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"COMUNISMO" n. 64 - giugno 2008
Carestia.
IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA [RG99]: (V - continua del numero scorso) Riprende l’attività sindacale - Alternative illusorie - La ripresa economica degli anni ’40 (continua).
L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA [RG100] (X - continua dal numero scorso) Il PSI davanti al “fatto compiuto” - Parlamentarismo contro-rivoluzionario nel primo anno di guerra - Governo di unità nazionale e complicità socialista con l’imperialismo patrio - La condanna di Lenin del pacifismo borghese (Continua).
LA QUESTIONE EBRAICA OGGI [RG98-99]:  (V - continua dal numero scorso) 8. Trenta denari, tradimento o investimento? 9. Il Comunismo (fine del rapporto).
IL MARXISMO E LA QUESTIONE MILITARE: [RG97]  (II) 4. La violenza nello sviluppo e nel crollo della società schiavistica: Roma - Quadro storico-economico - 5. Lo sviluppo della legione romana - Dalla Città-Stato alla Repubblica: la legione organizzata per manipoli - Le guerre puniche - L’esercito professionale - La legione nell’età imperiale (continua).
Dall’Archivio della Sinistra:
    - Manifesto dell’Internazionale Comunista al proletariato di tutto il mondo (6 marzo 1919).
    - Dalle Tesi della Sinistra al III Congresso del PCd’I (Lione, 1926).

 
 
 
 
 
 
 


Carestia

 Nell’Apocalisse di Giovanni, il solo libro profetico del Nuovo Testamento, si legge che, con la rottura dei Sette Sigilli del Libro irrompono sulla scena del mondo i quattro Cavalieri. Visioni e simboli costituiscono la sostanza di una forma letteraria dove non esiste alcun riferimento alla seriazione cronologica degli avvenimenti, descritti per immagini violente: passato presente e futuro si sviluppano su piani che si intersecano e si sovrappongono.

Le scienze storiche borghesi, al loro sorgere ed affermarsi e poi quella rivoluzionaria del proletariato hanno espunto dalla storia la metafora e l’irrazionale, ed in particolare la nostra scuola afferma la “razionalità” del procedere storico, cioè la sua prevedibilità nei diversi esiti possibili e la leggibilità oggettiva dei fatti. Nella sua fase decadente e finale, la borghesia ha abbandonato il fardello e il privilegio delle scienze storiche, ritorna all’ideologia reazionaria dell’inconoscibile, dell’irrazionale, o di una sterile logica dell’evento, stante l’inconoscibilità totale del processo nel suo insieme, ed ha preteso di chiudere la questione con la scienza della Rivoluzione etichettandola secondo la formula “miseria dello storicismo”.

Ma gli eventi attuali sono così minacciosi per la sua sopravvivenza che la borghesia è costretta a cercarne spiegazioni e tentare rimedi. A scadenze fisse, quindi, il mondo borghese, come rito di purificazione per le infamie che quotidianamente perpetra, convoca conferenze internazionali che di anno in anno si ripetono in stanche liturgie di inutili carrozzoni sovranazionali, i cui costi non hanno altra giustificazione che il mantenimento del teatrino delle buone intenzioni per “un mondo migliore”.

Se lo scorso anno l’attenzione era puntata sullo slombato tema dell’ecologia, dello “sviluppo sostenibile”, questa volta è un organismo dell’ONU che in gran pompa si è riunito a Roma per dibattere la questione della fame nel mondo.

Se possibile, i risultati sono stati ancora più vuoti e vergognosi del precedente summit. La discordia tra le delegazioni, tra produttori e importatori, tra paesi “poveri” e “ricchi”, è stata così alta che non sono riusciti nemmeno ad emettere un documento conclusivo di sintesi, per quel nessun valore pratico che naturalmente tutto questo avesse. Tanti e tali gli interessi contrastanti tra gli Stati nazionali, che neppure una generica concordanza sulla carta è stata possibile.

La cosa non desta in noi nessuna delusione. Rileviamo soltanto che nel migliore dei mondi possibili e praticabili, malgrado la spaventosa capacità produttiva, immensa e quasi inarrestabile alla scala del globo, il numero di quanti sono al limite o al di sotto della sussistenza, cioè muoiono d’inedia, cresce ad un tasso superiore della crescita della popolazione mondiale.

Il dato oggettivo, come è diffuso, rammenta da vicino una fondamentale previsione della nostra scuola, la crescita della massa della miseria, sempre in relazione alla ricchezza prodotta, talvolta anche in assoluto. E in questo declinante rapporto sta la condanna storica del modo di produzione capitalistico, incapace di mantenere i suoi schiavi. Si è costretti quindi a parlare impunemente di crisi alimentare, e quasi desta stupore che il termine salti fuori brutalmente e senza giri di parole dopo due secoli di borghese Scienza razionale, di borghese Democrazia politica e di borghese Progresso economico. Significa forse che i teorici del capitalismo e i paladini dello “sviluppo sostenibile”, cominciano a convenire che il processo di produzione della ricchezza tende a concentrarla in mani sempre più ristrette, in aree sempre più limitate, a dispetto della sua massa sempre crescente, sì che anche la produzione dei mezzi di sussistenza segue la stessa tendenza?

Per un mondo cinico e spietato la questione non si pone neppure. Le “spiegazioni” che sono fornite dai “teorici” dell’economia sono tutte tecniche e, ovviamente, soltanto nell’ambito delle tecniche del capitalismo, seppure “riformato” e “addomesticato”, si cercano povere o fantasiose ricette al massacro delle generazioni, alla fame che attanaglia una gran parte dell’umanità. Tutto, alla fine, si riduce al sogno di una sorta di super comitato di salute pubblica mondiale, che dovrebbe disciplinare il comportamento di Stati e mercati verso atteggiamenti più “virtuosi”; con il che si potrebbero magari anche eliminare, o almeno controllare crisi finanziarie, speculative, inflazione, e via dicendo. Programma talmente campato in aria che gli stessi che lo hanno proposto sono i primi ad affermare che è inattuabile.

Tra i tanti critici borghesi “democratici” che hanno manifestato il loro disappunto peloso sul fallimento, è venuta fuori la richiesta di sgombrare il campo dal manicheismo che continuerebbe a propalare la tesi che la crisi scaturisca dal mercato, cioè dallo scontro tra paesi ricchi ed avidi e Stati poveri: la considerazione, per altro, è affine alla nostra, che ha sempre combattuto queste tendenze “terzomondiste”, che trovano spazio nel “movimento”, che condannano l’imperialismo per salvare il capitalismo. Allo stato attuale dello sviluppo capitalistico, della sua assoluta pervasività in ogni piega dei processi produttivi mondiali, la terribile realtà della fame è una inevitabile conseguenza della produzione capitalistica di merci: grano, derrate agricole, mais, acciaio, ferro, petrolio, manufatti di ogni sorta. Nemmeno la “produzione intellettuale”, bene sui generis, sfugge a questo destino. Tutto ciò che è attività umana è sottoposto alla legge dell’accumulazione di capitale, tutto quanto è prodotto deve essere messo sul mercato per la realizzazione del profitto. Per produrre le merci occorre affamare il mondo, quanto più il mondo è ricco di merci tanto più è povero e affamato.

In particolare sulla produzione agricola grava, in regime capitalistico, il peso sempre crescente della rendita fondiaria, sia nella sua forma assoluta, sia in quella, ineliminabile, differenziale. La soggezione ai ritmi stagionali e ai tempi della crescita biologica anche spingono verso l’alto i prezzi delle derrate. Non esiste più una produzione di derrate alimentari che sul piano locale o di nazione sia bastante al consumo interno e la produzione alimentare è ormai pienamente assorbita nei vortici dell’accumulazione, della finanza, della rendita, del mercato a dimensione planetaria. Al centro di questo turbine non sono né i consumatori affamati né gli Stati – siano essi produttori o consumatori, protezionisti o liberisti – ma l’anonimo e algido Capitale Investito che, da un tabellone appeso in due solo Borse Merci, decide della vita o della morte delle moltitudini. È questa una verità ovvia, ma che gli spiriti nobili dei consessi mondiali fanno finta di ignorare.

E la crisi alimentare è solo un’aspetto, l’ultimo e definitivo, delle crisi che sempre a più breve scadenza agitano il mondo capitalistico, di saturazione dei mercati, delle risorse energetiche, della finanza che fa aggio sulla produzione di beni. Non è allora paradossale che gli stessi paesi cosiddetti ricchi, che partecipano a vario titolo e percentuale al grande banchetto dell’abbondanza capitalistica, rischino una drastica riduzione del consumo, alla scala sociale, di quei beni che hanno avuto a disposizione per tutto il secondo dopoguerra e in misura crescente.

Senza considerare tutte le altre condizioni critiche che avviluppano il procedere del capitalismo, basta considerare il sistema di produzione agraria che caratterizza i grandi paesi sviluppati, a capitalismo maturo, e che da parte degli Stati viene difeso con ogni mezzo protezionistico possibile contro i concorrenti – in primis i paesi cosiddetti del terzo mondo.

Benché la concentrazione della produzione agraria abbia spazzato via ogni forma parcellizzata ed il fabbisogno alimentare possa godere di una estesa rete di trasporti e distribuzione intercontinentale, nel capitalismo questo si traduce, paradossalmente, da un lato in cronica sovrapproduzione, dall’altro in aumento dei prezzi al consumo, oltre a rendere tutto il sistema drammaticamente fragile e incapace di rispondere ad una qualunque crisi, ad esempio nell’ambito dei trasporti, o a dipendere strettamente dai costi dei carburanti. La forza della forma industriale della produzione agricola sotto il regime del profitto e della rendita nasconde una intrinseca debolezza tanto che affamare la popolazione di un paese capitalista è più facile oggi di quanto non lo fosse cinquanta-sessanta anni fa. Come del resto mettere in crisi e ridurre al silenzio la meraviglia della “comunicazione globale”, che dipende da una tecnologia esasperata e fragilissima.

Di fronte all’orrore assoluto dell’Inferno in cui il capitalismo precipita l’umanità tutta, finché non sarà fermato dalla Rivoluzione, vogliamo chiudere queste righe di apertura della Rivista, che è il segno tangibile del nostro lavoro poco visibile ma coerente, con una parafrasi di quel lontano modo letterario che dicevamo per descrivere il futuro che la società del profitto sta preparando: Carestia, Guerra, Pestilenza, Morte. Il Capitalismo cavalca oggi il primo Cavaliere. Al nauseante tanfo di cadavere che s’innalza dalla società borghese, e alle sue reiterate apocalittiche minacce, si oppone, nei fatti prima che nelle coscienze e nella battaglia sociale, l’incorrotta scienza storica marxista, “ragione dialettica” e scienza per l’ultima rivoluzione rigeneratrice della storia, quella della vitale generosa e robusta classe internazionale dei lavoratori.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America
Capitolo esposto a Genova nel settembre 2007.

(Continua del numero scorso)
 
 

Riprende l’attività sindacale

Abbiamo visto come l’inizio degli anni ’30, anche a causa del generale peggioramento delle condizioni di vita del proletariato, fosse all’insegna di una rinnovata attività sindacale. Un gran numero di banche nacque come dal nulla dopo la distruzione della Banca Centrale da parte del presidente Jackson; banche che riempirono il paese di moneta cartacea, che a sua volta innescò una grave spirale inflazionistica. Ricordiamo che il Nord era sempre stato la roccaforte del partito “federalista”, centralizzatore, sostenitore di un forte governo federale e della creazione di una potente Banca dell’Unione; obbiettivi funzionali agli interessi mercantili (soprattutto agli inizi) del Nord, e successivamente anche a quelli industriali. Il Sud era invece meglio rappresentato dal partito “democratico”, fautore del decentramento, della massima autonomia degli Stati, timoroso che il governo centrale potesse finire nelle mani di una oligarchia finanziaria. A queste caratteristiche si aggiungevano la difesa dell’agricoltura nei confronti delle altre attività economiche e della piccola impresa contro la grande. Si trattava di obbiettivi che erano condivisi non solo dalla popolazione agricola del Sud, ma anche da gran parte delle masse popolari del Nord, composte da un gran numero di piccoli contadini e artigiani.

Tra il 1834 e il 1836 l’indice generale dei prezzi aumentò del 25%, ma per le merci di prima necessità gli incrementi furono molto superiori. Nel 1836 un barile di frumento costava $ 12, mentre due anni prima non sarebbe costato più di $ 5. Gli affitti da $ 25 ora costavano $ 40. Inoltre gli operai specializzati vedevano i loro posti di lavoro messi in pericolo dalla inarrestabile e crescente divisione del lavoro. E i padroni, imbaldanziti della crisi, divenivano più rigidi sul posto di lavoro, infischiandosene dei salari stabiliti dalle associazioni professionali.

I cappellai di Baltimora e i carpentieri di New York furono i primi a reagire. Nel 1833 scesero in lotta, un’agitazione che dieci anni prima sarebbe rimasta di interesse prettamente locale. Invece ora che il Working Men aveva in qualche modo collegato la classe operaia di diversi luoghi e categorie, la risposta sarebbe stata più ampia. Gli operai specializzati di entrambe le città, oramai sulla strada della costituzione di veri e propri sindacati, misero mano al portafoglio. Sarti e muratori di New York fornirono $ 300 al fondo di sciopero dei carpentieri, mentre i tipografi si riunirono per valutare la possibilità di uno sciopero di solidarietà; un mese dopo questi eventi senza precedenti, nella stessa città fu fondata la General Trades’ Union, la prima confederazione cittadina dei lavoratori specializzati, antesignana delle Camere del Lavoro nostrane. L’esempio fu seguito a Philadelphia, Boston, Baltimora, Washington, passando poi gli Appalachi per contaminare nello stesso modo Louisville, Cincinnati e altre città del Midwest.

Questa fase sindacale del movimento operaio ebbe una estensione geografica minore rispetto a quella politica che l’aveva preceduta, ma penetrò molto più in profondità in ampi strati del proletariato cittadino. Non vi erano ancora sindacati che ammettessero le donne, e solo quelli di Filadelfia accettavano i non specializzati, ma tutti crebbero molto tra gli operai dei mestieri più duri e peggio pagati. Così, lavoratori privilegiati come gioiellieri e orafi si sindacalizzarono al pari dei lavoratori dei telai, e stabilirono tra loro rapporti di solidarietà. Nel 1835 la General Trades’ Union di Filadelfia contava non meno di 53 sezioni (più del triplo rispetto alla vecchia Mechanics’ Union), una in più della equivalente di New York. Si calcola che in tutto il paese aderissero a queste federazioni locali tra un quinto e un terzo dei lavoratori, il valore più alto prima della guerra civile.

Le lotte furono aspre anche nei settori produttivi dove prevalevano le donne. Il lavoro salariato femminile era limitato a pochi settori, tra cui quello tessile. Nonostante fossero più ricattabili dei maschi, le donne si dimostrarono molto più combattive e coraggiose, e pur se spesso sconfitte dopo lotte durissime, riuscirono anche a vincere delle battaglie. Anche se in certi casi, come a Filadelfia, ricevettero solidarietà da associazioni operaie maschili, in genere i lavoratori maschi vedevano di malocchio l’accesso ai mestieri delle donne, per ragioni analoghe a quelle che li spingevano all’ostracismo verso i negri, liberi o schiavi che fossero. I sarti di New York salutarono la Tailoresses’ Society, forte di 1.600 sarte, con la scoraggiante affermazione che “le caratteristiche fisiche delle donne e le loro sensibilità morali” le rendevano più adatte alle attività domestiche. La National Trades’ Union, un consesso di sindacalisti cittadini che si riunì una volta l’anno dal 1834 al 1836, nel 1836 preparò con questa ottica un rapporto sul lavoro femminile. Sebbene raccomandasse la sindacalizzazione di tutte le lavoratrici, il rapporto prediceva un futuro infelice, reso più oscuro dal fatto che il lavoro delle donne e la meccanizzazione avrebbero “reso superfluo il lavoro maschile”. La brutale conclusione era che il lavoro salariato delle donne “deve essere eliminato in modo graduale”. È ovvio che, tra l’opposizione di un movimento operaio maschile ancora immaturo e le oggettive difficoltà del mercato del lavoro (il lavoro delle donne era in genere facile e i rimpiazzi erano frequentissimi, anche perché prima o poi le donne si sposavano e smettevano di lavorare in fabbrica; questo determinava anche l’assenza di tradizioni di lotta radicate), non vi erano grandi opportunità per una sindacalizzazione delle donne.

Il sindacalismo maschile se la passava meglio: non si poteva immaginare migliore propaganda per l’associazionismo operaio degli scioperi generali del 1835, che risvegliarono la combattività di categorie che fino a quel momento non vantavano tradizioni di lotta, e che aderirono alla General Trades’ Union. I sindacati esistenti si arricchirono di nuovi soci, dagli immigrati poveri agli evangelici, e cominciarono i primi tentativi di coordinare le attività tra sindacati di città diverse. Tipografi, calzolai e carpentieri ebbero incontri a livello nazionale per concordare la regolamentazione dell’apprendistato, fissare scale salariali uniformi, e adottare tessere che davano ai lavoratori migranti la possibilità di essere membri dei sindacati nella nuova sede senza formalità.

I miglioramenti furono scarsi perché tutta l’attenzione e le energie furono impegnate dalla lotta per tenere testa all’inflazione. Ne risultò un’ondata di scioperi: nel 1836 gli operai di New York si fermarono almeno dieci volte, quelli di Filadelfia anche di più, e ciò fu reso possibile dai fondi della GTU e da straordinarie iniziative di solidarietà dei singoli sindacati. Anche se il sindacato locale rimaneva lo strumento principale di solidarietà e lotta, sforzi furono compiuti per costituire organizzazioni nazionali. Ma il miglioramento dei trasporti per ferrovia e canale rendeva più facile ai padroni attaccare i sindacati locali con le liste nere seguite dall’arruolamento di crumiri. Gli operai compresero che se in una parte del paese i salari erano più bassi che altrove, i padroni sarebbero stati spinti dalla legge della concorrenza a cercare di abbassare i salari ovunque. Alcune categorie riuscirono nell’impresa, ma nessuna di queste ebbe lunga vita. Una di loro fu la National Trades’ Union sopra menzionata.

L’ondata di scioperi del 1836 scatenò l’ovvia reazione padronale: a New York e a Filadelfia i padroni fondarono le loro associazioni, che si diedero il compito di sconfiggere gli scioperi e distruggere i sindacati. Il miglior successo arrise ai padroni di New York, che ebbero il pieno sostegno di giudici e polizia. Un padrone di una ditta di lavorazione della pietra di New York vinse una causa per danni contro operai in sciopero; mercanti di abiti fecero incarcerare venti operai sotto l’accusa di cospirazione; l’onorevole giudice affermò che «questo non è un semplice conflitto tra operai e imprenditori, ma una lotta da cui dipende l’armonia nell’intera Unione». Mentre nei tribunali i giudici facevano il loro sporco dovere, per le strade imperversava la battaglia: torme di poliziotti furono mandate a reprimere scioperi dei lavoratori portuali, che manifestavano per incrementi salariali; quando dopo lunghi e ripetuti scontri si vide che gli scioperi non cessavano non si esitò a far intervenire la milizia. Il sindaco della città nello stesso anno mobilitò la milizia contro i portuali in sciopero per l’aumento del salario e la riduzione dell’orario, costringendoli a riprendere il lavoro sotto la minaccia dei fucili. Analoghi fatti accadevano a Filadelfia, dove l’insuccesso nel reprimere le medesime categorie convinse il sindaco a far arrestare e incarcerare i dirigenti sindacali. In entrambe le città vi fu una risposta molto decisa da parte operaia, con una manifestazione di ben 30.000 operai a New York, cosa mai vista prima. A Filadelfia fu addirittura decisa l’ammissione alla GTU dei portuali, sino a quel momento esclusi in quanto non specializzati.

Non si trattava d’altronde dei primi casi in cui il padronato invocava l’intervento della magistratura, della polizia e della milizia. Nel 1829 erano entrati in sciopero gli operai che costruivano il canale Chesapeake-Ohio, i quali furono arrestati, ma rilasciati poco dopo l’arresto. Abbiamo già ricordato come nel 1833 a Geneva, nello Stato di New York, alcuni calzolai fossero stati condannati per cospirazione e gettati in prigione. Solo nel 1842 la Corte Suprema del Massachusetts dichiarò inapplicabili ai sindacati queste vecchie leggi sulla cospirazione di origine inglese.

A questo punto vale la pena di ricordare il significato della milizia. Nell’America coloniale la milizia, basata sulla tradizione del fyrd, istituzione tribale degli Anglosassoni dell’Europa alto-medioevale che imponeva il servizio militare a ogni uomo libero, fu impiegata contro gli Indiani nel periodo in cui non erano ancora disponibili forze regolari britanniche. Durante la rivoluzione americana, la milizia, chiamata minute-men, forniva il grosso delle forze militari americane ed era anche il bacino da cui reclutare i soldati regolari. La milizia svolse un ruolo analogo anche durante la guerra del 1812 contro l’Inghilterra e durante la Guerra Civile americana. Dopo cadde in disuso. Ma nella maggior parte degli Stati vennero formate unità di volontari provenienti dagli strati benestanti della popolazione (cioè coloro che potevano comprarsi le uniformi), poste sotto il controllo del governatore dello Stato. Nei decenni 1870 e 1880 queste unità prenderanno il nome di Guardia Nazionale, e saranno utilizzate dai governatori per reprimere gli scioperi operai; sotto tale nome ritroveremo questi corpi impiegati sempre più spesso come strumento repressivo della borghesia.

Intanto gli intellettuali e i politici radicali osservavano lo svolgersi degli avvenimenti con una punta di preoccupazione: nonostante le innegabili conquiste del periodo 1828-1836, la loro paura era che l’ondata di lotte del 1835-36 “degenerasse” in un ciclo senza fine di scioperi, che avrebbe tolto interesse verso i “più alti” scopi di “ricostruzione sociale”, cioè raffrenare la “frenesia della concorrenza” (come loro definivano il capitalismo) e costruire alternative alle istituzioni borghesi. Nell’estate del 1836 i radicali cominciarono a ammonire sui pericoli della dissipazione di energie e dello “spreco di risorse” che comportavano le lotte sindacali. La crisi avrebbe reso più attento l’uditorio.
 
 

Alternative illusorie

La crisi del 1837 costituì un colpo tremendo per l’attività sindacale. La produzione quasi si arrestò, e a migliaia gli operai venivano gettati nei ranghi dei senza lavoro. Già nel gennaio 1838 i disoccupati nella sola città di New York assommavano a 50.000, mentre altri 200.000 erano definiti “in estrema difficoltà, senza mezzi per sopravvivere all’inverno se non quelli della carità”. E il quadro non era diverso a Philadelphia, Boston, Baltimora e nelle altre città manifatturiere.

Con un terzo della classe operaia disoccupata, e gran parte dei rimanenti con lavori incerti e saltuari, i sindacati degli anni ’30 scomparvero uno dopo l’altro, compresa la National Trades’ Union, e con loro se ne andarono gli organi di stampa. Naturalmente il processo fu reso più rapido dall’offensiva dei padroni, che vi trovarono un’occasione per schiacciare il movimento operaio. Nonostante alcuni isolati e commendevoli casi di resistenza a oltranza, i padroni vincevano, e nel 1839 i salari risultavano ridotti in misura variabile tra il 30 e il 50%.

Fu in queste circostanze che trovò ascolto presso la classe operaia, oltre che presso la piccola borghesia radicale, la predicazione di chi indicava vie alternative alla lotta diretta contro i padroni. Alcuni dicevano che l’unica soluzione risiedeva nella preghiera e nel conforto spirituale; altri sostenevano che i lavoratori avrebbero potuto elevarsi mentalmente nonostante quello che il sistema di fabbrica faceva al loro corpo e al loro spirito.

Ve n’erano di altri che facevano individuavano l’origine delle sofferenze del popolo nella natura del capitalismo: pochi capitalisti avevano preso il controllo dei mezzi di produzione e usavano questo controllo non per il bene del popolo, ma per il loro profitto. Quando il profitto veniva a mancare, arrestavano la produzione, espellevano dal lavoro migliaia di persone, spandevano la miseria nel paese. La soluzione, secondo questa scuola di pensiero, stava in un nuovo ordine sociale che avrebbe abolito ogni tipo di schiavitù e oppressione restituendo al popolo il controllo delle forze produttive. Solo una società siffatta poteva dar luogo a un’era di libertà universale, pace e armonia, al posto di guerra, odio e sofferenze. Alla realizzazione del nuovo ordine sociale sarebbe stato sufficiente che i ricchi e potenti lo approvassero e lo sostenessero finanziariamente; poi tutti avrebbero potuto unirsi e partecipare alla costruzione della nuova società comunistica e cooperativa. I fautori di queste visioni erano i socialisti utopisti, in particolare i discepoli americani di due utopisti famosi in Europa, Robert Owen e Charles Fourier. Abbiamo già criticato altrove questa fase della storia del proletariato, anche nelle primissime opere dei nostri maestri dei secoli scorsi, e non ci dilungheremo quindi sull’argomento.

Ma il movimento owenista si era presentato in America già nel 1825, e aveva inizialmente avuto un certo successo, con numerose colonie sorte in diversi Stati; queste però ben presto fallirono, e nel 1828 non era rimasto più niente. Owen tornò in America nel 1845, ma solo per fare dei bei discorsi. Mentre Owen contava di sfruttare il progresso tecnico a favore dei lavoratori piuttosto che a profitto dei padroni, abolendo il diritto di proprietà, Fourier intendeva mantenerlo, considerava la produzione industriale il peggiore dei mali e predicava il ritorno alla terra. Fourier non andò mai in America, dove le sue idee erano sostenute da un suo discepolo, Albert Brisbane. Nel 1843 furono fondate numerose colonie, chiamate “falangi”, che, con un paio di eccezioni, chiusero i battenti entro un anno. Ma il fallimento delle colonie utopistiche non significò la totale scomparsa dell’influenza degli utopisti sul proletariato. Quello che apparve chiaro però fu che non si poteva pensare di introdurre un nuovo sistema sociale dal niente, da un giorno all’altro, con la sola forza del convincimento.

Le cooperative (di produzione) avevano già esordito in diverse città nei primi anni ’30. La crisi le spazzò via in breve tempo, ma la ferma convinzione di molti operai che l’unico modo per migliorare le loro condizioni di vita fosse legato a nuove forme di produzione e distribuzione diede nuova vita negli anni ’40 e ’50 al movimento della cooperazione, nell’ambito della produzione e in quello della distribuzione. Nella testa dei teorici, come Blanc in Europa, il cooperativismo avrebbe piano piano soppiantato, con la forza dell’esempio, il sistema economico borghese; per gli operai invece l’iniziativa valeva nella misura in cui risolveva i loro problemi immediati.

Come nel caso degli utopisti, abbiamo già criticato altrove (ed in particolare trattando la storia del movimento operaio inglese) la fase cooperativista che la classe operaia attraversa ad un certo stadio, primitivo, del suo sviluppo, critica che quindi non ripeteremo in questa sede. Anche in America il movimento cooperativo incontrò il fallimento, lo stesso fato delle colonie utopistiche. Ciò fu particolarmente vero per le cooperative di produzione, che ebbero come punto debole la cronica mancanza di capitali, che impediva loro di investire e di resistere alla concorrenza spietata mossa loro dai produttori individuali, che non esitavano a vendere sottocosto pur di fiaccarne la resistenza.

Il movimento delle cooperative di consumo, nato un po’ più tardi, nel pieno della crisi, ebbe il suo vero lancio solo nel 1845, quando a Boston fu fondata la Working Men’s Protective Union. L’iniziativa, presto presa a modello per centinaia di altre associazioni analoghe, aveva come scopo principale l’acquisto a prezzi più bassi di prodotti necessari per i soci. Essa però prevedeva anche altri benefici per i soci, quali indennità in caso di malattia e una assicurazione per l’anzianità, una piccola pensione. Queste cooperative ebbero migliore fortuna delle altre, e durarono fino alla vigilia della guerra; ma alla fine anche loro furono affondate dalle stesse forze che avevano messo in ginocchio le altre, mentre i teorici del movimento si mostravano disgustati della “grettezza” degli operai, cui sembrava interessasse solo risparmiare qualche dollaro.

Simbolo della vulnerabilità ideale di molti lavoratori fu il secondo Grande Risveglio evangelico del 1840-43, che ebbe largo seguito tra i proletari. Un gran numero di “missionari” si spostava in città e campagne per accalappiare gente in difficoltà, un po’ con le parole ispirate, un po’ col profumo della zuppa calda. I vati del nuovo verbo convincevano gli operai senza un Cent che Cristo aveva fatto venire tempi duri come punizione per i peccati del mondo, e che però ne preparava tempi migliori e salvezza per coloro che avrebbero corretto le loro abitudini; e le chiese si riempivano.

Ovviamente l’astinenza dall’alcool era un obbligo. Ma la sobrietà non era monopolio dei movimenti religiosi e anche gli attivisti sindacali l’avevano predicata nel decennio precedente: e la coscienza dei negativi effetti dell’alcool, le pressioni esercitate anche dai padroni che volevano operai sobri, la frugalità dettata dalla crisi, tutto favoriva la condanna degli alcolici. Tra le organizzazioni secolari per la temperanza la più importante fu la Washington Temperance Society, che per alcuni anni, dalla sua fondazione nel 1840 al 1843, arrivò a vantare un numero di associati di 3 milioni, principalmente proletari. Anche se esagerato, si trattava di un numero almeno doppio o triplo di quello dei proletari sindacalizzati nel momento di massimo sviluppo delle lotte, sette anni prima. I washingtoniani svolgevano anche attività di mutuo soccorso, ma, soprattutto nel Nord, avevano innalzato i liquori al rango di massimo nemico dell’operaio, posto in precedenza occupato dalle avide banche e dai padroni sfruttatori.

Un altro importante riformatore fu George Henry Evans, già seguace di Skidmore, che elaborò un programma di riforma agraria noto come National Reform; il programma in sostanza consisteva nella divisione delle terre demaniali in lotti di 160 acri (64 ettari) da distribuire a tutte le famiglie che ne facessero richiesta. I territori sarebbero poi stati arricchiti da centri urbani attrezzati con strutture utili alla comunità, sia per attività di svago sia come sostegno alle attività economiche; in tali centri gli scambi sarebbero avvenuti senza intermediazioni. La National Reform costituì per i radicali della generazione antebellica quello che il cooperativismo era stato per la generazione precedente. Per Evans, grazie agli ampi spazi a disposizione a Ovest, il proletario poteva sfuggire al destino dell’operaio d’Europa, dove la terra era ormai sotto il completo controllo di pochi privilegiati. La Riforma avrebbe portato tanta prosperità da permettere il cambiamento della società. «E tutto questo – concludeva – può essere ottenuto con un semplice voto, se i lavoratori di tutto il Pese si uniscono». Se il movimento, composto di proletari che chiedevano di diventare piccoli contadini, conteneva aspetti utopici, esso aveva dei legami col movimento operaio: i ricchi, borghesi e fondiari, non vi avevano accesso, ed erano riconosciuti come nemici. La National Reform Association (NRA), fondata nel 1844, non fu quindi un movimento sindacale, ma piuttosto una iniziativa riformista, anche se spesso il confine con il sindacalismo era difficile da vedere. I suoi aderenti riconoscevano la necessità dello sciopero, anche se consideravano tale strumento non adeguato al loro fine particolare. Ciò non impedì loro però di costituire l’unica realtà di un certo rilievo all’interno del movimento di lotta operaia nei tre lustri che precedettero la Guerra Civile. La NRA si strutturò come un partito moderno, con sezioni locali e membri che pagavano quote fisse, conferenze periodiche e organi di stampa. L’Associazione fece presa anche nel Midwest, ricco questo come era di agricoltori marginali e operai di estrazione contadina, soprattutto nelle città, quando prese ad agitare parole d’ordine come cooperazione e giornata di dieci ore.

Per quanto differissero anche profondamente tra loro, Owenisti, Associazionisti (Fourieristi) e Riformatori della Terra concordavano su un punto: i lavoratori avrebbero potuto risolvere i loro problemi solo quando i loro programmi fossero stati realizzati. I primi due movimenti addirittura condannavano pubblicamente gli sforzi degli operai di ottenere orari meno lunghi, dicendo che «una semplice abbreviazione dell’orario li avrebbe solo trasformati da schiavi delle 12-14 ore a schiavi delle 10 ore». E lo stesso valeva per i salari. Poiché maledetto era lo stesso sistema, la massa dei lavoratori avrebbe dovuto dapprima comprendere che niente di meno che l’abolizione del capitalismo aveva senso. Evans prese una posizione leggermente diversa: il suo movimento sostenne le lotte rivendicative degli operai, ma allo stesso tempo cercava di convincerli che niente sarebbe durato senza la conquista della riforma della terra.

Queste concezioni non rimanevano solo sulla carta: gli utopisti partecipavano alle organizzazioni operaie e alle loro riunioni, con lo scopo di convincere gli operai che, nel tentare di ottenere migliori condizioni di vita nell’attuale società, stavano dissipando inutilmente le loro forze. Le speranze di un futuro migliore risiedevano altrove. Appassionati oratori spesso facevano proseliti, e riuscivano anche a portare intere organizzazioni sindacali nel campo del cooperativismo o della riforma.

Questi, riformatori o utopisti, non riuscirono a capire una cosa che per Marx fu subito chiara: il “male” capitalista che essi cercavano di scongiurare era in realtà storicamente favorevole, in quanto gettava le basi materiali per l’affermarsi della società comunista. Non si trattava di “creare” il comunismo con la pura volontà, a dispetto delle esistenti forze economiche e politiche; si trattava, facendo leva sul movimento per la sopravvivenza materiale della classe nelle difficoltà quotidiane, di affinare le armi per la conquista del potere politico, unico strumento utile a “rovesciare la prassi”, per “liberare” la società dalle strettoie del capitalismo.
 
 

La ripresa economica degli anni ’40

Con la ripresa del 1844 evangelici e temperanti persero la presa che avevano sugli operai. Ma qualcosa ne rimase nella classe, un approccio moraleggiante alla questione sociale: nei piccoli centri si ebbe una specie di laburismo cristiano, nelle grandi città forme varie fino addirittura al Nativismo, cioè l’affermazione della superiorità degli americani nati in America (indiani e negri felicemente esclusi). Un nuovo spirito che avrebbe spianato la strada all’ideologia del Free Labor. Furono anni di scarsa combattività, nei quali l’accento delle lotte si spostò sull’orario di lavoro.

Il paese stava allungando il passo del suo sviluppo. Tra 1840 e 1860 il numero di lavoratori delle manifatture raddoppiò, mentre il valore della produzione nelle stesse aziende quadruplicò. L’estensione della rete ferroviaria aumentò di dieci volte, e similmente aumentò la popolazione dei grandi centri urbani. Ormai nessuno più credeva seriamente alla possibilità di arrestare lo sviluppo capitalistico. Il movimento operaio riprese lentamente la sua marcia. La grande differenza rispetto ai decenni precedenti fu che adesso l’iniziativa non era più in mano agli apprendisti, ai piccoli artigiani, agli operai specializzati delle piccole imprese semi-industriali, ma era la classe operaia di fabbrica che faceva sentire la sua voce. Tra l’altro la crisi aveva gettato sul lastrico un gran numero di piccoli agricoltori, quelli che avevano mandato in sollucchero De Tocqueville: costoro non avevano più altra scelta per sopravvivere se non andare nella più vicina città a vendere la propria forza lavoro. Né potevano gli operai, se non compiendo un lungo e pericoloso viaggio, sfuggire alla sorte di operai a vita: la classe operaia americana cominciava così a divenire permanente.

Nel New England agli inizi del periodo la manodopera delle prime grandi fabbriche fu principalmente femminile; e femminili furono le Female Labor Reform Associations, sorte a partire dal 1845 insieme a numerosi organi di stampa: si trattava di organizzazioni di natura culturale e politica, che avevano lo scopo di operare in favore del lavoro femminile a diversi livelli; all’occorrenza funzionarono anche egregiamente da organizzatori sindacali. Un altro aspetto caratterizzante la classe operaia del New England era che questa non aveva beneficiato dei miglioramenti che altrove erano stati concessi sull’orario di lavoro; la grande maggioranza dei suoi componenti ancora lavorava dalle 12 alle 14 ore giornaliere. Anche quelli che avevano goduto di riduzione erano tornati, con la crisi, al lavoro “dall’alba al tramonto”.

Va subito detto che nel periodo in questione il movimento per la riduzione dell’orario lavorativo puntò principalmente sulla imposizione dei nuovi limiti per legge. Se nel 1840 il presidente Van Buren aveva concesso le 10 ore nelle aziende statali, ottenerle nelle aziende private sarebbe però ben più arduo. La strategia consisteva principalmente nel tentare di organizzare una pressione di massa sui legislatori, per contrastare il controllo che sugli stessi avevano le corporazioni padronali. Iniziò quindi una attività fatta di petizioni e di sostegno, concesso o negato, ai parlamentari in funzione del loro atteggiamento verso la riduzione dell’orario di lavoro nelle fabbriche.

Il principale risultato della mobilitazione fu la nascita di una organizzazione combattiva chiamata New England Workingmen’s Association. Nacque nel 1844 dall’attivismo di propagandisti devoti alla causa, ma fu presto conquistata dai fourieristi, il che voleva dire che poco sarebbe stato fatto sia sul piano sindacale sia su quello legislativo. Fortunatamente il declino degli utopisti era già a buon punto, e prima che finisse il 1845 l’Associazione era di nuovo in mano agli operai che avevano come obbiettivo primario la riduzione delle ore lavorative. I risultati però stentavano a venire, e all’interno del movimento cercò di farsi strada la linea della lotta diretta con l’arma dello sciopero, che ebbe seguito soprattutto tra le operaie tessili. Ma la debolezza del movimento fu tale che dalla fine del 1846 ci si dedicò solo alle petizioni.

Strumento non del tutto inefficace. Anche se i primi Stati a concedere le 10 ore furono il New Hampshire (1847), il Maine e la Pennsylvania (1848), la conquista rimase più che altro simbolica, in quanto la legge permetteva, dopo forti insistenze delle organizzazioni padronali, una contrattazione locale per stabilire le ore di straordinario. In pratica al lavoratore veniva fatto firmare un contratto nel quale si impegnava a lavorare per più di 10 ore; chi non firmava non era assunto e veniva immesso nelle liste nere. In pratica quindi non cambiava niente, ma da un punto di vista storico si trattava certo di una conquista. Vi furono resistenze operaie anche forti ai contratti, ma alla fine l’ebbero vinta quasi ovunque i padroni.

La New England Workingmen’s Association cadde di nuovo in mano agli utopisti, e nel 1848 chiuse i battenti. Lo stesso destino subirono le Female Labor Reform Associations. Scontri più duri vi furono in Pennsylvania, ma nel corso degli anni ’50, anche se molti Stati concessero formalmente le 10 ore, si trattò sempre di leggi inefficaci, o perché consentivano contratti in deroga, o perché semplicemente non prevedevano penalità per la mancata attuazione. Il movimento per le 10 ore non era stato però senza conseguenze, e un generale calo delle ore lavorate vi fu: se nel 1830 la giornata lavorativa media in America era di 12 ore e mezza, 30 anni dopo era scesa a 11 ore. Si trattava di un guadagno non da poco, e non concesso benignamente dai padroni ma conquistato dai lavoratori con tutti i mezzi che avevano a disposizione, in una situazione di estrema debolezza oggettiva.

Il problema dell’orario esisteva anche al Sud: in Georgia solo nel 1853 fu approvata una legge che limitava la giornata lavorativa “dall’alba al tramonto, con la concessione del tempo consuetudinario per i pasti”, come dire 10-11 ore. Questa fu però l’unica eccezione, e nessun’altra legge analoga fu approvata in tutto il Sud fino a dopo la Guerra Civile.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


L’Antimilitarismo nel movimento operaio in Italia
Capitolo 10, esposto alla riunione di Sarzana, nel gennaio 2008.

(Continua dal numero scorso)
 

Il PSI davanti al “fatto compiuto”

L’11 aprile 1915, a Milano, nel corso di una manifestazione contro la guerra un giovane meccanico, Innocenzo Marcora, viene ucciso a manganellate dalla polizia. La tensione sociale raggiunge il massimo, il proletariato vuole scendere compatto in piazza per dare una risposta di classe alle provocazioni statali. Costretta dalla pressione dei lavoratori la Camera del Lavoro non può fare a meno di indire per il giorno 14 lo sciopero generale nella città lombarda.

Nel suo editoriale sull’Avanti! di quel giorno Serrati scrive: «In nessun paese del mondo i poliziotti si ritengono tanto in diritto di scagliarsi contro i cittadini – specie se son poveri lavoratori – di bastonarli. Non avvengono così frequenti e così impuniti gli omicidi da parte della forza pubblica come nell’Italia costituzionale [...] E poiché la gente della polizia si recluta fra gli elementi meno sani, fra gli scarti, fra gli avariati delle nostre città, fra gli esasperati e gli anormali della nazione, nulla di strano se costoro, protetti e premiati, sentono quasi la voluttà della rissa coi cittadini e hanno sete di sfogare contro la massa proletaria i loro livori e le loro ire [...] Lo sciopero generale è la solidarietà dei proletari per il compagno martirizzato: è il grido di protesta della vittima di domani per la vittima di oggi. Esso dice ai governanti la parola solenne e decisiva dell’ammonimento». Era però dall’agosto del 1914 che l’Avanti! continuava ad “ammonire” il governo. L’aveva ammonito così tante volte che ormai i suoi ammonimenti non facevano più paura a nessuno.

Nella giornata del 14 l’astensione dal lavoro fu totale, Milano risultò completamente paralizzata e le moltitudini dei manifestanti affollarono le strade e gremirono le piazze. In quella occasione il quotidiano socialista, per la prima volta nella sua storia, pubblicò in prima pagina le fotografie di quella “grandiosa manifestazione di protesta”. Lo sciopero milanese dimostrò, allo stesso tempo, sia che le organizzazioni di classe erano in grado di convogliare la mobilitazione generale delle masse operaie, sia che il movimento operaio era vitale e determinato alla lotta.

Ma la volontà e la forza del proletariato faceva più paura all’ala riformista del PSI di quanta ne facesse allo stesso Stato borghese, e quindi fu quella che si predispose a sabotare sistematicamente la ribellione operaia prima che arrivasse ad assumere una connotazione rivoluzionaria.

Poco dopo, dal 26 al 29 aprile, si riuniva a Milano la Direzione del Partito per decidere quali risposte si sarebbero dovute dare quando fosse stato deciso l’intervento dell’Italia in guerra, intervento che ormai si sapeva essere inevitabile. Il partito avrebbe o non avrebbe proclamato lo sciopero generale contro la guerra?

Già in molte città italiane la base si era espressa a favore: i congressi provinciali avevano deliberato di «approfittare della prossima festa del lavoro per dimostrare pubblicamente che il proletariato non vuole rinunciare alla sua libertà» e si erano impegnati «ad affrettare il movimento rivoluzionario».

Rigola, segretario della CGL, aveva preso atto del fatto incontestabile che i proletari erano «neutralisti così assoluti da propendere, dirò meglio, da volere un’azione estrema contro l’eventuale mobilitazione». Quindi, constatato questo, il bonzo sindacale, metteva subito in atto la sua azione di pompieraggio e scriveva sull’Avanti! del giorno 21: «Credo lo sciopero un’assurdità tale, nel caso in questione, che io non esiterei a separare la mia responsabilità da quella dei confederati, anche se il novantanove per cento di questi vi fossero favorevoli».

Così, proprio alla vigilia dell’entrata in guerra, si verificava una situazione nella quale, mentre le masse lavoratrici maggiormente avanzavano richieste di azione di classe diretta, gli organi dirigenti sempre più arretravano, impauriti dal pericolo che questa azione di classe si scatenasse in tutta la sua formidabile energia travolgendo il potere borghese. La stessa Direzione, massimalista, nel suo disfattista ordine del giorno, approvato all’unanimità il 28, insinuava il dubbio che «il proletariato ed il PSI, che ne interpreta e rappresenta gli interessi, non avranno la forza e la compattezza necessaria per impedire la guerra».

Interessantissimi sono i dispacci telegrafici inviati da Panizzardi, prefetto di Milano, al Ministero degli Interni a Roma, dai quali si evince chiaramente come i riformisti del Partito avessero preso in mano la situazione e la giocassero a favore del governo: «Milano 26 aprile 1915. Riunione antimeridiana direzione PSI. Stamane segretamente e con esclusione stampa si è riunita negli uffici dell’Avanti! direzione partito socialista italiano per discutere sul metodo di protesta e opposizione alla entrata nostra in guerra. Erano presenti della direzione Bacci, Serrati, Bussi, l’on. Prampolini, Ratti e la Balabanoff. Riferimento sulla situazione, Costantino Lazzari, segretario della Direzione, pose dilemma: o sciopero generale in caso di mobilitazione come vorrebbero socialisti di Milano, Roma, Firenze, Bologna e Ancona oppure opposizione passiva limitando protesta ad una propaganda oratoria e di stampa contro la guerra, come vogliono socialisti di Reggio Emilia e altre città. Sostennero sciopero generale Lazzari e Balabanoff che conclusero dichiarando che socialisti debbono opporsi alla guerra con tutti i mezzi, compreso quelli più estremi della violenza e del sabotaggio. On.le Prampolini sostenne invece bastare pubblicazione manifesto esponente ragioni che giustificano opposizione del partito alla guerra - Prefetto Panizzardi».

La direzione del PSI si riunisce segretamente, non viene ammessa la stampa, prendono parte alla riunione soltanto sei dirigenti storici del partito, eppure subito il prefetto di Milano è in grado di relazionare al governo l’esito dell’incontro. È chiaro che tra l’ala riformista e gli organi repressivi dello Stato vi era intelligenza.

Proseguiamo con le informazioni del prefetto al Ministero: «Milano 26 aprile 1915. Riunione pomeridiana Direzione PSI. Lazzari parlò del suo giro in tutta Italia nel quale ebbe a persuadersi che il proletariato in grandissima maggioranza intende impedire a qualunque costo nostro intervento per preparare il paese anche alla guerra civile e alla deposizione della monarchia. Prefetto Panizzardi».
«Milano 27 aprile 1915. Riunione Direzione PSI. Sebbene direzione abbia già escluso sciopero generale [...] nella riunione odierna però direzione ha incaricato giornale Avanti! annunziare ma soltanto come minaccia al governo possibilità sciopero generale».
«Milano 28 aprile 1915. Riunione Direzione PSI. Direzione PSI ha approvato ieri sera un o.d.g. definitivo col quale, dopo monito al governo e alle classi dominanti per le responsabilità che incontrerebbero scatenando una guerra di aggressione, si dichiara che se proletariato e partito socialista che ne rappresenta interessi non avranno forza di impedire la guerra è però loro fermo proposito mantenere sempre prima e dopo la guerra il più rigido indirizzo di classe e dà mandato alla segretaria convocare 16 maggio a Bologna un convegno delle organizzazioni socialiste per stabilire programma d’azione [...] Come è facile scorgere, scioglimento detto o.d.g. della Direzione del Partito, sincero ed equivoco, nasconde, come già quello della Confederazione, impotenza proclamare sciopero in caso di mobilitazione e riluttanza a confessare che non si vuole ricorrere a quel mezzo estremo perché se ne prevede insuccesso. Direzione Partito mette avanti come minaccia ancora gravi decisioni convegno 16 maggio il quale è da prevedersi avrà la stessa fine delle presenti riunioni a Milano. Tutto ciò conferma previsioni formulate nei miei telegrammi precedenti, cioè prevalenza tendenza on. Prampolini che è quella on. Treves e Turati, i quali in questi giorni si sono molto adoperati per far naufragare proposta dello sciopero sostenuta da Lazzari e dalla Balabanoff. Ieri sera poi a tarda ora Consiglio Nazionale della Confederazione ratificò accordo intervenuto come ho detto tra suoi rappresentanti e direzione Partito. Prefetto Panizzardi».

Come giustamente annotava il Prefetto, la riunione del vertice socialista aveva dimostrato solo la sua manifesta impotenza anche se dava direttiva all’Avanti!, ed a Serrati, di propalare la minaccia di una rivoluzione che nessuno di loro voleva, ed una unità del partito che, anziché contribuire all’azione del proletariato, la paralizzava.

Serrati, in esecuzione della direttive ricevute, il giorno 29 titolava il suo primo articolo dopo il convegno “Concordia d’Intenti e d’Azione”, prendendo in giro ancora una volta il proletariato con il bluff dell’antimilitarismo del partito: «Coloro che già sognavano scissure, che già s’allietavano per una eventuale scissura tra la Confederazione Generale del Lavoro e il PSI possono serbare per un’altra volta gli inni di soddisfazione e di gioia [...] In seno alla CGL la grande maggioranza, potremmo dire la quasi unanimità dei rappresentanti sente profondamente la necessità dell’azione socialista. Gli uomini che dirigono le organizzazioni del proletariato italiano sono socialisti e la loro manifestazione di pieno, cordiale accordo con questo partito socialista è stata grandemente significativa».

Al di là della fraseologia, più o meno di sinistra, al di là della buona o cattiva fede dell’individuo e del coraggio personale, e si è visto che non si trattava certo di un pusillanime, al di là di tutto ciò l’articolo di Serrati non era di incitamento alla lotta, ma solo di imbonimento: si promettono ai proletari futuri scontri di classe, ma si lascia il tempo trascorrere nell’inazione, nell’impreparazione e nella disorganizzazione. Si può sbandierare la unità del partito per il semplice fatto che anche i più sinistri della direzione non riuscivano a concepire la rottura drastica e definitiva con l’ala riformista.

Nella Assemblea del Consiglio Direttivo della Confederazione, a proposito dello sciopero generale, che l’Avanti! aveva dovuto sbandierare come obiettivo concorde di tutto il Partito, era proprio Serrati a seminare il dubbio sulla sua riuscita ed a gettare acqua sul fuoco. «Serrati pensa che dopo otto mesi di discussione intorno all’intervento, dopo otto mesi di guerra, debba essere generalmente diffuso il senso di orrore contro la guerra. E se ieri molti proletari sarebbero venuti a noi per istintiva ripugnanza contro la guerra, oggi dopo averne viste le conseguenze sarebbero pur sempre con noi. Ma si hanno forze sufficienti per contrastare ai voleri governativi? C’è fra la folla, fra i soldati profondo lo stato d’animo contro la guerra? Se questo esame convincesse delle possibilità di compiere il movimento di rivolta, si dovrebbe fare, o che fosse lo sciopero generale, o sciopero di 24 ore, o protesta, o semplice manifestazione oppositrice».

E questo sciopero, o semplice manifestazione, chi l’avrebbe dovuta fare, il partito o il sindacato? È ancora Serrati che chiede alla CGL se il sindacato intenda lasciare al Partito la direzione del movimento politico o voglia procedere di comune accordo. «Una risposta occorre darla [...] e la risposta richiesta sta appunto a significare che la Direzione del Partito non intende scaricare su alcuno le proprie responsabilità ma che desidera invece la più grande sincerità su questo grave argomento». Ce lo immaginiamo in Russia il partito bolscevico che, sovrastato dal dubbio della riuscita, alla ricerca dell’unità ad ogni costo con i più destri dell’ala destra menscevica, chiede il permesso ai sindacati di lanciare l’assalto rivoluzionario per la presa del potere? Certamente nessuna rivoluzione vi sarebbe mai riuscita se Lenin avesse adottato il metodo Serrati.

Dietro tanti interrogativi, tanti dubbi, paure e crisi di coscienza un solo aspetto risulta chiaro: la sostanziale rassegnazione del PSI di fronte alla eventualità dell’entrata in guerra dell’Italia e la tragica e complice passività della Direzione. Le masse proletarie a Milano prima e a Torino poi agiranno di propria iniziativa dichiarando lo sciopero generale. Gli eventi precipitano, la guerra è alle porte, ma dalla riunione d’aprile in poi non vi sarà un solo documento del partito che dica qualcosa di nuovo, che dia al proletariato una indicazione reale di lotta.

Serrati, divenuto ormai penoso, il 14 maggio scrive sull’Avanti!: «Se una rivoluzione scoppierà in Italia – e noi saremo allora al nostro posto – non sarà certo la rivoluzione dei mocciosi scolaruzzi che saltano la lezione in nome del patriottismo guerraiolo. Sarà la rivoluzione delle folle operaie e contadine alle quali la patria nulla ha dato fuorché miseria e dolori. Sarà la rivoluzione del popolo lavoratore, cui la bella guerra patriottica e democratica avrà fruttato solamente lacrime e sangue. Sarà la rivoluzione proletaria contro la continua pertinace cecità delle classi dirigenti che al popolo del lavoro – dopo l’unità della patria – non hanno saputo dare altro che delusioni e umiliazioni. La monarchia è a questo bivio. Scelga la sua strada. Noi non abbiamo consigli da darle né dilemmi da porle. L’aut-aut terribile è nelle cose».

Compito del partito serratiano, dunque, era quello di stare a vedere se la rivoluzione scoppiasse o meno; allora, bontà sua, sarebbe stato “al suo posto”! Significativamente l’articolo portava questo titolo: “Minacce a Ciarle e Minacce Reali”. È evidente che quelle di Serrati erano del primo tipo.

Ma c’era qualcosa di più e di peggiore: non sarà soltanto il Gruppo Parlamentare ad amoreggiare con Giolitti (che, da vecchio volpone, si dichiarava contrario alla guerra ma usciva prudentemente dalla scena politica); sarà lo stesso organo ufficiale del partito a riporre le proprie speranze non sulla mobilitazione operaia, ma sui giolittiani e perfino sui clericali. Siamo ad una settimana dall’entrata in guerra. Il 16 maggio, in un fondo dell’Avanti! a firma Francesco Cicciotti si legge: «Il Partito Socialista [...] non può essere né coi clericali né coi giolittiani [...] Ma se avviene che in questa lotta esso si incontri coi clericali e coi giolittiani, senza unire coi loro i propri sforzi, senza mutare alla propria irriducibile ostilità alla guerra la schietta fisionomia di classe, non può non essere lieto di questo incontro». Non stiamo a commentare: abbiamo già visto come giolittiani e clericali, all’atto del voto, si sarebbero schierati a stragrande maggioranza a favore della guerra.

La Direzione del PSI, riunitasi per l’ultima volta il 16 maggio a Bologna riesce solo a riaffermare la «avversione incrollabile del proletariato all’intervento dell’Italia». Come il Prefetto di Milano aveva facilmente previsto! Tutto l’andamento della riunione di Bologna può essere sintetizzato in un telegramma di 15 parole spedito dal viareggino Luigi Salvatori, il quale amaramente commentava: «Giornata bizantina e mortificante. Un mio ordine del giorno chiedente sciopero ha ottenuto mio solo voto».

Subito dopo il Convegno la sinistra giovanile rivoluzionaria ammetteva la propria sorpresa e dolore nel venire a conoscenza del delibato bolognese. Si legge su La Lotta di Classe del giorno 22 maggio, sotto il titolo “Al grido di Evviva la Patria noi rispondiamo col grido di Abbasso la Guerra”: «Confessiamolo apertamente: questa deliberazione ci ha sorpresi ed addolorati. Da una piena luce meridiana siamo improvvisamente precipitati nel crepuscolo. Noi abbiamo sentito così svanire la più forte delle nostre speranze, da cui avevamo tratta la energia per affermare, dallo scoppio della guerra europea fino ad oggi, la concezione precisa e l’obiettivo sicuro del partito socialista. Non crediamo che questo stato d’animo si sia prodotto solamente in noi: esso deve essere comune a tutti quei compagni che da un capo all’altro d’Italia si sono battuti virilmente per impedire il prevalere della corrente guerraiola. Ebbene, i dirigenti del Partito hanno suonato la ritirata, mentre ci preparavamo con un estremo sforzo a piantarci saldamente sulle posizioni ambite. Ci hanno fatto credere all’impeto degli avversari proprio quando costoro erano alla disperazione [...] Non occorrevano certo nove mesi di preparazione per concludere alla vigilia della guerra che il nostro partito separa le proprie responsabilità da quelle delle classi dirigenti. V’è forse qualche socialista che abbia dei dubbi al riguardo? [...] Per certo la maggioranza dei convenuti di Bologna non ha capito il momento grave che si attraversa e non ha sentito la voce del paese. Se non fosse così non avrebbe compiuto la viltà, che si vuol gabellare per prudenza, di ritirarsi dal terreno della lotta e di fare ala al nemico che passa, quando tutti gli occhi convergevano ansiosamente su Bologna per colpire il segnale che agli uomini di fede, che alle masse indicasse essere giunto il momento di esprimere la più intensa energia per impedire al fantasma sanguinoso di offuscare il cielo d’Italia. La proclamazione dello sciopero generale nazionale era il solo epilogo degno dell’atteggiamento del partito [...] Noi abbiamo perduta un’occasione magnifica per elevare di cento cubiti il prestigio del nostro partito: viceversa con la nostra ritirata abbiamo diffuso la persuasione di una debolezza che non esiste [...] Pochi manipoli di energumeni, briachi di patriottismo somministrato in abbondante dose da una stampa venduta ci hanno trattenuto dal compiere l’ultimo atto dignitoso, forte e logico [...] Non si chiamò il proletariato perché disperdesse quei quattro mocciosi che gridavano come forsennati sol perché trovavano le piazze e le vie libere: i nostri dirigenti attendevano l’alba del 16 maggio con la stessa sicurezza con cui il suicida aspetta intrepido il treno che lo deve frantumare [...] Il parlamentarismo ed il riformismo hanno ucciso lo spirito rivoluzionario dei socialisti e dei proletari d’Italia».

Il 24 maggio l’Avanti! pubblicava la dichiarazione ufficiale del PSI: «Spontaneamente ci traiamo in disparte; lasciamo che la borghesia faccia la sua guerra».

Lo stesso giorno, sullo stesso giornale veniva pubblicato anche un articolo di ben diverso tenore, “Il Fatto Compiuto”: «Era inevitabile. Nel tragico svolto della storia, che dalla neutralità ci porta alla guerra, le mezze coscienze si sono già confezionate l’alibi per coonestare la defezione. Dopo aver fatto tutto il proprio dovere per evitare la guerra, sarebbe dovere dei socialisti di “accettare il fatto compiuto” e raccogliere l’invito alla cooperazione nazionale dei partiti per la vittoria delle armi d’Italia. Tutto il proprio dovere? [...] Anche i socialisti degli altri paesi, su cui da tanto tempo andiamo trinciando giudizi e promulgando condanne, hanno separate le loro responsabilità e fatto il loro dovere... fino al momento della guerra. E se noi non sapremo fare nulla più di loro dopo aver avuto tutto il tempo di studiare le cause che li indussero in errore, ci copriremo di ridicolo e di ignominia [...] E chi riconosce giusto che il proletariato protesti contro la miseria e la fame, può osare di soffocare l’indignazione quando addirittura si attenta alla sua vita? È un attentato che noi non potemmo impedire, così come non possiamo ancora impedire lo sfruttamento capitalistico per la immaturità delle forze proletarie. Ma non per questo noi desistiamo dalla nostra incrollabile avversione al mondo presente ed alla triste realtà che permette la servitù economica e la più infame servitù militare a danno della grande maggioranza degli uomini [...] Oggi il “neutralismo”, questo infelice vocabolo che ci attirò tante calunnie, è morto [...] È oggi che, magnificamente soli, contro tutta la borghesia di ogni partito, possiamo e dobbiamo mostrare che l’antimilitarismo e l’internazionalismo non sono concetti vuoti di contenuto e non sono il paravento della pusillanimità panciafichista [...] O fuori o dentro dal preconcetto nazionale e dagli scrupoli patriottici. O verso uno pseudo socialismo nazionalista o verso una nuova Internazionale. La posizione di chi nell’avversare la guerra non nascondeva una doppiezza miserabile non può essere che una, oggi che la guerra è un “fatto compiuto”: contro la guerra, per il socialismo antimilitarista e internazionale!».

Scriverà Lenin nel luglio dello stesso anno: «Chi accetta la parola d’ordine “né vittorie né sconfitte” può dire solo ipocritamente di essere per la lotta di classe, per la “rottura della pace civile” ma di fatto tradisce la politica proletaria indipendente, imponendo al proletariato di tutti i paesi in guerra un compito perfettamente borghese: difendere dalla sconfitta i diversi governi imperialisti. L’unica politica di rottura – non a parole – della “pace civile”, di riconoscimento della lotta di classe, è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli».

Ma già nel maggio 1915 v’era tra i socialisti italiani chi poneva nei giusti termini storici questo punto della violenza di Stato e della violenza di classe. Nel Il Socialista di Napoli del giorno 22 si legge: «Fermi al nostro Posto. La guerra è decisa. Come più volte avevamo preveduto, si lancia a noi socialisti l’appello ipocrita alla solidarietà nazionale in nome della patria in pericolo [...] Ma l’appello alla concordia nazionale provoca ancora di più il nostro sdegno per tutto il sistema di menzogne, di viltà e di sopraffazioni che vediamo impiegato allo scopo di creare un artificiale entusiasmo popolare per la causa della guerra [...] E noi dovremmo accettare l’invito di associarci all’inno per la guerra liberatrice e democratica? [...] Noi dovremmo mostrare di credere alle menzogne ufficiali, con cui si giustifica l’intervento a base di frasi retoriche, mentre la storia ci dimostra una volta di più che la politica degli Stati borghesi ed in particolare dello Stato italiano è un tessuto di ipocrisia e di cinismo? [...] Ma spingete pure al massimo la tregenda delle menzogne! Noi non saremo giammai i vostri complici!».
 
 

Parlamentarismo contro-rivoluzionario nel primo anno di guerra

Alla fine del settembre 1915 la Direzione del PSI si riuniva ed approvava un o.d.g. contro la politica repressiva del governo. Il documento veniva totalmente censurato. Ma l’Avanti! lo pubblicava ugualmente il 13 ottobre inserendolo nella pagina dedicata a Zimmerwald di cui già abbiamo parlato. Nell’ordine del giorno della Direzione del Partito si possono leggere passaggi di questo tenore: «La Direzione del Partito Socialista Italiano – constatato che i fatti hanno dimostrato ancora una volta la menzogna della sacra concordia nazionale, quando invece è più manifesta la ragione degli antagonismi di classe – invita il Gruppo Parlamentare socialista a portare alla Camera la protesta del Partito e della classe lavoratrice, agitandovi tutte queste gravissime questioni, sulle quali è assolutamente necessario richiamare l’attenzione del paese. Riferendosi poi particolarmente alla situazione politico-parlamentare e alla prossima azione del Gruppo socialista alla Camera; mentre rinnova la propria alta protesta contro i pieni poteri concessi al Governo e contro il prolungato differimento dei lavori parlamentari che – contrariamente a quanto avviene in tutti gli altri paesi belligeranti – ha sottratto il potere esecutivo al pubblico controllo nei momenti più difficili della politica; la Direzione, riaffermando i deliberati degli ultimi congressi dai quali tiene il mandato, esprime la necessità di accentuare la intransigente lotta di classe contro ogni frazione delle rappresentanze politiche borghesi nelle diverse e mutevoli loro espressioni esteriori, ed è sicura che il Gruppo Parlamentare continuerà a mantenere isolata la propria azione di opposizione contro il governo, contro la reazione, contro la guerra».

Queste poche righe sono sufficienti ad evidenziare tutta l’ambiguità che albergava all’interno del Partito. Innanzi tutto si vede come al Gruppo Parlamentare Socialista venisse riconosciuto lo status di organo politico indipendente, dal quale il partito si aspettava un certo comportamento ma al quale non si sentiva in grado di dare disposizioni precise, men che meno imporre la disciplina di partito con direttive nette e vincolanti. Se, da un lato, è vero che nella risoluzione c’è il richiamo alla intransigenza nella lotta di classe contro tutte le espressione della classe borghese, allo stesso tempo, la stessa Direzione del partito si rammarica per il fatto che al Parlamento, organismo borghese per eccellenza, fossero state tolte le prerogative di controllo sull’azione del governo. Come se non fosse stato proprio il parlamento a concedere, democraticamente, i pieni poteri al governo!

È evidente che i pieni poteri di cui il governo si avvaleva ed il prolungato differimento dei lavori parlamentari non crucciavano per niente i democratici borghesi, i quali, il 1° dicembre, alla riapertura della Camera, votavano un o.d.g. di approvazione della politica governativa con la bellezza di 405 suffragi favorevoli contro solo 48 contrari. Oltre a questa quasi unanime adesione va rilevato anche un altro aspetto, ed è quello che i consensi furono addirittura maggiori di quanti il governo ne avesse ottenuti nel maggio precedente, al momento dell’entrata in guerra. Giolitti, assieme ad altri oppositori di Salandra, disertò la votazione, mentre Meda ed un consistente gruppo di cattolici dichiararono di essersi convertiti alla necessità della guerra.

L’11 dicembre prese la parola Turati, e qui si vede come i deputati socialisti mettevano in pratica le indicazioni del Partito. Nel suo intervento Turati accusò il governo di non avere compreso come il Gruppo Parlamentare Socialista avesse lavorato per evitare che il PSI ponesse degli ostacoli e delle difficoltà insormontabili all’azione governativa. Ricordò come, dopo il “maggio radioso”, lui stesso, assieme a Prampolini e Merloni, si fosse recato da Salandra per dichiarargli il loro proposito di operare affinché non si verificassero lotte intestine nel corso della guerra e, per realizzare ciò, i parlamentari socialisti avessero richiesto al governo un atteggiamento comprensivo nei confronti delle masse: «Se noi non credevamo in modo assoluto ai pretesi prodigi della guerra di liberazione, potevamo riconoscere che un esito, il quale rintuzzasse certe egemonie militaresche [cioè, gli Imperi Centrali - n.d.r.] agevolasse il ricostituirsi delle nazionalità e favorisse il progresso in Europa degli elementi di democrazia, presenterebbe dei vantaggi anche per il proletariato, e a ciò avrebbe efficacemente contribuito l’intervento attivo e consapevole delle masse interessate. Ma per questo bisognava trattare queste masse, e i partiti che le rappresentano, in modo civile» (Avanti!, 12 dicembre 1915).

Il numero 11 di Critica Sociale del giugno 1915 era uscito con molte pagine bianche, infatti la censura aveva eliminato sia un discorso pronunciato alla Camera da Filippo Turati sia un articolo di Francesco Ciccotti intitolato “Gli Obiettivi dell’Italia nella Futura Sistemazione Europea”. Turati non mancherà di far rilevare, in Parlamento, come Salandra non fosse stato ai patti e, soprattutto, come, censurando i due interventi, non avesse compreso il vero spirito con il quale, specialmente l’articolo di Ciccotti, erano stati concepiti. «Un articolo di politica estera, nel quale – dirà Turati – con molta finezza, si cominciava a preparare la mentalità della massa a intendere l’importanza, per la democrazia avvenire, di una vittoria della Quadruplice».

In seguito vedremo altre brillanti imprese sia di Turati sia dei suoi colleghi parlamentari, ma fin d’ora con piena ragione di causa possiamo affermare che fu certamente più deleterio per il proletariato l’atteggiamento dei riformisti del PSI di quanto non lo fosse stato l’aperto passaggio di Mussolini nel campo del nemico di classe. Ma, ancor più deleterio di entrambi fu il falso rivoluzionarismo della Direzione del partito che, professandosi incondizionatamente aderente alle idee ed ai metodi di Lenin, paralizzava il proletariato e lo consegnava inerme al carnefice imperialista.

Dal 18 al 21 gennaio 1916 si riunì a Bologna la Direzione del PSI e tra le altre cose affrontò la questione dei cosiddetti “Maddaleni pentiti”, cioè quei socialisti interventisti che ora chiedevano di poter rientrare nel partito. A tale riguardo venivano date disposizioni alle sezioni locali di valutare singolarmente, caso per caso, e di «vigilare attentamente perché coloro che sono stati nel partito e ne uscirono per contribuire in qualsiasi modo alla creazione del presente disagio e che hanno assunto per esso qualsiasi responsabilità, siano tenuti lontano dal nostro movimento, il quale non può certo giovarsi dell’adesione di elementi incerti e malfidi». Su questo argomento non è tanto la risoluzione della Direzione che ci interessa, peraltro molto blanda e diplomatica, si noti come si eviti di usare la parola “guerra”, sostituita dall’espressione “presente disagio”. Invece interessante è il fatto che quei socialisti che a causa del loro interventismo erano usciti dal partito, sentivano di poterci tornare, ora che il PSI aveva perduto ogni connotato di classe.

Il 1° marzo si riaprì la Camera, i socialisti richiesero la discussione sul bilancio del Ministero degli Esteri, discussione che venne democraticamente bocciata a larghissima maggioranza. Non solo la discussione non avvenne, ma i socialisti furono accusati di “sabotaggio della resistenza nazionale”. Questa era un’accusa che i social-riformisti non potevano tollerare, nemmeno fossero stati dei seguaci di Lenin! Ed infatti Turati tenne a precisare che «a parte il fatto che nessun cittadino può volere il male della sua terra, a parte il contenuto ideale della guerra, noi non possiamo sabotare questa se non altro perché all’indomani della guerra stessa non ci si abbia ad addebitare di esserci opposti a quell’eventuale meglio che potrà dalla guerra derivare al popolo italiano ed ai popoli tutti».

Il 7 i socialisti presentavano una mozione perché il governo provvedesse in maniera adeguata alle famiglie dei militari aumentando l’indennità giornaliera ed estendendola anche a quei ceti piccolo borghesi che a causa della guerra erano ridotti alla miseria. Turati illustrò la mozione affermando che «la guerra non si vince solo nelle trincee, ma anche nel paese, con provvedimenti che rinsaldino la concordia nazionale e prevengano il malcontento e la disperazione delle masse» (Malatesta, “I Socialisti Italiani durante la Guerra”). La mozione fu respinta con 281 voti, contro 25.

In quei giorni vi fu pure il tentativo di sfiduciare il governo Salandra, non riuscito perché il governo ottenne 394 suffragi favorevoli contro 61 contrari. Oltre ai socialisti votarono contro il governo i nazionalisti; quest’ultimi accusavano Salandra di scarsa energia nel ricorrere ai sistemi repressivi nei confronti di socialisti e proletari.

In aprile 1916 si tenne la conferenza di Kienthal alla quale il PSI, così come aveva fatto a Zimmerwald, partecipò ufficialmente. Abbiamo già visto che la maggioranza della delegazione italiana riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti del Bureau della Seconda Internazionale aveva assunto una posizione di destra, mentre Serrati e la Balabanoff, in quella occasione, aderirono alla mozione presentata dalla Sinistra che richiedeva la rottura con la Seconda Internazionale e la costituzione di una Terza epurata da tutti gli elementi che, di fronte alla prova della guerra, avevano rinnegato l’internazionalismo proletario.

Serrati stesso, più di un anno dopo, sull’Avanti! del 20 dicembre 1917, a rivoluzione d’Ottobre compiuta, ricordava quella sua presa di posizione in questi termini: «Noi condividiamo le idee e i metodi di Lenin. Al convegno di Kienthal, mentre i nostri compagni deputati Modigliani, Dugoni, Morgari, Musatti, e Prampolini facevano le proprie riserve circa la portata di alcune dichiarazioni e tesi di principio presentate al Convegno da una speciale Commissione, noi, che di quella commissione, assieme a Lenin facevamo parte, dichiarammo la nostra incondizionata adesione a quella tesi». Queste sono affermazioni che avrebbero dovuto uscire dalla penna di un rivoluzionario a tutta prova e non di un esponente di spicco di un partito che, messo di fronte alla prova dei fatti, in nome di una unità fasulla abbandonava i rivoluzionari per stare dalla parte della destra ultra riformista ed ultra opportunista.

Dal 21 al 23 maggio 1916 si riuniva di nuovo, a Roma, la Direzione del PSI. In questa occasione, tra le altre cose, veniva deliberato di chiedere un convegno dei Partiti socialisti dei paesi belligeranti e neutrali, con questa motivazione e per queste ragioni: «Presa visione della circolare di convocazione dei socialisti dei paesi neutrali, diramata dal Bureau socialiste international di Bruxelles, ora trasferito all’Aia; viste le discussioni e le delibere del Convegno di Kienthal; rileva essere del tutto strana ed arbitraria la distinzione fatta dalla presidenza dell’Ufficio stesso tra socialisti dei paesi neutrali e belligeranti. Questa distinzione, voluta, purtroppo, dalle borghesie e dagli Stati imperialisti, non può essere accettata da noi. Né l’Ufficio socialista internazionale ha diritto alcuno di darsi una diversa funzione da quella che gli venne conferita dai Congressi dei quali è emanazione. Richiamandosi quindi ai deliberati delle riunioni internazionali, e specialmente delle ultime di Copenaghen, Stoccarda e Basilea, la Direzione fa invito all’Ufficio socialista internazionale, onde esso convochi al più presto, nei modi e nelle forme stabilite dai Congressi e dalle consuetudini, i rappresentanti di tutte le Sezioni nazionali, nessuna esclusa ed eccettuata, onde deliberare in merito alla situazione». Qui non era il Gruppo Parlamentare, ma la Direzione del partito che, pur criticando il comportamento del Bureau internazionale ne riconosceva senza ombra di dubbio l’autorità. Ci voleva un bel coraggio ad affermare, come Serrati, di condividere le idee e i metodi di Lenin! Nel corso della stessa riunione ci si compiaceva con il Gruppo Parlamentare per la sua coerente azione contro il governo!!

Il 6 giugno riapre la Camera, Prampolini interviene e conclude il suo discorso «augurandosi fervidamente che quel desiderio di pace del quale si sono fatti eco i Partiti socialisti di tutta Europa, diventi presto così possente da imporre ai Governi la cessazione dell’orribile carneficina che si sta compiendo. Viva l’Internazionale dei lavoratori!». Un discorso scialbo, soprattutto era insostenibile il riconoscimento ai partiti socialisti di amore per la pace. Ma Prampolini chiedeva semplicemente la pace e non la vittoria, la pace imposta agli Stati per opera del proletariato. E questo era certo considerato troppo estremista da Turati che il giorno dopo, prendendo la parola, espresse una concezione del tutto differente. I passaggi maggiormente posti in rilievo dai giornali furono questi: «Avversari della guerra per ragioni assolute di dottrina ed anche per ragioni contingenti di opportunità, i socialisti ufficiali [denominazione che venne data al Partito Socialista dopo l’espulsione dei bissolatiani nel 1912 - N.d.r.] nulla hanno mai compiuto e nulla compiranno che possa avere per effetto uno svigorimento delle energie del paese e un indebolimento della difesa nazionale, opera che sarebbe idiota e nefanda, perché, per il proletariato di tutti i paesi, vi è qualche cosa peggio della guerra ed è la disfatta».

Parole del genere pronunciate da un Turati non possono avere la minima scusante. Il socialismo della Seconda Internazionale si era schierato, in Italia ed tutti gli altri paesi, dalla parte della propria borghesia non perché credesse nell’esistenza di comuni interessi tra le due classi antagoniste all’interno dello Stato nazionale, ma perché aveva aderito al partito della conservazione dello Stato capitalista, alla sua difesa contro la minaccia rivoluzionaria del proletariato.

Ad esempio, sulla Critica Sociale, rivista che veniva letta non dai proletari ma da una strettissima cerchia di intellettuali, Claudio Treves scriveva: «In complesso è certissimo che, se, prima della dichiarazione della guerra e subito dopo, buona parte della borghesia era incerta, perplessa, angosciata anche, temendo un altro agosto 1914, e la sua adesione alla guerra era contornata da molte riserve, ora essa si è data tutta con fiducia, con serenità e letizia, al suo dovere patriottico, mostrando uno zelo che cresce ogni giorno. La guerra convince la borghesia per i suoi immensi risultati economici, indipendentemente dall’esito storico-militare [...] Coloro che “respirano”, a così dire, l’economia classica secondo la critica marxista [Treves allude a se stesso ed ai suoi compagni - N.d.r] ben intendono questo fenomeno, per cui la guerra accelera, con tutti i suoi vantaggi e i suoi danni, a opposto polo, il ritmo della economia generale e può diventare, per sé, un beneficio ed una salvezza per la classe economicamente prevalente [...] di cui il segno più tangibile è forse il crescente furore antiproletario a antisocialista che anima tutte le scuole della democrazia borghese» (n.10, 16 maggio 1916).

Ad avvalorare la sua enunciazione teorica, Treves riporta gli estratti di “Relazione agli azionisti” di due differenti banche. Banca Commerciale: «Dalla stretta degli avvenimenti ebbero a subire variazioni e spostamenti sensibili le industrie e i commerci in genere. Ebbero vita intensa e notevole incremento le aziende direttamente o indirettamente connesse alle necessità belliche dello Stato in tutte le svariate loro forme e quelle riferentesi a generi e merci di generale consumo e di prima necessità, anche perché maggiormente poterono fruire dell’abbondanza di munerario creato dalle ingenti liquidazioni per contanti da parte dello Stato». Banca Italiana di Sconto: «Tanto il periodo della neutralità, quanto quello della guerra, non furono senza vantaggio per alcuni rami della produzione. Le industrie meccaniche e in particolare le automobilistiche, grazie alle copiose ordinazioni di casa ed all’estero, erano rifiorite di vitalità e cresciute di sviluppo. La siderurgia non ancora uscita dal faticoso periodo del riordinamento finanziario, libera ormai da ogni molesta competizione, si avviò rapida verso il suo assetto definitivo. Anche le industrie tessili, e fra esse prima la cotoniera, benché non del tutto guarita dalla sopraproduzione, trovarono modo di vendere a buon patto gli stocks che tanto ne avevano appesantito lo stato finanziario e allentato il ciclo della produzione. Non più in questo campo fusi inattivi, orarii interrotti e officine inoperose. La guerra, con le prementi e improvvise richieste, guarì situazioni non facili e ridestò energie manifatturiere sofferenti e sopite».
 
 

Governo di unità nazionale e complicità socialista con l’imperialismo patrio

Contemporaneamente si era andata maturando la crisi ministeriale, che avrà il suo epilogo nel mese di giugno e condurrà alla creazione del secondo gabinetto di guerra. Le correnti più accese dell’interventismo, già scontente di Salandra, che accusavano di scarsa energia nei riguardi dei “disfattisti” interni, e di non voler dichiarare la guerra alla Germania, si erano levate contro di lui in modo deciso dopo l’offensiva austriaca sugli Altipiani, iniziatasi il 15 maggio, e arrestata proprio in quei giorni. La confluenza delle due estreme correnti riesce a vincere: il 10 giugno il Ministero viene posto in minoranza.

Il 17 giugno nasce il Ministero Boselli, un vero governo di concordia nazionale; comprende gli ex socialisti Bonomi e Bissolati; il “neutralista rassegnato” Sacchi, il “temporalista” Meda. La composizione del governo era calibrata in modo che tutti i gruppi politici presenti in Parlamento fossero rappresentati. Solo i socialisti restavano fuori da quella unione sacra, per quanto il nuovo Ministro dell’Interno, Vittorio Emanuele Orlando, non fosse persona sgradita al Gruppo Parlamentare Socialista; per di più Orlando aveva scelto come suo primo collaboratore Camillo Corradini, legato a Turati da rapporto di amicizia; e infatti l’Avanti! del 25 giugno dava notizia di un incontro tra Turati ed il nuovo Ministro dell’Interno. Luigi Alberini, direttore del Corriere della Sera, nelle sue Memorie commenterà così questi avvenimenti: «Orlando cominciava subito a tessere idilli con l’estrema sinistra. Così i socialisti ed i loro affini riprendevano a salire e scendere le scale di Palazzo Braschi, ciò che non facevano da oltre due anni con loro grande accoramento. Tra i primi era Turati, il quale aveva subito un colloquio “cordialissimo” con Orlando».

Il giudizio ufficiale del Gruppo Parlamentare Socialista nei confronti del governo Boselli è espresso da un o.d.g. in cui viene definito come «prodotto di una sofisticazione parlamentaristica delle ragioni vere e delle indicazioni precise della crisi ministeriale », con una composizione tendente «alla peggiore svalutazione delle funzioni parlamentari, trasferendo il compito dei Partiti e cercando di soffocarne i necessari e fecondi contrasti». Viene rilevato che la sua politica estera «opta per l’immobilismo e rimane orientata verso l’imperialismo inglese». Quindi, il Gruppo afferma di mantenere immutati i suoi atteggiamenti sostanziali di opposizione alla guerra e a tutti i Governi che ne sono e ne saranno i responsabili ed i gestori. Ma, dopo queste affermazioni, il Gruppo socialista ammorbidisce in finale i toni accesi dicendo che i comportamenti dei socialisti dipenderanno «dalle garanzie che il Governo offrirà, e soprattutto attuerà, specialmente per una politica interna economica e sociale, che assicuri il rispetto di tutte le opinioni, e la civile tolleranza per tutti gli inevitabili contrasti accesi dalla guerra». Veltronismo ante litteram? L’atteggiamento del Gruppo ottiene il consenso del Segretariato del Partito, che si dichiara soddisfatto dei “mirabili discorsi” dei deputati.

Nel luglio Cesare Battisti viene catturato dagli austriaci, processato e condannato all’impiccagione dal tribunale militare austriaco come traditore. I deputati socialisti, ed in particolare Turati, si associano ai colleghi borghesi nella esaltazione del martirio del “socialista” interventista. Nella Critica Sociale n. 15 del 1916, che riporta i discorsi tenuti da Turati alla Camera ed al Consiglio Comunale di Milano, si possono leggere espressioni di questo genere: «In te rinverdisce l’albero a cui fu crocifisso Gesù e la catasta su cui arse il Bruno. E il tuo laccio ha distrutto più austriaci reggimenti che un giorno di disfatta [...] Noi abbiamo un doppio motivo per onorare, come socialisti, il nome e la memoria del compagno martire [...] Fu socialista della lotta di classe e per questo fu patriota [...] A lui noi inchiniamo tutti i nostri vessilli, fieri ch’egli fosse nostro, e che neppure la guerra l’abbia straniato da noi [...] Onoriamo il patriota che prima e sempre fu socialista, onoriamo il socialista che, nell’ora dei cimenti supremi, fu patriota». Quindi Battisti martire del socialismo. E Lenin? Traditore, agente del Kaiser!

Serrati, da parte sua, continuava ad interpretare il ruolo del perfetto rivoluzionario. Identificava la sua posizione con quella del gruppo di Liebknecht, Mehring, Rosa Luxemburg, Clara Zetkin affermando il dovere del proletariato di tutti i paesi di trarre dalla guerra capitalistica il logico insegnamento, trasformandola in guerra rivoluzionaria. Nei confronti del partito socialdemocratico tedesco era categorico: «Il proletariato internazionale non ha dato la propria adesione alla politica dei socialisti perché essi giochino la sua pelle sul tamburo della guerra coi dadi della diplomazia. Il proletariato ha creduto e crede nel socialismo internazionale, perché esso ha una propria politica di classe che non trae consigli e suggerimenti dalla borghesia francese o tedesca, ma esprime le proprie speranze e le proprie rivendicazioni dalla funzione stessa che i proletari compiono nella vita sociale» (Avanti!, 27 settembre 1916).

Ad aggravare ancor più la confusione all’interno del partito socialista ci fu la presa di posizione ufficiale del Gruppo Parlamentare espressa tramite un opuscolo redatto da Modigliani. Dell’opuscolo, che la censura impedì di rendere pubblico, siamo riusciti a rintracciare solo poche frasi sparse, ma che presentano (a chi non lo conosce) un gruppo parlamentare italiano, magari non rivoluzionario, ma senz’altro intransigente e che rifiuta ogni tipo di collaborazione con la classe borghese ed il suo Stato. Leggiamone alcuni spezzoni: «La guerra orrenda è il portato fatale del sistema capitalistico, il quale, nato nella violenza, cresciuto con la violenza, si illude di trovare nella violenza la soluzione della crisi provocata dagli appetiti crescenti dei suoi aggruppamenti imperialisti. E se tale è la verità, bene il proletariato cosciente ha rifiutato di solidarizzare con uno qualsiasi dei combattenti [...] Oggi questo è certo: la patria invocata dai capitalisti per scatenare una guerra la quale giova solo agl’interessi di ristrette minoranze, non può essere invocata per ottenere dal proletariato socialista che desista dall’opposizione alla guerra ed ai suoi fini [...] Il proletariato può subire, e deve intenderne le ragioni, questa guerra, ma dal subirla e dall’intenderla non gli derivano che nuove e più forti ragioni di condanna [...] Il proletariato ha bene il diritto di affermare che esso deve stare di fronte alla patria come di fronte al capitalismo».

Non si parlava di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, si enunciava solo la necessità del «trapasso a forme più alte di convivenza politica ed economica ». Inoltre, riprendendo l’infelice slogan di Lazzari, si diceva che il proletariato non avrebbe dovuto solidarizzare, ma nemmeno sabotare. Ma si era ben lontani da affermazioni del tipo di quelle commemorative di Cesare Battisti! E questo, alla resa dei conti, non fu un bene.

Il 5 dicembre si sarebbe riaperta la Camera. Il Gruppo Parlamentare fin dal 24 novembre aveva presentato alla Presidenza del Parlamento una mozione per la pace che terminava invitando il governo «a farsi autorevole interprete verso i governi alleati dell’urgente necessità di provocare [...] la convocazione di un congresso dei rappresentanti plenipotenziari dei paesi belligeranti con l’incarico – sospese le ostilità – di vagliare, al lume di quei principi concordemente conclamati, gli obiettivi e le rivendicazioni concrete delle parti in contesa, per una prossima soluzione del conflitto e per la salvezza d’Europa». Per i parlamentari socialisti il proletariato è completamente assente, e tale deve rimanere, dallo scenario politico; deve limitarsi ad essere carne da sfruttamento in tempo di pace e da cannone in guerra. Sono i governi a dover gestire la pace e la guerra in base ai loro “obiettivi” ed alle loro “rivendicazioni concrete”. I parlamentari socialisti italiani trasmisero il testo della mozione ai loro confratelli degli altri paesi invitandoli a fare altrettanto presso i rispettivi governi. Non sappiamo, e nemmeno interessa molto saperlo, se l’invito italiano, che non comprometteva niente e non impegnava nessuno, venne accolto dai partiti socialsciovinisti dei due schieramenti bellici. Comunque l’iniziativa, in Italia, riscosse la massima ostilità da parte di tutte le forze democratiche.

La borghesia italiana voleva ascoltare annunci di altro tenore, del tipo del discorso tenuto dal capo di governo, Boselli, in cui si assicurava che la vittoria avrebbe dato all’Italia il dominio sull’Adriatico e i «diritti imprescrittibili della nostra nazionalità sull’opposta sponda». Chi poteva fare eco al presidente del consiglio se non il riformista Turati? Il parlamentare socialista affermava la necessità della «rettifica del confine italiano in modo che all’Italia spetti ciò che veramente e indiscutibilmente è italiano, non esclusa, ove occorra, quella garanzia strategica a cui potesse aver diritto per assicurare la libertà dell’Adriatico». Nessuna meraviglia dunque se Boselli proponeva di rinviare di sei mesi la discussione della mozione socialista e se la Camera, intonata ai sacri principi della democrazia, approvava.
 
 

La condanna di Lenin del pacifismo borghese

L’intervento di Turati in Parlamento non sfuggì all’occhio vigile di Lenin che nell’articolo “Pacifismo Borghese e Pacifismo Socialista”, pubblicato il 1° gennaio 1917, scriveva: «Nell’organo centrale del Partito Socialista Italiano, l’Avanti!, del 25 dicembre 1916, il noto riformista Filippo Turati ha pubblicato un articolo che si intitola “Abracadabra”: Il 22 novembre 1916, egli scrive, il Gruppo Parlamentare Socialista italiano ha presentato in parlamento una mozione per la pace, nella quale, “constatato l’accordo di massima fra i principi proclamati dai rappresentanti delle maggiori potenze nemiche come basi di pace possibile, invita il governo a promuovere le trattative giovandosi della mediazione degli Stati Uniti d’America e degli altri Stati neutrali”. Così espone il contenuto della mozione socialista lo stesso Turati. Il 6 dicembre 1916 la Camera “seppellisce” la mozione socialista “aggiornandone” la discussione. Il 12 dicembre il cancelliere tedesco propone al Reichstag, a proprio nome, ciò che volevano i socialisti italiani. Il 22 dicembre Wilson interviene con una nota, “pedissequa parafrasi – come dice Turati – dei motivi e dei concetti della mozione socialista”. Il 23 dicembre altri Stati neutrali entrano in scena parafrasando la nota di Wilson. Ci accusano di esser venduti alla Germania – esclama Turati – Non saranno venduti alla Germania anche Wilson e gli Stati neutrali?

«Il 17 dicembre Turati tiene in parlamento un discorso che, in un punto, produce una straordinaria – e meritata – sensazione. Eccone il brano, secondo il resoconto dell’Avanti!: “Supponiamo che una discussione come quella che vi propone la Germania sia atta a risolvere facilmente solo talune questioni nelle loro grandi linee, come la evacuazione del Belgio, della Francia, la restaurazione della Romania, della Serbia e, se vi piace, del Montenegro; ed io vi aggiungo una rettificazione del confine italico per ciò che è indiscutibilmente italiano e risponde a garanzie di carattere strategico”. A questo punto la Camera borghese e sciovinistica interrompe Turati; da ogni parte si grida: “Benissimo! Dunque volete anche voi tutto questo! Viva Turati! Viva Turati...” Turati, sentendo che evidentemente qualche cosa non va in questi trasporti della borghesia, tenta di “correggersi” o di “spiegarsi”: “Signori – egli dice – non giochiamo di piccole abilità. Altro è ammettere l’opportunità e il diritto dell’unità nazionale, da noi sempre propugnato, ed altro invocare o giustificare la guerra per questo scopo”. Ma le “spiegazioni” di Turati, gli articoli dell’Avanti! in sua difesa, la lettera di Turati del 21 dicembre, lo scritto di un certo «b.b.» nel Volksrecht di Zurigo non “correggono” minimamente la situazione e non cancellano il fatto che Turati si è tradito! O, meglio, non si è tradito Turati, ma tutto il pacifismo socialista rappresentato anche da Kautsky e, come vedremo più avanti, dai “kautskiani” francesi. La stampa borghese italiana ha avuto ragione d’impadronirsi di questo passo del discorso di Turati e di giubilarne.

«Il predetto “b.b.” si studia di difendere Turati, affermando che egli avrebbe parlato soltanto del “diritto di autodecisione delle nazioni”. Pessima difesa! Che c’entra qui il “diritto di autodecisione delle nazioni”, quando tutti sanno che, nel programma dei marxisti, esso riguarda – come nel programma della democrazia internazionale ha sempre riguardato – la difesa dei popoli oppressi? Che c’entra questo diritto nella guerra imperialistica, cioè nella guerra per la spartizione delle colonie, per l’oppressione dei paesi stranieri, nella guerra che i paesi oppressori e rapinatori combattono tra di loro per sapere chi opprimerà un maggior numero di popoli stranieri? Invocare l’autodecisione delle nazioni per giustificare una guerra imperialistica, non nazionale, è forse diverso dal contrapporre, come fanno Alexinski, Hervé, Hyndman, la repubblica in Francia alla monarchia in Germania, benché tutti sappiano che la guerra in corso non è un conflitto tra il principio repubblicano e quello monarchico, ma un conflitto per la spartizione delle colonie, etc., tra due coalizioni imperialistiche?

«Turati ha cercato di spiegarsi, e di scagionarsi dicendo che non intendeva “giustificare” affatto la guerra. Prestiamo fede al riformista Turati, al Turati sostenitore di Kautsky, quando dice che non era sua intenzione giustificare la guerra. Ma chi ignora che in politica non contano le intenzioni ma gli atti? non i pii desideri ma i fatti? non l’immaginario ma il reale? Turati non avrà voluto giustificare la guerra, e Kautsky non avrà voluto giustificare la trasformazione della Turchia in Stato vassallo dell’imperialismo tedesco. Ma nei fatti i due ottimi pacifisti sono giunti proprio a giustificare la guerra! Ecco il punto. Se Kautsky, non in una rivista tanto noiosa che nessuno la legge, ma dalla tribuna parlamentare, dinanzi a un pubblico borghese vivace, impressionabile, con un temperamento meridionale, avesse pronunciato una frase come: “Costantinopoli non deve appartenere alla Russia, la Turchia non deve diventare uno Stato vassallo di un qualsiasi altro Stato”, non sarebbe stato affatto sorprendente che i borghesi più arguti esclamassero: “Benissimo! Perfetto! Viva Kautsky!”

«Turati si è posto di fatto – l’abbia voluto o no, ne abbia avuto o no coscienza – dal punto di vista di un sensale borghese che proponga un’amichevole transazione fra predoni imperialistici. La “liberazione” delle terre italiane appartenenti all’Austria sarebbe di fatto una ricompensa camuffata, concessa alla borghesia italiana per aver preso parte alla guerra imperialistica al fianco di una potente coalizione imperialistica, sarebbe un’aggiunta trascurabile alla spartizione delle colonie in Africa, alla delimitazione delle sfere d’influenza in Dalmazia e in Albania. È forse naturale che il riformista Turati si allinei con la posizione borghese, ma in concreto Kautsky non si distingue affatto da Turati.

«Per non abbellire la guerra imperialistica, per non aiutare la borghesia a spacciare falsamente questa guerra come una guerra nazionale, di liberazione dei popoli, per non trovarsi sulle posizioni del riformismo borghese, si sarebbe dovuto parlare, non come Kautsky e Turati, ma come Karl Liebknecht, si sarebbe dovuto dichiarare alla propria borghesia che essa fa l’ipocrita quando parla di liberazione nazionale, che la guerra in corso non può concludersi con una pace democratica, se il proletariato non “rivolge le armi” contro i propri governi. Questa e solo questa poteva essere la posizione di un vero marxista, di un vero socialista e non di un riformista borghese. Lavora realmente per la pace democratica non chi ripete i pii propositi del pacifismo, che non dicono niente e a niente impegnano, ma chi denuncia il carattere imperialistico della guerra in corso e della pace che essa prepara, chi chiama i popoli alla rivoluzione contro i governi criminali.

«Qualcuno cerca a volte di difendere Kautsky e Turati dicendo che legalmente non si poteva andare più in là di un “accenno” contro il governo e che un tale “accenno” pur esiste nei pacifisti di questo genere. Conviene replicare che, in primo luogo, l’impossibilità di dire la verità legalmente non depone in favore dell’occultamento della verità, ma esige invece che si crei un’organizzazione e una stampa illegale, libera cioè dalla politica e dalla censura; che, in secondo luogo, vi sono momenti storici nei quali un socialista è tenuto a rompere con ogni legalità; che, in terzo luogo, persino nella Russia feudale, Dobroliubov e Cernyscevski seppero dire la verità o tacendo sul manifesto del 19 febbraio 1861 [Si tratta del manifesto sull’abolizione della servitù della gleba, firmato dallo czar Alessandro II il 19 febbraio 1861 - N.d.r.] o dileggiando e svergognando i liberali di quel tempo, che facevano esattamente gli stessi discorsi di Turati e di Kautsky».

Lenin, che dalle premesse sapeva trarre le dovute, logiche, conclusioni, termina il suo scritto affermando questi indiscutibili concetti: «Il 30 dicembre i giornali socialisti di Berna e di Zurigo hanno pubblicato il nuovo appello del CSI di Berna, cioè della Commissione socialista internazionale, organo esecutivo dell’unione di Zimmerwald. In quest’appello, che reca la data della fine di dicembre del 1916, si parla delle proposte di pace della Germania, nonché di Wilson e di altri paesi neutrali, e tutti questi interventi governativi vengono definiti – senza dubbio con piena ragione – come “la commedia della pace”, come “un gioco per imbrogliare i popoli”, come “ipocrite gesticolazioni pacifistiche dei diplomatici”. A questa commedia e a questa menzogna si oppone, come “unica forza” capace di assicurare la pace, etc., la “salda volontà” del proletariato internazionale di “volgere le armi non contro i propri fratelli, ma contro il nemico interno del proprio paese”.

«Queste citazioni ci mostrano nitidamente l’esistenza di due politiche radicalmente diverse che sono fino ad ora coesistite in seno alla unione di Zimmerwald e che si separano oggi in maniera definitiva. Da un lato, Turati dice con chiarezza, e molto giustamente, che la proposta della Germania, di Wilson, etc., è soltanto una “parafrasi” del pacifismo “socialista” italiano; inoltre, la dichiarazione dei socialsciovinisti tedeschi e la votazione dei francesi dimostrano che gli uni e gli altri hanno ottimamente apprezzato l’utilità di una copertura pacifistica della loro politica. Dall’altro lato, l’appello della Commissione socialista internazionale definisce commedia e ipocrisia il pacifismo di tutti i governi belligeranti e neutrali. Da un lato, Jouhaux si allea con Merrheim; Bourderon, Longuet e Raffin-Dugens si alleano con Renaudel, Sembat e Thomas; e i socialsciovinisti tedeschi Südekum, David, Scheidemann proclamano la prossima “ricostituzione dell’unità socialdemocratica” con Kautsky e con il “Gruppo socialdemocratico del lavoro”. Dall’altro lato, l’appello della Commissione socialista internazionale incita le “minoranze socialiste” a combattere energicamente i “propri governi” e “i loro mercenari (Soldlinge) socialpatriottici”. Delle due l’una. Denunciare l’inconsistenza, l’assurdità, l’ipocrisia del pacifismo borghese o “parafrasarlo” invece nel pacifismo “socialista”? Combattere i Jouhaux, i Renaudel, i Legien, i David come “mercenari” dei loro governi o unirsi invece a loro nelle vuote declamazioni pacifistiche di stampo francese o tedesco? Lungo questa linea passa oggi lo spartiacque tra la destra zimmerwaldiana, che si è sempre opposta con tutte le forze alla scissione dai socialsciovinisti, e la sinistra zimmerwaldiana, che, già a Zimmerwald, si era adoperata non senza ragione per separarsi pubblicamente dalla destra, prendendo posizione alla conferenza e, dopo di essa, sulla stampa con una sua piattaforma particolare.

«La questione non sta come la pongono i pacifisti, i kautskiani: o la campagna politica riformistica, o la rinuncia alle riforme. Questo è un modo borghese di porre la questione. In effetti, il problema si pone in questi termini: o la lotta rivoluzionaria, che – nel caso di un successo incompleto – dà come prodotto secondario le riforme (tutta la storia delle rivoluzioni in tutto il mondo lo dimostra), o niente altro che chiacchiere e promesse di riforma. Il riformismo di Kautsky, Turati, Bourderon, che si manifesta oggi nella forma del pacifismo, non solo accantona il problema della rivoluzione (e questo è già un tradimento del socialismo), non solo rinuncia in pratica ad ogni attività rivoluzionaria, sistematica e perseverante, ma giunge anche ad affermare che le manifestazioni di strada sono avventure (Kautsky nella Neue Zeit del 26 novembre 1915), giunge fino a difendere e a realizzare l’unità con avversari dichiarati e risoluti della lotta rivoluzionaria come i Südekum, i Legien, i Renaudel, i Thomas, ecc. Questo riformismo è assolutamente incompatibile con il marxismo rivoluzionario, che è tenuto a utilizzare in tutti i modi la presente situazione rivoluzionaria in Europa per la propaganda aperta della rivoluzione, per il rovesciamento dei governi borghesi, per la conquista del potere da parte del proletariato in armi, senza rinunciare minimamente a trarre profitto dalle riforme nello sviluppare la lotta per la rivoluzione e nel corso stesso della rivoluzione. L’imminente avvenire ci mostrerà come in generale si svilupperà la situazione in Europa e come in particolare si svolgerà la lotta del riformismo-pacifismo contro il marxismo rivoluzionario, e quindi anche la lotta tra le due ali dell’unione di Zimmerwald».
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 


La questione ebraica oggi

Capitoli esposti a Parma nel maggio e a Genova nel settembre 2007.

[Qui raccolta e riordinata]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il Marxismo e la Questione Militare

Seconda parte del rapporto esposto il 21 gennaio 2007 alla riunione di Sarzana.
 
 
 

4. La violenza nello sviluppo e nel crollo della società schiavista: Roma

(Continua dal numero scorso)

Quadro storico-economico

Combattere per sopravvivere è la regola imposta dalla necessità ai popoli migranti, come sono i primi romani, che trovato un territorio su cui insediarsi devono difenderlo da altri popoli e con esso difendere la loro libera esistenza; far parte dell’esercito rimane anche nelle generazioni seguenti, un dovere-onore.

La interdipendenza dei fatti economici e militari è così lampante in tutta la storia romana, sia nella fase di ascesa sia di declino, che solo un ostinato antimarxista la può mettere in dubbio o interpretarla in senso idealistico. Il rapporto economico-militare genererà a sua volta il rapporto politico-militare: la storia delle trasformazioni avvenute nell’ordinamento politico di Roma e della sua struttura costituzionale, su cui spesso si appunta l’interesse maggiore degli storici, è il riflesso della storia delle trasformazioni avvenute nel rapporto economico-militare.

La Roma più antica da semplice villaggio fortificato si ingrandisce diventando ben presto una vera città-Stato estesa su circa 300 ettari dove operano non solo pastori e contadini ma anche ottimi artigiani e commercianti. «È noto che la città sul Tevere non forniva le armi al suo esercito, altra causa della rovina economica dei milites: anche se minima la panoplia era personale. In origine si chiamava tutto insieme legione, derivato in prima istanza dalla falange oplitica; ma rispetto gli eserciti greci, che accentuano il carattere chiuso della formazione, si evolve in una direzione in certo qual modo opposta sviluppando specialmente la capacità di manovra nei campi di battaglia non pianeggianti. L’uso della formazione serrata con combattimento con la lancia privilegia la manovra collettiva mentre il combattimento individuale con la spada corta necessita, oltre che di grandi dosi di abilità, tecnica e coraggio, anche di un adeguato dispiegamento in campo che consenta sufficienti spazi di manovra protetti perché si possa esplicare efficacemente senza essere di impedimento ai compagni.

Già nell’età regia, epoca ancora avvolta nella leggenda e nel mistero, per la sua crescente espansione sul finire del VI secolo a.C. Roma necessita di una pianificazione delle sue energie e forme militari. «Il grande re etrusco Servio Tullio vincola la struttura militare di Roma al principio (riforma serviana) secondo cui sono gli abbienti, in proporzione al patrimonio terriero che possiedono, a dover provvedere alla difesa della Res Publica; e la lega all’ordinamento sociale centuriato. Secondo questa classificazione, la cittadinanza si articola, in rapporto al censo, in cinque diverse classi, a loro volta divise ciascuna in un certo numero di centurie (80 la prima, 20 la seconda, la terza, la quarta, 30 la quinta, più 18 per i cavalieri). Da queste ripartizioni si traggono, attraverso la leva (cui si riferisce lo stesso termine legio da legere “scegliere”) le forze armate della Res Pubblica. All’interno di ogni classe i seniores, gli anziani, formavano la riserva, mentre gli iuniores, i giovani, prestano servizio sul campo. Ai membri della prima classe e agli equites, i cavalieri, pur nel loro complesso assai meno numerosi del resto della popolazione, è attribuita, come si vede, oltre la metà delle centurie. Questi organi costituiscono le unità di voto, e pertanto le prime due classi di censo controllano, di fatto, i comitia centuriata, le assemblee del popolo in armi; ma, poiché è previsto che ogni centuria fornisca una quota fissa di soldati, spetta loro, per contrappasso, anche l’obbligo di contribuire nella medesima proporzione alla formazione dell’esercito. Le differenze di censo si riflettono, dunque sia sulle percentuali di arruolati, sia sull’armamento; e quindi nella funzione tattica delle diverse componenti: gli uomini della prima classe sono provvisti di elmo, scudo rotondo, schinieri, corazza, spada e lancia. La seconda classe porta armi simili, ma lo scudo è oblungo, ed elimina la necessità della corazza; la terza classe è equipaggiata come la seconda ma senza gli schinieri; la quarta ha solo lance e giavellotti; la quinta e ultima solo fionde e sassi. Il resto, i capita censi o infra classem, proletari o non abbienti (nel senso, tuttavia, che non possiedono ricchezze fondiarie), sono esonerati dal servizio militare pur formando una percentuale cospicua della popolazione. Vengono così messi sul piede di guerra i possidenti soltanto, al comando di ufficiali tratti di solito dal gruppo più facoltoso, quello degli equites, che formano un ceto a sé stante (grandi mercanti)».

Il grosso dell’esercito quindi era formato dai militi, la cui arma principale rimase per molto tempo la lancia, liberi cittadini prevalentemente piccoli proprietari terrieri la maggior parte dei quali avevano ricevuto la terra dal demanio statale, ager publicus, come compenso delle vittorie ottenute sui nemici. La figura classica del legionario romano è il contadino-soldato. “È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende” era un’antica massima latina, poi riciclata come sappiamo.

La spina dorsale degli eserciti romani erano i centurioni, sottufficiali venuti dalla gavetta e promossi per il loro valore e la loro esperienza; gli ufficiali superiori, o tribuni militari, provenivano dalle famiglie nobili o ricche che arrivavano a questo grado dopo un breve servizio come soldati semplici. I generali erano i magistrati in carica, consoli o pretori e non erano quindi dei professionisti della guerra.

Finché le campagne militari furono di breve durata e si svolgevano poco lontano da Roma, i cittadini sostenevano tutte le spese di equipaggiamento e di vettovagliamento, ma in seguito aumentando le campagne militari come numero e come dimensione esse furono sempre più a carico dello Stato, perché pochi erano in grado di sostenerle. La costosa armatura, sia della fanteria pesante, che era l’arma decisiva del combattimento, sia della fanteria leggera e a maggior ragione della cavalleria, era a carico dei più abbienti.

L’ascesa di Roma nel campo delle conquiste militari è da attribuire anzitutto alla fase di sviluppo che attraversava la sua economia e quella delle altre regioni italiche rispetto a quelle degli altri popoli del Mediterraneo, in fase di decadenza. La vittoria di Roma su Cartagine, la più grande potenza dell’epoca, non si spiega diversamente. La ristretta oligarchia di origine fenicia (punica in latino) dominante a Cartagine sfruttava i popoli amici o soggetti estorcendo forti tributi ed aveva da fare i conti con le rivendicazioni delle forze di lavoro interne, con le loro sollevazioni e con quelle dei mercenari di cui si formava l’esercito. Al contrario la società romana nel suo complesso risultava allora ancora cointeressata alle fortune dello Stato e più disposta a combattere. La classe dominante romana aveva irrobustito la sua compagine con gli elementi arricchitisi attraverso l’allargamento del commercio prodotto dalle guerre e che sulla guerra ancora puntavano per allargare ancora i loro interessi.

Vinta la seconda guerra punica, da considerarsi tra le più risolutive di quelle combattute nell’antichità, Roma si poneva su basi economiche e militari ancora più solide. Si era assicurato il grano della Sicilia nonché tutto il commercio ed i tributi prima riscossi dalla sua grande rivale e possedeva ormai una grande flotta mercantile e militare. Da queste nuove condizioni si doveva sviluppare quel forte spirito imperiale che doveva spingere la classe dominante alla conquista o al vassallaggio della Macedonia, dell’Asia Minore e dell’Africa Settentrionale.

I nuovi mercati e le nuove terre accrebbero ancora più le ricchezze d’Italia e di Roma dove alla fine di ogni guerra si facevano affluire, fra l’altro, schiavi a decine di migliaia. Alcune cifre come esempio di questo iniziale grande flusso di forza lavoro coatto: dopo la conquista di Agrigento, nel 262 a.C. furono venduti 25.000 prigionieri; 30.000 furono immessi sul mercato a Taranto nel 209 a.C.; 150.000 Molossi dall’Epiro nel 167 a.C.; 60.000 ne catturò Mario con la vittoria sui Teutoni nel 102 a.C.; nel 62 a.C. Pompeo ritornando in Italia dall’Oriente mise in vendita ben 2.083.000 schiavi e Giulio Cesare dalle Gallie tra il 58 e il 51 a.C. ne procurò 1.100.000. La stima del numero complessivo di prigionieri ridotti in schiavitù è molto difficile e non ci risultano statistiche in merito ma possiamo azzardare che dalla guerra tarantina e quelle puniche, quando Roma si espande a sud nella penisola e sulle coste mediterranee, fino alla sua caduta sei secoli dopo, l’ordine di grandezza è verosimilmente dell’ordine delle centinaia di milioni.

Questa enorme massa di schiavi fu usata in tutti i campi del lavoro per cui a un certo punto tutta la produzione era affidata al lavoro servile. I ricavi della loro vendita venivano distribuiti principalmente tra le casse dell’erario, i generali vincitori che facevano la parte del leone e i cavalieri che ampliavano i loro traffici, mentre ne usciva stremata la maggior parte dei piccoli proprietari, coltivatori diretti, che avevano formato il grosso dell’esercito. Molti erano stati uccisi in guerra; i poderi trascurati per l’assenza degli uomini validi o devastati dai nemici. Molti per sopperire alle spese per la guerra avevano preso denaro a prestito dando in pegno le loro terre, che spesso perdevano non potendo onorare i debiti. Ridotti a proletari affluivano nelle città e principalmente a Roma dove andavano ad accrescere la massa della plebe malcontenta, formata anche dagli artigiani rovinati dalla concorrenza del lavoro degli schiavi.

In questa stessa ascesa verso il suo massimo delle forze produttive, si generavano e si accrescevano i germi del futuro arresto e poi del declino e del crollo finale. Roma assimila le tecniche superiori dei popoli vinti, Greci in primo luogo, e con esse, anche i prodotti della cultura e le nuove religioni e filosofie e nella struttura economica sociale si verificano profonde trasformazioni.

La nobiltà con le guerre si era sempre più arricchita di terre, dando formazione al latifondo. Questo, grazie alla manodopera poco costosa degli schiavi, era in grado di battere la piccola proprietà sul piano della concorrenza economica. Si rendevano così inevitabili sia le lotte fra padroni e schiavi (in Sicilia, dove il latifondo era più esteso, una rivolta di schiavi durò cinque anni), sia fra patrizi e piccoli proprietari. In mezzo a questi disordini continui si facevano strada le varie tendenze della classe dominante: la conservatrice da un lato e la riformista, quella dei fratelli Gracchi e di Mario dall’altro. Quest’ultima tendeva a risolvere la questione agraria con una riforma fondiaria stabilendo dei limiti alle proprietà acquistate sul demanio pubblico (Ager publicus) e dividendo le terre eccedenti nella speranza di ricostruire la classe dei piccoli contadini che era il nerbo dell’esercito. La lotta, finita con l’uccisione dei Gracchi, la sconfitta del partito democratico di Mario e la feroce dittatura militare di Silla, era però destinata a riprendere in forme ancora più violente.

In questo contesto si ha un’importante riforma dell’esercito romano, che aveva già subìto nel corso dei secoli numerose trasformazioni adeguandosi allo sviluppo delle forze produttive e al loro decadere, alle numerose ed importanti innovazioni tecniche introdotte e all’accresciuto livello massivo dello scontro. Ben presto le legioni divennero numerosissime e furono divise in formazioni più piccole, chiamate coorti e manipoli. L’impoverimento e la progressiva diminuzione dei liberi proprietari costrinse ad arruolare talvolta anche dei nullatenenti.

Sotto la grave minaccia di due popolazioni germaniche, i Cimbri e i Teutoni, che erano arrivati fino alla pianura padana, si pose il problema della rapida formazione di un esercito adeguato. Questo fu affrontato e risolto da un “uomo nuovo”, di modeste origini, giunto fino al consolato per eccezionali meriti militari, Gaio Mario: egli arruolò i proletari volontari ed essi ora ricevettero una paga. Le conseguenze di ciò furono importantissime poiché da allora l’esercito romano fu composto da soldati di mestiere che ricevevano un’adeguata formazione al combattimento; inoltre, potendo contare su una forza militare certa, specializzò e modificò lo schieramento in campo. Mentre prima i soldati che avevano di che vivere a casa propria desideravano che le guerre finissero al più presto per tornare alle loro attività domestiche, i nullatenenti avevano l’interesse contrario; inoltre avevano tutto da guadagnare a sostenere il loro generale perché solo se questi diventava abbastanza potente avrebbe potuto compensarli con generosi premi in denaro e un pezzo di terra alla fine del servizio.

Attraverso questa riforma avvenne però che generali e patrizi ambiziosi e ricchi poterono valersi dell’appoggio di truppe numerose e ben addestrate per la difesa dei loro interessi di parte quando in contrasto con quelli dello Stato. Ci si avvarrà ampiamente dell’appoggio delle legioni, divenute praticamente eserciti personali al servizio di potenti signori della guerra, per strappare al Senato concessioni o fette di potere. Ciò spiega come Cesare, valente militare e abile politico eletto come primo dittatore a vita, abbia potuto accentrare nelle proprie mani i poteri, che poi erediteranno i vari imperatori, necessari per gestire in modo centralizzato un impero divenuto così ampio. Naturalmente è lungi da noi attribuire ai loro meriti o deficienze personali il corso degli avvenimenti storici futuri. Cesare fu ucciso da una congiura reazionaria che voleva salvare la Repubblica e le antiche prerogative del Senato, tipiche organizzazioni di una città-Stato, ma il suo successore Ottaviano sarà autorizzato ad esercitare i pieni poteri per conto della classe dominante proprio perché impersonerà il compromesso tra i vari gruppi di cui essa si componeva ed i suoi nuovi estesi interessi.

Ancora una volta furono le guerre ad aiutare i primi imperatori a realizzare questa politica di relativa stabilità sociale e di consolidamento dell’Impero, che significherà qualche secolo ancora di relativamente pacifico sviluppo delle attività economiche di produzione e commercio, nonché di scambi culturali fra i popoli del Mediterraneo.

Durante tale periodo però i germi della decomposizione e della crisi si fanno sempre più virulenti. Nuove strutture economiche maturano: nel campo della produzione agricola l’Italia resta indietro rispetto alla Gallia ed all’Africa, da cui dovrà importare grano, anche perché i latifondisti hanno operato sostanziali trasformazioni colturali (vino, olio ed allevamento su grandi pascoli) e perché gli schiavi, non più riforniti dalle guerre, costano molto più cari.

Inoltre l’asse del commercio si è spostato nuovamente ad Oriente a cui l’Occidente si rivolge per l’acquisto dei più diversi prodotti. Dal disavanzo commerciale nascerà anche una crisi finanziaria a cui si dovrà far fronte con l’aggravio di altri e più pesanti tributi non solo sui popoli sottomessi ma anche sulle stesse popolazioni italiche, sui piccoli produttori liberi, con tutte le conseguenze che ne deriveranno. Per lo spostamento del commercio verso l’Oriente e la rarefazione della moneta, la finanza statale di Roma si andava basando sull’imposta fondiaria in natura, che per la difficoltà della riscossione e della utilizzazione provocava il decentramento del potere politico, e induceva quindi ad affidare ai grandi proprietari il mantenimento della burocrazia e delle guarnizioni militari.

Si accresce il malessere generale, la collera serpeggia fra tutti gli strati della popolazione su cui l’oppressione dei privilegiati si fa sempre più intollerabile. Evidentemente proprio quando l’esercito deve servire a scopi reazionari e conservatori esso si infetta ancor più di un partigianesimo che genera indisciplina e poi ribellione: è l’anarchia militare insomma, che porta perfino a creare più imperatori contemporaneamente. Al solito, lo specchio della società romana è sempre l’esercito.

Afferma Marx: «La storia dell’esercito illustra in una maniera stupenda la giustezza della nostra concezione relativa al legame fra forze produttive e rapporti sociali». Per cause economiche è cambiata la composizione sociale delle legioni col diminuire dei coltivatori liberi, sostituiti da proletari a cui lo Stato deve fornire le armi, con nuovo e cospicuo aggravio per l’erario. Sempre per le stesse cause le legioni, man mano saranno composte non più dei soli elementi italici ma anche delle province e poi anche di barbari, cioè di elementi derivanti da quei popoli che premono alle frontiere dell’Impero e che daranno l’ultimo e risolutivo colpo alle sue strutture già minate all’interno. L’ora dello sfacelo generale si avvicina sempre più e nessuna forza potrà riuscire ad evitarlo. Contro la crisi generale della agonizzante società schiavista a nulla varranno le riforme che alcuni imperatori come furono costretti ad adottare, da Diocleziano a Costantino.

La rivolta delle forze produttive contro le strutture politiche e l’impalcatura giuridica in cui esse si trovavano strette come da una camicia di forza, è inarrestabile. Si manifesta nelle forme più diverse: 1) nella contraddizione economica e nel contrasto sociale tra la classe dominante dei senatori, dei cavalieri e di una burocrazia prepotente e corrotta da una parte e turbe di contadini miserabili e schiavi in ogni dove dall’altra; 2) nello spopolamento delle campagne per l’eccessivo fiscalismo e contemporanea diffusione del latifondo; 3) nel rincaro dei prezzi, nell’inflazione monetaria: scompare la moneta e si paralizzano le attività economiche anche per le razzie di bande di predoni nelle campagne e pirati sul mare; 4) nell’esercito, rimasto romano solo di nome, il diffuso ricorso a mercenari, specialmente Germani, si traduce in inefficienza e incapacità difensiva della classe dominante con conseguente crisi militare; 5) nella vita ideale e religiosa: il cristianesimo, che per aver infranto ogni barriera di razza e di ricchezza tra gli uomini si era rapidamente diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo resistendo a trecento anni di persecuzioni, ha infine scalzato la vecchia religione minando l’impianto sovrastrutturale del regime.

La nuova società, la società feudale, già si fa presente nella vecchia attraverso le sue forme caratteristiche: le residenze rurali, le ville, dei grandi proprietari fondiari si trasformano in importanti centri economici e in fortezze private difese da armati mantenuti dal signore. La permuta comprende una parte padronale con l’abitazione e i beni immobili del signore e una parte colonica con le terre coltivate dai contadini e le loro umili capanne. La schiavitù è in costante regresso, molti schiavi divenuti liberi lavorano come coloni nelle terre degli ex padroni, ma diminuisce anche la classe dei contadini liberi, che tra l’altro non sono in grado di difendersi validamente dalle bande armate. Essi cedono le loro terre ai grandi proprietari fondiari che offrono loro in cambio protezione nei castelli rurali, circondati da mura, e sostegno contro le vessazioni degli agenti di fisco. In questo modo si trasformarono da contadini liberi in coloni e poi in servi della gleba.

La società che era venuta fuori dalle riforme di Diocleziano e soprattutto di Costantino era molto rigida e divisa in classi immobili, da cui si cercava che nessuno potesse fuggire: i contadini e i loro figli erano vincolati alla terra che lavoravano, gli artigiani erano organizzati in associazioni di mestiere da cui non potevano uscire e a cui appartenevano di padre in figlio, come pure i figli dei soldati dovevano fare i soldati; i soli liberi erano i mendicanti: liberi di morire di fame!

Ma la rottura col passato e l’inizio di tempi nuovi richiederanno l’uso di una nuova e più terribile violenza. È appunto quella delle giovani forze delle tribù primitive di cui già tante volte i Romani avevano provato il valore guerriero, l’indomito coraggio e la sobrietà dei costumi: i barbari, in particolare gli Alemanni. Essi, come testimoniano molti documenti storici del tempo, saranno accolti come liberatori dalla popolazione, che non avrà alcun rimpianto nell’assistere al crollo di una potenza fondata sul privilegio e sull’oppressione.
 
 

5. Lo sviluppo della legione romana

Dalla Città-Stato alla Repubblica: la legione organizzata per manipoli

La legione romana dovette trovare un nuovo assetto rispetto alla falange per poter manovrare con efficacia in terreni collinari e montuosi come quelli appenninici, dove fatali furono gli scontri contro i Sanniti, che non si impegnavano mai in scontri in campo aperto ma con attacchi improvvisi e ritirate di piccoli gruppi, imboscate e lanci da lontano tipiche della guerriglia. Devastante fu la trappola tesa ai romani alle gole di Claudio.

La riforma di Servio Tullio stabilì i parametri economici e sociali cui attingere le forze militari e da lì organizzare lo schieramento che subì continui adattamenti. Durante la parte alta della Repubblica la variante fondamentale era costituita dalla cosiddetta unità manipolare che si affermò a partire dalle guerre sannitiche dove fu necessità dover snellire la massiccia formazione chiusa, privilegiare le virtù combattive del singolo soldato e organizzare un piano di manovra generale.

La forma classica della legione manipolare, raggiunta la sua forma definitiva nel III secolo, prevedeva una prima fila in ordine sparso di 1200 veliti, i soldati più giovani e armati alla leggera, principalmente con giavellotti, una corta spada e un piccolo scudo; il loro impiego, dopo tutti i complessi rituali religiosi che avvenivano prima di ogni scontro, era di iniziare il combattimento con azioni di disturbo mediante il lancio da lontano di giavellotti, frecce, sassi, per poi ritirarsi dentro le file evitando il contatto con la fanteria pesante che sarebbe riuscito loro fatale.

Seguiva la prima vera linea di combattimento composta di 10 manipoli di 120 astati, scelti per età e censo in quanto dispongono dell’armamento pesante completo; la loro panoplia si componeva di uno scudo rettangolare di forma convessa che copriva una maggiore superficie rispetto quello rotondo e permetteva di alleggerire la corazza, avevano il gladio iberico, una corta spada che colpiva sia di punta che di taglio, introdotto dopo le sanguinose e difficili guerre contro gli Ispanici. Disponevano inoltre di due giavellotti pesanti, pila, un elmo di bronzo con un enorme pennacchio che conferiva un aspetto maestoso e terribile e gli schinieri.

La fila successiva è anch’essa costituita di 10 manipoli con 120 principi ciascuno, scelti per censo e maggior età e vigore degli astati; avevano anch’essi un armamento pesante. Seguivano 10 manipoli di 60 triari ciascuno, i combattenti più anziani, similmente armati come gli altri ma dotati di una lancia da urto e disposti molto serrati come nella falange ellenica; intervenivano come estrema forza nel caso l’attacco delle prime due file fallisse e in quel momento critico dello scontro dovevano bloccare l’avanzata del nemico con la loro formazione serrata per dar tempo ai superstiti delle due prime file di riorganizzare i ranghi e riprendere l’attacco.

Ai lati di questa formazione su tre linee c’erano due contingenti ciascuno di 150 cavalieri, fanti montati, il cui compito era di proteggere i fianchi, impegnare la cavalleria avversaria e quando possibile attaccare lateralmente per circondarli o prenderli alle spalle.

Tutti i manipoli della legione erano disposti non troppo serrati al loro interno ma separati lateralmente l’uno dall’altro da una distanza non superiore alla loro larghezza in linea.

Nella formazione, articolata su tre linee successive, composte della stessa quantità di manipoli, contraddistinti da un numero di due cifre che indicavano la posizione nella linea e il numero della fila, i reparti erano disposti a scacchiera affinché tutte le file potessero seguire bene le fasi dello scontro e intendere meglio gli ordini. Ma soprattutto in questo modo si permetteva l’avvicendamento sul fronte dello scontro dei manipoli retrostanti qualora i primi avessero ceduto o avessero bisogno di un supporto.

Con ciò una legione risultava composta di 4.500 soldati addestrati al combattimento in formazione e al corpo a corpo. Di fronte ad un nemico aperto l’etica romana imponeva di combattere faccia a faccia senza ricorrere ad insidie ed imboscate.

In periodo repubblicano un’armata consolare si componeva di due legioni, fiancheggiate abitualmente da altrettante forze alleate come ali di supporto di pari consistenza numerica; agli alleati Roma usava chiedere di fornire due cavalieri ogni tre romani. Ciascuno dei consoli, sulla carta, dispone quindi di un esercito forte di almeno 16.800 fanti e 1.500 cavalieri.

Le guerre contro le falangi macedoni di Pirro, rinforzate con 20 elefanti, furono una terribile prova per le formazioni legionarie. Tatticamente le due formazioni dissanguate erano in stallo e alla fine per i romani prevalsero (275 a.C.) essenzialmente per l’indebolimento delle formazioni macedoni i cui fanti caduti erano stati sostituiti da italici, per niente avvezzi a quel tipo di combattimento.
 

Le guerre puniche

Un’ulteriore modifica della potente macchina da guerra romana fu prodotta dalle guerre puniche, o meglio, dalla strategia militare di Annibale, non a torto considerato uno dei più grandi strateghi di ogni tempo e che ebbe un determinante influsso sulla successiva organizzazione delle legioni.

L’esercito cartaginese era solo in parte composto dall’oligarchia e dalla nobiltà punica mentre il grosso di esso, ufficiali intermedi compresi, era formato di mercenari, soldati di professione regolarmente stipendiati, valorosi, ma poco portati alla disciplina e alle azioni di gruppo richieste da complessi piani di battaglia. Provenienti da tutto il bacino mediterraneo usavano spesso lingue differenti.

Altro elemento critico risiedeva nella diffidenza che l’oligarchia punica, composta di commercianti e armatori di navi, nutriva nei confronti dei comandanti militari: nel timore che questi assumessero con la forza il controllo degli istituti politici erano sottoposti ad una spropositata serie di sanzioni penali con multe, arresti, confische dei beni e persino la morte in caso di campagne militari ritenute insufficientemente condotte. Il timore suscitato da un simile trattamento indusse spesso molti valenti guerrieri a rifiutare l’onere del comando. Con la riforma di Amilcare Barca si permise agli eserciti punici di scegliersi essi stessi il comandante.

Sul piano tattico, con lo spartano Santippo, che disperse le fino allora invitte legioni di Attilio Regolo, si perfezionò la manovra avvolgente della falange macedone, resa più leggera e dinamica, con una consistente formazione di cavalleria e con gli elefanti. Cavalleria e fanteria leggera vennero organizzate per effettuare rapidi cambi di formazione, posizione e direzione sul teatro di guerra al fine dell’accerchiamento del nemico e col combattimento con la spada, come previsto nei piani di battaglia di Annibale, piuttosto che il classico scontro frontale, relativamente statico. Sono celebri e ben note le sue importanti vittorie, come il capolavoro di Canne. Anche la sua sconfitta a Zama, fino all’ultimo incerta, fu un’esemplare tattica di accerchiamento, non riuscita solo per il ritorno in azione della cavalleria romana che capovolse l’esito della battaglia.

Si deve evidenziare il massiccio incremento delle forze in campo, segno di analogo aumento dello sviluppo delle forze produttive. Gli storici dicono che a Canne il fronte era di 80.000 romani contro 65.000 cartaginesi; Tito Livio riferisce che Roma lascia sul campo 47.500 fanti, 2.700 cavalieri; 19.000 sono i prigionieri mentre in 15.000 riescono a fuggire.

Ma per passare dalla sconfitta di Canne del 216 a.C., la peggiore in Italia di tutta la storia romana, alla fortunosa vittoria di Zama nel 202 a.C. in Africa, che abbatté definitivamente il dominio di Cartagine nel Mediterraneo, fu necessario modificare e perfezionare sul piano tattico le legioni, opera principalmente di Publio Cornelio Scipione, il futuro “Africano”. Fu innanzitutto necessario abbassare il censo minimo per la chiamata alle armi; il senato poté così arruolare e armare un numero enorme di effettivi mantenendo costantemente attive per quasi tutta la seconda fase del conflitto da 20 a 25 legioni. Chiese anche ai soldati di rimanere al fronte senza alternarsi per parecchi anni, spesso in terre lontane, con grave danno economico per i piccoli contadini che non potevano curare le loro proprietà, accelerando così quel processo di decomposizione della classe dei piccoli proprietari. Fu perfezionato l’addestramento delle reclute sia nella forma fisica, sia nel maneggio delle armi, sia nella corretta esecuzione delle manovre. Nella concessione dei comandi militari il senato ignorò temporaneamente qualunque criterio che non fosse la provata capacità del singolo comandante e fece sistematicamente ricorso alla proroga del comando, confermando anche per più anni di seguito quei generali che avevano dato buone prove delle loro abilità di organizzazione e di strategia.

Per rendere meno statiche le formazioni, in risposta alle manovre avvolgenti realizzate da Annibale, le file dei principi e dei triari cambiavano ruolo: da forze di sostegno e ultima difesa diventavano unità tattiche indipendenti capaci di agire con tutte o una parte soltanto delle forze riunite. Le fanterie di linea romane al momento giusto dovevano essere in grado di combinare il ripiegamento di uno dei loro scaglioni con l’avanzamento improvviso sui lati dello schieramento, incolonnati e non più operanti per singoli reparti ma per contingenti interi, realizzando una manovra a tenaglia senza il supporto della cavalleria. Per realizzare queste manovre si rendeva indispensabile una collaudata catena di comando con centurioni ben preparati.

Il processo fu graduale ma alla fine a Zama, nonostante i gravi errori di Scipione nel comando e nella manovra, vinse la tattica delle nuove legioni romane, numericamente inferiori ma ben organizzate sotto una ferrea disciplina, che le formazioni di Annibale, prevalentemente di mercenari, non potevano vantare. Cartagine dovette accettare pesanti condizioni di pace, dopo uno scontro nel quale il vincitore non era molto dissimile del vinto. In Italia durante i 15 anni di presenza punica ben 400 città furono distrutte e saccheggiate; campi e fattorie del meridione sistematicamente devastate, deportazioni di massa e 200.000 fra morti e dispersi.

Restava un’ultima prova per le legioni romane: il confronto con il blocco monolitico della falange macedone, finora mai sconfitta da armate non greche. Quella, anche negli spazi piani a lei più congeniali, non può resistere senza una valida protezione sui fianchi. Paradossalmente, mentre le legioni si evolvevano verso formazioni dinamiche, la falange subiva un continuo processo di sclerosi, specchio di quello dell’intera società che la esprimeva. La falange del II secolo esasperava i suoi difetti di staticità allungando ancora la lancia sarissa, infittendo ulteriormente i ranghi e introducendo fra le file anche gli elefanti, che spesso imbizzarrivano calpestando i soldati. Riducendo inoltre la presenza delle forze montate, per accresciute difficoltà di arruolamento, si passò da un rapporto di un cavaliere ogni due fanti adottato da Alessandro a quello di uno a otto di Filippo V, esponendo ancor più pericolosamente la formazione sui fianchi. Gli epigoni ellenistici del regno del grande macedone pretendono trasformare una formazione concepita per la difesa in una per l’offesa, con più difetti delle originarie e con minori protezioni. Una dopo l’altra le loro ultime battaglie sono clamorose sconfitte al punto che a Pidna nel 168 a.C., l’ultima battaglia della Macedonia in difesa della sua indipendenza, dura meno di un’ora.
 

L’esercito professionale

Il dominio territoriale di Roma si estendeva non con un piano organico preciso e prestabilito ma secondo le pressioni che popoli nomadi esercitavano ai confini o per il contrasto economico sorto con altre organizzazioni statali stanziali che minavano il suo sviluppo. Intanto cresceva il fabbisogno di legioni, specialmente per porre fine alle guerre puniche, di conseguenza ripetutamente si dové abbassare la soglia del censo minimo richiesto per accedere all’esercito: nel 129 a.C. quello della V classe fu drasticamente ridotto da 4.000 a soltanto 1.500 assi, essendo l’asse, unità monetaria del tempo, corrispondente a una libra di bronzo. Abbiamo visto come Gaio Mario fu costretto dalla necessità di difendersi dalle invasioni di barbari dal Nord a passare all’esercito professionale, ora formato principalmente da proletari volontari aventi una paga regolare, anch’essa segno di una cresciuta ricchezza, oltre alle regalie loro concesse dopo la vittoria: dal semplice saccheggio alla distribuzione di terre.

Dal momento in cui si dispose di una forza permanente si poté procedere ad una revisione generale e minuziosa dell’armamento e di tutto l’assetto della legione fin nei dettagli tecnici. Scopo principale fu quello di rendere la legione non solo potente nelle grandi battaglie campali ma anche oltremodo efficiente negli scontri con quelle piccole formazioni che usavano la tattica della guerriglia che Scipione aveva incontrato in Spagna: l’odierna teoria della “guerra asimmetrica” ha origini lontane.

Con Mario la legione assunse una organizzazione che in sostanza non subirà nel tempo grandi mutamenti: cresce a 6.000 legionari divisi in due file di coorti di 600 uomini ciascuna disposte a scacchiera con sufficiente spazio fra loro per facilitare lo scambio fra le due linee. Ciascuna coorte, unità intermedia tra il manipolo e la legione, era abitualmente composta riunendo i tre manipoli che negli scaglioni di astati, principi e triari, portavano lo stesso numero d’ordine. Sui fianchi anche la cavalleria raddoppiava di numero passando ad un minimo di 300 cavalieri per lato.

Per meglio contrastare la prestanza fisica e la superiore combattività dei Germani, Mario generalizzò l’uso della formazione chiusa per coorti ma badò a migliorare la possibilità di sopravvivenza individuale nello scontro corpo a corpo affidando l’addestramento dei singoli ai lanistae doctores gladiatorum, gli istruttori dei gladiatori. Significativa fu la modifica apportata al pilum, l’arma da lancio fu alleggerita e modificata in modo da non essere recuperabile dal nemico dopo il lancio: il primo dei due chiodi che fissavano il puntale di ferro all’asta venne sostituito con un rivetto di legno destinato a spezzarsi al momento dell’impatto sul bersaglio, rendendo inutilizzabile la lancia e più difficile da estrarre.

Le nuove legioni furono dislocate nelle zone rischiose, ma sempre oltre quella “linea sacra” che correva lungo il Magra e il Rubicone a confine e protezione dell’Italia peninsulare. Però, il comando militare lontano da Roma poteva sfuggire al controllo centrale e la forza delle legioni decidere del potere. Così poi fece Giulio Cesare. Questi, se non fu un innovatore nel campo della tattica, introdusse una specie di genio militare specializzato nella realizzazioni di ponti, valli fortificati, ecc. Inoltre per ingrandire la massa di risorse umane cui attingere nuovi coscritti Cesare estese la possibilità di ottenere la cittadinanza romana anche alle popolazioni delle province ed arruolò consistenti reparti della potente cavalleria germanica. Man mano che i confini si estendevano con nuove legioni e generali di origine provinciale diminuiva il potere del sempre più ridotto gruppo di comando di antica origine romana, riducendo la coesione del sistema.

Ma l’invincibilità delle legioni romane non era assoluta come dimostra la sconfitta di Carre nel 53 a.C. ad opera dell’esercito dei Parti basato sull’esclusivo utilizzo della cavalleria pesante e degli arcieri a cavallo; due opposte macchine da guerra assolutamente inconciliabili si erano contrastate in spazi più adatti alle formazioni a cavallo che a quelle appiedate. Non entriamo nella descrizione, se pur molto interessante, delle battaglie che comprendevano armi mai incontrate prima dai romani come il potentissimo arco composto dei Parti e della loro tecnica di guerra. Successivamente, in epoca imperiale, i romani alla fine prevalsero modificando sensibilmente l’attrezzatura militare, cambiando assetto in campo e strategia generale, che i Parti non avevano adattato alle nuove esigenze.
 

La legione nell’età imperiale

La fine delle guerre civili e l’avvento del principato permisero di sistemare i problemi di carattere professionale dell’esercito. Si accentrava nella persona di Augusto un potere militare assoluto con il controllo su tutti gli eserciti dell’impero sia stanziati nelle zone di confine sia sull’Italia e sulla capitale. Nella penisola restavano pochi reparti.

Nell’Urbe erano mantenute tre coorti con mansioni di polizia in senso stretto, ed altre sette, una ogni due quartieri in cui era stata divisa la città, col compito di spengere i frequenti incendi e di effettuare ronde notturne contro la criminalità. Infine la guardia scelta dell’imperatore era costituita da tre, poi da undici coorti di pretoriani al comando di due prefetti. Questa costituiva una forza privilegiata: avevano una ferma più breve, di solo 16 anni contro i 20 dei legionari e 25 delle forze ausiliarie non italiche, uno stipendio più alto e un servizio di solito esente dai disagi e dai rischi della milizia nelle province estreme.

Due grandi flotte con truppe di marina facevano base a Classe presso Ravenna e a Miseno sul golfo di Napoli col compito di controllare i due opposti bacini del Mediterraneo; squadre navali minori erano dislocate in Grecia, Egitto, sul Reno, Danubio e persino nella Manica e nel Mare del Nord. La marina, componente secondaria dell’esercito romano, aveva equipaggi prevalentemente composti di ex schiavi liberati e di cittadini non romanizzati delle province, in specie egiziani.

Le legioni romane, disposte per coorti, in numero di molto ridotto rispetto a quanto raggiunto durante la guerra civile, continuavano ad essere una forza imponente: a disposizione del primo Imperatore c’erano ben 28 legioni formate da cittadini romani per un totale di 150.000 uomini, il cui comando era affidato a legati imperiali di estrazione senatoria e di rango pretorio. Ad esse si affiancava analoga forza di ausiliari, non romanizzati, di fanteria e cavalleria con compiti paralleli per svolgere operazioni di polizia o azioni belliche preliminari a bassa intensità.

Per sostenere economicamente questa imponente macchina bellica Augusto istituì nel 6 d.C. l’erario militare, un nuovo strumento della tesoreria statale alimentato anche da un nuovo sistema di imposte che garantiva un flusso a grandi linee preventivabile e certo di denaro. Ad esempio: l’1% sulle vendite all’asta, il 4% sul commercio degli schiavi, il 5% sui lasciti testamentari superiori ad una certa somma se destinati a persone non legate da parentela diretta col defunto, il 5% sulla liberazione degli schiavi. Al congedo i soldati ricevevano con certezza, non più come regalia del loro generale, un donativo in denaro o terra e la cittadinanza romana per sé e per i loro familiari, se già non l’avevano al momento dell’arruolamento. In questo modo era garantita la fedeltà dei legionari, comunque sempre sottoposti ad una ferrea disciplina addirittura divinizzata.

Dopo la terribile sconfitta ad opera dei Germani nei loro territori nel 9 d.C., in cui tre legioni dell’armata di Varo vennero sorprese in ordine di marcia e completamente annientate comprese le truppe ausiliare, il confine dell’Impero si ferma verso Nord sulle sponde del Reno e del Danubio. Successivamente con Traiano, primo Imperatore di origine provinciale, nel 117 d.C. il dominio romano raggiunge ad Est la massima espansione; poi, lentamente ma inesorabilmente, inizia la “crisi del mondo antico”. Per gestire l’Impero, divenuto troppo esteso per essere controllato centralmente, viene, nel 297 d.C., prima suddiviso in 12 circoscrizioni amministrative con 101 province, poi nel 395 d.C. è definitivamente diviso in due Imperi indipendenti, quello d’Oriente e quello d’Occidente.

In questo contesto le legioni passano da un ruolo offensivo ad uno difensivo sia per le pressioni esterne sia per le continue e diffuse sollevazioni interne dovute al generale degrado della struttura economica dell’Impero, assumendo sempre più ruoli di polizia. Nel periodo detto dei 30 tiranni, tra il 235 e il 275, giungono inoltre a nominare direttamente gli Imperatori i loro generali.

Durante Costantino il numero delle legioni sale a 75 forti di circa 900.000 uomini, divise tra truppe di campagna, di confine e guardia del Corpo Imperiale. L’organizzazione fondamentale della legione non subisce particolari modifiche salvo il fatto che si dà più spazio ai reparti di cavalleria, composti da quelli provenienti dalle formazioni ex-nemiche, e si alleggerisce l’armatura, mal sopportata dai contingenti barbarici, da 12-15 chili fino a 9. Progressivamente si introducono macchine per l’assedio, il lancio multiplo di dardi e pietre, preferendo il ricorso alla tattica di indebolire o neutralizzare da lontano la forza nemica.
 

(Fine della prima parte - Continua)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra

Ad armistizio firmato, così come con facile profezia Lenin ed i marxisti rivoluzionari avevano previsto, tutti quei socialisti che nell’agosto 1914 si erano schierati a fianco della propria borghesia nazionale, votato i crediti di guerra e partecipato o sostenuto i vari governi di “unione sacra” nel corso dei quattro anni di strage proletaria, pretendevano di cancellare il loro tradimento con un colpo di spugna e, dopo le reciproche accuse, vicendevolmente si amnistiavano proclamando il perdono generale delle loro colpe.

Il Bureau della Seconda Internazionale convocava, a Berna, per il 3 febbraio 1919 il congresso di ricostituzione dell’Internazionale Socialista, dove, di nuovo, si sarebbe sentito proclamare quel “proletari di tutti i paesi unitevi!”, già sotterrato sotto i corpi di milioni di esseri umani massacrati.

Nell’occasione si manifestarono in maniera eclatante tutte le debolezze che avevano accompagnato Zimmerwald; infatti, se la sinistra si rifiutò di partecipare a siffatto congresso, altri raggruppamenti vi aderirono.

In un rapporto presentato alla Conferenza comunista di Mosca, il 5 marzo 1919, Fritz Platten descrisse in questi termini gli sforzi intrapresi a Berna presso gli zimmerwaldiani “smarriti” intervenuti al congresso: «Un certo numero di compagni erano stati invitati a questa conferenza: Fritz Adler, Petrov, Paul Faure, Frossard, Loriot, Morgari, Rappoport, Herzfeld, Verfeuil, Burian, Schefflo, Besturo, Betritos, Marnus. Noi proponemmo loro di pubblicare una dichiarazione per render noto che non avrebbero partecipato a tale conferenza. Ma ben presto si constatò che tutti, salvo Loriot e Morgari, appigliandosi a questioni di procedura, dichiaravano di aver ricevuto il mandato per partecipare alla conferenza dove avrebbero rappresentato l’opposizione. Avendo ottenuta tale risposta, cercammo almeno di aiutarli ad organizzare questa opposizione. Si disse: “Vista la vostra assicurazione che parteciperete al congresso soltanto come opposizione, dovete unirvi su una base comune” e proponemmo loro di costituirsi in una sinistra, la quale su ciascun argomento all’ordine del giorno avrebbe contrapposto a quella del Bureau un’altra risoluzione, per stigmatizzare, dal punto di vista zimmerwaldiano, gli sforzi del Bureau in quanto politica al servizio della borghesia. Dicemmo loro che come vecchi zimmerwaldiani non potevano far altro che constatare l’opposizione di fondo esistente fra le concezioni dei socialpatrioti e le loro. Essi dovevano opporre alle risoluzioni del Bureau le dichiarazioni del gruppo di Zimmerwald. Cercammo a lungo di agire in questo senso, ma con il solo risultato che costoro dichiararono di non volere dividere la delegazione del loro paese, ma fare le proprie dichiarazioni all’interno delle loro rispettive delegazioni. Riusciva così impossibile qualsiasi intervento organizzato: i compagni procedevano come un battello senza timone, alla deriva lungo un fiume. Al momento della discussione sul problema delle responsabilità nelle sedute di commissione, i delegati del gruppo zimmerwaldiano cercarono di ottenere una buona risoluzione, buona nel senso ch’essa potesse raccogliere l’unanimità. Si può ben intuire come fosse difficile conciliare la politica di un Renaudel o di un socialpatriota tedesco come Wels e soprattutto di un Grumbach e di un Huysmans con le concezioni dei vecchi zimmerwaldiani. Il fatto che la risoluzione ottenne l’unanimità, non verte a suo favore, perché essa anzi avrebbe dovuto metter in luce le contraddizioni».

Non c’era più tempo da perdere, non era più il momento di temporeggiare, i comunisti rivoluzionari, molti o pochi che fossero avrebbero dovuto stilare l’atto di morte della Seconda Internazionale e la nascita della Internazionale Comunista.

Lenin, già nel 1914, aveva ripetutamente martellato sulla necessità della rottura definitiva con i partiti socialpatrioti. Il 1° novembre di quell’anno aveva scritto: «Nell’ultimo terzo del XIX secolo e all’inizio del secolo XX la Seconda Internazionale ha compiuto la sua parte di utile lavoro preparatorio, di organizzazione della masse proletarie nel lungo periodo “pacifico” della più crudele schiavitù capitalista e del più rapido progresso capitalistico. Alla Terza Internazionale spetta il compito di organizzare le forze del proletariato per l’assalto rivoluzionario contro i governi capitalistici, per la guerra civile contro la borghesia di tutti i paesi, per il potere politico, per la vittoria del socialismo».

Da allora sarebbe stato necessario il trascorrere di quasi cinque anni prima si maturasse quel processo che avrebbe portato alla nascita della nuova Internazionale. Le tappe di questo processo erano state le conferenze di Zimmerwald, di Kienthal, i possenti scioperi proletari che tra la fine del 1916 e l’inizio del 1918 investirono tutti i paesi belligeranti, le rivoluzioni di Russia del Febbraio e dell’Ottobre.

Nell’ultimo anno di guerra la rivoluzione sembrava dovesse dilagare in tutta Europa e forse in altri continenti: nel gennaio 1918 era stata la volta del tentativo di rivoluzione proletaria in Finlandia, in agosto la sommossa “del riso” in Giappone, in settembre l’insurrezione armata in Bulgaria, in novembre la rivoluzione in Germania ed in Austria-Ungheria. Inoltre ammutinamenti di soldati e marinai sia nei fronti della guerra imperialista sia nelle spedizioni alleate contro la Repubblica dei Soviet, infine scioperi proletari in tutto il mondo.

A ciò si aggiunga che, nel corso del 1918, in diversi paesi (Finlandia, Lettonia, Austria, Ungheria, Polonia, Olanda, Germania) le ali rivoluzionarie del movimento operaio avevano dato vita a partiti comunisti.

Fu proprio la nascita del partito comunista tedesco che fece dire a Lenin che, benché non ancora sancita formalmente, «la fondazione della Terza Internazionale, dell’Internazionale Comunista, realmente proletaria, realmente internazionalista, realmente rivoluzionaria è divenuta una realtà».

Il 24 gennaio 1919 da Mosca veniva diffusa la lettera di invito per il congresso internazionale dei partiti proletari rivoluzionari. Il documento era indirizzato a 39 partiti, gruppi ed organismi proletari (tra i quali il PSI) che si ritenevano disposti ad accettare i punti programmatici esposti nella lettera.

Data l’enorme difficoltà di raggiungere la Russia i partecipanti a quello che fu l’atto costitutivo della nuova internazionale non furono certamente molti. 35 delegati (in rappresentanza di 19 partiti) con voto deliberativo e 19 delegati, in rappresentanza di altri 16 gruppi, con voto consultivo. In verità la maggioranza dei partecipanti non aveva nessun mandato da parte dell’organizzazione che avrebbe dovuto rappresentare. Molti di loro erano degli ex prigionieri di guerra. Questo fu il motivo per cui alcuni, soprattutto lo spartachista Eberlein, si opposero alla creazione della Terza Internazionale, chiedendo che la conferenza assumesse semplicemente il carattere di una riunione preparatoria e che un vero congresso, successivo, deliberasse la costituzione formale dell’Internazionale comunista. Le obiezioni di Eberlein, basate peraltro su concreti dati di fatto, non trovarono opposizione tra i membri del partito bolscevico tant’è che anche Lenin e Zinoviev si dichiararono disposti ad accettare la proposta tedesca, pur «continuando l’agitazione necessaria affinché la Terza Internazionale sia presto creata come organizzazione».

Al terzo giorno dei lavori però, quando la conferenza si trovò ad affrontare la discussione delle tesi di Lenin su “Democrazia Borghese e Dittatura del Proletariato”, i delegati Rakovsky (Balcani), Gruber (Austria), Grimlund (Svezia) e Rudianskj (Ungheria) riproposero l’immediata costituzione dell’Internazionale comunista, motivando così la loro richiesta:
1. «La necessità della lotta per la dittatura del proletariato richiede una organizzazione internazionale unificata ed omogenea di tutti i comunisti»;
2. «La costituzione è un dovere tanto più urgente in quanto attualmente a Berna e forse in seguito altrove, si tenta di ricostituire la vecchia internazionale opportunista per riunire gli elementi confusi ed incerti del proletariato. Perciò si rende necessario separare nettamente gli elementi rivoluzionari proletari dagli elementi social-traditori».

A questo punto i delegati si espressero, quasi all’unanimità, per la nascita della Terza Internazionale.

Per sottolineare il legame, ed allo stesso tempo la rottura con il movimento di Zimmerwald gli ex partecipanti alle conferenze svizzere fecero la seguente dichiarazione: «Le conferenze di Zimmerwald e di Kienthal avevano un’importanza in un’epoca in cui era necessario unire tutti gli elementi proletari disposti a protestare, in qualsiasi forma, contro i crimini imperialisti. Ma, nel gruppo di Zimmerwald, accanto ad elementi nettamente comunisti vi erano elementi del “centro”, pacifisti ed esitanti. Come ha dimostrato la Conferenza di Berna, questi elementi del “centro” si alleano ora con i socialpatrioti per combattere il proletariato rivoluzionario, e mettono così la bandiera di Zimmerwald al servizio della reazione. Parallelamente, la corrente comunista si è rafforzata in molti paesi e la lotta contro gli elementi del centro, che ostacolano lo sviluppo della rivoluzione sociale, è divenuto un compito urgente del proletariato internazionale. Il gruppo di Zimmerwald ha fatto il suo tempo. Quel che in esso vi era di veramente rivoluzionario aderisce all’Internazionale comunista. I sottoscritti, partecipanti a Zimmerwald, dichiarano di considerar liquidata l’organizzazione di Zimmerwald e chiedono al Bureau della Conferenza di Zimmerwald di rimettere tutti i documenti al Comitato esecutivo della Terza Internazionale. Zinoviev, Rakovsky, Trotzki, Lenin, Platten».

Le divergenze emerse in base alla valutazione dell’opportunità o meno della fondazione immediata dell’Internazionale non toglievano nulla alla unanimità delle enunciazioni di principio, di finalità e di tattica che trovarono la loro formulazione nella “Piattaforma dell’Internazionale comunista”, redatta da Bucharin ed Eberlein; nelle “Tesi sulla Democrazia Borghese e la Dittatura del Proletariato” di Lenin (che possono essere visionate nel sito del nostro partito); nel “Manifesto al Proletariato di tutto il Mondo” di Trotzki (che viene qui di seguito riprodotto).

La conferenza di Mosca, sebbene composta da uno sparuto numero di delegati, assumeva un enorme significato storico sanzionando il fallimento di tutte le illusioni della democrazia borghese e contrapponendo ad essa la soluzione della conquista rivoluzionaria del potere ed il suo mantenimento tramite la dittatura del proletariato basata sul sistema dei soviet.

Gli storici affermano che i partecipanti non russi, non avendo nessun rapporto con le proprie organizzazioni nazionali, nella maggior parte dei casi rappresentavano solo se stessi. Affermano questo perché, da borghesi, riescono a comprendere solo la formale delega democratica e non riescono a concepire quella che dialetticamente è la vera forma di rappresentanza, da noi definita “organica”.

Ad avvalorare questa tesi Lenin citava una corrispondenza dell’Avanti!: «Da una località chiamata Cavriago (un angolino sperduto, evidentemente, perché non si trova nella carta geografica) vedo che gli operai hanno approvato una risoluzione in cui dichiarano di apprezzare gli spartachisti tedeschi e salutano i soviettisti russi ed esprimono l’augurio che il programma dei rivoluzionari russi e tedeschi sia accettato in tutto il mondo e serva a condurre fino in fondo la lotta contro la borghesia e contro la dominazione militare». Dopo avere citato questo piccolo trafiletto Lenin commentava: «Ecco perché è stato così facile il nostro lavoro a questo congresso. Ci è bastato trascrivere come programma ciò che era già impresso nella coscienza e nei cuori degli operai, persino di quelli isolati in un angolino sperduto, separati da noi mediante cordoni polizieschi e militari. Ecco perché abbiamo ottenuto così facilmente e concordemente, in tutte le questioni principali, una decisione unanime, ecco perché siamo pienamente convinti che queste decisioni avranno una ripercussione possente sul proletariato di tutti i paesi» (Izvestia, 7 marzo 1919).
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Manifesto dell’Internazionale Comunista al proletariato di tutto il mondo

(6 marzo 1919)
 

Sono trascorsi 72 anni da quando il Partito Comunista annunciò al mondo il suo programma nella forma di un Manifesto scritto dai massimi maestri della rivoluzione proletaria: Karl Marx e Friedrich Engels. Già a quell’epoca il comunismo – appena entrato nella lotta – era accerchiato da manifestazioni ostili, dalla menzogna, dall’odio e dalla persecuzione delle classi possidenti che giustamente presagivano in esso il loro nemico mortale. Nell’arco di questi sette decenni il comunismo ha percorso vie difficili attraverso turbinose ascese e periodi di declino, successi e dure sconfitte. Ma fondamentalmente il movimento seguiva il cammino indicato dal Manifesto del Partito Comunista. L’ora della lotta finale e decisiva è giunta più tardi di quanto non l’abbiano attesa ed auspicata gli apostoli della rivoluzione sociale. Tuttavia è giunta. Noi comunisti, rappresentanti del proletariato rivoluzionario di vari paesi d’Europa, d’America e d’Asia, riuniti a Mosca, capitale sovietica, ci sentiamo e ci consideriamo i successori e i realizzatori dell’opera il cui programma venne annunciato 72 anni fa. Il nostro compito consiste nel generalizzare l’esperienza rivoluzionaria della classe operaia, nel liberare il movimento dalle commistioni disgregatrici con l’opportunismo e il socialpatriottismo, nel radunare le forze di tutti i partiti veramente rivoluzionari del proletariato mondiale, facilitando ed affrettando così la vittoria della rivoluzione comunista nel mondo intero.

Oggi che l’Europa è coperta di macerie e di fumanti rovine, gli incendiari più scellerati si affannano a cercare i colpevoli della guerra. Alle loro spalle sta uno stuolo di professori, parlamentari, giornalisti, socialpatrioti ed altri sfruttatori politici della borghesia.

Per lunghi anni il socialismo ha predetto l’inevitabilità della guerra imperialistica e ne ha intravisto la causa nell’insaziabile cupidigia delle classi possidenti dei due maggiori concorrenti e in generale di tutti paesi capitalistici. Due anni prima dello scoppio della guerra, al congresso di Basilea, i capi socialisti responsabili di tutti i paesi accusavano l’imperialismo di essere l’autore della futura guerra e minacciavano la borghesia di attirarle addosso la rivoluzione sociale, rappresaglia del proletariato contro i delitti del militarismo. Ora, dopo una esperienza di cinque anni, dopo che la storia ha messo a nudo le ambizioni banditesche della Germania e svelato l’agire non meno delittuoso degli Stati alleati, i socialisti ufficiali dei paesi dell’Intesa continuano, insieme con i loro governi, a smascherare in modo sempre più schiacciante il Kaiser tedesco rovesciato. Peggio ancora: i socialpatrioti tedeschi, che nell’agosto 1914 proclamavano il “Libro bianco” diplomatico dello Hohenzollern come il più sacro vangelo dei popoli, ora, con servilismo non minore dei socialisti dei paesi dell’Intesa, accusano l’abbattuta monarchia tedesca, a cui si assoggettarono come schiavi, di essere la responsabile principale. Sperano in tal modo di far dimenticare la propria colpa e di cattivarsi la benevolenza dei vincitori. Ma in confronto alla posizione assunta dalle abbattute dinastie dei Romanov, degli Hohenzollern, degli Asburgo e dalle cricche capitalistiche dei relativi paesi, appare non meno infame, alla luce degli avvenimenti verificatisi e delle rivelazioni diplomatiche, la condotta delle classi dominanti in Francia, Inghilterra, Italia e negli Stati Uniti.

Fino al momento dello scoppio della guerra la diplomazia inglese rimase celata dietro la sua maschera misteriosa. Il governo della City si guardava bene dal rivelare apertamente la sua intenzione di partecipare alla guerra a fianco dell’Intesa, per non distogliere il governo di Berlino dalla guerra. A Londra si voleva la guerra. Perciò ci si comportò in modo da far sperare a Berlino e a Vienna la neutralità dell’Inghilterra e, al tempo stesso, in modo che a Parigi e a Pietroburgo si contasse con certezza sul suo intervento.

La guerra, preparata dal corso della storia per vari decenni, fu scatenata dalla provocazione diretta e cosciente della Gran Bretagna. Il governo inglese aveva calcolato di offrire il suo appoggio alla Russia e alla Francia soltanto fino al momento in cui esse si fossero esaurite completamente e nello stesso tempo di paralizzare anche la Germania, sua mortale nemica. Tuttavia la potenza del meccanismo militare tedesco apparve troppo terribile e rese necessario un intervento non fittizio ma reale dell’Inghilterra nella guerra. La parte del terzo litigante che gode, alla quale la Gran Bretagna aspirava per antica tradizione, toccò agli Stati Uniti. Il governo di Washington acconsentì tanto più facilmente al blocco inglese, che limitava le speculazioni della borsa americana sul sangue europeo, in quanto i paesi dell’Intesa indennizzarono la borghesia americana con lauti profitti per il danno subito dalla violazione del “diritto internazionale”. Ma l’enorme superiorità militare della Germania spinse il governo di Washington ad uscire dallo stato di apparente neutralità. Gli Stati Uniti assunsero di fronte all’Europa quel ruolo che l’Inghilterra aveva sostenuto nelle guerre precedenti e che aveva tentato di sostenere ancora nell’ultima guerra nei riguardi del continente, quello cioè di indebolire un campo servendosi dell’altro, di ingerirsi nelle operazioni militari solo nella misura necessaria per assicurarsi tutti i vantaggi della situazione. La posta arrischiata da Wilson, conformemente ai momenti del gioco americano, non era alta; ma era l’ultima e con essa egli si assicurò la vincita.

Le contraddizioni del regime capitalistico, a causa della guerra, si trasformarono per l’umanità nei brutali tormenti della fame e del freddo, nelle epidemie, nel regresso morale. In ciò trova la sua definitiva soluzione la controversia accademica dei socialisti sulla teoria dell’impoverimento e del graduale passaggio dal capitalismo al socialismo. Statistici e pedanti della teoria del livellamento delle contraddizioni del capitalismo si sono sforzati, per decenni, di cercare in ogni angolo più recondito del mondo i fatti reali o apparenti in grado di attestare l’aumento del benessere dei vari gruppi e categorie della classe operaia. La teoria dell’impoverimento veniva sepolta sotto i fischi beffardi degli eunuchi delle cattedre della borghesia e degli alti gerarchi dell’opportunismo socialista. Oggi assistiamo non solo all’impoverimento sociale, ma anche a quello fisiologico e biologico in tutta la sua impressionante realtà. La catastrofe della guerra imperialistica ha nettamente spazzato via tutte le conquiste delle lotte sindacali e parlamentari. E tuttavia questa guerra è sorta dalle tendenze interne del capitalismo esattamente come quegli accomodamenti economici e compromessi parlamentari ch’essa ha sepolto nel sangue e nel fango.

Il capitale finanziario che gettò l’umanità nell’abisso della guerra, ha subìto esso stesso nel corso della guerra catastrofici mutamenti. La dipendenza della carta moneta rispetto alla base materiale della produzione è stata definitivamente sconvolta. Perdendo sempre più la sua importanza di mezzo e strumento regolatore dello scambio delle merci nell’economia capitalistica, la carta moneta si è trasformata in strumento di requisizione, di predoneria e in generale di oppressione militare ed economica. La totale svalutazione della carta moneta riflette la generale crisi mortale che afferra la circolazione delle merci nel regime capitalistico. Se, nei decenni anteriori alla guerra, la libera concorrenza, quale elemento regolatore della produzione e della distribuzione, era stata soppiantata, nei principali settori dell’economia, dal sistema dei trust e dei monopoli, gli eventi della guerra hanno strappato di mano alle alleanze economiche la funzione regolatrice per consegnarla direttamente al potere militare e statale. La distribuzione delle materie prime, lo sfruttamento del petrolio di Bakù o della Romania, del carbone del Donez, del grano dell’Ucraina, la sorte delle locomotive, dei vagoni ferroviari e degli automezzi della Germania, il sostentamento dell’Europa affamata di pane e di carne, tutti questi problemi fondamentali della vita economica del mondo non sono regolati dalla libera concorrenza, né dalla combinazione di trust e di consorzi nazionali e internazionali, bensì dal potere militare che in tali questioni interviene direttamente ai fini della propria ulteriore conservazione. Se la totale subordinazione del potere statale alla forza del capitale finanziario ha condotto l’umanità al macello imperialistico, il capitale finanziario, attraverso questo macello di massa, ha militarizzato non soltanto lo Stato, ma anche se stesso, tanto da non essere più in grado di attendere alle sue funzioni economiche essenziali se non col ferro e col sangue.

Gli opportunisti che prima della guerra mondiale esortavano gli operai alla moderazione col pretesto di un graduale passaggio al socialismo, che durante la guerra pretesero l’umiltà di classe in nome della sicurezza pubblica e della difesa nazionale, esigono dal proletariato altri sacrifici per superare le atroci conseguenze della guerra. Se queste prediche potessero trovare ascolto presso le masse operaie, lo sviluppo del capitalismo celebrerebbe la sua continuità ai danni di parecchie generazioni in una forma ancora più concentrata e spaventosa, con la prospettiva di una nuova ed inevitabile guerra mondiale. Per fortuna dell’umanità questo non è più possibile. La statizzazione della vita economica, alla quale il liberalismo capitalistico tanto si opponeva, è diventata ormai un fatto compiuto. Non soltanto non è più possibile tornare alla libera concorrenza, ma neppure al dominio dei trust, dei sindacati e delle altre mostruose divinità economiche. La questione è unicamente sapere chi condurrà in futuro la produzione statizzata, se lo Stato imperialista o lo Stato del proletariato vittorioso.

In altre parole: diventerà tutta l’umanità lavoratrice la schiava incatenata di una cricca mondiale che, al colmo del suo trionfo e sotto l’egida dell’alleanza dei popoli, per mezzo di un esercito “internazionale” e di una flotta “internazionale”, prederà e strozzerà gli uni, getterà le briciole agli altri, ma, dovunque e sempre, metterà in catene il proletariato con l’unico scopo di mantenere il proprio dominio?

L’ultima guerra, che è stata in prevalenza una guerra per la conquista delle colonie, è stata nello stesso tempo una guerra condotta con l’aiuto delle colonie. Le popolazioni coloniali sono state trascinate nella guerra europea in proporzioni fino allora mai conosciute. Indù, negri, arabi, malgasci hanno lottato sul territorio europeo; e per cosa? Per il diritto di rimanere anche in seguito schiavi dell’Inghilterra e della Francia. Mai il dominio capitalistico si mostrò più sfrontato, mai il problema della schiavitù coloniale fu posto con simile asprezza.

Di qui una serie di aperte rivolte e di fermenti rivoluzionari in tutte le colonie. Nell’Europa stessa, l’Irlanda ha ricordato con sanguinosi combattimenti di strada che essa era ancora una terra asservita e cosciente di esser tale. Nel Madagascar, nell’Annam e in altre terre le truppe metropolitane hanno dovuto reprimere, durante la guerra, più di una rivolta di schiavi coloniali. In India il movimento rivoluzionario non si è arrestato un solo giorno e negli ultimi tempi è sfociato in un colossale sciopero, a cui il governo inglese ha risposto con le autoblinde a Bombay.

In tal modo la questione delle colonie non solo veniva posta in tutta la sua portata sul tappeto verde del congresso diplomatico a Parigi, ma era all’ordine del giorno nelle colonie stesse. Il programma di Wilson, nel migliore dei casi, mira soltanto a mutare l’etichetta della schiavitù coloniale. La liberazione delle colonie è possibile soltanto se avviene parallelamente alla liberazione della classe operaia nelle metropoli. Gli operai e i contadini non solo dell’Annam, dell’Algeria e del Bengala, ma anche della Persia e dell’Armenia potranno avere un’esistenza indipendente soltanto quando gli operai dell’Inghilterra e della Francia avranno rovesciato Lloyd George e Clémenceau e preso nelle loro mani il potere dello Stato. Già attualmente nelle colonie più sviluppate la lotta non si svolge sotto la bandiera della liberazione nazionale, ma va assumendo uno spiccato carattere sociale. Se l’Europa capitalistica ha trascinato forzatamente i paesi più arretrati del mondo nel vortice del capitalismo, l’Europa socialista verrà in aiuto delle colonie liberate con la sua tecnica, la sua organizzazione, la sua influenza culturale, per favorire il loro passaggio all’economia regolata del regime socialista.

Schiavi coloniali dell’Africa e dell’Asia! L’ora della dittatura proletaria in Europa segnerà anche l’ora della vostra liberazione!

Tutto il mondo borghese accusa i comunisti di annientare la libertà e la democrazia politica. Questo non è vero. Raggiungendo il potere, il proletariato constata semplicemente la totale impossibilità di applicare i metodi della democrazia borghese e crea le condizioni e le forme di una nuova e più alta democrazia operaia. Tutta la linea evolutiva del capitalismo, specialmente nell’ultimo periodo imperialistico, ha minato la democrazia politica non soltanto scindendo le nazioni in due classi inconciliabili, ma anche condannando all’atrofia economica permanente e all’impotenza politica numerosi ceti piccolo-borghesi e semi-proletari, compresi quelli più umili del proletariato stesso.

La classe operaia di quei paesi in cui lo sviluppo storico ne ha fornito la possibilità ha utilizzato il regime della democrazia politica per organizzare la lotta contro il capitale. La stessa cosa accadrà in futuro anche in quei paesi in cui le condizioni preliminari per una rivoluzione operaia non si sono ancora realizzate. Tuttavia vasti strati sociali intermedi, sia nelle campagne sia nelle città, sono ostacolati dal capitalismo nella loro evoluzione tanto da rimanere indietro di intere epoche storiche. Il contadino della Baviera o del Baden che non sa vedere oltre il campanile del suo villaggio, il piccolo vignaiolo francese rovinato dalla sofisticazione dei vini operata dai grandi capitalisti, il piccolo fattore americano dissanguato e truffato dai banchieri e dai deputati: tutti questi strati sociali, che il capitalismo allontana dalla via maestra dello sviluppo storico, sulla carta sono invitati dal regime della democrazia politica a partecipare al governo dello Stato. Ma in realtà sono le deliberazioni di un’oligarchia finanziaria quelle che, dietro lo schermo della democrazia parlamentare, decidono di tutte le questioni importanti, che regolano il destino dei popoli. Così è stato soprattutto nella questione della guerra e così è ora nella questione della pace.

Se l’oligarchia finanziaria ritiene opportuno velare il suo dispotismo con gli accordi parlamentari, lo Stato borghese utilizza, per raggiungere le mete a cui mira, tutti i mezzi della menzogna, della demagogia, della persecuzione, della calunnia, della corruzione e del terrore lasciati a sua disposizione dall’eredità del dominio classista dei secoli passati e moltiplicati dai prodigi della tecnica capitalistica. Pretendere dal proletariato che nell’estrema lotta mortale contro il capitalismo segua fedelmente le esigenze della democrazia borghese sarebbe come pretendere da un uomo che difende la sua vita dai predoni ch’egli segua le regole artificiose e condizionanti della lotta greco-romana stabilite dal suo nemico, ma da quest’ultimo non osservate.

Nel regno della distruzione in cui non solo i mezzi di produzione e di circolazione, ma anche le istituzioni della democrazia politica non significano altro che un cumulo di rovine insanguinate, il proletariato deve crearsi un proprio apparato che agisca innanzi tutto come forza coesiva all’interno della massa operaia e gli garantisca la possibilità di un suo intervento rivoluzionario nell’ulteriore sviluppo dell’umanità. Tale apparato è costituito dai soviet. I vecchi partiti, i vecchi sindacati si sono mostrati nella persona dei loro capi incapaci di intendere i compiti posti dalla nuova epoca, e ancora più incapaci di assolverli. Il proletariato ha creato una nuova forma di organizzazione che abbraccia tutte le classi operaie indipendentemente dalla professione e dal livello politico; un apparato dinamico capace di rinnovarsi e di ampliarsi continuamente, di trascinare nella sua sfera ceti sempre nuovi, di accogliere categorie di lavoratori delle città e delle campagne vicini al proletariato. Tale insostituibile organizzazione della classe operaia che si governa da sé, che lotta e che conquisterà in futuro anche il potere politico è stata suffragata dall’esperienza in vari paesi e costituisce la massima conquista e l’arma più potente del proletariato moderno.

In tutti i paesi in cui le masse sono diventate consapevoli della loro esistenza, sorgeranno anche in futuro consigli di deputati operai, soldati e contadini. Consolidare i soviet, aumentare la loro autorità, opporli all’apparato statale della borghesia: questo è oggi il compito fondamentale degli operai coscienti e onesti di tutti i paesi. Per mezzo dei soviet la classe operaia può salvarsi dagli agenti di disgregazione insinuatisi nel suo organismo attraverso le sofferenze atroci della guerra, della fame, attraverso il dispotismo dei ricchi e il tradimento dei suoi capi d’un tempo. Per mezzo dei soviet la classe operaia giungerà al potere con la massima sicurezza e facilità in tutti i paesi in cui i soviet riuniscono intorno a sé la maggioranza delle classi lavoratrici. Per mezzo dei soviet la classe operaia, giunta al potere, governerà tutti i campi della vita economica e culturale, come accade già ora in Russia.

Il crollo dello Stato imperialistico, da quello zarista fino ai più democratici, avviene contemporaneamente alla disfatta del sistema militare imperialistico. Gli eserciti di milioni di uomini mobilitati dall’imperialismo hanno potuto reggere solo finché il proletariato si è mantenuto ubbidiente sotto il giogo della borghesia. La rovina della unità nazionale significa anche l’inevitabile rovina dell’esercito. Questo è quanto è accaduto prima in Russia, poi nell’impero austro-ungarico e in Germania. Lo stesso processo ci si può aspettare anche negli altri Stati imperialisti. La rivolta del contadino contro il proprietario terriero, dell’operaio contro il capitalista, di entrambi contro la burocrazia monarchica o “democratica”, porta inevitabilmente alla rivolta del soldato contro il superiore e successivamente ad una rigida divisione fra gli elementi proletari e gli elementi borghesi dell’esercito stesso. La guerra imperialistica che opponeva una nazione all’altra si è trasformata e continua a trasformarsi sempre più in guerra civile che contrappone le classi fra di loro.

Le acerbe lamentele del mondo borghese sulla guerra civile e sul terrore rosso costituiscono la più spaventosa ipocrisia che la storia delle lotte politiche abbia mai registrato finora. Non ci sarebbe alcuna guerra civile se le cricche degli sfruttatori, che hanno spinto l’umanità sull’orlo della rovina, non avessero ostacolato qualsiasi progresso delle masse operaie, se non avessero tramato congiure e assassini e sollecitato l’aiuto armato dello straniero per mantenere saldi o per ristabilire i loro privilegi banditeschi.

La guerra civile è imposta alla classe operaia dai suoi nemici capitali. La classe operaia deve rispondere colpo su colpo, se non vuole farla finita con se stessa e rinunciare al suo avvenire che è al tempo stesso l’avvenire di tutta l’umanità. I partiti comunisti non provocano mai artificialmente la guerra civile, e se essa si presenta come necessità ineliminabile, si sforzano di abbreviarne la durata per quanto è possibile, di ridurre il numero delle sue vittime e principalmente di garantire al proletariato la vittoria. Ne consegue la necessità di disarmare tempestivamente la borghesia, di armare gli operai, di formare un esercito comunista che difenda il potere del proletariato e l’inviolabilità della sua struttura socialista. Tale è l’Armata rossa della Russia sovietica, che si erge a difesa delle conquiste della classe operaia contro tutti gli assalti dall’interno e dall’esterno. L’esercito sovietico è inseparabile dallo Stato sovietico.

Nella coscienza del carattere storico dei loro compiti gli operai più avanzati hanno mirato, sin dai primi passi del loro movimento socialista organizzato, ad unificare il medesimo su basi internazionali. La base fu posta a Londra nel 1864 dalla Prima Internazionale. La guerra franco-tedesca, da cui nacque la Germania degli Hohenzollern, travolse la Prima Internazionale e nello stesso tempo diede tuttavia impulso allo sviluppo dei partiti operai nazionali. Già nel 1889 questi partiti si riunirono nel congresso di Parigi e diedero vita all’organizzazione della Seconda Internazionale. Ma il centro di gravità del movimento operaio stava allora interamente sul terreno nazionale, nel quadro degli Stati nazionali, sulla base dell’industria nazionale, nel campo del parlamentarismo nazionale. Decenni di lavoro, di organizzazione e di riforme forgiarono una generazione di capi che in maggioranza riconosceva a parole il programma della rivoluzione sociale, ma nei fatti lo rinnegava, impantanandosi nel riformismo e nell’acquiescenza al governo borghese. Il carattere opportunista dei partiti dirigenti della Seconda Internazionale si rivelò chiaramente e condusse al più grande crollo della storia mondiale nel momento in cui il corso degli avvenimenti esigeva dai partiti operai metodi di lotta rivoluzionari. Se la guerra del 1870 inferse un duro colpo alla Prima Internazionale svelando che dietro il suo programma sociale rivoluzionario non esisteva ancora alcuna forza organica di massa, la guerra del 1914 uccise la Seconda Internazionale mostrando che dietro le masse operaie strettamente unite stavano partiti tramutatisi in mansueti strumenti del governo borghese. Ciò non si riferisce soltanto ai socialpatrioti che sono oggi passati apertamente al campo della borghesia e ne sono diventati i fiduciari preferiti, gli aguzzini più fidati della classe operaia, ma anche al centrismo socialista, nebuloso e instabile, che si sta ora sforzando di restaurare la Seconda Internazionale, cioè la ristrettezza di idee, l’opportunismo e l’impotenza rivoluzionaria della sua élite dirigente. Il partito indipendente in Germania, l’attuale maggioranza del partito socialista in Francia, il gruppo dei menscevichi in Russia, il partito laburista indipendente in Inghilterra e altri gruppi analoghi cercano effettivamente di occupare il posto che occupavano prima della guerra i vecchi partiti ufficiali della Seconda Internazionale, entrando in scena, come allora, con idee di compromesso e di unità, paralizzando in tu i modi le energie del proletariato, prolungando la crisi e aggravando così la miseria dell’Europa. La lotta contro il “centro” socialista è la necessaria premessa della lotta vittoriosa contro l’imperialismo.

Rifiutando la mediocrità, la falsità e la putredine dei partiti socialisti ufficiali deceduti, noi comunisti uniti nella Terza Internazionale ci sentiamo i diretti continuatori degli sforzi e dell’eroico calvario di una lunga serie di generazioni rivoluzionarie, da Babeuf fino a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.

Se la Prima Internazionale ha previsto lo sviluppo futuro e ne ha indicato il cammino, se la Seconda Internazionale ha radunato e organizzato milioni di proletari, la Terza Internazionale è quella dell’aperta azione di massa, dell’attuazione rivoluzionaria, della realizzazione.

La critica socialista ha sufficientemente bollato l’ordine borghese del mondo. Il compito del partito comunista internazionale è quello di abbattere quest’ordine e di erigere al suo posto l’edificio dell’ordine socialista.

Noi invitiamo gli operai e le operaie di tutti i paesi ad unirsi sotto la bandiera comunista, la cui insegna ha già riportato le prime grandi vittorie.

Proletari del mondo intero! Nella lotta contro la barbarie imperialistica, contro la monarchia, contro le classi privilegiate, contro lo Stato borghese e la proprietà borghese, contro tutte le forme dell’oppressione sociale e nazionale, unitevi!

Sotto la bandiera dei soviet operai, della lotta rivoluzionaria per il potere e la dittatura del proletariato, sotto la bandiera della Terza Internazionale, proletari di ogni paese, unitevi!
 

(Beschlüsse, Aufrufe)

 
 
 
 
 
 

Dalle Tesi della Sinistra al III Congresso del PCd’I (Lione, 1926)

«I, 3 - ... L’esame e la comprensione delle situazioni devono essere elementi necessari delle decisioni tattiche, ma non in quanto possano condurre, ad arbitrio dei capi a "improvvisazioni" ed a "sorprese", ma in quanto segnaleranno al movimento che è giunta l’ora di un’azione preveduta nella maggior misura possibile. Negare la possibilità di prevedere le grandi linee della tattica – non di prevedere le situazioni, il che è possibile con sicurezza ancora minore, ma di prevedere che cosa dovremo fare nelle varie ipotesi possibili sull’andamento delle situazioni oggettive – significa negare il compito del partito, e negare la sola garanzia che possiamo dare alla rispondenza, in ogni eventualità, degli iscritti al partito e delle masse agli ordini del centro dirigente. In questo senso il partito non è un esercito, e nemmeno un ingranaggio statale, ossia un organo in cui la parte dell’autorità gerarchica è preminente e nulla quella dell’adesione volontaria; è ovvio il notare che al membro del partito resta sempre una via per la non esecuzione degli ordini, a cui non si contrappongono sanzioni materiali: l’uscita dal partito stesso. La buona tattica è quella, che allo svolto delle situazioni, quando al centro dirigente non è dato il tempo di consultazione del partito e meno ancora delle masse, non conduce nel seno del partito stesso e del proletariato a ripercussioni inattese e che possono andare in senso opposto alla affermazione della campagna rivoluzionaria. L’arte di prevedere come il partito reagirà agli ordini, e quali ordini otterranno la buona reazione, è l’arte della tattica rivoluzionaria: essa non può essere affidata se non alla utilizzazione collettiva delle esperienze di azione del passato, assommate in chiare lettere di azione; commettendo queste all’esecuzione di dirigenti, i gregari si assicurano che questi non tradiranno il loro mandato, e si impegnano sostanzialmente e non apparentemente ad una esecuzione feconda e decisa degli ordini del movimento. Non esitiamo a dire che, essendo lo stesso partito cosa perfettibile e non perfetta, molto deve essere sacrificato alla chiarezza, alla capacità di persuadere delle norme tattiche, anche se ciò comporta una certa quale schematizzazione: quando le situazioni rompessero di forza gli schemi tattici da noi preparati, non si rimedierà cadendo nell’opportunismo e nell’eclettismo, ma si dovrà compiere un nuovo sforzo per adeguare la linea tattica ai compiti del partito. Non è il partito buono che dà la tattica buona, soltanto, ma è la buona tattica che dà il buon partito, e la buona tattica non può essere che tra quelle capite e scelte da tutti nelle linee fondamentali.

Noi neghiamo sostanzialmente che si possa mettere la sordina allo sforzo ed al lavoro collettivo del partito per definire le norme della tattica, chiedendo una obbedienza pura e semplice ad un uomo, o ad un comitato, o ad un singolo partito dell’Internazionale, e al suo tradizionale apparato dirigente.

L’azione del partito prende un aspetto di strategia nei momenti culminanti della lotta per il potere, in cui la parte sostanziale di essa prende carattere militare. Nelle situazioni precedenti l’azione del partito non si riduce, però, alla pura funzione ideologica, propagandistica ed organizzativa, ma consiste, come si è detto, nel partecipare e agire nelle singole lotte suscitate nel proletariato. Il sistema delle norme tattiche deve essere dunque edificato appunto allo scopo di stabilire secondo quali condizioni l’intervento del partito e la sua attività in simili movimenti, la sua agitazione tra il vivo delle lotte proletarie, si coordina allo scopo finale e rivoluzionario e garantisce simultaneamente il progresso utile della preparazione ideologica organizzativa e tattica».