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"Il Partito Comunista" - n° 284 - maggio-giugno 2001 - [.pdf]

PAGINA 1 – VIVA LA MONDIALIZZAZIONE, CHE PREPARA IL COMUNISMO !
                  – Bertinotti e il Cavaliere
                  – Peggio che schiavi: La nuova legge sugli stranieri in Spagna
                  – Il telefonino.

PAGINA 2ALGERIA, IERI E OGGI:
                     3. BASI STORICHE: TRIBÚ CONTRO PROPRIETÁ PRIVATA – La dominazione turca (1561-1830).
                     4. LA COLONIZZAZIONE FRANCESE 1830-1962 – Fasi successive della colonizzazione –
                                              Distruzione della proprietà indivisa delle tribù.

PAGINA 3 RIUNIONE GENERALE DEL PARTITO, Genova, 26-27 maggio  [RG80]
                          LA COMPLESSA DIALETTICA FRA PARTITO E CLASSE - LA MANIPOLAZIONE GENETICA - CARATTERI DELLO STATO PROLETARIO - ATTIVITÁ SINDACALE - “NUOVA ECONOMIA” E PROSPETTIVE DI CLASSE - IL PROLETARIATO IN GERMANIA DURANTE IL NAZISMO.
                   – Per la difesa degli interessi operai Rinasca il sindacalismo di classe !

PAGINA 4 – L’ipocrisia borghese e la cancellazione del debito.
                  – La vendetta della montagna stuprata.
 
 
 
 
 
 



PAGINA 1

Viva la Mondializzazione
che prepara il Comunismo !

Sappiamo distinguere l’inizio di un percorso dalla sua fine se ci rifacciamo al Trattato di Saragozza, 1529, col quale Papa Clemente VII sanciva la divisione fra Spagna e Portogallo delle sfere di influenza coloniale su tutto il mondo allora scoperto e sulla maggior parte ancora da scoprire. Ma ricordiamo che la moderna completa spartizione del Pianeta fra “un pugno di potenze imperialistiche” risale ormai all’inizio del secolo scorso. In un ciclo di quattrocento anni il mercantilismo prima, il capitalismo poi si sono sottomessi i continenti extra-europei, utilizzando i mezzi più efficaci: conquistadores e preti, ma più che altro i bassi prezzi delle merci esportate e la giusta miscela di liberismo e protezionismo, imposti con la forza degli Stati e delle armi, per penetrare nei cerchi economici chiusi e per la distruzione sistematica e spietata di ogni residua piccola agricoltura e industria locali.

La prima ed ancor più la seconda guerra mondiale sancivano, tragicamente, il compimento ultimo di questo processo di maturazione storica. Dal 1914 il capitalismo cessa di essere globalmente progressivo e ripiega sulla guerra solo per una nuova spartizione di paesi e popoli, che da questa non traggono alcun vantaggio: da quella data il loro progresso è ritardato, non provocato dal dominio dei bianchi.

Il processo di de-colonizzazione successivo alla seconda guerra, che si afferma per forze endogene in paesi maturi all’indipendenza politica, approfitta dell’indebolimento delle vecchie metropoli. Ma la conquista della dignità di Stati non li emancipa dal dominio economico delle più grandi potenze e dei giganteschi monopoli né realizza l’utopia della uguaglianza delle nazioni.

Conferma del carattere reazionario delle guerre mondiali il loro risultato, il semisecolare non conflittuale co-dominio dei due massimi imperialismi, polizia globale e sociale cuneo di bloccaggio nell’area da Lisbona a Varsavia e Budapest.

La recente “fine dei blocchi”, cioè la rottura del precedente equilibrio per effetto della crisi economica generale e dei mutati rapporti di forze, inaugura un’ultima stagione nell’incessante scontro fra le diverse concentrazioni di capitale.

Sia perché i rapporti sociali di produzione propri del capitalismo negli ultimi decenni hanno compiuto la loro penetrazione nei grandi e nei popolosi paesi dell’Asia, sia per l’esaurirsi del ciclo di accumulazione originaria dei capitalismi dell’est, stadio per le sue caratteristiche “eroiche” spacciato per “socialista”, e conseguente crisi e necessità di accesso al mercato mondiale, si sono venute ad aprire ai traffici nuove speranze di espansione. Si impone al capitalismo mondiale, alle prese con la caduta del tasso del profitto e con la saturazione sovrapproduttiva, la ricerca di ogni pertugio nello sferoide sia come mercato di acquisto di materie prime e forza lavoro per la riduzione dei costi, sia come mercato di vendita per le merci.

La “delocalizzazione” delle produzioni è favorita dai diminuiti costi di trasporto terrestri marittimi ed aerei e dalla disponibilità di forza lavoro moderna e a basso prezzo in regioni già prevalentemente agricole o nei paesi dell’Europa dell’Est, dove il rovescione istituzionale è servito a togliere al proletariato ogni tutela salariale e sociale. Nell’occidente la domanda capitalistica di forza lavoro attrae masse di proletari dai paesi più poveri.

La crisi, inoltre, porta alla rovina buona parte di quella industria e traffici minuti che erano fioriti, in tutti i paesi, sull’onda della ricostruzione post-bellica e che avevano alimentato per cinquant’anni le illusioni della classe piccolo-borghese i cui miti pestiferi si esprimono nelle ideologie e nei programmi dei partiti operai borghesi. Tornano così più visibili i grandi trust, le imprese multinazionali, che, per reagire alla crisi, proseguono nella tendenza segnata alla loro concentrazione e centralizzazione.

Grandi masse di valore sono spinte ad una corsa parossistica intorno al mondo per sfuggire alla loro distruzione come capitali. Queste masse sono spesso quantitativamente assai superiori a quelle di cui dispongono gli Stati nazionali, anche i non più piccoli, per cui la forza di questi si deve confrontare e venire a patti con quelle, cosa che non può certo stupire chi conosce la dialettica scoperta dal marxismo fra Diritto, Violenza ed Economia. In una certa misura, quindi, i singoli Stati vengono a perdere una parte della loro “sovranità” in un gioco di forze che li vede affrontati a colossi finanziari-industriali, singolarmente e alla loro associazione nei massimi Stati imperiali. Ma non per questo è in atto né è da prevedere una inversione nella tendenza storica all’ipertrofia degli apparati repressivi statali invasivi in tutti i campi del vivere sociale.

Giganteggiano gli Stati Uniti su Giappone ed europei, in lotta fra loro, ed incalzati tutti dai sopravvenienti asiatici di taglia diversa, infine gli Stati minori, ultimi per povertà o dimensione.

La mondializzazione è insomma il capitalismo, che nel suo ciclo economico assume aspetti diversi, più o meno visibili. Oggi è fenomeno che si inscrive nella generale crisi economica di sovrapproduzione.

Dalla mondializzazione indietro non si torna.

Chi si stringe, opportunisticamente o per convinzione, intorno alla parola d’ordine, utopistica se qualcosa vuol dire, di “opporsi alla mondializzazione”, vestito di anti-americanismo, di ecologismo, di libertarismo, o insieme di liberismo e statalismo, si pone su di una china che coerentemente lo spinge verso il patriottismo, il razzismo e il militarismo capitalistici. Forse fra le previste reazioni all’ostentazione compiaciuta dell’arbitrio dei massimi tiranni del Capitale su di un mondo davvero indifeso, c’è proprio alimentare quel nazionalismo che nella civile Europa ha le radici, e non è escluso che un domani il grande cosmopolita capitale abbia interesse di nuovo a staccargli la catena.

La piccola borghesia teme questi e quelli, vorrebbe la “liberalizzazione” ma non “incontrollata”, insomma un ritorno ad un mai esistito passato nella speranza di recuperare le condizioni dei suoi minacciati miseri privilegi che possono sopravvivere solo in ambienti chiusi e protetti.

La classe operaia non ha nulla da spartire con questa gente, perché ha un mondo, quel mondo, da conquistare. È vero che la caduta del Muro, il trasferire le produzioni da un paese all’altro, l’importazione di manodopera a bassi salari, l’unificazione forzata delle condizioni di vita operaia all’immediato costituiscono fattori di indebolimento della lotta difensiva della classe e peggioramento delle condizioni del lavoro, contro cui è giusto riflettere, organizzarsi e lottare (ma in opposizione a tutte le forze e partitacci rappresentati nel Forum). Ma rappresentano anche il culmine massimo della parabola e funzione del nostro storico nemico. Il capitalismo, corsaro sui mari, ha finito di fare quello che doveva fare e di cui gli siamo riconoscenti: la formazione della interrazziale classe dei suoi becchini. Questa si sdebiterà non rifiutando il dono, negando se stessa e rifugiandosi sotto la protezione della propria borghesia nazionale, ma raccogliendo la sfida. Ucciso il mostro, non riconsegnerà il mondo finalmente mondializzato a miscugli popolari di classi e di nazioni, ma finirà di liberarlo verso la società dei lavoratori, certo complessa ma fraternamente stretta e tendende alla formazione di un uomo universale.
 
 


Bertinotti e il Cavaliere

Il telecavaliere Silvio Berlusconi non manca occasione di dilettare il suo gregge votante con uscite “anticonformiste”: più grosse le spara più rende felice il suo popolo ipnotizzato dai tubi catodici, una vile piccola borghesia la quale, alla ricerca di un Duce che prometta di difenderla, guarda in direzione di Arcore come se si trattasse di Gerusalemme. Una delle ultime sparate è stata quella riferita all’omicidio D’Antona che ha fatto strepitare tutta la borghese “sinistra” italiana, la quale però ha risposto al diabolico bestemmiatore con altrettanta trivialità.

Non avendo più la borghesia alcuna positiva ragione storica di esistere, ed essendo ormai d’intralcio allo stesso capitalismo, l’unico argomento che possono esprimere i suoi rappresentanti politici è negativo, dir peste e corna degli avversari: linciaggi morali, insulti grossolani, eccetera, eccetera.

D’altra pasta, almeno per quanto riguarda la forma, erano alcuni rappresentanti dell’antica Prima Repubblica i quali, quando, mummificati ma non ancor morti, riprendono la parola, lo fanno con uno minimo di stile. Andreotti, ad esempio, nel mezzo dell’incanamento delle affermazione cavalleresche riguardo all’affaire D’Antona, con tranquillità ha espresso un giudizio altamente positivo nei confronti di Rifondazione Comunista: «Esiste il pericolo – dice – della nascita di forme diverse di extraparlamentarismo. E questo sistema elettorale rende la vita piuttosto difficile a Rifondazione Comunista che ha un suo ruolo, quello di portare una parte della sinistra, chiamiamola pure estrema, nel Parlamento. E se non c’è modo di esprimersi in Parlamento ci sono dei rischi». Il Bertinotti va in un brodo di giuggiole e risponde: «Il senatore Andreotti ha fatto più volte questa osservazione sul nostro ruolo. Con la nostra presenza possiamo garantire che le rivendicazioni, che giustamente maturano nella società e che purtroppo non trovano risposta, non prendano strade diverse da quelle della legalità democratica e della partecipazione. Prendo atto di questo apprezzamento che ci viene rivolto» (“La Repubblica”, 23 aprile).

Si noti che, nella sua breve affermazione, Andreotti non fa la solita professione di fede democratica contro il terrorismo; sa bene che il terrorismo, come metodo di lotta politica, è del tutto sterile. Andreotti parla invece, più in generale, di “forme diverse di extraparlamentarismo”. Meno “elettorale” di Berlusconi non nomina il comunismo, ma proprio quel pericolo intende. Il suo messaggio è rivolto ai nuovi politici “anticomunisti” ai quali vorrebbe insegnare come vanno trattate le “opposizioni”, specialmente quelle di “estrema sinistra”; ben ricorda quanto spazio e quanto fertile terreno i democristiani abbiano concesso al PCI di Togliatti e successori. Allo stesso modo deve essere trattato il partito di Bertinotti proprio perché, all’interno del sistema capitalistico borghese, svolge una funzione insostituibile: quella di imbrigliare, per quanto possibile e quanto a lungo possibile, le forze rivoluzionarie che dovessero risorgere.

Il partito di Bertinotti, che oltre alla “erre” deve avere moscia anche l’intelligenza, nemmeno è riuscito a respingere l’apprezzamento di colui che aveva definito “grande padrino mafioso”, a conferma che svolge coscientemente e di buon grado il ruolo di garante che le rivendicazioni di classe non escano dalla gabbia demo-legalitaria. Rifondazione svolge la funzione prettamente reazionaria dei partiti dell’opportunismo classico e che fu dello stesso PCI: alla lettera, “impedire che le rivendicazioni che naturalmente maturano nella società e che non trovano risposta” – perché all’interno di questa società capitalista non possono trovarla – “non prendano strade diverse da quelle della legalità democratica”.

L’impersonale Capitale (che non è di “destra” né di “sinistra” e disprezza i Cavalieri quanto i Fausti, e se ne serve) può legittimamente gioire del fatto che da ben oltre il mezzo secolo il partito rivoluzionario di classe è stato sbaragliato e che l’esiguo drappello di comunisti che hanno resistito ai drammatici cataclismi controrivoluzionari, al momento non hanno la ben che minima influenza su di un proletariato che solo episodicamente e con enormi sforzi dà segni di vitalità e determinazione al combattimento ma che, in un modo o nell’altro, viene presto ricondotto all’obbedienza.

In questa fase storica, contraddistinta dalla sconfitta della classe operaia e dall’assenza del partito comunista che la illumina, le reali tensioni e le vere esplosioni di rivolta sociale, incontenibili, vengono deviate in forme ed indirizzi che niente hanno di rivoluzionario e che non mettono minimamente in pericolo le sorti del modo di produzione capitalista. Anzi, sovente il capitalismo riesce ad inserirle all’interno delle sue necessità di sopravvivenza come metodo di produzione e come dominio di classe. Milioni di proletari e diseredati, che in occidente sono imbrigliati nelle illusioni riformiste ed elettorali, nei paesi più poveri sono mobilitati dai vari integralismi religiosi, etnici, nazionalistici, etc.

È però evidente che per costringere la classe dei salariati a rimanere classe di salariati non basta confidare sulla convinzione e sull’inerzia ma occorrono specifici apparati di contenimento e di inganno. Lo Stato capitalista, prima durante e dopo lo strepitio elettorale, sa che la forma cinetica della lotta di classe è rimandabile ma non evitabile, e che non potrà impedire che il partito comunista rivoluzionario prenda la testa di un proletariato libero dai lacci della legalità e ritualità democratica.

Il regime capitalista, malgrado la sua strapotenza, non è riuscito a cancellare “l’idea” del comunismo e se noi comunisti individui continuiamo ad esistere lo si deve a precise forze materiali che separano e spingono le classi alla lotta.
 




PEGGIO CHE SCHIAVI
La nuova legge sugli stranieri in Spagna

In Spagna, in coincidenza con l’approvazione della Legge sugli Stranieri predisposta dal governo borghese diretto dal Partito Popolare, nelle principali città si sono avute manifestazioni di protesta dei lavoratori immigrati. La nuova Legge infatti viene a togliere ogni diritto civile al lavoratore straniero non regolarizzato trasformandolo per legge in un non-uomo: non solo gli si nega il diritto di manifestare, di comunque riunirsi ed associarsi, di scioperare e di aderire ad un sindacato, ma perfino quel che si riconosce al peggiore dei criminali, di potersi difendere ricorrendo al patrocinio di un legale! Gli si preclude infine anche la possibilità di richiedere dal padrone il salario guadagnato e non pagato. Insomma un trattamento “civile e democratico” che lo fa ben più misero dello schiavo antico, al quale, almeno, era d’uopo fornire sostentamento e alloggio.

Delle reazioni di protesta alla nuova schiavista Legge spagnola ha avuto maggiore risonanza, anche per l’incidente avvenuto a Lorca nel gennaio scorso, quella della numerosa comunità ecuadoriana nella Murcia, regione la cui base economica è fondamentalmente agricola e nella quale i lavoratori immigrati costituiscono per i capitalisti un filone d’oro. In condizioni irregolari, senza documenti che autorizzino la loro presenza in Spagna, sono preda facile della rapacità dei padroni che, col pretesto della mancanza di mano d’opera autoctona (col tasso di disoccupazione regionale più alto d’Europa!), gli pagano una miseria dopo massacranti giornate di lavoro, per lo più nel clima insopportabile delle serre. La situazione di questi proletari è praticamente la stessa che descrivevano i maestri del socialismo un secolo e mezzo fa. Come è successo ad El Ejido, ciò che realmente preoccupa il mondo borghese è che questi lavoratori si organizzino, superando la paura, per rivendicare i loro diritti.

Si noti che, mentre demagogicamente simili leggi vengono presentate in tutta Europa come a difesa dei lavoratori nazionali dalla concorrenza degli immigrati, sono congegnate per agire esattamente al contrario. La repressione legale non è dell’immigrazione, ma dei lavoratori immigrati! Questi, spinti dalla fame, anche rischiando la vita trovano comunque il pertugio per entrare, ed una volta entrati, clandestini per legge e privi di ogni diritto, sono costretti a vendersi a salari minimi consentendo così ai padroni il peggioramento dei trattamenti in generale. La internazionale e interculturale solidarietà proletaria che invochiamo non si giustifica, quindi, solo su un sano principio di morale di classe, ma anche su un preciso interesse immediato di tutti i lavoratori. Il movimento operaio non può che battersi per la totale parità di diritti civili per chiunque presti il suo lavoro in un dato paese.

Per il momento la lotta che conducono i lavoratori immigrati sta ottenendo un appoggio quasi nullo da parte della classe operaia europea. Ma è solo questione di tempo, prima o poi, travolti i tanti ostacoli che innaturalmente li dividono, convergeranno nella lotta comune contro lo sfruttamento capitalista, che non distingue fra lavoratori immigrati o nativi, formando entrambi un’unica classe operaia costretta a battersi per i suoi obbiettivi immediati e storici.
 
 




Il telefonino

Da più parti, negli ultimi decenni, con lo sviluppo dei “fantastici” mezzi di comunicazione di massa, tra i quali internet e gli invadenti telefonini (che qualcuno asserisce nefasti friggitor di cervelli, non solo metaforicamente), si sbandiera ai quattro venti la fola di una presunta rivoluzione nella vita sociale.

L’uso spropositato della parola rivoluzione, della tecnica, delle leggi, del costume, ecc., evidenzia il bisogno della reazionaria società borghese di illudere e di illudersi di cambiare, tanto che ci ritroveremmo una rivoluzione ogni cinque minuti.

Noi marxisti, “gente all’antica”, impersonale cervello della classe operaia da non lessar nel microonde demenzial-mediatico, sosteniamo la vecchia dialettica, difficile da insegnar per telefono, che ogni rivoluzione tecnica è inutile, quando non dannosa, ai viventi se non culmina in una rivoluzione politica, da farsi nel vecchio modo del trionfo della classe sottomessa sulla dominatrice, padrona di ogni tecnica.

Le conseguenze dell’odierno impetuoso sviluppo delle telecomunicazioni lo confermano.

Internet e posta elettronica, in fondo, non sono altro che un perfezionamento, rispettivamente, della carta stampata e del telegrafo. Qui si può osservare chiaramente come i rapporti mercantili capitalistici vengano a ritardare, intralciare fino ad impedire proprio quelle applicazioni che la loro adorata Tecnica consentirebbe. Riducono l’internet a strumento per ridurre i tempi di circolazione del capitale, con il commercio “elettronico”, quando in ambiente non-mercantile la mirabile rete che abbraccia il mondo si potrebbe assai meglio e più utilizzare. Oggi è destinata prevalentemente alla pubblicità commerciale e le vere notizie vi appaiono quasi clandestinamente o come esca sospetta per le reclami.

I telefonini, un tempo disponibili solo per i managers, sono successivamente divenuti beni di massa, imposti come status simbol ad un’umanità, evidentemente, senza status, rimpinguando con un fiume di risparmi, ahimè anche proletari, le casse delle multinazionali che li vendono e ne gestiscono centrali, linee ed antenne.

Il problema, ripetiamo, non è nella cosa in sé ma nel suo utilizzo. In questa società costretta alla solitudine individuale il telefonino surroga la necessaria comunione umana, in una nevrotica comunicazione permanente, per non sentirsi mai soli. Quella, che oggi manca ai lavoratori, è la comunione di classe che si può realizzare solo nella lotta collettiva, nel sindacato, contro gli effetti del capitalismo e nella unitaria coscienza della dottrina comunista, nel partito. Serve ri-trovarsi fisicamente, nelle assemblee, nelle piazze, nei comizi: non a caso il Inghilterra hanno inventato il voto per gli scioperi per posta!

Televisione, telefonino e computer non per comunicare ma schermi dietro cui nascondersi, vedere ascoltare leggere senza esser visti, perché, in una razza di concorrenti, esser visti rende vulnerabili. In un mondo dove ciò che è più naturale e spontaneo diventa artificiale e tormentato, i mezzi di comunicazione, dai tradizionali ai moderni, si riducono a stretta feritoia celati dietro la quale, cauti, sbirciano gli uomini.

Il problema non è, come dicono i moralisti, la mancanza di sentimenti, i quali sono più presenti ed impetuosi che mai, ma nascosti e repressi per la pressione esercitata dalla squallida legge del tornaconto individuale su ogni individuo, molecola sparsa, creatura indifesa abbandonata tra le onde impetuose della società del Capitale.

Per trovare ed esprimere se stessa l’umanità lavoratrice non ha bisogno di nuovi particolari strumenti ma solo di abbattere le mura che la imprigionano e la dividono. Ed il canto che si alzerà dalla società comunista sarà sentimentale, prima che razionale.
 
 
 
 
 
 
 

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ALGERIA, IERI E OGGI
(Continua dal numero scorso)

3. BASI STORICHE: TRIBÚ CONTRO PROPRIETÁ PRIVATA
La dominazione turca (1561-1830)
4. LA COLONIZZAZIONE FRANCESE 1830-1962
Fasi successive della colonizzazione
Distruzione della proprietà indivisa delle tribù

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 3


Riunione Generale del Partito
Genova, 26-27 maggio 2001
[RG80]
  • LA COMPLESSA DIALETTICA FRA PARTITO E CLASSE
  • LA MANIPOLAZIONE GENETICA   [Resoconto esteso: Italiano - Español ]
  • CARATTERI DELLO STATO PROLETARIO
  • ATTIVITÁ SINDACALE
  • “NUOVA ECONOMIA” E PROSPETTIVE DI CLASSE   [Resoconto esteso: Italiano - Español ]
  • IL PROLETARIATO IN GERMANIA DURANTE IL NAZISMO.

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    Abbiamo tenuto la nostra periodica riunione di partito a Genova gli scorsi giorni 26 e 27 maggio con la partecipazione di ampia rappresentanza delle nostre sezioni. Al solito nella seduta del sabato mattina abbiamo teso ad un piano unitario che leghi i diversi contributi al lavoro del partito, in un processo continuo di ricapitolazione del bagaglio programmatico, che prevede sia la manutenzione delle armi di dottrina e l’addestramento all’uso sia la loro verifica nella interpretazione degli eventi dell’oggi. Questa dura opera si può svolgere solo in un ambiente di partito che fraternamente integri le capacità di ognuno in una continuità al di sopra degli individui e delle generazioni di militanti.

    Qui riportiamo una prima sintesi delle relazioni, che spingono incursioni in direzioni diverse partendo dalla roccaforte della nostra originaria scienza marxista. Il testo definitivo e completo degli esposti sarà pubblicato nel prossimo numero di “Comunismo”.
     

    LA COMPLESSA DIALETTICA FRA PARTITO E CLASSE

    Il primo rapporto ha presentato un ampio excursus su come il marxismo imposta il rapporto dialettico fra partito e classe, sulla scorta di abbondante riferimento a tesi e scritti della Sinistra spaziante dagli anni ’20 infino alle tesi del 1965.

    Risale alle origini del movimento comunista marxista la distinzione fra partito e movimento di classe. Il partito è la coscienza della classe, conosce per la classe e per essa prevede. Nel partito, che scavalca le generazioni, si è accululato un patrimonio di dottrina che è vano pretendere di trovare nei singoli membri della classe. Il movimento della classe è invece determinato da necessità materiali, economiche, che la costringono costantemente a difendersi. Questo ineliminabile moto anti-padronale scaturisce dalle sofferenze e dei singoli lavoratori e del loro insieme come classe lavoratrice, all’uopo organizzata in sindacati.

    La funzione del partito è quella di opporsi all’influenza, sui singoli membri della classe e sulle sue organizzazioni, dei partiti della classe avversa.

    Questo intervento del partito non si riduce ad un’azione educativa sulla massa in quanto sappiamo che il partito rimarrà una minoranza della classe fino a rivoluzione combattuta e vinta. Il partito svolge sì la propaganda della sua difficile dottrina e della sua tattica rivolta ai singoli lavoratori al fine del reclutamento di militanti, ma prevede che la classe nel suo insieme si porterà sul terreno della rivoluzione non per aver capito ma per le necessità stringenti della sua lotta immediata. La rivoluzione si farà, dal punto di vista dei lavoratori, non per convincimento sulla necessità dei fini ultimi, ma come coerente proseguimento, con i metodi indicati dai comunisti, dell’azione difensiva.

    Il relatore quindi esponeva il diagramma che rappresenta questo meccanismo, noto come capovolgimento della prassi.

    In senso verticale verso l’alto vi si legge l’azione delle determinazioni materiali che, sia per gli individui sia per la classe, muovono nella seriazione Spinte fisiologiche-Interessi immediati-Azione-Volontà-Coscienza.

    In orizzontale da destra a sinistra è l’intervento, prima sui singoli poi e loro tramite sulla classe, dell’influenza della conservazione, che si attua su tutti i piani, della coscienza, della volontà e delle forze attive. Anche per il partito controrivoluzionario viene prima l’azione, poi la volontà, infine la scienza.

    In obliquo convergente nel partito la meccanica della sua formazione storica, sintesi secolare ma anche attuale degli interessi, delle lotte, della volontà a classe.

    Infine, in orizzontale da sinistra a destra, il nostro intervento di partito rivoluzionario, rivolto alla classe e ai suoi membri, che ugualmento si svolge sui tre piani della propaganda della dottrina, delle scelte tattiche, della direzione dell’azione. Solo per il partito si capovolge la prassi, attività e volontà discendono dalla dottrina.
     

    LA MANIPOLAZIONE GENETICA

    Il secondo rapporto ha affrontato la controversia sulle tecniche di manipolazione del vivente, oggetto di grandi speranze da parte borghese, speranze di profitti, naturalmente, non di benessere per l’umanità. Al di là della imponente campagna pubblicitaria cui partecipano tutti, dai media ai politici, dalle istituzioni governative ai ricercatori, tutti sul libro paga delle grandi multinazionali farmaceutiche, chimiche e sementiere, il rapporto ha dimostrato che l’ipocrita entusiasmo sui presunti miracoli della “scienza” è suscitato da nient’altro che dall’aspettativa di lucrosi affari. I vantaggi per gli umani, se ci sono, sono casuali mentre le moderne biotecnologie comportano, oltre ad alcuni danni già accertati, notevoli rischi per i sei miliardi di esseri della nostra specie, che per i signori del profitto sono solo un mercato con il quale arricchirsi.

    Il rapporto ha descritto le principali di queste tecniche innovative ed i loro effetti sull’ambiente, sulla salute, sull’agricoltura. Risulta che le aziende produttrici non hanno alcun scrupolo (né, d’altronde, ce lo aspettavamo) a lanciare qualsiasi innovazione non appena ritengano che il mercato possa rispondere, senza curarsi delle conseguenze negative che ciò può comportare. Questo è loro reso possibile sia da compiacenti “vuoti” legislativi, sia dai mezzi anche “illegali” cui ricorrono per imporre il loro prodotto. Gli esempi ormai sono numerosi sulle ciniche gesta delle multinazionali.

    Una società organica, cioè comunista, consiglierebbe una moratoria pluridecennale all’utilizzo sul campo di quasi tutte queste nuove tecniche in attesa di sperimentazioni e informazioni attendibili. Ma per la borghesia questa è una guerra che conduce contro tutta l’umanità, nel disperato tentativo di sopravvivere mantenendo a livelli accettabili il saggio medio di profitto. Questo, nonostante ogni sua infamia, non può che fatalmente calare decretandone la sua morte. Deve andare avanti, costi quello che costi, travolgendo tutti gli ostacoli che si presentano, nel nome sacro del dividendo.

    L’intelligenza anche di sinistra dà risposte assolutamente inadeguate. Ammesso che sappia di cosa si tratta, o si accontenta delle generose bustarelle, o minacce, della Monsanto o simili, o denuncia i pericoli, ma implora l’anarchica borghesia di andarci un po’ più piano nel far profitti, oppure propone alternative arcadiche assolutamente visionarie e imbelli, facilmente massacrate dai pennivendoli della borghesia.

    Il rapporto si è concluso ricordando che il proletariato rivoluzionario, e quindi il suo partito, non è contro scienza e progresso, ma il suo fine, centro del programma di emancipazione, è il raggiungimento di un rapporto armonico tra gli uomini e tra uomini e natura. A questo scopo non esiteremo vuoi a costruire vuoi a distruggere, sapremo progredire, ma così liberi e forti anche da poter talvolta “regredire” nella tecnica, a seconda della bisogna. Sapremo proteggere o modificare la natura nella proporzione che sarà ritenuto saggio.

    Denunciato il mito odierno dello “sviluppo” ed estinta la parola stessa di profitto, quella società baserà le sue scelte sulle conseguenze della tecnica, non sui dividendi aziendali, ma sulla vita degli uomini che nascono e nasceranno in tutto un sempre più profondo futuro visibile.
     

    CARATTERI DELLO STATO PROLETARIO

    Come terzo rapporto un giovane compagno ha illustrato una robusta traccia di uno studio che dovrà addivenire ad una formulazione dei caratteri del futuro Stato proletario, che non sarà uno Stato “nazionale”.

    Si è dapprima accennato alla nascita, evoluzione e caduta della sovrastruttura politica dei sistemi precapitalistici, per passare poi alla rivoluzione francese e alla nascita del moderno Stato nazionale, cioè borghese.

    Nei moti del 1848 il proletariato, una volta costituitosi in classe a sé contro il Capitale, si costituisce in partito e tenta di sovvertire lo schiacciante ordine borghese ma senza un piano preciso ed uno schema teorico.

    È la Comune parigina del 1871, il primo esempio di Stato proletario a livello embrionale, ma solo con la rivoluzione bolscevica del 1917 si ha la costituzione del primo vasto Stato proletario.

    La futura rivoluzione socialista utilizzerà il bastone dello Stato proletario, con sue determinate caratteristiche e con sue finalità, fra le quali quella della sua auto-estinzione come organismo politico nella società comunista.
     

    ATTIVITÁ SINDACALE

    Per ultimo argomento del sabato davamo resoconto dell’attività sindacale del partito, in particolare fra i macchinisti organizzati nel CoMU e fra gli statali dell’RdB.

    Dei primi, dei quali si dava brevemente notizia del loro congresso a Rimini appena concluso, è confermato il carattere di sindacato di mestiere. Pur sottoposto a notevoli pressioni dal per niente favorevole ambiente esterno, mantiene la sua autonomia dal padronato e dallo Stato e non tradisce la combattività della sua base.

    Fra gli statali invece la forza è notevolmente minore e i sindacati “di base” proprio di una base mancano e talvolta faticano anche a darsi una chiara impostazione chiaramente di tipo sindacale. In assenza di una spinta dal basso alla quale render conto, la dirigenza, spartita in tutte le sfumature, comunque non proletarie, da Rifondazione all’Autonomia, riesce non solo a distogliere le lotte ma perfino ad impedire che il sindacato nasca e viva sulle sue basi.

    Ne è un esempio l’indizione, quanto mai velleitaria con i rapporti di forza attuali, dello “sciopero generale” il 20 luglio, per l’adesione alla manifestazione interclassista del “Genoa Global Forum”. Gli atteggiamenti particolari di questo assembramento si vogliono così imporre al movimento dei lavoratori, per “caratterizzarlo politicamente”, dicono, cioè per imporre una pregiudiziale ideologica “di sinistra” a dei sindacati in formazione, trasformandoli in sicure appendici dei partitacci che li controllano. Non è un caso che si invitino i lavoratori a scioperare e si mandino a manifestare a Genova privi di una qualsivoglia propria piattaforma rivendicativa e parola d’ordine se non una incomprensibile, ma certo reazionaria, “anti-globalizzazione”.
     

    “NUOVA ECONOMIA” E PROSPETTIVE DI CLASSE

    Riprendevamo i lavori l’indomani domenica mattina con un rapporto sui miti contemporanei di “nuova economia”.

    Se l’ansia è il sentimento che rischia di travolgere la classe media (hanno scritto “The anxious class”), la pazienza deve caratterizzare il proletariato, ultima della storia, che ha il compito di mettere fine alla società di classe.

    La cosiddetta “new economy” una ne fa ed un’altra ne inventa, ma non potrà mai abbattere la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto; così si agita in tutte le direzioni, propone alleanze ibride, trasversali, come del resto hanno sempre fatto, in una miscela mefitica oscillante tra populismo e liberismo.

    Noi abbiamo vaticinato da lungo tempo che il macello economico delle mezze classi spianerà la strada alla presa del potere da parte del proletariato, ma alla condizione che questo non si illuda di farlo stando con le mani in mano, o mano nella mano con quelle mezze classi, evitando di rimettere in piedi organismi economici di difesa del salario, come condizione elementare perché possa ricongiungersi al suo Partito storico e formale.

    Un po’ tutti giocano a scommettere sulle grandi possibilità dell’economia fondata sull’informatica, la telematica ed altri mezzi “virtuali”; ma al momento dei conti devono ammettere che non sono sufficienti a debellare lo spettro del “comunismo”, anche quando si sbracciano a dire che è stato sepolto dalla storia. Certo, quello falso, che gli opportunisti hanno preso per “reale”, è crollato, come è crollato il “mito Russia”, da noi preconizzato già 70 anni fa. Il Capitale non può fare a meno del lavoro salariato, anche quando le tute blu, statisticamente parlando, sembrano lasciare spazio a quelle “bianche”.

    Questo nei paesi metropolitani, ampiamente ingannati dalle briciole e dalle merci “superflue”; ma intanto i proletari, a livello mondiale, stanno sempre peggio. Si parla (e si minaccia!) di due miliardi di diseredati, condannati alla miseria dalle diseguali condizioni di sviluppo della globalizzazione. Non una parola, naturalmente, sul leniniano imperialismo di Est e di Ovest, parola obsoleta, che si vorrebbe enominare per sempre.

    Ma noi, pazienti, svolgiamo il nostro compito.
     

    IL PROLETARIATO IN GERMANIA DURANTE IL NAZISMO

    Ultimo della riunione ascoltavamo un rapporto teso a ricordare come il partito marxista abbia sempre considerato l’area centro-europea, e in particolare la Germania e il suo proletariato, cardine strategico della lotta rivoluzionaria per il potere mondiale e si sia battuto per la difesa dell’onore di questo reparto della classe operaia mondiale. Questo, dopo esser stato tradito dai suoi capi, socialdemocratici e stalinisti, massacrato prima dagli hitleriani poi dai “liberatori” alleati, ha dovuto da allora subire la mai revocata accusa di complicità col suo carnefice nazista.

    Il lavoro tende a corroborare tre teoremi dell’analisi teorica del partito, già espressi prima e durante la seconda guerra mondiale e pienamente confermati dallo sviluppo storico successivo:

    1. Gli imperialismi vincitori sul nazismo ne hanno poi realizzato il progetto a scala mondiale;
    2. Tale progetto si è potuto attuare anche per lo sterminio fisico della classe operaia tedesca e russa nel corso della guerra, un piano di vera “soluzione finale” nei confronti della Rivoluzione comunista che nei due paesi aveva osato l’assalto al cielo;
    3. La classe operaia tedesca è stata la prima vittima della violenza nazista, opera di contenimento antiproletario continuata con l’occupazione militare da ovest e da est.

    Il relatore ha fatto riferimento e letto stralci dai testi della significativa produzione di partito sulla questione tedesca dal 1918 al 1993.
     
     
     
     
     
     
     
     



    Per la difesa degli interessi operai
    Rinasca il sindacalismo di classe !

    Questo è il testo del volantino che abbiamo distribuito a Madrid ad una manifestazione delle opposizioni sindacali.

    Il sorgere delle associazioni operaie per la difesa del salario e la riduzione della giornata di lavoro fu conseguenza diretta del diffondersi del sistema capitalista. I lavoratori compresero rapidamente la falsità delle “verità eterne” propagandate dalla borghesia e il sindacalismo originario assunse forme che si scontravano direttamente con il padronato e con lo Stato che da esso emana. I capitalisti presto compresero che la repressione diretta del movimento operaio non sarebbe stata sufficiente ad impedire la rivoluzione sociale antimercantile e anticapitalista, perciò si risolsero al riconoscimento delle sue forme organizzate. Ma questa fase intermedia trapasserà in un’ultima dopo la Seconda Guerra Mondiale: quella della sottomissione degli organismi sindacali allo Stato borghese.

    In questa fase la condizione operaia non solo resta precaria ma comincia a peggiorare. Una prova l’abbiamo nel limite “legale” della giornata di lavoro fermo da decenni, mentre che la giornata “reale” si prolunga, tramite il lavoro nero e lo straordinario, molto oltre le 8 ore. E questo è solo un aspetto del progressivo degradarsi della condizione operaia, dell’attacco ogni volta più brutale e diretto del padronato e del suo Stato contro l’insieme dei salariati.

    Per questo attacco contano sull’appoggio dei sindacati di regime, che tutti i paesi, compresi quelli che ancora nascondono lo sfruttamento salariale sotto l’etichetta di “socialismo”, si dimostrano come i più solidi puntelli del sistema capitalista.

    Contro tutto questo la classe operaia ha una sola alternativa: lottare contro i contraccolpi del capitalismo sui lavoratori. Ma senza dimenticare che questa necessaria lotta contro gli effetti deve condurre alla lotta contro le cause, cioè, guerra a morte contro la società borghese e il suo sistema di sfruttamento, contro la schiavitù salariale e il mercantilismo. Il fine è sostituire, dopo la sconfitta e la dispersione del nemico di classe, l’anarchia della produzione capitalista con la organizzazione razionale delle necessità umane, col criteri della utilità della specie, e non del rendimento mercantile e monetario.

    Per la difesa intransigente degli interessi operai! Per la rivoluzione sociale e il comunismo!
     
     
     
     
     
     
     
     

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    L’ipocrisia borghese e la cancellazione del debito

    Alcuni anni fa al Festival della canzone italiana di San Remo fu invitato come ospite speciale un cantautore italiano, tal Jovannotti, che guadagnò il suo lauto cachet esibendosi con una canzone-protesta in stile rap con cui invitava il presidente del Consiglio di allora, tal D’Alema, a cancellare il debito pubblico che i paesi più poveri avevano verso l’Italia. Per meglio definire il quadro di tanta ipocrisia, possiamo aggiungere che il rap è un genere musicale nato alla fine degli anni Settanta come “espressione di protesta” dei giovani negri americani; è caratterizzato dal prevalere della voce, una sorta di parlato molto ritmato, su una base musicale uniforme e cadenzata, così si legge sul dizionario. Poca musica, molto malessere del sottoproletariato delle metropoli americane e, per estensione consumista verso tutto ciò che proviene dagli Usa, il rap è il modo di protestare di tutti i “giovani” stile centri sociali.

    L’esibizione dell’allampanata controfigura di San Francesco fece l’immediato e dovuto scalpore al punto che lui con suoi altri colleghi, impegnati a far soldi e campagne sociali, furono successivamente invitati a Palazzo Chigi ad un colloquio dovuto come pubblica risposta da parte del governo italiano in merito al problema sollevato. Il Presidente D’Alema, dietro i baffetti da sparviero governativo, riferì del suo personale interessamento al grave problema, del suo impegno nelle dovute sedi e concluse l’incontro con la scontata promessa di fare qualche cosa anche se, si capisce, simili decisioni non possono essere prese da un singolo paese ma occorre un piano globale concordato dalle maggiori potenze creditrici...

    La cosidetta opinione pubblica, mefitica pozione preparata e fatta ingollare alla piccola borghesia che è scema anche quando crede di esser furba, sentenziò che si trattava sicuramente di una trovata pubblicitaria del cantante utilizzata a fini di immagine personale e al tempo stesso per alzare gli indici di ascolto della trasmissione e giustificare così gli alti costi degli spazi pubblicitari di contorno. Altri invece invocarono la cristiana invocazione del Padre Nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, visto che le celebrazioni del Giubileo per l’anno 2000 erano in fase di avviamento. I duri di cuore la lessero invece come una provocazione elettorale e parlamentare da parte delle “sinistre più estreme”.

    Altri, più concretamente, ammisero che essendo ormai impossibile avere indietro interessi e capitale da chi sta letteralmente morendo di fame, non potendo fare altro, conviene, obtorto collo, fare “i signori” e cancellare, almeno in parte, i crediti inesigibili. I cinici protestarono che i debiti di quegli sfaticati li avrebbero dovuto pagare i soliti “contribuenti”.

    Tutto poi, come al solito, dopo qualche scaramuccia su stampa e televisione, finì nel dimenticatoio. Di tanto in tanto, molto discretamente, venivano diffuse notizie che il Governo italiano aveva provveduto alla riduzione parziale del debito verso alcuni paesi dichiaratamente insolvibili senza meglio specificare il quadro delle manovre e i dettagli dell’intervento.

    Ma, poichè il capitalismo non fa niente per niente, anche morire di fame non è gratis perché prima ti sfruttano e ti derubano di risorse umane e naturali e solo poi, quelli in surplus, li abbandonano al destino di miseria, malattie e morte.

    Attualmente beneficiano della grazia del programma “Paesi poveri molto indebitati” 20 paesi, di cui 4 in America Latina e 16 in Africa per un totale di debito cancellabile di 32 miliardi di dollari ovvero il 47% del debito totale di questi Stati. Un frammento di questo meccanismo internazionale è apparso recentemente dietro la notizia, diffusa da Anb-Bia, circa la riduzione del debito di cui il Madagascar beneficerà, a partire dal 2001, per una cifra di 1,5 miliardi di dollari su un debito estero di 4,4 miliardi, alle seguenti condizioni dettate dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale, cui partecipa anche l’Italia, che sono molto pesanti, sempre le stesse, che producono ulteriore miseria ovvero: privatizzazioni, liberalizzazioni e stabilità economica.

    In altre parole una normalissima procedura fallimentare con svendita organizzata di quanto ancora rimane di proprietà statale o nazionale, il più delle volte risorse naturali, miniere, giacimenti, foreste, aree di pesca. I richiedenti il fallimento si appropriano anche degli attivi futuri ed interdicono quel poco di sovranità di cui al paese godeva: eliminazione dei monopoli statali sul commercio di tali risorse, cambi monetari sotto stretto controllo, contratti interni di lavoro sempre più rigidi con l’esclusione di ogni attività sindacale e rivendicazione salariale, introduzione ed estensione delle zone franche, ovvero aree date in concessione extraterritoriale senza vincoli doganali dove in pratica gli investitori esteri possono fare tutto ciò che vogliono senza dover rendere conto alle autorità governative. Sul sistema delle zone franche in Africa, recente forma di sfruttamento che sconfina nel lavoro coatto gestito dai governi in causa, abbiamo descritto nel n° 251/1997 del nostro giornale col titolo: “Africa: non guerre tribali ma fra colossi capitalistici”.

    Avviato il programma vi saranno controlli semestrali con relative riduzioni di parti aliquote del debito. La somma risparmiata dovrà essere investita in servizi sociali e in una non meglio definita lotta alla povertà. I 62 milioni di dollari così risparmiati annualmente dovranno essere investiti in educazione, sanità ed infrastrutture rurali cioè pozzi e canalizzazioni igieniche, piccoli allevamenti ecc.ecc.

    Il Madagascar, la grande isola nell’Oceano indiano e colonia francese dal 1895 al 1960, rientra in questa iniziativa per la riduzione del debito perché è tra i paesi più poveri del mondo: 7 malgasci su 10 vivono sotto la soglia della povertà.

    Ma ha anche una crescita economica pari al 4-5% annuo, un’inflazione controllata e ciò fa sperare in un rientro dei crediti residui. Nel 1999 il 25% del contenuto delle casse dello Stato era destinato a pagare il debito estero e secondo i piani loro imposti esso dovrà ridursi al 10% nel 2004, e al 6,5% nel 2010.

    Per quanto riguarda le iniziative per la riduzione del debito gestite dal Governo italiano non abbiamo informazioni dettagliate, ma si sa che, quando attuate, sono molto modeste, spesso simboliche, e che vengono concesse in modo truffaldino sotto forma di rifinanziamenti a lungo periodo o a fondo perduto, come manovrette del capitalismo italiano in lotta commerciale con le altre potenze industriali per l’approvvigionamento delle materie prime e delle fonti energetiche, soprattutto in questo periodo dalle nuove repubbliche asiatico-caucasiche dell’ex Urss per il petrolio, il gas ed altre materie prime necessarie all’industria italiana.

    Lasciamo allo stonato cantautore il compito di commentare tanta generosità mentre a noi viene nausea e ci prudono le mani. Non stiamo a paragonare queste cifre con quanto si spende nel mondo annualmente per cosmetici o cravatte di seta o quante altre spese superflue. Non saranno questi conteggi a commuovere il capitale, che è un dominio di classe basato sullo sfruttamento senza limiti e barriere. È inutile, oltre che controrivoluzionario, operare per un suo addolcimento, per un “capitalismo dal volto umano” che non può assolutamente avere. Se lo ficchino bene nella zucca i francescani di tutti tempi, il “popolo di Seattle”, gli anti-globalizzazione e i rifondazionisti di oggi: solo la rivoluzione proletaria porrà fine a tanto disastro!
     
     
     
     
     
     



    La vendetta della montagna stuprata

    Sul nostro giornale del dicembre 1998 si ricordavano, ad una distanza di cinque anni, i disastri nelle valli di Lanzo, sul Po e sul Tanaro. Con il lungo elenco di lavori del Partito sullo stesso argomento, che oramai risalgono a quasi mezzo secolo fa, riaffermavamo che solo il rovesciamento della società capitalistica porrà fine alle sciagure, e non le parole e le opere pie di una borghesia che, anche se talvolta si tinge di verde, rimane sempre tricolore, come la concezione trinitaria della sua società, Capitale-Terra-Lavoro, cioè Profitto-Rendita-Salario. Con i disastri si rialza il totem dell’investimento.

    * * *

    Nel 1999 a Sarno il fango aveva invaso la città dalla montagna sovrastante, con la perdita di un centinaio di vite umane. La montagna è composta in superficie di strati di detriti vulcanici provenienti dal vicino Vesuvio. Tali strati di ceneri, altamente friabili e dilavabili, come sono stati portati lì dal vento, facilmente sono asportati dall’acqua. Così è stato, con una pioggia non eccezionale su una montagna depredata degli alberi, l’unico stabilizzatore del suolo. La Campania era nota per le sue opere idrauliche, dai Regi Laghi all’acquedotto della Reggia di Caserta, alle stazioni termali. Le opere idrauliche dei Borboni funzionavano senza le pompe, utilizzando solo la gratuita forza della gravità. A Sarno invece la gravità ha portato giù non l’acqua ma la montagna.

    Nella tarda estate dell’anno dopo, a Soverato, sulla costa ionica della Calabria, devastata dalle costruzioni della borghesia locale e nazionale, l’omonimo torrente invadeva un campeggio, portando ancora alla morte di persone. Il maltempo post-estivo era arrivato troppo presto, dicevano i saggi di turno, e poi il tutto era abusivo. Gli invalidi del campeggio non ci sono più: si è ripianato un po’ il disavanzo INPS e spianato una zona sicuramente destinata ad eventuali speculazioni future.

    Bastava metter mano sui classici. Virgilio, nella maestosa opera l’Eneide, che per pura fortuna non è andata distrutta, annota: «Le piane bagnate del Sarno (...) riparo al capo han cortecce strappate dai sugheri». E cosa significa Sarno ? Deriva dall’indoeuropeo «scorrere». E Soverato in lingua calabrese è «suvaratù», cioè sughero. Tutte cose scritte nei libri della bibliotechina comunale, ma scordate da questa società sommamente ignorante nonostante tutta la sua scienza. Brindano intanto i capitalisti alla ricostruzione ed agli affari promessi.

    Nell’ottobre del 2000 pioveva forte in montagna e sul bacino del Po e di nuovo tracimò l’alluvione. Crollarono ponti e palazzi, morirono decine di persone e dovettero lasciare la casa in 40.000. Non si attese che fossero nemmeno compilati i moduli per l’indennizzo ai danneggiati che era già pronto il conto del giro d’affari per «mettere in sicurezza» gli argini: 10.000 miliardi, si sparò subito, per la ricostruzione immediata e 25.000 miliardi per completare l’operazione di salvaguardia futura. L’ira dei cieli si spostò poi sulla Liguria, sul Parmense, sull’Alto-Adige ed infine in Veneto e in Toscana. Altri morti, altri danni, altri affari.

    In statistica esiste un calcoletto, chiamato «analisi di regressione», con il quale si stabilisce se vi è una correlazione, un legame, fra due fenomeni. Qui vediamo quella fra l’età del ponte e la sua resistenza alle calamità. Orbene, i ponti romani e medievali sono rimasti tutti intatti, alcuni dell’epoca delle ferrovie hanno subìto danni (uno sul Chiusella, un altro sul Chisone), i moderni ponti sulle autostrade da Torino a Milano e ad Aosta scomparivano nei flutti e due ponti sulla Dora a Torino, pericolanti, devono essere demoliti e rifatti. La regressione è provata: lo sviluppo capitalistico porta ad una regressione nella sicurezza dei ponti! A Torino esiste addirittura un tratto della Dora totalmente coperto da fabbricati industriali dismessi (è lì che si farà lo Environmental Park, parco ecologico, in vile italiano!) dove crollava tutto, minacciando di formare una diga sul torrente.

    Gli esperti correvano immediatamente ai ripari. Le piogge erano anomale, tutto dovuto all’effetto serra, e così via ciarlando. Ma a cosa servono misure di protezione, se non nei momenti eccezionali! Una borghesia più salda, quella britannica, porta con sé l’ombrello ogni giorno per i casi di eccezionalità e non tira fuori l’auto dal garage appena si addensano le nuvole.

    Tutte le misure di pochi anni prima sono state inutili contro la esondazione dei fiumi (non si usa più la parola, troppo asprigna, «straripare», ma la dolce poetica «esondazione»: siamo nell’epoca della morte dolce!) Ma la strafottente e strafalciona borghesia non sarà portata via dalla poesia, ma rivoluzionariamente vinta da uomini che, senza aver letto un verso, scriveranno con le mani la poesia di classe.

    Il vero e primo colpevole del disastro si ravvisa nel continuo processo di urbanizzazione del territorio, che continuerà ancora con i vari progetti di recupero delle zone disastrate. La Valle Tanaro, luogo dei più grandi disastri nel 1994, sarà ulteriormente cementificata con la costruzione di un’autostrada; in Val di Susa, dove corre la Dora, verrà costruita una linea ferroviaria ultraveloce e la montagna sovrastante sarà ancora oggetto di costruzione di impianti sciistici per i giochi olimpici del 2006. In quest’ultimo caso abbiamo degli interessi forti: la presidente delle commissione è imparentata con la famiglia Agnelli, la stessa che controlla gli impianti di Sestrière e che ha tanto di terreni a Torino da riconvertire. Sull’onda dell’ottenimento dei giochi olimpici si annunciano vari altri programmi, come la metropolitana che, in un secondo lotto, farà capolinea al Lingotto, sede legale della FIAT, ma con tantissimi metri cubi da vendere ad altri. Dunque attendiamoci fra sei anni, con le nuove opere, ancora disastri dovuti all’impermeabilizzazione dei suoli.

    Vanto del capitale è aver perforato i monti mettendo in collegamento valligiani e nazioni separati da millenni, lo riconosciamo e non opponiamo certo la richiesta di autarchia in nessun campo (se non in quello della classe, del suo movimento e della sua dottrina). Ma è indubbio che tutta la politica dei trasporti, delle vie e dei mezzi di comunicazione è nel capitalismo sproporzionato e deforme. Due anni or sono prese fuoco un camion carico di margarina nella Galleria del Monte Bianco che causò una cinquantina di morti e danni assai ingenti. La legge del mercato impone all’odierno capitalismo di trasportare merci anche di basso valore per distanze enormi: in Inghilterra si beve vino australiano, neo-zeolandese, sudafricano o cileno, e poco quello francese; le patate bavaresi vengono spedite in Lombardia per essere spellate e poi rispedite a Monaco per la confezione e la vendita. Il capitale preme per aumentare sempre più lo smercio, necessario all’accumulazione, e a ridurre al minimo anche i costi del trasporto, costruendo strade ed installazioni ed offrendo sussidi ai trasportatori.

    Si potrebbe obbiettare: ma il Comunismo, cancellando del tutto il conteggio in denaro, e perciò anche dei costi di trasporto, non offrirà a tutti beni trasportati da ogni angolo della Terra ? Vediamo un nostro vecchio opuscolo intitolato “Dall’economia capitalistica al comunismo”, che riproduce una conferenza tenuta il 2 luglio 1921, al capitolo “La socializzazione”: «Gran passo sarà il proclamare che ormai è soppresso qualunque diritto al libero commercio dei prodotti industriali, che non si collocano più, non si acquistano per conto dei privati i prodotti dell’industria, ma è la collettività che centralmente ne amministra e ne dirige la circolazione; cosicché uno degli indici esteriori e pratici di questo stadio è il fatto che si sopprimono le tariffe pei trasporti ferroviari delle merci; in quanto che non è più concepibile che merci viaggino per conto di privati e mentre nell’antico regime capitalista la merce viaggiava e faceva magari diecimila chilometri per trovare maggiori profitti, questo oggi non si verifica più».

    Così si stroncherebbe l’insano «navigare necesse est, vivere non necesse est» di Pompeo Magno, gridato ai marinai che, impauriti dalla tempesta, si rifiutavano di salpare con i carichi di grano per Roma, essendo il grano bene primario per corrompere il popolo romano con panem et circenses.

    * * *

    Alla montagna nella storia dell’umanità sono attribuiti significati religiosi e culturali. Limitandoci ai monoteismi abbiamo il Sinai, monte della Legge, l’Ararat che salva uomini ed animali; poi Gesù predicherà sull’Hebron. Anche per i pellerossa americani le montagne sono spesso sacre, e Fuji-san è luogo di pellegrinaggio pei giapponesi come lo è Crogh Patrik Cloak per gli Irlandesi; l’Olimpo è casa degli Dei per i greci.

    La montagna fu anche raccontata nei miti e nelle saghe. Una leggenda gallese racconta: « Un principe parte per la caccia, lasciando il piccolo figlio nella culla, custodito dal fedele cane. Tornando dalla battuta sull’uscio incontra il cane, coperto di sangue ma felice di vedere il padrone. Corre dentro il padrone e scopre la culla vuota. In una fitta di rabbia sguaina la spada ed uccide il cane. Va poi nella camera dove scopre il figlio addormentato sul letto con un grosso lupo sbranato sul pavimento. Desolato, seppellisce il cane e dedica il resto della sua vita a portare dei massi sulla tomba. È così che si innalzò la montagna più alta del paese». La storia racconta un’umanità non ancora scissa e liberata dalla natura, consapevole di non esistere al di fuori di essa, sia nella sua forma biologica, sia nella sua forma geologica.

    Ci rimane ancora nei nomi delle montagne questa vicinanza materiale e spirituale che ebbe un tempo l’essere umano con la natura: abbiamo la Jungfrau (giovane donna) e la Groatura (madre). La montagna era nell’epoca pre-borghese un luogo ricco di naturale magia, massiccia materiale e salda spiegazione della passata umanità. Solo con la borghesia divenne un luogo da conquistare, che col turismo vuol trasformare il mondo in un luna park. Il Petrarca, che salì in cima al Monte Ventoso il 26 aprile 1336, già se n’era accorto: «Più giro il mondo e meno mi piace» (Familiares XIX, 14). Andò peggio al ciclista scozzese Bobby Simpson, oltre mezzo millennio più tardi, che morì drogato prima di arrivare al passo. Drogato come il capitalismo.

    Con l’ascesa della Borghesia, infatti, questa si mette a conquistare le vette. Balmat e Paccarel scalarono il Monte Bianco e ne presero la cima l’8 agosto 1786, prova della presa della Bastiglia il 14 luglio 1789. Il Monviso, Vesulus di virgiliana memoria, è stato conquistato dal noto borghese e senatore Quintino Sella il 12 agosto 1863, in pieno Risorgimento. Il Cervino aspetterà fino al 14 luglio 1865 la scalata dell’inglese Whymper e tre giorni dopo degli italiani guidati da Bich (non quello, Bic, della penna a sfera). L’incoronazione di Elisabetta II coincise con l’impresa di Hillary e Tensing sull’Everest, dando contorno alla farsa da noi chiamata allora «L’era fasulla degli elisabettini» ne “Il programma comunista” del 9 luglio 1953.

    Con i risultati della ripresa post-guerra il turismo diventerà di massa sulle orme del «jet set», delle vacanze più lunghe, dei salari più alti e dell’esplosione della classi medie, cioè delle classi che consumano ma non producono e si fanno le “settimane bianche”, la casa in montagna e così via... Si costruiranno a dismisura case, impianti, strade d’accesso, parcheggi, e si disboscherà per aprir piste di discesa sugli instabili conoidi. Si raggiungerà la massimo di tale sforzo in Germania dove una colata di cemento armato alzerà una cima ai fatidici 3000 metri.

    Anche nel terzo mondo si costruiscono le montagne... di rifiuti. I disgraziati che ci vivono sopra riciclano tutto il possibile, anche i rifiuti organici da cui distillano l’alcool; rimangono ciechi dal consumo di metanolo, almeno possono non vedere la mano invisibile del mercato capitalistico. Crollano queste montagne ogni tanto: a Mumbai in India sono morti in 130, ma ogni tanto i giornali parlano della stessa sciagura dalle Filippine al Venezuela.

    Torniamo ai classici. L’epopea borghese ha lanciato in grande stile i viaggi di esplorazione, che dopo vengono ripetuti in viaggi di diporto. Creò anche un genere letterario di romanzo, da Defoe e compagnia in poi fino ai russi, che ad ogni passo avvertivano del cambiamento verso il capitalismo. Prendiamo solo due autori dell’epoca finale dell’imperialismo, che mieté già nel 1914-18 più vittime umane di tutte le sciagure cosiddette naturali.

    Il primo è “Il tesoro della Sierra Madre” del 1935 di un certo Traven. Il misterioso autore era un anarchico presente nel 1919 nel Soviet di Monaco, da cui riuscì ad allontanarsi e a scappare in Messico. Scrisse un ciclo di romanzi detti «della giungla», ambientati nelle foreste sulla Cordigliera nel Sud del Messico, che dimostra come i proletari organizzati in classe siano capaci di grandi lotte (non come il sub-comandante Marcos, osannato da tutti i sinistri, dagli anarchici ed autonomi allo spaghetti-stalinismo di Rifondazione, che è passato armi e bagagli nel campo del clerico-liberista Fox, neo-presidente del Messico).

    Nella “Nave Morta” invece dimostra come da individui i proletari non hanno valore. Ne “Il tesoro della Sierra Madre” racconta come tre disgraziati americani vanno in montagna a scavare l’oro e trovano la fortuna: «La registrazione della scoperta comportò un cambiamento nella loro posizione nella vita. Con ogni oncia d’oro di più entrata in loro possesso lasciavano la classe proletaria e si avvicinavano a quella dei proprietari (...) Il mondo non li guardava più come qualche settimana prima (...) Quelli che finora avevano considerato come fratelli proletari divennero dei nemici contro i quali dovevano proteggersi. Fin quando non avevano niente di valore, erano stati degli schiavi dello stomaco vuoto, schiavi di coloro che potevano riempirgli lo stomaco. Adesso tutto ciò era cambiato. Avevano raggiunto il primo gradino dal quale l’uomo diventa lo schiavo della propria proprietà».

    Tralasciamo la debolezza proudhoniana della critica alla proprietà (c’est le vol!), anche se ha, secondo Marx, un certo valore polemico: ai militanti del proletariato che hanno rischiato la vita e sofferto l’emigrazione si esprime solo simpatia e solidarietà. Traven prosegue, e dalla bocca di uno dei nuovi ricchi estrae queste parole: «Direi che dobbiamo essere grati alla montagna che ha tanto bene riconosciuto il nostro lavoro (...) Abbiamo ferito la montagna, e credo che sia nel nostro dovere di chiudere queste ferite. La bellezza silenziosa di questo luogo merita il nostro rispetto».

    Il secondo grande romanzo è quello di Thomas Mann, scrittore borghese par excellence, che descrive il tramonto della sua classe. Vinse il Premio Nobel e mentre i suoi romanzi sono considerati delle colonne portanti della lingua tedesca, subì anch’egli l’esilio. Conobbe pure Lenin nel 1916 e poi frequentò il marxismo salottiero di Adorno e compagnia, ma il suo mondo non poté che essere borghese. Il suo romanzo in italiano si titola “La montagna incantata”, ma qui si disputa sulla traduzione, che può darsi anche “magica”, come nell’edizione in inglese, “The magic mountain”. Il Mann non poteva non essere consapevole dell’ambiguità: è la montagna il soggetto magico, oppure l’oggetto incantato? Nel romanzo descrive i borghesi che vanno a Davos, fra le montagne svizzere, per curarsi dalle malattie polmonari e devono confrontarsi con la morte, anche nel senso astratto, e conclude: «Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore».

    Leggiamo dalla Genesi: «il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla Terra, e non c’era nessuno a lavorare il suolo e a sollevare dalla terra l’acqua nei canali per irrigare... Allora il Signore Dio plasmò l’uomo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». Alcuni mesi fa, invece, pioveva come Dio la manda, la polvere si è trasformata in fango, ma era inutile soffiare nelle narici degli affogati e dei sepolti sotto la melma, come è inutile ricostruire nelle zone colpite, che saranno colpite di nuovo.

    L’accumulazione non arricchisce l’uomo né porta alla risoluzione dei suoi problemi.

    La montagna stuprata resiste ai tentativi del capitalismo di dominarla in una vendetta cieca e spietata. Solo quando l’umanità si riconoscerà parte integrante della natura, come il lembo cosciente delle sue leggi, si eviterà di rimanere vittima delle forze invisibili. Quel compito spetta alla classe, al suo Partito ed al suo programma. Nel nostro «Piena e rotta della civiltà borghese» la soluzione: [la piena] «travolge le due sordide bande [di politicanti], nell’onda della rivoluzione eversiva di ogni antica forma originale, plasmando alla società come alla terra una faccia nuova».