoguerra il dominio egemonico dell’Inghilterra laburista, dell’America democratica, della Russia sovietica. Questo dominio egemonico si svolge sul piano dell’annientamento militare del fascismo e, mentre orienta il mondo intero verso un adattamento dell’impalcatura statale rispondente alle esigenze dell’imperialismo monopolista, si dirige con spietata decisione verso lo schiantamento dei movimenti e dell’organizzazione autonoma del proletariato, e perciò stesso verso l’inevitabilità di un nuovo conflitto imperialista mondiale.

Nell’ottobre 1914 Mussolini dava vita al ’Popolo d’Italia’ e, rompendo col programma internazionalista delle lotte proletarie, affermava la solidarietà della classe lavoratrice con la classe capitalista sul fronte della difesa delle democrazie sui campi di battaglia. Da questa posizione fondamentale sono sgorgate inesorabilmente le squadre dei pugnalatori dei militanti proletari, dei distruttori delle vostre istituzioni di classe, delle vostre leghe, delle vostre Camere del Lavoro, del vostro partito di classe.

I fascisti del 1919/21 trovarono nello Stato democratico di Nitti, Bonomi, Giolitti, lo strumento che doveva assicurarne il trionfo, ma essi furono additati al disprezzo di tutti i lavoratori italiani. Questa fu la caratteristica delle situazioni succedute alla guerra del 1914/18, quando le possenti manifestazioni proletarie contro il regime capitalista si associavano all’odio contro la guerra e contro tutti coloro che non potevano salvarsi dall’accusa d’interventismo.

L’attuale dopoguerra è dominato dal fatto opposto, che tutti i partiti, dal monarchico al repubblicano, dal liberale al socialista ed al comunista, vantano il loro intervento nella seconda guerra imperialista, mentre è posto all’indice il Partito Comunista Internazionalista, il solo che, avendo determinato una soluzione marxista ai problemi che accompagnarono il sorgere e il trionfo dell’opportunismo nel seno dell’Internazionale Comunista, abbia potuto assumere una posizione di classe sia nella guerra di Spagna, sia nel conflitto mondiale del 1939/45.

Così sotto la bandiera dell’antifascismo trionfa oggi in modo incontestato il fascista Mussolini del 1914 e del 1919. La stessa Confederazione Generale del lavoro è in violenta opposizione coi principi di lotta che sono alla base dei vostri tradizionali istituti di classe, ed è invece il corrispettivo preciso dei sindacati a base di collaborazione che Mussolini sostenne nel 1919 e che poté imporre solo dopo aver smantellato, con la violenza appoggiata dallo Stato democratico, tutte le vostre istituzioni, basate sull’opposto principio della lotta di classe.

Gli impostori politici che si mascherano sotto il nome di socialisti e comunisti fanno quello che l’evoluzione attuale del capitalismo impone a tutti i suoi servi: all’etichetta unica del fascismo sono sostituite molteplici etichette, ma il regime borghese resta immutato, giacché esso è immutabile, e la sola possibilità di cambiarlo sta nella sua distruzione, nel trionfo della rivoluzione proletaria.

L’èra che si è aperta e che la guerra del 1939/45 illustra con milioni di cadaveri è caratterizzata dal fatto che l’imperio assoluto delle forme capitalistiche del monopolismo è incompatibile con la reale affermazione degli istituti di classe del proletariato: i sindacati ed il Partito Comunista Internazionalista. Oggi non esiste più una lotta tra destra e sinistra borghese, una lotta tra destra e sinistra nel seno dei differenti partiti, ma una confluenza di destra e sinistra verso un organamento politico e statale che assicuri il trionfo egemonico dell’imperialismo monopolista e che in questo organamento inquadra la Confederazione Generale del Lavoro la quale – sul piano del rispetto delle leggi statali del lavoro e dell’annientamento degli impulsi di lotta del proletariato – assume una chiara funzione di difesa della classe capitalista.
 

Compagni lavoratori!

L’evoluzione della società capitalista nella sua fase agonica vi obbliga a porre all’ordine del giorno della storia il trionfo della rivoluzione mondiale. Se, malauguratamente, questa prospettiva dovesse fallire, la sola che sarà imposta dagli avvenimenti è quella della terza guerra mondiale, che farà impallidire i massacri di quella appena conclusa. Il Partito Comunista Internazionalista si erge contro la costellazione dei partiti che infestano ogni vostro campo e che vi chiamano non soltanto a ripartire tra di voi il peso delle distruzioni operate dal conflitto, ma a ricostruire la società capitalista, a ricostruire una società destinata ineluttabilmente a ripiombarvi nelle distruzioni di una nuova guerra.

Il Partito Comunista Internazionalista afferma il carattere mondiale dei fenomeni che sono sboccati nella seconda guerra mondiale e che agitano il mondo capitalista attuale.

La borghesia non ha di fronte a sé i reparti nazionali del proletariato, ma la classe lavoratrice di tutto il mondo. Lottare per ridare ai sindacati la loro funzione di classe significa incorporarsi nell’alveo del proletariato rivoluzionario di tutti i paesi.

Il Partito Comunista Internazionalista ha, al suo primo convegno, impostato i suoi lavori in stretto collegamento coi primi delegati esteri ad esso associati nel duro compito di ricostruire il Partito di classe internazionale ed internazionalista del proletariato.

Il Partito Comunista Internazionalista prosegue ininterrotta la sua lotta contro la guerra e per il socialismo. Esso riprende la bandiera di Marx e di Lenin, e, armato della teoria di ferro che la Sinistra italiana ha forgiato sotto l’insegnamento dei maestri del socialismo, di fronte ad una situazione storica che nel mondo intero è imperniata sull’alternativa rivoluzione o guerra, vi addita la sola via che – sulla base della lotta di classe – possa condurre al vostro trionfo.

Voi, diceva il Manifesto, non avete da perdere che le vostre catene. Un secolo dopo, la storia vi impone la scelta fra una lotta in cui non perderete che le vostre catene, e il suo abbandono, che può condurvi solo alla perdita della stessa vostra vita.
 

Abbasso i boia del proletariato!
Viva la rivoluzione comunista mondiale!
Viva il Partito Comunista Internazionalista
 

Il C.C. del Partito Comunista Internazionalista - Torino, gennaio 1946.